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MEMORIE
PER LA
STORIA DE’ NOSTRI TEMPI
DAL
CONGRESSO DI PARIGI
NEL 1856
AI GIORNI NOSTRI
TERZA SERIE

TORINO
Dell'unione Tipografico-editrice
Via Carlo Alberto, casa Pomba, N. 33
1865
Volume Secondo - (1)

Il libro di Margotti merita di essere diffuso e conosciuto. L'autore non è un volgare propangadista "reazionario", si tratta di persona dotata di una mente brillante e di una cultura sterminata.

Egli spulcia migliaia di pagine degli atti parlamentari, mettendo a nudo le falsità e il pressapochismo del gruppo di avventurieri che governa il nuovo regno d'Italia.

Se volete saperne di più leggete le note biografiche scritte da Angela Pellicciari.

Zenone di Elea, 16 Febbraio 2009



(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)


ROMA ED ASPROMONTE

GIUSEPPE GARIBALDI E URBANO RATTAZZI

Abbiamo già descritto (vedi pag. 317 del precedente volume) le arti meschine e le ipocrite promesse del Ministero Ricasoli per andare a Roma e toglierla al S. Padre Pio IX ed alla Cattolicità. Ora ci conviene raccontare la via tenuta dal Ministero Rattazzi per raggiungere lo stesso scopo, che fu la via delle minacce. Urbano Rattazzi nell'ottobre del 1801 andossene a Parigi, e, fatte alcune riverenze al Bonaparte, gli fu facile di risalire al governo dell'Italia. Il 9 di novembre Rattazzi era ancora sulla riva della 'Senna dove a\V Hotel du Louvre si diluviava un pranzo imbanditogli dai giornalisti del Siede, della Presse, dell'Opinion Nationale, e il 3 di marzo del 1862 veniva nominato presidente del Ministero, e Ministro sopra gli affari esteri. L'impresa capitale di Urbano Rattazzi fu la battaglia di Aspromonte e la disfatta di Garibaldi, epperò di Garibaldi e di Rattazzi scriveremo lungamente in questo quaderno.

LA FRAMASSONERIA E GARIBALDI

Leggiamo nelle Nationalitès dell'8 di gennaio 1862: «1 delegati o rappresentanti della Framassoneria italiana, riuniti-a Torino, hanno decretato una medaglia d'oro al generale Garibaldi, ed hanno deciso che gli onori dovuti al Grand'Oriente gli siano resi in tutte le Loggie d'Italia che gli piacerà d'onorare di sua presenza.

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LE LETTERE

DI SUA ECCELLENZA IL GENERALE GARIBALDI

(Pubblicato il 16 gennaio 1862)

«Valga per tutti l'esempio

luminosissimo dell'Eroe di Caprera»

(II Mediatore giornate diretto

da C. Passaglia, p. 29).

Abbiamo sul tavolo, insieme con molti scritti, articoli, epigrafi, corrispondenze, sonetti e canzoni alcune letterine di Garibaldi che levansi su e ci scongiurano in nome del Mediatore a volerle mettere tutte nel nostro giornale per mostrare l'esempio luminosissimo che secondo D. Passaglia dà in questi momenti l' eroe di Caprera. E noi ci arrendiamo ai desiderii delle letterine, togliendole ad argomento di questo primo articolo.

La Gazzetta Ufficiale del 13 di gennaio salutava Garibaldi col titolo di Eccellenza, ce ne godè l'animo; imperocchè difensori dell'aristocrazia, e persuasi che questa debba essere un anello tra il Sovrano ed il popolo, ci rallegriamo dell'omaggio che rendono i rivoluzionavi al principio aristocratico. Siccome però onores mutant mores, così vorremmo che mutassero anche il linguaggio, e sua Eccellenza Garibaldi scrivesse lettere eccellentissime.

Intanto daremo un saggio delle lettere che scrive e dello stile che adopera. Ecco in primo luogo la lettera che ha spedito all'onorevole sig. il sig. generale d'Ingrogna, scusandosi di non poter tenere l'invito fattogli dal principe Umberto.

Caprera, 7 gennaio 1862.

Dolente di non poter intervenire alla prima adunanza della Società del Tiro Nazionale, fissata pel dì 1 1 corrente mese, il sottoscritto prega V. S. IIIma di presentare le di lui scuse a S. A. R. il Principe presidente.

G. GARIBALDI.

Questa lettera ci pare un po' troppo laconica. Sua Eccellenza il generale Cialdini non ha potuto assistere all'inaugurazione del Tiro, ma disse nella sua lettera: Sono assai dispiacente di non potermi recar a Torino, e addusse la ragione che l'obbligava a restare in Bologna, trovandosi assente il signor generale Villamarina. Invece Garibaldi nulla. Dolente di non poter intervenire, e basta.

Per contrario nelle altre lettere. Sua Eccellenza Garibaldi, è molto più espansivo; da consigli, e saluta con molto affetto. Eccone in prova la seguente risposta al Comitato di Provvedimento di San Severino.

Caprera, 28 dicembre.

Vi ringrazio pel saluto fraterno che mi mandale. Continuate nella via del bene; e dite ai giovani che si apparecchio alla prossima ed ultima battaglia dell'onor nazionale. - Concordia ed operosità - e trionferemo dei tenebrosi e manifesti nemici. Vi saluto con molto affetto.

G. GARIBALDI.

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Da questa lettera rileviamo che è prossima l'ultima battaglia dell'onor nazionale, e che l'Italia ha due classi di nemici, i tenebrosi ed i manifesti. Noi non siamo certamente tra i tenebrosi, perché la nostra penna dice ciò che il cuore sente. Napoleone IH faccia invece un po' d'esame di coscienza, e veda se non potrebbe entrare nel novero dei tenebrosi I

E se non pigliamo abbaglio va all'indirizzo del Bonaparte la seguente lettera che S. E. Garibaldi rispose ai complimenti mandatigli da' suoi compatrioti Nizzardi in occasione del capo d'anno. La lettera venne rimessa al signor Mereu Luciano, che aveva portato a Caprera i complimenti, e dice così;

Caprera, 7 gennaio 1862.

Ai Nizzardi miei compagni d'esilio in Genova.

Accetto coll'animo l'augurio vostro per la libertà della terra natale. - Cittadini del mondo, noi amiamo le sorelle nazioni - indistintamente - ma faremo la guerra, tutta la vita, al dispotismo ed all'impostura. Accogliete un amplesso d'affetto e di gratitudine dal vostro.

G. GARIBALDI.

Capite! Despotismo ed impostura, Io che equivale ai manifesti ed ai tenebrosi nemici! Che se la lettera precedente va a Parigi, questa che segue pare diretta a Roma. Essa è una risposta all'Associazione Giovanile Abruzzese, la quale avea ascritto tra' suoi membri due nostri genti per indicare «la costanza ne' magnanimi propositi, il valore nell'eroicamente effettuarli, personificati in Mazzini e Garibaldi».

Mazzini rispondeva sotto la data di Londra, 31 dicembre 1861, e tra le altre cose diceva alla gioventù abruzzese: Accostatevi fidenti al popolo, o giovani; e se a lui infonderete virtù di più nuove e più larghe idee, ne trarrete copia interminabile di energici e schietti sentimenti. È l'ideale che divengano uno chi pensa e chi fa. La vostra Associazione dev'essere un anello dell'avviata Associazione generale. Il primo intento da raggiungersi con questa grande comunione di animi e di volontà è lo acquisto di Roma e Venezia. Il suffragio universale e l'armamento nazionale ne sono i mezzi: l'Associazione è la via per ottenerli».

Garibaldi alcuni giorni prima aveva già risposto così:

Caprera, 23 dicembre 1861.

All'Associazione Giovanile Abruzzese - Napoli.

Grazie! per l'onorevole titolo di vostro Presidente onorario. A voi, generazione predestinata a grandi cose, son riserbate grandi incombenze. - La patria versa in circostanze assai difficili -essa uscirà però vittoriosa dalla tenzone - grazie alla risoluta inesorabile costanza dei suoi figli.

Avvoltoi, corvi assuefatti a pascersi di cadaveri posano ancora sulle vostre belle contrade - e pascolo trovano tuttora! - Disseminando le tenebre sulla terra - essi trovano proseliti. - A voi - giovani prediletti da Dio - tocca diradare le tenebre, ed edificare sulle rovine dell'ignoranza l'edificio della dignità umana. - Siate apostoli del vero! voi lo troverete nel fondo dell'anima vostra, scintilla dell'anima dell'infinito.

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Per giungere al libero esercizio del vostro apostolato, voi dovete alla parola santa di verità, che deve con fondere gl'impostori, aggiungere l'imponenza della forza - non della forza per soggiogare - ma di quella destinala a liberare gli schiavi. -

Armatevi dunque! ma armatevi tutti per Dio! e facilissimo - vi prometto

- sarà il sentiero, elio condurrà l'Italia al seggio tra le nazioni, a lei destinato dalla Provvidenza.

Il vostro G. GARIBALDI

Si è forse in seguito a questa lettera contro gli avvoltoi e i corvi assuefatti a pascersi di cadaveri, che D. Passaglia celebrava nel primo numero del Mediatore il luminosissimo esempio dell'eroe di Caprera; come certamente il Passaglia veste da secolare per non essere creduto un corvo od un avallalo.

Anche parecchie signore di Milano ricevettero una lettera da S. E. il generalo Garibaldi. «Ad alcune signore, dice il Pungolo di Milano del 13 di gennaio, che inviarono a Garibaldi una focaccia cogli augurii per il nuovo anno, l'illustre eroe indirizzava la seguente lettera:

«Caprera, 7 gennaio 1862.

« Carissime e gentilissime Signore di Milano

«Più che del magnifico regalo, vi sono grato del ricordo che voi aveste di chi vi ama di cuore. - Sì, bellissime donne! io vi amo - ed amo la vostra Milano - con tutto l'affetto dell'anima. - Voi mi mandaste in ogni occasione dei ben valorosi compagni - ed assai più ne invierete - quando Ira poco - ricordandosi l'Italia del suo dovere, darà l'ultimo calcio alla canaglia che l'infesta ancora. Vi bacio affettuosamente la mano

« Il vostro per la vita G. GARIBALDI

Ci pare che un'Eccellenza potrebbe cercare altri termini, e, scrivendo a signore, non parlare né di calci né di canaglia. Oltre le signore milanesi molti altri scrissero pel capo d'anno a Garibaldi, ma non ottennero risposta particolare. Sul giornale di Genova, intitolato Roma e Venezia (11 gennaio 1862), fece pubblicare la lettera seguente:

Sig. Direttore del giornale, Roma e Venezia

In Genova.

Caprera, 6 gennaio 1862.

Non avendo il tempo materiale da rispondere a tutte le lettere che mi giunsero in questi giorni, mi valgo del di lei accreditato giornale per testimoniare la mia sincera gratitudine a tutti coloro che furono gentili a colmarmi di augurii per questo nuovo anno, assicurandoli, in pari tempo, che non meno fervidi sono i miei per il loro benessere e per la completa indipendenza della nostra cara Patria. Gradisca i sensi della distinta mia stima.

G. GARIRALDI.

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Tuttavia Garibaldi dovette fare e fece un'eccezione per i calzolai di Parigi che gli regalarono un paio di stivali. Ecco le ultimo notizie di Caprera scritte dal Movimento di Genova sotto la data dell'11 di gennaio: «Furono a visitare Garibaldi ultimamente il signor Giacinto Baghino, ordinatore dei Carabinieri Genovesi mobili e il maggior Carissimi, incaricato di presentargli il dono dei calzolai parigini. Al Baghino raccomandò di curare con ogni studio la instituzione dei bravi Carabinieri e di portar loro una sua parola di affetto e di gratitudine per quanto essi fanno a futuro vantaggio della patria. Al maggior Carissimi consegnò la lettera seguente per gli operai parigini:

Caprera, 10 janvicr 1862.

« Mes bien chers amis,

«J'ai recu les belles bottes à l'ecuyère que voùs cutes la courtoisie de m'envoyer - et l'augure qu'elles soient portées pur moi - dans un jour de victoire du peuple. Je vous suis bien reconnaissant pour ce beau cadeau - et surtout pour l'heureux présage, émanation d'ames libres et généreuses. Avec affection et reconnaissance.

« Votre Devoté

G. GARIRALDI

«Aux Ouvriers Cordonniers de Paris» .

Eccovi, D. Passaglia in queste lettere l' esempio luminosissimo dell'eroe di Caprera. Aggiungetevi ciò che già Garibaldi scrisse agli studenti dell'Università di Pa«ta: i Bisogna estirpare dall'Italia il cancro del Papato... Bisogna estirpare questi abiti neri». I). Passaglia la sa lunga, e s'ha messo sulle spalle un abito bigio. D. Carlo non vuoi essere estirpato!

Aggiungete ciò che il 30 novembre 1861 Garibaldi scriveva al suo caro Mignona: «Dite ai nostri fratelli delle provincie meridionali che dicano ai preti borbonici, murattiani e simile canaglia, che affligge quelle brave provincie, che la giustizia di Dio è vicina a colpirli, e che sola l'infame memoria rimarrà di loro sulla terra italiana».

Aggiungete ciò che Garibaldi scriveva ai popoli nel Napoletano il 16 novembre 1861: «Oggi con mio rincrescimento non verrò a voi. Sarò con voi quando fia d'uopo. Aggiungerò una parola sola. E doluto d'ogni italiano di propararsi un ferro. Il mondo sa che lo sappiamo maneggiare... e credo l'ora vicina!... Sia questo all'indirizzo di chi conculca i diritti dell'Italia colla forza e colla menzogna».

Aggiungete tutte le altre lettere, e sono innumerevoli, scritto dal Garibaldi contro il Clero, contro Roma, contro la religione del Papa, e poi giudicate questo ex-frate, questo signor D. Passaglia che viene a metterci davanti il luminosissimo esempio dell'eroe di Caprera.

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GARIBALDI ALLE DONNE ITALIANE

(Pubblicato il 20 marzo 1864).

Togliamo dal Movimento la seguente lettera che Garibaldi scrisse 

dalla villa Spinola in Genova alle donne dal cuore d'angelo.

Alle donne italiane

In nome della patria - io vi devo una parola di gratitudine per il benfatto. - Tra i molti beneficii da voi operati - risplende lo stabilimento d'un istituto - a Torre del Greco - ove si raccoglie il figlio del popolo - si nutre, si veste - e si educa ai doveri di cittadino - Fresto altri consimili istituti saranno stabiliti da voi in Palermo - ed altrove - ove più fa stragi la miseria. Che Dio vi benedica - donne dal cuore d'angelo - e benedica le care, le buone, le gentili straniere, iniziatrici e benefattrici dell'opera santa. Voi avete ridonato all'Italia - il vecchio sublime Cristianesimo - che l'egoismo e l'impostura avevano trascinato nel fango. - Oh, sì, carissime donne - il giorno, in cui le classi agiate, - considerando il povero come fratello - ne avranno cura - lo beneficheranno, - esse avranno posto un termine a quelle terribili rivoluzioni che spaventano l'umanità a periodi indeterminati - ma certi ed inevitabili, - durando i prepotenti nella loro cieca ostinazione. - Che i generosi Comitati di signore - già esistenti - spargano le loro benefiche associazioni anche negli ultimi villaggi della Penisola - ove certo più se ne sente il bisogno. lo mi prostro riconoscente davanti alle rigeneratrici d'un popolo - benemerite dell'umanità intera.

G. Garibaldi.

LETTERE DI GARIBALDI

AI SACERDOTI ITALIANI

(Pubblicato il 22 marzo 1862).

Garibaldi dopo di avere scritto ai sovrani, alle donne, alle associazioni ed ai rivoluzionari di tutti i paesi, si è degnato d'indirizzare una lettera ai sacerdoti italiani sotto la data di Genova 12 marzo 1862. Questa lettera leggesi nel Diritto del 21 di marzo, N. 80, insieme con un'altra lettera che Garibaldi avea indirizzato da Torino ai sacerdoti italiani fin dal 5 dicembre 1801, lettera che rimase inedita, non sappiam bene per quale ragione. Ecco questi due curiosi documenti:

Ai Sacerdoti Italiani!

Incombe ai veri sacerdoti di Cristo una missione sublime. - Essi senza falsare la loro coscienza d'Italiani non possono rimanere complici di quanto si opera in Roma a detrimento della causa santa del nostro paese. - Che si alzino dunque coraggiosi sulla breccia dei diritti della umana razza.

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- Che scendano nel fondo del loro cuore - emanazione di Dio - e lo consultino sui loro doveri - e che gettino finalmente tra le moltitudini la sacra parola della religione del Vero - Essi andranno superbi domani d'aver fatto il bene - e la patria riconoscente inciderà i loro nomi tra gli eroici figli suoi che la redensero. Torino, 5 dicembre 1861.

«G. GARIBALDI».

Ai Sacerdoti italiani!

Genova, 12 marzo 1862.

Io non parlerò di colpe. - Quando mi dirigo alle moltitudini cito loro le parole del Vangelo: « Chi non ha colpe getti la prima pietra ii. Quindi concordia anche con voi - se volete. - Ma operate il bene. - Sinora voi operaste il male. - Voi avete fatto di Roma un covile di fiere anelanti la distruzione d'Italia. - Io sono convinto pur troppo che voi non potete strappare i Cardinali dalla perdizione. - Ma se lo potete, fatelo. - Se no gridate ai quattro venti della terra «che non volete solidarietà coi malvagi - che siete Italiani - che volete imitare almeno il sacerdozio dell'Ungheria, della Polonia, della Grecia, della Cina, dei selvaggi dell'America, ove il sacerdote non rinnega la sua culla - i suoi parenti - i suoi concittadini, ma combatte alla fronte di quelli per l'indipendenza del suo paese».

«Che il sacerdote italiano tuoni dal pergamo la santa parola di redenzione patria e di reprobazione all'inferno del Vaticano. - Egli comincierà ad avere per intiero la coscienza del suo benefatto e quindi il plauso. ela gratitudine dei milioni. - Far rivivere il Cristianesimo antico che proclamava l'abnegazione, il perdono reciproco ed il sacro dogma della uguaglianza degli uomini - ecco il titolo con cui possiamo noi accogliervi fratelli -

«G. GARIBALDI».

Garibaldi incomincia dal dichiarare ai sacerdoti la loro missione. Chi è costui che sorge e dice ai sacerdoti cattolici che cosa debbono fare? Noi lo giudicheremo dalle sue lettere precedenti.

Garibaldi prima di seri vere ai sacerdoti italiani ha scritto nel marzo del 1861 a sir Culling Eardley, presidente dell'Alleanza Evangelica che aveagli offerto una Bibbia poliglotta, e gli ha detto: «La gran maggioranza del popolo italiano se non è protestante di nome, lo è di fatto Sia persuaso, o signore, che gli Italiani sono assai meno papisti che non si creda» (Vedi il Liverpool Mercury, marzo 1861). Ed ora Garibaldi vorrebbe che anche i sacerdoti italiani rinnegassero il papismo, cioè il Cattolicismo, e divenissero protestanti di nome e di fatto!

Garibaldi ha scritto, il 28 aprile 186I, alla Società operaia di Napoli: «Noi faressimo (sic) un sacrilegio, se durassimo nella religione dei preti di Roma. Essi sono i più fieri o i più terribili nemici d'Italia. Dunque fuori della nostra terra quella setta contagiosa e perversa». E perché oggidì Garibaldi commette il sacrilegio di scrivere ai preti di Roma, clic tali sono i sacerdoti italiani? Perciò s'immischia con questa setta contagiosa e perversa?

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Garibaldi ha scritto, il 10 maggio de l 1861, al Presidente dell'Associazione Unitaria di Palermo di adottare la risoluzione seguente: «Noi non siamo della religione del Papa... Che il Papa, i Cardinali, ccc. , ccc. , cambia immediatamente bottega, e vadano il più possibile lontani dall'Italia». Ed oggidì Garibaldi, che volea i sacerdoti così lontani dall'Italia, promette d'incidere «i loro nomi fra gli eroici figli suoi che la redensero?»

Garibaldi ha scritto, il 16 luglio 18t51, alla contessa Dora d'Istria che la teocrazia papale è la più orribile delle piaghe d'Italia, resa insanabile da diciotto secoli di menzogna. Ed oggidì invita i sacerdoti italiani a far rivivere il Cristianesimo antico! Ma qual è quest'antico Cristianesimo, se i diciotto secoli precedenti furono secoli di menzogna? Forse che i sacerdoti italiani dovranno cercare l'antico Cristianesimo prima ancora della venuta di Gesù Cristo?

Garibaldi ha scritto il 1° ottobre del 1861 al primo battaglione della guardia nazionale di Napoli: «I preti complici del Papa-Re, pari a lui sono vostri nemici, e voi dovete lavare di quella sozzura le bellissime vostre contrade...

Voi dovete fare sparire dalla luce del sole, che offuscano quei cappelloni moltiformi, simbolo per l'Italia delle miserie e delle vergogne di diciotto secoli». Ed ora Garibaldi scrive ai sacerdoti italiani: concordia anche con voi? Concordia coi cappelloni, concordia colla sozzura, concordia colle vergogne?

Finalmente, per tacere di tante altre lettere, il 30 ottobre del 1861 Garibaldi ha scritto al suo Caro Mignona: «Dite ai vostri fratelli delle provincie meridionali, che dicano ai preti borbonici, murattiani e simile canaglia, che affligge quelle bravo popolazioni, che la giustizia di Dio ò vicina a colpirli, e che solo l'infame memoria rimarrà di loro sulla terra, italiana». Ed oggidì Garibaldi manda le sue lettere a questa canaglia, e ne invoca il soccorso?

E che cosa vuole Garibaldi dai sacerdoti italiani? Vuole che predichino contro) 'inferno del Vaticano, dicendo che il Papa è il vicario di Satana, come già scrisse in un proclama il generale Pinelli! E ricorda a noi gli esempi del sacerdozio della Polonia, che combatte per l'indipendenza del suo paese. Ma nessuno osa dire ai Polacchi di combattere contro la loro religione! Quel Clero combatte lo scisma, combatte l'eresia, combatte pel Cattolicismo, combatte in favore dui Papa; non contro il papismo, non contro il Vaticano, non contro Pio IX. E se una sola lettera di Garibaldi fosse scritta al Clero polacco, esso concordemente protesterebbe, abbandonando una causa profanata da sì rei intendimenti.

E dai Polacchi Garibaldi passa a citare gli esempi di altri sacerdoti «di quelli della Grecia, della Cina, dei selvaggi dell'America, ove il sacerdote non rinnega la sua culla». E con questi esempi vorrebbe persuadere i sacerdoti italiani a rinnegare la loro culla, che è Roma, il loro padre che è il Papa, la loro madre che è la S. Chiesa Cattolica Apostolica Romana!

Queste lettere ai sacerdoti italiani sono il peggiore insulto contro il Clero che uscisse dalla penna di Garibaldi. Ed anche por costui sta scritto nella leggo che si debbo rispettare ogni classe di cittadini e non eccitare l'odio degli uni contro degli altri.

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Tuttavia i preti italiani perdoneranno al Garibaldi finché li chiami canaglia, sozzura, cappelloni, vergogne, piaghe d'Italia, bottegai, sella contagiosa e perversa; ma non potranno perdonargli quando li inviti a tuonare dal pergamo la santa parola di reprobazione all'inferno del Vaticano. Contro un tale invito protesta solennemente il sacerdozio italiano, e risponde così:

«Generale Garibaldi, alla libertà ed alla causa d'Italia fanno più danno le vostre lettere, che tutti coloro da voi chiamati briganti di Napoli, e preti di Roma. Ciò che scrivete voi è una splendida apologia di Pio IX e de' suoi sacerdoti. Essi dicono che sotto la maschera della libertà e dell'indipendenza si nascondo l'odio contro Gesù Cristo, e una cospirazione contro il Cattolicismo, e voi lo confermate. Essi dicono che non si vuole rigenerare l'Italia, ma perderla, gettandola nelle dissensioni del protestantesimo, e nei terrori dell'empietà e dell'ateismo, e lo dimostrano le vostre parole.

«Generale Garibaldi, voi vorreste avere il sacerdozio italiano complico nella vostra impresa di spogliare il Papa. E chi è questo Papa? È Pio IX, di cui voi stesso scriveste nel 1817 «che avea già fatto tanto per la patria e per la Chiesa!» Non sarà mai che i sacerdoti d'Italia imitino In vostra ingratitudine. La Chiesa e la patria stanno amichevolmente congiunte, e non è mestieri rinnegare la prima per servir la seconda. Pio IX da sedici anni le serve, sostiene, onora amendue; e dietro a lui fedeli, devoti, coraggiosi i preti italiani continueranno a servire la patria servendo la Chiesa, certi che i vantaggi del Cattolicismo ridonderanno a salvezza, ad onore, a gloria dell'Italia, la cui indipendenza è indissolubilmente unita col potere temporale del Papa, come dichiarò nel 18-18 Luigi Napoleone.

«Generale Garibaldi, scrivete pure un'altra volta alla guardia nazionale di Napoli che, quando incontra un prete, lo schiacci come cosa schifosa, appestata. I preti italiani si lasceranno schiacciare, e pregheranno per chi li perseguita; ma non si lasceranno né fuorviare, nò corrompere. Li vedrete morti ai vostri piedi, non li vedrete mai traditori della fede di Gesù e del Romano Pontefice. Potrete togliere loro i beni, la patria, la vita, ma non la devozione, non l'amore a Pio IX, che è amore e devozione al Cattolicismo ed all'Italia.

«Generale Garibaldi, voi dite ai sacerdoti italiani che finora operarono il male. Pio IX invece li loda perché operarono il bene restando uniti all'Episcopato, e saldi nella difesa del vero, dell'onesto e del giusto. Dovranno i preti anteporre l'oracolo garibaldino all'oracolo del Vaticano? Abbandonare Pio IX permettersi con Garibaldi? Imparare da voi che cosa sia il Cristianesimo, e quali sante parole debbano proferirsi dal pergamo?

«Generale Garibaldi, voi siete netto da un diletto comune ai vostri amici, l'ipocrisia. Non promettete al Papa libera Chiesa in libero Stato, ma lo considerate come l'Anticristo. Non offerite titoli e stipendi ai Cardinali, ma li mandate in perdizione. Non vi vantate di voler evitare uno scisma, ma lo promuovete dichiarando guerra ni Cattolicismo. Non invocate sacrilegamente le benedizioni del Pontefice, ma imprecate ni Vaticano rappresentandolo come un inferno.

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«Ma perché cessare da questa vostra franchezza? Perché macchiarla con una lettera ai preti?Perché darvi pensiero dei sacerdoti italiani? Credete voi al sacerdozio? Ah! Lasciate da parte i ministri di Gesù Cristo. Essi non accetteranno mai più la vostra fratellanza, perché voi non li volete fratelli se prima non si dichiarano apostati, se non vengono meno ai proprii doveri, se non contristano e trafiggono l'anima del proprio Padre.

«Generale Garibaldi, tenete per voi e pei vostri il paradiso che avete creato nella nostra patria. I sacerdoti italiani stanno in quello che voi chiamate inferno del Vaticano. fi un inferno di nuovo. genere, come di nuovo genere è il vostro paradiso. Nell'inferno del Valicano c'è dignità, ordine, fede, onestà; laddove nel vostro paradiso nullus ordo sed sempiternus horror inhabitat. Ma poiché le opinioni sono libere, noi anteponiamo l'inferno con Pio IX al paradiso con Garibaldi. Il primo è un inferno che conduce al paradiso, e l'altro un paradiso che anticipa o almeno conduce a gambe levate all'inferno».

PRIMO PASSO DI RATTAZZI

PER CONQUISTARE ROMA E VENEZIA

(Pubblicato it i aprile 1862).

Ricasoli andava a Roma per via di lettere, di capitolati, di opuscoli, di progetti, di articoli e cose simili, e pare che il suo successore non intenda di seguire un'altra via. La Correspondance Italienne litographiée, che pubblicasi in Torino a servizio del Ministero, stampa una circolare che Urbano Rattazzi, sotto la data del 20 di marzo, indirizzava ai nostri agenti presso le Corti europee. Rattazzi dichiara che vuole Roma e Venezia, e non può farne a meno, essendo obbligato a conquistarle da un voto del Parlamento! Ed ecco che cosa scrive Rattazzi riguardo a Roma.

«La questione di Roma preoccupa in alto grado lo spirito dei consiglieri della Corona. Il Re ebbe dal Parlamento, come dalla nazione, il mandato di completare la formazione del paese, di trasferire la sede del governo nella Città Eterna, a cui solo si spetta il titolo di Capitale dell'Italia.

«Tale mandato non può essere rifiutato: la soluzione di tale quistione si collega alla conservazione dell'opera compiuta in Italia, dall'epoca dell'ultima guerra. I nostri alleati che contribuirono tanto a cotale successo hanno interesse che, anche da questo lato, i destini d'Italia si compiano.

«Il governo non si dissimula che tra i cattolici ve ne sono molti che sono contrarii al suo modo di vedere. Ma essi dimenticano che il potere temporale non esiste che per la protezione che gli si accorda, e che ogni qualunque protezione è una dipendenza. L'indipendenza del Sovrano Pontefice, disimpacciato dal potere temporale, avrà un'imperitura guarentigia nel fatto che la sua libertà sarà un bisogno continuo di tutti i popoli cattolici, come di tutte le Potenze che la proteggono,

«Esso ha un'altra guarentigia del pari incrollabile nell'interesse che ha l'Italia di conservare nel suo territorio la sede di questo sublime potere, il quale è al tempo stesso quello delle sue glorie e delle sue forze.

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«Il sistema nostro, che su larga base assicura la cooperazione del popolo, sul quale l'autorità religiosa esercita la più efficace influenza, impedirà sempre che quest'autorità cessi d'essere indipendente. La sua indipendenza trae, d'altro canto, una sicurezza negativa dal principio che serve di base alla nostra costituzione; secondo la quale il governo è incompetente in materie religiose.

«La resistenza che Roma la ai voti del popolo italiano non consiste già oggidì nel desiderio di rassicurare la coscienza dei cattolici contro alcuni pericoli imaginarii, ma nel servire gl'interessi d'un partito che, estraneo alla religione, cerca in quella Corte l'appoggio che gli manca sul terreno politico. Da ciò risulta un altro motivo, perché In quistione sia sciolta nel nostro senso.

«Il governo del Re farà di tutto per raggiungere questo scopo, d'accordo col grande alleato, che ora protegge il Santo Padre colle sue armi. D'accordo coi governi a ciò interessati, esso ù pronto a guarentire questa preziosa libertà necessaria all'esercizio del potere spirituale, e a regolare le relazioni della Corte romana coi popoli e i governi cattolici. Allo stesso modo, e dietro gli stessi accordi, e sotto le stesse guarentigie, egli assicurerà una dotazione perpetua sufficiente e convenevole alla dignità del Sovrano Pontefice e del Sacro collegio, e necessaria alla conservazione delle autorità e delle istituzioni della Chiesa cattolica. D'altra parte, la libertà che abbisogna al Papa per assicurare l'esercizio delle sue alte funzioni, egli non la troverebbe in nessun luogo così piena quanto nella città madre del mondo cattolico, sotto l'egida d'un governo, il quale, più che tutti gli altri, trovasi, in grado di conservargliela intatta».

Sono le solite ciancie di Ricasoli rifritte da! nuovo cuoco Rattazzi, il quale pretende di conoscere meglio de' Vescovi e del Papa i vantaggi e i bisogni della Chiesa cattolica!

Passiamo alta Venezia. Urbano Rattazzi scrive su questo argomento ai nostri agenti diplomatici:

«Quanto alla questione della Venezia il governo si sente abbastanza forte da non lasciarla pregiudicare da atti che potrebbero ledere l'integrità dei suoi impegni. Pure non debbonsi tacere i pericoli di vedere turbati, da un istante all'altro, l'ordine e la libertà di questa parie sì importante d'Italia, causa l'occupazione dello straniero.

«La comunanza d'origine, di lingua, di dolori, di speranze e di gloria, che stringe a noi le popolazioni della Venezia; i voti pronunciati nel 1848, le promesso a lei fatte nel 1859, i volontari che essa ci ha mandati, i suoi emigrati ora sparsi in tutte le nostre città, e nella nostra armata, tutto ciò rafferma i vincoli di simpatia e di solidarietà fra i Veneti e la Penisola in modo che mai l'Italia potrà restare indifferente ai dolori di quel paese.

«E a misura che la nazione acquista di forza, è a temersi che un giorno essa non franga le catene della pazienza, o non cerchi di guarire del dolore che i mali di una sì nobile parte del suo corpo le accagionano.

«Il diritto dell'Austria sul Veneto è distrutto dal fatto incontestabile che essa non può mantenerlo che colla forza; e la forza può, è vero, soffocare la crisi... ma impedirla, no.

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«Le potenze che crearono un tale stato di cose hanno il mandalo di aver cura della soluzione pacifica di sì grande questione. Il governo del Re aveva il diritto di mostrar loro i pericoli che ponno derivare da un troppo prolungato ritardo, pericoli che non si ponno ovviare che con una fondamentale revisione dei trattali del 1815, dietro cui l'Italia, rigenerala, riacquisti le sue frontiere naturali».

Urbano Rattazzi è un po' imprudente. Egli dice: «Il diritto dell'Austria sul Veneto o disunito dal fatto incontestabile che essa non può mantenerlo che colla forza». Ma perché il signor Rattazzi scrivendo queste linee non pensò a Napoli, alla guerra sanguinosa che si combatte da tanto tempo in quel reame, alle migliaia e migliaia di soldati che vi si mandano, agli arsi paesi, alle piene prigioni, alle fucilazioni continue?

IL GENERALE GARIBALDI

NEL 1848 E NEL 1862

(Pubblicato il 22 maggio 1862).

In qualche luogo di queste Memorie si accenna come nel 1848 il governo di Torino, dopo di avere avuto amico ed ausiliario il generale Garibaldi, spedisse contro di lui e contro de' suoi il Duca di Genova con buon nerbo di truppa, affine di arrestarne le mosse, ed impedire alla sua colonna di rientrare sul territorio piemontese. Sarà utilissimo ricordare i documenti di questo fallo, che j nessun ministero e nessun governo avrebbe dovuto dimenticare nel 1859.

Apriamo il Risorgimento, giornale diretto nel -1848 dal conte di Cavour. Nel suo N° 198 del 17 di agosto 1848 il Risorgimento raccontava quanto segue: «I Milanesi del partito repubblicano si raccolgono in Isvizzera. Colà si volgeva ieri il generale Garibaldi con forse una mano di 1500, e cominciava col mettere un accatto ad Arena di L. 7000. Correva stanotte colà il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria e 2000 fanti, Garibaldi giorni fa aveva fatto tirare sugli Austriaci, intimatogli da questo governatore di osservare la tregua sotto la più. stretta risponsabilità, stette cheto, e poi si volse alla bella impresa di SQUATTRINARE ARONA. Dicesi che ha sequestralo i battelli a vapore e molte grosse barche».

Nel numero successivo il Risorgimento rideva dei modi un po' cavallereschi del generale Garibaldi, e riferiva che, essendo stato avvertito il generale della tregua stretta dal nostro governo coll'Austria, egli rispondesse: «La tregua l'ha fatta il Re, noi non c'entriamo». Questo articolo è troppo-lungo, ma sarà utile rileggerlo.

La Gazzetta Piemontese poi, nella sua parte ufficiale, il 17 agosto 1848, parlava così del generale Garibaldi: «Il generale Garibaldi ritiratosi a Castelletto sul Ticino con 1300 uomini, si mosse repentinamente di colà la mattina del 14, conducendo seco in ostaggio i due fratelli Minella e certo Barberis, siccome quelli che avevano voce di partigiani dell'Austria;

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andò ad Arona, vi trattenne tutte le barche che vi stavano ancorate, quelle che vi giungevano dalla opposta sponda lombarda, e i due piroscafi, ed impose alla città una contribuzione di L. 10, 000, che fu poi ridotta a 7000, di venti sacchi di riso, tre di avena e 1286 razioni di pane, e partiva, a quanto pare, per continuare le ostilità contro l'Austria, lasciando gravi apprensioni del suo ritorno.

Partendo lasciò bensì in libertà, dietro lo calde istanze di alcune persone, l'ingegnere Barberis, ma trasse pur seco i due Minella summentovati, ed un tal Guenzi da lui arrestato in Arona, a nulla giovando l'intervento dell'avv. Brofferio che colà trovavasi. Si dice poi che, sbarcato a Luino sulla sponda lombarda, vi fece fucilare contro ogni leggo di umanità i tre ostaggi suddetti, o quindi batté un corpo di tre o quattrocento Austriaci (la notizia era falsa).

