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MEMORIE
PER LA
STORIA DE’ NOSTRI TEMPI
DAL
CONGRESSO DI PARIGI
NEL 1856
AI GIORNI NOSTRI
TERZA SERIE

TORINO
Dell'unione Tipografico-editrice
Via Carlo Alberto, casa Pomba, N. 33
1865
Volume Primo - (1)

Il libro di Margotti merita di essere diffuso e conosciuto. L'autore non è un volgare propangadista "reazionario", si tratta di persona dotata di una mente brillante e di una cultura sterminata.

Egli spulcia migliaia di pagine degli atti parlamentari, mettendo a nudo le falsità e il pressapochismo del gruppo di avventurieri che governa il nuovo regno d'Italia.

Se volete saperne di più leggete le note biografiche scritte da Angela Pellicciari.

Zenone di Elea, 18 gennaio 2009



(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)



I PRIMI VAGITI DEL REGNO D'ITALIA

Voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte

«la ragione dell'Italia attuale».

Cosi GIUSEPPE FERRARI

ai Deputati l'8 ottobre 1860.

(Atti ufficiali N. 143, pag. 558).

Questa terza serie delle Memorie per la Storia de’ nostri tempi è destinata a raccogliere i documenti relativi alla nascita del Regno d'Italia. Riservando i giudizii allo storico libero ed imparziale, ci restringeremo a ristampare ciò che abbiamo scritto di mano in mano che avvenivano i fatti principali, e fu da noi pubblicato in Torino, quando avvenivano. Ci conviene però mandare innanzi qualche notizia cronologica che serva di guida al lettore.

L'11 marzo 1861, il Conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro sopra gli affari esteri, presentava alla Camera dei Deputati un progetto di legge, in virtù del quale “S. M. il Re Vittorio Emanuele II assumeva per sé ed i suoi successori il titolo di Re d'Italia”. Fu nominato relatore di questo progetto il deputato Giorgini, che presentò la sua relazione alla Camera il 14 febbraio 1861. La Camera lo discusse nella stessa tornata, e l'approvò all'unanimità con 294 voti. Il Senato avea prima approvato il Regno d'Italia nella tornata del 26 febbraio 1861. La legge fu promulgata il 17 di marzo 1861 e porta il N° 4671 nella Raccolta degli Atti del Governo.

Parecchi mesi prima, nell'ottobre del 1860, dopo l'invasione delle Marche, dell'Umbria e del Regno delle Due Sicilie, il Ministero avea chiesto ed ottenuto dal Parlamento «la facoltà di compiere l'annessione di nuove provincie italiane». La discussione di questo progetto di legge incominciava nella Camera dei deputati l'8 di ottobre 1860 e durava tre giorni. Il primo a parlare era Giuseppe Ferrari e diceva ohe «il Piemonte si sovrappese a tutte le città dell'alta Italia» che «fu strana, fu maravigliosa la concordia artificiale colla quale lo

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Stato Subalpino, quasi unanime nei diversi suoi partiti, sostenne la parte di liberatore italiano»; che «ove giungeva il Piemonte non poteva più sussistere né il Duca di Modena, né la Duchessa di Parma, né il Granduca di Toscana, o il Re di Napoli, nessun Principe, nessun Re, né Principe italiano potea conservarsi». (Atti Ufficiali della Camera, anno 1860, N° 143, pag. 556). Lo stesso deputato Ferrari dichiarava: «sono stato avversario dell'unita Italiana, la credo tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizii e gli olocausti alla religione. Ma al certo i Ministri che non dividono questa mia opinione, non hanno mai parlato di unita italiana nel 1848, ancor meno dopo la battaglia di Novara; e nei recenti protocolli del 1859, quando accusavasi l'unita austriaca nei ducati italiani, ogni nota del gabinetto piemontese non era forse federale?» (Atti ufficiali della Camera, loc. cit., pag. 558).

Il Dep. Ferrari diceva al Conte di Cavour lì presente: «Io non posso considerare il Conte di Cavour come ministro né d'indipendenza, né della spedizione di Roma, né di quella di Venezia. Forse lo sarà egli dell'influenza francese?... Voi considerate l'influenza francese come l'atto personale e direi anche capriccioso d'un uomo, dell'Imperatore dei Francesi, e nel proclamare la vostra gratitudine al capo della Francia, voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte la ragione dell'Italia attuale. Con ciò si costituisce un nuovo sistema imperiale; l'Imperatore, il Cesare antico e precisamente l'uomo isolato, che scende dall'alto, che s'invoca come liberatore, astrazione fatta dalla nazione alla quale appartiene; che sia Carlo IV di Boemia, o Ludovico di Baviera, che sia Francese o Tedesco, nessuno parla della patria sua, e tutti gli chiedono di rendere felici le nazioni, e le vostre espressioni eccessive di gratitudine, le vostre frasi smodate di riconoscenza, mi annunziano che RESPINTO L'IMPERO TEDESCO VOI RICADETE NELL'IMPERO RIVOLGENDOVI AL CESARE FRANCESE» (Atti ufficiali, loc. cit.).

Il deputato Ferrari conchiudeva: «Giacche la storia non volle che l'Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo raggiungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra; colla federazione ogni stato italiano si riconosce con una propria assemblea erede delle patrie glorie; poi ogni assemblea nomina i rappresentanti della nazione nella dieta La costituzione comincierà solo nell'istante in cui sorgerà l'era federale» (Atti uff., N° 144, pag. 559).

Come ben vede il lettore, non potendo noi scrivere un po' di prefazione a questa terza serie delle Memorie per la Storia de’ nostri tempi, cerchiamo di farla scrivere dai deputati inviolabili. Le verità dette dal

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Ferrari nell'ottobre del 1860 splendono di maggior luce cinque anni dopo. Quando il Ferrari le pronunziava nella Camera, venivano accolte con incredibili rumori. Correvano allora i giorni della poesia. Il deputato Boggio vedeva quell'Italia intorno a cui prima «si attortigliavano otto aspidi» ora divenuta onorata, libera, felice, potente. E il deputato Sineo diceva: «sollevato il nero marmo che copriva il suo avello, l'Italia risorge colla sua aureola di sapienza e di gloria (pag. 561). E il deputato Mellana chiedeva in grazia ai suoi elettori «che il giorno che i comizii elettorali si riuniranno per volontà di popolo sul Campidoglio, io potessi colà una volta rappresentare la mia patria». E poeticamente soggiungeva: «Quel giorno, o signori, ha da venire, è legge più forte dello stesso destino» (pag. 569). E il dep. Armelonghi: «L'Italia ha bisogno di Roma, e Roma ha bisogno d'Italia. Roma è la capitale nata dell'Italia futura; senza Roma insomma l'Italia non può essere una. E i casi nostri camminano cosi veloci, cosi gagliardi, che sarebbe poco men che ridicolo d'immaginare, che potessero arrestarsi per cosi piccolo ostacolo» (pag, 569).

II deputato Chiaves avvertiva: «il Papato seguiterà a sussistere, ed è pure una grande potenza, o signori» (pag. 571). Il deputato Bertani raccontava che Garibaldi «me presente, sui monti di S. Angelo espresse la sua gioia quel giorno che un telegramma gli annunziava l'entrata del nostro esercito in Roma» (pag. 572). E Marco Minghetti trovava «nella nostra rivoluzione il carattere di moralità, di civiltà, dirò persino di legalità» (pag. 578), legalità, civiltà, moralità che il Minghetti dovea pii tardi praticare nel suo Ministero! E il deputato Mosca diceva «non dev'essere più possibile che l'Europa dubiti un solo momento della volontà che abbiamo di fare l'Italia, di feria ad ogni costo, di farla presto » (pag. 583).

Ultimo degli oratori parlava il Conte Camillo di Cavour nella tornata dell'11 di ottobre 1860, ed ecco alcune sentenze tolte dal suo discorso registrato negli Atti Uff. della Camera, N° 153, pag. 593, 594: «Un uomo di stato, per essere degno di questo nome, deve avere certi punti fissi che siano, per cosi dire, la stella polare direttrice del suo cammino, riservandosi di scegliere i mezzi o di cambiarli a seconda degli eventi ; ma sempre tenendo rivolto lo sguardo sul punto che deve servirgli di guida. Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di Re Vittorio Emanuele, fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? (Movimento d'attenzione). La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di lare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico (strepitosissimi e prolungati applausi). Ma forse questa risposta non appagherà pienamente l'onorevole interpellante (Ferrari

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Giuseppe), il quale chiedeva quali mezzi avremo noi per raggiungere questo scopo. Io potrei dire risponderò se voi prima mi direte in quali condizioni saranno fra sei mesi l'Italia e l'Europa (ilarità e segni di adesione) ma se voi non mi somministrate questi dati, questi termini del problema, io temo, che né io, né nessuno dei matematici della diplomazia potrà riuscire a trovare l'incognita da voi cercata (ilarità generale)... Il problema di Roma non può mio avviso essere sciolto colla sola spada; la spada è necessaria, la fu e lo sarà ancora per impedire che elementi eterogenei vengano a frammettersi nella soluzione di questa questione; ma, e signori, il problema di Roma non deve esser sciolto colla spada sola; le forze morali debbono concorrere. al suo scioglimento... Io credo che la soluzione della questione romana debba esser prodotta dalla convinzione, che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica; esser la libertà altamente sviluppo del vero sentimento religioso (bravo, bene!)».

Dopo le parole del conte Cavour la Camera approvava all'unanimità il seguente ordine del giorno «la Camera dei deputati mentre plaude altamente allo splendido valore dell'armate di terra e di mare, e al generoso patriottismo dei volontarii, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all'eroico Generale Garibaldi, che soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele restituiva agl'Italiani tanta parte d'Italia».

Poi la Camera approva anche all'unanimità questo articolo di legge: «Il Governo dal Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l'annessione allo Stato di quelle provincie dell'Italia entrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio diretto universale la volontà delle popolazioni di far parte integrante alla nostra Monarchia Nazionale». Al levare di quella tornata dell11 ottobre 1860, il Presidente della Camera, che ara il medico Giovanni Lanza, gridò: VIVA L'ITALIA! (applausi generali e grida vivissime VIVA L'ITALIA!).

Allora si compirono le annessioni delle Marche e dall'Umbria e delle Due Sicilie in quel modo che la storia libera a suo tempo dirà; e poi si convocarono Collegi elettorali, e il 18 febbraio 1861 fu radunato il Primo Parlamento Italiano. Perché potesse capire i quattrocentoquarantatre deputati, s'era fabbricata in fretta una Camera di legno. Alle ore Il antimeridiane il Principe di Piemonte e il Duca d'Aosta e poco dopo Vittorio Emanuele II entravano nella nuova Aula in mezzo alle grida di viva il Re d'Italia! La Maestà del Re leggeva il eseguente discorso, che noi pubblichiamo con quelle medesime avvertenze già da noi stampate il 19 febbraio dei 1861.

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DISCORSO D'INAUGURAZIONE

DEL

PRIMO PARLAMENTO ITALIANO.

Il 18 di febbraio la Corona inaugurava il Parlamento con un discorso che, secondo le consuetudini costituzionali, è soggetto alla critica del giornalismo perché cade sotto la responsabilità del Ministero. Valendoci del nostre diritto pubblichiamo il discorso con qualche osservatone.

Signori Senatori! Signori Deputati!

«Libera ad unita quasi tutta per mirabile aiuto delta Divina Provvidenza, per concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra»

Quel quasi tutta ci ricorda la famosa quasi ristorata finanza. Nel quasi tutto vqgliam credere che entreranno anche Nizza, Mentone e Roccabruna cedute alla Francia. La Divina Provvidenza non ha detto ancora l'ultima qua parola. Coloro che l'invocano oggidì speriamo che più tardi né rivedranno i decreti.

«A voi si appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli ohe ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché l'unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomala».

L'Unità politica fu detta da Balbo un'utopia; e tale venne dimostrata da tanti secoli. Le opere durature non si formano in un giorno. Quando si va contro la natura e le tradizioni dei popoli, si fabbrica sull'arena.

«L'opinione delle genti civili ci e propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli d'Europa. L'Italia diventerà per essa una guarentigia d'ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale».

Vorremmo ohe d fosse propizia l'opinione. delle genti cattoliche. Esse protestano invece contro di noi; e le stesse genti civili ci accusarono solennemente in faccia al mondo d'aver conculcato il diritte delle genti.

«L'imperatore dei francesi, mantenendo ferma la massima del non-intervento a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della gratitudine, né la fiducia nel suo affetto alla causa italiana».

S'è sempre dotto ohe le proteste di Napoleone III erano lustre, ed ora si conferma. E' la prima volta che si professò gratitudine a chi ebbe l'aria di strapparci e di opporsi ai nostri disegni. Abbiamo ribevuto uno schiaffo; si annunzia e si risponde: grazie!

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Il bello è che mentre la Corona diceva che l'Imperatore dei Francesi avea richiamato da Torino il suo inviato, la Gazzetta Ufficiale affermava d'aver notato nella tribuna il ministro di Francia!

«La Francia e l'Italia che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo che sarà indissolubile».

Questo periodo serve per preparare la strada a nuove cessioni. Potremo cedere più tardi la Liguria e la Sardegna alla Francia per comunità di stirpe di tradizione e di costume.

«Il Governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della liberti, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria».

Fidatevi dell'Inghilterra! Lord John Russell, il 5 di febbraio 1861, disse al Parlamento inglese: «Noi abbiamo sempre comunicato confidenzialmente coll'Austria, Russia e Prussia riguardo ad ogni affare d'Europa». Inoltre ha promesso che quando la Francia, a parer suo, fosse nel torto, l'Inghilterra «formerebbe un'alleanza colle grandi Potenze d'Europa per combattere le sue mire» (Times del 6 febbraio 1861, pag. 7a, col. 5a).

«Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre Principe, gli mandai un ambasciatore a segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione die l'Italia, costituita nella sua unita naturale, non può offendere i diritti, né gli interessi delle altre nazioni».

Qui si da la notizia che Lamarmora è stato a Berlino. Sapevamcelo. Ma ha persuaso il leale ed illustre Principe? Non pare che abbia persuaso la Germania, giacché si spera che verrà nella persuasione.

Signori Senatori/ Signori Deputati!

«lo son certo che vi farete solleciti a fornire al mio Governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Cosi il Regno d'Italia posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragion dell'opportuna prudenza».

In questo periodo abbiamo l'annunzio di nuovi imprestiti, e di nuove imposte. Dal 1848 in qua non si udì mai Discorso della Corona senza si caro ritornello. Si mantiene la sublime tradizione.

«Altra volta la mia parola suono ardimentosa, essendo savio cosi lo osare a tempo, come lo attendere a tempo. Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la Corona; ma nissuno ha diritto di cimentate la vita e le sorti d'una nazione»,

Si può facilmente abbandonare il sasso dal sommo della montagna, ma è difficile ritenerlo a mezza via. Dio solo ha l'autorità di dire al mare: Verrai fin qui, e non più innanzi. E la rivoluzione e un mare in burrasca.

«Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero che la si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili».

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Speriamo di non essere più obbligati a recare documenti di fucilazione, di saccheggi, e d'incendi. Vorremmo pero che colla fama dello esercito fosse cresciuta a svantaggio degli Italiani la fama di lealtà, e non la riputazione di tradimenti.

«L'armata navale ba dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono m Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia».

I bombardamenti di Gaeta e d'Ancona non saranno la più bella, pagina detta jstoria d'Italia. La posterità inesorabile si occuperà dell'origine e del modo di questi bombardamenti, e dirà che uno fu contro il Papa, e l'altro contro il figlio d'una Principessa di Savoia, e ne restarono vittime i sudditi innocenti d'ambedue.

«Una valente gioventù, condotta da un Capitano che riempi del suo nome le. più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani».

Questi elogi a Garibaldi vogliono essere confrontati colle proteste della Gazzetta Ufficiale contro la sua spedizione e colle Note del conte di Cavour, in cui dichiaravasi usurpatore.

«Questi fatti hanno inspirato alla nazione una grande confidenza nei proprii destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d'Italia la gioia che ne sente il mio animo di Re e di Soldato»

VITTORIO EMANUELE

Qui ha termine il discorso della Corona, e noi pure terminiamo i nostri commenti. Sono stati brevi assai, perché non ci era lecito dire quanto sentivamo nel cuore. Il lettore pensi il resto, e attenda i fatti che verranno.

IL DISCORSO DELLA CORONA E LA VENEZIA

Nel discorso della Corona si dice che nessuno ha il diritto di cimentare la vita della nazione, e si fa intendere che non è il momento di andare contro l'Austria, né di pensare per ora alla conquista della Venezia.

Se volete intendere queste parole, consultate i documenti presentati al Parlamento britannico, e relativi alle cose d'Italia nel 1860. Il timore del Governo inglese, che la Sardegna fosse per imprendere un attacco contro la Venezia, è espresso evidentemente in molti dispacci del Libro Azzurro. Il 21 agosto lord John Russell scrive al sig. Fane a Vienna: «II Governo di S. M. si opporrebbe a tale tendenza aggressiva, per quanto fosse possibile, e metterebbe in opera tutta la sua influenza a Parigi per dissuadere l'Imperatore dei Francesi dall'assistere la Sardegna in una guerra aggressiva contro l'Austria. Il governo inglese non può obbligarsi a fare di più. Esso è convinto che l'Austria è più che atta a resistere datola agl'Italiani».

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E il 7 dicembre lord John Russell si esprime su questo argomento come segue: «II Governo di S. M. considererebbe simile attacco come assolutamente

ingiustificabile. Esso lascerebbe che il Re di Sardegna raccogliesse i frutti della sua violazione di parola e della sua follia. Esso non contrasterebbe neppure all'Austria i risultamenti di tal guerra, quand'anche dovesse esser compresa fra questi perfin la riconquista della Lombardia. Invero la situazione della Francia è diversa. Appunto perciò è dovere della Francia di pronunciarsi senza ritegno rimpetto alla Sardegna ed all'Austria. Secondo la nostra opinione, la Francia dovrebbe far sapere al Governo austriaco se un'occupazione della Lombardia per parte dell'Austria, un'occupazione transitoria, coll'assicurazione che essa debba essere soltanto passeggiera, sarebbe considerata dalla Francia come un casus belli contro l'Austria. D'altra parte, si dovrebbe significare espressamente alla Sardegna che la reintegrazione del Papa a Bologna e del Granduca in Firenze, insieme ad un'eventuale pretensione austriaca ad una forte indennità di guerra, non indurrebbero la Francia ad un intervento attivo. La prospettiva di perdere, oltre la Savoia e Nizza, ancora la Toscana e le Legazioni, e di avere inoltre il carico d'un gran debito pei proprii armamenti e per l'indennità di guerra austriaca, ben basterebbe a distogliere il conte Cavour e i più temerari fra' suoi successori nel gabinetto da una nuova impresa guerresca. L'Inghilterra sarà pronta in ogni tempo a far valere la sua influenza per tutelare la pace europea. Essa non si attende che l'Austria cerchi di ottenere una preponderanza sulla Penisola. Ma se il Re di Sardegna vuol violare la sua parola e cercar di precipitare l'Europa in una guerra generale, egli sopporti eziandio le conseguenze d'una politica che non è conciliabile né colla prudenza, né coll'onore».

L'INAUGURAZIONE DEL PARLAMENTO

DESCRITTA DALLA GAZZETTA UFFICIALE

Leggiamo nella Gazzetta Ufficiale del 18 febbraio 1861: «Nella nuova grande aula semi-circolare eretta nel palazzo Carignano per accogliere i rappresentanti della nazione, Re Vittorio Emanuele salutava stamane, dice la Gazzetta Ufficiate, gli eletti della Corona e del popolo radunati a Parlamento.

«S. M., ripiglia la Gazzetta Ufficiale, annunziato dal cannone e dalla fanfara, preceduto di alcuni minuti dall'augusta sua famiglia e seguito dalla sua Casa militare, muoveva alle Il dalla Reggia in carrozze di gala, come attesta la Gazzetta Ufficiale.

«Le piazze e le vie erano parate ad insolita festa, continua la Gazzetta Ufficiale, la Guardia Nazionale faceva ala, e una turba impaziente, a detta della Gazzetta Ufficiale, venuta qua da tutte le provincie del Regno, acclamava il Re. Ricevuto all'ingresso del palazzo Carignano dalle deputazioni del Senato del Regno e della Camera dei deputati, S. M. entrò nella grand'aula accolto, dice la Gazzetta Ufficiale, da una salva di applausi e da ripetute grida di viva il Re! viva l'Italia!

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Alla destra del trono, prosegue la Gazzetta Ufficiale, stavano in loggia gli augusti figliuoli del Re, il principe Umberto di Piemonte e Amedeo duca d'Aosta.

«Nella loggia a sinistra il Corpo diplomatico. Vi abbiamo notato sopratutto, dice la Gazzetta Ufficiale, l'ambasciatore straordinario di S. M. il re di Prussia col suo seguito, i ministri di Prussia, Granbretagna, Francia, Turchia, Svezia, Belgio, ecc.

«Sua Maestà, avverte la Gazzetta Ufficiale, era circondata sul trono da' suoi ministri e dalle alte cariche della Sua Corte. Pochi vuoti nei deputati, ripiglia la Gazzetta Ufficiale, moltissimi i Senatori, e le tribune sì riservate come pubbliche affollatissime.

«Terminata la cerimonia della prestazione del giuramento per appello alfabetico fatto dal ministro di grazia e giustizia cav. G. B. Cassinis ai Senatori stati nominati ultimamente, e ai deputati dal ministro dell'interno comm. M. Minghetti, Sua Maestà, a detta della Gazzetta Ufficiale, lesse con voce da non ne perder sillaba il discorso.

«Il discorso reale, torna a dire la Gazzella Ufficiate, fu più e più volte interrotto da applausi e di evviva al Re e all'Italia, segnatamente nei paragrafi che accennano a Francia, ad Inghilterra e ad Allemagna: ma appena S. M. ebbe pronunziato l'ultima parola, scrive la Gazzetta Ufficiale, Parlamento e popolo giubilanti, proruppero unanimi in sì schiette acclamazioni, come le chiama la Gazzetta Ufficiale, e in tanto fragorosi applausi, che il Re, commosso ed esultante a quei leali segni di riverenza e di amore, nota la Gazzetta Ufficiate, contraccambiò interamente l'udienza de’ più cari ringraziamenti col nobile gesto e col chinare della marzial sua testa. In quell'istante sublime, parla sempre la Gazzella Ufficiale, Re e popolo italiano mostrarono aperto ciò che da lunga pezza è racchiuso nei cuori, che in loro, come assicura la Gazzetta Ufficiale, uno è l'affetto, uno l'intento e una la speranza.

«Cessate le acclamazioni, prosiegue la Gazzetta Ufficiale, il commendatore Minghetti, ministro dell'interno, presi gli ordini di S. M., dichiarò aperta la sessione legislativa del 1861. Il Re uscì alle Il 1t2 dall'aula nuovamente acclamato e festeggiato, come dice la Gazzetta Ufficiale.

«Con questa memoranda cerimonia, conchiude la Gazzetta Ufficiale, cessati dopo lunga e dolorosa serie di secoli gli Stati della Penisola, come elegantemente dice la Gazzetta Ufficiale, oggi ricomincia, auspice Re Vittorio Emanuele, la storia d'Italia, e i giorni nuovi, frase della Gazzella Ufficiale, se il popolo italiano sia perseverante e saldo nella concordia, avverte la Gazzetta Ufficiale, e la Provvidenza ancor ci aiuti, volgeranno per tutta Italia splendidi e lieti, quanto i passati furono per alcune parti luttuosi e funesti». Fin qui la Gazzetta Ufficiale, e queste e simili notizie piglieremo sempre dalla Gazzetta Ufficiale.

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DELIBERAZIONI DELLA CAMERA de’ DEPUTATI

dal 25 febbraio 1861 all'11 maggio 1863

Non sarà inutile per lo storico de’ nostri tempi il seguente elenco delle principali deliberazioni abbracciate dalla Camera nella sessione 1861-1862.

Tornata 25 febb. 1861. — Sulla convalidazione delle elezioni — La convalidazione delle elezioni s'intende condizionata rispetto a que' deputati che constano impiegati stipendiati, ovvero che coprono impieghi pubblici non conosciuti generalmente dalla Camera; fino a che, formatosi l'elenco degli impiegati e riconosciuta la qualità degli impieghi da essi tenuti, vengano quindi riconosciuti non ostante la precedente convalidazione, annullate le elezioni sia di quelli che per ragione d'impiego fossero ineleggibili come di quelli che dovessero essere sottoposti al sorteggio prescritto dalla legge (proposta del presidente decano ZANOLINI a nome dei presidenti de’ singoli uffizi).

Tornata 28 febb. 186). — Riconosce eleggibili i consiglieri di luogotenenza (elezione del collegio d'Altamura, eletto Liborio Romano).

Tornata 3 marzo. — Dichiara che l'impiego incompatibile coll'ufficio di deputato distrugge l'eleggibilità per il fatto d'altro impiego (elezione del collegio di Pontremoli, eletto Giuliani Antonio).

Tornata 5 marzo 1861. — Riconosce eleggibili i membri componenti la Commissione legislativa temporanea presso il Consiglio di Stato.

Tornata 1 marzo 1861. — Delibera che il numero dei segretari sia portato ad otto.

Tornata 11 marzo 1861. — Insediamento dell'ufficio definitivo di Presidenza. — Delegazione Farini per la compilazione dell'indirizzo in risposta al discorso della Corona.

Tornata 13 marzo 1861. — Approvazione dell'indirizzo in risposta al discorso della Corona. — Deliberamento d'encomio e di plauso ai valorosi componenti l'esercito e la flotta (proposta del deputato Molfino, modificata dal Presidente, approvata all'unanimità).

Tornata 15 marzo 1861. — Rigetta l'istanza fatta dal ministro di grazia e giustizia per comunicare ai deputati il progetto di Codice civile e di affidarne l'esame ad una Commissione.

Tornata 28 marzo 1861. — La Camera s'aggiorna per quattro giorni.

Tornata 25 aprile 1861. — Determina che, appena incominciata la seduta al tocco e mezzo, si proceda all'appello nominale e si stampi il risultato dei mancanti nel foglio ufficiale.

Tornata 30 aprile 1861. — La rinnovazione degli uffici viene aggiornata al 4 5 del mese successivo.

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Tornate 15 maggio e 21 giugno 1861, 19 dicembre 1862 e 3 febbraio 1863. — Prenotazione dai deputati Capriolo e Massari delle relazioni intorno al numero degli impiegati che furono eletti deputati (discussioni 22, 23 e 24 maggio, 25 e 26 giugno 1861 e 8 gennaio 1862).

Relazione intorno alle condizioni del professore Brioschi in seguito alla sua nomina a direttore della scuola di applicazione nell'istituto tecnico superiore di Milano.

Tornata 6 giugno 1861. — Annunzio della morte del conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, ministro per gli affari esteri e per quelli della marina, avvenuta alle ore 7 antimeridiane. Sono sospese le sedute per tre giorni, e si decreta un lutto per venti giorni, coprendo di «ramaglia la tribuna e la bandiera.

Tornata Il giugno 1861. — La Camera adotta la proposta unanime dell'ufficio di Presidenza, di erigere nel palazzo delle adunanze della medesima un busto in marmo allo memoria del conte Camillo Benso di Cavour.

Tornata 14 giugno 1861. — Si rimanda la rinnovazione degli uffizi al principio del mese prossimo.

Tornata 21 giugno 1861. — Intorno ad un emendamento del deputato DePretis sulla proposta di legge per l'ordinamento ed armamento della guardia nazionale mobile; si procede alla votazione per appello nominale. Votano in favore 62, contro 191, astenutisi 2.

Tornata 24 giugno 1861. — Sull'ultimo articolo del progetto di legge anzidetto la votazione segue pure per appello nominale. Voti favorevoli 218, contrari 30, astenutisi 2.

Tornata 25 giugno 1861. — Annunzio del presidente del Consiglio dei ministri del riconoscimento per parte di S. M. l'imperatore dei Francesi di S. M. Vittorio Emanuele Il come re d'Italia.

Tornata 30 novembre 1861. — Intorno allo svolgimento della proposta del deputato Pisanelli ed altri, che cioè: «Senza nulla pregiudicare la proposta di proroga della legge sull'ordinamento giudiziario nelle provincie napoletane, sia svolta quando sarà nominata negli uffizi la Commissione che dovrà riferire sul progetto di legge presentato dal ministro guardasigilli, relativo all'attuazione dell'anzidetto riordinamento». (Mozione dei deputati Baldacchini e Caracciolo).

Tornata 7 dicembre 1861. — In seguito all'accusa mossa dal deputato Bertani della violazione del segreto delle lettere, sulla proposta del deputato Lanza, la Camera decretò ohe il presidente nomini una Commissione di cinque membri incaricata di ricevere le comunicazioni, le prove, i documenti che le saranno forniti dal deputato Bertani, e quindi farne relazione alla Camera. (La Commissione fu composta di cinque deputati).

Tornata 14 dicembre 1861. — Il deputato Zanolini riferisce intorno alle deposizioni del deputato Bertani, e propone a nome della Commissione che la Camera passi all'ordine del giorno.

Tornata 13 e 14 dicembre 1861. — Sull'inchiesta domandata dal deputato Tofano per l'esame delle cause che motivarono la sua destituzione da consigliere della Corte di cassazione in Napoli; si delega al presidente la facoltà di nominare una Commissione di cinque deputati, la quale, esaminati

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l'istanza e i documenti, riferisca sul da farsi. La relazione porta il numero 164, presentata dal deputato Melegari Luigi Amedeo nella seduta 8 gennaio 1863 (discussione 15 e 16 gennaio 1862).

Tornata 21 dicembre 1861. — Determina di tener seduta nei soli giorni di martedì, mercoledì e giovedì.

Tornata 23 dicembre 1861. — Delibera di sospendere le sedute sino a tutto il giorno i di gennaio 1862.

Tornata 28 gennaio 1862. — Delibera di portare a 30 i componenti la Commissione del bilancio e di affidare l'esame dei bilanci dell'anno 1869 alla medesima che fu incaricata di quelli del 1861.

Tornata 26 febbraio 1862. — Delibera l'aggiornamento delle pubbliche sedute dal 1° a tutto il 6 marzo.

Tornata 17 marzo 1862. — Sulle interpellanze del deputato Gallenga relative al completamento del Ministero e ad alcune parti del suo programma politico; è adottato l'ordine del giorno puro e semplice proposto dal deputato D'ONDES-REGGIO nel senso che la Camera appoggia il programma del Ministero. (Dalla rotazione per appello nominale risultano favorevoli 210, contrari 80, astenutisi 3).

Tornata 7 aprile 1862. — Sulla domanda del deputato LA Masa della pubblicazione dei documenti sui quali il Ministero si appoggiò per prendere una determinazione a suo riguardo, la Camera delega al presidente, dietro proposta del ministro della guerra, la nomina di una Commissione affinché esamini detti documenti e vegga se allo stato degli atti vi abbia tuttavia mezzo per cui la condotta del predetto deputato possa essere sottoposta ad altro giudizio. La Commissione venne composta di sette deputati.

Tornata 8 aprile 1862. — Delibera che l'esame del progetto di legge relativo ai consorzi venga affidato alla stessa Commissione che riferì sul progetto portante modificazioni alla legge sull'amministrazione comunale e provinciale del 23 ottobre 1859.

Tornata 10 aprile 1862. — Approva la proposta di affidare ai presidente là nomina di una Commissione di otto deputati, la quale, da esso presieduta, introduca nel regolamento quelle riforme che l'esperienza ha dimostrato opportune, e presenti un progetto all'aprirsi della nuova Sessione. (BONCOMPAGNI, Alfieri ed altri 15, emendata da Mellana).

Tornata Il aprile 1862. — Sulla vertenza del deputato La Masa, la Commissione constatò all'unanimità che vi siano in quegli atti motivi sufficienti d'ordine puramente militare che escludono ogni altro giudizio, senza però che ne restino menomamente lesi il suo onore e la sua qualità di benemerito cittadino italiano, che di opere e di sostanze non fu avaro alla patria. (BRIGNONE, presidente della Commissione e relatore).

Tornata 12 aprile 1862. — Sull'istanza del deputato La Masa che alla Commissione prementovata venga dato eziandio l'incarico di esaminare i documenti da esso inviatile per mezzo del presidente, la Camera passa all'ordine del giorno.

Tornata 12 aprile 1862. — Al deputato Mancini, la cui elezione non venne ancora convalidata, è diniegata la facoltà di parlare, a tenore dell'articolo 49 dello Statuto.

Tornata 3 giugno 1862. — Sulla proposta del deputato ZANOLINI,

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la Camera delibera di far celebrare un servizio religioso commemorativo della morte del Conte di Cavour.

Tornata 14 giugno 1862. — 1 sottoscritti, di fronte alla dichiarazione dell'Episcopato straniero riunito in Roma, propongono che la Camera voti un indi rizzo al Re, nel quale si raffermi il diritto d'Italia al possesso di Roma sud ca-i pitale, e si dichiari la necessità d'una soluzione della quistione romana, conforme al voto del 17 marzo 1861 per la pace d'Italia e di Europa.

A questo fine il presidente della Camera viene invitato ad eleggere Una Commissione di cinque deputati per la redazione dell'indirizzo. (audinot ed altri 49 deputati).

Tornata 18 giugno 1862. — Lettura dell'indirizzo a S. M., deliberato nella seduta del 14 corrente mese.

Tornata 29 giugno 1862; — Sul primo articolo del progetto di legge per prorogare l'esercizio provvisorio dei bilanci a tutto il mese di dicembre del corrente anno 1862, si delibera la votazione per appello nominale: ributtano favorevoli voti 215, contrarii 81.

Tornata 30 giugno 1862. — Determina non debbasi rinnovare l'estrazione degli uffizi per il mese di luglio.

Tornata 3 luglio 1862. —Sull'articolo 9 del progetto di legge relativo alle diserzioni militari, si vota per appello nominale; 191 danno il suffragio favorevole, 49 contrario, ed uno si astiene.

Tomaia Il luglio 1862. —Partecipazione del matrimonio di S. A. R. la principessa Maria Pia di Savoia con S. M. il re di Portogallo. — Annunzio che S. M. l'imperatore di Russia è disposta ad accogliere una missione straordinaria del nostro Governo che ufficialmente le notifichi la costituzione del Regno italiano. — Delibera d'inviare una sua deputazione a S. M. il Re per complirla e presentarle un indirizzo in felicitazione del matrimonio della principessa Maria Pia (CHIAVARINA). La redazione dell'indirizzo fu affidata all'ufficio di Presidenza, letto ad approvato il 12 luglio 1862.

Tornata 16 luglio 1862. —Stabilisce di dar principio alla seduta coll'appello nominale e che il nome degli assenti sia in ciascun giorno pubblicato nella Gazzetta ufficiale (mordini).

Tornata 18 luglio 1862. — Partecipazione del riconoscimento del Regno italiano per parte della Prussia.

Tornata 4 agosto {862. — Ad istanza del deputato Colombani, il presidente informa la Camera che il numero di coloro che votarono l'ordine del giorno puro e semplice sulle interpellanze Ferrari fu di ventisette.

Tornato %9 novembre 18G2. — Presentazione della relazione del generale La Marmora sul brigantaggio nelle provincie napoletane.

Tornata Il dicembre 1862. — Rinunzia del deputato Teccrio al seggio presidenziale, che non è accettata.

Tornata 12 dicemb. 1862. —Delibera la stampa dei rapporti del generale Mella e del maggiore Tozzolini, concernenti i deputati Mordini, Fabrizj e Calvino.

Tornata 17 dicembre 1862. — Si annunzia la deliberazione presa in comitato segreto di nominare una Commissione d'inchiesta parlamentare

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sul brigantaggio nelle provincie napoletane. (Vedi l'Elenco delle Commistioni).

Tornata 18 dicembre 1862. — Determina che nella ventura Sessione debbansi accettare le demissioni da deputato che Tennero sporte.

Tornata 3 febbraio 1863. — Relazione intorno alla condizione del professore Brioschi in seguito alla sua nomina a direttore della scuola d'applicazione nell'istituto tecnico superiore di Milano.

Tornata 14 febbraio 1863. —Sospendo le sedute per tre giorni.

Tornata 25 febbraio i863. — Ordina la stampa della relazione particolareggiata presentata dal ministro della marina in adempimento al prescritto dell'ari 4 della legge 28 luglio 1861 sui lavori e sulle spese fatte per l'arsenale marittimo di Spezia durante l'esercizio 1862, corredata da quattro carte topografiche.

Tomaia 1 e 2 marzo 1863. — Delibera attuare provvisoriamente il regolamento proposto nella tornata del 31 gennaio dalla sua Commissione (proposta del deputato Selli, adottata per appello nominale, 173 furono per l'approvazione, 57 contrari e 14 si astennero).

Tornata 6 marzo 1863. — In seguito alla presa in considerazione della mozione dei deputati Torrigiani, Guerbiebi-gonzaga e Gigliucci per circoscrivere la discussione dei bilanci, ne determina l'applicazione immediata nella discussione del bilancio dell'istruzione pubblica.

Tornata 30 marzo 1863. — Aggiornamento delle sedute a tutto mercoledì 8 aprile.

Tornata 17 aprile 1863. — Delibera di tenere nella sera di ciascun giovedì una seduta straordinaria per le petizioni.

Tornata 24 aprile ì 863. — Adotta per mezzo della votazione per appello nominale, l'ordine del giorno puro e semplice su tutti gli ordini del giorno presentati sul bilancio di grazia e giustizia (allievi); voti in lavoro 132, contrari 64, astenuti 5.

Tornata 28 aprile 1863. —Dichiara nulla per errore di fatto l'accettazione della dimissione da deputato del signor Gallucci ed ordina la trasmissione al ministro guardasigilli della lettera apocrifa relativa al medesimo. '

Tornata 29 aprile 1863. — Approva la proposta del deputato Torrigiani, modificata dal deputato Lanza Giovanni, di sospendere temporaneamente i lavori degli uffizi intorno ai progetti non dichiarati d'urgenza per incominciare le tornate alle ore undici e mezzo d'ogni mattina.

Tornata 7 maggio 1863. — Nel comitato segreto in seguito alla lettura della relazione della Commissione d'inchiesta sul brigantaggio, si delibera che venga stampato ed inviato agli uffizi il progetto di legge presentato dalla Commissione predetta, e che il medesimo sia preceduto da quella relazione che la stessa Commissione crederà opportuno di redigere. Ha inoltre dichiarato che con ciò non s'intendeva pregiudicare alla discussione sul brigantaggio, sia che la Camera la voglia pubblica, sia che la voglia segreta.

Risoluzione adottata nello stesso comitato segreto:

«La Camera rendendo omaggio allo zelo attivo ed illuminato con cui la Commissione, composta dei deputati Argentino, Bixio, Castagnola, Ciccone, Massari, Morelli Donato, Romeo Stefano, Saffi e Sirtori, condusse a

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compimento e l'inchiesta sul brigantaggio, le porge amplissime azioni di grazia».

Tornata 9 maggio 1863. — Intorno al dubbio sollevatosi circa l'interpretazione dell'articolo 53 dello Statuto e dell'articolo 19 del regolamento passa all'ordine del giorno puro e semplice.

Tornata 11 maggio 1863. — La Camera delibera di nominare una Commissione d'inchiesta composta di 15 deputati eletti dal suo presidente, col mandato d'indagare le condizioni attuali della marina militare e mercantile, di avvisare alle convenienti riforme e di riferirne entro il 1» semestre del 1864 (lanza Giovanni presidente della Commissione generale del bilancio; Pescetto relatore del bilancio della marina).

IL REGNO E IL RE D'ITALIA

NEL SENATO PIEMONTESE

Non si aspettino i nostri lettori molte riflessioni su quest'argomento. Pubblicheremo i documenti, e basta. I Re d'Italia sussisterono già ab antico per breve tempo; e il regno d'Italia nacque sotto il primo Napoleone per tempo brevissimo. Che cosa avverrà di noi, sallo Iddio. Ecco intanto le parole dette dal conte di Cavour al Senato del Regno, quando nella tornata del 21 di febbraio 1861 gli proponeva la legge per cui Vittorio Emanuele II assume «per sé e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia».

Signori Senatori,

I maravigliosi eventi dell'ultimo biennio hanno con insperata prosperità di successi riunite in un solo Stato quasi tutte le sparse membra della nazione. Alla varietà dei Principati fra sé diversi e troppo soventi infra di sé pugnanti per disformità d'intendimenti e consigli politici è finalmente succeduta l'unità di Governo fondata sulla salda base della Monarchia nazionale. Il Regno d'Italia è oggi un fatto; questo fatto. dobbiamo affermarlo in cospetto dei popoli italiani e dell'Europa.

Per ordine di S. M. e sul concorde avviso del Consiglio dei ministri, ho quindi l'onore di presentare al Senato il qui unito disegno di legge, per cui il Re nostro augusto signore assume per sé e per i successori suoi il titolo di Re d'Italia.