«Intanto l'amministrazione civica di Arona richiamava al governo, per essere tutelata da simili violenze, ed il governo del Re, sia per assicurare le popolazioni, sia per mantenere la disciplina così gravemente offesa, sia finalmente per non rendersi complico di siffatta violazione dei patti di armistizio, fu costretto a provvedere perché la colonna Garibaldi non potesse rientrare nel territorio piemontese».

Noi non ci facciamo mallevadori della verità delle accuse contenute nella Gazzetta Ufficiale. Possiamo dire soltanto che i fatti accennati non vennero né ritrattati, né smentiti, e che omai sta registrato nelle istorie come nell'agosto del 1848 il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria e 2000 fanti movesse contro Garibaldi: 1° per assicurare le popolazioni; 2° per conservare la disciplina; 3° per non rendersi complice di violazione di patti.

Queste tre ragioni servono anche pel 1862. Imperocché noi abbiamo oggidì le popolazioni incerte, ansiose, agitate, spaventate; abbiamo la disciplina militare sconvolta, e ordinata la guerra da chi non può dichiararla; abbiamo finalmente la violazione dei patii di Villafranca e del trattato di Zurigo che fermarono la pace ti a l'Austria ed il Piemonte.

Ma il generale Garibaldi non è più quello del 1848, e non si trova più col governo nostro nelle medesime condizioni. Nel 1860 Garibaldi ha messo a repentaglio la tranquillità delle popolazioni napoletane, e il nostro governo l'approvò, lo lodò, lo celebrò, e raccolse il frutto della sua intrapresa. Nel 1860 Garibaldi ruppe la disciplina, e impossessatosi a forza di un vapore, e raggranellato un manipolo di truppa, sbarcò a Marsala, e riuscito ne' suoi intendimenti, il governo voleva crearlo cavaliere della SS. Annunziata. Nel 1860 Garibaldi mosse contro il Re di Napoli mentre stavano in Torino i suoi ambasciatori, e il conte di Cavour stringeva loro fraternamente la mano, assicurandoli della sua sincera amicizia; e poi invece abbracciò Garibaldi, e non temette di rendersi complice della violazione di patti, e di proclamarlo come un grande Italiano.

Sicché mentre il governo di Torino nel 1848 dirigeva contro Garibaldi il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria, e fanti, nel 1862 non osa dirigergli neppure due linee della Gazzetta Ufficiale) Per rispondere alla sua protesta, risponde invece al Diritto che non disse nulla, che nulla stampò, salvo le parole di Garibaldi.

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Fin da ieri noi notavamo la tristizia di questo procedere, ed il Diritto del 21 di maggio, N° 140, se ne lagna fortemente ed ha ragione. «Credevamo, scrive il Diritto, che la Gazzetta Ufficiale fosse soltanto menzognera. Oggi l'abbiam trovata - ci consentano i nostri lettori il forte e a noi insolito ma giusto linguaggio - vigliacca ed infame» .

E il Diritto segue a dar due prove della sua tesi che la Gazzella Ufficiale del Regno d'Italia è vergognosamente vigliacca: «L'una nel calunniare in cospetto a tutta Italia e all'Europa un numero di giornale che fu sequestrato; e tanta bassezza è appena degna di essere avvertita. L'altra nel ritorcere la calunnia sopra le povere linee del Diritto senza avere il coraggio di dire che quelle linee sono scritte dal generale Garibaldi; e tanta meschinità d'animo è così turpe e disonorante che non sapremmo dove trovarne altro esempio».

Non ci vuole grande ingegno a vedere per qual ragione fosse sequestrato il Diritto del 20 di maggio. Apparentemente si disse clic fu sequestrato «per aver riportato nel N° 139 un indirizzo della Società emancipatrice italiana al generale Garibaldi, il quale (indirizzo) nel suo contesto e singolarmente nell'ultima sua parte colle parole: - Non saranno trattenute, né... né dai soprusi, ecc. contiene chiaramente il reato di eccitamento alla ribellione ed alla rivolta contro i poteri dello Stato».

In realtà fu sequestrato per la protesta di Garibaldi, che dice contumelie ai nostri soldati. Ma perché non motivare il sequestro su questa protesta? Il perché è evidente. Dopo il sequestro di un giornale bisogna fare un processo, e il processo non comprende solo il gerente che pubblica l'articolo, ma anche l'autore che lo sottoscrive. Di guisa che, sequestrandosi il Diritto per la protesta di Garibaldi, avremmo dovuto vedere alla sbarra e davanti i giurati il gerente ed il generale. Ora il generale per prima cosa gode un'inviolabilità più veneranda di quella del Sovrano, e quando si trovasse un ministero così coraggioso da sottoporlo alla legge, i giurati darebbero ragione a Garibaldi e torto al governo. Laonde per evitare questi due sconci, e non potendosi battere il cavallo, s'è battuta la sella.

Ma in pari tempo ognun vede la tristissima condizione del governo nostro, se pur di governo merita tuttavia il nome, e non piuttosto di schiavo. Avvegnachè esso sia soggetto a due gravi schiavitù, a quella di Luigi Bonaparte, e a quella di Giuseppe Garibaldi. Dal primo ha avuto la Lombardia, dal secondo la Sicilia e Napoli. Il primo l'ha protetto colla legge del non intervento; il secondo col rendergli devota la parte repubblicana e col proclamare Italia e Vittorio Emanuele. Deve a Napoleone i soccorsi diplomatici, a Garibaldi gli aiuti rivoluzionari, ed è diventato così servo di amendue. Non può parlare né di Napoleone, né di Garibaldi senza sberrettarsi, inchinarsi, genuflcttere e professare sempre a questo ed a quello il suo amore, la sua devozione, la sua riconoscenza.

Però anche in questo caso si verifica il principio che non si può servire a due padroni. Con tutta la sua buona disposizione di servire il ministero trovasi omai nella dolorosa alternativa di dispiacere o a Garibaldi, o a Bonaparte. Imperocché l'uno comanda di andare a Roma e di conquistar la Venezia, e l'altro proibisce di pensare, e perfino di sparare all'acquisto di Venezia e di Roma.

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Di che i ministri trovansi in questo bel pasticcio; o pensano a Venezia e a Roma, e muovono un passo solo per andarvi, e incorrono nelle ire dell'Imperatore dei Francesi che li abbandona; o dimenticano Venezia e Roma, e suscitano gli sdegni di Garibaldi che li combatte. E persuadetevi che il Garibaldi e il Bonaparte sono egualmente potenti in Italia, chi in un senso e chi nell'altro, e il governo di Torino ha bisogno di tutti e due, di questo nella sfera diplomatica, e di quello nella cerchia rivoluzionaria.

Intanto mentre credevasi vicina la soluzione della questione romana, e i nostri sul punto d'entrare in Roma, né sono oggidì più lontani che mai. La questione Garibaldi-Bonaparte è qualche cosa di più urgente, di più Fatale, di più faticoso delle altre questioni, e non sappiamo come potrà sciogliersi. E nel tempo che si discuterà nel recinto de' gabinetti e negli antri delle società segrete, e si faranno transazioni, e correranno danari per conciliare gli amici inviperiti. Pio IX circondato dai Vescovi del mondo cattolico compirà in Roma la gloriosa e consolante canonizzazione dei Martiri Giapponesi.

LE COSPIRAZIONI DEL SIGNOR RATTAZZI

(Pubblicato il 5 giugno 1862).

«Io conosco e debbo conoscere il ministro Rattazzi. signori, come ogni altro col quale ho anche cospirato Egli è uno di quegli uomini che desiderano cospirare, ma non ha né l'audacia, né il coraggio del cospiratore»

(Deput. CRISPI), tornata del 3 di giugno 1862, Atti Uff. N° 620, pag. 2398, col. 1).

Il Conte di Cavour prima di morire ebbe un giorno il coraggio di dichiararsi nella Camera dei Deputati un cospiratore, e confessare che per dodici anni aveva cospiralo; ciò che dimostra che cospirava fin da quando avea l'aria di difendere il clero in Parlamento, e usava al clericale uffizio dell' Armonia.

Il ministro Rattazzi, senza avere il coraggio del conte di Cavour, ne segue il costume. Grandi rivelazioni furono fatte alla Camera nella tornata del 3 di giugno, rivelazioni di cui la storia s'impossesserà, e che noi registreremo secondo gli Atti Ufficiali del Parlamento. Da queste risultò chiaramente che il presidente del ministero ha cospirato, cospira e forse continuerà a cospirare, senza avere però il coraggio dei cospiratori.

Ecco che cosa gli disse in sulla faccia il deputato Crispi (Atti Uff. N° 620, pag. 2397):

Crispi. Signori, l'affare del Tirolo è una favola, una fantasmagoria, è uno di quei colpi montati dal Governo. (Oh! oh! rumori). Io sono infermo, e sono venuto alla Camera per adempiere ad un sacro dovere. (Rumori. Bravo! a sinistra: parli. Applausi dalle tribune pubbliche).

L'affare del Tirolo fu una fantasmagoria, uno di quei colpi montati per venir qui alla Camera con qualche progetto di legge, che da gran tempo si fa imtendere di volerci portare, e che recherà forse qualche colpo fatale alle libertà del paese.

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Né Garibaldi, né altri pensò violare l'articolo 5» dello Statuto; nò Garibaldi, né altri pensò mai di far passare ai suoi amici la frontiera austriaca; ci erano altri scopi, altri progetti, progetti iniziati da lungo tempo. Il miniatro dell'interno non deve dimenticarsi che a questi progetti anch'egli prese parte

Rattazzi. Non è vero.

Crispi. Verissimo; ci sono le testimonianze, ed al caso domanderò un'inchiesta.

Rattazzi. Parli, risponderò.

Crispi. Lo scopo dunque era tutt'altro che il passaggio della frontiera austriaca; lo scopo era al di là dei mari, salvo poi ad andare dove si sarebbe voluto. Il signor ministro dell'interno ricorderà messaggi mandati da lui a Garibaldi, e da Garibaldi a lui: ricorderà i colloqui che s'ebbe con diversi individui nei mesi di aprile e di maggio; non può negarlo; altrimenti dirò i nomi...

Rattazzi. Sì, e dirò quello che ho detto.

Crispi. Ci è. qualche cosa di più. Il signor ministro dell'interno aveva promesso un milione... (Mormorio).

Rattazzi. Non è vero...

Crispi. Lo aveva promesso... Aveva promesso le armi... (Interruzione).

Voci. Lo lascino parlare...

Rattazzi. Parli, parli pure; risponderò.

Crispi. La questione è ardente, signori... (Rumori).

Voci. Parli, parli... Continui...

Rattazzi. Parli, parli pure...

Crispi. Ricorderò anzi che il 27 aprile, uno di questi messaggeri trovandosi dal signor ministro dell'interno, ebbe da questi in risposta: «Il milione non posso tutto prenderlo dalle spese segrete, ci sono appena 600 mila lire, ma il resto lo troveremo altrove». Il signor ministro ricorderà aver detto, che, partito per Napoli, avrebbe dato il milioncino e le armi. La persona incaricata, allora si rivolse al rappresentante del ministro dell'interno in Torino, ed il ministero dell'interno in data del primo maggio mandò un dispaccio in cifra, dal quale risultano a un dipresso le seguenti dichiarazioni: «Pronto a dare le armi, che il generale indichi il luogo, e mandi intanto la ricevuta di una parte del danaro».

Io conosco e debbo conoscere il ministro Rattazzi, signori, come ogni altro, col quale ho cospirato e volli cospirare... perché anche con lui io voleva cospirare.

Rattazzi. lo non ho mai cospirato con nessuno.

Crispi. Sissignore, nel dicembre 1859... (mormorio). Il signor ministro Rattazzi risponderà. Egli è uno di quegli uomini che desiderano cospirare, ma non ha né l'audacia, né il coraggio da cospirare; prende parte ai complotti per tirarne l'utile suo, ma quando poi le cose sono a tal punto, che non li conviene di restar implicato, si ritira, e se ne cava per quei colpi di mano di polizia che in tempi normali dorrebbero e dolgono sempre agli uomini onesti, perché la franchezza dove essere la dote precipua di un uomo di Stato, ma che nei tempi attuali possono produrre tali sventure da porre in pericolo la libertà e l'unità della patria.

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Signori, voi sapete come venne al potere il ministro Rattazzi. In verità io non so ancora la ragione perché ci venne, giacché non trovo differenza, in quanto al programma, dal suo a quello del suo predecessore. Venne perché un portafoglio è troppo una cara cosa a certi uomini (movimento). La destra, voi lo sapete, non gli è molto amica, ma venne a scindersi. La sinistra si ricordava il ministro del 1857, e non poteva in lui collocare molta fiducia. Gli abbisognava un battesimo. Era a Genova casualmente Garibaldi: lo si la venire a Torino, girare presso tutte le persone autorevoli che dovevano prender parte alla formazione del gabinetto. Col battesimo del generale Garibaldi il ministero si è creduto abbastanza forte.

Il ministero dice: io non feci nessuna promessa. Signori, vi sono tante sorta di promesse: vi sono le promesse che facciamo e le promesse che facciamo fare. È poi ci sono quei tali sottintesi, quelle maniere, colle quali gli uomini cercano d'ispirare una certa fiducia ed una certa confidenza negli ingenui che ci credono.

Quando il generale Garibaldi mi disse: bisogna secondare questo gabinetto, perché ci ha fatto promesse, e ci rende grandi servizi: generale, io gli risposi, v'inganneranno; e lo vedrete coi fatti. - Ma ci abbiamo là egli soggiunse, uno dei nostri amici, il quale sorveglierà, e in ogni modo si ritirerà quando le cose non vadano bene (ilarità). Ma anche questo fu inganno, perché l'amico di cui parlava il generale Garibaldi, e da noi sventuratamente conosciuto in Sicilia durante il 1860, ha le sue debolezze, e non era certo il miglior vigile nel nuovo gabinetto (si ride).

Depretis (ministro dei lavori pubblici). Domando la parola.

Crispi... in guisa che io dissi che da questo gabinetto non avremmo avutose non se disinganni e delusioni.

Dissi alla Camere che doveva usarsi certa prudenza, giacché per entro a codesti intrighi occorrono certi nomi superiori, a cui noi dobbiamo tutta l'adorazione-, ma il signor Rattazzi non dimenticherà forse, e l'avrà conosciuto prima o dopo, questo lo ignoro, non dimenticherà forse della visita fatta al generale Garibaldi il 10 maggio a Trescorre e della replicata promessa.

Il signor Rattazzi che già si credeva abbastanza forte nell'opinione pubblica, e che immaginavasi potersi fare a meno di questi rompicolli, coi quali ei discute e si associa quando c'è a fare società di speranze, e viene poi a gittarli capri emissari all'ira pubblica, quando non sieno più utili - abbandonò personalmente l'affare. E Garibaldi anch'esso naturalmente dovette ritirarsi.

La Camera comprende la mia commozione, la quale, aggiunta alla infermità che mi tormenta, mi toglie quella facilità che è necessaria nel parlarle.

Il ministro Rattazzi giudicò dunque che, arrestando a Sarnico e in altre parti della Lombardia quei giovani, e facendo menar strepito dai giornali per la scoperta di questa cospirazione che metteva in pericolo la sicurezza dello Stato, di poter venire qui alla Camera sicuro di un gran trionfo.

Quindi a prova di sua maggior energia si aggiunsero i casi luttuosi di Broscia, e il rullo dei tamburi nelle strade di Napoli.

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Il ministro Rattazzi si credette abbastanza forte, giacché il colpo bastava a dimostrare al paese che egli sa reprimere le cospirazioni.

lo mi arresterò; e siccome nella grave quistione potrebbero essere compromessi i destini dell'avvenire, io chiedo alla Camera che essa nomini una Commissione d'inchiesta, la quale sia incaricata d'inquirere sui casi del mese scorso, e voglia vedere se in tutto ciò che è avvenuto la colpa è del potere, o degli uomini ch'egli ha voluto far denigrare dalla stampa a lui soggetta.

Se il ministro Rattazzi opporrà una recisa negativa alle rivelazioni un po' concise che io ho fatte, non sarei contrario la Camera si riunisca in comitato segreto ond'io possa rivocare alla stessa nomi, date e fatti precisi.

Rattazzi avrebbe dovuto accettare l'inchiesta se si fosse sentito tranquillo io coscienza. Invece la rifiuto sfidando il deputato Crispi a parlare in pubblico, perché sapea bene che non avrebbe parlato essendo il danno comune. Ma riserviamo a miglior agio le nostre osservazioni. Per ora mettiamo sotto gli occhi del lettore i documenti.

GARIBALDI A PALERMO.

E DEBENEDETTI A PARIGI

(Pubblicatosi 1° luglio 1862).

Mentre il 29 di giugno nella Camera dei Deputati il signor Bixio lodava il governo per non aver mandato Garibaldi a Napoli, e dicea di lui: «È un uomo fatto a suo modo; i nostri ragionamenti non lo convincono; egli crede che l'Italia possa fare la guerra subito, e contro tutti»; un dispaccio telegrafico annunziava che Garibaldi era giunto improvvisamente a Palermo la sera del 28 di giugno, che il 29 parlò al popolo esortandolo alla concordia; che fu invitato a colazione dai Principi reali, che prese parte all'inaugurazione del tiro nazionale, e via dicendo.

La Corrispondenza Franco Italiana ci annunzia che Garibaldi non si fermerà a Palermo avendo intenzione di recarsi in altri luoghi! Se l'arrivo di Garibaldi a Palermo giunse improvviso alla plebe, noi giunse né al governo, né ai rivoluzionari. E fra breve sentiremo l'improvviso arrivo dei garibaldini in qualche parte d'Italia, giacché molti sono partiti da Torino, dopo misteriosi arruolamenti in Milano, in Modena ed altrove.

Nella tornata del 25 di giugno il Deputato De Boni interpellò il ministero su questi arruolamenti «imperocchè, diceva, molti credono che gli arruolamenti si facciano a spese del governo» (Atti Ufficiali. N" 677, pag. 2620). «Si parla, continuava il De Boni, di somme vistose per l'ingaggio. L'uno dice: io sono arrolato pel Messico. Altri: io sono arrolato per Nuova York. Altri sussurrano altre cose». Il De Boni conchiudeva: «Resta nel fondo un imbroglio».

Rattazzi ministro dell'interno, rispondeva essere oltremodo dolente di questi arruolamenti clandestini, non avere alcun mezzo per iscoprirne gli autori, biasimarli e condannarli altamente, e accertava |a Camera «che questi arruolamenti clandestini che si fanno, certo non andranno al compimento» (Atti Uff. l oc. cit.).

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Ora mettete con tutto questo la partenza di Garibaldi per Palermo, e il suo arrivo improvviso, la partenza di Debenedetti per Parigi, improvvisa come l'arrivo di Garibaldi; Bixio deputato Garibaldino, che parla nella Camera in favore dell'alleanza francese, e il 29 di giugno dice che la guerra europea deve inevitabilmente scoppiare; sommate tutto questo, e incomincierete a capire qualche cosa dell'imbroglio.

GARIBALDI A PALERMO

(Pubblicato il 1° luglio 1862).

Arrivato all'improvviso nella città di Palermo, destò in un tratto a movimento un gran numero di persone, che si accalcò nella strada, egli si mostrò e pronunziò presso a poco queste parole: «io vi saluto, popolo di Palermo; noi ci siamo conosciuti nei momenti di pericolo. Se vi ha popolo al mondo che meriti il mio affetto è il popolo di Palermo. Popolo delle grandi iniziative! tu meriti la gratitudine della intera Penisola e l'ammirazione del mondo! Io sono commosso: Sì, questo popolo mi commuove. Vi saluto; io sono con voi, e non lascierò così presto Palermo. Vi saluto, vi saluto». 11 Corriere Siciliano dice che la calca si sparge per la città; e malgrado la pioggia tutti son fuori e gridano ed espandono Quella Piena Infrenabile D'entusiasmo (Corriere 28 giugno, N° 154, Suppl.).

La mattina seguente dal balcone del palazzo del municipio Garibaldi parlò dei nemici d'Italia e del bisogno di concordia fra tutti i partiti liberali. Esortò il popolo a stare in guardia contro i preti che qualificò Preti Del Diavolo». Qui, soggiunse, ve ne sono assai buoni, li ho conosciuti, ma stare in guardia è pur giusto». Nel trasporto della sua passione pronunziò parole niente affatto benevole per Luigi Napoleone, dice il Corriere Siciliano, e secondo un carteggio privato del Diritto avrebbe detto, fra gli applausi della moltitudine, che non la nazione francese, ma il suo Imperatore o nostro nemico. Poi soggiunse: credetelo, due uomini non vi possono ingannare, IO e Vittorio Emanuele. Parlò di Roma e Venezia, che dobbiamo prontamente avere; ed esortò il popolo a rassegnarsi ai sacrifizi che ci costeranno.

Quest'arrivo di Garibaldi, conchiude il Corriere Siciliano, lo crediamo provvidenziale! Quante faccie che impallidiscono! di chi mai intende parlare il citato giornale? Forse di coloro che son fedeli alla causa della giustizia e del Cattolicismo? S'inganna; perché costoro la difendono con ogni calore finché è in loro potere; ma poi vedendosi sopraffatti si abbandonano nelle mani della Provvidenza, ben sapendo che il trionfo dell'empio non è che di un giorno!

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GARIBALDI A PALERMO

E I SECONDI VESPRI SICILIANI

(Pubblicato il 10 luglio 1862).

Garibaldi nel teatro di Palermo, la sera del 1° di luglio esclamava: «Viva il popolo del Vespro Siciliano! L'Italia spera che ne farà un secondo, se ne avrà il bisogno» (Diritto del 7 luglio, N° 186; Unità Italiana del 7 luglio, N° 182). I Vespri Siciliani furono contro i Francesi, e Garibaldi avea parlato il giorno prima del loro imperatore Napoleone III! Ecco, secondo alcuni giornali di Palermo, le parole dette da Garibaldi, la mattina del 30 di giugno, dalla casa comunale.

Secondo il giornale il Dies trae, supplimento al N° 17, Garibaldi «chiama nazione sorella la Francia, il popolo francese amico, capace di sopportare ogni sacrificio per il compimento della quistione italiana. - Volere Napoleone dissolverla, ambirne Io-sfacelo, la servitù; lui tiranno, usurpatore, nemico d'ogni civile libertà. - Pretenderne la sudditanza. - L'occupazione di Roma essere ingiusta, oppressiva, foggiata sull'arbitrio e sulla prepotenza. - Non aver diritto lo straniero alla nostra devozione; l'Italia esser libera e reclamare la sua capitale. Parlando dei preti di Roma, dice che essi circondano il Pontefice per ammazzare la libertà italiana; che sono cupidi, avari, feroci, sanguinari-, che deturpano la stola ed il Vangelo, che costuprano la religione di Cristo, ch'ammazzano ogni onesto consorzio. - Avere eglino seminato la discordia, il veleno nelle provincie napolitane. - Frustrato la nazionalità italiana, avvilita e schiacciata col segno della croce Roma. Fidassero in Dio, nella giustizia della causa. - Siamo forti, uniti, concordi. - Avere avuto buoni sacerdoti a Calatafimi e nei preti della Gancia sacerdoti di Cristo, e del diavolo a Roma e nei concili -).

Il Progresso, supplimento al N° 11, dà il testo del discorso di Garibaldi, trascritto atla lettera per cura di un patriotta che trovavasì vicinissimo all'oratore. Qui pure si parla di Vespri. Leggete:

«Il murattismo condurrebbe al dispotismo, e peggio. Murat sarebbe un proconsole di Bonaparte. Napoleone continua a tenere il cancro in Italia - di Roma, egli ne ha fatto un covile di briganti, che infestano le provincie italiane, lo debbo dirvi questo vero: - Napoleone, autocrata della Francia, non può essere amico nostro. Questo è un disinganno, a cui deve giungere qualche italiano sventuratamente abbagliato. Con Bonaparte non intendete il popolo francese; esso, come noi, ha bisogno di libertà - Oggi, disgraziatamente, è trascinato dal dispotismo; ma esso è fratello nostro - Voi dovete discernere il popolo da chi lo tiranneggia - ovunque i popoli sono fratelli... Parlandovi di concordia nazionale raccomando pure la concordia di famiglia a famiglia, d'individuo a individuo, finché un ultimo soldato straniero calca questa terra; finché, come nei Vespri, essa non ne sia intieramente libera».

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La Mola, Gazzetta Popolare di Sicilia, organo della società garibaldina, nel suo No 185, del 30 di giugno, mette queste parole in bocca di Garibaldi: «Noi abbiamo il cancro in Italia... A Roma! ove il despota di Francia, l'autocrate della Francia, c'impedisce d'andare. E quando parlo di Francia intendo di Napoleone, non del popolo - Il popolo di Francia, come quello di Germania, come qualunque popolo del mondo, è nostro fratello - Il popolo di Francia, calpestalo dal suo autocrate, abbisogna di libertà. Un altro cancro per l'Italia è il Papa, e con lui i preti. Però quando io parlo di preti intendo coloro che stanno a Roma stretti a conciliabolo col Papa... Costoro sono i preti del demonio, non i preti del Cristo. I preti del Cristo sono i nostri bravi Padri della Gancia, i nostri Padri che con noi pugnarono sulle barricate».

L'Unità Politica di Palermo, N° 78 del 30 di giugno, scrive a sua volta: «Garibaldi ha detto, e più volte ripetuto: - Le piaghe dell'Italia sono tre, Napoleone, la consorteria, il Papa. Ci chiamino come vogliono - uomini della rivoluzione - ma dove siamo noi vi è l'ordine; e ne abbiamo dato delle prove; dove sono essi vi è l'anarchia». -

Finalmente, ommettendo altri giornali, citeremo la Forbice, Gazzetta Popolare di Sicilia, N° 181 del 30 di giugno, che fa parlare Garibaldi così: «II Murattismo è per noi la peste, il cholera morbus. Murat non sarebbe per noi che il proconsole di un despota. Murat ci divide (Bene, bravo! A Roma! A Venezia!). Ci rivedremo a Roma, a Venezia. L'autocrata padrone della Francia non è amico nostro, non è amico dell'Italia.

«Quando io vi parlo del padrone della Francia, non vi parlo del popolo francese. Il popolo francese è nostro amico come quello dell'Alemagna (Applausi vivissimi). Noi, popoli liberi, siamo amici di tutti i popoli...

«Terzo malanno è il Papa. 1 preti che fanno corona al Papa in Roma sono sacerdoti del diavolo, mentre qui io ne ho conosciuti molti di buoni, come sono i frati della Gancia e tutti quelli che pugnarono con noi sulle barricate: costoro sono i veri sacerdoti di Cristo».

Non avendo noi una relazione officiale delle parole delle da Garibaldi, vi abbiamo supplito colla moltiplicità delle citazioni. I rivoluzionari hanno tre nemici in Italia, il Papa, Napoleone, i Vescovi. Il Papa dee venire pienamente spogliato; i Vescovi sono sacerdoti del diavolo; Napoleone è un despota, un cancro, una piaga, e l'Italia spera che il popolo siciliano farà un secondo vespro, se ne avrà il bisogno. Per capire il secondo vespro bisogna conoscere la storia del primo, e scriviamola brevemente:

Nell'anno 1282 i Francesi dominavano in Sicilia, che obbediva a re Carlo d'Angiò. «Da nuovi dazi, gabelle, taglie e confische erano al sommo aggravati que' popoli. La superbia de' Francesi ogni dì più cresceva; insopportabile era la loro incontinenza e la violenza fatta alle donne. Di quesli disordini parlano tutti gli scrittori d'allora, ed anche i più parziali della nazione franzese «. (Muratori, Annali d'Italia, tom. VIII, pag. 356. Lucca 1763).

I Siciliani, ben lungi dal considerare a que' dì il Papa come un cancro e una piaga d'Italia, lo tenevano come il padre e il protettore degli oppressi; e più volte ricorsero a lui per rimedio, e ben si leggono negli Annali Ecclesiastici i buoni uffizi che più volte fecero i Romani Pontefici in favore e sollievo

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di essi popoli, con esortare il re Carlo a sgravarli, e a guadagnarsi il loro affetto. (Raynaldus in Ann. Eccles. , e Muratori loc. cit. ) .

Ma re Carlo niun conto faceva di questi ammonimenti, e raddoppiava le tirannie e le estorsioni, sicché i Palermitani, perduta la pazienza. il 30 di marzo 1282, lunedì di Pasqua, mentre suonavano i Vespri presero le armi, insorsero contro i Francesi, e quanti ne trovarono passarono tutti a filo di spada, non perdonando né a donne, né a fanciulli, né alle siciliane incinte di Francesi. E questa insurrezione prese il nome nelle istorie di Vespro Siciliano. Dopo tanto macello i Palermitani alzarono le bandiere della Chiesa Romana, proclamando per loro Sovrano il Papa.

Questa storia dice da sè che cosa intendesse Garibaldi quando il 1° di luglio parlava del secondo Vespro Siciliano. Solo egli dimenticò che il primo Vespro fu susseguito da un omaggio al Pontefice, e il secondo avrebbe di mira la sua totale spogliazione. Napoleone 1Il, che si dà tanto pensiero dei sagrestani dell' Armonia, dovrebbe pensare piuttosto ai Vespri dei garibaldini; e il marchese di Lavalette che si lagna dell'indirizzo dei Vescovi, non dovrebbe dimenticare i discorsi di Garibaldi. Noi non diciamo di più perché le citazioni premesse dicono assai.

Solo ci piace soggiungere un'osservazione della Politica del Popolo, giornale lombardo. Come s'è visto, Garibaldi distinse tra l'autocrata padrone della Francia ed il popolo francese. Napoleone III, il potente tiranno della Francia, non è amico nostro ma il popolo francese è sempre nostro fratello. Or bene la Politica del Popolo, N° 81 dell'8 di luglio, risponde così:

«Non ci si parli del popolo fratello. Il soldato francese ci è battuto in Italia pour la gloire et pour la France, come si è battuto per la gloria e per la Francia nel Cairo e nella Cocincina... Non ci parlate dunque del popolo fratello - senza Napoleone III - l'autocrata, il potente tiranno - l'Italia del 62 sarebbe né più, né meno dell'Italia del 58».

Sicché i Garibaldini l'hanno amara contro Napoleone 1Il, e abbracciano il popolo fratello, laddove i ministeriali se la pigliano col popolo fratello e genuflettono a' piedi dell'Imperatore. E questa è una delle più curiose scene del sanguinoso dramma intitolato: I Francesi in Italia.

IL GRIDO DI GARIBALDI

ROMA O MORTE

(Pubblicato li 29 e 30 luglio 1862).

Il sindaco di Marsala Antonio Sarzana in un gran foglio stampato in quella città dalla tipografia di Filippo De Dia, e portante fa data del 21 di luglio 1862, racconta l'arrivo di Garibaldi a Marsala avvenuto il 19 di luglio, e riferisce i discorsi detti da colui «nelle cui mani gloriose stanno l'autorità e l' Impero di Napoli e Palermo», come asseriva il conte di Cavour nella Camera dei deputati il 2 di ottobre del 1860 (1).

(1) Atti Uff. della Camera. N° 138, pag. 539.

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Importa assai conoscere i fatti e le parole di questo generoso patriota, di questo Imperatore di Napoli e di Palermo nel luglio del 1862.

I fatti. Il sindaco di Marsala ci parla dell'arrivo di Garibaldi il 19 di luglio, e descrive le accoglienze festose che s'ebbe, l'entusiasmo che destò, le acclamazioni che si levarono in ogni angolo «lei la Città. E quantunque Garibaldi abbia rinnegato pubblicamente la religione del Papa, e scritto in favore del protestantesimo, e di tutto ciò che non è Cattolicismo (2), nondimeno il 19 di luglio recavasi nel duomo di Marsala, dove fu cantato il Te Deum, e impartitala benedizione col SS. Sacramento.

Di poi un frate di quelli che stanno coll'ex-frate Passaglia, e sottoscrivono i suoi indirizzi, sali sul pulpito e improvvisa un discorso, ed ognuno può immaginare di qual genere e con quale conclusione. Basti il sapere che, terminata l'arringa, il frate che combatteva Pio IX andò a gettarsi ai piedi di Garibaldi, e questi che chiama ingenerale preti e frati sacerdoti di Satana, lanciossi al collo del predicatore di Marsala, lo abbracciò e baciò come suo carissimo figlio. Fortunatissimo frate!

Uscito di Chiesa Garibaldi dava un giro per Marsala, e per amore del frate che avea predicato alla sua presenza, baciava in volto tutti i preti e tutti i frati in cui s'imbatteva. Anche la politica ha i suoi miracoli strepitosissimi! Urbano Rattazzi venera in Napoli il sangue di S. Gennaro, e offre ricchi presenti al taumaturgo; e Giuseppe Garibaldi in Marsala si fa il segno della croce, adora Gesù in Sacramento, e bacia in volto i preti e i frati, a cui ha giurato ferocissima guerra. Perfino gli empii a suo tempo riconoscono che la pietà è buona a qualche cosa, e che il Clero secolare e regolare può rendere segnalati servigi a chi comanda.

Né qui ebbe termine la divozione di Garibaldi che restato in Marsala nel imitino del 20 di luglio, recossi per prima cosa a visitare la Chiesa di Maria Vergine Immacolata, e volle ascoltare la Santa messa che venne celebrata dal P. Pantaleo. Il quale, com'ebbe finito l'augusto sacrifizio prese a parlare di Roma e di Venezia, e invitò Garibaldi ed il Popolo a proferire davanti all'altare il giuramento di un nuovo programma compendiato nel grido; Roma o morte. E Roma o morie, esclamò Garibaldi; e Roma o morte, ripetè il popolo.

Le parole. Fuori della chiesa Garibaldi spiegò il programma e commentò il giuramento. Il governo di Torino che permette a Garibaldi i suoi discorsi, e non ne impedisce la stampa in Sicilia, ne sequestra la ristampa nel resto d'Italia. Di che noi dobbiamo restringerci ad alcuni tratti del discorso di Garibaldi a Marsala.

«Son passati due anni, diceva, che toccai questa terra coi mille prodi che mi accompagnavano. Voi ci accoglieste festosi e veramente festosi, ederan momenti di pericolo e di vero pericolo. Allora eravam pochi, i nostri nemici molti; perciò eran momenti di gran pericolo, ma voi ci accoglieste festosamente, ed io lo ricordo.

Quest'accoglienza ci fu di augurio, e nessun paese ne potrà togliere la gloria a Marsala. - Noi eravamo pochi, il nemico contava un'armata di 128 mila uomini,

(2) Vedi Armonia 1861, Numeri 83, 112; 120, 251.

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avea una squadra imponente ed era riconosciuto da tutta Europa (1). Ma noi qui ci ritemprammo, e forti nelle nostre aspirazioni sfidammo i tiranni e li sperdemmo; e furono liberi undici milioni di fratelli. - Allora sfidammo, ora sfidiamo. - Da Marsala esordì il generoso grido. di libertà, e questo grido valse a rendere indipendenti 25 milioni d'uomini. - Quello che sin oggi è stato un voto, dovrà essere un fatto. Ora siamo 25 milioni d'uomini, e tutti abbiamo un solo voto, e questo voto ve lo dirò io qual è - Roma e Venezia: sciogliere dal vile servaggio i nostri fratelli. Questo scopo deve ottenersi, perché siam forti ed uniti. L'Italia ha le cento volte domandata la sua Roma con reiterate proteste, con dimostrazioni pacifiche ed inermi; ma le si è risposto con sotterfugi, cabale e menzogne. Oggi le menzogne devon cessare, e poiché non son valsi i pacifici mezzi, che valgano le armi.

«Non è più tempo di soffrire lo straniero sul suolo italiano, ed il servaggio di una parte dei nostri fratelli. Questa vergogna non può l'Italia tollerare. È vergogna per 25 milioni d'Italiani, e questa deve cessare, e cessare fra giorni.

- Sì, Roma è nostra - (voci del popolo: nostra, nostra) O Roma o morte - (o Roma o morte). - Da Marsala sorse il grido di libertà, ed ora sorga il grido

- O Roma o morte - (Sì, o Roma o morte). - E questo grido risuonerà non solo nella Penisola, ma troverà un'eco in tutta Europa, ovunque il nome di libertà non fu profanato. Noi non vogliamo l'altrui, ma vogliamo quel ch'è nostro, sì, il nostro, Roma è nostra - o Roma o morte - (Si, Roma o morte).