Fedele interprete della volontà nazionale, già in molti modi manifestata, il Parlamento, nel giorno solenne della seduta reale, coll'entusiasmo della riconoscenza e dell'affetto, acclamava Vittorio Emanuele II Re d'Italia.

il Senato sarà lieto di dare per il primo sollecita sanzione al voto di tutti gli Italiani, e di salutare col nuovo titolo la nobile Dinastia che, nota in Italia, illustre per otto secoli di gloria e di virtù, fu dalla Provvidenza divina serbata a vendicare le sventure, a sanare le ferite, a chiudere l'era delle divisioni italiane.

Col vostro voto, o signori, voi ponete fine ai ricordi dei provinciali rivolgimenti, e scrivete le prime pagine di una nuova storia nazionale.

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Pubblichiamo la Relazione dell’Ufficio centrale del Senato, composto dei signori De Gori, Giulini, Giorgini, Niutta e Matteucci, sul progetto di legge per cui S. M. il Re Vittorio Emmanuele II assume il titolo di Re d'Italia.

Signori Senatori,

L'Ufficio centrale, cui affidaste l'incarico di riferire sulla proposta di legge, colla quale S. M. Vittorio Emanuele II deve assumere il titolo di Re d'Italia, è interprete dei sentimenti del Senato, lieto di poter dare il primo sanzione a quella legge che i rappresentanti della nazione, nel memorando giorno della seduta reale, avevano invocato con fervorosi segni di ossequio, di affetto e di gratitudine.

Il vostro ufficio fu unanime nel riconoscere che quella proposta di legge ha la sua origine e ragione in un fatto già solennemente compiuto dalla volontà nazionale, che la coscienza dei popoli civili acclama come un principio d'ordine e di progresso per l'Europa, e che la Provvidenza ha manifestamente promosso coll'aiuto di potenti alleati, e ispirando nell'animo degl'Italiani senno, ardimento, concordia pari alla grandezza dell'impresa.

Pochi sono i popoli che più di noi abbiano dalla natura ricevuto virtù tanto caratteristiche per un'esistenza propria; pochi i popoli che più di noi, rimanendo deboli e soggetti allo straniero, come per lunghe e note sventure già fummo, nuocerebbero alla pace europea, all'equilibrio politico dei grandi Stati, al progresso dell'ordine civile e morale del mondo. Né crediamo che amor di patria c'illuda affermando esser questo il più solenne esempio che offra la storia di un popolo, il quale per concordia mirabile di volontà è giunto a costituire un grande Stato, stringendo insieme i molteplici elementi della nazione, da tanti secoli divisi e dispersi, e contrapponendo alle violenze dei suoi nemici più che altro, l'influenza invincibile delle forze morali.

L'augusto nostro alleato, l'Imperatore dei Francesi, ben comprese questa verità, allorché ci assisteva colle-armi a liberare la Lombardia, e, unitamente all'Inghilterra, affermava nei Consigli europei che non doveva essere fatta violenza agli Italiani, né impedito loro di costituirsi in uno Stato forte.

Le varie provincie della Penisola non fecero che seguire le loro naturali inclinazioni, che spegnere gli antichi germi di debolezza, che provvedere ai supremi bisogni di un popolo libero, costituendo in mezzo alla Europa uno Stato potente che è per sé e per i vicini un elemento nuovo di pace e di civiltà.

Questo Stato ha un nome: è il Regno d'Italia; nome che comprende il territorio naturale occupato da ogni gente italiana e sta a significare la nostra costituzione politica; questo nome esprime che l'ultimo termine dei rivolgimenti italiani è la creazione di una monarchia nazionale.

Acclamando Vittorio Emanuele Re d'Italia, la nazione ha voluto premiare quella illustre Dinastia italiana che col senno civile, col coraggio militare, con spiriti indomiti d'indipendenza rendeva il popolo subalpino degno delle libere istituzioni e custode della bandiera nazionale, ha voluto rendere omaggio alla venerata memoria del magnanimo Re Carlo Alberto ed all'ardito patriottismo del Re.

Il titolo di Re d'Italia pone in atto il concetto intero della volontà

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nazionale, cancella i simboli delle nostre interne divisioni, è per l'animo d'ogni italiano un pegno di grandezza e di unione, accresce l'autorità del Governo del Re nei consessi europei, ed offre alle grandi Potenze, in mezzo alle quali il Regno d'Italia prende posto, degna occasione per accettare il risorgimento politico di un popolo che ha tanto contribuito alla civiltà universale. Salutando con questo nuovo titolo l'illustre discendente di una delle più antiche e nobili dinastie, i grandi Stati d'Europa stringeranno coll'Italia quei vincoli di concordia, di fratellanza, d'interessi comuni che sono oramai il solo fondamento delle relazioni diplomatiche fra popoli liberi e cristiani.

Questi Stati, al pari di noi, custodi gelosi della pace e dell'ordine, porgeranno in tal modo nuova forza all'autorità del Governo e del primo Parlamento italiano, affinchè con quella sapienza e moderazione che devono dominare nei consigli d'un grande regno, possano essere risoluti gli ardui problemi che interessano la pace dell'Italia e del mondo, non che la grandezza e la libertà spirituale della Chiesa.

Siffatte convinzioni persuadevano l'ufficio centrale a proporre al Senato l'adozione dell'articolo di legge presentato dal Ministero.

Questa adozione ha però implicita una disposizione legislativa, di cui sembra non possa essere contestata la ragione e la convenienza, e per la quale il fatto memorando ed il principio giuridico della novella Monarchia siano ognor presenti al popolo italiano e congiunti al nome de’ suoi Re.

La Provvidenza Divina che mai si rivela meglio nella sua bontà e nella sua giustizia che quando muove e dirige la volontà dei popoli a riconquistare dritti o manomessi o perduti; la virtù, la concordia e la perseveranza italiana che la mirabile opera hanno compito, debbono associarsi al nome del Re, siccome la ragione più sacra e la forza più salda del regno.

Perciò l'ufficio centrale vi propone l'aggiunta di un secondo articolo che completa la legge in questo intendimento.

L'Ufficio centrale vuoi anche esprimere la fiducia che il Governo del Re otterrà dall'animo affettuoso e benevolo del nostro augusto Monarca, che il figlio primogenito del Re d'Italia s'intitoli costantemente Principe di Piemonte.

Questo titolo rimarrà a ricordare ai nostri Re la terra nativa ed un regno glorioso e civile di otto secoli, sarà un segno imperituro di onoranza reso dagl'Italiani tutti a quella provincia che fu il primo scudo della loro libertà e della loro indipendenza.

Si augura il vostro ufficio centrale che vorrete accogliere il progetto di legge così ampliato, con quella unanimità di voti, con quei sentimenti di gratitudine e di riverenza che devono accompagnare il primo e il più grande atto che la volontà nazionale compie in cospetto del mondo.

Addì 24 febbraio 1861. Matteccci, Relatore.

Art. 1. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia.

Art. 2. Gli atti del governo ed ogni altro atto che debba essere intitolato in nome del Re, sarà intestato colla formola seguente:

(Il nome del Re)

Per Provvidenza Divina, per voto della nazione.

RE D'ITALIA.

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DELIBERAZIONE DEL SENATO SUL REGNO D'ITALIA

Il 26 di febbraio dell'anno 1861 il Senato del Regno di Sardegna costituiva il Regno d'Italia con centoventinove voti favorevoli e due contrari. Abbiamo protestato di non voler discutere su quest'argomento, e manterremo la parola. Tuttavia ci sieno lecite due semplici osservazioni sulla votazione.

Quando il Senato votava il Regno Italico avvennero due fatti gravissimi. L'uno è che in un'urna si trovarono molti voti di più che non ne fossero nell'altra, e i voti dovevano essere eguali. Il secondo è che due Senatori del Regno Italico mostrarono una solenne paura, giacché in pubblico votarono favorevolmente, e in segreto deposero un voto contrario.

Il primo fatto avvenne, secondo il Diritto «per inesperienza dei nuovi Senatori nel processo meccanico della votazione». Ma del secondo non si può recare altra scusa che la paura. I due Senatori temevano, a torto certamente, di essere derisi nei giornali, proverbiati, lapidati, se non costituivano il Regno Italico. Quindi ricorsero ad una transazione: in pubblico votarono pel Regno, e in segreto contro del Regno.

Ora noi vogliamo fare un confronto tra le votazioni del Senato, e le votazioni dell'Italia centrale e meridionale. I Senatori sono gente provetta, gente educata, in gran parte letterati ed anche accademici, e tutti amicissimi delle libere istituzioni, per averle studiate, promosse, difese col massimo fervore. Tuttavia nel processo della votazione pigliano abbaglio, e mettono nell'urna un numero di voti favorevoli, a cui non risponde il numero dei voti neri nell'urna opposta.

Se questo sconcio è avvenuto nella votazione del Senato, possiamo credere che nessuno sconcio simile sia avvenuto nelle tante votazioni, che si fecero in Italia? Se i Senatori, così dotti e così attenti, pigliarono un granchio di questa fatta, che dire dei contadini e della plebe chiamata a votare improvvisamente? L'inesperienza dei nuovi Senatori non era comune anche alle popolazioni della Toscana, dell'Emilia, delle Marche, dell'Umbria e delle Due Sicilie? Quando mai queste si esercitarono a votare le annessioni o i regni separati?

Tutto perciò dà luogo a congetturare, che nelle votazioni italiane le cose non sieno procedute in piena regola. Però nel Senato del Regno la votazione fu ripetuta, trattandosi di pochi votanti; ma non sappiamo che nessuna votazione sia stata ripetuta nell'Italia centrale o meridionale. E intanto quale guarentigia abbiamo per sostenerne la legalità, e per dire all'Europa che questo Regno Italico, nato come è nato, è proprio la volontà degli Italiani?

Inoltre, in Torino, la città più tranquilla d'Italia, nell'aula stessa del Senato, due Senatori, difesi dal principio costituzionale dell'inviolabilità, hanno paura di farsi conoscere avversi al Regno d'Italia, costituito come tutti sanno, e non esitano a macchiarsi con una brutta menzogna per mettersi al sicuro.

E possiam credere che quanti a Bologna, a Firenze, a Napoli ed a Palermo portavano sul cappello, o scrivevano sulle porte delle loro case la parola

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annessione, lo facessero spontaneamente, liberamente senza mentire l'interno del loro animo, senza cedere alla paura di essere fatti segno agli improperii ed alle vendette della rivoluzione? Lo creda chi vuole; noi non possiamo.

Ma si dirà: — Il voto del Parlamento nazionale per la costituzione del Regno Italico risana tutto ciò d'irregolare che vi fosse stato nelle precedenti votazioni. 1 rappresentanti dell'Italia, gli eletti del popolo dicono apertamente, solennemente la sua volontà. —

I rappresentanti del popolo? Adagio un po': I Senatori non sono al certo i rappresentanti del popolo, ma piuttosto i rappresentanti del Ministero. Imperocché i ministri se li hanno scelti come e dove volevano, e non vennero a cercarli davvero tra gli amici del nostro giornale. Sono dunque i Ministri che hanno fatto i Senatori, e sono i Senatori finora che approvarono i ministri. Come vedete è idem per idem.

Però verranno i Deputati, e questi rappresentano il paese. Scusateci ripetiamo: i Deputati rappresentano coloro che li hanno eletti, e non furono eletti, né da lutto il paese, né dalla maggioranza, né da una semplice frazione, e questo ci vien dimostrato matematicamente dalla verificazione dei poteri.

Apriamo gli Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, N° 2 e 3, e vediamo un po' chi rappresentano questi signori rappresentanti. La prima elezione approvata fu quella del conte di Cavour eletto dal 1° collegio di Torino. Questo collegio novera 1327 elettori. Sapete quanti volarono pel conte di Cavour? Votarono appena 620. Dunque ne restano 707 che non gli furono favorevoli. Dunque il conte di Cavour non fu eletto dalla maggioranza, ma dalla minorità del suo collegio.

Lo stesso si dica di quasi tutti gli altri Deputati eletti. Essi non sortirono che un numero di voti molto minore della metà degli elettori. Eccone un saggio.

Statistica degli eletti e degli elettori.

Collegio

Eletto

Voti all’eletto

Elettori

Torino 1° collegio

Cavour

620

1327

Verolanuova

Ugoni

167

940

Ancona

Cavour

267

660

Varese

Speroni

265

660

Abbiategrasso

Correnti

r

191

780

Vercelli

Borella

329

1293

Vigone

Oytana

461

1077

Alessandria

Rattazzi

376

1100

Vignale

Lanza

578

1433

Borgo S. Donnino.

Verdi

339

978

Biella

Lamarmora

456

425

Bologna 3° collegio

Berti-Fichat

451

1339

Bologna 2° collegio

Pepoli

514

1338

Brescia

Depretis

561

1810

Bra

Chiaves

477

1422

Chieti

Farini

300

900

Messina

Natali

427

1161

Napoli 3° collegio

Poerio

594

1562


Collegio

Eletto

Voti all’eletto

Elettori

Napoli 10° collegio

Persico

165

631

Breno

Cuzzetti

247

933

Bologna 1° collegio

Minghetti

600

1596

Vergato

Audinot

176

572

Castiglione

Melegari

197

898

Brivio

Sirtori

349

656

Cesena

Saladini

285

786

Chiavari

Castagnola

266

831

Morcone

Giacchi

176

642

Aversa

Maza

399

952

Carmagnola

Teccbio

514

1465

Chivasso

Viora

349

949

Gasattnaggiore

Brofferio

378

1020

Gavirate

Ferrari

245

685

S Arcangelo

Regnoli

180

805

Fano

Rasponi

118

437

Genova 1° collegio

Ricci

274

1109

Bibbiena

Falconcini

184

739

Pistoia

Macciò

178

674

Ravenna 1° collegio

Rasponi

234

768

Ravenna 2° collegio

Beltrami

213

774

Forlì

Albiccini

352

982

Soresina

Possenti

279

833

Firenze 1° collegio

Peruzzi

705

1719

Ferrara 1° collegio

Mayr

300

1001

Trescore

Camozzi

311

786

 

Qui poniamo termine a questa statistica non volendo infarcire di cifre il nostro foglio. Ma preso un termine medio nelle elezioni, si può dire che degli iscritti, un terzo convennero, e due terzi accettarono il partito del nostro giornale: né eletti, né elettori. Dunque la Camera non rappresenta l'Italia, ma un terzo dell'Italia, posto pure che questo terzo avesse votato regolarmente e liberamente. Restano ancora due terzi che sono la maggioranza, e che tardi o tosto trionferanno, non solo perché maggiori di numero, ma principalmente perché stanno dalla parte della verità, della giustizia e della religione.

IL NUOVO REGNO D'ITALIA

NELLA CAMERA DEI DEPUTATI

(Pubblicato il 14 marzo 1861).

Quante ere nuove abbiamo noi? Fin dal 1848 ci annunziarono che una nuova era incominciava: ed oggidì il conto di Cavour, presentando alla Camera il disegno di legge che costituisce il Regno d'Italia, ci dice che una nuova era incomincia!...

Il conte di Cavour presentò l'11 di marzo alla Camera dei Deputati la legge già approvata dai Senatori «colla quale il Re nostro augusto Signore assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia».

— 23 —

L'onorevole Conte nella sua relazione disse una bugiuzza, affermando che il Senato del regno avea già sancita la legge con unanime voto. Tutti sanno che due Senatori votarono contro, epperò è falso che vi fosse unanimità. È una cosa da nulla, ma mostra sempre più con quale lealtà suole procedere il nostro Presidente del ministero, e quanto vale la sua parola.

Il conte di Cavour ha chiesto ai Deputati che confermassero con la stessa concordia di suffragi la costituzione del nuovo Regno d'Italia «affinchè il nuovo Regno possa presentarsi senza maggior indugio nel consesso delle nazioni». Ciò vuoi dire che il nuovo regno fin qui non si è ancor presentato.

I Deputati, il 12 di marzo, fecero vacanza, e si radunarono negli uffici. E qui mossero di molti appunti al disegno di legge, appunti che sono riepilogati nel Diritto del 13 di marzo. Si criticò che il Governo si fosse fatto promotore di questa legge; si criticò che l'avesse presentata prima in Senato, ossia a quella parte del Parlamento che è creatura sua; si criticò che non abbia abbandonato le tradizioni feudali «e siasi ostinato a designare il Re col numero di II° mentre egli è innegabilmente il I° Re d'Italia». Alcuni volevano che si dicesse: Vittorio Emanuele II primo Re d'Italia. Ai più questo primo e secondo non garbava.

Finalmente si criticò che la legge dicesse essere il Re che assume «quasi fosse, osserva il Diritto, per forza di conquista, il titolo di Re d'Italia». Molti volevano che si dicesse che questo titolo gli era conferito per volere dei popoli.

Dopo queste osservazioni gli uffizi della Camera passarono alla nomina dei loro rispettivi Commissari, e vennero scelti Bellino Ricasoli, Cipriani, Paternostro, Pepoli Gioachino, Giorgini, Macciò, Audinot, Natoli, Baracco. Questi incaricarono il Giorgini di scrivere la relazione del disegno di legge.

Ma il Giorgini disse di non poter avere in pronto la relazione prima delle tre pomeridiane del giorno tredici. Del che la Gazzetta del Popolo lo sgrida alquanto t poiché la relazione dovendo essere brevissima e sgorgare dal cuore, non richiede molta lambiccatura di cervello».

All'ora in cui scriviamo, non si sa se il Giorgini abbia potuto terminare la sua relazione, né se potrà oggi costituirsi il Regno d'Italia e proclamarsi domani.

Proclamato il Regno d'Italia, dovrà pensarsi alla Capitale. Il signor Casati in un opuscolo stampalo a Parigi proponeva che la Capitale del nuovo Regno d'Italia fosse Firenze. Quest'idea viene approvata e sostenuta da Massimo d'Azeglio in un suo opuscolo stampato or ora a Firenze col titolo Questioni urgenti, pensieri di Massimo d'Azeglio.

Il d'Azeglio premette, che in Italia dobbiamo «avvezzarci gli uni a parlare, e gli altri a lasciar parlare; gli uni a dir ragioni, e gli altri a risponderne, senza voler soffocare la voce di nessuno con filze d'aggettivi e spauracchi d'impopolarità».

E su questo punto Massimo d'Azeglio insiste assai e sogghigno: «Bisognerà pure alla fine risolversi ad essere un popolo libero ed indipendente davvero, ed a prenderne gli usi, la lingua, il modo di trattare e di vivere; ad assumere quella dignitosa indipendenza di carattere, che è la più nobile proprietà di un uomo:

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proprietà che nessun decreto può dare, nessun tribunale guarentire, se non sa ognuno possederla e difenderla per virtù propria: proprietà che innalza l'uomo alla giusta stima di se stesso, per la quale non giura né in verbo magistri, né in verba populi; non è del parere né di chi più grida, né molto meno di chi minacciasse: non prende infine le opinioni bell'e fatte da nessuno, ma cerca farsele da sé coll'intelletto e colla coscienza propria; ed una volta fatte, le manifesta senza timidità, come senza arroganza, non occupandosi punto se siano seguite da molti o da pochi; se piacciano o dispiacciano, e se possano procurare a chi le professa applausi o fischi, utile o danno».

Noi l'abbiamo capita fin dal 1848, e in questi tredici anni ci siamo presa quella libertà, che molti non ci volevano accordare, e con virtù propria abbiamo cercato di sostenere o mostrare quella indipendenza, che proclama le verità religiose e sociali «non occupandoci punto se sian seguite da molti o da pochi». Vorremmo che la capissero egualmente i nostri amici dell'Italia centrale e meridionale.

Massimo d'Azeglio dopo tutto questo preambolo passa a sostenere, come abbiamo detto, che bisogna eleggere Firenze a Capitale del nuovo Regno d'Italia. Roma, a suo avviso, non offre tutte quelle qualità che si richiedono ad una città per addivenire Capitale d'una nazione; e i fatti del 1848 potrebbero far temere mal sicura la rappresentanza nazionale nella città eterna.

Le quali idee del d'Azeglio sono affatto contrarie a quelle del conte di Cavour, che nella Camera dei Deputati l'anno passato voleva Roma per Capitale; e attirarono al d'Azeglio un fiero carpiccio della Nazione di Firenze.

Questo giornale nel suo N. 70 dell'11 di marzo chiama inopportuno il libro del d'Azeglio, perché «può seminare senza volerlo germi di divisione e di malcontento». La Nazione giunge perfino a chiamare il libretto del d'Azeglio un novello pomo di Paride.

«Non c'illudiamo 1 Esclama la Nazione di Firenze. Ove i destini che l'autore ci profetizza potessero avverarsi, le gelosie municipali si risveglerebbero, e le primarie città del Regno che di fronte alla grandezza di Roma s'inchinano riverenti, mal saprebbero sottostare alla città nostra. Milano, Napoli, Torino stessa ne muoverebber lamento; tutte più o meno potrebbero o crederebbero potere contenderci quella supremazia, che nessuno a Roma vorrà seriamente

Non sappiamo quale accoglienza sarà fatta dagli altri giornali alle idee e proposte di Massimo d'Azeglio. Questo sappiamo, che tutti gli uomini non ancora pienamente accecati guardano con ispavento la questione di Roma, e vorrebbero eliminarla lasciandola al Papa. È un sentimento interno di cui molti non si sanno forse rendere ragione, ma che prepondera nei più, e venne rivelato dallo stesso Journal des Débats, di cui ieri citammo le parole.

Massimo d'Azeglio non ha mica una maggiore predilezione per Firenze su Roma. Egli vede che togliere al Papa la sua città è una cosa impossibile; che se si conquistò Ancona, Capua, Gaeta; se si conquisteranno Messina e Civitella, sarà difficilissimo conquistare e ritenere Roma; e quindi cerca di persuadere gl'Italiani che non ne hanno bisogno, e che possono contentarsi di Firenze.

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Alla guardia di Venezia sta l'Austria col suo formidabile esercito, l'Inghilterra colle Note minacciose di lord Russell, la Francia cogli inesorabili comandi di Napoleone III. Alla guardia di Roma ci sta qualcheduno più potente della Francia, dell'Inghilterra e dell'Austria, e dice guai a chi la tocca!

E questo guai suona terribile nell'animo di molti, e come scrive il Journal des Débats «a misura che si approssima l'istante, in cui si dovrà andare a Roma, l'ardore si raffredda e cede ad una specie di vaga apprensione».

La vaga apprensione è il sentimento dell'anima naturalmente cristiana; è il santo ribrezzo che inspira la città eterna, e che non può venire soffocato nemmeno nel cuore dell'incredolo; è la voce della storia che grida agli assalitori: Badate bene che fatale è Roma: Ricordatevi che Dio l'ha fatta pel successor del maggior Piero.

LEGGE CHE STABILISCE IL REGNO D'ITALIA

La Gazzetta Piemontese divenuta, dopo le annessioni, Gazzetta Ufficiale del Regno, domenica, 17 marzo 1861, compariva col titolo di Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, e nelle ultime notizie, parte ufficiale, pubblicava la seguente legge controsegnata da otto ministri:

VITTORIO EMANUELE II,

RE DI SARDELLA, DI CIPRO E DI GERUSALEMME, ECC.

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato;

Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

Articolo unico.

Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia.

Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella Raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Dato a Torino, addì 17 marzo 1861.

VITTORIO EMANUELE.

C. CAVOUR — M. MINGHETTI— G. R. CASSINIS — F. S. VEGEZZI —

M. FANTI. — T. MAMIANI — T. CORSI —U. PERUZZI.

PROTESTA DEL GRANDUCA DI TOSCANA

CONTRO IL REGNO D'ITALIA

Dresda, 26 marzo 1861.

Per due anni il Piemonte ha proseguito in Italia la sua opera sovversiva, non rifuggendo da alcun mezzo, e servendosi alternativamente della violenza e dell'intrigo.

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Calpestando i più sacri diritti, dimenticando il rispetto dovuto alla Maestà del Pontefice, attentando agli augusti interessi della Religione Cattolica, disprezzando i legami di parentela, ricompensando il tradimento, portando la guerra negli Stati vicini senza previa dichiarazione, o senza aspettare la scadenza dei termini stabiliti pel corso delle trattative diplomatiche, rendendosi complico di una privata aggressione, da esso disapprovata pria che s'avverasse, ma da esso glorificata subito che vi fu da trarre un profitto dalia medesima, il Piemonte ha espulso i Principi legittimi ed ha violato l'integrità dei loro territorii.

La proclamazione del Regno d'Italia sancisce per ciascuno Stato della Penisola la distruzione dell'individuale autonomia indispensabile al benessere e alla tranquillità d'Italia. Fondata sopra antiche abitudini, sulla profonda differenza dei caratteri, sulla diversità degli interessi locali, ed infine sulle belle ed antiche tradizioni che fan la gloria d'Italia; cotesta autonomia, che è altrettanto cara quanto necessaria alle popolazioni, poteva e doveva conciliarsi colla grandezza d'Italia ricostituita sopra un piano federativo.

La proclamazione del Regno d'Italia rovescia ogni organizzazione politica della Penisola; viola i diritti delle legittime dinastie, distruggendo ad un tempo i trattati fondamentali, ai quali parteciparono tutte le Potenze europee; ed infine è in contraddizione flagrante colle stipulazioni di Villafranca, le quali confermate a Zurigo col concorso del Re di Sardegna, dovevano gettar la base del nuovo diritto pubblico italiano.

Nell'interesse dei diritti imprescrittibili della nostra dinastia ed in quello della vera felicità dell'amata nostra Toscana e di tutta Italia, mentre ci riferiamo alle proteste anteriori del nostro amato Padre e di noi stessi, crediamo debito nostro di protestare, come protestiamo, nel modo più solenne contro questo nuovo atto del Governo del re Vittorio Emanuele. Abbiamo la ferma fiducia che le Potenze europee, molte delle quali diedero a più riprese al Governo sardo pubblici segni della loro disapprovazione, non vorranno riconoscere un titolo, che è l'espressione dell'illegittima condizione in cui trovasi momentaneamente l'Italia.

FERDINANDO.

PROTESTA DI FRANCESCO V

CONTRO IL REGNO D'ITALIA

(Dalla Perseveranza di Milano)

Noi FRANCESCO V, Arciduca d'Austria, Este, Principe Reale d'Ungheria e Boemia, per la grazia di Dio Duca di Modena, Peggio, Mirandola, Massa, Carrara, Guastalla, ecc. ecc. ecc.

Il Re di Sardegna, essendosi fatto dare il titolo di Re d'Italia da un'Assemblea composta in gran parte di sudditi ribelli ai loro legittimi Sovrani, ha messo il suggello alla lunga serie di atti di usurpazione, contro i quali protestammo già in data 14 maggio e 22 giugno 1859, non che in data 22 marzo 1800.

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Questo nuovo oltraggio fatto alle sovranità legittime in Italia, e per conseguenza anche alla nostra, c'impone il dovere di nuovamente ed altamente protestare per la conservazione di diritti, che nessun atto estraneo al voler nostro potrebbe mai pregiudicare od indebolire.

L'Europa vorrà rammentarsi che quegli, il quale conculca si indegnamente ed opprime lo Stato che ereditammo dai nostri maggiori, è lo stesso Sovrano che, mantenuto sul suo vacillante trono dal generoso vincitore di Novara, raddoppiò d'allora in poi le mene rivoluzionarie non solo contro di esso, ma ben anche contro tutti gli altri governi d'Italia, con cui simulava d'altronde le più amichevoli relazioni.

Incapace dapprima d'intraprendere conquiste, non fu che coll'aiuto di un'armata straniera, da esso attirata in Italia, ed a cui devesi intieramente il successo, ch'egli potè impadronirsi dei paesi, ai quali agognava da tanto tempo. Eravi fra questi il nostro Stato, che, perduta la propria autonomia, divenne d'allora in poi una provincia semplicemente contribuente agli oneri sempre crescenti d'imposte e debito pubblico; e non conobbe oltre a ciò i dominatori attuali che per le vessazioni, le perquisizioni domiciliari, gli arresti arbitrarii, i sequestri dei beni, e le raddoppiato coscrizioni militari.

E se tutto ciò non bastasse ancora a qualificare il governo che si è imposto al nostro Stato, rammentano che esso è quel medesimo, che, in mezzo alla riprovazione generale degli uomini onesti, procedendo di sorpresa all'invasione delle Marche e dell'Umbria, sopraffece i pochi, ma prodi soldati, accorsi dai diversi paesi cattolici in aiuto del Sommo Pontefice: è quello stesso governo, che dando mano ad una banda di facinorosi d'ogni nazione che stava per soccombere, irruppe slealmente nello Stato del nobile e valoroso Re delle Due Sicilie.

I feroci proclami, le crudeltà inaudite commesse in quel regno contro quanti, per sentimento di fedeltà al loro legittimo Sovrano, rifiutarono di sottomettersi all'usurpatore, sono fatti d'incontestabile notorietà.

A tante nequizie non va disgiunto il più perfido sistema tendente ad abbattere la religione ed a corrompere la pubblica morale, sistema sotto il quale, non meno che gli altri popoli d'Italia, gemono i nostri sudditi, che si distinsero sempre nella grande loro maggioranza per ossequio alla fede cattolica e per attaccamento al loro legittimo Sovrano.

Profondamente dolenti di un tale stato di cose, sentiamo l'obbligo in noi di alzare di bel nuovo, anche in nome di questa stessa maggioranza, la nostra voce contro il recente atto dal re Vittorio Emanuele commesso in opposizione diretta a tutti i principii di onestà ed a tutti i trattati internazionali comprensivamente quello di Zurigo; e facciamo un nuovo appello alle Potenze amiche, le quali, vogliamo esserne certi, finiranno col vendicare tante ingiustizie.

Conscii finalmente della validità dei nostri diritti sullo Stato affidatoci dalla Divina Provvidenza, ed ereditato dai nostri maggiori, e penetrati del pari di quanto dobbiamo ai nostri successori, ci dichiariamo risoluti di cogliere ogni occasione che ci si presenti propizia per rientrare al possesso, e ricondurvi coll'ordine il nostro legittimo governo; cosi richiedendo l'onore ed il dovere,

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non meno che il sentimento d'affezione la più sincera che serbiamo sempre al nostro paese nativo, ed ai nostri amatissimi sudditi, un gran numero dei quali non cessa di darci, con costanza veramente ammirabile, prove di fedeltà e di devozione.

Vienna, 30 marzo 1861.

FRANCESCO m. p.

PROTESTA DELLA DUCHESSA DI PARMA

CONTRO IL REGNO D'ITALIA

Noi Luigia Maria di Borbone, reggente degli Stati di Parma pel duca Roberto I.

Per le nostre dichiarazioni datate da S. Gallo il 20 giugno 1859 e da Zurigo il 28 marzo 1860, abbiamo protestato contro l'usurpazione degli Stati del nostro annuissimo figlio il duca Roberto 1, usurpazione commessa da S. M. il Re di Sardegna e che si voleva far credere provocata dal libero voto delle popolazioni.

Quest'usurpazione essendosi estesa a quasi tutta la Penisola, il Re di Sardegna ha assunto il titolo di Re d'Italia.

Contro quest'ultimo atto, che conferma tutte le usurpazioni compiutesi nel breve giro di due anni, a danno dei legittimi Sovrani d'Italia, e che ha lesi nuovamente i diritti sovrani del nostro figlio, principe italiano, noi abbiamo il dovere di. protestare, come solennemente protestiamo, facendo così un nuovo appello ai sentimenti di giustizia, delle Potenze amiche, le quali certo non possono vedere con occhio indifferente gli oltraggi ripetuti alla fede dei trattati. Dal castello di Wartegg, in Isvizzera, addì 10 aprile 1861.

Firmata: LUIGIA.

PROTESTA DELLA SANTA SEDE

CONTRO IL REGNO D'ITALIA

(Dalla Perseveranza di Milano)

Roma, 15 aprile 1861.

Un Re cattolico, ponendo in obblio ogni principio religioso, sprezzando ogni diritto, calpestando ogni legge, dopo avere spogliato a poco a poco il Capo augusto della Chiesa cattolica della più grande e florida parte de’ suoi legittimi possedimenti, oggi assume il titolo di Re d'Italia. Con ciò egli vuoi porre il suggello alle usurpazioni sacrileghe da lui già compiute, e che il suo governo ha già manifestato di completare a spese del patrimonio della Santa Sede.

Quantunque il Santo Padre abbia solennemente protestato ad ogni nuova impresa con cui recavasi offesa alla sua sovranità, e' non è meno in obbligo oggi di fare una nuova protesta contro l'atto col quale si prende un titolo, lo scopo del quale è di legittimare l'iniquità di tanti atti anteriori.

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Sarebbe superfluo il ricordare la santità del possesso del Patrimonio della Chiesa ed il diritto del Sovrano Pontefice su questo Patrimonio, diritto incontestabile riconosciuto in ogni tempo e da tutti i governi, e da cui deriva che il Santo Padre non potrà mai riconoscere il titolo di Re d'Italia, cui si arroga il Re di Sardegna, giacete tale titolo lede la giustizia e la sacra proprietà della Chiesa. Non solo non può riconoscerlo, ma ancora protesta nel modo più assoluto e più formale contro una simile usurpazione.

Il Cardinale segretario di Stato sottoscritto prega V. E. di voler portare a cognizione del suo Governo questo atto fatto in nome di S. S. , tenendosi certo ch'esso ne riconoscerà l'assoluta convenienza, e che, associandosi ad una tale determinazione, contribuirà, colla sua influenza, a por fine allo stato di cose anormale che da sì lungo tempo desola la sventurata Penisola. Coi sentimenti, ecc.

Cardinale ANTONELLI.

L'UNITÀ D'ITALIA E IA DIVISIONE DI ROMA

(Pubblicato il 13 marzo 1861).

Tra le molte idee bislacche messe innanzi a' giorni nostri per paliare tristi disegni, singolarissima è quella del principe Napoleone, che nel Senato francese, il 4 di marzo, dopo di aver perorato tre buone ore per Vunità d'Italia, con logica ammirabile proponeva di dividere Roma, e applicare alla Penisola il giudizio di Salomone.

Un cenno di questa famosa divisione già si trovava nel libello Le Pape et le Congrès, e l'illustre senatore Brignole rispondeva così in sul cominciare del 1860: «Uomini ciechi, insensati politici! Voi vorreste adunque applicare ai dominii temporali della Chiesa il giudizio di Salomone, e pronunziare il famoso Dividatur! A Pio IX il Patrimonio di S. Pietro, cioè la parte minore: il resto alla rivoluzione! Ah! riflettete che la rivoluzione, questa matrigna dei popoli, applaudirà con entusiasmo alla vostra deplorabile sentenza, ma la Chiesa, che ne è la vera Madre, non potrà, e non vorrà giammai consentirvi (1)».

Ma dal 1860 al 1861 abbiam fatto dei grandi progressi. Allora trattavasi di dividere in due parti gli Stati Pontificii, ora trattasi di dividere la stessa Roma. E perché il Papa non vuole acconsentire, uscirà a giorni La Gueronière, funzionario dell'Impero, e dimostrerà che Pio IX è ostinatole primaria cagione dei danni che patisce la Chiesa!

Il 7 di marzo il ministro degli affari esteri di Spagna in seno del Congresso dichiarava indegno di seria discussione il disegno di dividere in due la città di Roma. Noi vorremmo sapere che cosa risponderebbe Napoleone III e il suo cugino a chi proponesse di dividere in due la città di Parigi?

(1) Considérations sur la question romaine par le M. is. A. Brignole Sale. Gènes, 1860, pag. 19.

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Anche questa ha la Senna che ne fa due parti, come il Tevere di Roma. Il Bonaparte accetterebbe di restarsene alle Tuilerie, e dare al conte di Chambord il resto di Parigi al di là del fiume?

Noi conosciamo una sola divisione possibile di Roma, divisione che ha già esistito per quattro secoli, e che potrebbe esistere ancora per un po' di tempo. . E sapete qual è? È Roma esterna, e Roma sotterranea, Roma delle catacombe. Durante la persecuzione della Chiesa, Roma era proprio divisa in due: gl'Imperatori stavano nella città, i Papi sotterra.

Ma appena la persecuzione cessò, ceco Roma restare in potere de’ Romani Pontefici. Sebbene il formale dominio temporale dei Papi non dati che dalla così detta donazione di Pipino, tuttavia a datare dall'impero di Costantino, ossia dalla pace della Chiesa, i Romani Pontefici incominciarono ad esercitare una civile giurisdizione e un'influenza nel governo temporale, come venne dimostrato da Alfonso Muzzarelli (1). Imperocchè lo stato normale del Cattolicismo è che il Papa sia Re, e tutte le volte che il Papa cessò d'essere Re per brevissimo tempo, corsero per la Chiesa giorni di sanguinosa e crudele persecuzione.

Sicché quando vogliasi proprio dividere Roma in due parti, conviene risolversi di ricacciare il Papa e tutti i Cardinali, tutti i Vescovi, tutti i preti, tutti i cattolici nelle catacombe. Il conte di Cavour si va illudendo, o cerca d'illudere gli altri, e ci dicono che la lavorare presentemente in Torino una gran bandiera, dove da una parte sarà scritto evviva al suo Governo trionfante in Roma, e dall'altra evviva a Pio IX Pontefice in Vaticano. In pari tempo il conte di Cavour ba avuto la baldanza di supplicare qualche Cardinale ad indurre il Pontefice a contentarsi della piazza di San Pietro, e cedere il resto al Piemonte.

Castelli in aria, signor Conte! Se volete andare a Roma v'è mestieri gittar la maschera, e imprigionare il Vicario di Gesù Cristo. Voi dovete fare col Vescovo romano ciò che già eroicamente faceste coi Vescovi di Pisa, di Fermo, di Piacenza e d'Avellino. O il Papa è Re, solo Re, Re assoluto, o il Papa è prigioniero. O regna al di qua e al di là del Tevere, o geme nelle catacombe aspettando che Iddio onnipotente giudichi la sua causa. Cercate e ricercate quanto volete, studiate voi, fate studiare il principe Napoleone, vostro amico, e non troverete che Roma possa dividersi altrimenti: o tutto al Papa, o tutto a voi, e il Papa nelle catacombe!

E a questi estremi verrà la rivoluzione. Il signor Zanolini, che tenne la presidenza provvisoria della Camera come decano d'età, l'11 di marzo, nel cederla ad Urbano Rattazzi disse un discorso che è appunto un'intimazione al Papa di prepararsi la stanza nelle catacombe. Ecco alcune parole del Zanolini:

«Roma è essenziale all'Italia; Roma debb'essere la capitale di un gran regno, non di un piccolo dominio. La missione del Pontefice è nobilissima, suprema

(1) Della civile giurisdizione ed influenza nel governo temporale esercitata dai Romani Pontefici, incominciando dall'impero di Costantino fino alla donazione di Pipino re dei Franchi. Roma, 1816.

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la dignità, ma la sua sovranità temporale è una delle più meschine grandezze di questa terra (bene!) che lo rende soggetto a questo o a quel monarca più potente di lui, e gli fa disconoscere l'altezza della sua missione. Senza la sovranità temporale il Capo supremo dei cattolici sarà superiore a tutti, venerato da tutti, soggetto a nessuno» (Vivi segni di approvazione).

Il lettore ammirerà la logica del povero Zanolini. Perché il Papa non sia soggetto, vuole che cessi di essere Re e divenga suddito! Perché il Papa gode un piccolo dominio e la sua sovranità è piccola, il Zanolini la vuole distruggere interamente!

Ma in quale momento osò dire il Zanolini che il Papa-Re è soggetto a questo o a quel Monarca più potente di lui? In un momento, in cui Pio IX resiste solo a Napoleone III! In un momento, in cui gli italianissimi gli cedono una parte d'Italia, e Pio IX non gli vuoi cedere nulla! In un momento, in cui tutto il mondo è pieno della nobile ostinazione e della sublime resistenza del Papa!

Il Zanolini vuole che «la nazione italiana si consolidi, si fortifichi, si compia, si glorifichi, riponendo in Roma la capitale del Regno». Noi crediamo invece, che quando la rivoluzione sarà entrata in Roma, finirà per destare la collera di Dio e perdersi da sé. Racconteremo al signor Zanolini una storia, un po' antica, ma molto istruttiva.

Una volta gli uomini dissero fra loro: «Venite, facciamoci una città e una torre, di cui la cima arrivi fino al ciclo, e illustriamo il nostro nome prima di andar divisi per tutta quanta la terra. Ma il Signore discese a vedere la città e la torre che fabbricavano i figliuoli d'Adamo. E disse: ecco questo è un sol popolo, ed hanno tutti la stessa lingua: ed han principiato a fare tal cosa, e non desisteranno da' lor disegni fino che gli abbian di fatto condotti a termine. Venite adunque, scendiamo e confondiamo il loro linguaggio, sicchè l'uno non capisca il parlare dell'altro. E per tal modo li disperse il Signore da quel luogo per tutti i paesi, e lasciarono da parte la fabbrica della città. E quindi a questa fu dato il nome di Babel, perché ivi fu confuso il linguaggio di tutta la terra, e di là il Signore li disperse per tutte quante le nazioni» (Genesi, cap. si).