«Non mi resta che ringraziarvi, o generosi Marsalesi, e lo faccio con vera emozione, perché conosco i vostri cuori. - Addio, Marsalesi. lo vi saluto, grazie - io vi saluto. Addio. - Vi saluto a nome mio e di tutta la Penisola, addio i, e il grido di a Roma o morte» fu ripetuto furiosamente più volte dal popolo; quel grido divenne pei Marsalesi il nuovo programma, che aggiunsero all'antico a Italia e Vittorio Emanuele» . Il generale ritiravasi; ma era impossibile pel popolo il lasciarlo; nuove acclamazioni, nuovi giuramenti di « Roma o morte» lo chiamarono nuovamente a parlare. «Sì, Roma o morte!! (voci: Roma o morte). Questa è una parola che peserà più sulla bilancia della diplomazia, che le preghiere. Siamo stufi di pregare... Napoleone sappia una volta e per, sempre che Roma e Venezia sono nostre, nostri sono i fratelli di Roma e Venezia.

«Niuno v'inganni con dirvi che dobbiamo gratitudine al... della Francia, la dobbiamo bensì al popolo francese. Sì, il popolo francese è con noi, ed è nostro fratello, però geme... e anela la libertà. Napoleone è un... un... un Egli non fece la guerra del 59 per l'Italia, ma lavorò per se stesso. Noi gli demmo il nostro sangue nella guerra della Crimea, gli pagammo 60 milioni, gli demmo in gola Savoia e Nizza, e voleva altro, lo so io! Egli ha lavorato per ingrandire la sua famiglia, ha pronti un principino per Roma, un signorino per Napoli, e così via via, lo so io!! Egli ci voleva sudditi.

- N... dell'Italia, ha mantenuto il brigantaggio a danno delle provincie di Napoli, con scandalo di Europa, credendo cosi snervare l'unione di 25 milioni d'italiani... Non abbiamo bisogno di preghiere, il popolo francese è con noi.

(1) Garibaldi capisce che i riconoscimenti servono a poco!

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- Napoleone Roma è nostra (nostra, nostra). Sono felice trovarmi oggi con voi, popolo, a cui io sono amico giustamente. Addio».

Raccontati i fatti e riferite le parole tocca a noi esaminare il nuovo programma di Garibaldi intitolato: Roma o morte. Prima di Garibaldi l 'Armonia ha mandato fuori questo grido, e sono tredici anni! Chi conserva la collezione del nostro giornale, pigli il N° 19 del 13 di febbraio 1850, e vi troverà un articolo intitolato Roma o la morte, il quale si chiude colle seguenti parole: «Ci pensino i veri cattolici, e sopratutto i Regnanti, i grandi, i nobili, i proprietari: sono due sole strade da battere. La scelta è tra Roma per l'unità cattolica e la morte pel trionfo delle eresie. Con quella si combatte per la vera libertà, e con queste per la più umiliante servitù». E prima dell'Armonia l'ab. Martinet «gettando uno sguardo sull'avvenire, vi avea letto queste parole: Roma ornarle (1)». Laonde noi siamo ben lungi dal rigettare il programma di Garibaldi. Esso ha un senso verissimo, e mentre egli giurò e fé giurare Roma o morte per dire che gl'Italiani debbono togliere Roma al Papa o morire, noi affermiamo per converso che il gran problema mondiale è oggidì riassunto in questi termini: O Roma pontificale o la morte, e lo sfasciamento dell'universo.

E ci sembra utile di stenderci alquanto sull'esame di questa dolorosa alternativa. La questione romana è questione di vita o di morte per tutti. Pei Principi e pei sudditi, per la società politica e per la religiosa. O Roma cattolica, o la morte dei popoli, che è il dispotismo; o Roma di Pio IX, o la morte de' governi che è la rivoluzione. O Roma pontificale, o la morte della scienza, la morte dell'autorità, la morte della civiltà, della carità, della famiglia. O Roma e il regno di Dio, o la morte e il regno di Satana, o Roma di Pietro che è la verità, o la morte delle intelligenze che è il dubbio, la confusione e lo scetticismo. O Roma cristiana, o il ritorno al paganesimo colle sue tirannie e colle sue barbare istituzioni. O il Papa Re colla libertà cristiana, con quella libertà che è il patrimonio dei figliuoli di Dio, o il predominio della forza brutale, di quella l'orza che lo stesso Garibaldi giorni sono divinizzava dicendo alle deputazioni delle società operaie di Siracusa, di Misilmeri e di Palermo: «persuadetevi, la forza del diritto sta nel diritto della forza».

E tutti sentono il gran dilemma: o Roma o morte. Lo sente la Francia napoleonica, e si sforza di fermare la rivoluzione alle porte di Roma. Lo sente la Russia scismatica, e riconoscendo il regno d'Italia ci ha posto la condizione che non si tocchi Roma. Lo sente la Prussia protestante, e il signor Bernstorff, ministro degli affari esteri, impone al gabinetto di Torino di rispettare la città de' Pontefici. Lo sentono il Guizot, i Leo, i Normanby quantunque fuori della Chiesa, e difendono il Papa colla penna e colla parola. Lo sentono i Vescovi che si stringono concordi intorno al Papa, e i fedeli che accorrono a combattere per lui, e i ricchi che gli fan parte delle loro ricchezze. Lo sentono gli stessi rivoluzionari che non osano andare a Roma, perché sono sicuri di trovarvi la morte.

Adolfo Tbiers, tempo fa, rassomigliava Roma papale ad un cibo, e famigliarmente diceva che quanti ne mangiarono tutti morirono. E insistendo su questo parlar figuralo si possono rivolgere a chi odia il dominio temporale del Papa le parole di Dio ad Adamo:

(1) Solution de grands problèms, Tom. III , pag. 3.

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Quocumque die comederis ex eo morte morieris. Il serpente della rivoluzione pretende smentire la minaccia divina e soggiunge: non morieris, sed vives, ma la storia di dodici secoli protesta concorde contro questa vana lusinga, e scrive in tutte le sue pagine ad ammaestramento de' popoli e de' governi: O rispettate Roma, o morrete.

Noi ci proponiamo di svolgere questi tre punti 1° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte dell'Italia, anche di quell'Italia che venne raffazzonata presentemente; 2° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte dell'impero francese e di tutti i governi d'Europa; 3° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte d'ogni civiltà, d'ogni libertà, d'ogni diritto, e introdurrebbe nel mondo la più feroce barbarie.

II.

Garibaldi disse il vero: Roma o morte. O Roma con Pio IX Pontefice e Re, o morte dell'Italia, morte dei governi, morte della civiltà; o Roma con Pio IX, o l'Italia diverrà un deserto come fin dal 1849 pronunziava il deputato Mellana, l'Europa sarà preda continua delle rivoluzioni, e avremo un'inondazione di barbari mille volte peggiori degli antichi che ascoltavano almeno la voce de' Papi, e davano indietro.

Roma papale o la morte d'Italia. Chi fu il creatore del genio italico? Il Papa, e lo confessò Gioberti. Di chi è opera la civiltà italiana? « È in gran parte opera dei Papi», e lo scrisse il Galeotti, deputato italianissimo. Perché Roma esiste? Pei Papi, e lo proclamò il Muller protestante. Chi fa vivere Roma? Il Papa, e Io scrisse Gibbon incredulo. Togliete il Papa-Re, e distruggerete Roma, distruggerete l'Italia. Ogni gloria di Roma dopo Cristo è congiunta al Papato, e ogni gloria d'Italia nasce dall'aver per centro Roma. Senza il Papa-Re l'Italia è l'ultima delle nazioni, meno forte della Francia, meno industriosa dell'Inghilterra, meno dotta della Germania, meno pia della Spagna. Col Papa-Re Francia, Spagna, Germania, e tutto il mondo s'inchinano davanti all'Italia.

La caduta del Papa-Re sarebbe la morte dell'italica indipendenza, perché il Papato è «il primo e il più imperturbabile difensore della libertà d'Italia v, come disse Cesare Balbo. Sarebbe la morte dell'italiana letteratura, perché e il Cantùe il Denina vi attestano quanto debbano a' Papi le lettere italiane, a'Papi che il deputato Galeotti chiamò custodi dell'antica sapienza. Sarebbe la morte delle belle arti, sempre sostenute, sempre protette da' Papi. Qual è l'artista che non abbia avuto a Roma un'ispirazione, e da un Papa qualche incoraggiamento e sussidio? Sono mille cinquecent'anni, scriveva Chateaubriand, che la Chiesa protegge le scienze e le arti, e il suo zelo non fallì mai in verun tempo.

Noi potremmo su quest'argomento scrivere un volume pieno di fatti e di citazioni; ma non vogliamo far pompa di facile erudizione. Piuttosto ricorderemo agli stessi rivoluzionari, che cospirano contro loro medesimi, quando s'avventano contro Roma papale. Se la nuova Italia sta, è perché non si toccò ancor Roma, e Pio IX siede tuttavia in Vaticano. Se il regnante Pontefice fosse utilitario in politica, se potesse muoversi per ispirilo di vendetta e godere la volontà che l'odio assapora nella rovina de' proprii emuli, egli a quest'ora avrebbe ceduto Roma.

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Così l'Europa vedrebbe il gran vuoto, sentirebbe l'estremo bisogno del Papa-Re, e si saria già mossa a ristorarlo.

Dall'altra parte colla caduta di Roma papale cesserebbe quel comune interesse che lega i rivoluzionari, ed essi, abbandonati alle loro passioni ferocissime, si sbranerebbero a vicenda. Non vedete come s'addentano, quantunque circondati da nemici e in mezzo a pericoli? Che sarebbe, se avessero il Campidoglio da disputarsi? Si accapigliano per comandare a Torino, e che non farebbero per conseguire l'Impero di Roma? senza Roma papale sorgerebbe in Italia la ghigliottina, andrebbero in fumo i patti stretti tra le cento sètte dei ribelli, e avremmo il novantatrè peggiore del primo vaticinato dalla Gazzetta del Popolo.

Dunque, o Roma di Pio IX, o la morte non solo della vera Italia, dell'Italia cattolica, dell'Italia dotta, dell'Italia artistica, dell'Italia dei nostri padri, ma eziandio la morte dell'Italia nuova, dell'Italia dei plebisciti, dell'Italia rivoluzionaria, come si suoi chiamare nel nostro Parlamento; la lotta fratricida tra le diverse città italiane, un duello all'ultimo sangue tra Rattazzi e Garibaldi, tra Durando e Mazzini; e il termine di quella superficiale unanimità che tanto si decanta, e la quale non è che un silenzioso aspettare di tutti i partiti che diffidano del presente, e sperano nell'avvenire.

Roma papale o la morte di ogni governo. Non v'è governo né così antico, nò così legittimo come quello di Pio IX. Se questo cade, qual altro resterà in piedi? Sarà più sicuro l'impero del Bonaparte? Esso e il colosso di Rodi: ha un piede a Torino, un altro a Roma, e si sostiene colla rivoluzione e col cattolicismo. Caduta Roma, Napoleone III perde ogni sembianza cattolica. I suoi popoli lo conoscono, e lo giudicano; e i rivoluzionari gli dicono che se non vollero il Papa, non possono nemmeno soffrire l'imperatore.

Abbiamo noi un deputato che prima di parlar nella Camera e d'insegnare nell'Università di Torino ha scritto parecchi libri, ed uno intitolato: La federazione repubblicana dei popoli. Si è questi Giuseppe Ferrari, il quale sentenziò: «II Cristo, Cesare, il Papa, l'Imperatore, ecco le quattro pietre sepolcrali della libertà italiana». Ed altrove: «L'Europa ha intimato a Roma una guerra di religione, né potremmo avanzare di un passo senza rovesciare la croce» . E la croce sta sul diadema dei Re, onde il Ferrari dice delle rivoluzioni: non sono che guerre contro il Cristo e contro Cesare». E più innanzi: «Chi lavora pei Re, lavora alla restaurazione della Chiesa, alla schiavita dell'Italia (1)». Ecco il vero programma rivoluzionario. Per ora non si bada che ad atterrare il dominio temporale del Papa. Questa è la prima vittima da immolarsi, secondo la frase di Condorcet. Lasciate che cada Roma papale, e tutti gli altri Sovrani cadranno con lei; e primi quelli che sono rivoluzionari a mezzo.

Pio IX è oggidì l'unico propugnacolo dei governi e delle monarchie. Queste ingratamente abbandonano chi le difende, e scioccamente riconoscono chi le ruina e le perseguita. Ma fate che la rivoluzione vada innanzi, che consumi l'opera sua, che atterri Roma papale, e allora tolto il fondamento, vedrete crollare tutto l'edifizio europeo, e avverarsi la sentenza di Garibaldi, Roma o morte.

Pensino i Sovrani che ogni suddito che sfugge al Papa diventa, perciò solo,

(1) La federazioni ecc. cap. II, cap. XII, cap.I.

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verno di Torino ad una questione di opportunità. Garibaldi ha torto, perché il momento non è opportuno. Se domani si potrà spogliare il Papa impunemente, allora Garibaldi avrà ragione, e le sue impazienze diventerebbero eroiche, quando riuscissero a buon termine come la spedizione della Sicilia nel maggio del 1860.

I Garibaldini si offesero dell'aggiunto di colpevoli apposto alle impazienze dell'eroe, li Diritto ne mosse aspra lagnanza, e la Discussione non tardò ad apporre un errata-corrige al proclama, dichiarando che le impazienze erano invece generose. E dal giornalismo la questione passò alla Camera elettiva, e il 6 di agosto il deputato Saffi tolse a difendere le impazienze colle seguenti parole:

«Nazione ed esercito intendono allo stesso fine: vogliono che il diritto italiano non rimanga una vana parola, ma diventi una realtà; vogliono compiere l'ordine delle cose iniziato con tanti sacrifici, compierlo col suggello dell'unità di Roma

«Se vi hanno impazienze, proteste, moti sempre più concitati nel paese contro l'intervento straniero, contro l'indegno arbitrio che ci contende la nostra capitale, che ci espone all'anarchia, che c'impedisce ogni interno ordinamento, e che offende tutti i principii, tutte le necessità della nostra vita civile e politica; se vi hanno proteste contro questo fatto barbaro, impossibile ormai nella civiltà del secolo decimonono-queste proteste, queste impazienze non sono colpevoli, sono generose (Benissimo). Dirò di più: esse sono un dovere; e provano che il popolo italiano vive ed è degno di vivere (Bene); provano che il popolo italiano non si rassegna codardamente alla ingiustizia ed alla vergogna (Benissimo).

A queste impazienze, a queste proteste, voi, o signori ministri -lo dico con profondo convincimento non potete resistere.

Ogni opposizione sarebbe vana, contraria alla natura delle cose. Una forza, maggiore d'ogni resistenza, vi trascina; una forza ineluttabile trascina voi come noi; la forza morale dell'opinione, la forza della vita, contro la quale il lottare è follia. Questa forza immortale, repressa oggi, risorgerebbe più potente domani.

«Voi potete avvantaggiarvi degl'impeti magnanimi della nazione; voi potete farne virtù ed arme a vincere la gran causa contro l'arbitrio straniero.

«Questo grande sollevamento dell'antica natura italiana in nome dei principii che informano la nostra causa e il nostro diritto, è il più potente argomento di cui possiate valervi contro quelle ingerenze straniere che vietano a noi ed a voi di compiere i destini del paese. Proclamate all'Europa la suprema urgenza, che la volontà dell'Italia s'adempia; ed accingetevi all'opra. Questo è il vostro dovere; questo è il dovere di un governo veramente nazionale. Saprete voi compierlo? Badate che, nel vostro interesse come nel nostro, non v'è tempo da perdere. Non v'illudete; l'unità d'Italia in Roma è la legge dei tempi, è l'opera impreteribile della nostra giornata. Giornata solenne per l'Italia e pel mondo! giornata che consacra lo scioglimento di uno dei più grandi problemi dell'umanità: il problema della libertà civile, della libertà religiosa, della libertà politica delle genti».

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ABBOCCAMENTO

TRA GARIBALDI E MAZZINI

(Pubblicato il 13 e 14 agosto 1862)

I.

Mentre Napoleone 111 si adoperava per avere un abboccamento col Re di Prussia, e per chiamare a Parigi l'Imperatore delle Russie, due altre persone si vedevano, si parlavano, si accordavano. Erano Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, che il 6 di agosto, avevano fra loro una conferenza a Mistretta, come ci annunzia un nuovo giornale francese intitolato la Franco, giornale diretto dal visconte di La Gueronniere, e in diretta relazione colla polizia imperiale.

La notizia di quest'abboccamento tra Mazzini e Garibaldi ci venne annunziata dal telegrafo, ma se per altri potè essere una novità, noi fu certo per noi, che conosciamo da buona pezza l'amicizia e gli accordi tra il demagogo genovese e il nizzardo. E non li conosciamo mica pei ragguagli delle polizie, o per agenti segreti che ci servano. Noi sdegniamo mezzi siffatti, e la polizia nostra si riduce ai libri, ai giornali] ai documenti rivoluzionari, dove è pur tanto da imparare, e sol ci duole che il bisogno di scrivere quasi sempre, ci tolga il tempo necessario per leggere.

Tra i libri utilissimi a chi vuoi conoscere il passato, il presente, e indovinar l'avvenire del nuovo regno d'Italia sono gli scritti editi ed inediti di Giuseppe Mastini, de' quali sta pubblicandosi oggidì in Milano un'edizione diretta dall'autore. L'editore è G. Durili, che dedicò gli scritti mazziniani a Giuseppe Garibaldi con una lettera sotto la data di Milano 22 marzo 1861, dove dice all 'onorevole signor generale: «Ho ottenuto dal signor Mazzini la proprietà dei suoi scritti letterari e politici, e sto per intraprenderne un'edizione completa, la quale io vi offerisco e dedico (notale bene le due ragioni!) perché mi pare che vi appartenga e per l'antica amicizia, che vi lega all'autore, e per aver voi dato al mondo il più felice commento pratico de' suoi principii» . Garibaldi rispondeva da Caprera il 3 giugno 1861 d'accettare con gratitudine la dedica degli scritti del Mazzini e di tenersene onorato.

Fermiamoci un po' sulle due ragioni addotte dall'editore: ]'antica amicizia tra Garibaldi e Mazzini, e il pratico commento recato dal primo ai principii del secondo; e procuriamo di ricompensare con qualche nuovo ragguaglio la notizia dataci dalla France de La Gueronnière sull'abboccamento di Mistretta.

Sapete da quando data l'amicizia tra Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini? Data dal 1833. Il Garibaldi non avea tardato ad inscriversi nella società segreta creata dal Mazzini col titolo di Giovine Italia, e siccome tutti gli adepti avevano un nome particolare, un nome di guerra, così Garibaldi aveva preso quello di BOREI. Ne' documenti di que' giorni, dove trovate Borei leggete Garibaldi. Questo è positivo, giacché ci viene rivelato da Mazzini medesimo in una nota al terzo volume de' suoi scritti (Milano, 1862, pag. 334).

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Garibaldi nell'ascriversi alla Giovine Italia ha prestato un solenne giuramento davanti l'Iniziatore, e la formola di questo giuramento ci vien riferita da Giuseppe Mazzini nel primo volume de' suoi scritti, pag. 117, 118 e 119 (Milano, 1861). Eccola:

Giuramento di Garibaldi iniziato nella Giovine Italia.

«Nel nome di Dio e dell'Italia,

«Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica,

«Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m'ha posto, e ai fratelli elio Dio m'ha dati - per l'amore, innato in ogni uomo, ai luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli - per l'odio innato in ogni uomo, al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio - pel rossore ch'io sento in faccia ai cittadini delle altre nazioni, del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria- pel fremito dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell'isolamento della servitù - per la memoria dell'antica potenza-perla coscienza della presente abbiezione- per le lagrime delle madri italiane, pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio - per la miseria dei milioni:

«Io Giuseppe Garibaldi

«Credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che ogni uomo nato italiano ha di contribuire al suo adempimento;

«Convinto che dove Dio ha voluto fosse nazione, esistono le forze necessarie a crearla - che il popolo è depositario di quelle forze, - che nel dirigerle pel popolo e col popolo sta il segreto della vittoria;

«Convinto che la virtù sta nell'azione e nel sacrificio - che la potenza sta nell'unione e nella costanza della volontà;

«Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti nella stessa fede, e giuro:

«Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l'Italia in nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

«Di promuovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d'azione, l'educazione de' miei fratelli italiani all'intento della Giovine Italia, all'associazione che sola può conquistarla, alla virtù che sola può rendere la conquista durevole;

«Di non appartenere, da questo giorno in poi, ed altre associazioni;abboccamento

«Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l'unione de' miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati i segreti;

«Di soccorrere coll'opera e col consiglio a' miei fratelli nell'associazione,

«Ora E Sempre.

«Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abbominio degli uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in lutto o in parte il mio giuramento».

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Mazzini scrive; «lo giurai primo, quello Statuto. Molti lo giurarono con me allora, e poi, i quali sono oggi cortigiani, faccendieri di consorterie moderate, servi tremanti della politica di Bonaparte e calunniatori e persecutori dei loro antichi fratelli, lo li disprezzo Essi possono abbonirmi, come chi ricorda loro la fede giurata e tradita; ma non possono citare un sol fatto a provare ch'io abbia mai falsato quel giuramento. Oggi come allora io credo nella santità e nell'avvenire di quei principii: vissi, vivo e morrò repubblicano, testimoniando sino all'ultimo per la mia fede».

E lo stesso Mazzini, nel volume III de' suoi scritti, pag. 313 e seguenti, ci dà il nome di coloro che dopo di lui prestarono il giuramento medesimo. E lo prestarono Domenico Guerrazzi, che poi giurò lo Statuto, e Pietro Bastogi. che poi fu ministro di Vittorio Emanuele II, e Carlo Matteucci, oggi senatore e ministro, e Carlo Luigi Farini, cavaliere della Santissima Annunziata e cugino del Re, già vociferatore di stragi, ne' convegni de' popolani bolognesi; e Carlo Poerio, deputato, e Lorenzo Pareto, senatore, e Depretis, ministro, e Carlo Fenzi, e Cempini, Franchini, Maffei. Bellelli, Gallenga, Melegari, Massari, Ranco, Massimo Marnino, tutti deputati che, come avevano giurato entrando nella Giovine Italia, Ora E Sempre l'Italia una, indipendente, libera, repubblicana, così entrando nella Camera e nel Senato giurarono l'Italia monarchica e fedeltà al re Vittorio Emanuele II.

Ma parliamo di Giuseppe Garibaldi. Abbiamo detto che la sua amicizia col Mazzini datava dal 1833. Come si conobbero? dove? Si conobbero in Genova, in occasione d'una congiura. Sul finire del trentatré prepararono un movimento insurrezionale nella capitale della Liguria, che fallì, dice Mazzini «per l'inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parto di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga» (Scritti editi ed inediti, ecc. Milano 1862, vol. III, pag. 334). Chi avesse detto a Garibaldi quando allora fuggiva: - Tu ritornerai fra non molti anni, e in Torino, sotto gli occhi del figlio di Carlo Alberto, il Diritto del 12 agosto 1862, N. 212, stamperà di te che sei un datar di corone! -

Garibaldi tornò negli Stati Sardi nel 1848, e combatté prima per Carlo Alberto, e poi fu combattuto dal duca di Genova. Visse quindi vita privata finché il conte Camillo di Cavour chiamavalo nel 1859, come chiamava Napoleone III perché l'aiutassero a fare l'Italia. E Garibaldi aiutò prima in Lombardia, poi in Sicilia, poi a Napoli, e die' al mondo il commento pratico dei principii del Mazzini, seconda ragione che induceva l'editore Daelli a dedicargli le opere dell'agitatore. E noi chiediamo licenza ai nostri lettori di fermarci alquanto sa questo proposito, e dimostrare con documenti che la nuova Italia non è altro che il pratico commento delle dottrine mazziniane, commento che si avvicina alla sua conclusione, la Repubblica.

II.

Garibaldi non fe' altro che apporre un commento pratico agli scritti del Mazzini. Fedele al giuramento prestato alla Giovine Italia la servì, e fu servito dai ministri del Piemonte e dall'Imperatore dei Francesi. Tutto ciò che avviene nella Penisola dal 1859 in qua, non è altro che l'esecuzione precisa delle idee stampate da Mazzini.

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Apriamo di fatto il giornale la Giovine Italia che Mazzini pubblicava nel 1832, e vi troveremo gli stessi concetti che più tardi figurarono in tanti proclami regii ed imperiali. Una volta era difficilissimo avere copie di questo giornale, ma ora si ristampa in Milano.

Nel 1830 Mazzini trova vasi carcerato nel forte di Savona, e là ideava la Giovine Italia, dandole per capitale la Roma del popolo italico! Simbolo dell'Associazione era un ramoscello di cipresso, vaticinio forse delle rovine e delle fucilazioni avvenire.

Nel 1833 pubblicava l'Istruzione generale per gli affratellati, la quale incominciava dal definirei limiti della nuova Italia. «L'Italia comprende: 1° L'Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore dell'Alpi al nord, le bocche del Varo all'ovest e Trieste all'est; 2° Le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi e destinate ad entrare, con un'organizzazione amministrativa speciale, nell'unità politica italiana» (Serici, ecc. Milano, 1861. Voi. 1, pag. 108).

Sventola oggidì sulle nostre torri la bandiera tricolore; e Mazzini diceva, nel 1831: «I colori della giovine Italia sono il bianco, il rosso, il verde» . Si combatte tra noi la federazione italiana; e Mazzini la combatteva fin dal 1832. Si vuole oggidì assolutamente l'Italia una, e Mazzini già da trentanni grida: «La Giovine Italia è unitaria, perché senza unità non vi è veramente nazione, perché senza unità non vi è forza». Si studia ogni mezzo per avere Roma, e Mazzini ci studia da lustri, e fin dal 1832 scriveva agli Alemanni ed ai liberali francesi: «Da Roma solo può muovere per la terza volta la parola dell'unità moderna, perché da Roma sola può partire la distruzione assoluta dell'unità antica». Si vuoi distruggere il dominio temporale dei Papi, e Mazzini l'ha voluto sempre. Insomma, in tutto e per tutto il programma di Mazzini fu effettuato; benedetta la rivoluzione, rinnegato il diritto antico, divinizzato il popolo. In una parte sola non fu ancora eseguito il programma del Mazzini, nel rendere l'Italia repubblicana.

E non è Giuseppe Mazzini che nel 1831 scriveva a Carlo Alberto di Savoia una lettera famosa, che noi veggiamo oggidì pienamente compiuta? «Ponetevi alla testa, dicea Mazzini a Carlo Alberto, della nazione, e scrivete sulla vostra bandiera: Unione, Libertà, Indipendenza! Proclamate la santità del pensiero! Dichiaratevi vindice, interprete de' diritti popolari, rigeneratore di tutta l'Italia! Liberate l'Italia dai barbari! Edificate l'avvenire! Date il vostro nome ad un secolo! Incominciate un'era da voi! Siate il Napoleone della libertà italiana! L'umanità tutta intera ha pronunziato i Re non mi appartengono; la storia ha consacrato questa sentenza coi fatti. Date una mentita alla storia e all'umanità; costringetela a scrivere sotto i nomi di Washington e di Kosciusko, nati cittadini; v'è un nome più grande di questi; vi fu un trono eretto da venti milioni di uomini liberi che scrissero sulla base: A Carlo Alberto nato re l'Italia rinata per lui!»

Ciò che non avvenne sotto Carlo Alberto, lo veggiamo avvenuto oggidì. La santità del pensiero è proclamata, i diritti popolari sono interpretati, la nuora era è incominciata, l'Italia è rinata. Ma i rivoluzionari non sono contenti, o almeno sono contenti quelli soltanto che pescano nel mare del bilancio. Mazzini e Garibaldi ricordano il loro giuramento di repubblicaneggiare la Penisola!

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«La Giovine Italia, dicea Mazzini nell 'Istruzione per gli affratellati pubblicata nel 1831, è repubblicana ed unitaria. Repubblicana, perché teoricamente tutti gli uomini d'una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell'umanità, ad esser liberi, eguali e fratelli; e l'istituzione repubblicana è la sola che assicuri quest'avvenire, - perché la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua della legge morale e suprema, - perché, dovunque il privilegio è costituito a sommo dell'edificio sociale, vizia l'eguaglianza dei cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà del paese, - perché dovunque la sovranità è riconosciuta esistente in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni, la lotta riesce inevitabile tra questi poteri, e all'armonia, che è legge di vita alla società, sottentra necessariamente la diffidenza e l'ostilità organizzata - perché l'elemento monarchico, non potendo mantenersi a fronte dell'elemento popolare, trascina la necessità d'un elemento intermediario d'aristocrazia, sorgente d'ineguaglianza e di corruzione all'intera nazione - perché, dalla natura delle cose e dalla storia è provato, che la monarchia elettiva tende a generar l'anarchia, la monarchia ereditaria a generare il dispotismo - perché dove la monarchia non si appoggia, come nel medio-evo, sulla credenza, oggi distrutta, del diritto divino, riesce vincolo mal fermo d'unità e d'autorità nello Stato - perché la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente la società allo stabilimento del principio repubblicano, e l'inaugurazione del principio monarchico in Italia trascinerebbe la necessità d'un'altra rivoluzione tra non molti anni» (Loc. cit. , voi. i, pag. HO).

E questo è il compimento del disegno mazziniano, a cui si lavora presentemente, e Mazzini e Garibaldi ci lavorano insieme, e ci lavora anche il ministero di Torino co' suoi errori. Notate bene i principii enunziati dal Mazzini per dimostrare che l'Italia dee essere repubblicana: sono principii già ammessi anche dai pretesi difensori della Monarchia, sono principii che oggidì si cerca di chiarire coi fatti, in attesa del tempo opportuno per tradurli in pratica. L'opportunità si aspetta dal nostro governo per ispodestare il Papa, ma anche l'opportunità si aspetta, e si cerca per ispodestare il Re. Hanno distrutto il diritto divino per dimostrare che la Monarchia «riesce vincolo mal fermo d'unità e d'autorità nello Stato».

Tutti veggono che noi c'incamminiamo a gran passi alla repubblica, e su questa trova ancora qualche ostacolo, sapete perché? Perché in Roma comanda ancora Pio IX. Fate che questi abbandoni l'Eterna Città, e v'entri la rivoluzione, e allora le due parti del programma mazziniano avranno il loro compimento. L'Italia sarà non solo unitaria, ma anche repubblicana. E ciò è nell'ordine logico dei fatti, giacché non può comprendersi un'Italia monarchica dopo i mezzi e le dottrine che si adoperarono per renderla unitaria. Quelle dottrine e quei mezzi conducono direttamente alla repubblica.

E per la repubblica abbiam detto lavorano concordi Mazzini e Garibaldi. La France del signor Lagueronière ha aspettato un po' tardi ad informarci che il 6 agosto Garibaldi e Mazzini s'erano abboccati a Mistretta. Essi eransi visti ed accordati molto tempo innanzi. Già abbiamo detto come s'intendessero e cospirassero insieme fin dal 1833, ma qui vuoisi aggiungere che nel giugno passato s'intesero in Lombardia.

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Quando Garibaldi viaggiava trionfante per le terre lombarde, quando Rattazzi ordinava ai prefetti d'accogliere l'eroe con ogni dimostrazione d'onore, ebbene allora Garibaldi e Mazzini si visitavano, si parlavano, e combinavano insieme la presente impresa della Sicilia. E ne abbiamo il documento in una circolare sottoscritta da Giuseppe Mazzini datata da Berna, 23 luglio 1862-, controsegnata per copia conforme, Maurizio Quadrio.

In questa circolare Mazzini informa i suoi amici della prossima impresa di Garibaldi, e vuole da loro la somma di trecentomila lire. «Per quanto, dice Mazzini, un uomo sia grande e potente, non può far tutto, non può sostituirsi al paese. Per quanto sia capace non può compire le missioni le più diverse. Garibaldi può vincere dove altri cadrebbe, può mutare una piccola impresa in una grande, può far molto dal poco, ma non può creare dal nulla. 1 materiali per l'impresa devono esser raccolti dagl'Italiani, poi affidati per l'azione a Garibaldi. L'impresa nazionale ha due parti che non possono confondersi senza danno: l'organizzazione preparativa e l'azione; queste duo parti devono affidarsi a due centri, a due uomini diversi. Garibaldi, noto, temuto, invigilato come è, non può occuparsi dei preparativi che devono esser condoni nel segreto e da uomini non noti e sospetti. Egli dev'essere chiamato ad assumere il comando dell'impresa preparata che sia: io credo poter assumere la parte preparatoria. Se gl'Italiani vogliasi dell'azione lo credono, s'accentrino a me, se noi credono, cerchino altri, ma non s'ostinino a voler confondere le due parti. A quei che accetterebbero d'affidarmi la parte organizzatrice, non ho bisogno di dire che è necessario un fondo d'azione, questo fondo dev'essere almeno di L. 300, 000. Questo fondo non può sperarsi dai versamenti che sono fatti al Comitato dell'Associazione Emancipatrice. L'Associazione non può vivere senza spese, spese di apostolato, di corrispondenze, di stampa, ecc. I fondi che entrano a poco a poco nella sua cassa devono a poco esaurirsi. E dunque necessario che il fondo per l'azione sia raccolto a parte e nel più breve tempo possibile - versate in mie mani».

E non sappiamo se le trecentomila lire sieno state versate nelle mani di Mazzini, ma questo sappiamo e veggiamo che Garibaldi è in Sicilia, e vi compie l'opera sua; opera che in pari tempo Urbano Rattazzi e Giacomo Durando cercano di compiere diplomaticamente, scrivendo note per ottenere la completa esautorazione del S. Padre. Rattazzi, Garibaldi e Mazzini non sono che tre divisioni del grande esercito della rivoluzione. Tutti tre. vanno d'accordo contro Roma, e voler Roma è voler la Repubblica. E questo ha confessato lo stesso Terenzio Mamiani quando nel 1849 disse all'Assemblea Costituente: «Signori, siamo schietti e fuggiamo le sottigliezze e gli equivoci. In Roma non v'ha alcuna via di mezzo; in Roma non possono regnare che i Papi o Cola da Rienzo. Siamo dunque franchi e sinceri. Dichiarare la decadenza dei Papi vuoi dire stabilire in Roma il governo repubblicano» (Atti dell'Assemblea Costituente, Romana seduta 3, pag. 12, col. 1°).

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MINACCIE DI GARIBALDI A NAPOLEONE III

(Pubblicato il 15 agosto 1861).

Garibaldi il 6 di agosto recitò un discorso a Rocca Palumba, che la Discussione ci die' assai travisato. Eccone il testo preciso, quale ci vien recato dai giornali siciliani:

«lo mi consolo di questo entusiasmo, giacché quando ben si comincia, ben si finisce. Sì, Roma o morte, noi manterremo la parola - (Poi rivolto a molte donne che gridavano a Roma) - Si, a Roma, anche a voi spetta una parte nella rivendicazione dell'indipendenza nazionale - Voi - invece di piangere, invece d'impedire ai vostri di prender parte al riscatto nazionale, dovete, come le donne spartane, spingerli al campo, e se renitenti scacciarli, perché altrimenti invece di far figli voi farete cavoli. - Meglio morii che schiavi. - Lo rammentate 1849: per mancanza di braccia il Borbone vi rimase a Messina ed ebbe agio di tornare allo stato primiero. - Al 1860 però noi per abbrancare la belva andammo sino alla tana, quantunque quel di Napoleone ce lo voleva impedire, e se non fosse stato per l'Inghilterra e qualche altra potenza amica, il Borbone avrebbe transatto con il governo di Torino, e si sarebbero rinnovati i fatti del 1849. - Non contento poi di aver arrestato i miei passi alla Cattolica, mi s'impedì di proseguire la marcia sul Volturno, ed oggi quell'uomo cerca d'impedirci di andare a Roma, l'aspirazione dell'intera nazione. - Ma noi vi andremo, giacché abbiamo una solidarietà con tutti i popoli oppressi - ed il popolo francese che è nostro fratello, è sotto il giogo della tirannia di quel...

- Ma gliela serviremo noi la messa!»

FUOCO CONTRO GARIBALDI

(Pubblicato il 17 agosto 1862).

Egli pare che il ministero abbia proprio deciso di far fuoco contro Garibaldi.

Gel dice il Diritto del 16 di agosto: «Si assicura che gli ordini... per la Sicilia sono partiti». E cel confermala Monarchici Nazionale dello stesso giorno 16, Num. 224. Leggete come ragiona bene quest'ultimo giornale:

«Si è parlato di messaggeri spediti al generale Garibaldi e di trattative con lui avviate sulle basi di alcune proposte. Appena occorre dire che queste voci sparse ad arte da partiti ostili al governo sono destituite d'ogni fondamento.