Coloro, che vogliono dividere Roma, badino che il Signore può dividere loro stessi e disperderli. Il principe Napoleone troverà nelle memorie della propria famiglia esempi eloquentissimi di questa divisione. Napoleone I, dopo di avere diviso Roma dal Papa, e i Cardinali dai Cardinali, finì poi per essere disperso in Russia, diviso dalla Francia e relegato a Sant'Elena, e i Napoleonidi restarono divisi per moltissimo tempo. E il Dio di Pio IX è il Dio di Pio VII, è il Dio che confondeva e disperdeva gli orgogliosi figli d'Adamo nella terra di Sennaar.

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LE FINANZE E LE IMPOSTE

DEL NUOVO REGNO D'ITALIA

(Pubblicato il 9 aprile 1860).

In questi giorni vediamo un eloquente contrasto, n Governo clericale del Papa, spogliato di quasi tutte le sue rendite, avverte i proprii creditori che si presentino a riscuotere gli interessi delle loro cedole, giacché è pronto a pagarli. E in pari tempo in Torino, in questa capitale del regno d'Italia, alcuni nostri amici si presentano per riscuotere il trimestre delle loro pensioni maturato col primo di aprite, e sentonsi rispondere dal Governo italianissimo: Passate un'altra volta, non vi sono danArt. E questa risposta si da pure in Lombardia ai pubblici uffiziali, come ci annunzio il giornate intitolato: II Regno d'Italia e che ben conosce le finanze italianissime.

Il signor Bastogi, già antico cassiere delle finanze di Mazzini e della Giovine Italia, ora è venuto a pigliare il governo delle finanze del nuovo regno d'Italia. Ha dalla rivoluzione egli ha potuto imparare bensì come disperdere le pubbliche entrate, non come riordinarle. Egli però chiamerà in aiuto l'economia politica del conte di Cavour, quell'economia che ha governato il Piemonte dal 4848 in poi, e si riduce a mettere imposte e contrarre imprestiti.

Gli imprestiti già contratti sono tali e tanti che nel 1860 si pagarono di soli interessi più di novantaquattro milioni (L. 94,045,000). E tuttavia bisogna pensare ad un nuovo imprestito. Le finanze sono una Babilonia, e nessun ne capisce nulla. Tuttavia se volete un saggio del nostro bilancio, lo ricaveremo dai calcoli dell'Opinione (N° 97,8 aprile), calcoli fatti a servizio del ministero, epperò molto al disotto del vero. Leggete adunque attentamente.

Nel 1860 noi abbiamo speso 563 milioni (lire 563,302,905). In quest'anno 1861 le spese non saranno inferiori a OTTOCENTO MILIONI, e si può dire che saranno novecento milioni, e forse un bilione. E intanto quali saranno le rendite? Risponda l'Opinione medesima:

«I proventi di tutto il regno, compreso Napoli e Sicilia, pel 1861 non possono oltrepassare 510 a 520 milioni. V'ha anzi più ragione di temere che non si raggiungerà la somma, che da sperare possa essere oltrepassata. Si avrà dunque un disavanzo di 300 milioni. Se mai scoppiasse la guerra, il disavanzo non potrebbe che aumentare così per l'accrescimento delle spese, come per la diminuzione delle entrate».

Capite? L'ex-cassiere della Giovine Italia ci darà questo italianissimo bilancio.

Primo bilancio del nuovo regno d'Italia.

Entrate

 500 milioni!

 Viva Cavour!

 

Spese

 800 milioni! !

 Viva Garibaldi!

 

Deficit

 300 milioni!!!

 Viva l'Italia!

 

Ma quanto si hanno cinquecento milioni d'entrata e se se spendono ottocento, come si fa ad andare innanzi? Queste domanda e la risposta troviamo nell'Opinione stessa dell'8 aprite. Leggete:

— 33—

«Come provvedere a questa situazione, la quale desta fondate apprensioni intorno all'avvenire del nostre credito? Per quest'anno si negozierà un imprestito, ma gl'imprestiti accrescono i pesi degli anni successivi e sono sputanti che, abusali, finiscono per esaurirsi. La rendila nostra è ora a 75. Un imprestito, questo corso aggrava le finanze enormemente, e dimostri come la fiducia sia scossa. Pure sarà giocoforza di sottoporsi ai sagrifizi che la situazione del regna i lo condizioni del mercato pecuniario impongono. Ma se si vuole chiuderò la serie degli imprestiti, se si vuole dare solidità al nostro credito, conviene pensare a far concorrere i popoli secondo i bisogni, ed a ridurre le spese ne' limiti più ristretti». .

Bisogna pensare a far concorrere i popoli secondo i bisogni! Ecco la conclusione dell'Opinione e significa bisogna pensare a mettere imposte e sovraimposte' a squattrinare di qua, a mungere di là, a tosare i Toscani, a premere i romagnuoli, a vuotare le tasche de' Modenesi, de' Parmigiani, de' Napoletani, de' Siculi. Ecco a che cosa bisogna pensare! E i popoli dovrebbero panare essi la bella sorte che li attende e i frutti che producono le rivoluzioni!

IL PRIMO GRAN LIBRO

DELLA GRANDE STORIA DEL GRANDE REGNO

GRANDE EDIZIONE DEL GRANDISSIMO BASTOGI

(Pubblicalo il 2 maggio 1861).

Il finanziere di Mazzini, ora ministro del gran regno d'Italia, ba pubblicate il primo Gran Libro della nuova storia del grandissimo regno, ed è intitolato: Il Gran Libro del debito pubblico del nuoto regno d'Italia. Il regno d'Italia è il regno dei debiti. Esso ha dei debiti verso l'Austria per la cessione della Lombardia; ha dei debiti verso la Francia che ci aiutò a conquistarle, ed ha già dato in acconto Nizza e Savoia, ma prima che sia saldato il debito acceso ce ne vorranno delle provincie! Ha dei debiti verso la Fruscia, e principalmente verso il sig. Winke; ha dei debiti verso la Germania, debiti che furono confessati nel discorso della Corona del 18 di febbraio 1861; ha dei debiti verso la Russia, dei debiti principalmente versò l'Inghilterra che si pagheranno forse in Sardegna o in Sicilia, e non ba guari acquistò un debito speciale di cordialissima riconoscenza vero il Marocco, il quale in nome della civiltà e del progresso, è in argomento di dolcissima simpatia e di fraterno affetto riconobbe il nuovo regno d'Italia.

Con questi debiti si vogliono sommare i debiti di un altro genere; i debiti di tetti gli antichi Stati d'Italia ; i debiti contratti da Gianduia durante i dodici anni di libertà; i debiti fatti da Farmi e da Pepoli nell'Emilia; i debiti contratti da Ricasoli in Toscana; i debiti che si ordinarono dai dittatori e prodittatori di Napoli e di Sicilia, e i debiti proposti ultimamente al Parlamento. Donde apparisce con quanto giudico il signor Bastogi abbia intitolato il suo voluminoso Gran Libro di debiti. Oh! sì, grande davvero. Grande pei debiti fatti, pei debiti che si fanno e per quelli che si faranno ancora.

— 34—

Grande perché molte pagine furono scritte dal grande economista Cavour; grande per te canee, grande per gli effetti, grande perché, come disse tempo fa un deputato, l'Italia sta per diventare la prima nazione indebitata del mondo. La Francia ebbe Cario Magno, la Russia Pietro il Grande, la Prussia Federico il Grondo, l'Alemagna il Grande Ottone, e l'Italia avrà il Gran Libro del debito pubblico. Se molte piccolezze si fanno dagli italianissimi, come mancar di parola, rompere la guerre senza dichiararla , tirare su di Ancona che ha inalberato bandiera bianca, imprigionare Vescovi, spogliare frati e lasciar morire d'inedia le monache dell'Umbria, in compenso si fanno dei grandi debiti, e si ha il Gran Libro.

Prima però che il sig. Bastogi venisse fuori colla sua proposta che dice: «E' istituito il Gran Libre del debito pubblico d'Italia; due Doputati aveano fatto in Parlamento un'altra proposta, ed era di abbruciare questo Gran Libro, i due onorevoli si chiamano l'uno Mauro Macchi e l'altro Gregorio Sella. Il signor Mauro, il 27 di giugno del 1860, disse che quando pur fossimo nella necessita «di gettare alle fiamme il Libro del debito pubblico, purché con ciò ci Cosse concesso il bene supremo di viver liberi, poco a noi premerebbe» (Atti uff., N° 107, pag. 416). E il signor Gregario soggiungeva ch'egli pure avea «volontà di gettare alle fiamme quel Gran Libro che si chiama il Libro del debito pubblico» (loc. cit, pag, 417). È dopo che ci hanno parlato di abbruciare il Gran Libro, il signor Bastogi vien fuori a istituirlo!

Basta, veggiamo come si compone il Gran Libro dell'editore Bastogi. «Il Gran Libro si aprirà coll'iscrizione della rendita creata con legge di questo giorno». La rendita, a cui l'editore accenna, è il prestito di cinquecento milioni effettivi, cioè di oltre a settecento milioni. E sarà il primo grande capitolo del Grandissimo Libro. Poi «con leggi separate sarà provveduto al modo d'includere nel Libro del debito pubblico italiano i debiti pubblici esistenti». E qui il signor Bastogi ci porge il destro di enumerare le parti che avranno i diversi Governi italiani nella compilazione del Gran Libro. I debiti sono un peso per la generatone presente e per l'avvenire. La presente deve pagare gl'interessi, la futura gl'interessi ed i debiti. Veggiamo adunque in quali proporzioni i tirannici Governi italiani pesarono sul povero popolo.

In Piemonte il debito pubblico fu una conseguenza della rivoluzione francese. Dopo la ristorazione di Gasa Savoia, il nostro paese fu gravato di parecchie passività, indennità alla Francia, quota di riparto dei crediti del Monte Napoleone, pagamento delle annue rendite provenienti dal Banco di San Giorgio. Fu dunque iscritta sul Libro del debito pubblico una rendita di L. 4,805,472,62; ma poi trascorsero undici anni senza che questa partita fosse menomamene aumentata.

Nel 1831 Carlo Alberto contrasse un imprestito di 25 milioni, e nel 1834 un altro di 20. Altri piccoli debiti vennero contratti nel 1841 e nel 1844; e dal 1845 al 1847 la loro somma salì a soli 135 milioni. Che miseria, sig. Bastogi, oh che miseria! Eppure si cominciarono le strade ferrate, si ordinò l'esercito, si rifornirono gli arsenali, si avea una marina formidabile, e si conservarono nelle casse di riserva 30 milioni.

Venne la libertà, e colla libertà il 7 di settembre 1848 un prestito formato di 50 milioni; sei nuovi imprestiti furono contratti nel breve giro di tre anni dai 1849 a tutto il 1851 per un capitale di 350 milioni. Alla fine del 1851 noi avevamo già un debito totale di 550 milioni.

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Poi noi 1853, nel 1854, nel 1855, muovi prestiti per 130 milioni; e nel solo 1859 s'inscrisse sul debito pubblico un aumento di circa 400 milioni; sicché il nostro debito, che dal 1815 al 1847 era di 135 milioni, dal 1849 al 1859 crebbe di 910 milioni, e divenne di L. 1,045,016,209, e al 1° gennaio del 1860 si doyrà pagare un'annua rendita di L. 54,797,054 46. Questo è progresso, questa e civiltà, questa è grandezza ! Nel 1860 la cifra sarebbe ancora pel; prestito di 150 milioni, e per altri motivi ricche al cominciare del 1861 la sua somma totale era di L. 1,169,970,595 48.

Dunque il capitolo primo del Gran Libro istituito dai signor Bastogi sarà il prestito di 700 e più milioni proposto alla Camera. Il secondo il capitolo saranno i debiti contratti da Gianduia, cioè un bilione centosessanta milioni. Il capitolo terzo sarà il debito che i tiranni di Parma fecero pesare su quel povero popolo. E sapete a quanto ascendono questi debiti? Essi formano un capitale di L. 10,558,218, non un soldo di più. Che miseria! Dal 1849 al 1855 il Piemonte ba speso di più per «diritto di commissione ed altre competenze bancarie!»

Viene il capitolo quarto del Gran Libro; e lo hanno scritto i tiranni Duchi di Modena. «Il debito pubblico modenese, dice il signor Vialardi, è il più piccolo tra i debiti degli altri Ducati». E come si può chiamare italiano quel Principe che concorse così poco alta compilazione del Gran Libro del debito pubblico d'Italia?

E i Papi anch'essi furono poco italiani per questo verso, giacché non figureranno nel capitolo quinto del Gran Libro del debito pubblico d'Italia, che per lire 17,577,120. Fortunatamente i signori Pépoli e Farini accrebbero un pò queste somme; perché in pochi mesi fecero un debito dì cinque milioni per Parma, un debito di cinque milioni per Modena, un debito di tre milioni per le Romagne, e poi un debito di dieci milioni per l'Emilia. Questi sì, che sono uomini grandi, e contribuirono in breve tempo alla grandezza del Gran Libro del grandi debiti del gran regno d'Italia!

Altri tiranni scrissero il capitolo sesto del Gran Libro, e furono i Granduchi di Toscana, i quali non ebbero vergogna d'incominciare solo nel 1847 a contrarre debiti, e ne contrassero uno di soli tre milioni. E dov'era allora, dov'era l'economia politica? Nel 1849 il tirammo Granduca contrasse un secondo prestito di 30 milioni, e il 3 novembre del 1852 un terzo prestito di 100 milioni, e tutto è qui. Oh vedete un po' che maniera di governare-

Ma venuto il barone Ricasoli, questo sì, che si accinse di gran cuore alla compilazione del Gran Libro del debito pubblico d'Italia. In poco tempo egli contrasse un debito di 50 milioni, guarentito dal Governo Sardo con legge del 25 di gennaio 1860; iscrisse una piccola somma di 600m. lire per le strade ferrate, e poi il 15 febbraio del 1860 contrasse un nuovo prestito di L. 7,188,720 per sopperire a spese, alle quali mancavano le rendite ordinarie. Questi sono uomini! Se Ricasoli avesse regnato in Toscana per tanto tempo quanto vi regnò la Casa di Lorena, che cosa non Avrebbe egli fatto pel Gran libro del debito pubblico del regno d'Italia?

Passiamo al capitolo settimo, il quale fu iscritto dai tiranni di Napoli e di Sicilia. Costoro governavano uno Stato doppio dello Stato di Sardegna, ed ebbero in tatto il tempo del loro regno di non preparare pel Gian libro che una partita, la quale, a tirarla coi denti, non può oltrepassare la somma di 550 milioni.

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Vi pare! Uno Stato come quello delle Due Sicilie, in tanti secoli non contrasse che cinquecentocinquanta milioni di debito.

Ecco intanto l'

INDICE

del Gran Libro del Gran Debito Pubblico

del Gran Regno d'Italia.

Capitolo 1° Introduzione scritta del ministro Bastogi

 L. 700,000,000

 

Cap. 2° scritto dai tiranni di Sardegna, Vittorio Emanuele I, Cario Felice, Cario Alberto fino all'anno 1848

 L. 135,000,000

 

Cap. 3° scritto dai grandi economisti politici, Nigra, Cavoor, Tegezzi

 L. 1,084,970,595

 

Cap. 4° scritto scritto dai tiranni dei Ducato di Parma

 L. 10,558,218

 

Cap. 5° scritto aggksato a Parma in pochi giorni dall'eccelso Farini »

 L. 5,000,000

 

Cap. 6° scritto scritto dai tiranni di Modena

 L. 11,056,380

 

Cap. 7° aggiunto in pochi giorni a Modena dall'eccelso Farini

 L. 5,000,000

 

Cap. 8° scritto dai Papi tiranni

 L. 16,577,190

 

Cap. 9° aggiunto dall'economista Pepoli

 L. 13,000,000

 

Cap. 10° scritto dai tiranni della Toscana

 L. 152,080,000

 

Cap. 11° aggiunto dall'economista Ricasoli

 L. 56,920,000

 

Cap. 12° scritto dai tiranni delle Due Sicilie

 L. 550,000,006

 

Cap. 13° aggiunto dai grandi economisti Garibaldi, Mordini e comp. (chi lo sa ?)

 

 

La conclusione è che nel Gran Libro del gran regno d'Italia si hanno da scrivere fin d'ora lire 2,806,383,583!

Di questi duemila ottocentosei milioni di debito settecento ventidue vennero contratti in tanti secoli dai tiranni, e gli altri duemila ottantaquattro milioni si debbono ai liberali ed ai grandi professori di economia politica. Bravo Bastogi! Il Gran Libro del debito pubblico del regno d'Italia sarà un grande insegnamento pei popoli, e un documento preziosissimo par la storia.

LA FESTA DEL REGNO D'ITALIA

Il N° 7 della Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti

del Regno d'Italia contiene la seguente legge:

VITTORIO EMANUELE II

PER GRAZIA M DIO E PER VOLONTÀ' DELLA NAZIONE RE D'ITALIA.

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato;

Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

— 37 —

Art. 4. La prima domenica del mese di giugno di ogni anno è dichiarata Festa Nazionale per celebrare l'Unità d'Italia e lo Statuto del Regno.

Art. 2. Tutti i Municipii del Regno festeggeranno questo giorno, presi gli opportuni accordi colle autorità governative.

Art. 3. I Municipii stanzieranno nei loro bilanci le spese occorrenti alla celebrazione della festa.

Art. 4. Tutte le altre feste, poste per disposizione di legge o dal Governo a carico dei Municipii, cessano di essere obbligatorie.

Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare.

Dal. in Torino, addì 5 maggio 1861.

VITTORIO EMANUELE.

M. MINGHETTI

LA FESTA NAZIONALE

DELL'UNITA' D'ITALIA E DELLO STATUTO

(Pubblicato l'8 e l'11 maggio 1860).

1.

Questione Atmosferica.

Nel N. 109 dell'armonia abbiamo riferito la legge del 5 di maggio 1861, là quale, in nome d'Italia-e della libertà, obbliga tutti i Municipii del Regno a festeggiare nella prima domenica del mese di giugno di ogni anno una Festa Nazionale per celebrare l'Unità d'Italia e lo Statuto del Regno. Ora gioverà discorrere alquanto di questa festa, della cui istituzione parlerà certamente la storia. Ma non è libero ad un giornalista il censurarla, giacchè quando «il Senato e la Camera dei Deputati hanno parlato», la lite è finita. Ci sarà permesso tuttavia di metterci davanti gli Alti Ufficiali del Parlamento e ripetere altalenera ciò che dissero i Deputati ed i Senatori.

Noi giudichiamo della massima importanza il registrare certe confessioni degli onorevoli legislatori. Il 5 di maggio del 1851 pubblicavasi in Piemonte una legge che imponeva al nostro popolo di celebrare la festa dello Statuto. Questa legge diceva all'articolo 2»: «Tutti i Municipii dello Stato celebreranno la festa nazionale, presi gli opportuni concerti colle autorità ecclesiastiche per la funzione religiosa». Nelle discussioni che ebbero luogo in Parlamento si era ripetutamente dichiarato che quest'articolo non obbligava il Clero a cantare, né a festeggiare. Tuttavia, nel 1860, Cardinali, Vescovi, Vicari generali, Parrochi vennero imprigionati, processati, condannati perché non vollero celebrare la festa dello Statuto.

Il Governatore delle Romagne, il 4° di febbraio del 1860, avea decretato: «Si manda pubblicare la legge 5 maggio 1851 relativa alla festa dello Statuto». Venuto il giorno di questa festa, l'egregio Vicario Generale di Bologna Monsignor Rata non si sentì in coscienza di poterla celebrare, e fu arrestato, e fu processato, e fu condannato il 4 di luglio del 1860 a tre anni di carcere ed alla multa di lire duemila,

— 38 —

«considerando, diceva la sentenza, che le autorità tutte ecclesiastiche e municipali debbono prestarsi alla celebrazione della funzione religiosa per la festa dello Statuto». Il primo frutto della libertà che entrasse in Romagna fu d'imprigionare chi non volea festeggiare la libertà!

Ora si riconosce che quelle condanne non andavano bene. Il ministro Minghetti non potè biasimare nelle Camere que' Vescovi e que' Parrochi, alla cui coscienza ripugnava «di offerire preghiere a Dio in favore di un Governo, e per la conservazione di un ordine di cose, al quale forse nell'intimo del loro cuore ripugnavano». Anzi il Ministro dovette riconoscere che i processi fatti per ciò contro quei Vescovi e contro que' Parrochi produssero conseguenze deplorabili sotto il punto di vista morale, e che ferivano la coscienza di molti cittadini (1). Per la qual cosa propose una nuova legge, che, tolta ogni obbligazione al Clero, la lasciasse intera ai Municipii.

Questa legge fu discussa primieramente dal Senato del Regno nella tornata del 20 di aprile 1861. La discussione fu breve. Il Senatore Chiesi parlò il primo e disse: «Il silenzio del Clero nel progetto di legge fa sì chela festa nazionale non sia obbligatoria per le autorità ecclesiastiche» (Atti Ufficiali del Senato, N. 36, pag. 118). Però il Senatore Chiesi voleva che la legge fosse obbligatoria per la Guardia Nazionale e per gli studenti. Ecco le sue parole.

«lo credo che importi il dichiarar francamente ed esplicitamente che tutte le autorità sì civili che militari, la Guardia Nazionale, i corpi dell'esercito ed in special modo il corpo insegnante e gli studenti debbano concorrere a questa festa nazionale. Dico che importa che anche il corpo insegnante e gli studenti concorrano a questa festa nazionale. La scolaresca è il fiore e la speranza dei popoli, e lo è molto più la scolaresca italiana che, nelle sante guerre della nostra indipendenza, diede sì luminose prove di abnegazione, di carità patria, di eroismo».

Ma la festa cessando di essere religiosa non si sapeva che cosa fosse, e dove dovesse consistere. Il senatore Alfieri notò che in alcuni luoghi «le feste non saranno altro che un'illuminazione o qualche cosa di simile. Che cosa s'intenderà allora per questo concorso di tutte le autorità, della Guardia Nazionale, ecc. ? Che debbano andare in giro a visitare l'illuminazione?»

Né parve giusto al senatore Montanari che i magistrati nella festa dell'unità italiana e dello Statuto andassero vestiti in toga a passeggiare per la città e a contare i lumi delle finestre. Il Montanari diceva:

«II Ministero nella sua relazione indicava che sarebbe una festa civile-politica; indicava che poteva questa festa consistere in riviste di truppe, in tiro al bersaglio, in mostre di belle arti, od in mostre d'industria; quindi gli pareva che essendo di tal natura la festa, e variando secondo i luoghi ed i Municipii, non si potesse richiedere che i magistrati ed i professori intervenissero in toga a manovre militari, esercizi di tipo militare, o simili; né sapeva intendere come i magistrati in corpo ed in toga potessero partecipare ad una mostra di belle arti, di industrie, o che so io». A queste poche parole si ridusse tutta la sostanza della discussione di quel Senato, in cui sono raccolti i lumi dell'intero regno d'Italia una ed indivisibile.

(1) Atti Uff. della Camera dei Deputati, N" 106.

— 39 —

Non fu l'atta variazione di qualche importanza al disegno ministeriale, e venne approvato con 72 voti favorevoli e 7 contrari su 79 Senatori votanti.

Di maggior momento fu invece la discussione che ebbe luogo il 7 di maggio nella Camera dei Deputati, dove, a proposito del Regno d'Italia, si parlò molto del vento e della pioggia. Il Fischietto del 7 di maggio trasse argomento da quella tornata d'un suo primo-Torino e compendiò la tornata «nella quale trattandosi di festeggiare l'unità d'Italia e lo Statuto del Regno, si convenne dalla maggioranza nel desiderio lodevolissimo d'essere meno bagnati».

Il timore del bagno fu un argomento che potè assai sull'Assemblea. La discussione si può dividere in tre parti, parte atmosferica, parte politica e parte religiosa. Riservandoci a dire in un prossimo articolo delle ultime due parti, in questa discorreremo della prima. Per una fatalità che diè molto a pensare, tutti gli anni il giorno della festa dello Statuto, e principalmente nel momento della funzione religiosa, veniva giù l'acqua a scrosci. I giornalisti che avevano preparato un articolo sui bel sole d'Italia, si trovavano in fin dei conti con un pugno di mosche.

Un anno gli accorsi alla festa dello Statuto essendosi molto inzaccherati, l'Armonia ne fe' cenno in un suo articolo, e s'ebbe un processo con multa e prigionia; e i nostri avversari ci appiccarono il titolo di giornale di Fango. Pazienza! Da quel giorno in poi, noi parlando della festa dello Statuto, dicevamo sempre che v'era stato qualche onorevole bagnato, ma che l'avea bagnata il sole!

Intanto cotesta faccenda della pioggia seccava i precordi agli italianissimi, ed era già stata presentata alla Camera una petizione, perché togliesse la festa dello Statuto dalla seconda domenica di maggio, affine di provare se il mese di giugno volesse mostrarsi un po' più italiano. Colta questa opportunità della festa sull'unità d'Italia, il mese di maggio fu esautorato, e trasportata la festa al giugno successivo. L'onorevole Deputato Mauro Macchi, il 3 di maggio, così parlava della pioggia reazionaria, secondo gli Atti uff. della Camera, N. 106, pag. 390:

«Il fatto costante ha provato che in quella seconda domenica di maggio in questi paesi piove (Ilarità). È un fatto costante, e siccome vi sono dei nemici maligni e superstiziosi, ad ogni anno bisognava sentirsi ripetere: Ha piovuto! Ha piovuto 1 (Ilarità generate}.

«La cosa avvenne con una costanza tale, che coloro i quali hanno tenuto dietro alle discussioni dell'antico Parlamento subalpino devono ricordarsi come buona parte dei Deputati, nell'occasione in cui fu sporta al Parlamento una petizione in proposito, ne fece soggetto di grave discussione. Tuttavia fu deciso che, malgrado la pioggia, non conveniva scegliere un altro giorno; perché, si disse, se mai per disavventura cambiando il giorno della festa avvenisse che in quel giorno piovesse pur sempre, ciò darebbe maggior ansa ai superstiziosi nemici nostri di far troppe risa e di annoiarci con troppo grossolani sarcasmi.

Per il che, se io fossi stato allora deputato, avrei anch'io votato contro quella proposta.

— 40 —

«Ora però il Governo non è vincolato da questo precedente, esso vuole fare una festa nuova; non è più una festa subalpina, è una festa italiana. Essendo libero, esso ha scelto un altro giorno. E poiché sappiamo che nella seconda domenica di maggio di solito cadono le piogge primaverili, fu scelta la prima domenica di giugno. Certo è che eziandio in questa prima domenica di giugno può piovere, ma scema il pericolo a misura che noi ci scostiamo da quell'epoca impropizia».

Questa ragione della pioggia, questa esperienza di tredici anni fu pur toccata dalla Giunta che esaminò il progetto di legge, Giunta composta dei deputati Acquaviva (nome significante trattandosi della pioggia!), Menichetti, Leopardi, Mureddu, Atenolfi, Negrotto, Barracco, Ferrari e Macchi. Questi onorevoli dissero così:

«Le antiche provincie subalpine usavano festeggiare nella seconda domenica del maggio quello Statuto, di cui esse prime ebbero la fortuna di godere i beneficii, e che ora divenne la legge fondamentale della già emancipata Italia.

«Ma un'esperienza di tredici anni provò tale stagione meno propizia a feste popolArt. Per il che, potendo ora gl'Italiani festeggiare, non soltanto Io Statuto che li fa liberi, ma eziandio que' mirabili fatti che complessivamente concorsero a raccoglierli quasi tutti in una sola famiglia, il Governo stimò più opportuno stabilire per tale solennità la prima domenica del giugno».

Tuttavia il mese di maggio ebbe un difensore nella Camera, e questi fa il deputato Chiaves che si dichiarò contro il mese di giugno. Ecco la sua apologia del mese di maggio.

«Si portò la ragione, e l'ho veduta citata dalla Commissione, la ragione meteorologica, atmosferica; si dice: in maggio piove (Ilarità), o minaccia di piovere; ma potrà piovere anche in giugno; ma piove in maggio più facilmente, sembra dire l'onorevole Marchi nella sua relazione (Si ride).

«lo a questo riguardo debbo osservare-che negli anni scorsi si è sempre temuto che le vicende atmosferiche si sarebbero opposte all'effettuazione di questa festa, ma non vi si sono opposte mai, e tutto ciò che si doveva fare si è sempre fatto; vi è stata qualche minaccia di pioggia, ma ciò poco monta. e poi non è questa una ragione per cui si debba festeggiare l'unità d'Italia alla prima domenica di giugno, quando in questo giorno non vi è alcun fatto speciale che debba essere commemorato, e l'unità non è compiuta. Piova adunque, o minacci di piovere, preferirei sempre, allo stato delle cose, il nulla innovare a questo proposito».

Tra il deputato Chiaves e il deputato Macchi che battagliavano l'uno pel mese di maggio, e l'altro pel mese di giugno, sorse il deputato Bruno e propose che la festa dell'unità d'Italia e dello Statuto non si accordasse né a maggio, né a giugno, ma al mese di marzo. «Propongo alla Camera, disse egli, il deferimento di questa solennità all'epoca di marzo». E il deputato Bruno esponeva alla Camera le seguenti ragioni in favore del suo marzo prediletto:

«O signori, conveniamo che, se la parte settentrionale dell'Italia trova utilissimo che nel mese di giugno si faccia questa festa, ricordiamoci che abbiamo

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nelle estremità meridionali della Penisola terre quasi africane, dove nel mese di giugno vi è un caldo da morire (Ilarità}. Ricordiamoci che a Roma dove noi dobbiamo andare ed andremo, nel mese di giugno l'aria non è al certo balsamica».

Così mentre si vuole istituire una festa per celebrare l'unità d'Italia, ne' trecento sessantacinque giorni dell'anno non si trova un giorno solo, in cui l'Italia sia una, perché quando fa caldo in un luogo, fa freddo nell'altro; quando il cielo è sereno di qua, piove di là; e le stagioni in Torino hanno un corso diverso dalle stagioni di Roma e di Napoli.

Intanto il mese di giugno sbaragliò i mesi di marzo e di maggio, e la questione atmosferica fu vinta dal primo. Tratteremo domani della questione politica.

II.

Questione politico-religiosa.

Il primo Parlamento d'Italia, ricco di tanti ingegni, di tanti politici e di sì profondi pensatori dopo d'aver lungamente disputato se la festa dell'unità d'Italia si dovesse stabilire in maggio, in giugno o in marzo, e in quale di questi tre mesi piovesse meno, passò a considerare l'istituzione della festa medesima sotto il rispetto religioso e politico.

Il deputato Chiaves parlò il primo, e alcune parti del suo discorso vogliono essere riferite secondo gli Atti ufficiati della Camera. «Signori, disse il Chiaves, l'unità d'Italia non è perfetta, e non si sa il perché noi dovremo celebrarla» (Atti Uff. N. 105, pag. 388).

Abbiamo letto or ora una bella definizione di quest'unità d'Italia, di cui venne istituita la festa. Il signor Guerrazzi in un discorso detto a Quarto, il 5 di maggio, nella festa anniversaria della partenza di Garibaldi per la Sicilia, diceva così: «Questa, che adesso comparisce unita, non è Italia, bensì aggregato di popoli simile affatto al cumulo del grano su l'aia della villa, dove gli uccelli beccolano, e le formiche portano via» (Diritto, N. 129, 10 maggio). E quanti uccelli beccolano, quante formiche portano via in questa nuova Italia! L'uccello Bastogi, che ci ha l'aria d'uno sparviero, porta via a 700 milioni per volta!

Il Chiaves non sapeva capire la legge che stabilisce la festa dell'unità d'Italia: e Una leggo, diceva egli, la quale venga a stabilire una festa nazionale in un determinato giorno, al qual giorno non si riporti, né uno speciale voto, né un sentimento, né un affetto del popolo, mi sembra, mi si perdoni, di vedere una legge, la quale comandi una manovra, anziché stabilire una festa popolare; ond'è ch'essa non è punto nel vero e nel ragionevole.

«Il signor ministro probabilmente, pensando di fare una festa nazionale, ha preso il calendario tra le mani, l'ha percorso, e, giunto alla prima domenica di giugno, gli sarà balenato un pensiero color di rosa, ed avrà detto fra sé: questo è appunto il giorno in cui voglio si stia di buon umore dalle Alpi al Lilibeo (Ilarità)» (Atti Uff. N. 106, p. 289).

E qui sopraggiunse nella Camera una seria disputa se la pace di Villafranca fosse avvenuta in giugno od in luglio. Raccogliamo dagli Atti Ufficiali quest'importante discussione.

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Chiaves. e Se non vado errato, nel mese di giugno ebbero luogo i preliminari del trattato di Villafranca.

Voci. Noi no! In luglio.

Chiaves (Rivolto ad alcuni deputati}. In luglio il trattato, ma i preliminari ebbero luogo in giugno.

Presidente. La prego di parlare alla Camera.

Foci. No! no! Non è in giugno.

Chiaves. Sbaglierò; ad ogni modo non credo che vi sia in ordine a questo mese di giugno un fatto, al quale possano tutti i popoli d'Italia annettere un concetto che rechi la necessità di questa festa della prima domenica del mese».

Del reato la legge non accenna a nessuna festa religiosa. E di ciò fortemente lagnavasi il deputato Chiaves.

«Si vuole che non s'accenni in questo progetto di legge ad una funzione religiosa? E come si può comprendere che le popolazioni d'Italia diano una importanza essenziale e quale si merita a questa festa, non accennando pure nella legge ad una funzione religiosa?

«Si vuole che in un determinato giorno tutto il popolo si concentri con una certa solennità nel concetto dell'indipendenza nazionale ricuperata. Ma, signori, non è una stilata di Guardia Nazionale, non è un fuoco artificiale, e non è una corsa di cavalli ove il popolo potrà raccogliersi, concentrarsi a quel modo e riflettere a tutto che vi è di solenne in questa commemorazione, ma tutti i suoi sentimenti si sentiranno scossi nell'affetto di patria, quand'egli assisterà ad una funzione religiosa» (Atti Uff. I. e.)

Il sig, Gallenga trovò un po' di contraddizione nel conte di Cavour, che una volta supplicava il Papa Pio IX perché abolisse una parte delle nostre feste, ed ora ne stabilisce delle nuove, e lagnossi che le feste abolite sieno tuttavia in molti luoghi ancor celebrate per rendere omaggio al Papa che ne dava il consiglio. Udite il Gallenga:

«Uno dei difetti gravi degl'Italiani è quello di amare soverchiamente le feste. Abbiamo memoria di tempi non remoti in cui in Italia, ed anche al giorno d'oggi in alcune parti d'Italia, tra le feste religiose e le altre, restava assorbito un terzo dell'anno. In Piemonte si sono abolite, di consenso colla Chiesa, alcune feste religiose, per cui si è ridotta la cosa ad una condizione comportevole; io domando, a coloro che conoscono il paese, se l'abolizione delle feste religiose in tutte le parti del Piemonte sia stata messa in esecuzione. Nel Piemonte si onorano le feste che il Governo permette, ma in altre parti dello Stato, e sopratutto nella Liguria, bene spesso si celebrano quelle feste le quali furono abolite» (Atti Uff. N. 106, pag. 390).

Il deputato Michelini non seppe capire in che cosa consisterebbe la festa dell'unità d'Italia, e trovò la legge incongruente.

«Esaminiamone gli articoli, disse egli. Il primo dice che si farà una festa; ma in che cosa consisterà questa festa? Il dire unicamente che si farà una festa, secondo me, è dire niente; è locuzione priva di senso. L'articolo 2° dice che i municipi del regno festeggeranno questo giorno, presi gli opportuni concerti colle autorità governative. Domando anche qui in che cosa consisterà questo festeggiamento. Quale sarà la norma secondo cui si giudicherà se i comuni avranno adempiuto al precetto?

— 43 —

E quale opinione potremo noi formarci di una prescrizione legislativa che è mancante di sanzione, che non puossi nemmeno sapere se sia stata violata o no? Finalmente l'articolo 3" dice che si stanzieranno fondi ne' bilanci comunali per celebrare la festa. Ma anche questo è dir niente, finché non si stabilisca quali somme debbano essere stanziate da ogni comune, sia dividendoli in categorie, sia in altra guisa; perché altrimenti pochi soldi basterebbero per soddisfare al prescritto della legge».

E poi il deputato Michelini venne fuori con un argomento cornuto che merita d'essere riferito, ed è il seguente:

«Del resto, il desiderio dell'unità e l'amore allo Statuto sono radicati nel cuore o nonio sono. Nel primo caso le feste sono inutili, nel secondo non giovano a far nascere quell'amore e quel desiderio! Forse che le famose feste di luglio hanno prolungato di un'ora il regno di Luigi Filippo in Francia? Per altra parte la libertà durò inconcussa in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1688 senza la necessità delle feste. Conchiudo dicendo doverci respingere ogni festeggiamento obbligatorio; ma doversi lasciare agli individui ed ai comuni la libertà di celebrare la festa se, quando e come vogliono».

Finalmente il deputato Alfieri fe' qualche buona osservazione sull'obbligazione di celebrare una festa in onore della libertà. Ecco le sue parole:

«Le feste, o signori, non si creano, esse sono l'espressione dei sentimenti popolari, e perciò io credo che, se vi ha una violenza veramente inqualificabile fatta contro la libertà degl'individui, è quella d'imporre loro un sentimento a giorno ed ora fissa. Se ho veduto con rammarico in molte circostanze vincolata la manifestazione del pensiero, finora non aveva ancor veduto imporre che in un tal giorno gl'individui debbano pensare ad una tal cosa, e pensarci con allegria e manifestarvi il loro giubilo (Bisbigli).

«Certamente, trattandosi di una festa pubblica, sarebbe più naturale che si stabilisse di comune consenso un giorno, ma se si riguarda al principio, credo non si sia mai portato tant'oltre la violazione della libertà; perciò io credo che violare la libertà del sentimento sia la maggiore delle infrazioni delle libertà umane».

E noi conchiuderemo quest'articolo riassumendo le considerazioni degli onorevoli. Dalle quali risulta:»,

1° Che si celebra la festa dell'unità d'Italia senza che l'Italia sia unita;

2° Che la festa dell'unità d'Italia è una festa libera, ma una festa obbligatoria;

3° Che coloro i quali non osservano e non fanno osservare le feste della Chiesa, votano leggi per istabilire feste politiche;

4° Che si reputa necessaria una legge per obbligare il popolo d'Italia a festeggiare ciò che si dice essere il suo voto e le sue aspirazioni di tanti secoli;

5° Che in nome della libertà si comanda perfino l'allegrezza; e si viola la libertà del sentimento;

6° Che, come diceva il deputato Michelini «le famose feste di luglio non hanno prolungato d'un'ora il regno di Luigi Filippo in Francia».

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LA FRANCIA E IL REGNO D'ITALIA

(Pubblicato il 14 giugno 1861).

Fu detto e ridetto dai giornali e dal telegrafo che Napoleone III è presso a riconoscere il regno d'Italia. Questa notizia sarà? può essere? E desiderabile che sìa? Ecco alcune domande, a cui daremo una breve risposta.

Il cosi detto regno d'Italia ha Roma per capitale, come fu definito in tre tornate dalla Camera di Torino. Se Napoleone III riconosce il regno, riconosce anche la capitale, e deve ritirare le sue truppe da Roma. Ma questo sarà? A noi sembra di no. Se Napoleone lo volesse, la Francia non lo permetterebbe. Dopo il richiamo delle truppe francesi dalla Siria, il Bonaparte sarebbe spacciato se lo richiamasse anche da Roma.

Di poi la ricognizione del regno d'Italia da parte della Francia trarrebbe con sé l'aperta distruzione dei preliminari di Villafranca e del trattato di Zurigo. Or bene Napoleone III avrà dei colloqui a Plombières, dei convegni coi Pepoli, coi Cipriani, coi Nigra, darà delle licenze a Farini ed a Cialdini in Ciamberì, ma cercherà sempre di mettersi al coperto, e di poter dire nel Moniteur. — Io non ho fatto nulla; sono stato fedele alla mia parola; e deploro tutto ciò che è avvenuto. —

Inoltre la ricognizione del regno d'Italia servirebbe ad emancipare gl'Italiani dalla Francia, e Napoleone III non vuole, perché desidera d'avere in pugno le sorti della penisola, ordinarvi i ministeri, prescrivervi le leggi, comandarvi a bacchetta, e ora dire alla rivoluzione: Ti abbandono. — Ora minacciare all'Europa di scatenarle contro la rivoluzione.

E finalmente il Bonaparte nella sua accortezza è stato il primo a richiamare da Torino il suo ambasciatore, e vorrà essere certamente l'ultimo a farsi rappresentare nel Regno d'Italia, dopo la Russia, dopo la Prussia, dopo la Spagna, è diremmo quasi, dopo l'Austria. Possiamo andare errati ne' nostri pronostici, ma non crederemo che Napoleone III riconosca il regno d'Italia, se prima noi veggiamo riconosciuto dal Governo austriaco. È possibile che questo avvenga?

Il regno d'Italia non si è trovato mai in termini così deplorabili come presentemente, senza danari, senza uomini, con tante reazioni e tanti disordini a Milano, a Firenze, a Pisa, a Napoli, in Sicilia. E volete che Napoleone III colga appunto quest'occasione per riconoscerlo? In tal caso egli direbbe chiaro e tondo: ecco l'opera delle mie mani. E il Bonaparte non l'ha mai detto, e noj dirà.