«La condizione rispettiva del generale Garibaldi e del governo italiano è chiara e netta. Il generale Garibaldi usurpando le prerogative della Corona e del Parlamento, ha raccolto intorno a sè armi ed armati per tentare una spedizione, che porrebbe a cimento le sorti dell'intera nazione.

«Il Re col proclama del 3 agosto ha richiamato Garibaldi e i suoi seguaci all'osservanza dello Statuto, avvertendoli che altrimenti la risponsabilità delle conseguenze e il rigore delle leggi cadrebbero su di loro. Ciò posto, al generale Garibaldi non rimanevano che due vie: o piegare il capo alla voce del Re, o resistere ad essa.

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«II governo non aveva che un partito a prendere: eseguire puramente e semplicemente il proclama del Re. Il generale Garibaldi non ha ottemperato agli ordini del Re e alle deliberazioni del Parlamento. Laonde il governo ha preso tutti i provvedimenti necessarii per costringere Garibaldi e i volontari al rispetto della legge, disperdendoli, occorrendo, con la forza.

«Ecco tutto; all'infuori di ciò non v'ha più verità. Il governo non poteva e non doveva far che questo. Il governo non aveva proposte a fare, né patti a proporre, né accomodamenti a negoziare. Non si patteggia sul rispetto della legge; con chi si rivolta alla legge, qualunque siano le sue intenzioni, non v'ha che una severa ammonizione, e poscia l'uso della forza.

E procedendo innanzi su questo metro, la Monarchia Nazionale viene a questa conclusione: «Se le nostre informazioni non errano, la soluzione della crisi è assai vicina. L'intimazione ai volontari di cedere all'autorità legittima sotto pena di vedersi dispersi con la forza è imminente, se già non èstata l'atta».

Tutto bene codesto. Ma chi ha dato tanta forza a Garibaldi? Non è Rattazzi che ne ha invocato il patrocinio? Non è Rattazzi che per far piacere a Garibaldi ha mandato il marchese Pallavicino prefetto a Palermo? Non è Rattazzi che ha dato ordine alle autorità lombarde di ricevere Garibaldi cogli onori reali? Se Garibaldi è forte, chi gli diè questa l'orza? Non è quel governo stesso che lo combatte? Ah I. vi educaste la serpe in seno, ed oggi vi lagnate perché vi morde, e volete schiacciarle la testa? Potrebbe darsi che più non foste in tempo. Principi e governi, che vi servite della rivoluzione, pensate quanto costino cari i suoi servigi!

ARRINGA DI GARIBALDI A MARIANOPOLI

(Pubblicato il 20 agosto 1862).

Togliamo dal Precursore di Palermo del 15 agosto l'arringa con cui Garibaldi accolse a Marianopoli gli uffìziali della guardia nazionale di Santa Caterina. Fra le altre cose è degno di attenzione ciò che Garibaldi dice contro l'esercito chiamandolo verme roditore della proprietà dello Stato, e spauracchio delle, libere istituzioni. Ecco le sue parole:

«La concordia, ei disse, fa la forza dei popoli: badate a che condussero l'Italia le gare municipali de' tempi di mezzo, come l'Italia riesci vittoriosa quando i suoi figli rinsaviti si strinsero in un sol patto! La Spagna anche ne ammaestra sulle funeste sorti che preparano ai popoli le insanie civili. Però concordia e fratellanza. E questa non solo fra noi Italiani, ma altresì di noi Italiani cogli altri popoli dell'universo. Quando questa fratellanza veramente esistesse, a me poco peserebbe sull'anima che la mia Nizza fosse da questa o da quella parte, mentre le nazioni non sarebbero che le membra di una sola umana famiglia.

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Concordia però non vuoi dire, non esige il piegare a codardi consigli, l'accettare, per paura di lotta, una indegna obbedienza. Così si arriva al servaggio, non alla fratellanza dei popoli, e tale è la via per cui il servidorame di Rattazzi e la costui malignità spinge la rappresentanza nazionale e vorrebbe cacciare la tradita Italia. Ma indarno sono gli empii propositi, gli Italiani hanno capito che questa volta è tempo di farla finita... che senza Roma Italia non è, che senza Roma non mai avremo pace, sicurezza, libertà interna, considerazione al di fuori. E la faranno finita. Avutasi Roma dagli Italiani e ogni serva provincia, chiamate le nazioni tutte a libertà ed a fratellanza si scioglieranno pure gli eserciti stanziali, questi vermi roditori della proprietà dello Stalo, questi spauracchi delle libere istituzioni; mentre, senza guerre all'estero, cessa la necessità ed ogni utile loro, poiché l'ordine e la tranquillità interna devono unicamente salvaguardarsi dalle milizie cittadine».

DUE DISCORSI DI GARIBALDI

CONTRO IL PAPA

(Pubblicalo il 29 agosto 1862).

Riceviamo il Precursore colla data del 21, esso ci arreca due discorsi di Garibaldi, pronunziato l'uno a Caltanissetta e l'altro a Pietraperzia in chiesa. Essi, e principalmente il secondo, sono ripieni di tali sacrileghe espressioni, che fanno rabbrividire. Ne togliamo un brano del primo pronunziato dal balcone della casa della Società Unitaria di Caltanissetta. Dopo salutata la popolazione: «Noi vogliamo, disse, noi vogliamo il nostro, nient'altro che il nostro. E Roma o morie è l'espressione del nostro fermo volere, che faremo compiuto ad onta dello straniero che lo contrasta, che tuttor tiene in catene i nostri fratelli. Vogliamo il nostro, e nostra o Roma; e lo sa colui che ce la contende, colui che empiamente la vuole per sé. Sono due anni che promettono dare Roma, che ci pascono di vane speranze... Ma poiché la diplomazia persiste nella sua ostinazione, e le preghiere non giovano ed avviliscono un popolo qual è l'italiano, è tempo, è necessità che si ricorra al ferro... E col ferro la diplomazia diventerà liscia e pieghevole... E col ferro otterremo Roma, col ferro... Essa a noi si appartiene! È la capitale dataci da Dio, nessuno ce la può torre. L'Italia senza Roma è un corpo senza cuore, è un corpo scemo del capo.

«Son sicuro che questo popolo sarà costante nel suo principio di nazionalità. Però non vi lasciate ingannare da coloro che hanno interesse di sfalsarlo. Tra costoro sonovi i preti e precisamente il gran Prete di Roma e i suoi Cardinali, ni ninni di superstizione e dei governi tirannici» .

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A Pietraperzia poi dopo il P. Pantaleo, innalzava egli pure nella chiesa la sua voce e pronunziò un discorso, di cui non crediamo bene che riprodurrte alcuni brani. «Quando io dissi, parlò egli con voce vibrata, che questo è il popolo dalle grandi iniziative, io non dissi che il vero. Un tal vanto nessuno lo può negare al popolo di Sicilia... L'Italia lo vedrà, e già lo vede, iniziare anche questa volta un movimento destinato a compiere l'unità della nazione» Ecco là, soggiunse dopo breve pausa, affissando ed additando il crocifisso. Ecco là il nostro precursore, Cristo, il primo maestro di vera libertà allo genti. Il suo martirio fu immensamente fecondo sopra la terra... fu desso che in modo miracoloso operò il riscatto dell'umanità...

«I falsi leviti osarono fare della religione di Cristo un infame strumento di basse e condannate passioni. Essi pervertirono il senso della divina missione, essi hanno travolto a mondani interessi le massime eterne, sulle quali il Cristo incardinava la sua religione di amore.

«Però essi che hanno rivolto al male gli stromenti, poi quali si opera il bene, essi non sono i ministri del Cristo, ma noi piuttosto, noi che predichiamo la vera sua dottrina colle parole e coi fatti, noi che affrontiamo volentieri il martirio, perché gli uomini sieno effettivamente liberi ed eguali, come egli li volle, noi che abbiamo gli stessi principii, noi che teniamo scolpite nel cuore le massime del Cristo.

«A lui però bastava bandirli colla sola, ma potente sua parola. A noi, per assicurarne il trionfo, non basta la sola predicazione, ma è necessario appoggiarla, avvalorarla con questo (e qui prendeva tra mani la sciabola d'un uffiziale della guardia nazionale) sì, col ferro appoggiare ed avvalorare la nostra parola.

«Col ferro noi sapremo ritogliere Roma alle infami de' preti e del forestiero occupatore; col ferro sapremo restituirla all'Italia ed all'umanità, cui è destinata a giovar tanto; col ferro sapremo ricollocarla in quel grado di grandezza e di splendore, al quale fu predestinata da Dio; sapremo infine ritornarla alla purezza della religione cristiana. L'Italia è figlia primogenita dell'umanità, quindi i suoi destini, e i suoi nemici sono i destini, sono i nemici di questa, quindi la nostra opera è bene accetta a tutte le nazioni. Forti del costoro appoggio, a noi tarda compiere il nostro dovere. L'umanità tien fissi gli occhi sopra di noi; ma ci vedrà vincere anche una volta in nome de' santi principii proclamati dal Cristo. Sì, vinceremo, che la vittoria è fedele ai forti, che incedono in nome della giustizia. Vinceremo, né questa volta sia chi ci possa arrestare nò al Volturno, né altrove! A niuno è possibile contrastare la marcia gloriosa ed irresistibile d'un popolo, che vuoi cacciare dalla sua capitale i nemici dell'umanità e di Dio!!!»

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L'APOTEOSI

E LA GOGNA DI GARIBALDI

(Pubblicato il 30 agosto 1862).

Non sono ancora quindici giorni passati che il nomo di Garibaldi era sommamente glorioso, e dal gabinetto del ministero al deschetto del ciabattino era dappertutto un inneggiare, un osannare a Garibaldi. Noi non potevamo, senza sentirci rivoltare lo stomaco, vedere persone probe, assennate, od almeno in voce di probe ed assennate, cantar le lodi dell'eroe di Caprera, comechè credessero dover far certe loro riserve a proposito dei sensi religiosi del gran capitano.

Ed ora quell'uomo grande, quell'eroe, della cui fama si empievano tutte le bocche, e il cui nome era come una scintilla elettrica che faceva brillar di gioia le fronti dei nostri politici da caffè e da trivio, o divenuto l'oggetto di esecrazione di tutta quella turba d'imbecilli che l'avevano incielato. L'eroe è un ribelle, è un bandito, o un brigante, secondo la frase della Discussione.

Noi che abbiamo vigorosamente combattuto Garibaldi quando era sul suo piedestallo, come diceva in que' tempi la Gazzetta del Popolo, non gli daremo il calcio dell'asino ora che è posto al bando de' suoi adoratori. Noi condannammo Garibaldi quando era sul trono, e la faceva da re, anzi da Dittatore: lo condanniamo ora che la la da ribelle. Ma diciamo che Garibaldi è lo stesso oggi che era ieri: è lo stesso Garibaldi che fu l'idolo degli italianissimi, e che ora ne a l'esecrazione. Non è lui che ha cangiato, cangiarono i suoi adoratori, e invece dell'incenso, ora gli scagliano pietre. Nuova lezione di quanto valga la gloria del mondo. Più d'una volta, quando Garibaldi era all'apogeo di sua gloria, pronunziammo che tra breve quella gloria si volgerebbe in ignominia: e coloro che lo careggiavano, che lo inneggiavano, gli avrebbero gridato: Dalli! Dalli!

Sarebbe pur curioso il porre a riscontro gli onori che Garibaldi s'ebbe da quattordici anni in qua, cioè dal 1849 lino al 1862, coi vituperi ufficiali e semiufficiali che si ebbe interpolatamente, e specialmente col marchio di ribelle, di bandito, di brigante più o meno ufficialo, con cui è bollato nell'agosto di quest'anno. Altro che « due volte nella polvere - Due volte in sull'altar!»

Noi non ricorderemo che i punii principali della carriera gloriosa di Garibaldi. Il conte di Cavour, il 17 di maggio 1860, faceva stampare queste parole: «Il governo ha disapprovato la spedizione del generale Garibaldi, ed ha cercato di prevenirla con tutti quei mezzi che la prudenza e le leggi gli consentivano. La spedizione ebbe luogo nonostante la vigilanza dello autorità locali; essa fu agevolata dalle simpatie che la causa della Sicilia desta nelle popolazioni. Appena conosciutasi la partenza de' volontari, la flotta reale ricevette ordine d'inseguire i due vapori e d'impedire lo sbarco. Ma la marineria reale non lo potè fare, nella guisa stessa che non Io potè quella di Napoli che pure da parecchi giorni stava in crociera nelle acque di Sicilia.

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Del resto l'Europa sa che il governo del Re, mentre non nasconde la sua sollecitudine per la patria comune, conosce e rispetta i principii del diritto delle genti, e sente il debito di farli rispettare nello Stato, della sicurezza del quale ha la responsabilità».

Ma di queste ingiurie e di questi insulti al grande eroe, il conte di Cavour fece onorevole ammenda nella tornata della Camera del 2 ottobre dello stesso anno. Ecco le sue parole: « Il governo del Re non poté fallire all'assunto di secondare la fortuna d'Italia e compiere ardite imprese. - Altri undici milioni di Italiani hanno infranto le loro catene. - Il ministero è al tutto alieno dall'attribuire unicamente a se stesso il inerito di sì mirabili eventi. - A rispetto di Napoli e Sicilia è dovuto al concorso generoso dei volontari, e più che ad altra cagione AL MAGNANIMO ARDIRE DELL'ILLUSTRE LORO CAPO IL GENERALE GARIRALDI. Il ministero si restringe a notare che questi memorandi casi furono conseguenza della politica proseguita per dodici anni dal governo del Re. Garibaldi è un GENEROSO PATRIOTA. L'autorità e l'impero di Napoli e Palermo stanno nelle mani gloriose di Garibaldi, il quale ha reso segnalati servizi alla patria» (Atti ufficiali, N° 138, pag. 539, 540). Così l' illustre capo dei volontari, il generoso patriota era messo a cielo per il magnanimo suo ardire. Ed il governo del Re vedeva così alto Garibaldi, che appena timidamente osava mettersi a suo paragone, ricordando che da dodici anni proseguiva la medesima politica di Garibaldi.

Pochi giorni dopo, cioè il 9 ottobre, il Farini d'accordo con Cavour metteva in bocca al Re, nel suo proclama dato da Ancona, queste parole: «Era cosa naturale, che i fatti succeduti nell'Italia settentrionale e centrale sollevassero più e più gli animi nella meridionale. In Sicilia quest'inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero, devoto all'Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano Italiani, che soccorrevano Italiani: io non poteva, non doveva rattenerli. La caduta del governo di Napoli raffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario ai Re l'amore, ai governi la stima dei popoli».

Dodici giorni dopo, cioè il 21 ottobre dello stesso anno, il governo di Sicilia pubblicava un decreto firmato dal pro-dittatore e da dieci ministri, per cui è stabilito quanto segue: «La stanza da letto occupata dal generale Garibaldi in Palermo nel padiglione annesso al palazzo reale sopra porta Nuova sarà conservata in perpetuo nello stato, in cui presentemente si trova, e coi mobili di cui è attualmente fornita». Ed il governo si diede premura di pubblicare l'inventario dei mobili fatto dal pro-dittatore Mordini, assistito dal ministro dell'interno Parisi, e dal governatore del real palazzo Giovacchino Ondes. Nell'inventario figura in secondo luogo un orinale di porcellana colorata rossa.

Non recheremo qui la litania di nomi gli uni più onorifici degli altri, con cui venne lodato Garibaldi, il Salvatore, il Redentore, il Messia, il Dio dell'Italia. Ricorderemo ciò che leggevasi nella Nazione di Firenze del 10 settembre 1861:

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«Ferdinando P... del Santomoro, uomo di principii retrivi, eccitato, al solito, dal pretume, per isfogar la sua ira contro il generale Garibaldi pose, in segno di sprezzo, il nome dell'illustre Italiano ad un suo somaro, e passando più volte per Cadeglia, fu udito dire, percuotendo la bestia: can di Garibaldi, maledetto Garibaldi. Il sotto-prefetto di Pistola ha fallo, per misura preventiva, carcerare codesto miserabile». Ciò era naturale conseguenza della divinità di Garibaldi. Se questi era Dio, era bestemmia contaminarne il nome.

Ricorderemo brevemente come Garibaldi venne promosso ai più alti onori dello Stato, gli fu offerto il collare dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, ed una grassa pensione. Garibaldi nella sua modestia, dissero i suoi idolatri, rifiutò ogni cosa, contento d'aver donato l'Italia a se stessa. In fatto però Garibaldi trovò che ogni onore era inferiore a' suoi meriti, eccetto la Dittatura. Più volte egli proclamò che è repubblicano. Ma quanto a sé, non volle altro che la Dittatura! Repubblicano veramente curioso!

Che diremo poi delle feste, delle luminarie, delle ovazioni, dei trionfi dell'eroe? Basti ricordare gli ultimi allori raccolti quest'anno poco prima della commedia di Sarnico. E gli inni? Le bande musicali dell'esercito, come gli strimpellatori del violino e della chitarra pei trivii e per le bettole, facevano echeggiare gli inni all'eroe. E i nostri bimbi, che appena sanno spiccare le prime parole, non cantano Garibaldi marcia in fretta?

Insomma, non sapremmo qual uomo privato ricevette in Italia maggiori onori di Garibaldi. Or bene: colui che non ha guari era chiamato il Taumaturgo, un Arcangelo, un Essere sopranaturale, il Messia, un Dio, ora non è più che un limone spremuto, come lo chiama la Gazzetta del Popolo, la quale pure prodigò tanti elogi all'eroe!

Ora Garibaldi ha alzato la bandiera della rivoluzione; ha posto il suo braccio e la sua rinomanza al servizio della demagogia europea. Pertinacemente sordo alla voce del suo dovere egli non si è commosso al pensiero d'accendere la guerra civile in seno alla patria. In poche parole: lo Stato gli bandisce la croce addosso; mette in stato d'assedio i paesi dove la sua voce è ancora ascoltata; l'esercito italiano tutto quanto è rivolto non contro l'Austria, ma contro Garibaldi che fulminò cento volte colle sue arringhe l'Austria. E quel paese, il quale non aveva nulla di più bello, di più grande, di più glorioso che Garibaldi; ora non ha nemico più pericoloso che Garibaldi. Annibale non faceva più terrore ai Romani.

In meno d'un mese Garibaldi passò dall'apoteosi alla gogna. Ecco il fatto che abbiamo sotto gli occhi. Quante lezioni vi sarebbero da trarre da ciò che vediamo! Ma le notizie che quasi ad ogni istante ci giungono, mentre scriviamo, di tumulti, di moti, di rivolture a Genova, a Firenze, ecc. , ci fanno cadere la penna di mano, e non abbiamo il coraggio dì fare altre riflessioni.

Ci contentiamo di dire che tale è sempre la fine di coloro che muovono guerra a Dio ed al suo Vicario in terra. Quando sono al colmo della loro gloria e si credono potenti da sfidare non che tutte le potenze della terra, l'onnipotenza di Dio, ad un soffio dell'ira del Signore sono prostrati; e coloro stessi che hanno innalzalo l'idolo sull'altare la fanno a pezzi. Et nunc... intelligite, erudimini qui iudicatis terram.

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DICHIARAZIONE DI GARIBALDI

(Pubblicato il 19 settembre 1862).

Il Diritto del 12 settembre pubblica a nome del generale Garibaldi questa precisa e categorica dichiarazione: « L'Alleanza nel suo numero 31, addì 14 «settembre, assevera che l'Inghilterra per rompere, od almeno affievolire l'alleanza franco-italiana, appoggi con parole e con danari l'impresa del generale Garibaldi. Ciò è assolutamente contrario alla verità».

A noi non pare tè precisa categorica codesta dichiarazione. La parola Inghilterra può significare il governo inglese, o semplicemente gl'Inglesi: e significando governo inglese, potrebbe distinguersi tra appoggio morale e materiale, ed anche appoggio ufficiale, od ufficioso, e via via. Del resto ci ricorda che lord Palmerston rispondendo ad una interpellanza, dichiarò che il governo non aveva mandato danari a Garibaldi; ma sapeva che privati cittadini gli avevano spedito non sappiam più quali somme. Se il governo non mandò danari, poté mandar altro equivalente e forse più influente.

IL DANARO DI S. PIETRO E IL DANARO DI GARIBALDI

(Pubblicato il 20 settembre 1862).

L'Unità Italiana del 19 di settembre pubblica un appella del Comitato garibaldino di Londra agli operai inglesi, in cui questi sono eccitati a sottoscrivere al danaro di Garibaldi, come fanno gli amici del dispotismo e del Papato col Danaro di S. Pietro. Abbiamo già veduto che il deputato Ricciardi avea proposto il Danaro d'Italia per contrapporre al Danaro di S. Pietro. Ma la proposta fu trovata ridicola, e non se ne fece caso veruno. Ora il Comitato garibaldino vuoi tentar la prova ad accattar soldi per il suo eroe, e per non far fiasco completo si contenta della misera moneta d'un soldo: date obulum Garibaldino. L'appello termina così: «Facciamo intendere a Garibaldi che la sua voce ha trovato un'eco nei nostri cuori, e sappiano i tiranni che noi pure chiediamo giustizia per l'Italia. Cometa causa del dispotismo e la stessa in tutto il mondo, così pure è la causa della libertà.

«Gli amici del dispotismo e del Papato hanno firmato in ogni paese, e perfino in Inghilterra, per il Danaro di S. Pietro. Noi v'invitiamo a mostrare la vostra simpatia per ii generale Garibaldi e per la causa, di cui egli è campione.

«Noi abbiamo quindi aperto una sottoscrizione di un soldo (10 centesimi) a tale intento.

«Noi uomini del lavoro, non siamo ricchi, ma numerosi. Se non possiamo mandare migliaia di lire ai nostri fratelli d'Italia, possiamo però dar loro milioni di soldi, e innalzare nello stesso tempo da un'estremità del paese all'altra il grido che oggi passa come una bufera sull'Europa: Roma per l'Italia! Roma o morte.

«In nome del Comitato per gli Operai, per il fondo di Garibaldi.

I. Sfarkhali, segretario» .

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Gli operai inglesi muoiono di fame ed hanno altro in testa che mandare il loro soldo a Garibaldi! Crediamo che quest'appello avrà lo stesso esito di quello di Mazzini, con cui chiedeva i famosi 300, 000 franchi e con cui si rendeva mallevadore di pigliar Roma alla barba di Napoleone III.

PETIZIONE PER LA LIBERAZIONE DI GARIBALDI

(Pubblicato il 20 settembre 1862).

Il partito mazziniano riavutosi dallo sbalordimento cagionatogli dalla catastrofe di Aspromonte si è messo coll'arco della schiena ad agitare nuovamente il paese. Ora ha messo fuori una petizione per la liberazione di Garibaldi, eccitando gli amici a firmarla ed a farla firmare. Ecco questo documento pubblicato dall Unità Italiana del 19 settembre.

AI MINISTRI

« Signori,

« Giuseppe Garibaldi è gravemente ferito ed è prigioniero.

« Noi non intendiamo ora discutere sulle cagioni che lo condussero a tale. Diciamo che sono nella vita delle nazioni fatti ed uomini da non potersi, senza disonore e colpa di tutti, sottoporre alle norme comuni.

« Tale è Garibaldi: tale è il fatto pel quale ci giace prigioniero e ferito.

« Garibaldi ha combattuto tutte le battaglie dell'unità italiana. Garibaldi ha dato a quell'unità dieci milioni di cittadini. Garibaldi è il simbolo vivente del voto dell'intera nazione.

«La sua ferita fu colta, mentr'ei moveva, non contro voi, ma verso terre sulle quali vive, proclamato da voi e negato dallo straniero, il diritto italiano; - non per mutare gli ordini dello Stato o combattere il vostro programma, ma per compire l'uno o l'altro.

« Voi potete, signori, giudicare prematuro, non colpevole, quel fatto invocalo da tutta Italia: potete impedire, non punire chi lo tentava. L'Italia intiera è fedita e prigioniera con lui.

« Noi chiediamo, signori, " la libertà di Garibaldi. In nome del voto d'Italia, in nome della riconoscenza che voi, 'con noi, gli dovete, noi chiediamo ch'ei possa curare la propria ferita circondato dall'amore de' suoi, fuori di un carcere che ricorda all'Europa il carcere di Colombo».

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NOTA DIPLOMATICA

SULLA DISFATTA DI GARIBALDI

(Pubblicato il 23 settembre 1862).

Pubblichiamo il testo della Nota del ministro Durando che forma l'argomento del nostro primo articolo. La Corrispondenza Bullier nel riferirne un sunto dice: t Noi chiediamo al gabinetto di Torino se gli e permesso di mettere in accusa Garibaldi dal momento che la parola d'ordine dei volontari esprimeva il bisogno imperioso della nazione.

«Se Garibaldi non ha l'alto che rispondere ad un bisogno imperioso della nazione, noti è la Corti: di Cassazione di Napoli, né quella di Milano che bisogna convocare per giudicarlo. Dopo la circolare del ministro Durando, Garibaldi non può più estere processato, poiché non avrebbe, per difendersi, che a leggere questa circolare, ove si trova la sua giustificazione, anzi la sua riabilitazione completa. Non è egli evidente d'altra parte che, se Garibaldi meritasse d'esser giudicato e condannato per aver voluto Roma, il governo che occupa Roma è legittimamente fondato a conservarla e a rimanervi, qualunque sia la forma sotto la quale gli si domanda d'uscirne?»

Ecco la nota circolare che porta la data di Torino, 10 settembre, ed è indirizzata alle nostre legazioni all'estero:

«L'altitudine presa dal governo del Re dopo il tentativo di Sarnico dava luogo a credere che il generale Garibaldi avrebbe d'ora innanzi rinunciato ad imprese incompatibili coll'ordine stabilito, e tali da compromettere l'Italia nelle sue relazioni coi governi stranieri.

Quest'aspettativa è stata delusa. Fuorviato da sentimenti che il rispetto della legge a una più giusta estimazione della situazione avrebbero dovuto contenere, e troppo accessibile agli eccitamenti d'una setta più conosciuta per le sue vittime, che per i suoi successi, non indietreggiò avanti alla prospettiva d'una guerra civile, e volle farsi l'arbitro dell'alleanza e dei destini dell'Italia.

«La mercé delle ricordanze lasciate in Sicilia per gli avvenimenti del 1860 ha potuto riunire in quest'isola dei corpi di volontari; le popolazioni incerte tra la simpatia che dovea svegliare in esse una rivendicazione di Roma, e il dolore di vedere questa rivendicazione prendere il carattere d'una rivolta, non lo videro passare in mezzo ad essa che con inquietudine e tristezza; il Parlamento lo disapprovava; il Re stesso, di cui non cessava d'invocare il nome, lo chiamava alla sommissione alle leggi; lutto fu inutile. Percorse la Sicilia e entrò in Catania, trovando dappertutto un accoglimento pieno di salutari avvertenze che egli non seppe intendere; da Catania infine passò sul continente con tremila uomini, obbligando così il governo del Re di venire ad una repressione immediata e completa. È allora che, raggiunto da un distaccamento dell'armata, fu preso con tutti i suoi.

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«I fatti che io sommariamente vi richiamo alla mente, non lascieranno, o signore, altra traccia fra noi che una dolorosa memoria: l'unione degli spiriti, fondata su d'un attaccamento unanime a principii superiori, non potrebbe essere turbata.

«Essi hanno frattanto un significato che voi farete rimarcare al governo, presso il quale voi siete accreditato. Essi sono un attestato della maturità politica di quelle popolazioni libere da ieri soltanto, de! desiderio che l'Italia prova di vedere i suoi destini compiersi per vie regolari, o dei legami indissolubili che uniscono la nazione alla monarchia costituzionale, espressione suprema della volontà del paese. Essi sono infine una nuova prova della fedeltà e della disciplina dell'armata, costante e sicura guardiana dell'indipendenza nazionale.

«Non ostante i gabinetti europei non debbono ingannarsi sul vero significato di cotesti avvenimenti.

«La legge ha vinto; ma il motto d'ordine dei volontari è stato questa volta, bisogna riconoscerlo, l'espressione d'un bisogno più imperioso che mai. La nazione tutta intera reclama la sua capitale; essa non ha testò resistilo allo slancio sconsiderato di Garibaldi, se non perché essa è convinta che il governo del Re saprà compire il mandato che egli ha ricevuto dal Parlamento riguardo a Roma. Il problema ha potuto cambiare d'aspetto; ma l'urgenza non ha fatto che divenire più potente.

«A fronte delle scosse sempre più gravi che si ripetono nella Penisola, le Potenze comprenderanno quanto sia irresistibile il movimento che spinge l'intera nazione verso Roma. Esse comprenderanno che l'Italia ha fatto uno sforzo supremo ed ultimo trattando da nemico un uomo, che pure aveva resi sì splendidi servigi, e aveva sostenuto un principio che è nella coscienza di tutti gl'Italiani: esse comprenderanno che, secondando senza esitanza il loro Sovrano nella crisi che hanno attraversalo, gl'Italiani hanno inteso di riunire le loro forze intorno al rappresentante legittimo dei loro diritti, perché sìa resa loro finalmente giustizia.

«Dopo questa vittoria riportata in questa guisa sopra se stessa, l'Italia non ha più bisogno di dimostrare clic la sua causa è quella dell'ordine europeo, essa ha dimostrato abbastanza a quali sacrifici sappia assoggettarsi per mantenere i suoi impegni, e l'Europa sa segnatamente che essa manterrà quelli che ha assurto ed è pronto ad assumere rispetto alla libertà della Santa Sede.

«Le Potenze quindi debbono aiutarci a dissipare le prevenzioni che ancora impediscono che l'Italia possa trovar riposo e rassicurare l'Europa.

«Le nazioni cattoliche, la Francia sopratutto, che si è costantemente adoperata per la difesa degl'interessi della Chiesa nel mondo, riconosceranno il pericolo che vi è nel mantenere più a lungo tra l'Italia ed il Papato un antagonismo, di cui la sola causa risiede nel potere temporale e nello stancare lo spirito di moderazione e di conciliazione, da cui le popolazioni italiane si sono finora mostratc informate.

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«Un tale stato di cose non è più sostenibile, esso riescirebbe pel governo del re a conseguenze estreme, la cui responsabilità non potrebbe aggravarsi su noi soli, e che comprometterebbe gravemente gl'interessi religiosi della cattolicità e la tranquillità d'Europa.

«V'invito, signore, a dare lettura del presente dispaccio al signor ministro degli affari esteri di e di lasciargliene copia.

«Vogliate, ecc.

« Segnato: Giacomo Durando».

RATTAZZI E IL PARTITO D'AZIONE

(Pubblicato il 26 settembre 1862).

Una corrispondenza torinese della Gazzetta Austriaca reca i particolari di un presuntivo compromesso, proposto al governo italiano dal partito d'azione.

Eccone le basi: 1° Amnistia incondizionata per Garibaldi ed i corpi dei volontari. 2° Contemporanea abolizione dello stato d'assedio nelle provincie del Sud. 3" Piena libertà di stampa. 4» Scioglimento della Camera - per isbarazxarsi dei^deputati imperialisti. 5» Nuova convocazione dei collegi elettorali per creare nuovi rappresentanti, che non rivolgano più il loro sguardo a Parigi. 6» Non interrotto aumento ed armamento dell'esercito. 7» Incorporamene nella truppa degli elementi atti alla guerra dei corpi garibaldini. 8» Ultimatum all'imperatore Napoleone per lo sgombero di Roma - ed in caso di rifiuto indilazionata rottura delle relazioni diplomatiche.

PROGESSO DI GARIBALDI

E DEI GARIBALDINI

(Pubblicato il 26 settembre 1862).

Il ministero aveva deciso di fare il processo a Garibaldi ed ai Garibaldini davanti alla Corte d'Assisie. Ma non voleva farlo nelle provincie di Napoli, pel timore che i Giurati dessero ragione a Garibaldi e torto a Rattazzi, lo che sarebbe stato errar peior priore. Per lo che i ministri spedirono il seguente dispaccio telegraQco alla Corte di Cassazione di Napoli:

Al Procuratore Generate presso la Corte di Cassazione di Napoli.

Dovendosi a termine di legge procedere per gli ultimi fatti di ribellione, il governo non crede per ragioni di pubblica sicurezza instituire il processo avanti la Corte di Catanzaro, o qualsiasi altra Corte delle provincie napoletane e siciliane.

Di coerenza, ed a tenore dell'art. 760 del Codice di procedura penale, la S. V. è invitata a ricorrere tosto a codesta Corte di Cassazione, affinché venga il processo rimandato ad altra Corte.

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Siccome però cotesta Corte di Cassazione non avrebbe giurisdizione fuori delle provincie napoletane, la S. V. nel ricorso domanderà che la Corte stessa nel suo decreto abbia a richiedere la Corte di Cassazione di Milano, onde venga dalla medesima designata la Corte d'Assisie, la quale dovrà giudicare invece di quella di Catanzaro.

Pel Ministro assente

Il direttore superiore, E. Robecchi.

La Corte di Cassazione di Napoli, osserva il Diritto, avea conoscenza di questo dispaccio il 15 settembre, precisamente nel giorno stesso che la Gazzella Ufficiale stampava quella famosa nota in cui, con una goffa affettazione d'ingenuità, si dichiarava che, quanto al processo di Garibaldi, il governo non aveva niente da fare e niente da dire, trattandosi di eseguire la legge e di lasciare che la giustizia abbia libero il suo corso!! Queste parole stanno degnamente a riscontro di quelle del dispaccio ministeriale, in cui esplicitamente è detto: il governo Non Crede, per ragione di pubblica sicurezza, Istituire il processo avanti questa o quella Corte. Ricevuto il dispaccio ministeriale, il pubblico ministero, rappresentato a Napoli dal sostituito procuratore generale G. De Falco, faceva la sua istanza alla Corte di Cassazione in questi sensi: «II sostituito procuratore generale, per delegazione del signor avvocato generale, funzionante da procuratore generale e dietro consulta dell'ufficio del pubblico ministero convocato a termini del regolamento;

Visto il dispaccio telegrafico del sig. ministro di grazia e giustizia così concepito:

(Segue il dispaccio)

«Sulle considerazioni, che le condizioni politiche di queste provincie napoletane con lo stato d'assedio consigliano, per assicurare intiera tutela all'indipendenza ed alla libertà del giudizio, che sia esso trattato presso una Corte, che non si trovi nelle medesime condizioni;

«Ciò non pertanto la Corte di Cassazione di Napoli, non potendo delegare la causa ad una Corte che sia fuori i limiti della sua giurisdizione, non le rimane che invitare altra Corte di Cassazione del regno a designare una Corte d'Assisie; presso la quale si potesse, a termini di legge, instituire il processo; visto l'art. 760 del Codice di procedura penale; d'ordine del ministro di grazia e giustizia: fa istanza che la Corte di Cassazione, per motivi di sicurezza pubblica, inviti la Corte di Milano a designare una Corte d'Assisie del regno, presso In quale si possa procedere nei termini di legge per la causa suddetta, invece di quella di Catanzaro.

« Il sost. proc. generale: G. De Falco».

La Corte di Cassazione eli Napoli, presidente Niutta, relatore Nicolini, dimenticò clic nel silenzio della legge, al di sopra di lei, del governo e del pubblico ministero, sta il potere legislativo; ed accolse le istanze del signor De Falco, emanando la seguente deliberazione:

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«Vista l'istanza del pubblico ministero concepita ne' seguenti termini, ecc

La Corte di Cassazione, deliberando in Camera di Consiglio sul rapporto del consigliere Nicolini, deputato dal presidente; veduti gli articoli 753 e 760 del Codice di procedura penale vigente;

«Accogliendo la domanda del pubblico ministero, dichiara che il processo pei fatti, di cui si tratta, non possa per motivi di sicurezza pubblica aver luogo presso alcuna delle Corti delle provincie napoletane, ed invita la Corte di Cassazione di Milano a designare all'uopo una delle Corti site nel territorio di sua giurisdizione.

«l'atto, ecc. »

Sono questi documenti preziosissimi, che noi abbiamo voluto raccogliere perché si conosca quale legalità regni in Italia, e come sia veridico il ministero.

PERDONO AI GARIBALDINI

E PROCESSO CONTRO I MINISTRI

(Pubblicalo il 3 ottobre 1862)

Domenica prossima, e forse anche più presto verrà pubblicato il decreto d'amnistia, che assolve pienamente tutti i Garibaldini, e li rimette in libertà. Le ragioni di quest'amnistia sono le seguenti:

1° Il consiglio del principe Napoleone, il quale venuto in Torino perle feste del matrimonio, persuase Rattazzi che, pel suo migliore, ottenesse l'amnistia ai Garibaldini.