La Francia non si è trovata mai in condizioni così pericolose come oggidì: dissesti finanziari, malcontento generale, l'opposizione che leva il capo dappertutto, le passioni scatenate, i partiti pieni di speranze e di ardimenti, l'Europa sospettosa e colla mano sull'elsa della spada. E volete che il Bonaparte cresca ancora questo cumulo d'impicci, riconoscendo il nuovo regno?

Finché il regno d'Italia non è riconosciuto dalla Francia, questa può sempre sperare un ingrandimento simile a quello di Nizza e Savoia.

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E queste speranze Napoleone II I non le vuole distruggere, perché lusingano l'amor proprio dei Francesi, e gli servono molto pei suoi fini.

L'Inghilterra ha riconosciuto il Regno d'Italia per imbrogliare la Francia, perché gl'Inglesi fanno sempre tutto l'opposto dei Francesi; e se Napoleone III si piegasse a riconoscere egli pure il nuovo Regno, sarebbe tenuto in conto di una seconda disfatta nel campo diplomatico, simile a quella toccata nella questione della Siria.

Per tutte queste ragioni può dirsi che il Regno d'Italia non sarà tanto presto riconosciuto dal Buonaparte. E se lo fosse non sarebbe poi un gran danno pei conservatori, giacché allora si saprebbe cho cosa pensa e che cosa vuole Napoleone II I; e certe persone cessano di essere formidabili quando sono conosciute.

NAPOLEONE III

può riconoscere il Regno d'Italia?

(Pubblicato il 18 giugno 1861).

Domenica, 16 di giugno, anniversario dell'elezione di Pio IX, dovea pubblicarsi dal Moniteur di Parigi l'atto di riconoscimento per parte di Luigi Napoleone del nuovo regno d'Italia colle Romagne, le Marche, l'Umbria, e Roma capitale. In Torino si aspettava l'arrivo del conte Vimercati, latore di questo documento, e un telegramma che lo manifestasse all'Europa. Non sappiamo se il Vimercati sia giunto, né se il Bonaparte abbia riconosciuto il regno d'Italia. Il telegrafo finora ha conservato il silenzio su questo punto.

Sebbene da tre anni in qua siamo avvezzi a vederne di tutti i colori, e più d'una volta ci avvenga di disapprovare altamente la politica dell'Imperatore dei Francesi, tuttavia non abbiamo così sinistro concetto di lui da credere al riconoscimento annunziato, se prima non ne abbiamo sotto gli occhi le prove. Dov'egli riconoscesse, anche di fatto semplicemente, il nuovo regno d'Italia, certe sue dichiarazioni darebbero luogo alla più sinistra interpretazione.

Lasciamo stare ciò che scrisse il sig. Rouland, ministro dell'istruzione pubblica e dei culti sotto la data del 4 di maggio 1859: «II Principe (Napoleone III) che dopo i tristi giorni del 1848 ricondusse il Santo Padre al Vaticano, è il più fermo sostegno dell'unità cattolica e vuole che il capo supremo della Chiesa sia rispettato in tutti i suoi diritti di sovrano temporale». Lasciamo stare ciò che il signor Thouvenel, ministro di Napoleone II I sopra gli affari esteri, il 24 di febbraio del 1860, scriveva al signor di Talleyrand, disapprovando le annessioni della Toscana e delle Romagne: «Io mi limito a dirvi per ordine dell'Imperatore, che noi non consentiremo per verun prezzo ad assumere la risponsabilità di una simile situazione».

Lasciamo stare ciò che lo stesso ministro Thouvenel, il 22di agosto del 1860, scriveva al conte di Persigny, ambasciatore francese a Londra: «La crisi che traversano gli Stati del sud dell'Italia ha questo di particolare, che essa mira non a riformarli ma a distruggerli, confondendoli in una unità che sembrano rigettare le loro tradizioni e la loro istoria,

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e che tocca per ciò interessi che riguardano l'Europa del pari che la stessa Penisola».

Lasciamo stare queste e molte altre citazioni, e occupiamoci soltanto del richiamo del ministro francese da Torino. Il 14 settembre del 1860 il Moniteur scriveva: «In presenza dei fatti che sonosi or ora compiuti in Italia, l'Imperatore ha deciso che il suo ministro lascierebbe immediatamente Torino». I fatti a cui accennava il Moniteur erano l'invasione delle Marche e dell'Umbria senza dichiarazione di guerra, e con que' procedimenti che tutti conoscono.

Ora si tratta di rimandare a Torino il Ministro francese. Ma sono cessate forse le cause per cui venne richiamato nel settembre del 1860? Chi comanda tuttavia nelle Marche e nell'Umbria? La Patrie del 45 di giugno in un articolo riferito dal Moniteur dice: «La ripresa delle relazioni diplomatiche con Torino non implicherebbe per parte della Francia riguardo alla politica del regno italiano alcun giudizio sul passato, né alcuna solidarietà per l'avvenire».

Ma il giudizio sul passato venne già proferito solennemente dalla Francia. Essa richiamò per la prima il suo Ministro da Torino, e die quel giudizio di disapprovazione più grave che si conosca nel diritto internazionale. Se il Ministro francese ritorna, restando integri que' fatti in conseguenza de’ quali venne richiamato, bisogna dire che la Francia si perite di quel richiamo, e dichiara di aver avuto torto quando disapprovò di questa guisa le invasioni delle Marche e dell'Umbria.

Non dissimuleremo che fin dal 14 di settembre del 1860 certi nostri periodici dicevano che Napoleone III avea richiamato per burla il suo Ministro da Torino. Il Diritto di quel giorno scriveva che il nostro Gabinetto rispondeva alla Nota della Francia, con cui richiamava il suo Ministro da Torino «invocando a suo favore gl'incoraggiamenti avuti nella visita del ministro Farini all'Imperatore in Ciamberì».

E la Gazzetta di Torino, N° 258 del 16 di settembre 1860, pubblicava il seguente pungentissimo epigramma: «Cavour e il ministro di Francia Talleyrand in palchetti distinti assistevano ieri sera allo spettacolo del Carignano». E si capiva che cosa volesse significare la presenza in teatro di questi due signori il giorno dopo la rottura tra il Piemonte e la Francia!

E finalmente l'Unità Italiana del 16 di settembre 1860 aveva l'audacia, la sfrontatezza di scrivere: «II richiamo dell'ambasciatore (di Francia) entra sì o no nella commedia diplomatica, e deve considerarsi come un atto serio o Uh atto per ridere? Noi non pretendiamo scendere nell'abisso di questa tortuosa diplomazia bonapartista senza franchezza e senza principii, che ieri ancora avea vanto di allo concetto, ed oggi ridotta all'isolamento, e, non trovando più fede in anima viva, si chiama semplicemente miserabile intrigo».

Ma i giornali che parlavano cosi erano e sono avversi a Napoleone III. Noi che gli siamo amici, e ben lo sanno i nostri lettori, possiamo credere a queste commedie, a queste versatilità, a questi raggiri? No certamente, epperò non possiamo credere nemmeno al riconoscimento del regno d'Italia da parte della Francia.

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È vero che il sig. Plicon, il 12 di marzo del 1861, ha detto al corpo legislativo, e fu riferito dal Moniteur: e Le nom de Napolèon est pour l'Europe aujourd'hui une source de défiance». Ma appunto per ciò Napoleone HI non vorrà aggiungere agli antichi, nuovi argomenti di diffidenza. È vero che il marchese di Boissy, senatore dell'Impero, ba ricordato al Senato ciò che del terzo Bonaparte dicono gli Inglesi: «Cet nomine ne parle jamais, mais il ment toujours». Ma appunto perciò gli Inglesi si avranno da Napoleone una solenne smentita, e mostrerà loro ch'egli pensa nel giugno del 1861 come pensava nel settembre del 1860.

È vero che il duca d'Aumale nella sua famosa Lettera sulla Storia di Francia scrisse: «L'exécution rigoureuse des engagements pris ne péut compter parmi les vertus doni la t'ami Ile Bonaparte doit nous presenterà touchant faisceau». Ma il duca d'Aumale questa volta sarà smentito dalla fermezza del terzo Bonaparte sulle cose d'Italia.

Noi non abbiamo dimenticato una lettera, che Luigi Napoleone scriveva al suo Caro Persigny, sotto la data di St-Cloud, 29 di luglio 1860; un mese e mezzo prima del richiamo da Torino del ministro francese, e Mio caro Persigny, diceva la lettera: le cose mi sembrano così imbrogliate, grazie alla diffidenza seminata dappertutto dopo la guerra d'Italia, che vi scrivo sperando che una conversazione a cuore aperto con lord Palmerston rimedierà al male presente. Lord Palmerston mi conosce, e quando affermo una cosa mi crederà... Intendiamoci lealmente come onesta gente che noi siamo, e non come ladroni che vogliono ingannarsi a vicenda?». Ecco il vero programma di Napoleone III lealtà, onestà, fedeltà, sincerità, veracità.

Alcuni, è vero, fanno su questo punto qualche obbiezione e si compiacciono di ricordare, esempligrazia, il giuramento prestato da Luigi Napoleone il 20 di dicembre del 1848 davanti l'Assemblea Nazionale: «Alla presenza di Dio, e davanti il popolo francese rappresentato dall'Assemblea Nazionale, giuro di rimanere fedele alla repubblica democratica una e indivisibile». Ma scia repubblica una e indivisibile fu poi distrutta dal Bonaparte, egli ci fu tratto pei capelli, e chi sa quanto costasse all'animo suo!

Napoleone III non volea essere Imperatore. «Je suis citoyen avant d'étre Bonaparte» scriveva a Ham nel 1841 (Vedi Fragments historiques). «Non ho mai creduto e non crederò giammai che la Francia sia l'appannaggio d'un uomo e d'una famiglia»: dichiarava in un giornale intitolato; Progrès du Pas-de-Calais, N. del 28 ottobre 1843, in un articolo intitolato: Profession de fois démocratique du prince Napoléon-Lows Bonaparte. E il 28 agosto del 1848, in una lettera al gen. Fiat scriveva: «non veggo il momento di rientrare in Francia e di sedermi in mezzo ai rappresentanti del popolo che vogliono ordinare la repubblica su basi larghe e solide». E il 26 di settembre del 1848 diceva all'Assemblea Nazionale: «nessuno qui è più di me risoluto alla difesa dell'ordine e al rassodamento della repubblica». E perfino il 2 dicembre 1851 parlava così al popolo francese: «oggi che gli nomini, i quali hanno perduto due monarchie vogliono legarmi le mani per rovesciare la repubblica, è mio dovere di sventare i loro perfidi disegni e mantenere la repubblica».

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Che se ciò non ostante la repubblica cadde, fu effetto delle circostanze e volontà del popolo francese, a cui Napoleone III dovette cedere. Ma egli Don cederà in faccia ai Ricasoli e compagnia. Ma condannato l'invasione delle Marche e dell'Umbria, ha sottoscritto i trattati di Villafranca e di Zurigo, e l'Imperatore non verrà meno alla sua parola. Egli ha scritto fin dal 1832 all'indirizzo di Luigi Filippo: «Il mal essere generale che si nota in Europa viene dalla poca confidenza che i popoli hanno nei loro Sovrani. Tutti hanno promesso, nessuno ha mantenuto la promessa». È vero che il Bonaparte scriveva questo in un libro intitolato: Reveries politiques; ma i sogni questa volta saranno realtà; e Napoleone III farà in guisa che Pio IX. sia rispettato in tutti i suoi diritti di Sovrano temporale, come ha promesso nel 1859.

IL DANARO D'ITALIA

(Pubblicato il 9 giugno 1861).

Il deputato Ricciardi ha proposto alla Camera un disegno di legge per aprire una sottoscrizione nazionale sotto il nome di Danaro d'Italia, alfine di coadiuvare all'armamento nazionale, soccorrere i feriti, e pagare tutto ciò che e necessario per la fabbrica... italiana. Ecco il suo disegno follo dagli. Atti uff. della Camera, N° 460, pag. 601.

«Art. 1. Una sottoscrizione nazionale, col titolo Danaro d'Italia, sarà aperta, dal giorno della promulgazione della presente legge, in tutti i comuni del regno, coll'unico scopo di aiutare il Governo nel compimento dell'impresa Italiana.

«art. 2. 1 nomi de’ sottoscrittori saranno registrati nella Gazzetta ufficiale del Regno.

«Art. 3. Alla fine di ciascun mese il Danaro d'Italia raccolto nella cassa di ogni comune, sotto la responsabilità dei magistrati municipali, sarà versato in quella della ricevitoria generate d'ogni provincia.

«Art. 4. Meta delle somme raccolte sarà posta ad esclusiva disposizione dei ministri di guerra e marineria militare.

«Art. 5. Coll'altra meta sarà costituita una cassa o tontina a beneficio di quanti furono o saranno feriti nelle patrie battaglie e delle famiglie di morti in guerra; cassa o tontina, il cui regolamento sarà sempre compilato per cura della potestà esecutrice.

«Art. 6., La sottoscrizione del Danaro d'Italia non sarà chiusa che un anno dopo la liberazione ed unificazione intiera dell'italiana Penisola» cioè il dopo pranzo del giudizio universale!»

Nella tornata del 17 di giugno il Ricciardi svolse il suo disegno. La ragione principale che egli addusse fu questa. Abbiamo il Danaro di S. Pietro: dunque vi dee essere il Danaro d'Italia. Guai all'Italia, esclamò l'oratore, se fossero necessarie molte parole per sostenere la mia proposta. Guai se il Danaro d'Italia non fruttasse maggiori somme che il Danaro di S. Pietro!

La proposta del Ricciardi venne combattuta dal deputato La Farina e rigettata dalla Camera; e questo per due motivi; perché non sarebbe onorevole per un Parlamento il promuovere una pubblica sottoscrizione, e perché l'Europa resterebbe altamente scandalizzata qualora una sottoscrizione promossa dalla Camera non corrispondesse all'aspettativa.

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E la Camera operò prudentemente, laddove il Ricciardi fu salutato da un giornale libertino come uomo di un'ingenuità antidiluviana, anzi preadamitica, E fu ingenuo davvero, perché suppose che una Camera di Deputati potesse mettersi a confronto del Papa; che la rivoluzione potesse operare quei miracoli di carità e di disinteresse prodotti dal cattolicismo; che i popoli italiani fossero contenti di questo stato di cose e volessero sostenerlo con ispontanee oblazioni. II 20 di maggio il deputato Ricciardi parlava alla Camera, e diceva che, essendo ritornato in Napoli dopo poche settimane di assenza, più non la riconobbe «tanto la trovo squallida e mesta», che vide cola «grandi mali, malcontento generale, malcontento profondo, lamento perenne, stato di miseria profonda, penuria estrema». E poi il 17 di giugno il Ricciardi chiedeva a Napoli il Danaro d'Italia! Oh ingenuità antidiluviana!

Il 20 di maggio il Ricciardi vedeva nel regno di Napoli miseria, ingiustizia malversazione, uno stato di cose intollerabile; le finanze assai bistrattate e un esercito di ladri (1). E ventisette giorni dopo il Ricciardi traeva fuori colla sua proposta del Danaro d'Italia! 0 ingenuità preadamitica!

Il Danaro di S. Pietro venne da se, e non ebbe bisogno di nessun Deputato che lo sostenesse, né di nessun Parlamento che lo sancisse. Appena il Pontefice, di tutti i fedeli il Padre, come Io definì il Concilio Lateranense IV, appena la Chiesa Romana, di tutte le Chiese Madre e Maestra, come la chiamò il Concilio di Trento, furono nei più stretti bisogni, e tosto i cattolici senza tante casse e tante tontine si affrettarono a soccorrere il Padre e la Madre comune. La legge che ordino questi soccorsi fu scritta nel cuore di tutti i credenti; gli articoli erano la fede, la pietà, la carità. Noi stessi abbiamo incominciato a raccogliere il Danaro di S. Pietro senza quasi addarcene. Venne una prima sottoscrizione, poi una seconda, una terza, una quarta, ed oggidì non passa giorno che molte oblazioni non ci giungano per metterle a' piedi del S. Padre.

Il deputato La Farina e i suoi colleghi temono che il Danaro d'Italia non riesca, e la poverina n'abbia il danno e le beffe. Ma questo noi non abbiamo temuto mai pel Danaro di S. Pietro. Sarebbe stato un far torto alla religione ed al buon cuore degli Italiani, e un bestemmiare la Provvidenza di Dio. Si, tutte le volte che il Papa avrà bisogno troverà sempre de’ figli che metteranno a' suoi piedi le loro ricchezze.

Il Ricciardi nel promuovere il Danaro d'Italia dimentico che la povera Italia già pagò, paga e pagherà questo danaro. Non lo paga e vero, volontariamente come il Danaro di S. Pietro, non lo paga con eguale consolazione dell'animo; lo paga costrettavi dall'esattore, Io paga al fisco che la munge, lo paga sotto il timore dell'oppignorazione e del carcere, ma lo paga pur troppo e dovrà anche pagarlo per l'avvenire.

Son Danaro d'Italia le terribili imposte che pesano sul povero Piemonte. Nel 1848 noi pagavamo meno di ottanta milioni all'anno per contribuzioni, e nel 1858 abbiamo pagato 137 milioni di lire; nel 1859 ne abbiamo pagato 148 milioni, e pagammo 150 milioni di lire nel 1860, Questi ottanta milioni di più, che pesano sull'esausto Piemonte, sono Danaro d'Italia.

(1) Vedi Atti Uff. della Camera, N° 140, pag. 526, 527, 528.

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E Danaro d'Italia furono la Savoia, Nizza, Mentone e Roccabruna, dati alle straniero; e altro Danaro d'Italia sarà pagato tardi o tosto son nuove provincie, affinché la rivoluzione possa ottenere nuove concessioni.

Già pagano e pagheranno ancor più largamente il Danaro d'Italia i Lombardi, i Parmigiani, i Modenesi, i Toscani, i Romagnoli, gli Umbri e i Marchigiani, le cui imposte saranno triplicate, perché possono sedersi al banchetto delle libere nazioni.

Napoli incomincia già a pagare il Danaro d'Italia, e il cavaliere Nigra ce né die un saggio nello specchietto che chiude la sua relazione. Nei quattro, mesi del 1861 Napoli ha visto aumentarsi le sue spese di cinque milioni e mezzo di lire, e aumenta di spese vuol dire sempre aumento di contribuzioni.

La Sicilia paga il suo Danaro d'Italia con un aumento di cinque milioni di spese su quelle che pagava sotto la tirannia dei Borboni. E nella stessa tornata del 17 di giugno il ministro Bastogi annunziava che fra giorni presenterebbe cinque leggi d'impesta! Invece dei sei articoli del Danaro d'Italia avremo cinque brave leggi d'imposta, e sentirete che belli e grandi cordiali evviva alla libertà?

Vi sono però alcuni che non pagano il Danaro d'Italia, ma lo riscuotono, e sono, per esempio, in Sicilia i nuovi impiegati, che consumano lire 899, 750 50 più degli antichi; sono coloro ohe aumentarono il debito pubblico dell'isola di una rendita annua di lire 2, 550, 600, cioè d'un quaranta milioni di capitale; sono coloro che a Napoli nel primo quadrimestre del 1861 si fecero pagare tanti assegni straordinari per 5, 740, 813 ducati, e questo in linea provvisoria, come attesta il cav. Nigra.

Ed anzi poiché il deputato Riociardi e cosi tenera pel Danaro d'Italia, vorremmo che chiedesse notizia al ministero di quel tale scandaloso processo girato al Popolo d'Italia di Napoli, che aveva accusato certi onorevoli d'avere riscosso un po' troppo largamente per se il Danaro degli Italiani. Con nostra grande sorpresa quel processo, che a quest'ora dovrebbe essere finito, ci sembra invece sepolto.

Del resto le cifre dal Danaro d'Italia sono ben numerose. e Danaro d'Italia il prestito di settecento milioni ohe sta per contrarsi; e Danaro d'Italia il sangue che fu sparso in Crimea ed in Lombardia per passare dalla preponderanza austriaca Botto il predominio francese, e Danaro d'Italia quel numero senza numero d'Italiani che a Capua, a Gaeta, a Messina ed altrove restarono vittime della loro fedeltà. E' Danaro d'Italia quel cumulo di fucilazioni che incominciale col liberalismo non cesseranno se non quando cessi questa dolorosa parodia della libertà.

E dopo tutto questo il deputato Ricciardi vuole istituire il Danaro d1 Italia, come se noi non avessimo pagato nulla, come se l'Italia dovesse incominciare domani a pagare!

Lode alla Camera che ha rigettato prudentemente la proposta! Il Danaro d Italia sarebbe stato un secondo plebiscito, ma molto più solenne del primo-

Nessuno avrebbe osato accusare i liberali d'aver moltiplicato i danArt. Essi sono sempre innocenti di simili delitti!

Però poteva avvenire che dove i voti furono unanimi, quando si trattò di minuzzoli di carta, trattandosi poi di scudi e di lire, il risultato dovesse esser zero. La Farina che se ne intende scongiurò il periodo oppugnando la proposta del Ricciardi, e quando si venne alla votazione sorsero in favore quattro Deputati, e compreso Ricciardi, cinque!

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LA PAPPA AL NEONATO REGNO D'ITALIA

(Pubblicato il 28 giugno 1861)

II Regno d'Italia, figliato da Luigi Bonaparte e dal conte di Cavour coll'assistenza di Garibaldi, Nunziante e Liborio Romano, appena venne alla luce pronunziò questa prima parola: Fame. E la fame dei regni, e massime, dei regni come il nuovo Regno, non si sazia che col danaro. Il regno neonato divorava quando era ancora nascituro, e prima di esistere aveva già ingoiato un millecinquecento milioni. Pensate che cosa doveva mangiare questo pappacchione dopo di essere nato!

Il signor Bastogi incaricato, nella sua qualità di ministro delle finanze, di dare la pappa al nuovo Regno d'Italia, chiese per primo boccone cinquecento milioni effettivi. «Non si crede, dice il Journal des Economistes di Parigi, che il signor Bastogi possa ottenere un imprestito al disopra del 70 per una rendita del 5 per cento. Ed affine di ottenere una somma effettiva di 500 milioni occorrerà di scrivere nel Gran Libro circa 750 milioni di lire». Sicchè, per dare al neonato Regno d'Italia un primo boccone di 500 milioni, noi c'indebiteremo di 750 milioni, perdendone subito 250!

Tuttavia è presto detto colla parola, e presto scritto colla penna 750 milioni! Ma nelle nostre casse non c'erano fondi, il bambino Regno d'Italia gridava; Fame, Fame, e il povero Bastogi corse l'Europa per trovar danArt. Andò in Francia, piccino alle porte di tutti i banchieri, e disse : — C'è un bimbo nato or ora con una fame da gigante. Imprestatemi 750 milioni per dargli la pappa.

E i banchieri risposero: — Come si chiama questo bimbo? — E me lo domandate? Soggiunse scandolezzato il sig. Bastogi: Si chiama il Regno d'Italia.

Il Regno d'Italia! conchiusero i banchieri; Non conosciamo questo Regno, e non vogliamo avere da fare né col bimbo, né colla balia. Andate in pace. —

E il povero Bastogi col bimbo in braccio che strillava per la fame, andò in Inghilterra, e disse ai banchieri di Londra: «Muovetevi a pietà di questo povero bimbo che, nato or ora, già sta per morire, imprestatemi 750 milioni da mettergli in bocca per primo boccone. Pensate che gli Inglesi ebbero parte alla nascita del bambino Regno d'Italia!» I banchieri Inglesi al sentirsi parlare di pietà, trasognarono, e dissero che se il neonato poteva vivere con parole, n'avrebbe avuto a fusone dall'Inghilterra, ma danari no. Gli Inglesi ne pigliano, e non ne danno.

E Bastogi andò nel Belgio, andò in Olanda, andò dappertutto, e fe' vedere il bambino battezzato col nome del Regno d'Italia, e fe' sentire i suoi lai, ed imitando ira verso di Francesco Petrarca, gli scrisse sulla fascia: I' vo gridando: Fame, fante, fame. E i banchieri dell'universo volsero le spalle a Bastogi ed al suo bimbo, dichiarando di non conoscere né l'uno, né l'altro.

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I nostri ministri, vista la mal riuscita dell'infelice Bastogi, furono a consiglio, ed assordati sempre più di giorno in giorno dalle strida del bimbo che gridava fame, deliberarono di mandarlo a vedere a Napoleone III, Imperatore dei Francesi affinché egli lo riconoscesse per legittimo, e cosi potesse venir conosciuto dal banchieri che prima non né volevano sapere. E venne incaricato di tale missione il conte Vimercati. Il quale, ricevuto il bimbo dalle mani del ministro Bastogi, lo reco prima a Parigi, e poi a Fontainebleau.

E tenerissimo fu il discorso che il conte Vimercati tenne alla Maestà di Napoleone III: «Sire, gli disse, voi conoscete questo bimbo, voi ben sapete che fu concepito a Plombieres. E se non né siete il padre, certo né foste il padrino. Or vedetelo, Sire, come e mingherlino, dilaniato dai vermini, divorato dalla fame. Uditelo come piange, e chiama merce. Ha fame, povero bimbo, e noi non ci troviamo un centesimo da mettergli in corpo. Sire, non disprezzate l'opera delle vostre mani: aiutateci a dar la pappa al nuovo Regno d'Italia, non permettete ai nostri e vostri nemici di dire che appena nato mori d'inedia». E il bimbo piangeva, e Vimercati piangeva, e Napoleone III pensava.

In fine dopo di aver ben pensato conchiuse, ch'egli riconoscerebbe il nuovo Regno d'Italia; cercherebbe qualche gherminella per ischermirsi dall'Austria, interpreterebbe lato sensu il trattato di Zurigo, e quanto a Roma ed al Papa, la provincia di Nizza abbonda d'olio, e il mondo e popolato di gonzi. Due proteste, quattro riserve, dieci genuflessioni, ed e fatto il becco all'oca. Napoleone III fe' una carezza al bimbo che continuava a gridar fame, e il conte Vimercati lo ricondusse a Torino.

Intanto si aspettava questo riconoscimento, e non compariva. Il bimbo avea viaggiato di qua, di la; di su, di giù; e se avea udito di buone parole, nessuno pero gli avea dato un soldo. Si che continuava a gridar fame; e Bastogi a dichiarare che non sapea come dargli la pappa. Cominciò la Patrie di Parigi a dire che la Francia riconoscerebbe il neonato Regno d'Italia, e il bimbo gridava fame. Il Moniteur ripetè l'articolo della Patrie, ed il bimbo: fame. E i giorni passavano, e l'appetito cresceva. Laonde il barone Bettino Ricasoli chiamò a se il conte Vimercati, e gli disse: — Tornate a Parigi, e pregate l'Imperatore di riconoscere presto questo bimbo, se no possiamo seppellirlo. Avvertitelo che e questione di fame, e che periculum est in mora. —

E Vimercati galoppò di nuovo a Parigi, e da Parigi a Fontaineblau, e gettatosi in ginocchio davanti a Napoleone III, gli baciò il piede, l'assicuro che il nuovo Regno d'Italia pericolava, gli domando in nome della battaglia di Solferino di riconoscerlo il più presto possibile, e gli fe' promessa che il Regno d'Italia riconosciuto dal Bonaparte, sarebbe stato cosa tutta sua, pronto a tagliarsi anche una mano ed un braccio per darglielo in segno di riconoscenza. E l'Imperatore confermò le fatte promesse, pigliò nota delle cortesi esibizioni, e non andò guari che il riconoscimento del Regno d'Italia apparve sul Moniteur del 25 di giugno.

Ma gli articoli del Moniteur sono belli e buoni, però empiono il venire di vento e non di pane; e il bimbo non puo campar d'aria. Sicché il ministro Bastogi si accinse a tentare una seconda volta la prova, e vedere se i banchieri vogliono dar danaro al neonato Regno d'Italia, riconosciuto dalla Francia come figlio legittimo.

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Per la qual cosa presentassi alla Camera dei Deputati, chiedendo la facoltà di contrarre un prestito di 750 milioni, e il 26 di giugno, cioè un giorno dopo il riconoscimento, ebbe principio la discussione.

Di questa noi parleremo pili diffusamente secondo la relazione ufficiale, e divisammo di mandare innanzi a' nostri articoli la detta storiella che serva loro come di proemio. e uno scherzo, mai nostri Ministri scherzano sempre quando Bi tratta di finanza. Il liberalissimo deputato Saracco diceva il 14 di maggio del 1858: • Noi scherziamo allegramente sopra un vulcano». E soggiungeva: « La pubblica coscienza si rivolta contro questo sistema altrettanto facile che rovinoso di colmare nuovi disavanzi che non hanno mai termine con nuove gravezze che non hanno confine».

NAPOLEONE III E IL REGNO D'ITALIA

DOCUMENTI DIPLOMATICI

Dispaccio indirizzalo dal signor Thouvenel

all'incaricato d'affari di Francia a Torino

Parigi, 15 giugno 1861.

Signore,

Il Re Vittorio Emanuele ha indirizzato all'Imperatore una lettera che ha per oggetto di domandare a sua Maestà che lo riconosca come Re d'Italia. L'imperatore accolse questa comunicazione coi sentimenti di benevolenza che l'animano verso l'Italia, e Sua Maestà è tanto più disposta a darne nuovo saggio coll'accedere ai voti del Re, inquantochè nelle attuali circostanze la nostra astensione potrebbe far nascere delle erronee congetturo, ed essere considerata come l'indice d'una politica che non è quella del governo imperiale. Ma se tanto c'interessa a non lasciar dubbi in proposito sulle nostre intenzioni, tuttavia sonvi necessità che non possiamo perdere di vista, e dobbiamo prenderci cura che questo riconoscimento non venga interpretato in Italia od in Europa in un modo inesatto.

Il governo di Sua Maestà non ascose in alcuna circostanza la propria opinione sugli avvenimenti che l'anno scorso scoppiarono nella Penisola.

Dunque il riconoscimento dello stato di cose che ne è risultato non potrebbe esserne la garanzia, come non potrebbe implicare la retrospettiva approvazione d'una politica, sulla quale ci siamo costantemente riservati intiera libertà d'apprezzamento.

Ancor meno l'Italia avrebbe ragione a trovarvi un incoraggiamento ad imprese di natura da compromettere la pace generale. La nostra maniera di vedere non ha punto cangiato dopo il convegno di Varsavia, ove avremo occasione di farla conoscere all'Europa come al Gabinetto di Torino.

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Dichiarando allora che consideravamo il principio del non intervento come regola di condotta per tutte le Potenze, noi avevamo soggiunto che un'aggressione da parte degl'Italiani, qualunque ne potessero essere le conseguenze, non otterrebbe l'approvazione del governo dell'Imperatore. Noi siamo rimasti nei medesimi sentimenti e decliniamo anticipatamente qualunque solidarietà in progetti, dei quali il governo italiano solo dovrebbe correre i pericoli e subire le conseguenze.

Il Gabinetto di Torino, dal canto suo, saprà tenere calcolo dei doveri che ci sono imposti dalla nostra posizione verso la S. Sede, ed io crederei cosa superflua l'aggiungere che nello stringere le relazioni ufficiali col Governo italiano, noi non vogliamo in alcun modo indebolire il valore delle proteste fatte dalla Corte di Roma contro l'invasione di parecchie provincie degli Stati Pontifici. Il Governo di Vittorio Emanuele non potrebbe contestare, come non lo potremmo noi stessi, la potenza delle considerazioni di ogni genere che si collegano colla quistione romana e che devono necessariamente avere un'azione sulle nostre determinazioni, ed intenderà, che'nell'atto in cui riconosciamo il regno d'Italia, noi dobbiamo continuare ad occupare Roma fino a tanto che gli interessi, i quali ci hanno condotti in quella città, non saranno tutelati da sufficienti guarentigie.

Il Governo dell'Imperatore ha stimato necessario di spiegarsi, in questo momento, colla massima schiettezza verso il Gabinetto di Torino. Noi abbiamo la fiducia che esso saprà comprendere l'indole e Io scopo.

Vogliate, signore, dar lettura di questo dispaccio al barone Ricasoli, e lasciarne copia.

Aggradite ecc.

Firmato Trouvenel.

Al signor conte Gropello, incaricato d'affari di S. M. il Re Vittorio Emanuele II in Parigi.

Torino, 21 giugno 1861.

Signor Conte,

L'incaricato d'affari di Francia venne a comunicarmi il dispaccio, di cui qui unita troverete una copia.

In questo dispaccio S. E. il Ministro degli affari esteri dell'Imperatore dichiara che S. M. I. è pronta a darci un nuovo pegno dei suoi sensi di benevolenza riconoscendo il regno d'Italia. Tuttavia soggiunge che quest'atto avrebbe sopratutto lo scopo di impedire erronee congetture, e che non implicherebbe l'approvazione retrospettiva di una politica, riguardo alla quale il Governo di S. M. I. si è costantemente riservata intera libertà di giudizio. Ancor meno saremmo noi tenuti a vedere in questo dispaccio un incoraggiamento ad intraprese tali da compromettere la pace generale. Richiamando le dichiarazioni del Governo francese al momento del colloquio di Varsavia, il sig. Thouvenel ripete che esso continua a guardare il principio del non intervento come una regola di condotta per tutte le Potenze, ma dichiara che il Gabinetto delle Tuileries declinerebbe anticipatamente ogni risponsabilità in progetti d'aggressione, dei quali noi dovremmo assumere i pericoli e subire le conseguenze.

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Passando in seguito a spiegare la posizione della Francia rispetto alla Corte di Roma, il sig. Thouvenel ricorda che potenti considerazioni obbligano il Governo imperiale a continuare l'occupazione di Roma, sinché sufficienti guarentigie non copriranno gli interessi religiosi che l'Imperatore ha giustamente a cuore di proteggere, ed esprime la confidenza che il Governo del Re saprà apprezzare il carattere e l'oggetto di queste franche spiegazioni.

Prima di farvi conoscere il mio modo di vedere sulle considerazioni svolte nel dispaccio del signor Thouvenel, devo pregarvi, sig. Conte, di esprimere al sig. Ministro degli affari esteri la mia viva e profonda gratitudine per la preziosa prova di simpatia che l'Imperatore è disposto a dare alla nostra causa nazionale riconoscendo il regno d'Italia.

Quest'atto riveste nelle circostanze presenti un valore del tutto particolare, e gli Italiani saranno profondamente commossi, vedendo che S. M. I., benché non abbia modificato il suo giudizio sugli avvenimenti che si successero l'anno passato nella Penisola, è disposto a dare all'Italia, tuttora mesta per un grave lutto nazionale, una prova così splendida della sua alta e generosa benevolenza.

Pregandovi di essere l'interprete di questi sentimenti presso il Governo dell'Imperatore, io non faccio altra cosa se non seguire l'esempio di un gran cittadino, del quale noi piangiamo la morte. Al pari di lui io apprezzo secondo il suo valore la schiettezza con cui il Governo imperiale volle farci conoscere in qual maniera esso giudichi gli avvenimenti che potrebbero sorgere in Italia. Io non saprei in miglior modo rispondere a quella prova di confidenza se non coll'esprimere con una uguale schiettezza e senza alcuna reticenza il mio pensiero.

Chiamato dalla fiducia del Re a succedere al conte di Cavour nella presidenza del Consiglio e nella direzione della politica estera, io ho trovato il mio programma già tracciato nei voti recenti che le due Camere del Parlamento ebbero occasione di pronunciare sulle quistioni più importanti per l'avvenire dell'Italia. Dopo lunghe e memorabili discussioni, il Parlamento, Dell'affermare in modo solenne il diritto della nazione a costituirsi nella completa unità, ha manifestato la speranza che i progressi che la causa d'Italia va facendo ogni giorno nella coscienza pubblica, condurrebbero a poco a poco e senza scosse alla soluzione tanto ardentemente desiderata dagli Italiani.

Questa fiducia nella giustizia della nostra causa, nella saggezza dei governi europei, come pure nell'appoggio ogni giorno più potente della pubblica opinione che il conte di Cavour manifestava con tanta eloquenza poco tempo prima della sua morte, si trasfuse pienissima nella amministrazione, alla quale io ho l'onore di presiedere. Il Re ed i suoi ministri sono sempre convinti che, coll'odiare le forze del paese e col dare all'Europa l'esempio di un progresso saggio e regolare, noi riusciremo a tutelare i nostri diritti senza esporre l'Italia a sterili agitazioni e l'Europa a complicazioni pericolose.

Voi potete dunque, signor Conte, rassicurare pienamente il Governo dell'Imperatore, rispetto alle nostre intenzioni circa alla politica esterna.

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Ciononostante, le dichiarazioni del sig. Thouvenel, relativamente alla quistione romana, mi obbligano ad aggiungere alcune parole a questo riguardo.

Voi conoscete, signor Conte, in qual modo il Governo del Re consideri quella quistione. II nostro voto si è di restituire all'Italia la sua gloriosa capitale, ma è nostra intenzione di nulla togliere alla grandezza della Chiesa, alla indipendenza del Capo della religione cattolica. Noi vogliamo in conseguenza sperare che l'Imperatore potrà tra breve richiamare le sue truppe da Roma senza che quella risoluzione faccia provare ai cattolici sinceri timori, che noi saremmo i primi a deplorare. Gli stessi interessi della Francia, noi ne siamo convinti, condurranno il Governo francese a prendere questa determinazione. Lasciando all'alta saggezza dell'Imperatore il giudicare del momento in cui Roma potrà senza pericolo essere abbandonata a se stessa, noi considereremo sempre nostro dovere il facilitare quella soluzione, e speriamo che il Governo francese non ci rifiuterà il suo concorso per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di liete conseguenze per l'avvenire della religione come per i destini d'Italia.

Vogliate leggere questo dispaccio e lasciarne copia a S. E. il ministro degli àffari esteri, ed aggradite, ecc.

Firmato: Ricasoli

APPROVAZIONE DEL PRESTITO

di 750 milioni

(Pubblicato il 3 luglio 1861).

Il 1° di luglio la Camera elettiva approvava il prestito di cinquecento milioni effettivi, che, secondo il Journal des Economistes di Parigi, non possono ottenersi se non contraendo un debito di 750 milioni.

I Deputati presenti alla votazione erano 256. Votarono a favore del prestito 242, e contro 14. Ognuna di quelle fave che gli onorevoli deponevano nell'urna in favore del prestito valeva più di tre milioni, e trovaronsi 242 fave di tanto valore!

Ora qui è da farsi una semplice osservazione. Noi abbiamo 443 Deputati, e alla votazione d'un prestito di 750 milioni non convennero che poco più della metà, cioè 256 I Il dep. Ferrari nella tornata del 26 di giugno già avvertiva come un fatto importantissimo queste assenze continue degli onorevoli. «Noi siamo riuniti, diceva egli, ma ad ogni appello nominale mancano 120, 130, 180 Deputati» (Alti Uff. n. 223, pag. 849). Nella votazione del prestito ne mancarono ben 187!

Tutti sono stanchi, gli elettori di eleggere, e gli eletti di votare. In Torino, nel primo collegio della capitale del Regno d'Italia, il barone Ricasoli con tutto il suo potere, con tutta la sua caterva d'impiegati non potè radunare tanti elettori da riuscir Deputato alla prima votazione. Se la legge non passasse buono nel ballottaggio un qualunque numero di votanti, il Presidente del Consiglio non sarebbe ancora eletto oggidì.

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In pari tempo nella votazione d'un prestito di 750 milioni si trovano ben 187 Deputati che non si curano di dare il voto, e che restano indifferenti a questo nuovo e ingentissimo peso, che si aggrava sopra la povera Italia!

Ma il signor Bastogi non ci guarda tanto pel sottile. Egli voleva i milioni da dar la pappa al neonato, e li ha ottenuti. Che i votanti sieno stati 256, o 443 poco importa al Ministro, purchè i milioni entrino in cassa. Egli era nella massima costernazione, e dicono che, per andare innanzi, si facesse imprestare brevi manu un ottanta milioni, e che mangiasse una parte del suo grano in erba. Ora ha il cuore nello zucchero, perché il prestito venne approvato. Però quanto tempo staremo senza udir a parlare d'un nuovo prestito?

Noi ci troviamo nel caos così in materia di finanze come di politica. La cosa venne dimostrata ad evidenza dal deputato FerrArt. Leggetene le seguenti osservazioni tolte dagli Atti Ufficiali, a. 223, pag. 848:

«Nell'atto in cui io e moltissimi dei miei colleghi ci (sic) siamo sforzati di esaminare le cifre dei bilanci prodotti, e dei diversi quadri sinottici, nell'atto, dico, in cui ci siamo sforzati di fare il nostro dovere, d'altronde molto inclini a credere ai dati forniti, ci siamo abbattuti in tali sconcordanze da farci concludere la incontestabile inesattezza o almeno l'inesplicabile oscurità dell'amministrazione.

«Noi abbiamo sott'occhi tre lavori, due del ministro delle finanze ed uno del direttore generale del debito pubblico.

«Ora, confrontato l'elenco. 1 del progetto di legge per l'unificazione del debito pubblico, la prima tabella del rendiconto suddetto, intitolata; Situazione del debito pubblico al 1° giugno 1861, ed il capo I del bilancio passivo per l'anno 1860 del Ministero delle finanze, troveremo per ogni partita del debito pubblico cifre discordanti.

«E questa discordanza delle cifre non si toglie neppure colla valutazione o meno dei fondi assegnati all'estinzione annua della parte redimibile dei varii debiti.

«Diamo un esempio.

«Il debito redimibile della creazione 12 e 16 giugno 1849 è inscritto per l'importo di assegnazione annua, nel suddetto elenco A, di I. . 45, 607, 611 91; nel rendiconto Troglia, per l'importo di L. 54, 859, 934 29; nel bilancio passivo del 1861 (finanze) nell'importo di L. 49, 467, 361.

a Ammesso che si voglia parlare semplicemente della rendita vigente, senza calcolare gli ammortamenti, è ben vero che l'elenco A e il rendiconto esprimerebbero concordi la somma di L. 45, 607, 611 91.

«Ma, domandiamo allora, come mai, calcolato il fondo di assegnazione annua, il rendiconto esprima una cifra di 50 milioni, ed il bilancio passivo quella di 49.

«Così per il debito redimibile del 24 dicembre 1819, troviamo nell'elenco A dello schema la rendita di 1,041, 268 74.

«Nel rendiconto Troglia la rendita vigente di 1, 047, 221 74.

«Nel medesimo rendiconto la rendita col fondo di ammortamento nell'importazione per quest'anno di 2, 862, 327 17 e nel bilancio passivo delle finanze nella somma di 2, 867, 327 17.

«Come mai dunque la rendita vigente presenta una differenza di 6000 fr.?

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«Terzo esempio: la rendita vigente del 26 giugno e 22 luglio 1851 è inscritta nell'elenco A per l'importo di 4, 572, 375.

«Nel rendiconto Troglia, per 4, 500, 000, nell'importazione, compreso l'ammortamento, per l'importo di 3, 400, 000; e nel bilancio passivo delle finanze per 5, 416, 250.

«Chi, di grazia, ci spiegherà questa differenza?

«E se tali inesattezze emergono riguardo ai debiti delle antiche provincie, che diremo delle provincie annesse?

«Direte voi che questi non sono sbagli, ma oscurità? Ne accagionerete voi la mia poca abilità nel seguirvi?

«Havvi un fatto incontestabile: l'altro giorno incontrando un mio amico portato nel bilancio della guerra per una somma come ufficiale superiore in disponibilità, mi dichiarò, stupefatto, che aveva rinunziato a tutto e per motivi politici e da lungo tempo e con rinunzia accettata dal ministro Fanti.

n lo sono pronto a dirvi il nome di questo ufficiale, a trasmetterlo al ministro della guerra od al presidente del Consiglio, non lo dico in pubblico solo perché non serve, e resta il fatto del disordine amministrativo».

Che ne dite di sì della amministrazione?-Clic giudizio portate dei Deputati che approvarono il prestito così al buio, in mezzo a tante contraddizioni? Che bella guarentigia pei danari del popolo è il voto di costoro! Dove riuscirà la povera Italia governata di questa maniera? Dove riuscirà? Lo disse il conte di Cavour fin dal 1850, cioè undici anni fa, il primo luglio, il giorno istesso in cui approvavasi testò il nuovo prestito. «lo so quant'altri, diceva il conte di Cavour, che, continuando nella via che abbiamo seguita da due anni (la via dei prestiti), noi andremo difilati al fallimento». Capite, dove c'incamminiamo a grandi passi? Al fallimento!

IL REGNO D'ITALIA

ALLA CONQUISTA DELLA CORSICA E DI MALTA

(Pubblicato il 10 luglio 1861).

«Corsica e Malta, queste due isole sono tutte e due nostre; ma fino a tanto che stanno in mano altrui, bisogna pur considerarle come paesi stranieri... Malta è il miglior nostro porto dell'avvenire». Così parlava alla Camera elettiva il deputato Nino Rixio nella tornata del 15 di giugno, e le citate parole leggonsi negli Atti Ufficiati, N. 195, pag. 739, col. 2a.

Prima che il Regno d'Italia stia in pace dovrà passare gran tempo. Bettino Ricasoli vuol pigliare Roma e ricuperare Venezia; Lorenzo Valerio ha proclamato in Ancona che Trieste era nostra; un ex-deputato pubblicò un libro in Milano per dimostrare che il Trentino tocca all'Italia; italiano è il Canton Ticino, e deve annettersi al Regno, Corsica e Malta sono tutte due nostre, come dichiara il generale Bixio, e la nazione cercherà di riscattarsi del sacrificio di Nizza, come annunziava l'Opinione dell'8 di luglio.

Noi vorremmo che s'incominciasse dalle isole di Corsica e di Malta, essendo più facile il conquistarle.

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Esse obbediscono per ora alla Francia ed all'Inghilterra, due nazioni che ci sono amiche, che hanno aiutato col senno e colla mano l'opera del nostro risorgimento, che ammettono il principio di nazionalità, che riconoscono il Regno d'Italia.

Francia ed Inghilterra nutrono tanto affetto per noi che senza armi, con semplici rimostranze e preghiere potremo ottenere da loro la cessione di Corsica e di Malta. Coll'Austria ci vuoi la guerra e con Roma bisogna mettere in rivoluzione l'universo; laonde ci torna a conto di pigliar le mosse dalle cose più agevoli per venir poi di mano in mano alle più difficili.

Bene fu che un Deputato Genovese levasse la voce nella nostra Camera in favore della Corsica. Quest'isola, scrisse Vincenzo Gioberti «è sempre appartenuta moralmente e geograficamente all'Italia, e politicamente, ch'io mi sappia, non ha mai fatto parte della Francia dal diluvio insino ai tempi, in cui nacque Napoleone» (Introduzione allo studio della filosofia, voi. 1, pag. 298, Capolago, ls. il».

I primi abitanti della Corsica erano Liguri; gli Etruschi vi fondarono città commerciali; i Romani la tolsero ai Cartaginesi. Più tardi se ne impossessarono i Barbari, e quindi cadde in potere dei Saraceni. «I Pontefici, scrisse l'avvocato Giuseppe Michele Canale, cui stava a cuore la Conservazione Della Fede E L'italica Libertà, esortavano Genovesi e Pisani a discacciarli». Storia civile, commerciale e letteraria dei Genovesi, volume 1, pag. 86, Genova, i 844).

II Papa Benedetto nel 1015 concesse il dominio delle due Isole di Sardegna e di Corsica a chi prima ne avesse cacciato i Saraceni. e i Genovesi nel 1017 conquistarono la Corsica colle sole proprie armi. 1 Pisani la vollero essi pure, e ne nacquero guerre lunghe e micidiali, che pacificò S. Bernardo, il quale chiamava Genova e i Genovesi: popolo divoto, onorevole gente, illustre città. Genovesi e Pisani collegati in pace aiutarono Papa Innocenze li a conquistare la signoria di Roma contro i ribelli.

Sarebbe troppo lungo e fuor di luogo discorrere della dominazione de’ Genovesi in Corsica. I Corsi non ne furono sempre contenti, e parecchie volte si rivoltarono. Fermiamoci sull'ultima insurrezione che a poco a poco tolse la Corsica all'Italia. Essa incominciò nel 1729 quando i Corsi impugnarono le armi contro Genova «e Inghilterra e Francia mandavano celatamente soccorsi agli insorgenti». (Cantù, Storia degl'Italiani, voi. iv, pag. 136, Torino 1858).

I Corsi ribellati a Genova s'erano offerti alla Spagna, ma questa «non trovava decoroso dar mano ai ribelli» (Cantù, ibid. , pag. 147). Fecero da sé, e proclamarono una legge del regno e della repubblica di Corsica, e Rossi e Neri, due famiglie numerose, potenti e nimicissime, si strinsero le destre sull'ara repubblicana (Arma, Delle cose di Corsica dal 1750 al 68).

Nel 1736 un Garibaldi di que' tempi, il barone Teodoro di Neuhof di Westfalia, sbarcò in Corsica, vi fu acclamato Re, e s'intitolava «Teodoro I per la grazia della SS. Trinità e per l'elezione dei varii e gloriosissimi liberatori e padri della patria Re di Corsica». Così, osserva Carlo Augusto Varnhagen d'Ense, nel 1736 un Westfaliano fu Re in Corsica, e settantatré anni dopo un Corso era Re in Westfalia!

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I Genovesi invocarono allora gli aiuti di Francia, e gli ottennero, ma non si riuscì a pacificare la Corsica. Dopo quarant'anni d'inutili sforzi, Genova cedette i suoi diritti alla Francia col trattato di Compagne, 15 maggio 1768, come l'Austria col trattato di Villafranca cedeva a Napoleone II I i suoi dritti sulla Lombardia.

Ma i Corsi sdegnarono il giogo francese, e Pasquale Paoli, il primo capitano d'Europa, come chiamavalo Federico di Prussia, e i Saliceti, e gli Abbattucci, e i Buonaparte (allora avevano l'u, che rinnegarono di poi!) facevano guerra allo straniero, e gli Inglesi meeting e sottoscrizioni a pro dei Corsi. Diecimila vite e ottanta milioni costò alla Francia la conquista di Corsica, e i Corsi si vendicarono dei conquistatori con questi due versi:

Gallia vicisti, profuso turpiter auro,

Armis pauca, dolo plurima, ture nihil.

Rousseau imprecava alla conquista della Corsica, e Voltaire se ne consolava col pensiero che essa dava principio alla preponderanza francese in Italia. Nel 1769 Voltaire scriveva al sig. Bargemont: «II se peut que la Corse devienne «nécessaire dans les dissentions qui surviendront en Italie». (Lettere inedite di Voltaire pubblicate dal Cayrol nel 1856).

L'Assemblea Nazionale francese il 30 di novembre 1789 decretava la Corsica parte della Francia, e veniva divisa negli spartimenti di Golo e di Liamone. Essa mandò i suoi Deputati alla Convenzione, e Paoli potò rientrare nella sua patria. Ma sotto il Terrore chiamato a Parigi per rendere ragione della propria condotta, presago della sorte che l'aspettava, invitò i propri concittadini a dar di piglio alle armi e sottrarsi alla tirannia francese. Col soccorso d'un corpo ausiliario inglese sbarcato in Corsica il 18 di febbraio del 1794 s'impadronì di Bastia il 22 di maggio, il 24 agosto di Calvi, e il 18 di giugno un'Assemblea Nazionale riunita a Corte metteva la Corsica sotto la sovranità dell'Inghilterra. Questo solo proverebbe che la Corsica è italiana, essa che, come la madre, fu condannata a servir sempre o vincitrice o vinta!».

L'Isola venne costituita in Regno indipendente con uno Statuto modellato sul britannico, un Parlamento particolare a somiglianza dell'irlandese, e un Viceré. Ma la maggioranza dei Corsi odiavano gli Inglesi, echi parteggiava per Francia, e chi per la Gran Bretagna. Nell'ottobre del 1796 i Francesi partiti da Livorno sbarcarono in Corsica, ed alla fine di quell'anno gli Inglesi furono obbligati a sloggiare dall'Isola, che da lì in poi restò sempre in potere della Francia, salvo una breve dimora che vi fecero gli Inglesi nel 18H.

Ciò che contribuì potentemente a consolidare in Corsica la signoria francese fu che i Corsi da conquistati divennero conquistatori. Imperocchè, il Corso Napoleone I, conquistò letteralmente i Francesi, li imbrigliò, li condusse dove volle, e stabilì una dinastia di Corsi, che continuano a rendere beata e gloriosa la grande nazione, condannata a trovar padroni dove pensava di acquistare schiavi.

Vuoisi notare però un fatto singolarissimo, ed è questo, che Napoleone I non ammise mai la Corsica a mandare Deputati al Corpo Legislativo. Un arguto francese scrisse che «il grande uomo amava troppo i propri concittadini per consentire che alcun di loro andasse a perdere il suo tempo in quell'Assemblea di muti».

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Da questi pochi cenni risulta che la Corsica è italiana per diritto geografico, come sono italiane la Sardegna e la Sicilia; e per diritto storico, giacchè per lo più gli Italiani governarono sempre quell'isola. È italiana anche per genio, per abitudine, per costumi, per alletti e per lingua, sebbene sia delitto capitale pei Corsi addetti a qualche offizio il parlare italiano. Dunque noi siamo perfettamente d'accordo col deputato Bixio che la Corsica è nostra, che il regno italiano deve ricuperarla, che la Francia è obbligata a cedercela se ama davvero l'Italia, se riconosce seriamente la nostra nazionalità, e se desidera che l'Austria seguendo il buon esempio, a suo tempo ci ceda la Venezia.

Passiamo a Malta. Anche questa è nostra, e come disse il deputato Bixio è il migliore nostro porto dell'avvenire. Essa non è che un appendice della Sicilia! I Normanni l'unirono a lei sotto il titolo di marchesato particolare, e seguì sempre le sorti di questo regno fino al 1530. Allora fu data ai cavalieri dell'ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, che presero il nome di cavalieri dell'ordine di Malta. Bonaparte nella sua spedizione d'Egitto la tolse per tradimento e senza alcuna resistenza al gran mastro de Hompeseh, ma nel 1800 il presidio francese ch'egli vi avea lasciato fu costretto di arrendersi agli Inglesi. Nella pace di Amiens si decise che Malta verrebbe restituita l'Ordine e posta sotto la guarentigia dei neutri. Ma l'Inghilterra nel 1803 non volle abbandonarla e il trattato di Parigi la lasciò definitivamente agli Inglesi.

Ma Malta è nostra, e gli Inglesi ci stanno di traforo. Nell'isola non si parla né inglese, né francese, si parla italiano. E se domani si facesse un plebiscito, tutti i Maltesi risponderebbero che vogliono appartenere all'Italia. Dunque l'Inghilterra che mostra tanto affetto per noi ce la renda, e provi che non è né per calcolo, né per egoismo, né per basse ragioni ch'essa ci mostra affetto, e c'incoraggia nelle nostre imprese.

Bettino Ricasoli ha detto alla Camera: vogliamo Roma, vogliamo Venezia. E noi diciamo sul nostro giornale: vogliamo Matta, vogliamo la Corsica. Fuori gli stranieri da queste due isole italiane! E se non vorranno abbandonarle eli buon grado, a suo tempo le abbandoneranno per forza. Abbiamo bisogno di Malta: «Malta disse il deputato Bixio, è il miglior nostro porto dell'avvenire; non è un porto di commercio, ma un porto di guerra» e ci è necessario per prepararci alla difesa. Via gli Inglesi da Malta! Via i Francesi dalla Corsica!

È vero che la Corsica è la culla della dinastia napoleonica. Ma anche la Savoia era la culla della dinastia dei Re d'Italia. E se noi abbiamo ceduto i Savoini perché parlavano francese, la Francia negherà di cederci i Corsi che parlano italiano? Orsù, generosità per generosità, culla per culla. 1 Francesi ci diano la Corsica per la Savoia, e gli inglesi, che sottoscrivono ai nostri monumenti, si mostrino giusti rendendoci Malta.

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I LAVORI

DEL PRIMO PARLAMENTO ITALIANO

(Pubblicato il 16 luglio 1861).

La Camera dei Deputati si è dato vacanza. Un gran numero di Deputati però avea già da lungo tempo pigliato le sue vacanze, giacché di 443 Deputati quasi una metà non si curava guari dei lavori della Camera; e le ultime due votazioni del 13 di luglio furono fatte l'una da 232 votanti, e l'altra da 212. La qual cosa dimostra, se non altro, quanta importanza annettano i nostri onorevoli al loro mandato di rappresentanti del popolo italiano.

Eppure a vedere quanto chiasso si faceva di questo Primo Parlamento italiano, di quest'Assemblea dei rappresentanti dell'Italia rigenerata, di questa riunione, dalla quale doveano scaturire tanti beni, quanti furono i mali usciti dal vaso di Pandora, ognuno avrebbe detto che ogni Deputato, non che a dovere, si sarebbe recato a sommo onore d'assistere puntualmente alle tornate. Ma oh stupore! Una gran parte, dopo aver assistito a qualche discussione, se n'andò pei fatti suoi, ed altri appena prestato giuramento, se ne fuggirono.

Riserbandoci ad esaminare altra volta i principali lavori del Primo Parlamento Italiano, oggi ci contenteremo d'una semplice occhiata al complesso dei medesimi, dandone qui sotto un elenco. Da questo risulta che la Camera aperta il 18 febbraio, e chiusa il 13 luglio ebbe un lavoro di cinque mesi, ossia circa 150 giorni. Le tornate furono in tutto 109: le leggi approvate 83. Questo numero di leggi non è poca cosa, avuto riguardo alle 109 tornate. Le leggi non si possono improvvisare come un sonetto od un madrigale. Ma se invece di guardare al numero, guardate al peso delle leggi votate, troverete che il Parlamento Italiano non diede grandi prove né di senno politico, né di pratica di amministrazione, né di tattica parlamentare.

Se togliete due o tre leggi, tutte le altre sono tali che, se non fosse stata la parlantina degli onorevoli e la smania di recitare ciascuno ii suo discorsetto per aver l'onore di lar la sua comparsa sulla Gazzetta Ufficiale, potevano votarsi a. quattro, a sei, a dieci per seduta, come fa lodevolissimamente il Senato.

Recandovi in mano quel gran volumaccio che sono già le discussioni della Camera di oltre ad un migliaio di pagine, vi sembrerà che dcbbansi là contenere tesori di sapienza politica, finanziaria, militare, amministrativa, giudiziaria. Eppure non mai forse potè dirsi con maggiore verità: una goccia di senno in un mar d'inchiostro. E meno male se fra tante inutili frasche non si trovassero di molte e molte empietà e bestemmie tino a far il panegirico della Convenzione francese, e proclamare che il Dio di Pio IX non è il Dio dell'Italia!!

In sostanza, ogni cosa ben considerata, il principal lavoro del Parlamento fu votare spese sempre maggiori, ed un imprestito di 750 milioni.

Di fatto tra nuove pensioni, sussidii per questa o per quell'altra opera, concessioni di strada ferrate sempre a carico più o meno grande dell'erario,

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maggiori spese sui bilanci passati, ed altre leggi portanti un nuovo gravame sull'erario, troverete che se non abbiamo un nuovo peso di 500 milioni quanto il ministero ne vuole per l'imprestito, non n'andremo forse lontani. Questa è la parte principale dei lavori. In sostanza il primo Parlamento italiano esercitò come in generale gli altri Parlamenti passati il suo uffizio, che è di votar danari a carico del popolo e a vantaggio di chi si trova avere il mestolo in mano.

Eppure quante cose non aveva da fare questo primo Parlamento italiano? Basti il dire che esso aveva da fare l'Italia! Finora la rivoluzione non fece che disfare l'Italia. È questo il compito della rivoluzione: rovinare tutto ciò che esiste. Rivoluzione è distruzione. La parte che toccava al Parlamento era di riedificare ciò che fu distruto.

Aveva da riedificare la magistratura e riordinare i tribunali. Domandate a qual volete dei magistrati, specialmente delle provincie annesse, se egli sa che cosa si dica e che cosa si l'accia in quella farruggine di codici nuovi e codici antichi; di leggi che derogano, abrogano e rimettono in vigore questo o quell'altro provvedimento? Chiedete a giurisperiti se possano cavare un costrutto da quest'ammasso di legislazione ove il vecchio ed il nuovo formano un intruglio da non capirne un acca?

Bisognava riedificare l'amministrazione, tanto centrale, quanto provinciale. Chi ne capisce ora di tutto questo laberinto, che sono i dicasteri del ministero? Andate a chiedere qualche cosa al primo ministro che incontrate; e vedrete che egli vi dirà: Non è di nostra competenza; tocca al ministero della guerra. Andate al ministero della guerra, e là vi risponderanno: Che cosa centra qui il ministero di guerra? Andate dal ministro dell'interno. Vi recate al ministero dell'interno e vi ridono sulla faccia, dicendovi che quell'affare evidentemente spetta al ministro di grazia e giustizia. Da questo siete rimandati al ministro sopra l'istruzione pubblica, il quale vi manda da quello dei lavori pubblici. In caso che in tutto questo salire e scendere di scale non abbiate rinnegata la pazienza, e mandato tutti i ministri a quel paese, vedrete che il ministro sopra i lavori pubblici vi manderà da capo fino al segno, cioè vi inviterà a recarvi dal primo ministero d'onde avete cominciato le stazioni della Via Crucis.

E se le cose vanno in questa guisa a Torino, pensate che sarà di Milano, di Firenze, di Modena e di Napoli!! Eppure che cosa si fece dal Parlamento per riordinare questo caos?

Bisognava riordinare le finanze collo stabilire in modo equo e giusto le imposte in tutto lo Stato. Ora chi paga le imposte non è che il Piemonte e la Lombardia, e qualche po' le provincie dell'Italia centrale. Quanto a Napoli è inteso che non paga un soldo; anzi ci divora i milioni; e un giornale faceva i calcoli che le spese nel regno di Napoli ascendono a 800 mila franchi al giorno! Che cosa si fece per dare assetto a questa parte importantissima e fondamentale dello Stato? Nulla, ma proprio nulla.

Con ciò non diciamo che la Camera abbia fatto male a non votare imposte, anzi troviamo che questa è la sola buona decisione che abbia preso. Si dirà che il votare spese senza pensare al modo di supplirvi se non per via d'imprestiti, ed anche questi insufficienti,

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è il vero modo di andar difilato alla bancarotta, come ebbe a dichiarare il conte di Cavour. — Ma n«ii non entriamo a discutere questo punto. Diciamo solo che il non avere nuove imposte è un vantaggio.

Vi era da riordinare la pubblica sicurezza non tanto nel reame di Napoli, dove ci vuol altro che una legge votata della Camera per ricondurvela, quanto in tutto il paese; giacchè ladri, grassatori, assassini e simigliante genia si moltiplica in modo spaventoso. E la Camera ciarlò molto della pubblica sicurezza in Napoli, dove il ministro Minghetti confessò che è molto compromessa: ma non diede il menomo provvedimento per guarentire la vita e gli averi dei cittadini.

Insomma v'era tutto a riordinare, e la Camera non fece nulla; forse sgomentata appunto dal troppo da fare. La Camera votò molte leggi, ma quasi tutte di poca importanza pel vantaggio del paese: chiacchierò moltissimo, ma non disse gran cosa di buono: fece molto chiasso per rifare l'Italia, ma non riesci a nulla.

REGI DECRETI

di apertura, di proroga, di ripresa e di chiusura della Camera

dal 18 febbraio 1861 al 21 maggio 1863

Regio decreto 3 gennaio 1861 per la convocazione del Parlamento nel giorno

18 febbraio 1861.

Id. 23 luglio 1861 per la proroga della Sessione.

Id. 3 novembre 1861 per la ripresa della Sessione nel giorno 20 stesso mese.

Aggiornamento della Camera dal 13 aprile a tutto maggio

Deliberazione 3 aprile 1862

Regio decreto 21 agosto 1862 per la proroga della Sessione.

Id. 26 ottobre 1862 per la ripresa della Sessione nel giorno 18 nov.

Id. 21 dicembre 1862 per la proroga della Sessione.

Id. 13 gennaio 1863 per la ripresa della Sessione nel giorno 28 dic.

Id. 20 maggio 1863, comunicato alla Camera nella seduta 21 stesso

mese, per la chiusura della Sessione 1861-1862,

Sedute pubbliche tenute dalla Camera — N. 417

Progetti di legge presentati alla Camera dal Governo N. 360

Id. approvati......................................................id. 213

Id. respinti.............................................................id. 1

Id. ritirati..............................................................id. 15

Proposte presentate dai deputati...............................6

Id. approvate........................................................id. 14

Petizioni presentate durante la Sessione N........ 2268

Id. riferite.................................................................685 (1)

Interpellanze.............................................................181

Ordini del giorno adottati..........................................85

(1) In questo numero non trovansi comprese quelle petizioni le quali per riferirsi a progetti di legge in corso furono comunicate alle Commissioni relative. (Art. 72 del regolamento).

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MORTE ED EPISTOLARIO DEL CONTE DI CAVOUR

Abbiamo incominciato il primo quaderno della terza serie delle Memorie per la storia de’ nostri tempi discorrendo della nascita del Regno d'Italia, ed incominceremo questo secondo favellando della morte del Conte di Cavour, l'uomo clie, dopo Napoleone III, più cooperasse alla rivoluzione italiana. L'ordine cronologico ci obbliga a passare cosi presto dalla culla alla tomba, avvegnachè pochi mesi dopo la nascita del famoso Regno, cessasse di vivere chi l'aveva messo al mondo. Del Conte di Cavour già abbiamo parlato nei precedenti volumi, massime nel primo, dipingendolo colle parole non sospette de’ suoi colleghi. Ci avverrà di doverne discorrere ancora più tardi. Qui recheremo la storia della sua morte come fu raccontata dalla nipote del famoso ministro. Poi raccoglieremo alcuni documenti sul defunto, quali vennero pubblicati nel 1862 da Domenico Berti, e nel 1863 da Nicomede Bianchi.

LA MORTE DEL CONTE DI CAVOUR

RACCONTATA DA SUA NIPOTE

La contessa Alfieri, nipote del conte di Cavour, ha scritto una lettera al signor William de la Rive, dove racconta i particolari dell'ultima malattia di suo zio. L'Opinione del 26 di luglio 1862, N» 203, stampa questa lettera, e noi la riproduciamo come quella che potrà servire più tardi di documento così alla storia politica, come alla ecclesiastica. La delicatezza ci vieta ogni osservazione, e lasciamo quindi libera la parola alla contessa Alfieri-Cavour.

Il mercoledì, 29 maggio, dopo una lunga e tempestosa discussione in Parlamento circa i volontari italiani, mio zio si ridusse a casa triste, affaticato, preoccupato. Si riposò per qualche momento, disse al suo domestico che, vedendolo così disfatto, lo eccitava a prendersi qualche giorno di congedo: «Non ne posso più, ma bisogna lavorare egualmente, il paese ha bisogno di me; forse questa state potrò andare a riposarmi in Isvizzera presso dei miei amici». Poscia pranzò secondo la sua abitudine con suo fratello e suo nipote. Mangiò con abbastanza buon appetito, parlò della discussione del giorno, s'intrattenne d'affari di famiglia e fra gli altri impegnò vivamente mio padre a ristaurare il castello d1 Santena. «È là soggiunse egli, che io voglio riposare un giorno vicino a' miei».

Dopo pranzo andò a fumare il suo sigaro sul balcone, ma dei leggieri brividi l'obbligarono a ricondursi nella sala; di là ben tosto si ritirò nel suo appartamento per dormirvi come era assuefatto.

Dormì un'ora circa; il suo risvegliarsi fu penoso ed un vomito violento succedette ad un malessere indefinibile. Si decise allora a coricarsi e licenziò il domestico che esitava a ritirarsi. Verso mezzanotte questo domestico che occupava una camera collocata al disotto di quella di mio zio, sentendo un rumore insolito, intese l'orecchio e riconobbe il passo precipitato del suo padrone.

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Esso non osò salire, giacchè da più mesi mio zio lavorava durante una gran, parte della notte o passeggiava nel suo appartamento parlando ad alta voce. Ma un violento colpo di campanello non tardò a togliere dalla perplessità il domestico, il quale, accorrendo, trovò il suo padrone disceso dal letto colla fisionomia alterata ed in preda a violenti dolori intestini. «Ho, disse il conte, una delle mie abituali indisposizioni e temo un attacco di apoplessia; andate a cercarmi un medico».

Si andò subito dal dottor Rossi, allievo del signor Tarella, che da più di venti anni era stato l'amico ed il medico della famiglia Cavour. Il signor Rossi che, dopo la morte del dottor Tarella, avea curato mio zio in tutte le sue malattie, tentò da prima di combattere il vomito; ma riconoscendo bentosto l'inutilità de’ suoi sforzi, ordine un primo salasso che recò sollievo all'ammalato. A otto ore del mattino ne praticò un secondo ed a cinque ore della sera un terzo. lo non vidi mio zio che dopo quest'ultima operazione; lo trovai in preda ad una febbre cosi forte, così affaticato, così sofferente, e così agitato che mi fermai soli pochi minuti vicino a lui...

La notte che tenue dietro a questa triste giornata fu abbastanza buona ed il venerdì 31 maggio la febbre era scomparsa. Malgrado le raccomandazioni del medico, mio zio ricevette i ministri e tenne con essi un consiglio che durò due ore e lavorò il resto del mattino col signor Nigra e col signor Artom. Quando sortivano questi ultimi, io entrai e non voleva che stringere la mano a mio zio, ma esso mi fece sedere al suo capezzale, mi disse che si sentiva pienamente guarito, che se non lo si avesse salassato tre volte il giorno innanzi avrebbe fatta una malattia di 15 giorni, e che non era tanto libero da spendere così il suo tempo. «Il Parlamento e l'Italia, soggiunse, hanno bisogno di me». Questo pensiero dovea ripetere senza posa e sotto mille forme diverse durante i giorni seguenti allorquando il delirio lo tormentava e quando lo si vedeva privo d'ogni altra facoltà, non essere più animato che dall'amore di quella patria, di cui parlò fino all'ultimo suo respiro. Esso mi tenne lungamente presso di lui, e la nostra conversazione si aggirò su di una quantità di oggetti.

Dopo la mia partenza, mio fratello volendo costringere suo zio a prendere qualche riposo, si pose di sentinella e non lasciò più entrare nessuno; verso undici ore vedendo il malato tranquillo, si ritirò, ma era scorsa appena una mezz'ora che fu chiamato da un domestico che venne in fretta a dirgli come il conte fosse stato preso da un violento brivido.

Mio fratello accorse tosto e trovò suo zio in preda ad una febbre violenta accompagnata da delirio. Non si allontanò più da lui. Alle cinque giunse il medico che constatò una febbre periodica ed ordinò il chinino, ma un disturbo di visceri annullò l'effetto del rimedio. Si ricorse allora ai mezzi ordinarii e due nuovi salassi vennero praticati nella giornata del sabato 1° giugno.

Questi due salassi procurarono a mio zio una notte più tranquilla della precedente. Tuttavia si lagnò di un freddo intenso.

Quando il mattino della domenica io giunsi al palazzo Cavour, trovai i domestici assai spaventati ed in lagrime.

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«II signor conte è perduto, mi dicevano essi, il signor conte non guarirà; i rimedi non agiscono più, il dottore Rossi lo ha trovato senza febbre, ma noi che lo conosciamo, sappiamo come stanno le cose».

Tremante, entrai nella camera di mio zio e lo trovai pallido, affranto, assopito. M'invitò a lasciarlo solo ed a prender parte alla festa dello Statuto che si celebrava per la prima volta in tutta l'Italia. Io rifiuto; egli insiste. Allora, prima di ritirarmi, gli chiedo di lasciarmi tastare il suo polso; quello del braccio destro è calmo e regolare. Io pongo quindi la mia mano sulla sua mano e sul suo avambraccio destro, e con grande mio terrore li sento freddi come il marmo. Essi non dovevano più riscaldarsi.

Dopo la mia partenza, mio zio congedò mio padre e mio fratello, chiese l'ultimo volume della Storia del Consolalo e dell'Impero e si provò a leggerlo, ma ben tosto lo restituì al domestico dicendo: ci È strano non so più leggere, non posso più leggere». Poi ordinò che gli si rifacesse il letto. Ma facendogli il domestico qualche rimostranza, egli pose bruscamente i piedi a terra e disse ridendo: «Ora converrà bene che tu m'obbedisca!». Questo movimento violento fa riaprire il salasso; mio zio tenta indarno di fermare il sangue che sgorga con impeto.

Le cure del domestico non hanno esito più felice. Finalmente giunge il chirurgo che riesce ad arrestare l'emorragia. Qualche ora più tardi, una febbre violenta assaliva il conte, il suo respiro diveniva affannoso, la sua pelle ardeva e la sua testa incominciava a vacillare; ma tuttavia esponeva con ammirabile giustezza ciò che aveva fatto per l'Italia, ciò che ancora gli rimaneva a fare, i suoi disegni per l'avvenire ed i mezzi arditi che si proponeva d'impiegare, dimostrandosi preoccupato esclusivamente degl'interessi del paese, esprimendo il timore che la notizia della sua malattia compromettesse il buon successo dell'imprestito di 400 milioni che lo Stato era in procinto di fare. La notte fu sì cattiva, che il mattino del lunedì il dottor Rossi chiese un consulto. Mentre mio fratello correva dal dottore Melloni, lo stato dell'ammalato s'aggravava, l'agitazione aumentava, il respiro diveniva ognor più affannoso, e la sete si faceta sì intensa, che ad ogni minuto mio zio prendeva dei pezzi di ghiaccio o beveva dell'acqua di seltz agghiacciata. Tutto ad un trailo rivolgendosi ad dottor Rossi, gli disse: La mia testa si confonde ed ho bisogno di tulle le mie facoltà per trattare dei gravi affari; fatemi salassare; solo un salasso può salvarmi». Il medico consentì e fece chiamare il chirurgo. Questi praticò una nuova incisione, ma il sangue non uscì; a forza di comprimere la vena si riuscì ad estrarre due o Ire oncie d'un sangue nero e coagulato. Quando ebbe terminalo, il chirurgo mi disse: «Sono assai inquieto sullo stato del signor conte; la natura è già inerte; non ha ella osservato che i salassi dei primi giorni non sono neppure cicatrizzati?». In quel momento mi venne annunziato il dottore Mattoni, il quale impallidì quando fu informato di quanto era accaduto.

Convenne disporre mio zio al consulto. Egli non voleva udirne a parlare, dichiarando che aveva piena fiducia nel dottor Rossi, ma finì per cedere alle sollecitudini di mio padre e di mio fratello e mi disse: «Fa entrare i medici, giacche anche tu desideri che io li veda Signori, egli aggiunse quando li vide, mi guariscano prontamente, ho l'Italia sulle braccia, ed il tempo è prezioso.

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Domenica debbo recarmi a Bardonné che per visitare col signor Bixio ed altri amici di Parigi i lavori del Moncenisio. Io non intendo punto quale sia la mia malattia. Essa resiste alla solita cura; ho sofferto assai negli scorsi giorni, ora non soffro più, ma non posso lavorare, né porre insieme due idee, credo che la sede del male sia la mia povera testa». I medici gli risposero che la sua malattia era una febbre periodica con minaccia di trasporto al cervello; che quest'ultimo pericolo era stato combattuto col mezzo dei salassi, ed ora faceva d'uopo d'impedire ad ogni costo il ritorno della febbre; per conseguenza ordinarono una forte dose di solfato di chinino liquido da prendersi in tre volte prima delle ore H di sera.

Questa prescrizione dispiacque a mio zio, che chiese delle pillole. I medici rifiutarono. Si portò il chinino liquido, esso lo respinse; io presi allora il bicchiere e lo presentai al mio zio, pregandolo a beverne il contenuto per farmi piacere. «Ho, mi rispose, una invincibile ripugnanza per questo rimedio che mi fa l'effetto di un veleno, ma non voglio rifiutarti cosa alcuna». Prese il bicchiere dalle mie mani, ingoiò il liquido d'un sol tratto e mi chiese se era contenta; ma il vomito non tardò a giustificare la sua istintiva ripugnanza, e si rinnovò ogniqualvolta tentò di prendere quel rimedio.

A 9 ore di sera si annunciò il principe di Carignano: mio fratello ed io, che temevamo l'emozione che poteva produrre una tal visita, andavamo incontro al Principe, ma mio zio avendone conosciuta la voce, volle ad ogni costo vederlo, è parlò con lui durante un quarto d'ora circa. Nell'uscire il Principe disse: «Non affliggetevi, il conte non istà così male, come vi immaginate; egli è forte e robusto, e supererà la malattia. Esso ha troppo lavorato in questi ultimi tempi; ha bisogno di riposo e di tranquillità».

Durante il resto della sera, mio zio fu abbastanza calmo; ma ad un'ora l'accesso della febbre ritornò ancora più violento del giorno innanzi, il delirio ricominciava accompagnato da un'agitazione terribile. I medici, che arrivarono all'alba, ordinarono dei senapismi alle gambe e sulla testa e l'applicazione continua di vesciche piene di ghiaccio. 1 senapismi non ebbero nemmeno la efficacia di far diventar rossa la pelle, ed il malato respingeva continuamente le vesciche che si tenevano sull'ardente sua fronte, dicendo: «Non mi tormentate; lasciatemi riposare». Essendo rimasto solo per un momento col suo domestico, gli disse: «Martino, è forza separarci; quando sarà tempo, farai chiamare il Padre Giacomo, parroco della Madonna degli Angeli, che mi ha promesso di assistermi ne' miei ultimi momenti. Manda ora a chiamare il signor Castelli ed il signor Farini; debbo parlare con essi».

Tentò indarno ed a varie riprese di fare le sue ultime confidenze a! signor Castelli. Un po' più fortunato col signor Farini, riuscì a dirgli: «Voi mi avete curato e guarito da una simile malattia qualche anno fa; mi rimetto in voi, consultate i medici, ponetevi d'accordo con loro e decidete sul da farsi».

Il signor Farini insisté affinché si continuassero le applicazioni di ghiaccio. Mio zio vi si sottopose; quindi il signor Farini fece preparare ed applicare sotto i proprii occhi de’ senapismi più violenti, ma senza miglior esito che il giorno precedente. Quel giorno mio zio parlò continuamente del riconoscimento del regno d'Italia per parte della Francia,

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d'una lettera che il signor Vimercati doveva recare da Parigi, e chiedeva con insistenza di vedere il signor Artom, col quale doveva trattare di affari; poi passando alla marina: «Ci abbisognano, egli disse, vent'anni per creare una flotta capace di proteggere e difendere le nostre coste, ma ci riusciremo: ho diretto tutti i miei sforzi a questo scopo, e l'unione tra la nostra antica marina e la marina napoletana è fatta.

«Perché non si è fatto Io stesso per l'armata di terra? Ciò avrebbe forse dispiaciuto al nostro esercito. Del resto, in certe eventualità, Garibaldi e i suoi volontari ci saranno incontestabilmente utili. Eppure è d'uopo che io rinunzi al portafoglio della marina, sono troppo stanco, troppo sovracarico di lavoro. Il generale Menabrea consentirà egli a surrogarmi? Io lo credo capacissimo di creare ed ordinare la marina italiana. È questa una buona idea ch'io ho avuta; no, no, non mi rifiuterà il suo concorso».

Il martedì a sera la notizia della gravi tà della malattia di mio zio si era sparsa per la città; il palazzo Cavour fu come assediato dalla popolazione di Torino e si dovette lasciare aperto tutta la notte. L'appartamento, lo scalone, il vestibolo, il cortile, non restarono mai sgombri un solo momento, e quando alle ore due io mi ritirai, ebbi gran fatica a farmi strada in mezzo ad una folla cupa, silenziosa e desolata. La notte fu cattiva, lo stato dell'ammalato peggiorò talmente, che al mercoledì mattina i medici interrogati dal marchese di Rorà e dal mio fratello, che avevano vegliato presso mio zio, dissero che se il conte aveva qualche disposizione da prendere, non vi era tempo da perdere.

Io fui incaricata della dolorosa missione di prevenire mio zio del suo state»; tremante, desolata, non trovai altre parole che queste: «Mio zio, il padre Giacomo è venuto a chiedere vostre notizie, vuole ella riceverlo un momento?». Esso mi guardò fissamente, mi capì, mi strinse la mano; mi rispose: — Fallo entrare. — Poscia chiese che si lasciasse solo.

Il suo colloquio col curato durò una mezz'ora circa, ed allorquando il padre Giacomo si ritirò, mio zio fece chiamare il signor Farini, a cui indirizzò queste parole: Mia nipote mi ha fatto venire il padre Giacomo, debbo prepararmi al gran passo dell'eternità. Mi sono confessato ed ho ricevuto l'assoluzione; più tardi mi comunicherà. Voglio che si sappia, voglio ohe il buon popolo di Torino sappia clic io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo, non ho mai fatto male ad alcuno...

Entrai dopo il signor Farini e supplicai mio zio che mi promettesse di chiamare od il signor Riberi, o Bufialini, o Tommasi di Napoli, che il pubblica si faceva premura perché fossero consultati. «Ormai è troppo tardi, rispose, forse chiamati più presto mi avrebbero salvato. Però, se tu lo vuoi, fa venire il signor Riberi».

Erano le otto del mattino quando mandai a chiamare il signor Riberi; egli venne alle cinque della sera. I medici ordinari prescrissero delle ventose aIfa nuca e dei vescicanti alle gambe. I vescicanti non si attaccarono, e mio zio non sentì neppure la dolorosa applicazione delle ventose. Appena dal pubblico si seppe che il conte doveva ricevere il Viatico, la folla trasse verso la Madonna degli Angeli per iscortare il SS. Sacramento. Verso le 5, la processione si pose in marcia, e poco dopo mio zio riceveva il Viatico fra i singhiozzi d'una famiglia e di una popolazione desolata.