2° La difficoltà di trovare un tribunale che voglia processare i ribelli, e il pericolo di vedere la Corte di Cassazione di Milano rispondere a quella di Napoli con una dichiarazione d'incompetenza.

3° Il bisogno di far cessare ogni memoria di Aspromonte, di riamicarsi coi Garibaldini, e provvedere insieme alle sorti d'Italia, gridando dove occorra, e gridandolo fortemente: O Roma o morte, O morte o Roma.

Ma se l'amnistia troncherà ogni processo contro i Garibaldini, avrà però la virtù d'iniziarne uno contro i ministri. Il ministero che perdona, dee tosto rispondere alle seguenti accuse:

1° Perché ha permesso che la spedizione di Garibaldi si combinasse, e partisse, e si allargasse (ino al punto di rendere necessario un esercito per arrestarla? Il ministero fu cieco, fu debole, fu connivente? Renda conto della sua condotta. Mostri ch'egli non andò mai d'accordo coi Garibaldini, che fe' tutto il possibile per impedire il male ne' suoi principii, che non è colpa sua se si sparse sangue e si sciupò tanto danaro.

2° Perché ha arrestato i deputati Riordini, Fabbrizi e Calvino? Perché il lasciò in arresto per tanto tempo? Favorivano essi la ribellione di Garibaldi? Andavano contro il Re, acuì avevano giurato fedeltà? Vennero colti in flagrante delitto! Qual è questo delitto?

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Giustifichi il ministero la sua condotta. Mostri che non ha violato Io Statuto, né offeso i privilegi dei rappresentanti del popolo.

Ognuno capisce da sé che i ministri possono bensì perdonare a Garibaldi ed a' suoi, ma non possono perdonare a loro medesimi. Sa i documenti del processo non si mettono fuori giuridicamente, debbono almeno venire in luce sulla Gazzetta Ufficiale. I ministri se hanno un po' di sangue nelle vene, debbono provare che stava in loro potere far condannare i Garibaldini, ma che generosamente ottennero loro il perdono. Debbono provare che quelli erano i rei, ma essi sono innocenti. Il ministero deve sostenere un processo, non solo in faccia all'Italia, ma anche in faccia all'Europa.

Pochi giorni fa il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, grande amico di Garibaldi e favorevolissimo a tutte le sue idee, pubblicava una lettera per giustificare il suo contegno come prefetto di Palermo. E la più bella ragione che il Pallavicino addusse in sua difesa fu questa, che Rattazzi conosceva il suo pensare, e lo assunse tuttavia alla carica di prefetto. Che se il Ministero avesse potuto dimenticare le opinioni del Pallavicino, o illudersi intorno a queste, il prefetto di Palermo avrebbe dovuto toglierlo d'inganno co' suoi dispacci.

Difatto, il 24 di giugno, Pallavicino scriveva una. lunga lettera, e fra le altre cose diceva: «Rattazzi mio, parliamoci chiaro. Voi ed i colleghi vostri siete pentiti di avermi nominato prefetto di Palermo. Ma voi tutti conoscevate i e principii incrollabili, dai quali mi sarei guidato, accettando l'amministrazione di questa provincia. Dunque l'errore fu vostro, - tutto vostro. Perché mandare in Sicilia un vecchio rivoluzionario, un amico di Garibaldi! Del resto, tranquillatevi, signori ministri: se commetteste un errore, potete facilmente rimediarvi. Richiamatemi, richiamatemi, vi ripeto, dacché stimerei atto di tristo cittadino il dimettermi nelle presenti congiunture».

E prima ancora del 24, vale a dire, fino dal 15 di giugno, lo stesso prefetto avea scritto al commendatore Rattazzi: «È in balia del governo l'avere qui nel partito d'azione un appoggio od un ostacolo forse insuperabile. In quel giorno che il governo rompesse con Garibaldi, l'alleato diventerebbe nemico, ed io, impotente a reggere la provincia che mi avete affidata, vi trasmetterei le mie dimissioni».

Ora notate bene le date: Rattazzi era stato avvertito fin daH5 e dal 24 di giugno che Pallavicino stava con Garibaldi e col partito d'astone. E perché lo lasciò stare prefetto a Palermo fino al 25 di luglio, giorno in cui si accettarono le sue dimissioni? In quel tempo Rattazzi non solo non volea opporsi ai Garibaldini, ma li secondava. Quando poi giunsero gli ordini assoluti di Parigi, allora prese quelle determinazioni che lo portarono fino alla grande impresa di Aspromonte!

Comunque sia, non è possibile tener nascosta la storia del luglio e dell'agosto del 1862. Essa vuoi essere rivelata in qualche modo. Si accordi, se così si crede, una piena amnistia a Garibaldi ed ai Garibaldini, ma i ministri insaniscano subito contro loro stessi un severo processo, e cerchino di purgarsi, se è possibile, dalle più gravi accuse che pesano sulla loro riputazione.

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DEGRETO PER L'AMNISTIA DI GARIRALDI

(Pubblicato il 7 ottobre 1862).

La Gazzetta ufficiale del 6 ottobre pubblica il decreto d'amnistia per Garibaldi ed i suoi complici colla relazione che lo precede. Ristampiamo questo documento, contentandoci per oggi di osservare che il Ministero adduce per ragione di accordare l'amnistia che ogni, pericolo è svanito, e che ora 1 Italia è rassicurata contro le improntitudini delle fazioni. Se così è, perché adunque si Conserva ancora lo stato d'assedio in Napoli, e perché il dittatore di Palermo ha pubblicato nuovi e più severi bandi per aggravare lo stato d'assedio in Sicilia? Inoltre il Ministero, dopo aver dotto: «L'oblio che da ogni par te s'implora per l'autore principale, si chiede con tanta maggior ragione in favore di coloro che, trascinati dal prestigio che circonda il suo nome, lo seguirono nella malaugurata intrapresa» ; esclude dall'amnistia i soldati di terra e di mare, che seguirono Garibaldi. Forseche sono più colpevoli di Garibaldi stesso? Forsechè non furono anche essi trascinati dal prestigio che circonda il suo nome?

Relazione a S. S. M. in udienza del 5 ottobre 1862.

Sire,

Le cause per cui il vostro governo si vide finora costretto a consigliarvi di resistere ai generosi impulsi del vostro animo verso il generale Garibaldi ed i suoi complici sono cessate. L'impero delle leggi si va dovunque assodando; la fiducia nella franca, quanto prudente politica da voi iniziata, ha temperate le impazienze che spinsero questo generale per la via della ribellione, alla catastrofe d'Aspromonte, dove ha potuto accorgersi che, se combattendo in vostro nome i nemici della patria e della libertà potò compiere prodigi, non era così quando, dimenticati i suoi doveri, impugnava, qualunque ne fosso il fine, le armi contro i vostri diritti.

Da questo deplorabile esempio sorge un salutare insegnamento per noi tutti.

Ora l'Italia rassicurata contro le improntitudini delle fazioni, e memore dei servigi resi dal generale Garibaldi alla causa dell'unità nazionale, desidera ardentemente di dimenticare che vi fu un momento in cui egli si fece sordo alla voce del dovere, ai vostri ammonimenti ed alla legge. A questo voto del paese fan eco dovunque nel mondo civile quanti caldeggiano la causa della libertà ed unità dell'Italia, e nulla tanto temono per lei quanto il ritorno delle intestine discordie, che la tennero per così lungo tempo divisa e la resero sì facile preda alle straniere ambizioni.

L'oblio che da ogni parte s'implora per l'autore principale, si chiede con tanto maggior ragione in favore di coloro, che trascinati dal prestigio che circonda il suo nome, lo seguirono nella malaugurata intrapresa.

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Non è più necessario resistere a cotesti voti. Dal loro esaudimento acquisterà vigore l'indirizzo del governo, senza che ne scapitino le condizioni dell'ordine politico che ha posto nelle vostre reali mani la facoltà di soddisfare al sentimento nazionale ed a quello del vostro cuore senza scalzare le leggi sulle quali riposa la pace pubblica.

Quando si trattava di rintuzzare la ribellione, di restituire l'impero alle leggi oltraggiate e di assodare le ragioni dell'ordine, il vostro Consiglio non esitò a proporvi i provvedimenti più energici; ogni pericolo essendo svanito, si fa di buon grado oggi l'interprete del voto generale, ed implora da Vostra Maestà un atto di clemenza che, cancellando la memoria di uno degli episodi più dolorosi del nostro risorgimento nazionale, abbia per risultato di non lasciar sussistere che il ricordo dei servigi resi alla patria ed alla Dinastia.

Soli i nemici d'Italia, cui arridevano le minaccie di guerra civile, vedranno con dolore quest'atto destinato a mantenere unite ed incolumi tutte le forze, come tutte le glorie della nazione.

Il vostro governo, avrebbe bramato che l'amnistia fosse intera, e che tutti coloro che all'occasione dell'intrapresa repressa nei campi di Aspromonte sono incorsi nelle pene comminate dalle leggi, fossero prosciolti da ogni debito verso la giustizia.

Senonchè la necessità di confortare in ogni incontro il sentimento degli alti doveri che a sicurezza di tutti i diritti e di tutte le libertà sono imposti alle milizie, non permette di comprendere nel novero degli amnistiali i soldati di terra e di mare che, in quest'occasione, o violarono le leggi che particolarmente li riguardano, o fallirono alla fedeltà dovuta al Principe.

L'onore della nostra bandiera ci vieta di ravvisare nei fatti che loro sono imputali le circostanze attenuanti, che stanno in favore di coloro che non erano stretti nei vincoli del servizio militare.

I vostri ministri non si dissimulano quanto l'eccezione, che propongono e nella quale insistono, debba costare al paterno vostro cuore.

Questo indulto, o Sire, non è senza precedenti nei nostri ordini liberi.

Il consenso tacito che il Parlamento e la pubblica opinione diedero in altri tempi a consimili alti, persuadono il Consiglio della Corona a proporvi un decreto che faccia fede all'Italia ed all'Europa della vostra magnanimità, della forza del governo e dello spirito di concordia onde sono animati i popoli che van lieti di avervi a un tempo per padre e per Re.

VITTORIO EMANUELE III

Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d'Italia.

Visto l'ari. 8 dello Statuto;

Sulla proposta del presidente del Consiglio, ministro dell'interno ed intenzionalmente incaricato di reggere il ministero di grazia e giustizia;

Sentito il Consiglio dei ministri,

Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:

Art. 1. Gli autori ed i complici dei fatti e tentativi di ribellione, che ebbero luogo nello scorso mese di agosto nelle provincie meridionali, e non colpevoli di reati comuni, sono prosciolti da ogni debito incorso per questo titolo verso la giustizia.

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Art. 2. Sono però eccettuati dal benefizio di questo indulto i militari di terra e di mare.

I nostri ministri sono incaricati ciascuno per la parte che lo concerne, della esecuzione del presente del presente decreto, che ordiniamo sia inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare.

Dato a Torino, addì 5 ottobre 1862.

VITTORIO EMANUELE

U. Rattazzi.

GARIBALDI E LA DEA RAGIONE

(Pubblicato l'8 e 9 ottobre 1861).

I.

Soventi volte fu diretta ai rivoluzionari questa domanda:-Volete distruggere il Papa, e impossessarvi di Roma papale. E sia. Ma quando il Papa non esisterà più, e voi comanderete in Roma, che cosa darete al mondo invece del Vicario di Gesù Cristo? - E non si rispose mai categoricamente a questa interrogazione, finché, il 28 di settembre, parlò dal Varignano Giuseppe Garibaldi, in un suo indirizzo alla Nazione inglese disse chiaro e tondo che volevasi mettere in luogo del Papa La Dea Ragione! Garibaldi lodò la Francia che nel 93, m quel punto solenne «die al mondo la dea Ragione, rovesciò nella polve la tirannide, e consacrò tra le nazioni la libera fratellanza». Pianse sulla Francia d'oggidì, che «sulle rovine del tempio della Ragione si affatica a puntellare quella mostruosità nefanda, immorale, che si chiama Papato»; e si conchiuse esortando la Britannia a non perdere tempo, a sorgere presto, e «colla fronte alta additare alle nazioni la via da percorrere» .

Questa via secondo Garibaldi, è doppia, una di distruzione, l'altra di riedificazione: distruggere la mostruosità nefanda, immorale che si chiama Papato; riedificare il tempio della dea Ragione, quel tempio che la Francia diè al mondo in sul cadere del secolo passato. Il programma è chiaro e netto da ogni infingimento ed ipocrisia. E per comprenderlo in tutta la sua ampiezza non s'ha da far altro che metter mano al Moniteur di Parigi ed agli storici della rivoluzione francese, e ricercare clic cosa fosse la dea Ragione, sorta in Francia sulle rovine della tirannide. Siffatte ricerche noi ora intraprendiamo abbandonando le argomentazioni per attenersi semplicemente a' fatti. I quali dimostreranno la bontà e moralità della dea Ragione, che vuole sostituirsi «alla mostruosità nefanda e immorale, che si chiama Papato!».

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Correva il giorno 9 di novembre dell'anno 1793 e regnava in Parigi la Convenzione, assemblea legislativa, che ottenne grandi elogi nel primo Parlamento italiano, dove il 19 di giugno del 1861 fu detta dal sig. Cordova, ministro del commercio, un'assemblea benedetta da tutto il mondo civile, che ha fondato la Nazione francese e sollevato la democrazia in tutte le parti l'Europa (1). Mentre la convenzione stava deliberando, eccoti al di fuori sorgere un rumore indescrivibile di applausi, di battimani, di grida, di moltitudine che s'appressa.

È una folla innumerevole di rivoluzionari; gli uni sono vestiti bizzarramente di abiti sacerdotali, gli altri si tirano dietro e trascinano nel fango gli stendardi e le croci; e v'hanno meretrici che bevono nei calici e nelle pissidi, molti asini coperti di piviali e di pianote, e uno tra questi con una mitra episcopale attaccata agli orecchi (9).

Tra gli scellerati v'è un pseudo Vescovo, Gobel, e una mano di preti tristissimi, che dopo d'essersi separati dai loro superiori e aver dato consigli al Papa, aveano finito per mettersi in così bella compagnia! Tutti costoro entrano nell'assemblea, e Gobel sale sulla tribuna e dice: «Oggidì non dee sussistere altro culto nazionale eccetto quello della Libertà e dell'Eguaglianza; io rinunzio alle mie funzioni di ministro del culto cattolico, e i miei Vicari fanno la stessa dichiarazione. Noi deponiamo sul banco della presidenza le nostre patenti di sacerdoti. Possa quest'esempio consolidare il regno della Libertà e dell'Eguaglianza: Viva la repubblica I B A queste. parole rispondono applausi fragorosi e grida frenetiche dall'assemblea e dalle tribune; gli abbracci, gli strepiti, le acclamazioni durano per lungo tempo; e sarebbesi detto, conchiude uno storico, che l'apostasia salvava la Francia!

La Convenzione vuole che l'universo intero conosca questi fatti, e che l' Europa venga illuminata ani progressi della Ragione. Epperò decreta, che tutte le apostasie sacerdotali, le quali provano i progressi della filosofia, verranno conservate in un registro pubblico, indirizzate a tutti gli spartimenti, spedite al Papa per guarirlo da' suoi errori, tradotte nelle lingue straniere, e diffuse tra i diversi popoli dell'Europa (fi). Come si vede è vezzo antico dei rivoltosi trarre partito dagli scandali sacerdotali, pagare i Giuda, e assoldare gli apostati, gettandoli poi in faccia al Romano Pontefice. Né si ha da prendere scandalo per colali scelleratezze-, noi le raccontiamo come gli Evangelisti ci raccontano il mercato e il tradimento dell'lscariota.

Rinnegato il Cattolicismo, la Convenzione pose mano a cancellarne le reliquie. Pena le morte chi dirà S. Antonio, S. Dionigi, S. Germano, ecc. : ogni cittadino è obbligato a nominare i sobborghi, le chiese e le strade"di Parigi: Sobborgo Antonio, Sobborgo Dionigi, tempio Germano, tempio Lorenzo, tempio Rocco; strada Guglielmo, strada Onorato, strada Giacinto. Tra noi finora il solo Comune di Schiavi nel Napoletano mutò il nome e chiamossi Comune di Liberi (4). In Francia Saint-Denis chiamasi Franciade,

(1) Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, N» 201, pag. 775.

(1) Histoires Pittores. de la Convention, Tom. ni, pag. 190.

(2) Decreto del 18 Brumaire, anno it. Moniteur, T. XVIII, da pag. 309 a pag. 124.

(3) Vedi Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, 25 di settembre 1862.

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Saint-Malò dicesi Port Malè, e Saint-Aignan piglia il nome di Carismont. Anzi la Sessione della Croce Rossa a Parigi «temendo che questa denominazione perpetui il veleno del fanatismo, dichiara al Consiglio del Comune che vi sostituirà quella di Sessione del Berretto Posso (1)» .

Questi erano i preliminari della dea Ragione. I rappresentanti del popolo ne preparavano la nascita coi decreti e coi discorsi. Jacob Dupont avea detto: «Credete voi, cittadini legislatori, di fondare e consolidare la repubblica con altari che non sieno quelli della patria? La Natura e la Ragione, ecco i Dei dell'uomo, ecco i miei Dei (2). E la Vicomterie: «La morale non fu mai in quest'ammasso gotico e barbaro di distinzioni e di sofismi dei Tommasi, degli Agostini e dei Gerolami. Questi ciarlatani (sic) già così riveriti hanno indegnamente confuso tutte le nozioni del giusto e dell'ingiusto. Questi reverendi pazzi (sic) hanno riempiuto per mille cinquecento anni l'Europa della loro demenza... Io caccio dalla mia presenza questi fantasmi bizzarri e crudeli, e metto in loro luogo le leggi primitive; la Ragione, l'Umanità, la Natura, ecco le divinità che io adoro (3)».

E la dea Ragione sorse la domenica del 10 di novembre del 1793. Di buon mattino il tamburo in tutte le strade di Parigi chiamava il popolo alla festa della Nuova Divinità che doveva celebrarsi nella chiesa di Nostra Signora, e, giunta l'ora prestabilita, il festivo convoglio partiva dal palazzo di città. Vedeasi la dea della Ragione, che era la signora Maillard, ballerina dell'Opera, assisa su d'un seggiolone dorato, fregiato di ghirlande di quercia e portato da quattro sansculottes vestiti di rosso. Avea un berretto rosso sulla testa, i capelli sparsi sulle spalle, e una bianca tonaca mezzo ricoperta da un manto di color celeste. Impugnava colla destra una picca, colla sinistra un ramo di quercia, e, orrendo a dirsi! calpestava coi piedi un crocifisso (4). Circondavanla un gruppo di giovani cittadine vestite di bianco, cinte di nastri tricolori e coronate di fiori. Seguivano i principali attori della festa, e i deputati d'ogni sezione coperti di rosso berretto. Ed eccoli entrare tutti nella chiesa di Nostra Signora già prima spogliata d'ogni statua e d'ogni simbolo cristiano.

Nell'interno del Santuario, presso al coro, era stata elevata una montagna, e sopra un tempio. Sulla facciata di questo leggevasi A La Philosophie; e vedevasi sul davanti la statua della filosofia circondata dai busti degli antichi sapienti, che più contribuirono colle loro opere al trionfo della Ragione. Sul versante della montagna stava un altare circolare riservato alla dea. In mezzo una torcia accesa che chiamavasi la face della verità. A diritta e sinistra della montagna pigliano posto le autorità costituite; la musica suona un inno repubblicano; giovani vestite di bianco scendono dalla montagna con una fiaccola in mano, s'inchinano davanti l'altare della Ragione, e poi risalgono sulla sommità della montagna medesima. Sono le ninfe della dea; e questa finalmente arriva e si asside sull'altare per ricevervi gli omaggi di quegli uomini rigenerati, che non hanno piti Papa, non hanno pili Dio, e stanno per adorare una ballerina!

(1) Moniteur, del 5 di ottobre 1793.

(2) Moniteur, del 16 dicembre 1792.

(3) Moniteur, del 20 vendemiaire, an IR.

(4) La Harpe, Du Fanatisme dans la langue rèvol. pag. 61.

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Cominciano i fanciulli ad incensarla coi loro turiboli, e poi ciascuno degli astanti viene ad adorarla. Durante l'adorazione, si cantano inni, e si stendono le braccia verso la dea. Quindi si recitano discorsi analoghi al nuovo culto, finché la Ragione scende dalla montagna, e mostra agli adoratori il suo grazioso e benevolo aspetto.

Ma a questa festa mancava ancora la Convenzione. Fin dal mattino una deputazione dello spartimento di Parigi erasi recata all'assemblea per invitarla a congiungersi col popolo. Dufournoy, oratore della deputazione, avea detto: «La razza umana s'è finalmente rigenerata; il fanatismo e la superstizione disparvero, e la sola Ragione ha altari, così volendo l'opinione generale. Voi avete decretato che la ci-devant chiesa metropolitana di Parigi sarebbe quindi innanzi dedicata alla Ragione. Noi vi celebriamo una festa in onore di questa divinità-, il popolo vi ci attende, e la presenza della Convenzione è necessaria, affinché questa festa non sia un atto parziale, ma il risultato del voto della Nazione (1)».

E la Convenzione tenne l'invito e stava in sulle mosse, quando venne fermata da un'altra deputazione. Erano i Sanculotti del Vaugirard che venivano a deporre sull'altare della patria l'argenteria della loro chiesa. L'oratore del drappello dice al Presidente: «Da sei settimane i repubblicani che voi vedete alla vostra presenza lavorano per consolidare la libertà, e annichilare il fanatismo. Nello spartimento dell'Oise abbiamo arrestato cento preti e li abbiamo chiusi in Chantilly, dove avranno il tempo di leggere il loto Breviario. Voi vedete su di noi una parte delle spoglie del Vescovo di Senlis. A Lùzarches abbiamo preso 162 marche d'argento; a Senlis ed ai comuni vicini 320; le campane caddero dappertutto dove noi siamo passati. Conduciamo con noi dieci uomini che pagheranno colla loro testa i loro misfatti. Abbiamo trovato due bandiere coperte di gigli d'oro; vi chiediamo la licenza di abbruciarle e di ballarvi intorno la Carmagnola».

L'Assemblea accorda il chiesto permesso, e i Sanculotti si mettono a ballare tra gli applausi dei rappresentanti del popolo. Ma coteste scene fanno perdere molto tempo alla Convenzione, sicchè la lesta della dea Ragione fu terminata prima che i deputati si muovessero dalle loro sedi. Allora Thuriot propose che ciò non ostante la Convenzione si recasse al tempio per cantarvi l'inno della libertà, proposizione che venne tosto accettata. Ma quando gli onorevoli sono per partire, giunge Chaumette, il gran sacerdote della dea Ragione colla sua divinità in carne ed ossa. «Cittadini, egli dice, il popolo ha fatto testé un sacrificio alla Ragione nella ci-devant chiesa metropolitana. Ora viene ad offrirne un altro nel santuario della Legge. Prego la Convenzione di ammetterlo». La Convenzione concede il chiesto favore, e il popolo è introdotto nella sala dell'Assemblea.

Ciò che avvenisse nell'interno di quella sala, e poi di nuovo nella chiesa di Nostra Signora racconteremo in altri articoli. Poiché dopo di averci detto, per mezzo del deputato Petrucelli della Gattina, che il Dio di Pio IX non è il Dio dell'Italia, ci dichiarano che vogliono dare agli Italiani quella dea Ragione che già adorarono i Francesi, è necessario guardarci attorno, ed esaminare ben bene la strada per cui siamo incamminati.

(1) Moniteur, del 10 di novembre 1793.

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Non è pili questione d'Italia, nò questione di Venezia, né questione di Roma: è questione di Dio!

II.

Non è più questione d'Italia, né di Venezia, né di Roma, ma questione di Dio! Così conchiudevamo l'articolo precedente, e dopo d'averlo scritto, uscendo per le vie di Torino, ci risuonò ripetutamente agli orecchi la più feroce ed infernale bestemmia che uscisse dalla bocca dell'empio. Dio falso! Ecco la nuova esclamazione che mandano tra il giuoco anche i bimbi d'Italia! Noi c'imbattemmo in due giovinastri che si stringevano la mano e tra amorevoli rimproveri venivano ripetendo: Dio falso! Ed essendocene lamentati con un amico, ci accertò che era omai bestemmia comune nella capitale del nuovo Regno d'Italia. Ora è che egli mai cotesto se non un distruggere Iddio? Dio è essenzialmente la verità, e gettandogli contro l'aggiunto di falso si offende nel modo più atroce, se ne nega l'essenza, e se fosse possibile, si annienta.

I principii esercitano una grande influenza sul linguaggio popolare, e i principii dì Ila rivoluzione sono la distruzione di Dio e la deificazione dell'uomo e delle sue passioni. In Francia, proclamato l'ateismo, fu adorata la dea Ragione; e in Italia mentre Io scapestrato grida pubblicamente Dio falso, Garibaldi propone all'Inghilterra d'adoperare i suoi buoni uffizi e la sua influenza, acciocchè la dea Ragione ripigli il suo culto. Noi abbiamo cominciato a scrivere la storia di questa Dea, e ci venne detto come il 10 di novembre del 1793 una ballerina fosse posta in Parigi sull'altare del Dio vivente, e nella chiesa della Vergine Immacolata riscuotesse le adorazioni degli uomini. Il nostro racconto di quel giorno così vergognoso per la Francia e per l'umanità, fu condotto fino al momento, in cui la dea Ragione entrava nell'Assemblea legislativa. Ora proseguiamo.

Un corteggio di giovani donne comparisce davanti i rappresentanti del popolo, vestite di bianco, cinte di nastri tricolori, coperta la testa di fiori. Giunte in faccia al Presidente si schierano in cerchio. Entrano gli altri cittadini, e sfilano ripetendo gl'inni in onore della Ragione già cantati poco prima nella chiesa di Nostra Donna. In ultimo comparisce la Dea portata da quattro uomini, e seduta su d'un seggiolone ornato di ghirlande di quercia. Scoppiano gli applausi, si gettano in aria i cappelli ed i berretti, l'entusiasmo è al colmo. Si depone la dea Ragione rimpetto al Presidente, e succede agli applausi un perfetto silenzio.

Chaumette, il gran sacerdote della Dea, prende a parlare in questa guisa: «Cittadini legislatori, il fanatismo ha dato indietro, ed abbandonò alla Ragione, alla Giustizia, alla Verità il posto che occupava. I suoi occhi loschi non poterono sostenere lo splendore dalla luce, ed egli se ne fuggì. Noi ci siamo impadroniti de' suoi tempii, e li abbiamo rigenerati. Oggidì tutto il popolo di Parigi recossi sotto le gotiche volte, dove per sì lungo tempo risuonò la voce dell'errore, che per la prima volta echeggiarono del grido della verità. Là noi abbiamo sacrificato alla Libertà, all'Eguaglianza, alla Natura. Noi non abbiamo pili offerto i nostri sacrìfizi a vane immagini, a idoli inanimati.

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No, si è un capolavoro della natura, che abbiamo scelto per rappresentarla, e questa sacra immagine infiammò tutti i cuori (1)». E continuando tra gli applausi, Chaumette conchiudeva: Non vi ha più altro culto, altra religione infuori della religione della Ragione e del culto della Libertà. Cadete in l'accia d'un gran popolo e del suo augusto senato, cadete o veli della Ragione».

E in così dire il velo che la ballerina teneva sul suo capo cadde, e lasciò vedere le bellezze del suo volto. Allora il presidente della Camera, ch'era il cittadino Lalui, rispose a Chaumette e disse: «L'Assemblea vede colla più viva soddisfazione il trionfo che la Ragiono oggidì consegue sulla superstizione e sul fanatismo. Essa stava per recarsi in massa insieme col popolo nel tempio che voi avete consacrato a questa Dea, per celebrare con lui questa festa augusta e memoranda, ma sono i suoi lavori e il grido d'una vittoria che la ritennero (2)». Dopo le quali parole il deputato Romme domandò che la Dea fosse collocata a fianco del presidente, e Chaumette ve la condusse. Il presidente e i segretari le diedero il bacio fraterno tra le unanimi acclamazioni.

Idolatri del popolo sovrano e dell'opinione pubblica, voi che accordate alle Assemblee quell'infallibilità che negate al Papa, voi che mettete le risposte della plebe sopra le leggi della giustizia e dell'onestà, voi che menate vanto degli applausi della piazza e delle unanimità rivoluzionarie, pensate che una grande città, un gran popolo, una grande Assemblea s'infamò già con queste scene dove non si sa dire se il ridicolo vincesse l'empietà, perché furono sovranamente ed empiamente ridicole.

Terminati i baci fraterni, il deputato Thuriot venne fuori con una proposta, che cioè la Convenzione si partisse sull'istante per recarsi alla chiesa di Nostra Signora a ricominciarvi la festa della dea Ragione. Detto, fatto. Erano le quattro pomeridiane, e ben settecento deputati coperti del rosso berretto si frammischiano alla folla che precede e che segue il carro della Dea. Si traversa Parigi dalle Tuileries a Notre Dame in mezzo alle più frenetiche acclamazioni. La Dea è ricollocata sull'altare e ciascun l'adora. Mentre si compiono queste adorazioni ogni cappella della chiesa diligentemente velata con tappezzerie, diventa un postribolo, «I misteri di Gnido e di Lesbo, dice uno storico, aveano cessato quella volta di venir celebrati nel segreto della notte». Lo stesso Robespierre ne fu stomacato, e dopo il supplizio di Chaumette ebbe a dire: «Questo sciagurato meritava cento morti, non fosse per altro che per le turpitudini permesse in quel giorno (3)». Di fatto, esclama un francese, questo giorno della festa della dea Ragione, questo 10 di novembre 1793, è senza dubbio il giorno più umiliante di quattordici secoli della nostra storia! (4).

Né bastarono le feste di quel luogo o di quel giorno. La signora Momoro fu scelta dal club dei Giacobini e dei Cordiglieri per la chiesa di Saint-André-desArts, e vi rappresentò le parti di Dea, come la ballerina Maillard nella chiesa di Nòtre Dame, In mezzo a un popolo delirante la dea Momoro apparve in abito interamente diafano, portata su di un palanchino.

(1) Moniteur, del 13 di novembre 1793.

(2) Procés verleaux de la Convention, Torà. xxv.

(3) Vedi Hist. Pili, de la Convention, Toro. III, pag. 96; Journal de Pari, Tom. III, pag. 1266; Journal des Révol. de Paris, N° 215.

(4) Gaume, La Révolution Francaise, Tom. n, pag. 31. Parigi, 1856.

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Ducento giovani e vezzose donzelle vestite di bianco, spudoratamente scolacciate, e coronate di quercia, sfilarono davanti a lei. La festa si prolungò per tutta la notte, ed ebbe termine con un banchetto che non si può descrivere (1). Il culto della carne avea preso il luogo del culto di Dio. Ed era una conseguenza naturale della rivoluzione. «La rivoluzione, scrisse Michelet (e fu ben lungi dal dolersene), tornando alla natura ed ai felici e ingenui presentimenti dell'antichità, non esitò a confidare le funzioni più sante a quella che, come gioia suprema del cuore, è essa stessa un altare vivente (2)». E nelle lettere che Garibaldi già scrisse alle donne italiane, e a quelle principalmente di Milano, lasciò prevedere che egli avrebbe saputo trovare molte dee della Ragione.

I fondatori del nuovo culto ordinarono che la festa della dea Ragione fosse celebrata in tutta la Francia, ed anzi composero un eucologio intitolato: Offizio delle decadi, ossia discorsi, inni e preghiere in uso nei Tempii della Ragione, composti dai cittadini Chenier, Dusausoir e Dulaurant. Qui leggesi il Poter, il Credo, il Decalogo repubblicano, che lo nostre scimie rivoluzionarie hanno raffazonato secondo lo stile italianissimo. Qui trovasi un'infame parodia della Santa Messa, coll'introito, coll'epistola, coll'evangelio e coll'offertorio (3). Ed inoltre fu stampato par ordre de la Convention un corso di discorsi per le feste della Ragione, dove è detto della Religione di Cristo: « Cacciamo in bando per sempre questa setta liberticida e i suoi pericolosi partigiani (4)».

II qual grido viene oggidì ripetuto da Garibaldi, e il Diritto dell'8 di ottobre stampa le parole che l'apostolo della dea Ragione, il 4 ottobre scrisse ai buoni Soresini contro i despoti ed i preti. Nel giorno del perdono Garibaldi non perdonava ai preti, e quantunque il nostro Codice penale punisca chi aizza una classe di cittadini contro d'un'altra, nondimeno egli potea, come per ['innanzi, impunemente violare la legge, e mettere al bando della società i sacerdoti di Gesù Cristo.

Ma Garibaldi ed i suoi dovrebbero riflettere che i trionfi dell'empio sono momentanei, e la Francia che per un giorno prostrasi davanti una ballerina, poi sente la sua dignità, ricorda le sue tradizioni, osserva i suoi obblighi, levasi in difesa del Romano Pontefice, e arresta i briachi della rivoluzione, che col nome d'indipendenza in bocca si sottomettono alla doppia tirannia del comando e dell'error forestiero.

(1) Vedi Lairtullier, Femmes Cèlebra, Tom. d, pagine 228, 238.

(2) Michele! femmes de la Remi. pag. 63.

(3) L'introito incomincia cosi: - Descends, 6 Liberto, fille de la Nature. - Le peuple a rcconquis son pouvoir immortel; - Sur les pompeux débris de l'antique imposture, - Ses mains relèvent ton autcl. - Si noti inoltre che quei repubblicani obbligavano all'osservanza delle loro feste. Nei Commandements Réputbblicains leggesi: Ta boutique tu fermeras - Cliaque decade strictement. -

(4) Discours décadaires pour toutes les fétes repubblicaines, par le citoycn Pouttier, députe a la Convention Nationale. - Questi discorsi trovansi annunziati nel Moniteur, del 16 di ottobre 1791.

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RATTAZZI E LA SECONDA NOVARA

(Pubblicato il 18 ottobre 1862).

Quando Urbano Rattazzi fu assunto al ministero, tutti dissero concordemente che il suo nome era di malaugurio, ed una seconda Novara non poteva fallire. Oggidì la rivoluzione considera la caduta di Thouvenel e la nomina di Drouyn de Lhuys come una seconda catastrofe di Novara. Non decideremo se i rivoluzionari abbiano ragione o torto; ma essi sembrano proprio sull'orlo della disperazione.

E per un caso singolare Drouyn de Lhuys, che assume oggi in Francia il portafoglio degli affari esteri, lo teneva anche nel 1849 in occasione della disfalla di Novara, e vivamente ci consigliò, e ci aiutò a stringere la pace coll'Austria. Merita di venire consultato su questo proposito il libro che Leon Menabrea pubblicò nel 1849, d'ordine del ministero, col titolo: Histoire des Négociations qui ont precede le Traile de paix, conclu le 6 aòut 1849, entre S. M. le Roi de Sardaigne et S. M. l'Empereur d'Autriche (Turin, J. Pomba et Comp. 1849).

Il conte Gallina nell'aprile del 1849 fu spedito a Parigi ed a Londra per ottenere che quelle Corti s'interponessero fra noi e l'Austria, acciocché questa ci accordasse la pace a condizioni meno onerose. Il conte Gallina giunto a Parigi ebbe una conferenza col signor Drouyn de Lhuys, il quale, per aiutare il Piemonte, gli propose di fare provvisoriamente occupare Genova dalle truppe francesi. «Noi abbiamo avuto ieri ed oggi (scriveva il conte Gallina nel suo Dispaccio del 29 di aprile 1849) una conversazione col ministro degli affari esteri. 11 gabinetto francese è per ora deciso di rifiutarci ogni soccorso attivo, eccetto l'occupazione di Genova odi un altro punto equivalente del nostro territorio».

E siccome il nostro governo non approvava questo genere di protezione, il signor Drouyn de Lhuys propose l'occupazione della Spezia per mezzo d'una squadra francese, offerta generosissima che venne pur rifiutata (Dispacci del conte Gallina, 18 e 22 maggio 1848). Come si vede, Luigi Napoleone fin dai primi giorni, che comandò in Francia, voleva mostrare al Piemonte il suo affetto col prendersene una parte. Ma non vi riusci che dieci anni dopo, quando l'Italia ebbe la fortuna d'essere governata dal Grande conte di Cavour!