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Dopo la funzione, mio zio ringraziò con effusione il parroco, e gli disse: «lo sapeva bene che voi mi avreste assistito nella mia ultima ora». Poscia, spossato (essendo rimasto seduto fino a quel momento), si coricò supino per non più rialzarsi. In quel frattempo giunse il signor Riberi. Mio zio lo riconobbe immediatamente e gli disse, sorridendo: «Io vi ho fatto chiamare un po' tardi, perché non era ancora un malato degno di voi». Riberi s'intrattenne a lungo coi dottori Rossi e Mafl'oni, ma non ordinò che rimedi insignificanti. Nel ritirarsi ci invitò a far prendere un po' di cibo al conte, giacchè il polso era assai depresso. Promise di ritornare verso le undici, ma non ci diede alcuna speranza. Verso le nove si annunziò l'arrivo del Re, che per evitare la folla che ingombrava il cortile, la grande scala e quasi tutta la casa, entrò da una piccola scala e per una porta nascosta prima che avessimo prevenuto l'ammalato della visita che doveva ricevere. Mio zio riconobbe perfettamente il Re, e gli disse: «Sire, ho molte cose da comunicarle, molte carte da farle vedere, ma sono troppo ammalato, mi sarà impossibile andarla a visitare, ma domani le invierò Farini, le parlerà di tutto minutamente. Vostra Maestà non ha ricevuto da Parigi la lettera che aspettava? L'Imperatore è ora assai benevolo per noi, sì molto benevolo, ed i nostri poveri Napoletani, sì intelligenti; ve ne sono che hanno molto ingegno; ve ne sono anche di quelli che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli. Sì, o Sire, si lavino si lavino».

Il Re strinse la mano del suo ministro morente e sortì per parlare coi medici. Esso supplicò il signor Riberi di tentare un salasso alla iugulare o di mettere qualche sanguisuga dietro l'orecchio per liberare il cervello. Il signor Riberi rispose che lo stato dei polsi non lo permetteva, ma che se il malato passava la notte si sarebbe all'indomani potuto tentare gli estremi rimedi dell'arte. Partito il Re, il conte riprese la serie de’ suoi discorsi:

«L'Italia del Nord è fatta, diceva egli, non vi sono più Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli; noi siamo tutti Italiani; ma vi sono ancora dei Napoletani. Oh vi ha molta corruzione nel loro paese. Non è loro colpa, poveri diavoli, furono così mal governati. Gli è quel briccone di Ferdinando. No, no, un governo tanto corruttore non può essere ristaurato, la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il paese, educare i fanciulli e la gioventù, creare delle sale d'asilo, dei collegi militari; ma non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani. Essi mi domandano degli impieghi, delle croci, degli avanzamenti; bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, avanzamenti, decorazioni; ma sopratutto non si sorpassi a nulla per es. si, l'impiegato non deve essere nemmeno sospettato. Non istato d'assedio, non questi mezzi di governo assoluto. Tutti sanno governare collo stato d'assedio. lo li governerò colla libertà e mostrerò ciò che possono fare di quelle belle regioni dieci anni di libertà. Fra vent'anni saranno le provincie più ricche dell'Italia. Non mai stato d'assedio: ve lo raccomando.

«Garibaldi, proseguì egli, è un galantuomo, io non gli voglio alcun male. Esso vuole andare a Roma e Venezia, ed io pure; nessuno ha più fretta di noi. Quanto all'Istria e al Tirolo è un'altra cosa. Sarà per un'altra generazione. Noi abbiamo fatto abbastanza, noi altri abbiamo fatta l'Italia: sì l'Italia, e la cosa va.

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E poi quella confederazione tedesca e un'anomalia: essa si discioglierà e l'unità tedesca sarà fondata, ma la Casa d'Asburgo non potrebbe modificarsi.

Che faranno i Prussiani, essi così lenti a decidersi? Essi metteranno cinquantanni a fare quello che noi abbiamo fatto in tre.

«Mentre la febbre dell'unità assale l'Europa, all'America viene il ghiribizzo di dividersi! Intendete qualche cosa voi altri delle dissensioni intestine degli Stati Uniti? Quanto a me, che nella mia giovinezza sono stato un appassionato ammiratore degli Americani, ho ben perduto le mie illusioni, e confesso che quanto accade al di là dell'Atlantico, è per me un vero enigma!

Quindi mio zio mi chiese dove si trovavano i varii corpi del nostro esercito e parecchi militari suoi amici; turbata e commossa, io risposi male alle sue domande. Egli mi guardò con affetto e tristezza e mi disse: «Mia cara, tu non sai ciò che mi dici: poco fa mi dicesti che il generale P. comandava a Parma, come può essere che egli si trovi ora a Bologna?».

Soffocata uscii dalla camera per piangere. Egli continuò a discorrere con mio fratello, gli parlò del famoso discorso del signor Ricasoli in risposta al generale Garibaldi e del signor Farini, e disse che i signori Ricasoli e Farini erano i due soli uomini capaci di surrogarlo. Checchè abbiano detto più tardi i giornali, questi due uomini di Stato furono i soli che designò per suoi successori. La voce del mio povero zio, che fino a quel momento era stata fortissima, incominciava ad indebolirsi; i domestici spaventati ci dicevano: «La voce del signor conte diventa debole, quando cesserà di parlare, cesserà di vivere».

Il dottor Maffoni, che vegliava accanto all'ammalato, consigliò di fargli prendere del brodo con del pan trito e un bicchiere di Bordeaux. Prese il tutto con piacere, ed avendogli richiesto se aveva trovata buona la zuppa, mi rispose: «Troppo buona, Riberi ci sgriderà domani tutti e due. Di al cuoco che il suo brodo era troppo succulento per un ammalato come me». Era questa la prima volta che consentiva a prendere qualche nutrimento dacchè era ammalato. Ma tutto ad un tratto le sue gambe s'agghiacciarono, un sudor freddo ricoprì la sua fronte, e si lagnò d'un dolore al braccio sinistro, a quello stesso braccio, che dal giorno della domenica era freddo come il marmo.

Il dottor Maffoni tentò di riscaldare le membra gelate con dei cataplasmi, delle frizioni e dei panni caldissimi. I suoi sforzi furono vani. Egli mi ordinò allora di dare una tazza di brodo a mio zio, che la bevette con piacere, e mi chiese ancora un sorso di Bordeaux. Ma quasi tosto la sua lingua divenne spessa, e non parlò più che con difficoltà. Tuttavia mi chiese che gli si togliesse il cataplasma che aveva sul braccio sinistro, mi aiutò colla sua mano destra a toglierlo, mi prese la guancia, avvicinò il suo capo alla mia bocca, mi abbracciò due volte e mi disse: «Grazie e addio, mia cara o; poi dopo aver detto teneramente addio a mio fratello, parve prendere un istante di riposo. Ma il polso diventava ognor più depresso. Mandammo a chiamare il Padre Giacomo, che giunse alle cinque e mezzo coll'Olio Santo. Il conte Io riconobbe, gli strinse la mano e disse: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato».

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Queste furono le sue ultime parole. Il parroco gli amministrò il Sacramento degli agonizzanti in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici. Mio zio mi fece più volte segno di dargli del ghiaccio sminuzzato, ma avvedendomi che lo inghiottiva con difficoltà, bagnai il mio fazzoletto nell'acqua gelata e con

esso inumidii le sue labbra. Ebbe ancora la forza di prendere dalle mie mani il fazzoletto, e di recarselo egli stesso alla bocca per ispegnere la sete inestinguibile che lo divorava; qualche minuto dopo, giovedì 6 giugno, alle ore sei e tre quarti ilei mattino, due deboli colpi di rantolo tosto repressi ci fecero conoscere, che senza soffrire, senza agonia aveva reso l'anima a Dio.

DICHIARAZIONI DEL PADRE GIACOMO A ROMA

(Pubblicato TU settembre 1861).

La Civiltà Cattolica nel suo quaderno del 1° settembre 1861 reca la genuina esposizione dell'udienza data dal Santo Padre a P. Giacomo:

«Non appena fu giunto in Roma (dice l'ottimo periodico romano), dove era stato chiamato da lettera dei superiori del suo Ordine, il P. Giacomo da Poirino fu ricevuto in udienza dal Santo Padre. Sua Santità gli rivolse subito la parola in questa sentenza: «Sappiamo che a quanti vi domandano informazione sopra l'accadutovi nella morte del conte di Cavour, voi solete rispondere: trattasi di suggello sacramentale di confessione, e però io non posso dir nulla. Per non essere esposti a ricevere da voi una simile risposta, che, fatta a Noi, sarebbe un vero insulto, Noi vi dichiariamo che il suggello di confessione è cosa sì inviolabile, che voi avete il dovere di mantenerlo al cospetto di qualsivoglia autorità, fosse anche la più eccelsa, fosse anche la Nostra. Ma alla morte del Cavour vi furono alti esterni e visibili a tutti: gli fu amministralo il Viatico, e gli fu data l'Estrema Unzione. Quest'alto esterno dell'amministrazione dei Sacramenti richiedeva necessariamente un altro atto esterno, la ritrattazione, senza la quale voi, suo parroco, non potevate consentire ad amministrargli i Sacramenti della Chiesa. Del modo come questi atti esterni seguirono, Noi, custodi della santa disciplina della Chiesa vogliamo udire da voi medesimo la relazione». A queste sì gravi parole il dello Padre rispose, raccontando ciò che era già noto a tutti, che la ritrattazione non vi era stata, perché egli non avea allora creduto di esigerla. La quale relazione confermò poscia per iscritto, esponendo la serie dei falli avvenuti in quella dolorosa circostanza; e senza confessare esplicitamente, conforme al desiderio dell'autorità ecclesiastica, di avere egli mancato al proprio dovere, forse per la confusione di quei momenti sì difficili, dichiarò solo per le generali, che, se avesse in qualche modo mancato, ne dimandava perdono. Ottenutosi così, sebbene non interamente, lo scopo del suo viaggio, fu lasciato partire, inibendogli solamente di più oltre amministrare i Sacramenti, perché chi non seppe o non volle, in quel caso sì evidente, compiere il dovere proprio d'un ministro della Chiesa, non poteva senza danno delle anime esercitare un sì geloso ufficio».

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CINQUE LETTERE DEL CONTE DI CAVOUR

AL CONTE DI PER8ANO

(Pubblicate il 28 maggio 1863).

I giornali pubblicano nuovi documenti del conte di Cavour messi in luce dal signor Nicomede Bianchi. Ne leviamo queste cinque lettere, che meritano, di venir conservate per la storia. Esse sono dirette al Conte di Persano.

Signor Ammiraglio,

Torino, 11 luglio 1860.

Approvo senza riserva il suo contegno con il governo siciliano. Ella seppe dimostrarsi col generale Garibaldi ad un tempo fermo e conciliante., ed ha quindi acquistato sol medesimo una salutare influenza. Continui ad adoperarla per impedire che il generale non si lasci traviare dai pochi disonesti che lo circondano, è cammini per la via che deve condurre la nave d'Italia a salvamento. Può assicurare il generale Garibaldi che non meno di lui sono deciso a compiere la grande impresa; ma che per riuscire è indispensabile l'operare di concerto, adoperando tuttavia metodi diversi.

CAVOUR

Allo stesso.

Signor Ammiraglio,

Torino, 15 luglio.

Ricevo in questo momento le sue lettere, di cui la ringrazio. Dichiari formalmente in nome mio al generale Garibaldi essere una solenne menzogna che esistano altri trattati segreti, e che i rumori di cessione di Genova e della Sardegna sono sparsi ad arte dai nostri comuni nemici.

Le rinvio gli atti della mia distinta considerazione.

CAVOUR

Allo stesso.

Pregiatissimo signor Ammiraglio

Torino, 28 luglio 1860

Ho ricevuto le sue lettere del 23 e del 24 andante. Son lieto della vittoria di Milazzo, che onora le armi italiane e contribuir deve a persuadere all'Europa che gl'Italiani ormai sono decisi a sacrificare la vita per riconquistare patria e libertà, lo la prego dì porgere te mie sincere e calde - congratulazioni al generale Garibaldi.

Dopo sì splendida «vittoria, io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i Napoletani compissero od almeno iniziassero l'opera rigeneratrice, ma poiché NON VOGLIONO o non possono muoversi, si LASCI FARE A GARIBALDI. L'impresa non può rimanere a metà.

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La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il regno, estendersi lungo le coste dell'Adriatico, finché ricopra la regina di quel mare.

Si prepari adunque a piantarla colle proprie mani, caro ammiraglio, bui bastioni di Malamocco e di S. Marco. Faccia pure i miei complimenti a Medici e a Malenchini, che si sono portati egregiamente.

CAVOUR

Allo stesso.

Signor Ammiraglio,

Torino, 7 settembre 1860.

Non ricevendo altri ordini dal telegrafo, ella farà levare l'ancora la sera dell'11 e si recherà per la via diretta ad Ancona. Ivi si porrà in comunicazione col generale Cialdini, mandando imbarcazioni a terra nel sito il più opportuno. Si concerteranno assieme per impadronirsi nel più breve spazio possibile della città e cittadella d'Ancona. Gl'indico io scopo da raggiungere, lasciando a lei la scelta dei mezzi. Sarà raggiunto a Messina dal Dora carico di cannoni d'assedio, ella terrà a disposizione del generale Cialdini.

Se Garibaldi é a Napoli, vada a vederlo, e gli comunichi le istruzioni ch'ella tiene. Gli manifesti da parte mia il sincero desiderio di andare pienamente intesi per ordinare l'Italia prima, e fare poscia l'impresa della Venezia. Lo preghi di non fare parola per pochi giorni della destinazione della flotta.

Addio, ammiraglio, Dio l'assista, e prima che il mese si chiuda, ella avrà associato il suo nome al primo gran fatto glorioso, che segnerà il risorgimento della marina italiana.

CAVOUR

Allo stesso.

Dispaccio telegrafico — 22 ottobre 1860.

II telegrafo annunzi a che l'Imperatore ha fatto larghe concessioni all'Ungheria, ed ha nominato comandante dell'armala d'Italia l'arciduca Alberto, e capo di stato maggiore il generale Benedek. Ciò é molto minacciante. Ella tenga la squadra pronta a partire per l'Adriatico. Faccia una leva forzata di marinai in cotesti porti. Se il Codice napoletano non punisce di morte i disertori in tempo di guerra, pubblichi un decreto a tale effetto, e ove ve ne siano, li faccia fucilare. Il tempo delle grandi misure è arrivato. Dica al generale Garibaldi da mia parte che se noi siamo attaccati, io l'invita in nome d'Italia ad imbarcarsi tosto con due delle Sue divisioni per venire a combattere sul Mincio.

CAVOUR

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IL CONTE DI CAVOUR

IN VESTE DA CAMERA

(Pubblicato il 7 e 8 febbraio 1862).

I. Gli uomini vanno veduti in pianelle

e le donne in Cuffia (Proverbio Toscano).

Non è ancora giunto il momento da poter conoscere e giudicare liberamente e completamente il conte di Cavour, e ciò per tre ragioni principali; perché non si sentono ancora tutti gli effetti dell'opera sua, e si sentiranno a suo tempo; — perché non si possiedono ancora tutti i documenti che tardi o tosto per uno o per un altro motivo dovranno venire a gala; — perché finalmente se il conte di Cavour è morto, vivono e comandano molti de’ suoi amici e collaboratori.

Tuttavia noi riputiamo uffizio del giornalista conservatore tener d'occhio a tutte le pubblicazioni, e non lasciar passare nessuna rivelazione, nessun documento senza afferrarlo e raccoglierlo per la storia.

Nel gennaio del 1862 levò qualche rumore in Torino uno scritto del prof. Domenico Berti, intitolato: Lettere inedite del conte di Cavour, e pubblicato nel fascicolo XCVIII della Rivista Contemporanea, gennaio 1862. In quest'articolo si contengono molti brani di lettere famigliari scritte dal conte di Cavour, e che lo mostrerebbero non quale appariva nelle sue Note, nelle sue proteste, ne' suoi discorsi, ma quale era nell'interno dell'animo suo; ossia come abbiamo scritto, in veste da camera.

Ma tra tutte le lettere citate non ve n'ò forse una che lo sia interamente; dappertutto puntini, reticenze, incognite, frasi staccate, periodi rotti a mezzo; ciò che dimostra non essere ancora giunto il tempo da poter apprezzare il conte di Cavour, e il prof. Berti aver voluto scrivere piuttosto un'apologia del Rattazzi vivente, che un panegirico dello statista defunto. Ad ogni modo raccogliamo quel poco che ci venne regalato, e leggiamo insieme coi nostri associati l'articolo della Rivista.

Esordisce con una raccolta d'epigrammi tolti dalle lettere o da' suoi discorsi del conte di Cavour. Ecco il primo riferito colle parole del professore Berti: «Mentre (il conte di Cavour) era al Congresso di Parigi, vennegli fatto dall'Imperatore il presente di un bellissimo vaso di porcellana di sévres: egli nel darne contezza al suo collega ministro sopra l'interno, aggiunge — Se X lo sa (ed era questo un deputato), poveretto me, mi accuserà d'aver venduto l'Italia». Cotesto poteva essere un epigramma nel 1856, ma dopo la cessione della Savoia e della Contea di Nizza non lo pare più!

Ecco un altro epigramma del conte di Cavour raccolto in sull'esordio dal professore Berti: «Dopo la presa di Sebastopoli esortava il suo collega a far cantare il Te Deum, se non altro per avere il piacere di far fare delle brutte smorfie a' nostri amici i canonici» (Rivista, pag. 4). Ognun vede quanto frizzo ci fosse in queste parole, quanta-bontà, quanta religione, quanto rispetto per la Chiesa e pe' sacerdoti!

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Almeno sappiamo, perché talvolta i ministri usano alle chiese e chiedono le funzioni religiose!

Raccoglieremo un terzo epigramma, che servirà d'indovinello ai nostri lettori. Il conte di Cavour annunziava: «Scrivo una lettera studiatamente impertinente ad un nostro collega, per non avergli a dire in faccia: andatevene, siete incapace di fare il ministro»; e la scriveva, soggiunge il prof. Berti, senza frapporre indugio e scuse, e senza moderare la frase. Ai rimproveri, che gli venivano da altro suo collega su di ciò, rispondeva: «Ho caricato un po' troppo, me ne duole, gli riscriverò, non per ritenerlo, ma per placarlo» (Rivista, pag. 7). Ora indovinino i nostri lettori chi è questo ministro, che fu così gentilmente espulso dal ministero! Noi crediamo d'averlo indovinato. Il Berti nota che sono cinquanta e più i colleghi, che entrati con lui (Cavour) al ministero, o da lui si congedarono, o furono congedati (Rivista, pag. 8).

Celebrata la vena epigrammatica del conte di Cavour, il Berti passa a raccontare i tratti del suo coraggio: «Un giorno nella Camera, quando ancora non aveva acquistato quella supremazia, per cui comandava il silenzio agli amici ed agli avversarii, le tribune lo interruppero coi fischi. «Quanto a me i fischi non mi muovono punto: io li disprezzo altamente, e proseguo senza darmene cura. lo ho ascoltato religiosamente il deputato Brofferio, quantunque non professi le sue dottrine; ora ringrazio, non le tribune, di cui non mi curo, ma la Camera e la parte che mi siede a fronte della benigna attenzione, che ha prestato alle mie risposte». Queste parole che servivano al conte di Cavour per disprezzare certi fischi delle tribune, serviranno per noi affine di giudicare egualmente certi applausi.

Un altro tratto di coraggio del conte di Cavour è questo: «Gli era venuto per lettera da Ginevra che la polizia di quella città avea denunziato al nostro console essersi in una congrega colà tenuta divisato il suo assassinio. Egli senza punto turbarsi scrive al suo amico: «Mi rido della notizia che mi vien data, giacchè se morissi sotto i colpi di un sicario, morirei forse nel punto il più opportuno della mia carriera politica». E se la notizia è vera, prova, che l'assassinio del conte di Cavour non si divisava a Roma ma a Ginevra, ed è una circostanza da tenersene conto.

Il professore Berti a pag. 10 avverte che fin dal 1846 il conte di Cavour scriveva contro la Giovine Italia, scriveva in francese e chiamava le sue dottrine les doctrines subversives de la Jeune Italie, ed aggiungeva non esservi in Italia «qu'un très-petit nombre de personnes sérieusement disposées» a metterne in pratica gli esaltati principii. E chi avrebbe pensato che tra questo piccolissimo numero sarebbesi trovata di poi lo stesso conte di Cavour! Imperocché quanto oggi vediamo avvenire in Italia è proprio alla lettera ciò che insegnava e divisava Giuseppe Mazzini.

Siccome spesso il conte di Cavour parlava contro i clericali, così è utile sapere che cosa intendesse sotto questo nome. Cel dirà il prof. Berti: — Un giorno che nella Camera l'avv. Brofferio discorrendo contro la parte clericale asseriva che non volevasi quella confondere colla Chiesa, rispondeva il conte di Cavour le seguenti parole:

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«Se il partito clericale consta di tutti i sacerdoti che sono racchiusi nei chiostri e frequentano le sacristie, dove avremo noi da cercare quei pochi, quegli eletti che rappresentano quella morale cristiana, di cui ha così eloquentemente parlato l'onorevole oratore? lo veramente non saprei dove trovarli, ameno che egli volesse indicarci quei pochi sacerdoti che, disertali i templi ed abbandonati gli ufficii del pio ministero, credettero campo più opportuno per esercitare il loro nuovo apostolato i circoli politici ed i convegni sulle piazze (Rumori ed agitazione a sinistra}, o che egli volesse indicare come nuovi modelli e di questo spirito evangelico, di questa carità cristiana quei pochi che seco lui associarono i loro sforzi per mantenere costantemente un centro di agitazione nella città di Torino (Bisbiglio alla sinistra). Se ciò fosse, io dichiarerei senza esitazione all'onorevole deputato Brofferio, che i miei amici politici ed io intendiamo ben altrimenti lo spirito di religione e di morale cristiana».

Le quali parole contraddette poi da altre parole e da molti fatti, noi vogliamo dedicate a quei pochi sacerdoti, che danno tanto scandalo in Italia, ed anche a colui che forse fu comperato a danari contanti dallo stesso conte di Cavour.

Giunto a questo punto il professore Berti viene a dirci che il conte di Cavour avea due avversari da combattere, il Papa e l'Austria. È la formola del Mazzini che dichiarava guerra al Papa ed all'Imperatore! Il Cavour in un brano di lettera confidenziale diceva: «So noi ci mettiamo in relazione diretta con Roma roviniamo da capo a fondo l'edificio politico che da otto anni duriamo tanta fatica ad innalzare. Non è possibile il conservare la nostra influenza in Italia, se veniamo a patti col Pontefice (1)». Ed in un'altra lettera soggiungeva: «Se l'attuale nostra politica liberale italiana riuscisse pericolosa e sterile, in allora il Re potrà, mutando ministri, avvicinarsi al Papa ed all'Austria, ma fintantoché facciamo Memorandum e Note sul mal governo degli Stati del Pontefice, non è possibile il negoziare con lui con probabilità di buon successo». Ed un giorno il conte di Cavour diceva, come attesta il prof. Berti: «L'Austria è d'uopo combatterla così in Venezia ed in Milano, come in Bologna ed in Roma (2)».

Le quali cose furono svolte dal conte di Cavour nel suo Memorandum alla Prussia ed all'Inghilterra, in cui diceva che gli Italiani volevano combattere l'Austria, perché aveva riconosciuto i diritti della Chiesa col Concordato; e mostrava che la guerra divisata da lui e da' suoi era principalmente contro il Papa. Imperocché l'influenza austriaca in Roma non esisteva menomamente e 6e qualche cosa poteva imputarsi al governo pontificio, era forse d'essere stato troppo arrendevole all'influenza francese.

Ma di ciò parleremo in un secondo articolo, dove vedremo il conte di Cavour in viaggio per l'Europa, in conversazione coi diplomatici, alla mensa del principe Napoleone prima che sposasse la principessa Clotilde, e plenipotenziario sardo al Congresso di Parigi.

(1) Rivista Contemporanea, pag. 12.

(2) Rivista Contemporanea, pag. 13.

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II

Il conte di Cavour era stato clericale fino all'agosto del 1850. In uno dei nostri scritti, mandato alle stampe nel 48-49, lo levavamo al cielo, essendo proprio contenti di lui, ed egli viceversa non era scontento dell'armonia, e ci onorava di qualche visita, e considerava i nostri associati come i suoi fedelissimi amici. Anzi ci ricorda, che dovendosi in quel turno eleggere i Deputati, il parroco dell'Annunziata, che era Monsignor Fantini, poi Vescovo di Fossano, raccomandava la candidatura del conte di Cavour con queste parole: È un Deputato che fa la sua Pasqua. E realmente nella Pasqua del 1849 il conte di Cavour erasi accostato pubblicamente alla Mensa Eucaristica con grande compostezza ed edificazione.

Ma sullo scorcio del 1850 si dichiarò ben diverso da quello che parea. Essendo morto il conte di Santa Rosa, ministro d'agricoltura e commercio, e la morte sua avendo suscitato gravissimi disordini e scandali, il conte di Cavour scrisse e pubblicò una lettera, in cui approvava le misure extralegali adoperate contro l'Arcivescovo di Torino, gittato allora in cittadella, e poi esule a Lione, dove trovasi tuttavia, affranto più dai patimenti che dagli anni. E quella dichiarazione del conte di Cavour lo mise nelle grazie de’ rivoluzionari, e gli aperse le porte del ministero, nel quale potè avere appena un cantuccio come ministro d'agricoltura e commercio.

Uscì dal ministero presieduto da Massimo d'Azeglio, nel maggio del 1852, ed andò viaggiando per la Francia, per l'Inghilterra e per la Scozia. Il prof. Berti a pag. 17 della Rivista contemporanea ci reca una lettera, che il conte di Cavour scriveva al conte Ponza di San Martino sotto la data del 15 di agosto 1852. Risulta da questa lettera, che il conte di Cavour voleva rovesciare il d'Azeglio, e s'era inteso cogli Inglesi. «Cosa strana, scriveva, in Inghilterra i whig sono più teneri di Azeglio che non i tory. Palmerston mi pare averlo più a cuore che non Malmesbury............

I tory invece conoscono poco Azeglio e giudicano le cose dal lato intrinseco. La [questione romana sta loro molto a cuore, desiderano di vederci proseguire nella via che battiamo, temono la fiacchezza di d'Azeglio e desiderebbero che il ministero si fortificasse. Malmesbury me lo disse nel modo il più esplicito. Mi dichiarò senza frasi che il governo inglese desiderava il mio ritorno agli affari; avendo a ciò risposto: Mais je ne puis rentrer seul, je reprèsente un parti que j'ai travaillè à constituer et que certe je ne suis pus dispose a abbandoner. Egli soggiunse: C'est tout naturel, vovs ne pouves a rentrer aux affaires qu'avec vos amis. Queste parole vi danno un'idea esatta dell'opinione del gabinetto».

Dalle quali parole tre cose risultano: cioè come il Cavour andasse a provocare egli stesso direttamente l'influenza inglese in Piemonte; — come s'accordasse coi tory, che sono protestanti sfegatati, per combattere il Papa nella questione romana — come iniziasse a Londra quella serie di trattati e di misure economiche che tanto favorirono l'Inghilterra.

E poco appresso ebbe in Parigi un abboccamento con Urbano Rattazzi,

(1) Leggi il Panorama politico, ossia la Camera Subalpina in venti sedute.

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o non si sa né che cosa facessero, né chi vedessero, essendo stato incaricato il Rat tazzi di riferire al conte di San Martino quel che abbiam fatine quei che abbiam visto a Parigi, come appare dalla seguente lettera riferita dal prof. Berti, a pag. 18 della Rivista.

Parigi, 25 settembre 1852.

Carissimo,

Ho ricevuto con molto piacere la vostra del 21 andante. Sono lieto di vedere confermato dalla bocca stessa di d'Azeglio le notizie che altri mi aveva trasmesse sulle sue intenzioni. Credo in verità che la determinazione che egli ha presa, sia la migliore per lui, per noi, e ciò che più monta pel paese. Non vi dico altro, giacche un giorno dopo questa mia, Rattazzi giungerà a Torino, ed a voce vi parteciperà quel che abbiam fatto, quel che abbiam visto a Parigi. Io gli terrò dietro fra pochi giorni, ma avendo in mente di fermarmi una settimana a Ginevra, non giungerò a Torino prima del 15 ottobre. Spero che non sarete ancora partito per Dronero, e che ci abboccheremo immediatamente.

Vi saluto affettuosamente, C. Cavour.

Il conte di Cavour collegato con Rattazzi era lungi le mille miglia dal credere che Napoleone III li avrebbe aiutati amendue ne' loro divisamenti. E nel 1854 diceva alla Camera dei deputati: «Finché in Francia durò il reggime repubblicano, finché le sorti di quel paese pendevano incerte avanti i risultati dell'elezione presidenziale nel 1852, fintantochè lo spettro della rivoluzione sorgeva dietro l'immagine di quell'anno, io avea la certezza che fra noi il partito reazionario nulla avrebbe tentato contro le nostre istituzioni, nulla avrebbe fatto per impedire lo sviluppo regolare dello Statuto; ma quando, pel fatto del 2 dicembre, l'ordine non corse più nessun pericolo in Francia, quando e lo spettro del 1852 spariva interamente, io in allora pensai che, da un Iato, la fazione rivoluzionaria non era più da temere, e dall'altro, che il partito reazionario, od almeno quello che voleva arrestare il progressivo ed il regolare sviluppo dei principii dello Statuto, da quel giorno diventava pericoloso».

Laonde non è vero che il conte di Cavour traesse a sé Napoleone III, ma questi invece si prevalse per le sue idee del conte di Cavour, e le vere idee, i sinceri divisamenti dell'Imperatore de’ Francesi non sono ancora conosciuti!

Dopo la spedizione di Crimea il re Vittorio Emanuele II recossi a Parigi ed a Londra, e il conte di Cavour l'accompagnò. Il prof. Berti a pag. 29 della Rivista riferisce una lettera del Cavour, in cui racconta le belle accoglienze che i Sai Di ni fecero al loro Re. Eccola:

Caro collega,

Martedì 5 mattina.

Due righe per dirgli essere stata l'accoglienza del Re veramente splendida e calorosa quanto mai. In tutta la linea percorsa, autorità, guardie nazionali, popolazioni festeggianti: qui una folla immensa più da capitale che da città di provincia. Ovunque grida frenetiche di Viva il Re! ed anche non poche (ad onta dell'eccessiva mia modestia debbo confessarlo) di Viva Cavour!

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molti sindaci nelle loro ovazioni fecero il panegirico di Magenta, diventato, grazie alle sciocchezze del clericali, l'eroe dei liberali.

Il principe Napoleone, venuto all'incontro del Re sino a Modane, fu gentilissimo, non si burlò di nessuno, né di nulla, lodò il paese e la popolazione. Riparte quest'oggi per Parigi dove M. Du Plessis l'aspetta per andare ai Pirenei. Ritornerà in Torino in novembre. È pieno di speranze per l'Italia............. Ebbi con lui una lunghissima conversazione............. gliela racconterò al mio ritorno............. Saluti Lamarmora, e gli dica che le truppe erano bellissime. Non so se Castelborgo sia un gran generale; ma certo si è che gli è un gran buon diavolo. Mi ha ceduto il suo alloggio, ed è andato a dormire nella camera della sua ordinanza. Mi creda

Suo affezionatissimo

C. Cavour.

E pensare che pochi anni dopo questa Savoia generosa, festeggiante, riconoscente, affezionatissima, dovea essere ceduta alla Francia, e il trattato di cessione dovea portare sottoscritto il nome del conte di Cavour!

Dalla Savoia andò a Parigi, e vide molte persone, ed anche il conte di Montalembert. In una lettera riferita dalla Rivista, a pag. 30, 31, Cavour scrive: «Ieri sera mi son trovato con Montalembert; malgrado la poca reciproca simpatia, fu forza il darci ima stretta di mano. Ilo visto il Nunzio, acuì dissi quanto da noi si desidererebbe l'accordo sulle basi del sistema francese. Fece mostra di non capire. Di politica non le parlo. Mi ristringo a dirgli che quanto gli mandano col telegrafo rispetto all'Austria, si conferma».

Il conte di Cavour tornò a Parigi per la conclusione del trattato di pace colla Russia. E qui le sue lettere incominciano ad insinuare ciò che abbiam visto di poi. Il terzo o quarto giorno che era in Parigi, cioè il 20 febbraio, scriveva: «Ho reso conto in un dispaccio riservato delle conversazioni che ho avuto ieri coll'Imperatore. Non ho molto da aggiungere a quanto in esso ho detto: solo posso assicurarla che realmente l'Imperatore avrebbe volontà di fare qualche cosa per noi. Se possiamo assicurare l'appoggio della Russia, otterremo qualche cosa di reale, altrimenti bisognerà contentarsi di una furia di proteste amichevoli e di parole affettuose. Se non riesco non sarà per difetto di zelo; visito, pranzo, vo in società, scrivo biglietti, faccio quanto so».

In un'altra lettera scritta in quel turno diceva del futuro sposo della principessa Clotilde: «II principe Napoleone fu meco amabilissimo e manifestò opinioni a noi favorevolissime. Vedrò oggi il re Gerolamo che è pure un caldo nostro amico».

In una terza lettera del 9 di aprile 1856 il Cavour scriveva: In un lunghissimo dispaccio diretto a Cibrario riferisco minutamente la seduta del Congresso di ieri, in cui si trattò la questione d'Italia. Poco ho da aggiungere al mio racconto ufficiale... Walewski fu molto esplicito rispetto a Napoli, ne parlò con parole di aspra censura. Andò tropp'oltre forse, perché. impedì ai Russi di unirsi alle sue proposte. Clarendon fu energico quanto mai, sia rispetto al Papa sia rispetto al Re di Napoli; qualificò il primo di quei governi siccome il peggiore che avesse mai esistito, ed in quanto al secondo lo qualificò come avrebbe fatto Massari.

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«Credo che convinto di non poter arrivare ad un risultato pratico, giudicò dovere adoperare un linguaggio extra parlamentare. Avremo ancora una seduta animata quando si tratterà dell'approvazione del protocollo.

«Clarendon mi disse riservare la sua replica per quella circostanza. Nell'uscire gli dissi: Milord, Ella vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia, sarebbe tempo di adoperare altri mezzi, almeno per ciò che riflette il Re di Napoli, e Mi rispose, il faut s'occuper de Naples et bientot». Lo lasciai dicendogli; J'en irai causer avec vous. Credo poter parlargli di gettare in ariail B

Qualche cosa bisogna fare. L'Italia non può rimanere nelle condizioni attuali. Napoleone ne è convinto, e se la diplomazia fu impotente, ricorriamo a mezzi extra legali. Moderato d'opinioni, sono piuttosto favorevole a mezzi estremi ed audaci. In questo secolo ritengo essere soventi l'audacia la miglior politica. Giovò a Napoleone, potrebbe giovare anche a noi».

Credo poter parlargli di gettare in aria il B............ e Cavour scriveva intera la parola, e voleva dire il Re di Napoli. Ora la storia dee tener conto di questo, che un italiano siasi recato presso lord Clarendon in Parigi per parlargli dì gettare in aria un Re italiano; la storia dee dire che costui, il quale volea far gettare in aria dagl'Inglesi il Re di Napoli, chiamavasi conte Camillo Benso di Cavour, e protestava nelle sue note solenne amicizia al Re che volea gettare in aria, e nella Camera dei Deputati poco dopo chiamava tre volte insensati i rivoluzionari.

IL CONTE DI CAVOUR

SMENTITO DA LORD CLARENDON OTTO MESI DOPO LA SUA MORTE

(Pubblicato il 22 febbraio 1862).

Traduciamo dai giornali inglesi il seguente discorso detto da lord Clarendon nella Camera dei Lordi nella tornata del 17 di febbraio 1862 e relativo al Congresso di Parigi.

Lord Clarendon. Spero che le signorie vostre consentiranno che io parli d'un fatto che, sebbene riguardi me stesso, è di tale importanza generale, che gli schiarimenti che sono per darne, credo non solamente a me necessari, ma che sian per tornare pubblicamente utili. Già le signorie vostre avran conosciuto alcune lettere del conte Cavour che i giornali hanno, non ha molto, pubblicato; ora in queste lettere si accennano fatti a mio riguardo, che hanno in me creato la più grande meraviglia; e poiché ciò fu scritto quando io avevo l'onore d'essere Segretario per gli affari esteri nel governo della Regina, io sono in obbligo di dire che alcuni fra i particolari quivi narrati non sono veri. Io voglio bene essere mallevadore di tutto quel che dissi o feci mentre che tenevo quel carico pubblico, ma non posso certamente accettare quel che ò contrario alle mie azioni o detti, lo mi trovo fra due difficoltà contrarie: da una parte mi sento l'obbligo di chiarir le cose e dire com'esse veramente avvennero, e dall'altro canto sento repugnanza e dolore a dover contraddire il conte Cavour.

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Se egli ora vivesse, mi sarebbe agevole il correggere ogni inesattezza, a cui egli potesse essere involontariamente trascorso; ma poiché per grande sventura egli o mancato, io mi studierò di dire quel tanto che sarà necessario per rifiutare le cose più assurde dette sul mio conto.

L'assurdo sta precipuamente in questo, che io abbia potuto consigliare e spingere il Piemonte a romper guerra all'Austria, coll'accertare il conte Cavour che quello Stato sarebbe stato protetto e spalleggiato ancora dalle armi inglesi. Questo, dico, è tanto assurdo, che appena chiede confutazione. Quel che in tali affermazioni è di vero, è abbastanza conosciuto per la parte ch'io presi quando, come plenipotenziario inglese, parlai in favore dell'Italia nelle discussioni che, avvennero su questo argomento nel Congresso di Parigi. Il conte Cavour, fin da quando il Congresso la prima volta si adunò, insistette presso i plenipotenziarii di Francia e d'Inghilterra sulla necessità che le cose d'Italia fossero nel Congresso agitate.

Quei plenipotenziarii mostrarono al conte Cavour come fosse impossibile trattare una questione, ch'era al tutto fuori de’ lini, per cui si era adunata la Conferenza. Nondimeno, poiché la pace fu fermata,. la questione italiana fa mossa dai plenipotenziarii suddetti, e le parole che io dissi in tal congiuntura intorno ai governi di Roma e di Napoli, sono esattissimamente riferite nelle lettere del conte Cavour. Né io già mi ponto d'avere così parlato, 'perché sentivo, come ogni inglese sentiva, grande affetto verso i mal governati Italiani, e ardentemente desideravo che alleviata fosse l'oppressione e rotta la tirannia che aggravava quel popolo, d'un capo all'altro della Penisola; od io pensavo che il Congresso, dove i grandi Stati d'Europa erano rappresentati, fosse luogo acconcio a manifestare siffatti sentimenti e siffatti desiderii. Ma dalle lunghe e vive discussioni altro effetto allora non seguì se non che i plenipotenziari austriaci e francesi convennero, che gli Stati Pontifici dovevano, in tempo opportuno, essere sgomberati delle truppe di quelle due nazioni. Ma questo leggiero risultato non contentò, anzi quasi irritò il conte Cavour; il quale, guardando alle cose con animo da italiano e piemontese, aveva posto tutto il suo cuore nel poter liberare l'Italia settentrionale dalla dominazione austriaca.

Naturale era nel conio Cavour la mala contentezza e Io sdegno; perché, com'egli usava di dirmi, egli non avrebbe ardito tornare al Parlamento di Torino senza recare qualche buon effetto conseguito nel Congresso. lo il vedeva allora tutti i giorni, e con piacere ascoltavo le suo parole, il cui unico obbietto erano gli affari d'Italia, de’ quali ragionando, egli era tanto grave, quanto vivo e fecondo. Ma le nostre conversazioni non avevano indole abbastanza pratica per farne argomento di corrispondenza col governo della Regina; e però non se ne trova l'atta rimembranza in alcun de’ carteggi diplomatici.

Se così fosse stato, si sarebbe veduto che io sempre mostrai al conte Cavour la necessità, in cui noi eravamo, di serbare inviolati i trattati e lo stabilito dritto internazionale. Ma in pari tempo io non gli tenevo celato il nostro desiderio che l'Italia fosse libera da dominio straniero, e i governi di Napoli e Roma fossero riformati; dicendo come per conseguir tali Qui l'aiuto morale dell'Inghilterra non sarebbe mancato all'Italia.

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Il conte Cavour afferma nelle sue lettere ch'io dicessi queste parole: «Quando voi vi trovaste alle prese col vostro nemico, noi verremmo in vostro soccorso». Ora, se io avessi mai dettò questo, di che non serbo memoria alcuna, si sarebbe certamente riferito non alla guerra mossa dal Piemonte contro l'Austria, ma all'invasione del Piemonte fatta dall'Austria. Il conte Cavour sempre prevedeva un'invasione austriaca, e soleva dire che le libere istituzioni, la libera stampa, la libera parola mettevano il Piemonte nell'odio dell'Austria la quale non avrebbe mai posato infin a tanto che non avesse tentato di distruggere le libertà piemontesi. Di questo io mi sovvengo che, avendomi il conte domandato qual sarebbe stata l'attitudine dell'Inghilterra se il Piemonte fosse assalito, io gli risposi che l'Italia avrebbe in tal frangente avuto una prova pratica de’ sensi del Parlamento e del popolo inglese. Ma era questa opinione mia propria rispetto ad un caso ipotetico, alla qual dichiarazione non apposi io alcun'importanza, né credevo che sì grande ve l'avrebbe apposta il conte Cavour; sicchè fui meravigliato leggendo queste parole nelle sue lettere:

«Se le idee di lord Palmerston e degli altri ministri sono uguali a quelle di lord Clarendon, noi dobbiam fare apparecchi segreti, aprire un prestito di trenta milioni, e, tornato Lamarmora, offrire all'Austria un ultimatum, ch'essa non possa accettare, e cominciar così la guerra».