Nei negoziati per istringere la pace coll'Austria il conte Gallina offeriva cinquanta milioni al governo austriaco, ma Drouyn de Lhuys pensava che il totale dell'indennità dovea sorpassare questa somma! (Dispacci del conte Gallina a Massimo d'Azeglio, sotto la data del 12, 13, 14, 13 maggio 1849).

E prima ancora, quando Vincenzo Gioberti fu mandato a Parigi come rappresentante del Piemonte, egli recossi presso Drouyn de Lhuys, e sapete che cosa gli domandò in grazia? Gli domandò che il Piemonte potesse concorrere alla ristorazione pontificia! (Dispacci di Gioberti del 18 e 23 di aprile 1849). Può darsi che Drouyn de Lhuys si ricordi di questa domanda, e la ricordi oggi o domani al gabinetto di Torino. Come? potrebbe dirgli; nel 1849 i vostri ambasciatori si sono presentati a me, ministro degli esteri in Francia, parlandomi della necessità del dominio temporale del Papa, e dell'utile che verrebbe all'Italia dalla sua ristorazione, e supplicandomi di lasciar

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il Piemonte intervenire nell'opera assunta dai Francesi, di ricondurre in Roma il generoso e benefico Pio IX; ed ora questi ambasciatori ritornano a me che ritornai allo stesso ministero, e domandano per l'opposto di consumare la spogliazione del Papa e di toglierle perfino Roma? Che logica, che buona fede, che onestà è mai questa?

Inoltre Gioberti domandò in grazia a Drouyn de Lhuys, che il Piemonte potesse intervenire in Toscana per ristabilirvi il Granduca. «Ebbene, disse Gioberti a Drouyn de Lhuys, supponiamo che il Piemonte intervenga e ristabilisca il Granduca sul trono, non sarebbe questo un vero merito che avrebbe acquistato agli occhi d'Europa? (Dispaccio dell'11 di aprile 1849). Se l' Armonia conosce questi dispacci, e ii conserva ne' suoi libri, vorrete dire che Drouyn de Lhuys li abbia perduti o dimenticati?

In conclusione né il nostro governo permise a Drouyn de Lhuys di fare occupare un punto qualunque del nostro territorio, né la Francia ci consentì d'intervenire in nessuna parte d'Italia. La pace fu fatta coll'Austria ed abbiamo pagato settanta milioni. E l'avemmo in conto di benefizio, giacché il 21 d'agosto 1849 il cavaliere Massimo d'Azeglio scrisse a Drouyn de Lhuys una lettera di ringraziamento per i suoi buoni uffizi.

In un discorso destinato a preparare l'ingresso di Napoleone III in Italia, il conte di Cavour diceva nel 1859, che dieci anni prima Luigi Bonaparte avrebbe vendicato Novara colle armi della Francia, se i capi degli antichi partiti non l'avessero distolto da così nobile disegno. Questa era una satira contro Drouyn de Lhuys, ed oggi lo stesso signore ò nuovamente ministro degli esteri di Napoleone III.

Anche Luigi Carlo Farini, il 20 febbraio 1859, scriveva a lord John Russell, che il presidente della repubblica francese desiderava d'aiutare il Piemonte, «e che venne paralizzato e ritenuto in questa intenzione dalla medesima fazione». Il Farini parlava della fazione, che avea suggerito la spedizione di Roma. E pensare che nell'ottobre del 1862 un membro di questa fusione è tornato ministro di Napoleone III!

Rattazzi adunque ci ha ricondotti ai giorni di Novara, più imbrogliati, più discordi, più indebitati che allora. Il Piemonte non tardò molto a rifarsi di quei rovesci, perché era pieno di vita, pieno di sangue, di quel sangue che gli avea messo nelle vene l'antico governo. Ma l'Italia oggidì trovasi in condizioni ben più deplorabili, né si sa quando avrà pace, nò qual pace; non ha più Nizza, non più Savoia, non più credito, non più amicizie; è divorata dalla rivoluzione, dal brigantaggio, dal latrocinio; ha distrutto gli antichi principii, ha conculcato i trattati, è incalzata dal pugnale, e sente già il bisogno dello stato d'assedio! Povera Italia! Gioberti scrisse di Rattazzi nel 1849 che g iuocò Carlo Alberto. Nel 1802, se vivesse, scriverebbe che Rattazzi fu g iuocato alla sua volta. Ma sono gl'Italiani che pagheranno le spese del tristissimo g iuoco!

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GARIBALDI MARTIRE E LE DONNE MILANESI

(Pubblicato il 31 ottobre 1862).

Alcune donne milanesi si sono pigliato l'assunto di canonizzare Garibaldi, dichiarandolo santo e martire. E nello stesso tempo fecero la propria offerta al loro santo martire in lire seicento. Ed affinché Garibaldi sapesse a quale nuova dignità fosse stato innalzato per decreto donnesco, gli mandarono il relativo diploma col seguente indirizzo che farebbe ridere fino i polli, se non fosse pieno di bestemmie e di sacrileghe frasi, con cui si applicano ad un uomo le parole e i concetti che appartengono a Dio ed alle cose sante. Eccolo.

«Santo martire!

«Fra le trepidazioni dell'anime nostre che vi accompagnavano nell'ardita impresa, fra l'angoscia di vedere fratelli italiani impedire ai nostri cari di raggiungervi a far liberi altri Italiani, quando la notizia della sventura clic vi colpiva ci giunse, noi tutte abbiamo esclamato: «Egli pose la sua vita ad impedire lo spargimento del sangue fraterno!» -il cuore presagiva giustamente, perché giustamente vi giudicava 1

«Nella sciagura d'Italia, dalla vostra indivisa, nella piena del dolore che ci rese finora impotenti a mandarvi una parola, ci rinfranca una sicura speranza.

- Sì, prostrate a Dio, abbiamo compreso che, siccome dalla sua croce il Cristo

redimeva l'umanità, dal suo letto di spasimi l'eroe del popolo redime l'Italia.

«Martire santo!

«L'olocausto de' vostri patimenti, che si ripetono in ogni cuore italiano, l'aureola della sventura che corona le vostre grandi virtù, gridano all'Italia, che la ferita, fatta in voi al cuore della nazione, non può essere sanata che dalia nazione.

«Voi pensate a valervi anche del nostro amore e delle nostre cure per ricuperare prontamente la vostra troppo preziosa salute; e noi, inspirate ad eloquenza dalla commozione che il vostro santo sacrificio c'infonde nell'anima, rivolgeremo i voti di tutti i nostri amati ad aiutarvi, a seguirvi, a far sorgere con voi il dì del trionfo per l'adorata nostra Patria!».

E se non ridi, di che rider suoli?

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L'ULTIMA SETTIMANA DEL MINISTERO RATTAZZI

(Pubblicato il 15 novembre 1862).

Antonio Rosmini Serbati scrisse: Gli ultimi giorni di Felice Robol, e Victor Hugo dipinse le ultime ventiquattr'ore di un uomo condannato a morie. Meno tetro, ma egualmente curioso sarebbe un libro che riferisse i pensieri, le parole e le opere dei nostri ministri, in questa che temono debba essere l'ultima settimana della loro vita politica. Ne diremo noi qualche cosa.

Tutti gli affari dello Stato sono sospesi; oggidì non si bada né a ordine pubblico, né a buon governo, né a retta amministrazione, né alla sicurezza delle città, né all'osservanza delle leggi, né a simili altre bazzecole. Un gran pensiero domina i ministri, e tutta ne assorbe la mente ed il cuore. Che cosa diranno i deputati? Saranno pronti a concederci uno degli ordinari voti di fiducia? Come l'are ad ottenerlo per vivere più lungamente?

In due modi si ottengono i voti di fiducia, recitando discorsi, e procacciandosi amici, ed a ciò sono dedicate tutte le fatiche ministeriali. Si cercano pretesti, si mettono insieme documenti, si preparano storielle, si combinano colpi di scena, grandi sorprese, solenni rivelazioni per convincere i Deputati ed entusiasmare le gallerie. Tutti i precetti dell'eloquenza parlamentare, sono riletti e meditati dai nostri ministri. Oltre il Blair che hanno già studiato nelle scuole, si mettono in corpo la tattica del Bentham e i pamphlets politiques del Cormenin, e scrivono, e cancellano, e recitano, e provano, e si beccano il cervello giorno e notte per conservare il portafoglio.

Isacco Artom, segretario che fu del conte Camillo di Cavour, raccontavaci, mesi la, come quest'uomo di Stato provasse i suoi discorsi alla sua presenza prima di recitarli nelle Camere, e li modificasse a seconda degli effetti buoni o rei che producevano sull'animo del segretario. E prima del conte di Cavour, Molière leggeva le sue commedie ad una vecchia, e ne pesava tutti quanti i movimenti del corpo per conoscere la forza delle sue parole e la bontà de' suoi frizzi e delle sue arguzie.

Ed è facile che Urbano Rattazzi e Giacomo Durando seguano gl'esempi del del loro predecessore, e in questi giorni di pioggia presso al canton del fuoco l'uno si provi a difendere l'impresa d'Aspromonte e l'altro a giustificare la sua Nota circolare. Non sappiamo però chi sra il fortunatissimo Isacco destinato ad udire le primizie dei discorsi ministeriali. Sono certe particolarità che non si raccontano se non dopo la moric dei ministri.

Tuttavia i discorsi sono ben poca cosa pel trionfo del ministero; giacché non esercitano alcuna influenza sul voto dei deputati. Prima che il ministro abbia recitato la sua apologia, il deputato fermò in suo cuore di sostenerlo, o di atterrarlo; e se n'ha prestabilito la condanna, il ministro non vorrà salvo dalla più splendida orazione; come, viceversa, sarà approvato quando pure sdoganasse nella Camera le più marchiane castronerie, qualora il deputato siasi fisso in mente di parteggiare pel ministero.

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Di che opera principale del signor Rattazzi in quest'ultima settimana, si è di guadagnarsi il maggior numero di voti possibile, per ottenere una dichiarazione di fiducia che gli dia la vittoria, e lo conservi al suo posto. 1 voti si ottengono per via di mezzi che si possono dire, e per via di mezzi che si debbono tacere. Taceremo degli ultimi. I primi riduconsi a tre: Il giornalismo, le adunanze, i segreti ministeriali.

Il giornalismo. In questi ultimi giorni i ministri avvertono le loro lancie spezzate che è tempo di mostrare il proprio valore; epperò vedete i giornali ministeriali uscire in panegirici sperticati, in bugie sfondolate, in invenzioni ridicole, in minacce ed in promesse egualmente assurde. Gli uni dicono che il ministero Rattazzi è il solo possibile, gli altri profetizzano che senza di lui l'Italia andrebbe in conquasso; chi ricorda sognati servigi resi alla patria dai ministri, chi mostra i pericoli, a cui siamo sfuggiti per la loro prudenza; e questi vi segnano la reazione che fa capolino, il Subalpino che ride, e l'Armonia che si prepara; e quelli vi additano Mazzini che arriva, Napoleone che parte e ci abbandona, insomma il finimondo. E tra i deputati, non mancano le oche che si lasciano menar a bere.

Le adunanze. Vi sono membri della Camera elettiva che hanno interesse grandissimo alla durata del presente ministero, e costoro raccolgono qua e colà deputati d'ogni maniera e d'ogni colore, espilata qualche bottiglia, tanto per umettare le fauci, tolgono ad istruirli e persuaderli che Rattazzi ha fatto tutto ciò che doveva fare, e che, se essi fossero stati al suo posto, si sarebbero governati egualmente; che non si può dare della testa nel muro, ma bisogna pigliar gli uomini come sono; che guai se il portafoglio non fosse stato nelle mani di ministri così prudenti, savi e sperimentati come sono i nostri; che corremmo gravissimi pericoli; e che in fin dei conti si è omai toccato con mano quanto sieno dannosi i cambiamenti ministeriali, e come caduto un ministero ne venga sempre un peggiore. E i congregati ascoltano, approvano, aderiscono e promettono il proprio voto.

I segreti ministeriali. Finalmente entrano in iscena gli stessi ministri, e con piglio misterioso stringono la mano a questo e a quel deputato, e lasciano andare qualche parola arcana. Poi dandosi l'aria di ammetterli nella loro confidenza dicono così: le nostre cose vanno a meraviglia. Napoleone III ci vuoi servire appunto perché finge d'esserci nemico. Tre anni d'esperienza v'avrebbero dovuto scaltrire e farvi conoscere dove il diavolo tiene la coda. Non badate aHe Note che si pubblicano, né alle notizie che si spacciano. Noi, noi soli sappiamo ciò che bolle in pentola; ma se tradissimo il segreto tutto andrebbe perduto. Che sarebbe stato di Camillo Cavour e di noi se vi avesse spiattellato gli accordi di Plombières? Che avveniva di Cialdini e di Farini se rivelavano il colloquio di Chambéry? Anche Rattazzi ha avuto un colloquio col Bonaparte prima d'entrare al ministero; anch'egli ha in pectore un altro trattato di Plombières. Per carità non ci obbligate a dir di vantaggio; fidatevi di noi, ed approvate di nostra politica, di cui conoscerete più tardi le conseguenze. - E non mancano i deputati che si lasciano accalappiare da queste moine, e hi danno a credere che Napoleone III voglia pel loro conto corbellare mezzo mondo, e giuocarsi definitivamente il trono e la riputazione.

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Di questa guisa altri deputati si guadagnano col giornalismo, altri colle radunanze preparatorie, altri con le confidenze ministeriali, altri co' mezzi che si debbono lacere, e così il ministero pensa di poter sopravvivere alla imminente tempesta. E staremo a vedere se si apponga, o se s'inganni, che quanto a noi osserviamo indifferenti queste lotte parlamentari. Poco ci preme un cambiamento di persone: vogliamo mutati i principii, le dottrine e le opere.

LE INTERPELLANZE BON-COMPAGNI

(Pubblicato il 20 novembre 1862).

Le Camere si sono riaperte il 18; e già il 19 abbiamo nel Senato del Regno le interpellanze di Siotto-Pintor sulla politica generale, e il 20 le stesse interpellanze mosse dal signor Bon-Compagni nella Camera dei Deputati. S'incomincia bene, non è vero?

Parleremo più tardi delle interpellanze Siotto-Pintor. Quelle del Bon-Compagni ci stanno sott'occhio prima ancora che sieno fatte. Esse leggonsi in un libretto intitolato: II Ministero Rattazzi ed il Parlamento del cav. Bon-Compagni, Milano, presso Gaetano Brigola, 1862. Ne daremo un saggio ai nostri lettori. Il Bon-Compagni abbraccia nelle sue interpellanze diciotto questioni.

L'origine del Ministero, Bon-Compagni afferma che Garibaldi protesse a nativitate il ministero Rattazzi, e cita il C. d'Hausonville, il quale nella Revue des Deux Mondes, 15 settembre 1862, pag. 429, scrisse «che pochi giorni innanzi che fosse formata la presente amministrazione, un messaggiere era stato inviato a Caprera per interrogare il generale Garibaldi, se volesse dare il suo appoggio ai nuovi ministri». Dunque voi signor Rattazzi, nato da Garibaldi, rompeste una gamba a vostro padre? Prima interpellanza Bon-Compagni.

I fatti di Sarnico. Bon-Compagni scrive nel suo libretto a pag. 24: «11 ministero fu conscio di una spedizione marittima, che si preparava da Garibaldi. Non volle parteciparvi, ma dichiarò che non poteva impedirla. Mentre il presidente del Consiglio era a Napoli, il generale Garibaldi doveva ricevere una somma. Questi si era obbligato ad agire, secondo la direzione del governo. La spedizione di Sarnico, qualunque si fosse il suo carattere, ebbe occasione dalla spedizione marittima divisata dal generale Garibaldi». Dunque voi, signor Rattazzi, prima promovesse la spedizione di Sarnico, e poi la combatteste? Seconda interpellanza Bon-Compagni.

Il processo pei falli di Sarnico. Bon-Compagni segue a dire che nel suo libretto, pag. 22: «Dopo i fatti di Sarnico il ministro per gli aflari esteri scriveva agli inviati del Re: «II procedimento giudiziario svelerà chi abbia spinti giovani avventati a un tentativo temerario, quale fosse il fine ultimo, a cui si mirasse, se obbedissero, ad un cieco impulso di patriottismo, o se servissero agli occulti disegni di una fazione ostinata, disdetta dall'opinione pubblica, e isolata dall'azione feconda, dall'iniziativa potente del principio monarchico e costituzionale». Quale fu l'esito di quel procedimento?

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Da ragguagli autorevoli seppi che, appena raccolte le prime informazioni, si indettava il ministero pubblico, affinché il processo fosse troncato». Dunque il processo pei fatti di Sarnico fu una commedia? Terza interpellanza Bon-Compagni.

La legge sugli arruolamenti e le società politiche. Bon-Compagni continua a pag. 23: «Il ministero proponeva alla Camera dei Deputati una nuova legge contro gli assodamenti d'uomini, e contro le associazioni politiche che diffondessero principii contrarii allo Statuto Ma non bastava avere proposta questa grave materia alla Camera, occorreva instare che essa ne deliberasse. Proponendo la questione, e facendo poi come se non si curasse la risposta, si teneva in poco conto l'autorità del Parlamento». Dunque signor Rattazzi, voi vi burlaste dei deputali e dei senatori? Quarta interpellanza Bon-Compagni.

Scioglimento della Società Emancipatrice. Il ministero, scrive il Bon-Compagni a pag. 24 «scioglieva la Società Emancipatrice. Provvedimento savio e necessario, ma a cui avrebbe dovuto precedere una deliberazione del Parlamento. Non curando di ottenerla, i ministri mostravano come nelle più gravi emergenze facessero assegnamento sul potere del governo, anzi che sul concorso di quella grande autorità, a cui la loro deve sempre appoggiarsi». Dunque voi, signor Battezzi, non rispettatelo Statuto? Quinta interpellanza Bon-Compagni.

Pallavicino mandato a Palermo. Il Bon-Compagni a pag. 24 domanda: «In qual guisa il governo usò l'autorità del potere esecutivo per mantenere le prerogative costituzionali del Re e del Parlamento? Al governo di alcune provincie dello Stato preponeva degli uomini noti per la loro devozione al generale Garibaldi. Era uno fra questi il marchese Giorgio Pallavicino destinato prefetto nella provincia importantissima di Palermo. Pubblicò egli un opuscolo, il quale accennando come procedesse colà la pubblica amministrazione, giova assai a conoscere il modo in cui si provvedeva al governo della cosa pubblica. Il carattere di quell'onoratissimo gentiluomo, ed il non essersi opposta alcuna negativa alle sue asseverazioni conciliano piena fede alle sue parole. Accennando alla sua nomina, egli spiega quale significazione essa importasse». « Voi tutti conoscevate i principii incrollabili, dai quali mi sarei guidato, accettando l'amministrazione di questa provincia Perché mandare in Sicilia un vecchio rivoluzionario, un amico di Garibaldi?» La sesta interpellanza Bon-Compagni sono queste stesse parole del Pallavicino.

Le contraddizioni in Sicilia. «In Palermo, citiamo il libretto a pag. 25, Garibaldi pronunciava un discorso, in cui l'Imperatore de' Francesi era ingiuriato. Il prefetto stava a fianco del generale, e cinquantamila persone applaudivano freneticamente. Il governo faceva sequestrare i giornali che riferivano il discorso. In che si palesava il pensiero vero del governo? Nell'autorità attribuita al prefetto che con la sua presenza cresceva importanza alle parole di Garibaldi, o nel sequestro?» Settima interpellanza Bon-Compagni.

Lo stato d'assedio in Napoli e Sicilia. « La Costituzione, parla il libretto a pag. 29, promulgata da Luigi Napoleone dopo il colpo di Stato, prescrive (art. 12) che il Presidente della Repubblica, oggi Imperatore, dichiara lo stato d'assedio, ma ne riferisce tosto al Senato.

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Nel regno d'Italia lo Statuto non assicurerà ai popoli nemmeno la libertà del 2 Dicembre?» Ottava interpellanza Bon-Compagni.

9, 10, 11. Tre nuove interpellanze in una sola. «Gli effetti, dice il libretto, pag. 28, dello stato d'assedio corrisposero alle speranze di coloro che ve lo mantennero, e di coloro obese ne rallegrarono? L'imperversare del brigantaggio nelle provincie napoletane, la stampa clandestina, e la società dei pugnalatori in Sicilia, fanno pur troppo dubitare che la cosa sia così». Dunque perché il brigantaggio imperversa a Napoli? Nona interpellanza Bon-Compagni. Perché i pugnalatori regnano a Palermo? Decima interpellanza Bon-Compagni? Perché in Palermo ed in Napoli potè sussistere la stampa clandestina? Undecima interpellanza Bon-Compagni.

12. Aspromonte. L'amicizia con Garibaldi finì a schioppettate», esclama Bon-Compagni a pag. 38; e per duodecima interpellanza forse domanderà se non finiranno egualmente certe altre amicizie grandi o piccole?

13. La prigionia di Garibaldi. « Il generale Garibaldi, dice il libretto, pag. 13, 14, arrestato doveva nelle ventiquattr'ore essere interrogato. Se fosse stato fatto, ritirerei questa parte della mia osservazione. Non lo credo, perché se ne sarebbe parlato. Se non fu fatto, si violarono l'art. 223 del Codice di procedura criminale, e l'art. 26 dello statuto, il quale prescrive che niuno possa essere arrestato se non nelle forme che la legge prescrivo. Perché si violarono queste forme? Decimaterza interpellanza Bon-Compagni.

14. L'arresto di tre altri deputati, e Ci fu un altro caso, continua il libretto, pag. 14, in cui il privilegio dei deputati fu offeso in modo anche più grave, ed è quello degli onorevoli Mordini, Fabrizi e Calvino, che diede luogo ai richiami di molti loro colleghi, anche tra i più dissenzienti dalle opinioni che essi professano. Fu un delitto flagrante quello che diede luogo all'arresto?» Decimaquarta interpellanza Bon-Compagni.

15. L'Amnistia. « Venuta troppo tardi l'amnistia, osserva il libretto a pagina 11, 12, fu indizio d'irresolutezza, più che di forza e di magnanimità. Il ministero cercava quasi col lumicino di Diogene un tribunale innanzi cui tradurre Garibaldi, e non lo trovava. Ora propendeva pel consiglio di guerra, ma sorgevano dubbi, e fondati sulla competenza. Ora preferiva il giudizio del Senato, poi indietreggiava innanzi alla grande solennità di un processo, che avrebbe empito l'Italia della fama di Garibaldi. Poi si volevano i tribunali ordinarii, s'interrogava la Corte di Cassazione di Napoli in modo meno consentaneo alla sua istituzione, poi quella di Milano, e non rispondeva. Dopo tante perplessità l'amnistia comparve». Perché così tardi? Perché a questo modo? Perché dopo tali e tanti fiaschi? Decimaquinta interpellanza Bon-Compagni.

16. Napoleone III e Drougn de Lhuys. «Le speranze, avverte il libretto pag. 38, fondate nell'amicizia intima coll'Imperatore ci condussero a veder entrare nei consigli suoi il politico, che nel 1849 fu più caldo propugnatore dell'occupazione di Roma». Perché questo? Decimasesta interpellanza Bon-Compagni.

17. L'Inghilterra e noi. « I propositi del ministero, dice ancora il 'libretto a pag. 39, in ordine alta politica d'Oriente mirarono probabilmente anch'essi a propiziarci la Francia, e renderci più agevole la via di Roma. Ciò che ne traspirò condusse ad un effetto non buono, cioè ad alienarci l'Inghilterra.

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È questo ciò che risulta da informazioni piuttosto autorevoli». Dunque che cosa faremo noi in uggia anche all'Inghilterra? Decimasettima interpellanza Bon-Compagni. La decimaottavo interpellanza è più che una interpellanza, una solenne confessione. Essa trovasi a pag. 64 e chiude il libretto. «La politica dei presenti ministri, che secondo l'intenzione loro doveva guidarci a Roma (lo riconosco di buon grado), ce ne allontanò più che mai». Così finisce Bon-Compagni, e così termineremo anche noi. Come i salmi finiscono in gloria, così tutte le interpellanze si chiudono con questo ritornello tanto glorioso per Pio IX: A Roma non si va!

SUICÌDIO DEL MINISTERO RATTAZZI

Pubblicato il 2 dicembre, i§62).

Urbano Rattazzi e i suoi colleghi non vollero aspettare d'essere uccisi da un voto della Camera dei Deputati, e dopo aver parlato e straparlato, dopo aver tentato ogni mezzo affine di mettere insieme un po' di maggioranza, dopo di aver compilato e recitato le loro difese, essi stessi fecero la dovuta giustizia dei loro discorsi, delle opere loro e delle loro persone, uccidendosi da sè, e rassegnando le proprie dimissioni nelle mani del Re. Si è questo un procedere affatto nuovo in un governo costituzionale, come di nuovo genere fu la libertà accordata dal Rattazzi durante il suo governo. Se il ministero si riconosceva dalla parte del torto, perché ingaggiar la battaglia? Se avea buone ragioni in mance confidava nel senno de' Deputati, perché fuggire nel fervore della mischia?

Vi hanno sacrifizi che onorano quando sono fatti in tempo, e mostrano che all'ambizione individuale ed al privato interesse va innanzi l'arnor della patria. Ma l'uomo che, dopo d'essersi messo volontariamente negl'imbrogli, non ha il coraggio di subirne!e conseguenze, e per cessare una vergogna si fa saltare in aria le cervella, non fu creduto mai un eroe né al tribunale di Dio, e neppur a quello del mondo. E noi portiamo opinione che s'abbia a giudicare il suicidio del ministero Rattazzi come si giudica il suicidio del banchiere che dopo d'avere pessimamente amministrato, e fallito alla sua parola, e corbellato mezzo mondo, vicino a far bancarotta, si toglie la vita.

Or chi piglierà il portafoglio abbandonato dai suicidi? Dicono che il marchese di Torrearsa fosse chiamato dalla Corona a comporre un nuovo gabinetto, ma viste le immense difficoltà, per togliersi esso pure al pericolo di un suicidio, rifiutasse l'incarico. Aggiungono che in seguito il marchese di Villamarina, che stava prefetto a Milano, e pretendeva insegnare gius canonico a quel Vicario Capitolare Mons. Caccia, fosse egli pure incaricato della composizione di un nuovo gabinetto, e siccome il Villamarina ha gran voglia di diventare ministro, è probabile che si provi per riuscir nell'assunto. Ma riesca o non riesca il gabinetto clic succederà al Rattazzi avrà una vita ancora più breve di questo.

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Le ragioni sono molte. La nostra rivoluzione è poverissima di uomini, e troppi desiderano il portafoglio, e pochissimi se lo meritano. Dall'altra parte l'anarchia è entrata nella Camera dei Deputati, e non v'ha nessun gabinetto che possa ripromettersene un sicuro, franco e leale appoggio. Da ultimo qualunque ministero venga al potere, si pretende da lui ciò che non potrà dare giammai; cioè la conquista di Roma, la pacificazione di Napoli e di Sicilia, la ristorazione delle finanze. Or bene, per non parlare delle altre, queste sono tre grandi impossibilità italiane. È impossibile trovare ministri che mettano il piede nell'eterna città; impossibile trovare governanti che sradichino dall'Italia meridionale quello che chiamasi brigantaggio; impossibile trovare economisti che paghino i nostri debiti, crescano le nostre rendite, diminuiscano le nostre spese, insomma ci salvino dalla bancarotta.

Se Cavour non fosse morto, sarebbe miseramente caduto in faccia alla questione romana, alla questione napoletana, alla questione finanziaria; Ricasoli cadde meschinamente sopraffatto da tutte tre queste questioni; cadde Rattazzi vergognosamente, e cadranno tutti coloro che verranno di poi, si chiamino Torrearsa, o Villamarina, o d'Azeglio, o come volete. Le cose sono giunte al punto che non v'ha più un uomo atto a guidar la barca in mezzo agli scogli di immense difficoltà. La buona fortuna è passata pei rivoluzionari, e toccata la sommità dell'arco, essi debbono declinare. Il moto di declinazione incominciò appunto quando ('. umilio Cavour morì, non perché questi sia morto, come dicono i semplici, ma perché allora, cessata la facile opera della distruzione, incominciava quella difficile anzi impossibile pei rivoluzionari, l'opera della riedificazione.

L'antico ministro degli affari esteri, il generale Giacomo Durando, nel discorso che disse alla Camera dei deputati il 29 novembre, accennò la ragione, per cuj né gli antichi né i nuovi ministri poterono o potranno avere lunga vita. i 1 nostri vecchi progenitori, dicea il Durando, hanno stentato tanti secoli ad avere un territorio largo nulla pili che il nostro Piemonte; i Romani stentarono tre secoli per avere un territorio equivalente appena ad una delle nostre provincie. Ebbene, noi in tre anni abbiamo ottenuto cinquanta volte di più di quello dei nostri progenitori t (Atti Uff, N" 921, pag. 3580).

Ma d'ordinario la durata delle opere risponde al lavoro sostenuto per compierle. I fiaschi si fanno con un soffio, e si rompono con un semplice urto, ed è molto tempo che Torquato Tasso cantò:

Che a voli troppo alti e repentini

Sogliono i precipizi esser vicini.

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IL TESTAMENTO DI RATTAZZI

DAVANTI LA CAMERA DEI DEPUTATI

(Pubblicato li 4 dicembre 1862).

Urbano Rattazzi prima di strozzarsi davanti alla Camera de' Deputati, nella tornata del 1° dicembre, volle fare il suo testamento, e dichiarando quali fossero i suoi intendimenti se non l'avessero obbligato a rinunziare al portafoglio, veniva indirettamente a dire che cosa dovessero fare i suoi successori, e lasciava loro gli ultimi avvisi di un moribondo. Raccogliamo dagli Atti Ufficiali, N» 926, pag. 3597, questi avvisi e questo testamento, che a suo tempo ci serviranno contro i morti e contro i vivi.

Il signor Rattazzi prese dapprima a scusarsi, che la Camera avesse fatto poche leggi, e mostrò che la colpa non era sua, o almeno i non potrebbe ricadere unicamente sul ministero». Imperocchè al ministero «incumbeva soltanto l'obbligo di presentare progetti di legge, e di fare istanza presso il Parlamento onde si campiacesse di esaminarli e di approvarli, o modificandoli interamente, o accettandoli com'erano presentati». E quanto al presentare progetti, la coscienza dicea al signor Rattazzi com'esso avesse fatto il suo dovere. Di che lasciava per testamento alla Camera che non si perdesse in tante parole, ma approvasse un maggior numero di leggi.

Riguardo alla parte amministrativa, diceva il signor Rattazzi, «credo che il ministero abbia compiuto l'ufficio suo». E soggiungeva: «Certo avrebbe potuto e dovuto fare di più, se le condizioni del paese fossero state tali che gli avessero lasciato più libero campo di occuparsi della parte amministrativa; ma in mezzo alle grandi commozioni politiche, quando si tratta di salvare l'ordine e di comprimere le insurrezioni, è assai difficile che il ministero possa avere il tempo e la quiete per occuparsi più particolarmente di ciò che si riferisce all'amministrazione. Ad ogni modo, o signori, noi crediamo di avere nell'amministrazione l'atto quanto era umanamente possibile. E quando un ministero ha fatto ciò che era umanamente possibile, chi potrebbe pretendere di più?

Il bisogno di salvare l'ordine e di comprimere le insurrezioni impedirono fra le altre cose al ministero Rattazzi di occuparsi delle finanze. Se esso non fosse stato costretto ad uccidersi, se ne sarebbe occupato in questo scorcio di sessione; laonde lasciava per testamento quest'incarico a' suoi eredi. Ecco le parole del Rattazzi su questo punto della massima importanza:

«Era nella nostra intenzione di occuparsi seriamente in questo scorcio di Sessione di ciò che avea particolarmente tratto all'amministrazione delle finanze; poiché, o signori, malgrado che in tutto il corso di questa lunga discussione non si sia fatto una parola, come lo avvertiva testè il mio collega delle finanze, sopra questo argomento gravissimo, tuttavia uopo è confessare che questa è la parte più importante, verso la quale debbono essere diretti tutti i nostri sforzi, poiché non ci sarà modo, o signori, che si possa ordinare regolarmente l'amministrazione interna, non sarà fattibile che possa l'Italia raggiungerei suoi destini, se le nostre finanze non ricevono un assetto stabile e regolare.

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Era dunque, lo ripeto, pensiero principalissimo del ministero di presentarvi progetti relativi alle finanze, coi quali si potesse grandemente diminuire, se non far cessare interamente, il disavanzo che pesa sopra le finanze stesse».

Con ciò Urbano Rattazzi lasciava per testamento ai deputati ed a' suoi successori d'occuparsi seriamente delle finanze; li flagellava assai forte, perché essi, incaricati in ispecie di sopraintendere alla buona amministrazione della pubblica pecunia, rivedendo le buccie al ministero non avessero detto una parola su quest'argomento gravissimo; li avvertiva che l'erario era la parte più importante della politica, perché senza danari a Roma non si ya, Venezia non si piglia, Napoli non si pacifica, e quasi quasi non si resta neppure a Torino; e affidava ai ministri successori l'uffizio di grandemente diminuire il disavanzo che pesa sulle finanze stesse. Oh poveri eredi! Stanno freschi!

E siccome al momento della morte le cose si veggono nella loro realtà, così Rattazzi, sebbene avesse speso un numero senza numero di milioni, e presentato alla Camera centinaia di decreti di spese nuove, e spesa maggiori, predicava sul finire della vita la diminuzione del disavanzo ch'egli avea grandemente aumentato! Ed inoltre lasciava per testamento alla Camera di non occuparsi di questioni politiche, ma di materie economiche. «Io avrei desiderato, dicea Rattazzi, che la Camera si occupasse particolarmente di questa materia, e non si trattenesse continuamente sopra le quistioni politiche, poiché, sebbene esse siano di competenza del Parlamento, tuttavia tutte queste discussioni ordinariamente non servono che ad inasprire gli animi, e sono ben lungi dal fare il vero interesse del paese. Quando gli animi sono scossi dalle discussioni politiche, egli è difficile che si possano rivolgere attentamente agl'interessi veri e reali del paese, a quegli interessi, cui più specialmente le popolazioni intendono l'animo. Il volersi occupare esclusivamente delle questioni politiche, lasciando in disparte i veri e reali interessi del paese, gl'interessi amministrativi e finanziari, fu sgraziatamente ciò che rese impopolari le assemblee della monarchia di luglio, e che fece sì che quella dinastia dovette perire» .

Quante satire, quanti epigrammi in queste poche parole! In sostanza Rattazzi ha detto ai deputati che cianciarono troppo, che contribuirono ad inasprire gli animi, e che non si occuparono del vero interesse del paese. E ribadì questo punto del vero interesse del paese dimenticato dai deputati, e conchiuse con un solenne avvertimento dato non solo all 'assemblea, ma anche al|a dinastia. Oh meditiamo sul detto di Urbano Rattazzi che presso-a morire ricorda ciò. che rese impopolari le assemblee della monarchia di luglio, e fece perire quella dinastia!

In forma poscia di desiderii Urbano Rattazzi legata alla Camera ciò ch'essa doveva fare in avvenire: «Io avrei dunque desiderato che nello scorcio di questa Sessione la Camera si fosse particolarmente occupata di questi oggetti importantissimi; che avesse rivolto anche la sua attenzione sopra il bilancio, che avesse proposto tutti quei risparmi che le fossero sembrati convenienti: che avesse dato al governo tutte quelle direzioni e quelle norme che fossero più opportune a mettere in buon assetto le nostre finanze.

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Era pur mio desiderio che, se non nel corso di questa Sessione, almeno in quella che sarebbe prossimamente succeduta, si fosse la Camera occupata dell'ordinamento dell'amministrazione interna. Vi sono ancora alcune provincie, le quali non hanno le stesse leggi: vi è la Toscana, la quale è regolata con leggi interamente dissimili da quelle che sono in vigore nelle altre provincie italiane.

< Ma di più; la legge del 1859, quantunque ispirata, mi sembra, a principii liberali e fondata sopra il sistema del discenti-amento, tuttavia, io stesso che ne sono autore, riconosco che non può in ogni sua parte essere applicata al regno italiano, lo riconosco che parecchie sue parti devono essere radicalmente mutate, onde con esse si possa governare con vantaggio anche tutte le altre provincie italiane. Era quindi, ripeto, mia intenzione di pregare la Camera, affinché principalmente sopra questa parte volgesse la sua attenzione; e molti altri ancora erano gli argomenti, dei quali avrei desiderato che la Camera si occupasse, sia per svolgere le nostre industrie, sia per dare una buona spinta al commercio».