In un'altra lettera il conte Cavour diceva:

«Parlandogli (a lord Clarendon) de’ mezzi morali e ancor materiali per operare contro l'Austria, io gli dissi: mandate truppe sopra i vostri vascelli, e lasciate una flottiglia nel porto della Spezia».

Or io non mi ricordo aver trattato mai simili argomenti; ma la cosa è di per sé tanto strana, che io non posso credere che il conte stesso di Cavour mai accogliesse sì fatte speranze. Ma pensando all'ardore, con cui egli trattava quel che eragli tanto a cuore, e pensando al suo desiderio ardente di promuovere e aiutar l'utile del suo paese, io posso agevolmente comprendere, e spero che così faranno le signorie vostre, come le parole allora dette in via conversevole fossero da lui magnificate e aggrandite. Ma che io, segretario di Stato della Regina, senz'esserne richiesto da' miei colleghi, e contro a' dettati del comun senso, sapendo che l'Imperatore de’ Francesi in quel tempo non aveva alcun pensiero di far guerra all'Austria, anzi non voleva pur domandarle che levasse le sue truppe dalle Legazioni; che io in tali congiunture avessi raccomandato al Piemonte di commettere un atto così suicidale, come era quello di far guerra all'Austria, allora armatissima e con poderosi eserciti comandati da Radetzky, o incoraggiassi così una guerra con mezza Europa, è tale assurdità questa che io spero non mi sia bisogno di confutarla, né di ricorrere per ciò a quel carattere di soperchia discrezione e riservatezza, ch'esso conte Cavour m'attribuisce nelle sue lettere (Applausi}.

LETTERA DEL CONTE DI CAVOUR

CONTRO LO STATO D'ASSEDIO

(Pubblicata il 19 settembre 1862).

La Nazione di Firenze pubblicava, nel suo numero del 17 settembre, una lettera del Conte di Cavour contro lo stato d'assedio. La Nazione premetteva a quel documento le seguenti parole: «La lettera del conte di Cavour è del 2 ottobre 1860: quella data è preziosa. Allora l'edificio dell'unità italiana non era costrutto che in parte, e quella parte era troppo fresca per essere sicuri che la calce avesse fatto presa: allora la rivoluzione nell'Italia meridionale aveva ben altre armi e ben altro prestigio che nel passato agosto: allora non era stata messa alla prova del tempo la saggezza addimostrata nei casi recenti da tutti gl'Italiani; allora finalmente v'era Camillo di Cavour, nel quale ognuno sapeva come e quanto si potesse riporre di fiducia.

«Nondimeno il gran ministro rigettò i consigli degli uomini più sinceri e illuminati: egli non volle separare la responsabilità del governo da quella del Parlamento; egli voleva acquistare all'Italia la gloria d'aver compiuta la sua rivoluzione con a fianco tutte le forme di libertà costituzionale».

Ecco la lettera:

Torino, 2 ottobre 1860.

Mio caro amico,

Vi ringrazio della lettera scrittami il 30 settembre, ma non sono d'accordo con voi nei consigli che essa contiene.

Funesta mi pare, a dirvela francamente, la proposta di fare accordare dal Parlamento al Re i pieni poteri, fino al completo scioglimento di ogni questione italiana.

Voi rammenterete senza dubbio quanto i giornali inglesi rimproverassero gl'Italiani per aver sospeso le garanzie costituzionali durante la guerra dell'anno scorso. Il rinnovare ora, in epoca di pace apparente, una tale disposizione avrebbe il più funesto effetto sull'opinione pubblica in Inghilterra, e presso tutti i liberali del continente.

Nell'interno dello Stato questo provvedimento non varrebbe certo a rimettere la concordia nel grande partito nazionale. Il miglior modo di dimostrare quanto il paese sia alieno dal dividere le teorie del Mazzini, si è di lasciare al Parlamento liberalissima facoltà di censura e di controllo. Il voto favorevole, che sarà sancito dalla grande maggioranza dei deputati, darà al ministero un'autorità morale di gran lunga superiore ad ogni dittatura.

Il vostro consiglio riescirebbe pertanto ad attuare il concetto di Garibaldi, che mira appunto ad ottenere una gran dittatura rivoluzionaria, da esercitarsi in nome del Re senza controllo di stampa libera, di guarentigie individuali, né parlamentari.

Io reputo invece che non sarà l'ultimo titolo di gloria per l'Italia di aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà alla indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali di un Cromwell, ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario.

— 85 —

Ora non vi ha altro modo di raggiungere questo scopo che di attingere nel concorso del Parlamento la sola forza morale capace di vincere le sette e di conservare le simpatie dell'Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pubblica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzionarie di uno o di più, uccide la libertà legale che vogliamo inseparabile compagna della indipendenza della nazione.

Credetemi sempre

Cavour.

UNA LETTERA DEL CONTE DI CAVOUR

CONTRO LE ANNESSIONI

(Pubblicata il 5 ottobre 1862).

La Nazione, del 3 di ottobre, n° 276, porta in capo una lettera scritta tisi conte di Cavour nel febbraio del 1860. La Nazione non dice a chi la lettera sia indirizzata; ma siccome essa può servire di documento per la storia, così noi la ristampiamo. Eccola:

«Torino, 1° febbraio 1860.

«Mi reco a premuroso debito di comunicarvi le quattro proposizioni fatte dall'Inghilterra alla Francia, delle quali ricevetti ieri ufficiale partecipazione. Nell'intento di dare assetto alle cose italiane sarebbe convenuto: «1° Che la Francia e l'Austria non interverrebbero colla forza negli affari interni della Penisola, eccetto che ne fossero invitate dal consenso unanime delle cinque grandi Potenze d'Europa;

«2° Che in conseguenza di questo accordo l'Imperatore dei Francesi prenderebbe gli opportuni concerti col Santo Padre per il ritiro da Roma delle truppe francesi. Quanto al tempo ed al modo di questo ritiro, dovrebbesi procedere in guisa da lasciare al governo pontificio tutta l'opportunità di provvedere al presidio di Roma mediante truppe di Sua Santità, e di adottare le necessarie precauzioni contro il disordine e l'anarchia. — L'Inghilterra crede che, mercé siffatti partiti e le provvisioni convenienti, la sicurezza di Sua Santità possa essere posta interamente in salvo. Saranno inoltre presi gli opportuni concerti per lo sgombro dell'Italia del Nord dalle truppe francesi in un periodo di tempo conveniente;

«3° II governo interno della Venezia non formerà oggetto di negoziati per le Potenze di Europa:

«4° La Gran Bretagna e la Francia inviteranno il Re di Sardegna ad assumere l'impegno di non mandare truppe nell'Italia centrale prima che i diversi Stati e Provinole che la compongono, non abbiano solennemente espressi i loro voti intorno ai loro destini futuri, col mezzo di una votazione delle loro Assemblee rielette.

«Nel caso in cui questa votazione riuscisse in favore dell'annessione al Piemonte, la Gran Bretagna e la Francia non richiederanno più oltreché le truppe sarde si astengano dall'entrare negli Stati e nelle provincie prementovate.

— 86 —

Queste sono le proposte dell'Inghilterra, le quali vennero in massima accettate dalla Francia. L'Imperatore dei Francesi fece soltanto una riserva intorno all'articolo su Venezia, la causa della quale egli intende di perorare e difendere co’ suoi buoni uffici.

«L'Imperatore vuole per altro che le sue intenzioni circa le surriferite proposte non vengano fatte pubbliche prima d'aver fatto pervenire a Vienna accomodate spiegazioni, ed avere avuto tempo d'invitare le Corti di Berlino e di Pietroburgo ad accedervi, affinché il nuovo assetto dell'Italia trionfi, sancito dalle due grandi Potenze del Nord. La Francia raccomanda pure caldamente che, durante questi ultimi e definitivi negoziati, niun atto si compia o s'intraprenda, il quale possa in forma alcuna alterare lo stato presente delle cose.

«Condizione unica dell'annessione si è un nuovo voto delle popolazioni, consultate non già col suffragio universale, ma per mezzo di nuove Assemblee elette nella forma che si reputerà più acconcia. Rispetto alla loro riunione il governo del Re ha aperto pratiche a Parigi e a Londra, delle quali io vi ragguaglierò a suo tempo. Queste avventurose notizie, che non senza profonda commozione dell'animo vi partecipo, provano che l'annessione può dirsi oggimai un fatto compiuto, e che è raggiunta la meta dei comuni desiderii.

«Gradite, ecc.

«C. Cavour».

LA VERITÀ SULLA MORTE

DEL CONTE DI CAVOUR

Il marchese Gustavo di Cavour ha indirizzato la seguente alle Nationalitès in risposta ad un articolo della Gazzette de France:

«Turin, 20 juin 1861

«Monsieur le Redacteur,

«L'article de la Gazette de Franco que vous m'avez signalé, contient de graves inexactitudes sur les circonstances qui ont accompagné les actes religienx par lesquels mon bien aimé frère a voulu consacrer le dernier jour de sa vie mortelle.

«Il est absolument faux qu'il ait fait, ou que l'on ajt exigé de lui avant sa mori, une rétractation formelle en présence de deux temoins.

«Il est faux pareillement qu'on ait fait demander par le télégraphe a Rome une dernière absolution pour lui au Souverain Pontife.

«Il est faux que notre cure qui l'a admirablement assiste a son lit de mort, se soit ensuite rendu a Rome.«Ce digne ecclésiastique, auquel mon frère accordai! beaucoup d'estima et de sympatie, n'a pas quitte Turin depuis le jour fatal de 6 juin, et il celebrerà demain dans son église paroissiale un service solenne en mémoire de son ancien paroissien.

«Veuillez aggréer, monsieur, l'expression de mes sentiments de parfaite considération.

«G. De Cavour».

— 87 —

IL CONFESSORE DEL CONTE DI CAVOUR

(Pubblicato il 9 agosto 1861).

È la quinta o sesta volta che la Gazzetta del Popolo si occupa ne' suoi primi articoli del Padre Giacomo da Poirino, amministratore della Parrocchia degli Angioli in Torino e ne piglia le difese, e ne scrive il panegirico, e unita col Siede di Parigi lo dichiara venerabile. Quest'episodio della nostra rivoluzione merita un cenno.

15 dapprima è da sapersi clic cosa già questo giornale intitolato la Gazzella del Popolo, che cosi all'improvviso mostra tanto zelo, tanto affetto, tanta devozione ad un prete, anzi ad un frate, e ad un frate mendicante, un di quei frati che si vollero di preferenza abolire, perché come diceva in Senato il conte di Cavour, favorivano l'accattonaggio (1).

Noi non andremo a cercare che cosa dicesse della Gazzella del Popolo il signor Brofferio. Descrivendo tre soli mesi delle sue pubblicazioni, scriveva dei suoi compilatori che altro non fecero se non «calunniare, denunciare, prostituire, corrompere, maledire, infamare, deludere, falsificare, non per trenta monete come Giuda, ma per cinque centesimi, senza l'onore del fico e della corda». (Voce nel Deserto, N° 20 del 29 dicembre 1850).

Non andremo a cercare come i suoi, compilatori un giorno protestassero di non essersi confessati, di non volersi confessare, e che non si confesserebbero nemmeno a termine di vita.

Non andremo a cercare come chiamassero l'ostia consacrata un gnocco, come muovessero la più aspra e insolentissima guerra al P. Ignazio, parroco della Madonna degli Angioli, e poi a tutti i frati in generale, ed ora principalmente al Papa.

(1) Nella tornata del Senato del 9 maggio 1855 il conte di Cavour si sbracciava contro frati e gli Ordini mendicanti. Fra le altre cose disse: Io credo, o signori, di dover dichiarare che, a parer mio, tutti gli ordini religiosi che riposano sul principio della mendicità, sono ora radicalmente inutili, sono ora dannosi» (Rendiconto Ufficiale, N° 147, pag. 515). E più innanzi, dopo aver detto che il governo doveva sbandierare l'accattonaggio, soggiungeva: «Ora, o signori, come potete sperare che si consideri l'accattonaggio come alto riprovevole, quando tanti stabilimenti, i quali sono considerali come rispettabili, e che debbono, finché esistono, essere rispettati, quando, dico, tanti stabilimenti sussistono sul principio dell'accattonaggio» (Loc. cit.).

— 88 —

Lasceremo tutto questo da parte, contentandoci di citare quello che dei preti, dei frati e del Cattolicismo scriveva la Gazzella del Popolo l'11 di luglio del 1861 nel suo N" 190. Leggete e inorridite:

«Coi preti noi non crediamo che sia punto bisogno di bazzicar mai, né nascendo, né vivendo, e tanto meno morendo, perché per solito in quest'ultimo periodo non si ha troppa voglia di mascherate. — E i preti vestiteli col tricorno, o berlindottescamente, col cilindro, strangolateli col colletto a uso cane, o col pezzuolo a uso bambinello, che non vuoi macchiarsi mangiando la pappa; vedeteli parati da messa o da vespro, da vivo o da morto, son sempre maschere anche se non si incollino un volto di cartone sulla faccia, perché già la faccia dei preti è sempre artificiale. — Peccato che ce ne sia qualcuno ancora di galantuomo. — E' quello che rovina il negozio, perché fa credere alla possibilità di una CIARLATANERIA, che un po' alla volta, man mano che si van squarciando le tenebre, va via dileguando all'apparir della luce.

«Tanto e tanto, tutto in una volta non si può avere. Per piantare sodamente il dominio di grandi verità, s'è dovuto pur troppo passar sempre attraverso lotte terribili, perché i bastioni dell'ignoranza fortificati in quiete da secoli, davano molto a sudare, e ne daranno ancora per Dio sa quanto, ai soldati della intelligenza».

Capite? Il Cattolicismo è una ciarlataneria, preti e frati sono ciarlatani e un po' alla volta, come dice il titolo dell'articolo, bisogna disfarsi della religione e del sacerdozio. Or bene la Gazzetta del Popolo è divenuta improvvisamente amica di uno di questi preti e di questi frati, e ben lungi dallo strangolarlo col colletto a uso cane, lo vuoi mettere in un Panteon.

Leggete ciò che la Gazzella del Popolo scrive nel suo numero 218 dell'8 di agosto, e voi vedrete come i suoi panegirici vengano ricambiati colle più rare confidenze e preziose comunicazioni.

RITORNO DI PADRE GIACOMO

Oggi padre Giacomo sarà di ritorno a Torino.

La città intiera gli dirà con effusioni. di cuore: «Padre, siate il benvenuto! La vostra condotta è il più eloquente elogio della vera religione. Alla vera religione voi avete fatto un gran bene coll'esempio della incrollabile vostra e fermezza, colla vostra rassegnazione a qualsiasi maltrattamento piuttostochè tradire il vostro dovere».

Ma con quali termini fu chiamato a Roma il padre Giacomo, e in quale scopo?

Con quali termini?

Eccovi la lettera che gli scriveva da Roma il ministro generale dell'Ordine per invitarlo a nome del Papa:

— 89 —

Lettera del Ministro Generale dell'Ordine al R. P. Giacomo.

«Molto Rev. Padre stim. mo,

«II Santo Padre mi incarica di invitarla a venire a questa Metropoli, perché brama abboccarsi con lei, e mi promette da quel che è di assicurarla da qualunque ombra di timore, lo poi son persuasissimo che lungi dal riportarne né pur un solo rimprovero, ne ritornerà pel contrario consolata, tranquilla e contenta, e sarà ciò di gloria per l'Ordine, e soprammodo per cotesta custodia. Mi dia ascolto e venga, che se per circostanze che da qui non possiamo tutte prevedere, non potesse venire di persona, basta anco che venga in vece di lei un qualche padre esperto e di valore. Ella conosce poi di quanta importanza sia questo comando. La benedico con paterno affetto intanto, e mi raffermo di V. P. Molto Rev. Roma, Araceli 13 luglio 1861.

«Aff. mo servo nel Signore

«Fra Bernardino, ministro generale».

«A. P. Giacomo amministratore della parrocchia

degli Angeli in Torino».

Il prelodato generale in un'altra sua in data 13 luglio al P. Provinciale, così si esprimeva: «Le accludo una lettera per consegnarla al P. Giacomo da Poirìno. Esorto lei a far sì che venga, o mandi persona di fiducia ed esperta, e senza neppure ombra di timore, perché il Santo Padre promette la sua parola di non bramar altro che udire col vivo della voce l'affare. Porto opinione che ciò sarà di molto onore per cotesta custodia e decoro dell'Ordine».

In un'altra, in data del 23 luglio, soggiungeva allo stesso provinciale: «Attendo con piacere il noto Padre, e giunto che sarà io stesso lo accompagnerò, lo assisterò in ciò che potrà occorrergli, e potrà star certo che verrà accolto con vero affetto ed amore paterno».

Malgrado queste melliflue e paterne assicurazioni, l'Europa intiera conosce come sia' stato trattato il povero Padre dalla Corte di Roma!

Ed Ecco il P. Giacomo divenuto un nuovo Galileo! Povera vittima! La Gazzetta ha detto che oggi sarà di ritorno in Torino. E noi vedremo le traccie dei suoi patimenti, vedremo i segni delle torture, delle tanaglie, delle corde, dei cavalletti, dei flagelli, dei cilici!... Se il P. Giacomo è un galantuomo, al dire della Gazzetta del Popolo, se è un peccato che tra parrochi ce ne sia qualcuno ancora di galantuomo, come essa diceva l'11 di luglio di quest'anno, dovrebb'essere contentissima che gli sia stata tolta l'amministrazione della parrocchia della Madonna degli Angioli.

Imperocchè sembra che tutte le torture inflitte al P. Giacomo si riducono a questa. Il Papa non gli ha torto un capello, ed ha lasciato che le cose procedessero gerarchicamente. L'Opinione del 7 di agosto ci disse che «il Padre Provinciale dell'Ordine dei Minori Riformati sospese P. Giacomo dall'ufficio di amministratore della parrocchia della Beata Vergine degli Angioli». Oggi, 8 di agosto, corregge la notizia e soggiunge: «II Provinciale non c'entra per nulla, ed il provvedimento non potrebbe essere stato preso che dal Generale dell'Ordine».

— 90 —

Comunque sia, è sempre una provvidenza interna dell'Ordine istesso, e, cosa singolare! gli apologisti del P. Giacomo combattono l'Ordine a cui appartiene!

Ma perché sospenderlo dalla parrocchia? Qui la menzogna e l'impudenza rivoluzionaria oltrepassano ogni confine. La Gazzetta del Popolo e la Gazzetta di Torino osano stampare che si voleva costringere P. Giacomo a rivelare la confessione di Cavour! Chi scrisse queste parole sa d'aver mentito, e se il Padre Giacomo vorrà fare il suo preciso dovere, egli stesso protesterà contro tanta calunnia. La Chiesa ha un così grande rispetto pel sigillo sacramentale che tutto tollera, tutto permette, innanzi che offenderlo menomamente, ed ha posto sugli altari Giovanni di Nepomuceno, vittima della sua fedeltà al segreto della Confessione.

Non è come confessore che il P. Giacomo fu interrogato, ma come amministratore della parrocchia. Egli non aveva nulla da dire quanto al Sacramento della Penitenza, bensì quanto al Viatico. Questo era un fatto pubblico, che non poteva avvenire se non sotto certe condizioni che sono gli elementi della morale cattolica. Il Generale dell'Ordine, a cui appartiene il P. Giacomo, l'ha stretto con questa argomentazione: O voi non avete studiato de Re Sacramentaria, o non avete voluto mettere in pratica ciò che la Chiesa prescrive. In un caso o nell'altro non siete atto all'amministrazione della parrocchia, e vi sospendo. — Che cosa hanno a ridire i fautori della Chiesa libera in libero Stato? Lo stesso conte di Cavour, se fosse vivo, non riconoscerebbe i diritti della Chiesa e dell'Ordine?

Ma la rivoluzione si affretta a cogliere questa circostanza per rendere odiosa la Confessione. Si è per ciò che i signori della Gazzetta del Popolo, i quali protestarono di non confessarsi mai, gridano al sacrilegio, ed esclamano: Oh rendiamo onore al P. Giacomo! Egli ha separata e salvata la religione da questo immenso scandalo, che sarà eternamente l'obbrobrio del governo papale!».

Ma nessuno invidierà questi onori venuti da chi scrisse un mese fa: «Coi preti noi non crediamo che sia punto bisogno di bazzicar mai, né nascendo né vivendo, e tanto meno morendo». Ed eccoti onorato il P. Giacomo come a/vatore della religione da chi negò perfino la necessità del Battesimo!

I RAPPRESENTANTI ITALIANI

RAPPRESENTANO L'ITALIA?

(Pubblicato il 3 agosto 1861)

La Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, che noi possiamo chiamare benissimo e chiameremo d'ora innanzi Giovane Italia, il 29 di luglio pubblicava due supplementi al suo n. 183, i quali contenevano una statistica del Senato e della Camera elettiva. Del Senato abbiamo detto ieri una parola, ma siccome nessun pretende che rappresenti l'Italia, essendo i Senatori nominati dal Ministero, così non vale la spesa di fermarvisi più in là. Faremo qualche osservazione sulla statistica della Camera elettiva, il cui voto si vuole che sia il voto di tutti gli Italiani.

La Giovane Italia come è composta presentemente novera, secondo gli ultimi censimenti, 21, 915, 242, e in cifra rotonda possiamo ben dire 22 milioni di abitanti, e si divide in sei spartimenti: 1° Provincia antiche e lombarde; 2° Provincie napoletane; 3° Provincia siciliane; 4° Provincie dell'Emilia: 5° Provincie della Toscana; 6° Provincie delle Marche e dell'Umbria. In tutto la Giovane Italia elegge 443 deputati.

Le provincie antiche e lombarde dovevano eleggere 144 Deputati, cioè un deputato ogni 49, 332 abitanti. Erano iscritti 154, 928 elettori, e si presentarono a dare il voto soli 81, 535. Di questi votanti quanti votarono in favore de’ deputati che siedono in Parlamento? Ecco una cifra che manca nella statistica pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale. Eppure questa cifra è importantissima, imperocchè nessuno vorrà pretendere che. il deputato eletto rappresenti coloro che gli diedero il voto contrario!

Ora noi domandiamo: 1° Si può egli dire in buona coscienza che 81, 535 votanti racchiudano in sé i desiderii, l'avvenire, la fede, e la politica di sette milioni? 2° Si può egli dire che i 172 che elessero il deputato di Rho, i 144 che elessero il deputato del secondo Collegio di Como, i 193 che elessero il deputato di Vimercate, si può dire che rappresentino tre volte 49, 000 abitanti?

Le provincie napoletane contengono una popolazione di 7, 167, 952 abitanti, «furono chiamate ad eleggere 144 Deputati. Erano iscritti sulle liste 130, 612 elettori. Presentaronsi a votare 85, 157. Quanti votarono in favore degli eletti la Gazzetta Ufficiale non dice. Tuttavia anche dalle sue cifre risulta che 85, 000 individui rappresenterebbero la volontà di sette milioni. È egli possibile?

Nelle provincie napoletane si calcola un Deputato ogni 49, 777 abitanti: ed eccovi perciò i 154 di Avezzano che votano per cinquantamila! Che rappresentanza è mai questa? Dove trovasi la maggioranza? Non abbiamo invece una minorità, che dispone delle sorti e delle fortune dei più?

E parlando delle elezioni napoletane non si vuol pretermettere di considerare come Liborio Romano, il cui nome dice tutto, fosse eletto in ben otto Collegi, cioè in quelli di Tricase, Campobasso, nell'8° di Napoli, Atripalda, Sala, Bitonto, Altamura e Palata. Liborio Bomano venne in Torino rappresentante di 400, 000 persone!

— 92 —

Rappresentava cioè due volte più degli elettori che si presentarono a votare in tutto quanto il giovane Regno d'Italia, Liborio Romano poteva dire con molta ragione: La Giovane Italia sono io.

Le provincie siciliane contano 48 collegi elettorali: hanno iscritti 46, 176 elettori, e votarono 36, 718. La Gazzella Ufficiale osserva: «Per affluenza alle urne elettorali la Sicilia va innanzi a tutte le altre provincie, ed alcune si lascia indietro d'assai». Benissimo: ma tuttavia le provincie siciliane contengono una popolazione di 2, 309, 172 abitanti, i quali verrebbero rappresentati da soli 36, 718 cittadini che diedero il voto. Vi pare questa una vera rappresentanza?

Passiamo alle provincie dell'Emilia, che contano 42 collegi, rappresentanti ciascuno 50, 645 abitanti. Qui s'erano iscritti 34, 742 elettori, ma nemmeno la metà si presentirono a votare. Soli 15, 498 accorsero alle urne; e così abbiamo una popolazione di 2, 127, 105 posta alla mercé dei Deputati da soli quindicimila elettori. 199 di Bettola disposero di 50, 645 abitanti. 165 di Montecchio disposero di 50, 645 abitanti. 188 di Pontremoli disposero di 50, 645 abitanti. 178 di Vergato disposero di 50, 645 abitanti. 165 di Modena disposero di 50, 645 abitanti, e così via discorrendo!

Nelle provincie toscane sono 37 Collegi elettorali, e iscritti 37, 713 elettori, de’ quali votarono solamente 16, 714! Di guisa che 16, 714 cittadini disposero delle sorti, degli averi, della religione di 1, 813, 856 abitanti. E siccome in Toscana si calcola un Deputato ogni 49, 023 cittadini, così I46di Capannori votarono per 49, 000; 118 di Vicopisano per 49, 000; 197 di San Casolano per 40, 000! Oh che bella rappresentanza!

Finalmente nelle Marche e nell'Umbria trovansi 28 collegi elettorali, e iscritti 15, 767 elettori, de’ quali non si presentarono a votare che 6, 745; e così questi 6, 745 disposero delle sorti di 1, 393, 326 cittadini. Ogni Collegio nelle Marche e nell'Umbria contiene 49, 761 abitanti; epperò 145 di Sinigallia votarono per 49, 761: 110 d'Jesi per 49, 761; 159^'Ascoli per 49, 761; 194 di Fabriano per 49, 761; 184 di Fermo per 49, 761, e via via.

Le Marche e l'Umbria, all'udire i nostri italianissimi, erano avverse al Papa, e sospiravano con grande impazienza il nostro governo costituzionale. Eppure» venuto il giorno della votazione, si presentano all'urna 157 di Cagli; 148 di Fano; 125 di Montegiorgio; 108 di Poggio Mirteto; 152 di S. Benedetto; 158 di S. Severino, e non uno di più, E ognuna di queste centinaia di persone ha votato per 49, 000 cittadini!

Insomma il nuovo regno della Giovane Italia contiene 21, 915, 243 abitanti, ed elessero la Camera dei Deputati soli 242, 367 votanti. Dunque egli resta matematicamente provato che i rappresentanti del regno d'Italia non rappresentano tra 22 milioni che i 242 mila, i quali presero parte alla votazione. Se il voto di 242 mila possa spacciarsi pel voto di 22 milioni, lasciamo decidere al discreto lettore.

Ma abbiamo già avvertito, che la Gazzetta Ufficiale dà bensì il numero dei votanti, non il numero dei voti conseguiti dall'eletto. Questo lavoro l'abbiamo fatto noi. I 443 Deputati eletti ottennero soli 170, 567 voti.

— 93 —

Cosicché vedete come le cifre rimpiccioliscono:

Popolazione totale

21, 915, 243

Elettori iscritti

419,938

Elettori votanti

242, 367

Voti ottenuti

170, 567

 

Dunque l'ultima cifra rappresenta la prima: 170, 567 rappresentano 21, 915, 2431

E ciò è detto in generale, perché se pigliamo le elezioni parziali, 57 Deputati non ottennero 200 voti, 161 non ne ottennero 300, 159 non ne ottennero 500, e 2 soli ne ottennero più di 1000, mentre abbiamo 166 Collegi che contano più di 1000 elettori!

Ma dalla cifra dei 170, 567, che votarono in favore dei Deputati eletti, debbono farsi le sottrazioni di tutti gli elettori impiegati, che furono costretti od ebbero interesse a votare. Tutti questi impiegati si possono calcolare un 70, 000 in tutta la Giovane Italia; laonde ci restano soli 100, 000 elettori indipendenti su 22 milioni; e questi 100, 000 elessero il primo Parlamento Italiano!

IL REGNO D'ITALIA

DIPINTO DAGLI ITALIANISSIMI

(Pubblicato il 17 agosto 1861).

Il Popolo d'Italia del 10 di agosto, N. 216, pubblica un indirizzo che molti Deputati italianissimi trasmisero a loro elettori, e noi leviamo da questo documento le seguenti dichiarazioni:

I. «Vedemmo inaugurato un regno di Savoia e non italiano». Che il regno non sia italiano transeat, ma che sia un regno di Savoia non può esser vero se non in quanto la Savoia appartenendo alla Francia, l'Italia d'oggidì è un'Italia francese.

II. «Ci trovammo, sotto pretesto di diplomazia, ridotti ad un'inane dimostrazione, che dichiarava Roma nostra capitale: dimostrazione, la quale adesso ci accusa d'impotenza e mette in dubbio l'esistenza stessa del regno».

IIl. «Meglio sarebbe stato il tacere e il vivere come i Longobardi e i Franchi esuli dal Campidoglio, che il dirsi Italiani e Romani senza avere il coraggio di esserlo».

IV. «II ministero mutava quattro volte il supremo suo delegato a Napoli. La guerra civile continua, le recenti stragi superano quelle dei mesi trascorsi».

V. «Nel Parlamento le varie consorterie fortificate dagli impieghi, dalle missioni, dalle aspettative, dagli odii stessi territoriali abilmente utilizzati, rifiutarono ogni misura conciliatrice, fino a negare la urgenza accordata per solito: tutte le petizioni quando noi la chiedemmo por rivocare in patria il maestro stesso di Garibaldi e di Cavour (Mazzini)».

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VI. «II prestito si sottoscriverà al 70 per 0|0, del 22 per cento al disotto di ogni prestito europeo». E poi Ricasoli ha il coraggio d'invocare la sottoscrizione del prestito come un tratto di patriottismo!

VII. «Fu rovinato il credito delle rendite napoletane e siciliane decadute senza profitto di alcuno, del 40 per cento». E poi vogliono che Napoletani e Siciliani siano contenti, e facciano festa!

Vili. «In Italia ogni cosa ridotta a inutile stento lascia l'odioso carattere del provvisorio in ogni istituzione; e l'incertezza giunge a tale che l'ultima legge proposta dal ministro dell'interno sull'amministrazione del Regno, dichiaravasi essa stessa misura provvisoria di altra legge provvisoria non ancora votata».

IX. «Questo è il reggime che venne sostituito alla vera unità della nazione, questa la prosperità che ci promette l'amministrazione attuale, questa la situazione del nostro Stato senza metropoli, senza tradizioni, senza principii».

Queste ultime parole definiscono a meraviglia il nuovo Regno d'Italia. Chi volesse compendiare la definizione in più breve sentenza potrebbe dire: Torre di Babele. Chi desiderasse una parola sola: Caos.

Abbiamo il caos nell'amministrazione, il caos nella finanza, il caos nell'istruzione pubblica, il caos nella giustizia, il caos nella politica interna ed estera. Guerra civile, debiti immensi, unione discorde, regno senza capitale, servitù sotto nome d'indipendenza, stragi continue, incertezza generale, provvisorio del provvisorio, ecco il regno d'Italia secondo gli stessi italianissimi.

Il senatore Matteucci, il 12 di agosto, scriveva una sua lettera ad un giornale di Torino, conchiudendo: «Che bella cosa se imparassimo una volta a dire come gli Inglesi: che presto o tardi l'Inghilterra deve perdere le Indie!» Noi non diremo che cosa il Piemonte tardi o tosto debba perdere: diremo solo che gli Stati che durano non hanno nulla che rassomigli al presente regno d'Italia.

L'Opinione del 15 di agosto si consola che le reazioni di Napoli non possono durare a lungo contro l'energica repressione delle armi nostre. Certo, quando tre quarti del reame saranno o fucilati, o in prigione, o in esilio, non vi sarà più lotta a Napoli; ma vi sarà un governo costituito? Vi sarà quella civiltà, quel progresso, quella rigenerazione dipinta da Tacito: Dum solìtudinem faciunt pacem appellant!

Lamartine aveva torto, quindici anni fa, quando chiamava l'Italia la terra dei morti; ma oggidì con molta ragione potrebbe chiamare questa povera penisola la terra dei fucilati e dei fucilatori.

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CURLETTI E I MISTERI DI TORINO

(Pubblicato il 20 e il 21 settembre 1861).

I.

«II pubblica aspetta che la luce sia fatta e prenderà anch'egli le sue conclusioni in seguito, e andrà irremovibilmente FINO AL FONDO DI TUTTI QUESTI MISTERI» Gazzetta del Popolo (N° 258, 18 settembre 1861).

Eugenio Sue scrisse I Misteri di Parigi, un altro I Misteri di Londra; ma erano romanzi: noi scriviamo I Misteri di Torino nel settembre del 1861, e sono storia, pura storia, che commove la nostra città, che spaventa i nostri concittadini pel presente e molto più per l'avvenire. Qui non trattasi di opinioni politiche, trattasi di giustizia, e parleremo francamente, chiaramente, certi di avere con noi tutti gli onesti di qualunque pensare.

Viene arrestato e processato un certo Cibolla, reo di furto, di stupro, d'omicidio, e per ragione d'età è condannato soltanto a venti anni di galera. Giovane di svegliato ingegno, parte per vendetta, parte per capriccio, parte per desiderio di popolarità, incomincia a fare una serie di gravissime propalazioni, accompagnandole con tali e tanti indizi, e circostanze di tempo, di luogo, e di persone, che non è possibile sospettare menomamente della veracità delle sue denunzie.

Il fisco non ne dubita, e spicca l'ordine di procedere col massimo rigore contro tutti gli arrestati; un solo, che il Cibolla aveva denunziato come capo, ordinatore, promotore degli assassini! commessi è lascialo libero, e questi è Filippo Curletti. Il quale era già stato il capo della polizia in Torino, era stato chiamato da Sua Eccellenza Farini a riordinare la polizia in Bologna; e il marchese Napoleone Pepoli l'aveva voluto nell'Umbria per ristabilirvi l'ordine morale: e il generale Della Rovere lo desiderava ardentemente a Palermo. Nuovo Omero, sette città se lo disputavano, e Napoli era la fortunata; Napoli che Io aveva ottenuto e lo possedeva per reprimere i briganti e cessare le corruzioni dei Borboni !(1).

(1) Confermiamo le nostre asserzioni coll'autorità dell'Opinione N° 258, 19 settembre: «Il cav. Farini, quando fu dittatore dell'Emilia, l'aveva chiamato (il Curletti) a Bologna per ordinarvi il servizio di polizia e costituirvi il corso delle guardie di sicurezza pubblica. Egli avevagli assegnato uno stipendio di 5000 franchi. Forse perché questa rapida promozione avesse suscitati mali umori, il dittatore collocò il Curletti in disponibilità, conservandogli lo intero stipendio. Il marchese Pepoli invitò poscia il Curletti a recarsi nell'Umbria per ordinarvi le guardie di pubblica sicurezza, e lo stesso incarico gli era stato affidato a Napoli. Il generale Della Rovere, stimando la capacità del Curletti, scrisse a Torino, perché fosse mandato a Palermo, affine di ordinar anche colà la guardie di sicurezza pubblica».

Lo cariche sostenute e che sosteneva il Curletti facevano un solenne obbligo al fisco di procedere tosto contro di lui, e ciò nell'interesse prima della giustizia, poi nell'interesse del Curletti medesimo, e finalmente nell'interesse dei governo, che a qualunque costo dovea purgarsi

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dei sospetti gravissimi che sarebbero pesati sul suo capo. E doveva procedere per mettere in chiaro tutto l'avvenuto nei plebisciti di Romagna e dell'Umbria, i quali ebbero luogo quando la polizia in que' paesi stava nelle mani del Curletti. Non vogliamo già dire che egli ci entrasse menomamente, o che que' plebisciti si ottenessero con male arti; ma solo ch'era dovere del fisco di procedere più diligentemente che mai, poiché una questione di giustizia criminale poteva complicarsi con una questione di politica.

Ma tant'è, contro tutti i denunziati dal Cibolla si procedeva, e contro il Curletti no. Intanto durante il processo, e in seguito agli interrogatorii la veracità del denunziante appariva come la luce del mezzodì, e risultavano a carico del Curletti i più gravi indizi. Poco amici della pubblicità dei processi dobbiamo questa volta confessare che l'intervento del pubblico agli avvenuti dibattimenti fu di gran vantaggio al paese. La voce pubblica levavasi ogni giorno più contro il Curletti, e la giustizia non potè più a lungo lasciarlo in disparte.

Non si creda tuttavia che il Curletti si arrestasse, o si mettesse semplicemente nel novero degli accusati. Egli, come dicevamo, stava a Napoli organizzando la pubblica sicurezza, e venne pregato di recarsi a Torino a suo bel agio, in qualità di testimonio per dare degli schiarimenti sull'intentato processo. Ma il Curletti non entrava nel processo medesimo che come accusato, e non si comprese mai come potesse trasformarsi in testimonio! Il Cibolla aveva detto che il Curletti era reo, e non che conoscesse i rei. O si doveva arrestare subito, o non cercare menomamente di lui.

Dopo tre lettere che lo chiamavano, il Curletti ebbe la bontà di venire in Torino, fu udito come testimonio, e trovossi a faccia a faccia col Cibolla, che gli ripetè le accuse, e lo dichiarò il capo degli assassini insieme con persone ancor più alto locate. Il Curletti si tonno in sul negare, accennando in sua difesa circostanze che nell'atto medesimo del dibattimento risultarono della più assoluta falsità.

Né si creda che contro il Curletti stesse solamente il Cibolla, un volgare assassino, come chiamavalo il Curletti medesimo. Deponeva contro di lui un giovane magistrato ragguardevolissimo per probità e sapere, il cav. Soardi giudice istruttore, il quale diceva che quando egli per dovere d'ufficio istruiva il processo contro il Tanino e il Cibolla, trovò nel Curletti una costante opposizione giunta fino alle minaccio, opposizione che riusciva inesplicabile senza ricorrere ad ipotesi spaventose.

Vuoisi sapere che prima del processo Cibolla ebbe luogo un processo così detto Tanino. Il Tanino, secondo il Cibolla, era quello che corrispondeva col Curletti, e trasmetteva gli ordini della polizia agli assassini subalterni. Il Curletti prima si adoperò col cav. Soardi perché non si facesse il processo al Tanino. Poi il Tanino morì in pochi giorni misteriosamente in prigione, sicchè non poterono aversi da lui le necessarie spiegazioni. I giornali dissero che morisse di veleno, ma non si fece né allora, né in seguito l'autopsia del cadavere, ed anche questa morte è rimasta un gran mistero.

Dopo le dichiarazioni del cav. Scardi, e le pubbliche denunzie del Cibolla l'uditorio credeva concordemente che si procedesse sul luogo stesso

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all'arresto del Curletti, ad esempio di ciò che in simili casi erasi sempre praticato, tanto per la falsità della sua deposizione, quanto per gl'indizi del reato I). Ma cosa insolita, mentre gli altri testimoni si pagano privatamente e ben tardi, al Curletti si snocciolavano in tanti bei marenghi di zecca, seduta stante, e in presenza del popolo, alcune centinaia di lire, e si mandava in pace (2). Il giorno dopo Curletti recavasi al Mango sua patria, e preparavasi per ritornare trionfalmente in Napoli.

In vista d'un procedere così strano e di un'indolenza tanto inesplicabile, dietro fatti gravissimi, anzi senza esempio, la nostra città proruppe in un grido unanime d'indegnazione, e qua e colà il giornalismo venne fuori con qualche timida protesta. Allora si manda attorno la voce che verrà fatto un processo al Curletti, e che frattanto è sorvegliato dalla polizia in guisa da non poterne temere la fuga.

Passano giorni e giorni, le voci si succedono sempre più gravi, parlasi di nuove denuncio intorno ad antichi assassini ed a persone atto locate, e cresce sempre più nel governo il dovere di procedere severamente a sua giustificazione ed a tranquillità del pubblico, che vede i delitti partire di là dove si aspettava la pubblica sicurezza, e pagava le tasse per ciò. Ma nel meglio si sa che la polizia, accorsa per arrestare il Curletti, noi trovò più in Torino, ed egli, passati i confini se ne stava sicuro in Isvizzera.