Ma... ma... il povero Urbano Rattazzi doveva morire, e lasciava alla Camera i suoi desiderii. I quali desiderii riuscivano ad una critica sanguinosa del governo, avvegnaché si desideri ciò che manca. E all'Italia mancano danari, manca un buon bilancio, manca una buona direzione, manca l'ordinamento dell'amministrazione interna, manca l'uniformità delle leggi, mancano buoni provvedimenti sulle industrie, manca una buona spinta al commercio, ed ha leggi, che sebbene datino dal 1859, vogliono però essere radicalmente mutate.

Dalla politica interna Urbano Rattazzi passava all'estera, e qui pure faceva il suo testamento. Il moribondo prese a dire: «Noi fummo sinceramente amici ed alleati alla Francia; lo fummo per un sentimento di gratitudine verso quella grande nazione che ha versato il suo sangue sui campi di battaglia per la nostra indipendenza, e non crediamo, o signori, che la riconoscenza sia soltanto attributo degl'individui, ma debba, pur essere un sentimento delle nazioni. Fummo sinceri alleati e amici della Francia, poiché crediamo che l'alleanza francese, fondata sulla comunanza degl'interessi di quella nazione cogli interessi d'Italia, sia quell'alleanza, la quale abbia più solide e più sicure basi. Ma, signori, mentre noi ci proponevamo di essere sinceramente amici ed alleati colla Francia, con questo non intendevamo di essere ad essa servili».

Il signor Rattazzi, dopo di essere nato ministro a Parigi, dopo di avere lustrato cento volte gli stivali a Luigi Napoleone, presso a tirar le cuoia, faceva alto d'indipendenza! E non voleva neppure chiedere Roma alla Francia: «Noi, o signori, non intendiamo di chiedere alla Francia che ci dia Roma; ciò non possiamo, né vogliamo, perché Roma non appartiene alla Francia, ma all'Italia (tirato! Benissimo! - Sensazione)» .

Dopo tante note, dopo tanti dispacci, dopo tante missioni ordinarie e straordinarie, dopo avere detto cento volte a Napoleone III: dateci Roma, fogliamo Roma, abbiamo bisogno ili Roma, Rattazzi osava conchiudere: Noi non intendiamo di chiedere alla Francia che ci dia Roma!».

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Tuttavia il moribondo confessava che molle e mollo gravi difficoltà si presentano per ottenere Roma; come molti e molto gravi ostacoli si oppongono al nostro ordinamento interno. E dopo avere toccato che noi ci troviamo in quella stessa condizione, in cui versava nel 18527 Parlamento subalpino, vale a dire, dopo il famoso colpo di Stato del Due Dicembre i 851, il signor Urbano Rattazzi tirava giù parecchi calci ai suoi avversari della destra e della sinistra che cospirarono a' suoi danni. «Colle coalizioni, esclamava Rattazzi, colle coalizioni, signori, si pervertisce il sentimento popolare, si creano gli equivoci!».

Dopo queste parole, Urbano Rattazzi si uccideva davanti alla Camera, e lo spettacolo della sua morte vuoi essere descritto secondo la relazione ufficiale.

FUNERALI DEL MINISTRO RATTAZZI

(Pubblicato il 4 dicembre 1862).

Ci par bene di togliere dagli Atti Uff. della Camera, N» 926, pag. 3598, i funerali che i Deputati fecero al ministro Rattazzi. poiché questi si dichiarò morto, Bon-Compagni ritirò le sue interpellanze. Allora nacque la seguente conversazione.

Presidente. Le interpellanze Bon-Compagni sono ritirate. Ora io dipendo dagli ordini della Camera. Voci. Si passi all'ordine del giorno.

Presidente. La parola spetta al deputato Finzi per una mozione d'ordine.

Musolino. Chiedo di parlare per una mozione d'ordine.

Presidente. La parola per una mozione d'ordine fu chiesta molto prima di lei dal deputato Finzi, che venne ad inscriversi nel banco della presidenza.

Pinzi. Le ultime parole del presidente del Consiglio... (Rumori e voci: Le ha ritirate! La cosa è finita!).

Presidente del Consiglio. Scusi un momento...

Finzi. Stia tranquillo, ho raccolte le sue parole, e le ho raccolte in modo...

Presidente del Consiglio. Ma permetta un momento, mi lasci rettificare. Nel momento stesso che mi sfuggiva la parola sleali , dichiarai di correggermi e di dire avversari più generosi e più giusti. Dunque none il caso... Voci Sì! sì! Basta!

Finzi. Ed io non intendo per questo di essere meno giusto e men generoso, malgrado che io mi vanti d'essere stato attivo avversario del ministero. Tuttavolta è lontano dall'animo mio di gettare una pietra su chi cade, ed ora, o signori, se non ha luogo e non può aver luogo un voto di sfiducia contro il ministero dimesso, panni che possa e debba aver luogo un voto il quale comprenda il senso di una lezione... (Rumori generali}.

Boggio. Domando la parola.

Crispi. Domando la parola.

Lazzaro. Domando la parola.

Finzi... di alta moralità politica al paese; un ordine del giorno insomma che sia atto àd inspirare nel paese nuova e più vigorosa fede nelle istituzioni che possediamo, e di cui dobbiamo essere ognora gelosi custodi...

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Predominato da quest'idea, io vi propongo il seguente ordine del giorno, che spero tornerà gradito ad alcuno. (Bisbiglio). Permettetemi di leggerlo e mi tengo per abbastanza giustificato in presentarlo: «La Camera. sempre confidente nell'efficacia delle libere istituzioni consacrate dallo Statuto, e ferma a volere inviolate le prerogative della Corona e del Parlamento, passa all'ordine del giorno». [Vivi rumori}.

Presidente. Se si propongono ordini del giorno motivati prima di tutto debbo chiedere se sia appoggiato l'ordine dei giorno puro e semplice, già proposto dal deputato La Farina.

Finsi. Quest'ordine del giorno propongo come riassunto di tutto quello che si è passato in questa discussione.

Presidente. A termine del regolamento l'ordine del giorno puro e semplice, qual fu proposto dall'onorevole I^a Farina, ha la precedenza; perciò domando se è appoggiato. (È appoggiato).

Presidente. Pongo ai voti l'ordine del giorno puro e semplice. . . (Voci. No! no! (Rumori).

Salvagnoli. Le interpellanze sono state ritirate dall'onorevole Bon-Compagni, l'ordine del giorno puro e semplice proposto dall'onorevole La Farina era relativo a quelle; quindi non abbiamo più da votare nessun ordine del giorno relativo alle interpellanze. Voci. È vero! è vero! Rumori).

Presidente. Siccome v'hanno altri deputati che hanno inviate le loro proposte al banco della Presidenza, e l'onorevole La Farina non ha ritirato l'ordine del giorno puro e semplice, a me non ispetta di chiudere senz'altro la discussione.

Molti deputati a sinistra. Domando la parola.

Presidente. Se prosegue la discussione sull'incidente, la parola spetta al deputato Broglio. (Nuovi rumori).

La Farina. Ritiro l'ordine del giorno puro e semplice da me proposto. (Segni di approvazione).

Presidente. Essendo ritirato anche l'ordine del giorno puro e semplice, la seduta è levata, e i signori deputati saranno convocati mediante avviso al loro domicilio in Torino. (Applausi).

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DELIBERAZIONI DELLA PRIMA LEGISLATURA

DEL REGNO D'ITALIA

I Lettori di queste Memorie troveranno utilissimo un cenno sulle principali deliberazioni dei Deputati del Regno d'Italia, cominciando dal 1861 fino al 1865, cenno che noi leviamo dagli Atti Ufficiali della Camera.

TORNATA DEL 11 MARZO 1861 È all'ordine del giorno la discussione sullo schema di legge riguardante il titolo di Re d'Italia da assumersi da Vittorio Emanuele II.

Articolo proposto dal Ministero e dalla Giunta: «II Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia».

Parlano contro gli onorevoli Brofferio, Ricciardi e Bixio: - Brofferio in nome della sinistra propone: - «V. Emanuele. li è proclamato dal popolo italiano per se e i suoi successori, primo Re d'Italia». - Sulle osservazioni degli on. Pepoli e Ranieri, e sulle assicurazioni del ministro Cavour, che la più ampia discussione avrà luogo quando sarà presentata la logge per la intestazione degli atti pubblici, l'autore ritira la proposta. - L'on. Ricciardi a sua volta propone: «La Camera invita il Ministero a presentare al più presto la legge per la intestazione degli atti pubblici, nella quale sia data a V. Emanuele la designazione di primo re d'Italia per la volontà nazionale, e passa all'ordine del giorno». - Ripetute e svolte le medesime assicurazioni, il proponente ritira il suo ordine del giorno- La proposta del Ministero è votata ad unanimità per alzata e seduta.

TORNATE DELLI 25, 26 e 27 MARZO 1861. - Interpellanza dell'on. Audinoy sulla quistione di Roma.

L'interpellante riassume il suo discorso con domandare al Ministero schiarimenti sulle voci corse intorno a negoziazioni intavolate con Roma, e pratiche fatte o da farsi per ottenere l'applicazione del principio del non intervento. In fine quale sia la linea di condotta che s'intenderà seguire in questo supremo argomento. - 11 ministro Cavour, presidente del Consiglio, comincia con affermare che «senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire. - Necessità riconosciuta e proclamata dalla intera nazione». - Sostiene che si debba anelare a Roma a due condizioni: di concerto colla Francia, e senza che la riunione di questa città al resto d'Italia possa essere interpretata dai cattolici del mondo il segnale della servitù della Chiesa. - Pepoli appoggia il Ministero con un suo ordine del giorno di piena fiducia. - Bon-Compagni termina il suo discorso col seguente voto:

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- «La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confidando che, assicurata la indipendenza, la dignità e il decoro del Pontefice, e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo, di concerto colla Francia, l'applicazione del principio del non intervento, e che Roma, capitale acclamata, sia resa all'Italia; passa all'ordine del giorno». - Cavour l'accetta in nome del. Ministero, respingendo lutti gli altri.

Parlano contro il potere temporale, e l'intervento francese: - Marliani, Ferrari, Chiaves, Bertolami, Petruccelli, Regnoli, Ricciardi, Leopardi, Macchi, D'Oria, Turati. - Croco Antonio presenta un voto motivato in cui s'invita il Ministero ad invocare, in nome della nazione, da Napoleone III lo sgombro delle truppe francesi dalla provincia romana. - Ricciardi propone il seguente: - «La Camera persuasa profondamente, al pari d'Italia tutta, la sede del Parlamento e del Governo italiano dover essere in Roma, afferma innanzi al mondo questo solenne diritto, e passa all'ordine del giorno». - Fanno somiglianti proposte diversamente formulate: - Turati, D'Oria, Macchi, Petruccelli, Dopo il discorso del ministro Cavour, e le date assicurazioni, tutti ritirano i rispettivi ordini del giorno. - Mellana dichiara di astenersi dal votare l'ordine del giorno Bon-Compagni perché crede un errore gravissimo lo inscrivervi le parole d'accordo colla Francia. - La Camera approva a quasi unanimità la proposta Bon-Compagni per alzata e seduta.

TORNATE DELLI 2, 3, 4, 5 e 6 APRILE 1861. - Interpellanza del deputato Massari intorno all'amministrazione napoletana, e del deputalo Paternostro sull'amministrazione siciliana.

Parlano sull'am. napoletana Massari, Ricciarcli, Miceli, Mazziotti, Greco, Cardenie, Valenti, Sciatola, Petruccelli, Nicolucci, Ferrari, Mellana. -Parlano sull'am, siciliana, Paternostro, Bertolami, Amari, Bruno, Ugdulcna, Crispi.

Presentano voti motivati.

Ricciardi: con invitare il M. 1° ad introdurre la moralità nell'amministrazione; 2e ad attivare al possibile le opere pubbliche di ogni maniera. - Miceli: con invitare il Governo di dar termine al disordine ed alto scontento, reintegrare la giustizia, e soddisfare pienamente i voti della nazione. - Ferrari: con domandare una inchiesta sull'amministrazione del Governo. - Brofferio: con invitare il M. a secondare lo slancio nazionale, addottando una politica che, con le armi, le leggi e la unificazione del partito liberale, svolga e promova il movimento italiano.

Petruccelli: con domandare la unificazione del governo delle provincie meridionali, e l'abolizione della Luogotenenza.

Minghetti, ministro per l'interno, risponde alle interpellanze.

Schiarimenti e dichiarazioni di Perirai, ministro dei lavori pubblici -, di Natoli, ministro per l'agricoltura e commercio, e di Cassini, ministro di grazia e giustizia.

Parlano a favore del M.

Scialoia, De Blasiis, Castellano, Ranieri, Mamiani, Piria, Torrearsa.

Presentano voti motivati.

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De Blasiis: confida che il M. riordinerà l'amm. delle province meridionali, ecc.

Castellano: confida nelle dichiarazioni del M, e domanda la presentazione degli atti dittatoriali e delle Luogotenenze.

Pantaleoni, Sacchi, Marlinni, Pepoli, Borgatti si dichiarano soddisfatti delle spiegazioni date dal Ministero.

Proposta di 38 deputati: La Camera prende atto delle dichiarazioni del M. e però, confidando ch'esso prenderà i provvedimenti più capaci di accelerare l'unificazione amministrativa delle provincie meridionali, ed insistendo sulla pronta ed efficace pubblicazione delle misure dal G. promesse circa la sicurezza pubblica, la esatta osservanza della legge ed i lavori pubblici, passa all'ordine del giorno. È firmata dagli on. Fabrizj, Alfieri, Bertolami, Caracciolo, Oldofredi, Massari, Bon-Compagni, Reuli, Paternostro, Baldacchini, Scrugli, Bonghi, Compagna, Tommasi, Del Drago, Assanti, Urbani, Mamiani, Poerio, Spinelli, Conforti, Devincenzi, Piria, Ciccone, Serra, Barracco, DeBIasiis, Falconcini, Bubani, Mezzacapo, De Donna, Mazzarella, Cepolla, Mazza, Mayr, Rendina, Creila.

Ranieri: Nella sua proposta dichiara che «i momentanei mili che ora affliggono le provincie meridionali, derivano in massima parte, piuttosto dalle necessità storielle del laborioso passaggio dalla infermità della separazione, alla salute dell'unità, che dalla volontà degli uomini governativi e governanti».

Di Torrearsa propone: «La Camera, ritenute le spiegazioni del Ministero, e confidando sulla esatta osservanza delle leggi nelle provincie napoletane e siciliane, passa all'ordine del giorno».

Mamiani, in nome dei 38 deputati segnatarii del suddetto ordine del giorno propone di aggiungersi a questo di Torrearsa, le su menzionate parole: «o confidando ccc.

Il Ministero accetta l'ordine del giorno Torrearsa con l'aggiunta.

La Camera approva per alzata e seduta a grande maggioranza.

TORNATE DELLI 16 e 17 APRILE 1861. - Discussione della proposta di legge per l'intitolazione degli atti pubblici - Articolo unico: e Tutti gli atti che debbono essere intitolati in nome del Re, lo saranno con la formolo: Vittorio Emanuele II per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d'Italia».

Contro la formola proposta parlano: - Ferrari, Miceli, Petruccelli, Varese, d'Oria in merito, Ruggiero, Crispi:

A favore: Ministro, Natoli, Bertolami, Boggio, Carutti, Ministro Guardasigilli, Macchi.

Emendamenti: Ruggiero: Vittorio Emanuelc Il, per la grazia di Dio e per volontà della nazione Re d'Italia, ecc, - D'Ondes Reggio: V. Emanuele, per la grazia di Dio ecc. - Miceli: V. Emanuele per volontà della nazione, Re d'Italia una e indivisibile - Macchi: Vittorio Emanuele Re d'Italia. - La propc-sta della legge ministeriale, già sancita dal Senato, è approvata a scrutinio segreto con voti 173 contro 58.

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TORNATE DELLI 18, 19 E 20 APRILE 1861. - Interpellanza di Bettino Ricasoli sull'Esercito meridionale dei volontarii comandati da Garibaldi, e indi sciolto.

Parlano pei volontarii. - Ricasoli, Garibaldi, Crispi, Casaretto per la ricognizione dei gradi conferiti nell'esercito meridionale, Cadolini nello stesso senso.

Romano Liborio in difesa dell'esercito napoletano egualmente misconosciuto dal Ministero: Bixio, Mellana.

Garibaldi: «La Camera, persuasa che nella concordia dei partiti, e nell'osservanza delle leggi sta la forza della nazione, esprime il voto che il M. tenendo conto dello scrutinio operato dalla Commissione, riconosce la posizione degli ufficiali dell'esercito meridionale in forza dei decreti dittatoriali, e lasciando al M. stesso la chiamata dei volontarii quanto prima lo troverà opportuno, metta in attività i quadri dello stesso esercito in quel modo che meglio giudichi, e passa all'ordine del giorno».

Pace: La Camera, con6dando che il ministro della guerra, di concerto col generale Garibaldi, organizzerà al più presto l'esercito meridionale in settimo corpo d'armata, dichiara quell'esercito benemerito della patria, ed il suo illustre Generale degno di riconoscenza.

Conforti, Bixio, Mellana, Crispi, Ugdulena, appoggiano il voto motivato di Garibaldi. - Fanti ministro della Guerra risponde all'interpellanza. Cavour, presidente del Consiglio risponde a Garibaldi.

Voto di fiducia di Ricasoli: «La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, persuasa che la franca attuazione del decreto degli 11 aprile, sulla formazione dei volontarii in corpo d'armata, mentre provvederà convenientemente alle sorti del valoroso esercito meridionale, varrà ad accrescere in modo efficace le nostre forze, e sicura che il Governo darà opera all'armamento e alla difesa della patria, come a lui solo spetta, passa all'ordine del giorno».

Cugia parla in appoggio della proposta Ricasoli.

Il Ministro Cavour non accetta la proposta di Garibaldi, e si dichiara per quella di Ricasoli.

Votazione per appello pubblico ed approvazione della proposta Ricasoli, 194 i contro 79.

Votano contro. - Amari, Assanti, Berti-Pichat, Bianchi, Bixio, Braico, Brofferio, Cadolino, Calvino, Casaretto, Caso, Castagnola, Castellano, Cepolla, Cipriano, Cognata, Colucci, Conforti, Corico, Cosenz, Costa, Crispi, Cuzzetti, DèCesaris, Del Drago, De Luca, De Prctis, Doria, Fabbricatore, Ferracciù, Ferrari, Fiorenzi, Giunti, Greco, La Masa, Levi, Libertini, Macchi, Mngaldi, Maresca, Matina, Mazzarella, Mellana, Mezzacapo, Miceli, Moda, Molfini, Morelli, Mosca, Musolino, Napolitano, Pace, Palletta, Pepoli G., Petruccelli, Pica Plutino Polsinelli, Folti, Positano, Ranieri, Regnoli, Ricci Giov., Ricci Vincenzo, Romano L., Romeo Stef., Ruggiero, Salaris, Somma, Saracco, Schiavoni, Spinelli, Turati, Tuvisi, Ugdulena, Valenti, Vischi, Zanardelli.

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Votano a favore. - Acquaviva, Agudio, Airenti, Alesia, Albicini, Alteri, Allievi, Amicarelli, Andreucci, Antinori, Arconali, Atenolfi, Audinot, Barracco, Beltrami, Berardi E., Berardi T., Bertea, Bertolini, Bertolami, Bianchieri, Biancoli, Bichi, Boggio, Boldoni, Bonghi, Borgatti, Borromeo, BorBarelli, Brani, Briganti, Broglio, Brunetti, Bruni, Bubani, Baracca, Gagnola, Camozza, Canestrini, Cantelli, Capriolo, Caracciolo, Carafa, Cardenie, C»rulli, Cassinis, Castelli, Castromediano, CavourCamillo, Cavour Gustavo, Chiapusso, Chiavarina, Chiaves, Cocco, Colombano, Compagna, Conti, Correnti, Crea, Cucchiari, Cugia, Danzetta, Deandreis, De Blasiis, De Donno, Del Re, Dei Pazzi, De Vincenzi, Dino, Di Torrearsa, Dorucci, Fabrizj, Falcone-ini, Farini, Fenzi, Gadda, Galleolti, Gallenga, Ghepardi, Gigliucci, Ginori, Giovio, Grandi, Grassi, Grattoni, Creila, Grillenzoni, Grixoni, Guerrieri, Guglianelti, lacampo, lacini, La Farina, Lanza, Leo, Leopardi, Luzi, Macciò, Mai, Maiorana Malenchini, Malvagi, Mamiani, Marliani, Marlinelli, Massa, Massarani. Massari, Mail. 'i, May, Mazza, Mazziotti, Melegari L., Melegari A., Menichetti, Menotti, Miglietti, Minghclti, Mirabelli, Mischi, Monti, Monticeli), Moraridini, Morelli G., Moretti, Morini, Mureddu, Musumeci, Negrotto, Nicolucci, Oldofredi, Oytana, Panalloni, Pantaleoni, Parenti, Pasini, Paternostro, Pelosi, Pepoli Carlo, Persano, Peruzzi, Pescelli, Petitli, Pellinengo, Pezzani, Pivoli, Poerio, Possenti, Proto, Raeli, Rendina, Restelli, Ribolli, Ricasoli Bellino, Robecchi Gabriele. - Sprovieri, assenle nella votazione, dichiara che avrebbe votato contro. - Romeo P., Rorà, Rovera, Ruschi, Sacchero, Secchi, Saladini, Salomone, Sanguinetti, Scalini, Schininà, Scialoia, Serra F., Serra P., Sgariglia, Silvani, Silveslrelli, Sinibaldi, Solaroli, Tari, Tesla, Tenca, Tonelli, Tonello, Torelli, Torre, Torrigiani, Treizi, Urbani, Varese, Vegezzi Zav., Verdi, Viora, Visconti Venosta, Zambelli, Zanolini. - Si astengono dal volo Garibaldi, Pisani, Salvoni, Tecchio, Toscanelli.

TORNATE DELLI 26 GIUGNO E SEGUENTI 1861. - Progetto di legge per un prestito di 500 milioni.

Parlano contro. - Minervini, Ferrara, Guerrazzi, Crispi, Musolino, Mordini.

- Parlano a favore. - Pepoli, Massari, Boggio, Cini, Cordova, La Farina.

- Approvato con voti 242 contro 14.

TORNATA DEL 1 LUGLIO 1861. - Petizione di alcune migliaia di cittadini pel ritorno in Patria di Mazzini.

Parlano per l'urgenza. - Brofferio, Crispi, Bixio, Saffi. - Contro l'urgenza.

- Il presidente del Consiglio Ricasoli, Lanza, Chiaves. - Si passa all'ordine del giorno sulla proposta del deputalo Capone.

TORNATA DEL 12 LUGLIO 1861. - Interpellanza del deputalo Romano Liborio su di alcuni atti della Luogotenenza Napoletana.

Richiami e istanze del deputato di San Donato sulla conditone degli ufficiali appartenenti al disciolto esercito delle due Sicilie. - Parlano contro il Ministro. - Romano, S. Donato, Ricciardi, Macchi, Mellana, Polsinelli. -

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Spiegazioni dei ministri per le finanze, per l'agricoltura e commercio e per l'interno. - Il presidente del Consiglio per le cose della guerra. - Vegezzi Zaverio pel Ministero. - Chiave» propone l'ardine del giorno puro e semplice. - Pica propone il seguente voto di fiducia: «La Camera, intese le dichiarazioni del Ministro confida ch'esso procederà con tutti i mezzi legali al ristabilimento della pubblica sicurezza nelle provincie meridionali». - La Camera adotta l'ordine del giorno Pica.

TORNATE DEL 2 ALL'11 DICEMBRE 1861. - Interpellanze, e discussioni sulla quistione romana e sulla condizione delle provincie meridionali.

Contro l'operato del Ministero, parlano: - Sulla quistione romana - Ferrari, Musolino, Brofferio, Petruccelli. - Sulla condizione delle provincie napoletane - Ricciardi, Zappetta, Mandoj Albanese, San Donato. - Per la Sicilia - Crispi. - Sul cattivo sistema governativo, Bertani, Mancini, Mellana, Miceli. Pel Ministero parlano - Alfieri, Massari, Rattazzi, Bon-Compagni, Caruiti, Spaventa, De Cesare. - Particolarmente De Blasiis, pel napoletano, D'Ondes per la Sicilia, Panattoni per Roma. - Ordine del giorno di Bon-Compagni a favore del Ministro. - «La Camera conferma il voto del 27 marzo che dichiara Roma capitale d'Italia, e confida che il governo darà opera alacrementc a proseguire l'armamento nazionale, l'ordinamento del regno, e l'efficace tutela delle persone e delle proprietà. Essa prende pure atto della dichiarazione del Ministro, intorno alla sicurezza pubblica, alla scelta del personale onesto, al riordinamento della magistratura; al maggiore sviluppo dei lavori pubblici e della G. Nazionale, ed a tutti gli altri provvedimenti efficaci a procurare il benessere delle provincie meridionali, e passa all'ordine del giorno».

La Camera con votazione a squittinio pubblico accetta il voto di fiducia di Bon-Compagni - Votano contro: -Anguissola, Avezzana, Berretta, Bertani, Berti Pichat, Bixio, Braico, Cadolini, Cttiroli, Calvino, Cannavino, Casaretto, Castellano, Catucci, Cosenz, Crispi, Cuzzctti, D'Ayala, Del Giudice, Della Croce, De Luca, De Peppo, Depretis, De Sanctis G., Fabbricatore, Ferrari, Friscia, Gabrielli, Garofano, Greco A., La Masa, Lanciano, Lazzaro, Leonetti, Levi, Libertini, Longo, Lovito, Maccabruni, Macchi, Mandoj Albanese, Marsico, Matin-a, Mellana, Mezzacapo, Miceli, Minervini, Molfa, Molimi, Monticelli, Mordini, Mosca, Mosciari, Musolino, Nicotera, Nolli, Pancaldo, Persico, Polti, Positano, Ranieri, Regnoli, Ricci G., Ricci V., Ricciardi, Romano Lib., Romano G., Ruggiero, Saffi, San Donato, Saracco, Schiavone, Scrugli, Spinelli, Ugdulena, Ugoni, Vischi, Zanardelli, Zuppetta.

Petruccelli della Gattina, si astiene.

Votano a favore: - Abatemarco, Acquaviva, Agudio, Airenti, Alfieri, Allievi, Amicarelli, Ara, Arconati, Argentino, Atenolfi, Audinot, Baldacchini, Barracco, Bastogi, Battaglia, Belli, Beltrami P., Berardi T., Bertea, Bcrtolami, Bii hi, Boldoni, Bon-Compagni, Bonghi, Borella, Borgatti, Borromeo, Bovsarelii, Boschi, Bottero, Bracci, Bravi, Brida, Briganti-Bellini, Brignone, Brioschi, Broglio, Brunet, Bruno, Bubani, Busacca, Cagnoli, Camozzi, Canalis, Canestrini, Cantelli, Capone, Cappelli, Capriolo, Caracciolo, Garxfa,

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Cardente, Cadetti, Carutti, Caso, Cassinis, Castelli, Castromediano, Cavallini, Cavour Gustavo, Cedrelli, Cempini, Chiapusso, Chiaves, Ciccune, Ciui, Colombani, Compagna, Conforti, Conti, Ceppino, Cordova, Correnti, Corsi, Cossilla, Cucchiari, Cugia, -Danzetta, Dcandreis, De Blasiis, De Cesare, Dejnlippo, Del Re, De Pazzi, De Sanctis, De Siervo, Devincenzi, Di Martino, Di Sonnaz, Dorucci, Fabrizj, Farina, Faiim, Fenzi, Finzi, Galeotti, Gallozzi, Genero, Gherardi, Gigliucci, Ginorii Giorgini, Giovio, Giuliani, Grandi, Grattoni, Greco L., Greila, Grixoni, Grossi, Guerrieri Gonzaga, Guglianetti, Imbrumi, Jacini, Lacaita, La Farina, Lanza G., Leopardi, Luzi, Maeciò, JWaceri, Maggi, Malenchini, Marazzani, Maresca, Mari, Mariniti, Massa, Massarani, Massari, Massola, Mattei I-'. . Mattei G., Mautiuo, Mayr, Mazza P., Melegari L., Melegari A., Menichetti, Menotti, Michelini, Minghetti, Minchelli, Mischi, Mongenet, Monti, Monzani, Morelli G., Moretti, Morini, Moreddu, Nelli, Ninchi, Nisco, Oytana, Palomba, Panattoni, Paternostro, Pelosi, Popoli C., Popoli G., Peruzzi, Pescetto, Pezzani, Pinelli, Piria, Piroli, Pisanelli, Pisani, Pocrio, Possenti, Pugliese, Raeli, Ranco, Rapallo, Rasponi, Rattazzi, Restelli, Ribotti, Ricasoli, Ricci, Robecchi, Robecchi G., Romeo P., Romeo S., Rorà, Rovera, Ruschi, Salvatore, Pecchi, Sanguinetti, Sanseverino, Saragoni, Scalia, Scalini, Scarabelli, Schininà, Scialoia, Scocchera, Sella, Sergardi, Sgaviglia, Silvani, Silvestrelli, Sirtori, Solaroli, Soldini, Spaventa, Speroni, Susani, Tenea. 'Testa, Tonelli, Tonello, Tornielli, Torre, Torelli, Torriggiani, Toscanelli, Trezzi, Urbani, Vacca, Valerio, Vegezzi Zaverio, Virgili, Villa, Viora, Visconti Venosta, Zambelli, Zanolini.

Bertini, Falconcini, Chiavarina, ladopi, La Rosa, Varese, trovandosi assenti, dichiarano che avrebbero votato pel sì.

TORNATA DEL 17 DICEMBRE 1861. - Discussione del disegno di legge sulla tassa di registro.

Opposizioni e proposte sospensive di Romano G., Lazzaro, Ricciardi, Minervini, De-Luca. - Ordine del giorno di Minervini: «Differirsi la votazione della legge dopo che il Ministro delle finanze avrà dato i particolari della situazione finanziaria».

De Blasiis, si oppone alla sospensiva con un suo ordine del giorno firmato da Torriggiani, Snsani, Piroli, Allievi, Mischi, Colombani, Cantelli, Fiorerai, Guerrieri, Massarani, Finzi, Broglio, Gadda, Minghetti, Popoli G. - Non ammessa la sospensiva, si passa alla discussione della legge. - La Camera l'approva con voti 170 contro 46.

TORNATE DEL 20 NOVEMBRE AL 1° DICEMBRE 1862. - Interpellanza di Bon-Compagni sulle condizioni politiche del regno dopo i fatti di Aspromonte.

Ricciardi domanda la quistione pregiudiziale sull'arresto dei deputati Mordini, Fabrizi e Calvino. - Non è appoggiata. - Parlano contro il Ministero. - Bon-Compagni, De Sanctis F., De Cesare, Toscanelli, Ferrari. - Mordini, dopo d'aver ragionato sul suo arresto arbitrario ed illegale, e quello di Fabrizj e Calvino, rinchiusi 40 giorni nel castello dell'Ovo, poiché per l'art. 25 dello Statuto,

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nessun deputato può essere arrestato nel tempo della sessione, fuori del caso della flagranza; dopo d'aver dimostrato che per il diritto pubblico universale nessuno può sospendere, e neppure l'assemblea legislativa, ogni diritto ed ogni libertà con lo stato d'assedio, dallo Statuto espressamente garentiti, conchiude: «Signori, la disapprovazione in Italia è universale, il ministero è interamente esautorato, il paese aspetta dal Parlamento che sia il vindice della giustizia».

Massari, dichiara che è per dare al Ministero Rattazzi un voto della più ampia sfiducia. Conchiude con rivolgere queste parole ai ministri: «Il paese non vi vuole. Se credete che l'abbandonare il portafoglio sia un gran sacrifizio, in nome di Dio, fatelo questo sacrifizio. In ogni modo la Camera faccia il dover suo».

Nicotera conchiude: «Dai fatti discorsi nella discussione risulta chiaro lo spirito antinazionale del Ministero e la flagrante violazione dello Statuto e delle leggi. Quindi io non so per quale ragione dobbiamo andar mendicando come si abbia a giudicare il Ministero. La nostra norma è lo Statuto, e bisogna che una volta questo Statuto diventi una verità anche pei Ministri. - Quindi avvalendomi dell'ari. 47 dello Statuto, propongo di mettere il Ministero in stato di accusa».

Cairoli fa il quadro il più tristo della situazione, chiamando il Ministero responsabile di tutti i mali che affliggono l'Italia. - Rispondono al discorso di Rattazzi per fatti personali, Nicotera, Crispi, Massari, Mordini, Cadolini, Mancliti, Bruno, Gallenga, Cognata.

Minervini legge una sua protesta diretta al presidente della Cassazione di Napoli in cui gli faceva instanza di non cedere all'intimazione del Governo circa la designazione di un'altra Corte pel giudizio di Garibaldi e suoi segnaci.

Parlano a favore. - Boggio, Alfieri Carlo, Petruccelli, La Farina. -Rattazzi, presidente del Consiglio, risponde a tutte le accuse tanto riguardo, alla politica interna, quanto all'estero. --Durando, ministro per gli esteri, difende i suoi atti. - Depretis, ministro dei lavori pubblici, risponde agli oratori dell'opposizione.

Nella seduta del I dicembre, Rattazzi annunzia le dimissioni del Ministero con tali detti: «Quando io venni al potere concepii la speranza di poter pervenire a ricostituire una maggioranza indispensabile; ma debbo convenire di non esservi riuscito. È indispensabile che una maggioranza compatta torni a ricostituirsi; e siccome abbiamo avuto luogo dalla presente discussione di avvedersi che la nostra presenza al Ministero può essere per avventura di ostacolo alla ricostituzione di tale maggioranza, sebbene noi abbiamo il convincimento d'aver fatto il nostro dovere, d'aver salvato il paese, abbiamo rimesso le nostre dimissioni nelle mani del Re, la cui fiducia non ci è mai mancata».

Crispi osserva che il Ministero avendo dato le proprie dimissioni, ha voluto prevenire il voto della Camera; ritirandosi dinanzi una maggioranza che gli è contraria, è inutile votare un ordine del giorno. - La seduta è sciolta.

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TORNATA DEL 1° GIUGNO 1863. - Per maggiori sussidii stanziata a favore dell'emigrazione politica.

La Commissione propone la riforma della somministrazione dei sussidii. - Accettata dal Ministero. - Parlano contro. - San Donato, Minervini, Chiaves.

A favore. - Berardi, relatore, Bottero, De Blasiis, Mellana. - La-Camera approva l'ordine del giorno della Commissione.

Indirizzo in risposta al discorso della Corona.

Per la discussione. - Ricciardi, Mellana, Minervini, Bixio. - Proteste di Greco A. Lazzaro, De Boni, Palletta, Ranieri, contro l'irregolare votazione, per mancanza di numero, e per essersi negato l'appello nominale. - Per l'immediata approvazione. - Parlano. - I ministri dell'interno e per gli esteri, Valerio, Bertolani. - La Camera approva l'indirizzo senza discussione.

TORNATA DEL 10 GIUGNO 4863. - Interpellanza di Nicotera per la comunicazione dei documenti sul brigantaggio, raccolti dalla Commissione d'inchiesta.

Per la comunicazione. - Nicotera, Sanguinetti, Chiaves, Ricciardi, Valerio.

Ordine del giorno di Chiaves: «Considerando che ogni deputato ha il diritto di conoscere i verbali segreti e i documenti relativi depositati nella segreteria della Camera, passa all'ordine del giorno.

Contro. - Il ministro dell'interno, Conforti, Broglio.

TORNATA DELL'-11 GIUGNO. - Interpellanza di D'Ondes-Rcggio sulla pubblica sicurezza in Sicilia.

Sostengono l'interpellanza. - Panoaldo, La Porta, Bruno. . In difesa del Ministero. - Bertolami, Paternostro. Non essendovi proposta si passa all'ordine del giorno.

TORNATE DEL 12 AL 20 GIUGNO 1863. - Interpellan«a di Macfki e Ricciardi sui documenti diplomatici presentati dal Ministero relativi a Roma ed alla Polonia.

Interpellanza di Bertani sullo scioglimento della Società della Solidarietà democratica.

Parlano contro il Ministero. - Macchi, Ricciardi, Lazzaro, Rattazzi, Bertoni.

Ordini del giorno presentati da Catucci, da Minervini, da Bixio, da Musolino e Sineo sulle cose estere ed interne.