In questo la stampa governativa fa certi scambietti, di cui conviene tener conto. La Gazzetta di Torino dopo che il Curletti apparve davanti al tribunale nell'inqualificabile veste di testimonio, vien fuori colle seguenti parole stampate nel suo numero del 3 di settembre:

«Del chiasso che si faceva per Torino sull'affare di Curletti, pareva che il mondo dovesse essere alla fine per Curletti stesso. Non è così! Chi ha avuto, ha avuto. Curletti, l'avv. Suardi ed altri testimoni chiamati espressamente per questo stesso incidente presero la loro pingue tassa, e ciascuno andò pei fatti suoi, ciascuno si recò ad occupare il posto più o meno alto che prima aveva».

Ma la stessa Gazzetta più tardi è obbligata ad annunziare che si procedeva contro il Curletti, e che fu spiccato l'ordine di arrestarlo. Così l'Opinione del 18 settembre piglia in certo modo le parti del Curletti, e parla di «riguardi che dobbiamo a persona imputata semplicemente e non condannata». Ma il 19 di settembre l'Opinione stessa dimentica i riguardi e parla della gravità delle deposizioni fatte contro il Curletti, e si lagna che non sia stato arrestato nell'udienza. E la Gazzetta del Popolo del 18 di settembre, che pareva dovesse fare un fracasso eterno, e andare irreparabilmente fino al

(1) Anche questo punto è confermato dall'Opinione: «L'opinione pubblica si era vivamente commossa alle propalazioni fatte contro il Curletti, ed ora si commuove alla notizia che, spiccato centra di lui il mandato d'arresto, egli era riuscito a svignarsela. Questo mandato pare veramente che sia stato spedito un po' tardi. Non è la prima volta che un testimonio, contra cui siano sorti gravi indizi, sia stato arrestato nell'udienza stessa e trattato come complice».

(2) Citeremo nuovamente l'Opinione: «Intanto egli (il Curletti) fu citato a Torino qual testimonio. Fu osservato che mentre a tanti testimoni si fa aspettare l'indennità, a lui fu pagata immediatamente, cosicchè potè andarsene tosto»

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fondo di tutti questi misteri, oggi ha un articolo assai rimesso sullo stesso argomento.

A noi ed al pubblico torinese pare cosa da non lasciarsi così presto cadere. La questione Curletti, come la chiama l'Opinione, è affare gravissimo. Si tratta dell'onore del governo, si tratta dell'onore del fisco e della magistratura, si tratta dell'onore della polizia; circolano per la città dicerie che vogliono essere distrutte; si è compiuto un processo irregolare; si sono condannati i colleghi e non si è processato il capo; la giustizia non potè avere il suo corso, né la pubblica opinione la dovuta soddisfazione. È impossibile che le cose restino come sono colla fuga del Curletti, e nient'altro; è necessaria un'inchiesta severissima, perché la luce sia fatta su tanti misteri.

II.

«Qui (in Torino) dove l'onestà sociale fu sempre considerata come una vera religione del viver politico, la coscienza pubblica reclama un'inchiesta solenne, esemplare, implacabile; domanda che gli enigmi si sciolgano, che i sospetti si chiariscano, e che si dispensi a tutti il suo» (Perseveranza, N. 663, del 20 settembre, corrisp. di Torino del 19).

L'Opinione del 20 di settembre fa una correzione ed un'aggiunta a ciò che avea scritto nel suo precedente numero intorno alle cariche sostenute da Filippo Curletti. Costui non fu chiamato a Bologna dal Farini «ma vi era stato condotto da Massimo d'Azeglio, allorché andò governatore delle Legazioni. Ivi rimasto il Curletti dopo la pace di Villafranca, ebbe dal governatore Cipriani l'incarico della direzione generale della polizia per quelle provincie, sotto la dipendenza del ministro dell'interno Montanari.

«Dimessosi il sig. Cipriani, e nominato in sua vece il cav. Farini, costituì dei tre governi di Parma, Modena e Bologna un solo governo, che intitolò dell'Emilia. In tal circostanza il Curletti rimase disponibile, e fu poco stante chiamato a Firenze. Di là fu invitato a seguire il marchese Pepoli a Perugia, e indi a poco andò a Napoli, di dove partì allorché fu citato a comparire dinanzi a questo tribunale guai testimonio nella causa Cibolla».

Questi nuovi schiarimenti servono sempre più a dimostrare, che nel processo Cibolla fu commesso un grande errore dal lato politico e dal lato giuridico, che il governo, la polizia, la giustizia non possono tenersi paghi dell'inconcepibile fuga del Curletti, che bisogna andare fino at fondo di tutti questi misteri nell'interesse medesimo del nuovo regno d'Italia, e che è necessaria, come dice assai bene il corrispondente torinese della: Perseveranza, UN'INCHIESTA SOLENNE, ESEMPLARE, IMPLACABILE.

Abbiamo un ispettore di polizia cosmopolita: egli a Bologna, egli a Firenze, egli a Perugia, egli a Napoli, egli a Palermo, egli a Torino, dappertutto chiamato dagli uomini del progresso e della civiltà per istabilire su basi naturali il servizio della pubblica sicurezza in un governo che ha per base la morale e la giustizia (1). Un bel giorno questo universale ispettore di polizia ci viene denunziato come capo dei più ribaldi assassini, come colui che della polizia medesima prevalevasi per assassinare. L'accusato fugge e la polizia lo lascia fuggire. Ma tutto può essere finito con questa fuga?

(1) Perseveranza del 20 ili settembre, N. 663.

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Gli uomini che hanno avuto da fare con Curletti debbono principalmente adoperarsi, perché sia manifesto se il Cibolla ha calunniato il Curletti, o se questi era proprio un capo di assassini. Nell'aprile di quest'anno 1861 Bettino Ricasoli, Terenzio Mamiani, Di Torrearsn, Carlo Poerio, Carlo Pepoli, L. A. Melegari, Giuseppe Massari, ecc., fecero istanza al governo italiano perché appoggiasse una petizione al Senato francese, nella quale si chiedeva che venisse rifatto il processo contro Guglielmo Libri, condannato il 22 di giugno 1850 dalla Corte di Assise della Senna a dieci anni di reclusione come reo di furto.

Non sappiamo se il governo italiano aderisse alle istanze di Bettino Ricasoli e compagnia. Questo sappiamo, che il Senato francese passò puramente e semplicemente all'ordine del giorno sulla petizione suddetta; e il Senatore incaricato di esaminarla fe' tale Mira relazione da confermare il delitto del Libri, anzi che riabituarne la fama. Laonde Bettino Ricasoli e gli altri sottoscritti resero un pessimo servizio al Libri nell'atto stesso che se ne dichiaravano gli amici.

Ora noi domandiamo a tutti coloro che ebbero a fare con Curletti un'istanza al governo, perché la luce sia, fatta, perché si vada irremovibilmente fino al fondo di tutti questi misteri. Coraggio, o antichi governatori di Bologna, di Parma, di Modena, di Firenze, di Napoli e di Palermo, dite su al governo italiano che trovi modo di appurerei fatti imputati al sig. Filippo Curletti, e, se non si può per via di processo, stante la fuga dell'accusato, si faccia per mezzo di un'inchiesta giuridica. Questa petizione deve essere sottoscritta da tutti coloro che ebbero relazioni col Curletti, cioè da Massimo d'Azeglio, da Luigi Farini, da Lionetto Cipriani, da Bettino Ricasoli, da Napoleone Pepoli e dal generale Della Rovere che ultimamente desiderava di avere il Curletti a Palermo.

K preme che si faccia presto una tale istanza per turare la bocca a tanti maligni, per cessare tanti sospetti (1) e per togliere ni nemici del regno italiano, al Duca di Modena e di Parma, al Granduca di Toscana, al Re di Napoli ed al Cardinale Antonelli un argomento che tardi o tosto potrebbero addurre contro i plebisciti. Che sarebbe egli mai se costoro potessero dire, che il Curletti mandato nelle città capitali ch'essi abbandonarono, avea sotto di sé. bande di ladri, di assassini, di omicidi t Che, se potessero contrapporre un fatto simile alle accuse della nostra ex-Gazzetta Piemontese, quando rimproverava il governo pontificio di lasciare infestare dai ladri le Romagne? Che, se potessero dire che si permise la fuga del Curletti per non andare al fondo di tanti misteri!

Come si vede noi siamo ben lungi dal giudicare e condannare il Curletti; anzi vogliamo supporto innocente, quantunque le persone innocenti non sogliano fuggire. Ed è appunto perciò che insistiamo vieppiù per un'inchiesta, la quale potrà essere fatta anche nell'assenza del Curletti medesimo ed in suo vantaggio.

(1) Scrivono da Torino, 19 settembre, alla Perseveranza di Milano: «Corrispondenze misteriose designano con alcune iniziali dei nomi ili colpevoli, a cui il pubblico appiccica per completarli i proprii rancori e i proprii sospetti».

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E poi vi è un processo viziato nella sua origine, e questo è il processo ribolla. Le accuse, i delitti, i processi non si possono scindere, perché in ciascun di loro esiste un'unità giuridica, una concatenazione di circostanze, che si spiegano a vicenda. Voi non potete procedere contro nove accusati dello stesso delitto, e lasciare in disparte il decimo, accusato come gli altri. Ciò ripugna al buon senso, all'eguaglianza della legge, all'amministrazione della giustizia. La giustizia non si può dividere e applicarla a frazioni, un terzo, un quarto, un decimo: o tutta, o niente. O non si dovea tener conto delle denunzie del Cibolla, o dovevano venire processati tutti quanti i denunziati, e il Curletti pel primo.

Su questo proposito ricorderemo ai nostri concittadini un esempio che ormai appartiene alla storia. Trattasi di delitto politico e non di reato comune, ma la giustizia è la stessa per ogni genere di reati. Il 25 di ottobre del 1836 Luigi Napoleone partiva da Arenemberg, e la sera del 28 giungeva a Strasburgo, dove il 30 cercava di levar a tumulto la Francia, guadagnare l'esercito, piombare su Parigi, atterrare il governo allora esistente, che era quello di Luigi Filippo. Il tentativo andò fallito, e Luigi Napoleone dovette cedere le armi. Sono prigioniero, esclamò egli, tanto meglio: non morrò in esilio». Ma Luigi Filippo gli offerse la libertà a patto ch'egli si lasciasse confinare in America, e Luigi Napoleone accettò.

Intanto liberato di questa guisa il capo della cospirazione di Strasburgo, la polizia francese faceva il processo contro i complici, e li traeva davanti il giurì di quella città. La Camera delle accuse della Corte Reale di Colmar, congregata colla Camera di revisione della polizia correzionale, pronunziava competere alla Corte dell'Assise del Basso Reno la cognizione dell'affare del 30 di ottobre. Luigi Napoleone il capo, era, come abbiam detto, messo in libertà e mandato in America, e sette dei detenuti venivano posti in istato d'accusa: il colonnello Vaudry, la signora Gordon, il signor Layty, il comandante Parquin, di Querelles, di Grécourt e di Bruc. Ma credete voi che que' giurati li condannassero? No davvero, e non li condannarono precisamente, perché era stato liberato il loro capo, e la giustizia non si può scindere, e non è in potestà del governo, quando trattasi della stessa accusa e dello stesso delitto, procedere contro quelli e lasciare questi in libertà (1).

Merita di essere letto su questo proposito quanto scrisse Louis Ulano nella sua Storia di dieci anni (2). Dopo di aver riferito che il capo della cospirazione di Strasburgo era libero, e i complici sotto processo, esclama: Ici l'injustice paraissait toucher au scandale. E racconta che Strasburgo era indegnata d'uno scandalo simile, e se ne menava gran rumore nelle conversazioni, nei caffè, nelle bettole, nelle birrarie, dappertutto. E quando, per ragione del capo in libertà, il giurì assolse i complici in prigione, nella sala l'uditorio gridò: Vive le jurì! Vive le jurì d'Alsace!

(1) «Ou n'en separa pas moins sa cause (de Louis Napoléon) de celle des autres conjurés; mais appelè a pronuncer sur leur sort, le jury retablit par un verdict d'acquittement, le principe de légalité de tous devant la loi» (Dictionnaire de la Conversation, toro. XIII. Paria 1857, pag. 481).

(2) Histoire de dix ans, tom. V, Paris 1844, pag, 197.

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Ora nessuno oserà negarci che se l'affare del Curletti fosse stato conosciuto dai giurati, come si conosce presentemente, essi potevano modificare il loro giudizio; e se il Curletti fosse stato tradotto alla loro presenza come ogni altro inquisito, e dagli interrogatorii, e dalle deposizioni, e dai confronti potevano risultare circostanze gravissime, che attenuassero il delitto degli altri, o manifestassero qualche aggiunto in loro discolpa.

E se oggidì i giurati dovessero sentenziare nel processo Cibolla, dopo la fuga del Curletti, dopo il contegno della polizia, dopo l'indolenza del governo, essi, come i giurati di Strasburgo nel 1837, ristabilirebbero l'eguaglianza di tutti davanti alla legge!

Donde si vede come sarebbe necessaria una doppia riparazione giuridica, tanto per riguardo ai condannati, quanto al fuggito. Nella sala del tribunale sta scritto che la legge è uguale per tutti; ma questo stesso principio bisogna scriverlo nelle storie dei giudizi e nella coscienza del pubblico. Cessi Iddio che noi vogliamo menomamente lanciare sospetti, o tener dietro alle voci ed alle ciancio che si fanno nei caffè e su pei trivii; ma sgraziatamente può scriversi un lungo catalogo di persone di qualche considerazione, che sul punto di essere tratte davanti i tribunali poterono fuggire e lasciarono insoddisfatta la giustizia! Noi non iscriveremo nessun nome, perché molti nomi saranno ancora nella memoria de1 nostri concittadini.

A questo si aggiunge Io scandalo della fuga del Curletti, che accresce peso alle dicerie, e provoca i più sinistri commenti (1). Ma in uno Stato ben ordinato dee togliersi ogni fondamento ad accuse di questo genere. Importa che sia chiarito come calunniatore chi osa muovere simili appunti all'amministrazione; epperò è necessaria un'inchiesta sui fatti avvenuti e sulla fuga permessa, o tollerata: necessità politica e giuridica ad un tempo, tanto a difesa dei governanti che hanno in mano la cosa pubblica, quanto di coloro che sono incaricati di applicare la legge e amministrare la giustizia.

LE QUESTIONI

DEL NEONATO REGNO D'ITALIA

(Pubblicato il 24 settembre 1861).

Povero bimbo! Vedetelo tuttavia nelle fascio, e bisognoso chela mamma Francia lo sostenga, lo difenda, gl'insegni a muovere i piedi, eppure è già in lite con mezzo mondo! Il regno d'Italia in questi momenti ha questioni colla Spagna, questioni col Portogallo, questioni colla Francia, sua madre, questioni coll'Austria, questioni col Papa; e internamente questioni con tutti, coi preti, coi frati, coi banchieri, coi contribuenti, coi garibaldini; questione Cialdini, questione Tofano, questione Curletti, questione della Rovere, questione Fanti, e che sappiamo noi? Restringiamoci a discorrere in quest'articolo di tre questioni: l'italico-portoghese, l'italico--ispana e l'italico—gallica.

(1) Nel Giornale di Verona del 19 di settembre. N° 362, troviamo alcune parole su questo punto che apertamente riproviamo. Ma la gravita dì quelle parole che mettono gli assassini di strada nelle cariche più elevale, provano la necessità di dare una pubblica e solenne soddisfazione a Torino, all'Italia ed all'Europa.

— 102 —

I.

Questione italico—portoghese

E prima della questione Italico-portoghese. Il regno d'Italia che vuole la Chiesa libera in Stato libero, non contento Ili tormentare i suoi preti nella nostra Penisola, andò a pungerli perfino nella Lisbona; e il conte di Cavour che fe' piangere la Chiesa quand'era vivo, continua a recarle noia anche dopo morte. Ecco di che cosa si tratta.

Il Patriarca di Lisbona non volle permettere che si celebrasse una Messa solenne in suffragio del conte di Cavour, e ciò perché egli era morto senza nessuna ritrattazione, e perché questi solenni funerali servono più a dimostrazione politica che per espiazione, e non si deve confondere Io spirituale col temporale. Il 29 di agosto il signor José Estevào, deputato delle Camere portoghesi, annunziò un'interpellanza su tale argomento, interpellanza che ebbe luogo il 30 di agosto. E questo oratore liberate chiese che il Governo procedesse contro il Clero portoghese, giacché il suo rifiuto di celebrare la Messa era un atto politico!

Il ministro della giustizia rispose non avere ancora abbracciato veruna deliberazione, ma, sottoposta la cosa al procuratore della Corona, attenderne l'avviso per sapere quali disposizioni il Governo potesse e dovesse prendere in questa vertenza. E siccome il signor José Estevào aveva tacciato il ministero portoghese di timidità, così il ministro della giustizia si mostrò coraggioso sfidando le scomuniche, e dichiarandosi scomunicato! Il ministro lesse la Bolla di scomunica, e, giunto là dove si parla di fautores et ad herentes, uscì in questo tratto di coraggiosa eloquenza: «Noi pure siamo scomunicati, noi pure siamo compresi fra le persone colpite da questa Bolla, perché siamo fautori ed aderenti a quanto avvenne in Italia».

E queste parole furono le ultime che si udissero dalla tribuna portoghese, perché pronunziate nell'ultima tornata della Camera. E converrà tenerle a memoria, perché forse noi stessi, o certamente gli storici che verranno dopo di noi, potranno ricordarle ai Portoghesi, come si ricordarono dopo la campagna di Russia le parole dette da Napoleone I, che cioè le scomuniche non farebbero cadere le armi di mano a' soldati. Intanto il regno d'Italia aspetta che cosa saprà fare il Portogallo contro il Patriarca di Lisbona. 1 ministri portoghesi non sembrano ancora all'altezza dei nostri, se no avrebbero trattato il Patriarca come noi trattiamo il Cardinale De-Angelis da un anno prigioniero in Torino senza accusa, senza, processo, senza condanna.

Questo regno d'Italia aspetterà ancora un po' di tempo per vedere se il Patriarca di Lisbona vien messo in prigione sì o no; ma quando si lasciasse libero, allora una Nota del barone Bettino Ricasoli richiamerebbe al suo dovere il ministro portoghese, invitandolo a voler modellare la sua condotta sull'esempio dei nostri, e ricordare gli Arcivescovi di Torino e di Cagliari, i sessanta e più Vescovi espulsi da Napoli, e il Cardinale Arcivescovo di Pisa, e il Cardinale Vescovo d'Imola e cento altri.

— 103 —

II.

Questione italico-spagnuola.

In questa seconda questione che ha il neonato regno d'Italia, non si tratta più né di preti, né di Vescovi, né di Patriarchi: trattasi di archivi. La Spagna non ammira le nostre imprese in Italia, e principalmente quelle di Napoli, dove los fusilamientos por medio de metralla sono all'ordine del giorno, come dice el Diario Espanol del 17 di settembre.

Fatto sta che il console generale delle Due Sicilie a Lisbona, vedendo che il vento tirava contrario, rimise gli archivi del Consolato all'incaricato d'affari di Spagna. Il conte della Minerva, che trovasi nostro rappresentante a Lisbona in premio di ciò che prima avea fatto a Roma, andò all'incaricato d'affari spagnuolo, gridando: Voglio gli archivi di Napoli! — Datemi gli archivi di Napoli! Lo spagnuolo lo lasciò cantare, e non diè nulla. Allora intervenne il barone Tecco, un pezzo più grosso, e che dopo d'averci rappresentato a Costantinopoli, ora ci rappresenta a Madrid. E qui note da una parte, e dispacci dall'altra, e conferenze, e minacce, e promesse, ma gli archivi non sono ancora venuti.

La Correspondencia del 17 di settembre dice che «il governo francese desiderando evitare la rottura delle relazioni tra Sardegna e Spagna, ha dato istruzioni al suo incaricato d'affari a Madrid, porche interponga i suoi buoni uffizi, affine di terminare la questione degli archivii napoletani». La Regeneracion domanda se per Napoleone II I esiste alcun popolo che si conosca col nome di Sardegna, ed avverte che il Bonaparte vorrebbe con questo mezzo ottenere dalla Spagna il riconoscimento del così detto regno d'Italia.

Intanto il barone Tecco avea minacciato di abbandonare Madrid se non avea ottenutola restituzione degli archivii napoletani pel 13 di settembre. E non gli ottenne, e restò a Madrid, ed il Pensamiento espanol del 17 settembre ne vedeva la sua presenza in quella città con extrancza y disgusto. E con molta logica il Pensamiento soggiungeva: «Per qualche motivo noi abbiamo richiamato da Torino il nostro rappresentante. E per la stessa ragione dovrebbe ritirarsi da Madrid il signor Tecco, se il governo di Torino avesse meno prudenza».

Ora noi stiamo a vedere a che cosa riesce la mediazione di Napoleone III, e se ci restituiscono gli archivii napoletani (bella quella parola restituire!), oppure se perdendo gli archivii, guadagniamo almeno il barone Tecco.

L'Opinione del 22 di settembre ci lascia pili sperare il barone Tecco, che gli archivii napoletani. Essa dice: «Noi siamo persuasi che se il barone Tecco è ancora al suo posto, si è perché non è per anco giunta la risposta del Gabinetto spagnuolo alla nota, colla quale gli si chiedeva la consegna degli archivi, ed il ministro degli affari esteri preferisce di non precipitare una risoluzione per darle maggior peso.

«Ma poiché la Spagna ha risposto con un rifiuto, altra ria non resta al nostro Governo fuorché di richiamare il suo rappresentante. Il ministro del Re d'Italia non potrebbe più mantener relazioni amichevoli con una Potenza che non si cura più manco di velare la sua avversione alla rigenerazione

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italiana e che ha adottato un procedere tanto ostile che più non potrebbe attendersi dall'Austria.

III

Questione italico-francese

Finalmente abbiamo una terza questione colla Francia, questione che al cav. Boncompagni ha fatto scrivere un articolo sulla stessa Opinione del 22 settembre con questo titolo: Che fa la Francia a Roma? E il BonCompagni pronunzia questa sentenza: «È venuto il momento in cui la Francia debba cessare dal proteggere in Roma la potenza temporale del Papa: lo debbe non pure nell'interesse dell'Italia, ma nell'interesse della cattolicità e del Pontificato». Ma la Francia non l'intende per questo verso, e il Conslitutionnel dichiara che «soltanto i partiti, rivoluzionario, e reazionario, domandano lo sgombro immediato di Roma». A quale di questi partiti appartiene il BonCompagni?

Se noi fossimo Francesi risponderemmo categoricamente alla sua domanda: Che fa la Francia a Roma? La Francia custodisce a Roma colle baionette ciò che la religione, il diritto e la giustizia non difendono più dai rivoluzionari. La Francia fa stare indietro da Roma colla l'orza coloro che non conoscono altro principio, altro giure, altro concordalo. La Francia impedisce colla forza che vadano a Roma certi professori di diritto costituzionale che furono a Firenze, e si guadagnarono il fumoso premio detto da lord Normamby. La Francia sta a Roma per farvi paura, giacché avete perduto il più nobile affetto, l'amore, Non amate più, ma temete tuttavia; e la Francia sta a Roma per intimorirvi. La Francia sta a Roma come lo spauracchio su di un campo di grano; sta a Roma come la sentinella sulle porte di una fortezza; sta a Roma come l'angiolo che non lasciava procedere oltre né il Porfeta, né la sua compagnia (Libro dei Numeri, cap. IX, vers, 22). Ecco signor BonCompagni, che cosa fa la Francia a Roma.

E la Francia ci resterà ancora per molto tempo, giacché così vuole, non diremo tanto l'interesse del Cattolicismo, quanto l'interesse della Francia medesima, E il giorno in cui la Francia abbandonasse il Papa, questi troverebbe (altri difensori; ma Napoleone non tarderebbe ad accorgersi che egli avea bisogno di Roma, e che Roma non ha mai avuto bisogno di lui.

IL MINISTRO DEI CULTI IN ITALIA

(Pubblicato il 26 ottobre 1861).

La Gazzetta Ufficiale del 23 di ottobre, n. 258, pubblicava un Reale Decreto, sotto la data del 16 di ottobre, controsegnato Ricasoli-Miglietti, il quale dice, all'articolo 2°: «II Ministero di grazia e giustizia e degli affari ecclesiastici assumerà la denominazione di Ministero di grazia e giustizia e dei culti».

Dunque noi abbiamo un ministro dei culti. Ma contemporaneamente abbiamo uno Statuto che dice all'articolo 1°: «La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato». Come conciliare un ministro dei culti con un culto solo?

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Il Decreto del 16 di ottobre ba molta importanza, e dal lato politico, e dal lato religioso. Politicamente distrugge lo Statuto, e attribuisce al Ministero la facoltà di mutare le basi del nostro interno organamento. Religiosamente la peggio e introduce tra noi in principio l'indifferenza religiosa.

Ministro dei culti vuol dire che il Cattolicismo non è più la sola religione dello Stato; vuoi dire che tutti i culti sono tra noi equiparati; vuoi dire che il culto viene considerato come cosa d'amministrazione, e abbiamo il ministro dei culti, come il ministro delle finanze; vuoi dire finalmente che mentre l'Italia non ha ancora raggiunto, e ormai dispera di raggiungere l'unità politica, ha sgraziatamente perduto l'unità religiosa.

Già da qualche tempo in questa povera Italia vi era in pratica ogni libertà pel male, e piena licenza accordavasi a tutte le eresie di dogmatizzare, bestemmiare, combattere la religione cattolica. Ma questa m principio almeno era la sola religione dello Stato, e l'Italia appariva cattolicamente una. Ed oggidì sì bella e preziosa unità noi abbiamo perduta, e siamo divisi come i culti, di cui il sig. Miglietti è ministro!

Questa disgrazia è la peggiore che potesse piombare sulla nostra patria. E quando compivasi un tale e tanto misfatto? Quando in Napoli levavasi una statua a Giambattista Vico, e il telegrafo annunziava gli onori resi alla memoria del grande giureconsulto.

Ma voi che levate a cielo il Vico, perché non ne studiate i libri e le dottrine? Apritela Scienza nuova, t. I, pag. 101, Napoli, 1826, eleggete: «Ogni città divisa in parte per cagione di religione o è già rovinata, o è presso alla rovina». E voi che stabilite in Italia il ministero dei culti, dichiarate che la patria nostra è divisa in parti per cagione di religione, dichiarate che l'Italia o è già rovinata, o è presso alla rovina!

Sotto il pretesto di unire la patria nostra, le toglieste ogni ragione d'unità; le toglieste l'unità geografica e storica, colla vendita di Nizza; le toglieste l'unità politica suscitandole in seno centinaia di partiti; le toglieste l'unità cattolica ribellandola al Vicario di Gesù Cristo, al Capo visibile della Chiesa; le toglieste l'unità religiosa col proclamare scioccamente, arbitrariamente, empiamente la libertà dei culti.

«L'unità religiosa, scrisse Martinet nella Statolatrie, è senza dubbio uno dei primi beni e la migliore malleveria dell'unità nazionale». E questo gran bene ce l'avevano conservato i nostri padri, e cel tolsero gli uomini nuovi!

I Polacchi vi mostrano di questi giorni come l'unità cattolica possa essere la migliore malleveria dell'unità nazionale; e voi che avevate questa malleveria ve ne spogliate senza nessuna ragione, senza alcun motivo, se non è quello dell'odio alla verità, e del livore contro il Romano Pontefice.

Insensati! E non c'erano abbastanza discordie e guerre in seno a questa terra infelicissima? E ci voleste aggiungere ancora le divisioni religiose per inasprire sempre più la lotta fratricida, che insanguina le nostre contrade?

Insensati! Non avete più autorità, né ordine, né leggi, né danaro, né rispetto, né credito, né amore presso i popoli.

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Vi restava ancora un grande principio, l'unità cattolica, e ne fate getto, e vi sostituite la libertà dei culti, l'indifferenza religiosa, la molteplicità delle credenze che va a finire nell'ateismo dello Stato.

Insensati! Mentre il Re di Prussia s'inchina a Dio, ne invoca il nome, o da lui riconosce la corona, voi rinnegate pubblicamente questo Dio che aveste la grazia di conoscere come egli è e di venerare come vuoi essere venerato in ispirito e verità, secondo gli insegnamenti della Chiesa cattolica; e al Dio del cattolicismo sostituite il padre delle menzogne, la libertà dell'errore!

E poi pretendete che il vostro ministro dei culli vada ad assidersi in Roma sul Campidoglio. Tempo già fu che in Roma dominava la moltiplicità degli errori religiosi, e quella grande città cum pene omnibus dominaretur gentibus omnium gentium serviebat erroribus. Allora i Romani traviati credevano di avere una grande religione, perché non rigettavano nessuna falsità.

Ma da questa servitù, la più obbrobriosa di tulle, Roma fu liberata da Pietro e Paolo. Per loro in Roma risplendette l'Evangelio di Cristo e la maestra dell'errore divenne la discepola della verità. Essi furono i veri Padri di Roma, che la resero gente santa, popolo eletto, città sacerdotale e regia, capo dell'universo, sicché lutius presideret religione divina quam dominatione terrena.

E in questa Roma volete stabilire un ministro dei culti? E pretendete che il ministro dei culti resti a fianco del Papa? Chi amministra l'errore, l'indifferenza, la menzogna vicino a chi proclama la verità, interpreta la parola di Dio, predica l'Evangelio? E sperate che i Romani si acconcino a questa abbominazione della loro città? E vi meravigliate che i Vescovi e i sacerdoti vi combattano? E vi lusingate che il Cattolicismo possa comportare questa sua decapitazione?

Insensati! Lasciatecelo ripetere ancora una volta; voi non siete né buoni cattolici, nf> buoni politici; non solo avete perduto la fede, ma anche il buon senso; cospirate contro voi stessi, rivelate al mondo i vostri attentati, difendete e glorificate il Santo Padre Pio IX mentre credete di fargli guerra; scalzate il vostro seggio cercando di rassodarlo; disfate l'Italia pretendendo d'averla fatta; seminate la disunione e la discordia per giungere all'unità.

Noi rigettiamo il vostro ministro dei eviti. Esso non può coesistere collo Statuto di Carlo Alberto, e mutare questo Statuto non è di vostra competenza. Nessun cattolico in Italia, ne siamo certi, userà la denominazione di ministro dei culti, nessuno darà questo titolo all'antico ministro di grazia e giustizia.

I PARRICIDI DELL'ITALIA

(Pubblicato il 6 dicembre 1860).

Due cose temono i nostri onorevoli deputati, e si ridono di tutto il resto. Si ridono di Dio, della Vergine e dei Santi; del Papa, delle scomuniche, dei Cardinali, dei Vescovi e delle loro circolari, e temono soltanto, al di fuori, Napoleone 111, e al di dentro (dobbiamo dirlo?) al di dentro temono l'Armonia! E se Voi rivedrete Atti Ufficiati della Camera elettiva, vi si farà manifesto che i rimproveri e le interruzioni contro i Deputati che escono

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dal seminato sono sempre questi due: — Silenzio! Napoleone III vi sente. —Adagio, a ma' passi, che l'Armonia vi ascolta. —

È da due giorni che la Camera venne riconvocata, e i deputati Musolino e Ricciardi già provarono che cosa voglia dire parlare con poco rispetto di Napoleone III, o farsi sentire dalla Armonia.

Il deputato Musolino il 3 dicembre osò affermare che se gl'italianissimi confidavano nel Bonaparte, mostravano una bonomia patriarcale, antidiluviana: e che ormai a forza di protezione l'Italia era divenuta una prefettura dell'impero francese quando il Presidente della Camera l'interruppe raccomandandogli rispetto ad un governo che ci è alleato ed amico. Con Napoleone III non si burla!

E il deputato Ricciardi il 22 di novembre parlava delle miserie e dei malcontenti del regno di Napoli, dove regna malcontento profondo, dove la miseria è grandissima, dove il popolo dice: «Sotto i Borboni noi mangiavamo, ed ora mangiamo molto men bene di quello che mangiavamo una volta»; dove i commercianti si lagnano, i militari sono disgustati, gli impiegati hanno molli motivi a dolersi; i proprietari sono incerti di riscuotere i loro redditi, e non sono certi se non d'una cosa, cioè di pagare le imposte» (Atti Uff. , IX 329, pag. 1272).

Il Ricciardi voleva più dire, ma il deputato De Blasiis gli tagliò a mezzo In parola, avvertendolo che l'Armonia lo udiva, e che il giorno appresso le colonne dell'Armonia ripeterebbero con compiacenza il suo discorso. E la Camera ripeteva Bravai Bene! E per quel giorno il Ricciardi non rispose nulla riguardo l'Armonia, e si tenne pago di protestare altamente contro l'insinuazione del deputato De Blasiis.

Però, il 4 di dicembre, il deputato Ricciardi dovendo nuovamente parlare, esordì chiedendo facoltà di lasciare da parte ogni reticenza ed invocando tona piena libertà di parola, perché, sebbene l'Armonia l'ascoltasse, nondimeno grande divario correva traini e l'Armonia, che hanno scopo parricida (Atti Uff. » 341, pag. 1317).

Fermiamoci su questo detto. L'Armonia combattendo i Ricasoli, i Ricciardi, e la rivoluzione, è parricida, ossia uccide la propria madre, che è l'Italia! Leggiamo adunque che cosa abbiano fatto dell'Italia coloro che non sono parricidi.

Cel dirà m primo luogo il dep. Brofferio. Ascoltatelo: «Signori, io ho udito molte volte proclamare da quella ringhiera e dalla stampa e dalla voce pubblica che l'Italia era fatta. Errore! No, l'Italia non è fatta, anzi non fu mai tanto disfatta come in questi giorni. Non è fatta, perché non è da capo a piedi armata; non è fatta perché a lei mancano due nobilissime città e province; non è fatta, perché ardono nel suo seno fatali conflitti; non è fatta, perché Nemesi funesta sta la discordia nel campo nostro; non è fatta, perché alcuni dei suoi più illustri figli son messi in disparte e da proscrizione percossi; non è fatta, perché nessuno seppe svegliarla dal letargo con una di quelle parole che scuotono i popoli e creano le nazioni. Questa sbattuta Italia chi saprà finalmente comporla?» (Atti Uff. , M» 340, p. 1313).

E l'Armonia è parricida, perché ha sempre combattuto, perché combatte, perché combatterà fino all'ultimo sangue coloro che hanno fatto di questa povera Italia sì pessimo governo!

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Udite il deputato Pisanelli, che parlò nella tornata del 3 dicembre: «Signori, anch'io ho fede, tutti noi abbiamo fede nella rivoluzione, tutti noi portiamo improntato nell'animo il suggello della rivoluzione francese, il cui concetto ci accompagna sempre e dovunque; ma... noi abbiamo bisogno d'ordine, abbiamo bisogno di forza; la rivoluzione non calma, eccita le passioni; noi abbiamo bisogno di soddisfare e di comporre interessi materiali già troppo scossi, già troppo laceri, già troppo insanguinati;. la rivoluzione produce effetti diversi. La rivoluzione permanente aliena da noi le simpatie della parte conservatrice degl'Italiani, che è pur estesa e potente; aliena da noi le simpatie di una gran parte di tutta l'Europa» (Atti Uff. , N° 340, pag. 1315).

E perché l'Armonia ha combattuto questa rivoluzione, che eccita le passioni, che sconvolge ogni ordine umano e divino, che non da tregua all'Italia, che le chiama addosso le ire dell'Europa, perciò noi siamo parricidi.

Udite il deputato Musolino. Il 3 dicembre egli rispondeva al seguente argomento recato in favore di Napoleone III: «Il nostro amico ed alleato serba una condotta che in apparenza sembra ostile, ma che in realtà poi non lo è. È questa una sua profonda arte di dissimulare e fingere per salvare le apparenze» Il deputato Musolino chiamava stupido quest'argomento, e soggiungeva: t Se noi abbiamo veduto che la causa italiana è popolare in Francia, che tutta l'Europa è d'accordo nella indifferenza o nella simpatia, e qual bisogno allora di fingere se non vi è necessità d'ingannare nessuno? La Francia, signori, non ci è amica, e se noi ci ostiniamo ad aver fiducia in questa nazione, noi, o mostriamo poco ingegno, oppure vogliamo decisamente essere vassalli dello straniero» (Atti Uff. , N° 339, pag. 1311).

E perché l'Armonia non vuole l'Italia vassalla dello straniero, perché non la vuole amica, né alleata di chi finge o tradisce, per questo l'Armonia è parricida!

Udite il deputato Ferrari che dipinse l'Italia il 2 dicembre: «Siamo sulle spine quanto alle finanze, nell'incertezza quanto alla diplomazia, nel provvisorio quanto all'amministrazione. Se parliamo del mezzodì, in alcune regioni gli uscieri non possono nemmeno eseguire le sentenze; nessuna sicurezza negli affari, nessuna confidenza nelle diverse imprese, nessun lavoro pubblico che muti le condizioni generali, e due provincie del Napoletano stanno in questo momento sotto il flagello massimo del brigantaggio» (Atti Uff. , N° 337, pag. 1302).

E perché l'Armonia ha oppugnato ed oppugna i distruttori d'Italia, gli scialacquatori delle sue finanze, i vandali che l'hanno messa in sulle spine, per questo l'Armonia è rea di parricidio!

Udite lo stesso deputato Ricciardi che chiamò parricida l'Armonia. Il 4 dicembre egli parlava così: «Certo non vi è motivo da rallegrarsi ogni qual volta volgasi l'occhio allo stato della nostra finanza. Ecco il quadro che ci si presenta: i cinquecento milioni del prestito da noi votato pochi mesi fa, consumati prima dell'incasso, vale a dire spesi a credito; boni del tesoro emessi in quantità grande; impossibilità assoluta in questo momento di contrarre un novello prestito, stante il bassissimo corso della nostra rendita» (Alti Ufficiali, N° 341, pag. 1313).

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E perché l'Armonia mollo prima di voi s'è levata contro questa malversazione, che distrugge il nostro credito, che ci rende vittima degli ingordi banchieri, che finisce sempre per pesare sul popolo con terribili imposte, per questo voi ci chiamate parricidi!

L'Armonia è parricida, perché ha voluto e vuole in Italia il rispetto al diritto, il rispetto alla storia, il rispetto alle tradizioni, il rispetto alle leggi. E coloro che non sono parricidi, hanno convertito l'Italia in una Babilonia, in un pandemonio!

L'Armonia è parricida, perché si è opposta con tutte le forze sue allo smembramento della patria, alla cessione della Savoia e della contea di Nizza, al predominio francese in Italia. E coloro che non sono parricidi, hanno sacrificato la culla della nostra monarchia, hanno venduto provincie italiane, hanno convertito la nostra Penisola in una prefettura francese.

L'Armonia è parricida, perché, serbandosi fedele al proprio Re, vuole che i sudditi rispettino i proprii Sovrani, e quanti li tradiscono e li vendono, chiama traditori i felloni. E coloro che non sono parricidi, per pochi danari hanno maledetto il proprio padre e Sovrano cacciandolo in esilio.

L'Armonia è parricida, perché domanda che sia onorata la religione cattolica, gloria d'Italia e sua salute; rispettata la Chiesa, i suoi beni, le sue ragioni, venerati i Vescovi, i preti ed i frati, i veri e sinceri amici del popolo. E coloro che non sono parricidi, chiudono i conventi, questi asili del dolore, del pentimento, della povertà; imprigionano i Cardinali, esiliano i Vescovi, fucilano i preti.

L'Armonia è parricida, perché ha accolto con disdegno il conte di Cavour quando voleva comperarla; perché disprezza gli onori e gli stipendi dei ministri ricchi e potenti, e spende invece l'opera sua nella difesa del Santo Padre, e cerca qualche soldo per ristorarlo nella sua miseria, e sovvenire alla sua povertà. E coloro che non sono parricidi hanno spoglialo il proprio Padre, il grande Pio IX, quel Pio IX che perdonò i loro delitti, che benedisse le loro persone, che recò tanto bene all'Italia.

Ah! se noi siamo in questo senso parricidi, perché uccidiamo la madre vostra, la rivoluzione, lasciateci menar vanto del nostro delitto, la colpa è cosi bella, che noi ne andiamo orgogliosi, e, ben lungi dal rimuoverne la mano, proseguiremo a consumare il parricidio.

Ma tempo verrà, e forse non è molto lontano, tempo verrà, in cui tutti gl'Italiani conosceranno chi sono i veri parricidi della libertà ben intesa, dell'ordinata discussione, della indipendenza e della gloria d'Italia.

Queste pagine che noi scriviamo giorno per giorno, non tutte morranno, e parecchie saranno rilelte più tardi da coloro che oggi ci chiamano parricidi. E quando le truppe straniere passeggieranno le nostre contrade, quando alla guerra civile succederanno prima gli orrori dell'anarchia, poi le ferocie del dispotismo, allora s> vedrà e si conoscerà se noi eravamo parricidi.

Ah! gl'Italiani di buona fede, che hanno due occhi in fronte e un cuore in petto, cominciano fin d'ora a ravvisare i parricidi della patria; e ogni giorno che passa, ogni avvenimento che si svolge eloquentemente rivela che i parricidi d'Italia sono i nemici della Chiesa o del Romano Pontefice.












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