Ordine del giorno firmato da Crispi, Bertoni, Catucci, Miceli, La Porta, Nicotera, Libertini, Borgani, Fabrizi, Pallotta, De Luca, Musolino, Schiavone, Vecchi, Mordini, Levito, Sineo, Pancaldo, Cipriani, De Boni, Ricciardi, Lazzaro: - «La Camera deplorando la politica di repressione e di arbitrii durato da due anni all'interno, che tien divisi gli animi e allontana sempre più il paese dal l'accordo indispensabile al compimento dei destini nazionali, invita il Ministero a volerla modificare in conformità dello Statuto.

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Parla il ministro degli esteri in difesa. - A favore del Ministero. - BonCompagni, La Farina, Allievi, Levi, Algeri.

Ordini del giorno nel senso ministeriale di La Farina e di Alfieri. Ordine del giorno di Don-Compagni con cui si approva la condotta del Ministero.

La Camera con votazione a squittinio nominale di 202 contro 53, approva il voto di fiducia proposto da Don-Compagni.

Votano per il no. - Bargoni, Bellazzi, BerUtni, Berlea, Bianchi Ali'., Brofferio, Calvini, Camarota Scovazzo F., Catucci, Cbiaves, Cipriani, Ceppino, Cordova, Costa A., Crispi, De Boni, De Luca, Depretis, De Sanctis G., Fabrizi M., Greco A., La Porta, Lazzaro, Levi, Libertini, Macchi, Malenchini, Mandoj, Albanese, Malici F. Mellana, Miceli, Minghelli, Vaiili, Moriteceli!, Monzani, Mordini, Nicotera, Oytana, Palletta, Paternostro, Rattazzi, Ricciardi, San-Donalo, Sanna-Sanna, Saracco, Siccoli, Sineo, Tecchio, Varese, Vecchi, Villa, Vischi, Zanardclli.

Cadolini, Berti, Levito, Regnoli, trovandosi assenti, dichiarano che avrebbero votato pel no.

Si astengono. - Avezzana, Gallo, Minervini, Mugolino, Ranieri, Schiavoni. Votano per il, sì. - Alfieri, Allievi, Amicarelli, Anguissola, Arconati, Avezzo, Atenolfi, Audinot, Baiile, Baldacchini, Baracco, Bella, Belli, BeltraniP., Berardi, Berti I. ., Berlani, Bertolami, Beiti, Bianchi Cel., Bixio, Umidi, Bon-Compagni, Bonghi, Borgatti, Borromeo, Borsarelli, Bollerò, lievi, Brida, Briganti Bellini G., Brignone, Brioschi, Broglio, Brunet, Bubani, Busacca, Gagnola, Camozza, Canalis, Cannavina, Cantelli, Capone, Carafa, Carini, Cartelli, Casaretto, Caso, Cassinis, Castelli, Caslromediano, Cavallino, Cavour, Cedrelli, Cepolla, Chiapusso, Chiavarina, Cialdini, Ciccone, Cini, Cocco, Colombani, Conforti, Corinaldi, Correnti, Corlese, Cosenz, Ciigia, D'Ancona, Danzetta, De Benedetti, De Blasiis, De Donno, De Francois, Del He, De'Pazzi, Della Valle, D'Errico, Devincenzi, De Sonnaz, Èrcole, Fnbrizi G., Farina, Fenzi, Ferracciu, Terrario, Finzi, Fiorenzi, Galleotli, Genero, Giampieri, Gigliucci, Giordano, Giorgini, Giovio, Grandi, Graltoni, Gravina, Grillenzoni, Grossi, Guerrieri Goniaga, Guglianelti, Jacini, Jadopi, La Farina, Lanza, Leo, Leopardi, Longo, Luzi, Maggi, Majorana ('>., Majorana Sai., Mancini, Marazzana, Marescotli, Mai-tinelli, Massa, Massarani, Massari, Massola, Mautino, Mazzoni, Melchiorre, Melegari, Meloni, Menichetti, Menolli, Mezzacapo, Michelini, Minghetli, Mischi, Mofla, Monti, Mbnticelli, Morelli G., Mureddu, Negrotto, Ninchi, Nischi, Oliva, Panaltoni, Pasini, Passaglia, Passevini, Pelosi, Peruzzi, Pezzani, Pica, Pinelli, Piroli, Pisanelli, Piùtino A., Poerio, Polli, Prosperi, Pugliese, Raeli, Rapallo, Rasponi, Restelli, Ricasoli V., Ricci M., Robecchi M., Robecchi G., Romano G., Romano Lib., Rorà, Ruschi, Sacchi, Sella, Sgariglia, Silvani, Salvagnoli, Salvini, Sanguinetti, Sanseverino, Sanlocanale, Scarabelli, Scrugli, Silveslrelli, Sirlori, Spaventa, Speroni, Susani, Tabassi, Tasca, Tenca, Testi, Tonello, Torelli, Tornielli, Torre, Torrigiani, Toscanelli, Trezzi, Ugdulena, Ugoni, Valerio, Vegezzi Zav., Visconti Yenosta, Zanolini.

Manesca, Ginovi, Todorani Irovandosi assenli, avrebbero votato pel sì.

TORNATE DEL 24 GIUGNO E SEGUENTI 1863. Discussione sul disegno di legge intorno le aspettative, disponibilità e congedi degli impiegati civili.

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Ordine del giorno di San-Donato pel rinvio della discussione al 1865. Lo firmano: Miceli, Capone, Cannavina, Robaudi, Avezzana, Romano L., Scovazzo F., Scovazzo L., Polli, Giordano, Nicotera, Lazzaro, Minervini, Catucci, Lit Porta, Palletta, Bellazzi, De Sanclis G., Mandoj Albanese, Mordini.

Parlano per la sospensione. - Lazzaro, Minervini.

Contro la sospensione. - Ricciardi, Melchiorre.

La Camera rigetta la sospensiva con voti 159 contro 42.

In merito contro il progetto di legge. - Mordini, D'Ondes Reggio ed altri suddetti.

A favore. - Nichelini, De Blasiis, Sella.

Dopo diversi emendamenti di San Donato nella discussione sugli articoli, la legge o approvata con voti 130 contro 65.

TORNATE DEL 30 GIUGNO E SEGUENTI 1863. - Discussione del disegno di legge per l'imposta sulla ricchezza mobile.

Parlano contro. - De Luca, Mancini, De Cesare, Minervini, Ballanti, Lanza, Capone, Crispi, San Donato.

A favore. - Pasini relatore, Marescotti, Broglio, Galeotti, Sella, Busacca.

Dopo i moltissimi emendamenti e sott'emendamenti sui 36 articoli della legge, la Camera approva con voti 130 contro 70.

TORNATA DEL 31 LUGLIO 1863. - Discussione del disegno di legge per la repressione del brigantaggio, presentato dalla Commissione, Conforti relatore.

Parlano contro. - Lazzaro, Miceli.

Ordine del giorno Avezzana, contro la fucilazione immediata.

Emendamenti di Ricciardi, Ciccone, Castagnola, Massari, Bixio e Minervini.

A favore. - Conforti, Varese, Castagnola.

Incidente sulla legge del brigantaggio

avvenuto nella seduta del 1 agosto.

Il deputato Pica propone che sia soppesa la discussione della legge proposta dalla Commissione, la quale consta di molti articoli, ed invece sostituirvi un contro-progetto di soli tre articoli, presentato da lui e dai seguenti colleghi:

Giacchi, Devincenzi, De Donno, Boggio, D'Errico, Oliva, Berardi, Grossi, Camerini, Gravina, Arezzo, De Cesare, De Filippo, Fabrizi G., Ricasoli V., Br-ioscbi, Ricci, Nisco, Bonghi, Mattei, Cortese, Scrugli, Sandonnini, Caso, lodopi, Della Valle, Altieri C., Morelli G., D'Ancona, Passerini, Cardenie, Zanolini, Amicarelli, Castagnola, Acquaviva, Baracco, Mezzacapo, Spinelli, Massari, Sella, Golia.

Parlano contro. - Ricciardi, Lovito, Curzio, De Boni, San Donalo.

Emendamenti di Mancini, Ranieri, Minervini, Lovito, Miceli, Lazzaro.

A favore. - Conforti per la Commissione, il ministro per l'interno, Giacchi, Massari, Pica, Alfieri C.

La legge Pica passa con voti 174 contro 33.

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TORNATE DEL 5 a 10 DICEMBRE 1863. - Interpellanze di D'Ondes Reggio, e sua proposta d'inchiesta parlamentare sopra i fatti crudelissimi di Sicilia.

D'Ondes propone il seguente ordine del giorno: «La Camera delibera un'inchiesta parlamentare sugli atti governativi commessi in Sicilia contro lo Statuto e le leggi, dal mese di agosto fino ad oggi».

Parlano a favore della proposta. - La Porta, Bruno, Riordini, Miceli, Cordova.

Ordine del giorno di Bertani: «La Camera istrutta dalla discussione intorno alle interpellanze del deputato D'Ondes Reggio, convinto che i gravi fatti accennati sono gl'inevitabili corollari del sistema di governo applicato all'Italia, li condanna come perniciosi ai destini della patria, e passa all'ordine del giorno».

Voto motivato di Crispi, firmato da altri 34 deputati: «La Camera considerando che dalla discussione risulta avere il ministro apertamente violate le leggi dello Stato, ritiene superflua l'inchiesta parlamentare e passa all'ordine del giorno».

Bertani e Crispi svolgono i rispettivi ordini del giorno. Accennando alla maggioranza, Crispi dice: «Questa Camera legalmente rappresenta l'Italia, ma non moralmente».

Alle interpellanze rispondono: Della Rovere, ministro della guerra, generale Covone, il ministro per l'interno.

Parlano in difesa. -Bixio, Bertolami, Pinzi, Salaris, Bon-Compagni, Boggio.

Ordini del giorno. F'inzi propone: «La Camera riconosce che il Governo ha provvidamente soddisfatto a' voti delle provincie siciliane e di tutta Italia, ridonando a quelle provincie la pubblica sicurezza gravemente turbata dai renitenti e dai malfattori».

Salaris propone: «La Camera tenuto conto al Ministero dei risultamenti ottenuti in Sicilia, confidando che in avvenire si rivolgerà al Parlamento quante volte saranno necessarii provvedimenti eccezionali, passa all'ordine del giorno».

Boggio e Bixio propongono altri voti motivati in senso ministeriale.

Bon-Compagni, Chiavarina, Scrugli, Lacaita, Guerrieri Conzaga, Belli, Massari, propongono: «La Camera approva l'operalo del Ministero, e passa all'ordine del giorno».

La Camera approva l'ordine del giorno di Bon-Compagni con voti 206 contro 52 a squittinio nominale.

Votano contro. - Bargoni, Beltrani Vito, Bertani, Brunelti, Bruno, Cadolini, Cairoli, Calvino, Camerata, ScovazzoF., Camerini, Catucci, Cognata, Cordova, Crispi, Curzio, Cuzzetti, De Boni, De Luca, D'Ondes Reggio, Fabrizj N., Ferrari G., Gravina, La Porta, Labaudi, Lazzaro, Maccabruni, Macchi, Mancini, Mando] Albanese, Marsico, Massei, Miceli, Minervini, Mordini, Paternoslro, PeIruccelli, Pisani, Plutino Ag., Plulino An., Polli, Romano G., Bomano Slef., Ruggiero, Salaris, San-Donato, Scaglia, Sineo, Tamaio, Ugoni, Vecchi, Vischi, Zanardelli.

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Lovito, Depretis, Greco A., Schiavoni, essendosi trovati assenti, dichiarano che avrebbero votalo contro.

I seguenti deputati, compreso il generale Garibaldi, dichiarando iniquo questo voto, rassegnano successivamente il mandato:

Ricciardi, Nicotera, Bertani, Matina, Del Giudice, Magaldi, Campanella, Zuppetta, Ugoni, Friscia, Crea, Guerrazzi, Garibaldi, Libertini, Cairoli, Saffi, Vecchi, La Porta, Miceli, Romeo Stefano, Cognata, De Boni, Brunetti.

Votano in favore. - Alfieri C., Allievi, Amicarelli, Andreucci, Ànguissola, Ava, Àrconati, Atenolli, Baldacchini, Ballanti, Baracco, Bastogi, Bella, Belli, Berardi, Berlea, Berti D., Berti L., Berlini, Berlolami, Beiti, Bianchieri, Bianchi Al., Bianchi ('. <!., Bichi, Bixio, Boddi, Bon-Compagni, Bonghi, Borella, Borromeo, Borsarelli, Bollerò, Bràcci, Briola, Brigami Bellini Bellino, Briganti Bellini G., Brignone, Broglio, Brunet, Bubani, Busacca, Canalis, Cantelli, Cappelli, Carafa, Cardenie, Caso, Cassinis, Castellani, Castelli, Cavour, Cedrelli, Cempini, Cepolla, Chiapnsso, Chiavarina, Chiaves, Cini, Colombani, Conti, Coppino, Corinaldi, Correnti, Corsi, Cortese, Cosenz, Cugia, Culinelli. Damis, D'Ancona, Danzelta, De Benedetli, De Blasiis. De Cesare, De Donno, De Filippo, De Franchis, Della Valle, Dei Pazzi, Devincunzi, Dino, Doria, Èrcole, Fabbricatore, Fabrizj G., Farina, Fcnzi, Finzi, Fiorenzi, Galeotti, Genero, Giacchi, Gigliucci, Giorgini, Giovio, Giuliani, Covone, Grandi, Granoni, Creila, Grisoni, Grossi, Guerrieri Conzaga, Guglianelti, Jacini, Jacampo, Lacaita, Lanciano, Lanza, Leardi, Leonclli, Leopardi, Levi, Longo, l. u/i, Maceri, Maggio, Malenchini, Marazzani, Manchetti, Maresca, Marescolti, Massa, Massarani, Massari, Massola, Muntimi, Mazza, Melchiorre, Melegari, Meloni, Menicbetti, Menotti, Mezzacapo, Michelini, Minghetli, Mischi, Mappa, Molinari, Monti, Monticelli, Monzani, Morandini, Morelli G., Moretti, Morini, Mureddu, Nicolucci, Ni neh i, Oytana, Panalloni, Parini, Pasini, Passerini, Pelosi, Peruzzi, Pellinengo, Pczzani, Piroli, Pisanelli, Poerio, Possenli, Banco, Bapollo, Ballazzi, Beccagni, Resielli, Bicci G., Bicci V., Bobecchi G., Horà, Rovere, Ruschi, Sanli, Sandonini, Sanseverino, Saracco, Scarabelli, Scrugli, Sebastiani, Sella, Sergardi, Scariglia, Solaroli, Soldi, Spaventa, Speroni, Tecchio, Tenca, Tcodorani, Testa, Tonelli, Tonello, Torelli, Torre, Torreggiani, Toscanelli, Trezzi, Ugdulena, Valerio, Vegezzi, Villa, Visconti Venosta, Zanolini.

Viora, Sanguinetli, Casaretlo, Borghetli, Varese, Pescelto, Monlecchi, Silvestrelli, trovandosi assenti, dichiarano che avrebbero votato in favore.

TORNATA DEL 3 MAGGIO 1864. - Interpellanza dell'onorevole Bargoni sulla condotta del Governo rispetto al Generale Garibaldi e sul sequestro al signor Lemmi di Torino di una somma raccolta da sottoscrizioni pel detto Generale.

In appoggio dell'interpellanza parlano contro gli atti del Ministero. - Zanardelli, Lazzaro, Boggio, Ferrari, Crispi, Brofferio.

Macchi propone l'ordine del giorno puro e semplice.

Bellazzi contro gli abusi dell'alto clero. - A favore del Ministero. - Alfieri, Bon-Compagni. - Voto di 6ducia proposto da Bon-Compagni.

La proposta Macchi è reietta, La Camera approva quella di Bon-Compagni.

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TORNATE DELL'11 AL 14 MAGGIO 1864. - Interpellanze degli onorevoli La Porta e Miceli sulla politica estera, e loro instanza per una pronta soluzione sulla questione romana.

La Porta fa l'esposizione storica della politica estera che da quattro anni è professata dal Governo.

Miceli ne rileva e disamina le funeste conseguenze.

Passaglia espone quali siano le relazioni internazionali fra il Governo italiano e quello del principe di Roma.

Macchi, sui fatti avvenuti nella reggenza di Tunisi.

Musolino e Mellana oppugnano la difesa esposta da Venosta, ministro per glii affari esteri.

Svolgono i rispettivi ordini del giorno Musolino, Chiaves e Regnoli.

La Porta presenta un voto motivato, per la liberazione immediata delle provincie romane, e pur la mobilizzazione di 220 battaglioni di G. Nazionale decretata con legge dei 22 agosto 1862 per l'acquisto della Venezia.

Allievi propone l'ordine del giorno puro e semplice. Il Ministero l'accetta come rigetto delle interpellanze.

La Camera approva l'ordine del giorno Allievi.

TORNATA DEL 21 MAGGIO 1864.

Il deputato Mordini propone la seguente deliberazione sottoscritta da Bargoni, Calvino, La Porta, Miceli, Lazzaro, Brunetti, Cadolini, Greco A., Regnoli, Sineo, Siccoli «La Camera, considerando che la pubblica opinione è gravemente preoccupata dai fatti relativi alla società delle ferrovie meridionali, i quali si terrebbero imputabili a qualche individuo rivestito della qualità di deputato, delibera che si proceda ad una inchiesta parlamentare la quale metta in luce se, e fino a qual punto sia stata rispettata in quelli la dignità della rappresentanza nazionale, e proponga i mezzi atti, ove ne sia d'uopo, a dare soddisfazione alle esigenze della pubblica moralità.

Appoggiano coi loro discorsi. - Di Pettinengo, Cadolini, Chiaves, Bargoni.

Per la sospensiva. - il ministro dei lavori pubblici, Colombanì, Massari.

La proposta Mordini dell'inchiesta è approvata a forte maggioranza, e dal presidente è nominata una Commissione di sette membri.

TORNATA DEL 23 GIUGNO 1864. - Discussione del disegno di legge per la modificazione di quella comunale e provinciale.

Contro il progetto della Commissione parlano. - D'Ondes Reggio, Castagnola, Cadolini.

Ordine del giorno di Cadolini. - «La Camera rinvia il progetto di legge alla Commissione, con invito di riformarlo sopra le seguenti basi.

1° Riforma per legge delle circoscrizioni territoriali in quanto concerne la formazione dei Comuni abbastanza ricchi e popolosi per potersi amministrare liberamente da sé;

2° Costituzione del Comune e della provincia come enti morali autonomi, indipendenti da qualunque tutela, salvi quei temperamenti che si riferiscono alla osservanza della legge;

3° Libertà dei Comuni e delle provincie di determinare i proprii tributi, equamente ripartiti sopra le diverse fonti della loro rendita;

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4° Diritto di voto elettorale in tutti i diritti civili;

5° Diritto di eleggibilità in tutti gli elettori che sanno scrivere e che non esercitano uffici incompatibili con la loro indipendenza;

6° Contenzioso elettorale ai tribunali;

7° Diritto di eleggere i capi delle rispettive amministrazioni.

La proposta è firmata da: Lazzaro, Mordini, Catucci, Carnazza, Marolda, Miceli, Tamajo, Greco A., Polti, Giunti, Cognata, La Porta, Macchi, Marcene, Brunetti, Curzio, De Boni, Avezzana, Massei, Golia, Del Giudice, Vecchi, Della Croce.

Romano G. parla in merito. - Sostengono la proposta Cadolini: Brunetti, Carnazza, Minervini, il quale dichiara di non essere stato in tempo di firmarla, ma che interamente vi aderisce.

Crispi e Macchi propongono l'aggiornamento della legge.

Minervini propone che la legge dei 23 ottobre 1859 sia provvisoriamente estesa alle provincie toscane sino alla votazione di una legge organica sull'amministrazione comunale e provinciale per tutta l'Italia.

A favore del progetto della Commissione accettato in massima del Ministero, parlano. - Alfieri, Finzi.

Contro la proposta Cadolini parlano. - Il ministro per l'interno, Michelini, Bon-Compagni relatore. È ammessa dalla Camera la discussione della legge.

Votati parzialmente 166 articoli della legge nella seduta del 13 luglio. Lazzaro propone la sospensione della discussione con rimandarla ad altra sessione, vista l'urgenza di molti provvedimenti da adottarsi.

Il Ministero acconsente. - La Camera approva la sospensione.

TORNATA DEL 27 GIUGNO 1864. - Interpellanza del deputalo Saracco sulla situazione del tesoro, sulle condizioni finanziarie, e sulla politica interna.

Parlano contro l'amministrazione e la politica del Gabinetto. - Saracco, De Luca, Romano G., De Sanctis F., Di San-Donato, Marazio, Boggio, Ballanti, Rattazzi.

Saracco ad istanza di Lanza ritira l'interpellanza.

Ferrari la riprende e la svolge. - Parlano in sostegno Ballanti e Rattazzi.

San Donato propone il seguente ordine del giorno: «La Camera disapprovando la politica del Ministero che attenta alla libertà ed unità nazionale, passa all'ordine del giorno». il proponente critica vivamente il Ministro per la sua politica perniciosa all'unità d'Italia, ed in particolare per la immane applicazione della legge Pica.

Il Ministro per la finanza dà risposta all'interpellanza.

Parlano a favore del Ministro. - Alfieri C., Devincenzi, Galeotti.

Protesta di Lanza contro il discorso di Boggio, ed istanza a Saracco pel ritiramcnto della sua interpellanza.

Il Ministro delle finanze ne fa quistione di gabinetto.

Proposta di Galeotti, Cortese, Bon Compagni, Beneventano, Cavalietto, Checchetelli, Ugdulena, Baldacchini, per un voto di fiducia a favore del Ministero.

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Discorso di Passaglia in sostegno.

Esauriti i discorsi sugli altri ordini del giorno presentati, si passa alla votazione per isquittinio nominale sulla proposta di Galeotti, Cortese ed altri, ch'è approvata dalla Camera.

Votano contro. - Anguissola, Ara, Arezzo, Argentino, Avezzana, Ballanti, Bargoni, Basile, Battaglia, Bellazzi, Bertea, Berli D., Berlini, Banchieri, Bianchi Al., Boggio, Bollerò, Brida, Brunet, Brunelli, Bruno, Cadolini, Cairoti, Caivino, Camerata F., Camerata L., Camerala Bocco, Camerini, Carnazza, Castagnola, Catucci, Chiaves, Conferii, Ceppino, Cordova, Costa A., Crispi, Curzio, Cuzzetti, Damis, De Boni, De Benedetti, Della Croce, Della Valle, De Luca, Depretis, DeSanctisF., Fabricatore, Ferrari, Ferraris, Garofano, Giuliani, Giunti, Golia, Gravina, Greco A., Greco L., Jadopi, Lanza, La Porta, Lazzaro, Leardi, Leonetti, Levi, Lualdi, Maccabruni, Malenchini, Mancini, Marazio, Maresca, Marolda, Massei, Mazza, Melcbiorre, Mellana, Meniohelti, Miceli, Nichelini, Minorvini, Minghetti, Molinari, Mongenet, Montecehi, Monti, Monzani, Mordini, Morini, Musolino, Oytana, Palletta, Paternoslro, Pescello, Pinelli, Plulino A., Plutino An., Polli, Prosperi, Raffaele, Ranco, Ranieri, Rattazzi, Ricci V., Ricci G., Romano G., Riberi, San-Donato, Sandonini, Sanguinetti, Santocanale, Saracco, Scarabelli, Sella, Scrgardi, Siccoli, Sineo, Speciale, Stocco, Tamajo, Valenti, Vecchi, Vegezzi Zav., Vegezzi Ruscalla, Villa, Viora, Vischi.

Votano a favore. - Acquaviva, Agudio, Alfieri C., Allievi, Amicarelli, Andreucci, Arconati, Assanle, Atenolfi, Audinot, Baldacchini, Baracco, Bel trami, Beneventani, Berardi, Berti D., Berti Pichat, Bertolami, Beiti, Bianchi G., Bichi-Boddi, Bon-Compagni, Bonghi, Borgatti, Borromeo, Borsarelli, Bràcci, Braico, BriganliBellini Briganli-BellÌDÌ G., Brignone, Briosohi, Broglio, Bubani, Buffarini, Busacca, Canalis, Canavina, Cantelli, Carafa, Carletli G., Caso, Cassinis, Castelli, Castromediano, Cavallello, Cedrelli, Cepolla, Checchelelli, Chiapusso, Chiavarina, Cini, Civita, Cocco, Colombani, Compagna, Correnti, Corsi, Cortese, Cosenz, Cucchiari, Cugia, Cutinelli, D'Ancona, Danzetta, D'Asie, De Blasiis, De Cesare, De Donno, De Filippo, Del Re, De Pazzi, D'Errico, Devincenzi, Dorucci, Èrcole, Fabrizj G., Fenzi, Ferracciu, Pinzi, Fiorenzi, Galeotti, Genero, Giacchi, Gigliucci, Giorgini, Giovio, Giustiniani, Grandi, Grillenzoni, Grossi, Guerrieri Conzaga, Jacini, Lanciano, Leo, Leopardi, Luzì, Maceri, Macri, Maggi, Maiorana Ben., Marazzani, Mari, Marlinelli, Marzano, Massa, Massarani, Massari, Massola, Mazziotti, Medici, Melegari, Melloni, Meneghini, Menotti, Mezzacapo, Minghetti, Mischi, Molla, Morelli D., Morelli G., Moretti, Mosca, Mureddu, Negrotto, Nicolucci, Ninchi, Nisco, Oliva, Palomba, Panattoni, Parenli, Passaglia, Pelosi, Peruzzi, Pettinengo, Pezzani, Pica, Piroli, Pisanelli, Poerio, Possenti, Prinetli, Rasponi, Restelli, Ribotti, Ricasoli B., Ricasoli V., Romeo P., Ruschi, Sacchi, Salimbeni, Salvoni, Sansevcrino, Scalini, Scrugli, Sebastiani, Spariglia, Silvani, Silvestrelli, Soldi, Spaventa, Speroni, Tabassi, Tcodorani, Testa, Torelli, Tornielli, Torre, Torriggiani, Toscanelli, Trezzi, Trigona, Ugdulena, Vacca, Valerio, Vanotli, Visconti-Venosta, Zaccheria, Zanolini.

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TORNATE DEL 15 e 16 LUGLIO 1864. - La Commissione d'inchiesta parlamentare, sulla società delle ferrovie meridionali, presenta le sue conclusioni deliberate ad unanimità. Negli articoli 3, 4, 5 e 6 così si esprime:

Il pubblico interesse e la dignità della Camera consigliano che si abbia a stabilire per legge, la incompatibilità della qualità di deputato colle funzioni di amministratore d'imprese sovvenute dallo Stato.

Il deputato Susani, quando era membro della Commissione parlamentare nominata per dar parere sulla proposta ministeriale presentata al Parlamento nel 16 giugno 1862, si fece consigliatore e propugnatore prima presso il deputato Bastogi del progetto di costituire la società delle ferrovie meridionali, e si adoprò in diversi modi, ed anche con ingerenza diretta nella parte meramente economica e di speculazione nelle varie operazioni che precedettero la presentazione al Parlamento della proposta Bastogi, pur continuando ad adempiere alle parti di commissario; al quale ufficio, nel concorso delle circostanze pregiudicate, avrebbe dovuto rinunciare, onde rimuovere persine l'ombra del pili lontano sospetto della sua ingerenza. - Gravi argomenti persuadono a ritenere che 1, 100, 000, rappresentanti una parte degli utili ricavati dal Bastogi nella cessione della costruzione, e che il Susani ebbe a cedere al Wciss Norsa pel corrispettivo di lire 675, 000, fossero il premio riservato o dato a Susani per la sua cooperazione. - Il Bastogi, non potendo ignorare che il deputata Susani faceva parte della Commissione parlamentare, doveva rispettare nel Susani e nell'interesse delle stesse instituzioni nostre quella posizione, e non doveva accettarlo come cooperatore all'attuazione del suo progetto.

La discussione incomincia sull'articolo 3° che riguarda la incompatibilità della qualità di deputato con quella di amministratore di società sussidiate.

Parlano: - Il relatore Piroli per le conclusioni della Commissione.

Crispi, Lanza, Boggio, Brofferio, Finzi, della Commissione, conchiudono per la votazione su tutti gli articoli della conclusione.

Ordine del giorno di Cantelli: La Camera approva l'operato della Commissione.

Emendamento di. San Donato con l'aggiunta delle parole: e le conclusioni della Commissione.

Proposta di Boggio: La Camera approvando le conclusioni della Commissione si riserva di deliberare sull'articolo 3° e passa all'ordine del giorno.

Parlano: - Bastogi, in difesa del suo operato.

Massari, Leardi. Broglio, Berti V., concludono votarsi sul solo articolo di massima intorno la incompatibilità; cioè sull'articolo 3°

Si vota la proposta Boggio per isquittinio nominale, ch'è riprovata.

Perla proposta Boggio. - Amicarelli, Angmsiiola, Ara, Argentini, Avez/. ana, Baldacchini, Bargoni, Biancbieri, Bichi, Boggio, Borsarclli, Bottero, Bracci, Braico, Brida, Brofferio, Brunet, Brunetti, Bruno, Cadolini, Cdvino, Cumerata F., Cannavina, Carletti, Carnnzza, Caso, Cassinis, Castellani Tentoni, Cavalietto, Cavallini, Cedrelli, Cempini, Cepolla, Cbecchetelli, Chiaves, Colombani, Conferii, Conti, Coppino, Cordova, Corinaldi, Cortese, Cosenz, Crispi, Curzio, Cnttinelli, Cuzzetti. Damis, D'Aste, Deandreis, De Boni,

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De Donno, Della Croce, Della Valle, De Luca, Dei Pazzi, Depretis, Desanctis F., Dorucci, Fabricatore, Ferraccio, Ferrari, Ferrano, Ferraris, Fiastri, Pinzi, Fiorenzi, Giuliani, Giunti, Golia, Gravina, Greco A., Greco L., Grossi, Jadopi, Lanza, La Porta, Lazzaro, Leardi, Levi, Lualdi, Luzi, Muori, Majorana B., Malencbini, Mancini, Marazio, Marcene, Marolda, Martinetti, Maizano, Massa, Massei, Mazza, Mazziotti, Medici, Melchiorre, Melegari, Mellana, Menotti, Mezzacapo, Miceli, Nichelini, Minervini, Moffa, Molfino, Monti, Mordini, Morelli G., Marini, Masolini, Negrotti, Nisco, Oliva, Oytana, Palomba, Pescetlo, Pettinengo, Pezzani, Pica, Pinoli, Platino A., Polli, Pi-inetti, Raffaele, Ranco, Ranieri, Reccagni, Robecchi G., Romano L., Romeo P., Rubieri, Salaria, Salvoni, San-Donato, Sanguinetli, Santocanale, Saracco, Scrugli, Sebastiani, Sella, Sineo, Speciale, Tamajo, Testa, Tornielli, Torre, Ugdulena, Valenti, Vecchi, Villa, Viora, Zanardetli, Zadolini.

Contro: - Berti D., Berti L., Busecca, Cantù, Correnti, De Filippo, De Vincenzi, Mari, Mcnichetti, Silvani!!!

Si astengono. - Agudio, Arconati, Atenolfi, Baracco, Beneventani, Berlini, Belli, Bon-Compagni, Bonghi Borgalti, Borromeo, Briganti-Bellini G., Broglio, Carafa, Castromediano, Cini, Civila, Cocco, Compogna, Cugia, D'Errico, Fabrizj G., Giusliniani, Grandi, Graltoni, Guerrieri-Gonzaga, Leopardi, Massarani, Massari, Meneghini, Minghetli, Peruzzi, Pisanelli, Possenli, Raspolli, Ruschi, Sanseverino, Tubassi, Toscanelli, Valerio, Vegezzi S., Visconti Venosta.

Assenti dalla Camera 232!!!!!

TORNATA DEL 24 OTTOBRE 1864. ~ Comunicazione fatta dal presidente del Consiglio della convenzione del 15 settembre per lo sgombro delle truppe francesi da Roma.

Presentazione di un disegno di legge pel traslocamento della capitale a Firenze.

Annunzio d'interpellanza del deputato Tecchio sopra i falli di Torino del 21. e 22 settembre

Proposta d'inchiesta parlamentare sui fatti medesimi presentata dai deputati La Porta, Lazzaro, Curzio, Avezzana, Macchi, Tamajo, Marolda, Robaudi, Pancaldo, Ranieri, Molinari, Cairoli, Nicotera, Friscia, Marsico Vischi, Fabricatore, DeSanctisG., Romano L., Calvino, Massei, Monlecchi, Pallolla, Del Giudice, Greco A., Zanardelli, Cadolini, Miceli, Speciale, Brunelti, Bargoni, Catucci, Sprovieri, Fabrizi N., Mordini, Siccoli, Sineo, Ricciardi, Finto, De Luca, Minervini, Valitutti, Golia, Carnazza, De Boni, San-Donato, Bellazzi, Mosciari.

Altra simile proposta sottoscritta dagli onorevoli Castagnola, Ugdulena, Mezzacapo, Mischi, Spinelli, Giacchi, Ferracciu, Pessina, Civita, Macri, Torriggiani, Atenolfi, Devincenzi, Cappelli, Pace, Danzetla.

Terza proposta nel medesimo senso e diversamente formulata da Conforti, Paternostro, Gravina Melchiorre, Camerini.

La Camera delibera nella medesima seduta una Commissione d'inchiesta sui talli di Torino, composte di nove membri, e ad elezione del presidente.

- 96 -

TORNATE DEL 7 NOVEMBRE E SEGUENTI 1864. Discussione della proposta sospensiva del deputato Ferraris circa il progetto di legge pel trasferimento della capitale.

Ferraris svolge la sua proposta, conchiudendo di non potersi votare la legge sul trasferimento se prima non si voti l'approvazione della convenzione del 15 settembre.

Parlano per la sospensiva Sineo, Boggio, Michelini.

Parlano contro la sospensiva. - Castellano, Minervini, Pessina, Mancini, Mosca relatore.

Il presidente del Consiglio. - Il Ministro per l'interno.

Nisco propone l'ordine del giorno puro e semplice sulla sospensiva di Ferraris.

La Camera approva l'ordine del giorno Nisco.

Si passa alla discussione generale del progetto di legge suddetto.

Parlano contro: - Miceli, La Porta, Ceppino, Pelruccclli, Musolino, Berti D., Boggio, Tecchio.

Crispi, svolge un suo ordine del giorno contro il trasferimento della capitale a Firenze, che ritiene come una garanzia data alla Francia perché Roma resti al Papa. - Esso è 6rmalo da Nicola Fabrizj, e venti altri deputati dell'estrema sinistra.

Svolgono le loro rispettive proposte: Speciale, Alfieri, D'Evandro, De Boni, Friscia, Cairoti, Nicotera, Chiaves, Brunetti, tutte nel senso contrario al trasferimento.

Parlano a favore: - Visconti Venosla, Bon-Compagni, Lazzaro, Ferrari, D'Ondes-Reggio, Pepoli.

Il presidente del Consiglio. - II ministro per l'interno.

Mordini, in appoggio alla sua adesione al trasferimento, presenta una dichiarazione firmala dai deputati Regnoli, Monlecchi, De Sanctis G., Del Giudice, Calvino, Palletta, Brunetti, Molinari, Marolda, Cognata, Bellazzi, Lazzaro, Romano G., Lualdi, Marcone, Carnazza, Siccoli, Cipriani, Fabricatore, Cadolini, Catucci, Raffaele, Bargoni, Ranieri, De Luca, Zanardelli, Valitutti, Golia, Polsinelli, Vischi, Vecchi, Minervini. - La dichiarazione è in tali termini: «Fedeli al plebiscito, confermiamo solennemente le ragioni dell'Italia su Roma capitale. Quanto al modo di conseguirla e quanto al tempo, intendiamo sia riservata alla nazione piena libertà. Il trasferimento della sede del Governo votiamo come atto di politica interna. Il trasferimento tutela l'indipendenza dello Stato, sottraendo la sede del Governo all'indifesa vicinanza delle frontiere, è una necessità suprema dell'amministrazione pubblica, sospinge sempre più irresistibile verso Venezia e Roma. - II trasferimento sarà il solo grande atto rivoluzionario, che avremo compiuto dal 1860 in poi.

Parlano in appoggio, Raffaele e Rattazzi. - Mosca relatore fa il discorso riassuntivo. - Pinelli, Minervini, Alfieri C.

Rubieri, Brunetti, Catucci, svolgono i rispettivi ordini del giorno.

Mancini così formula il suo: «Considerando che la convenzione, e la legge del trasferimento della capitale non possono infirmare la piena libertà serbata alla nazione pel compimento dei suoi destini, si passa all'ordine del giorno».

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La Camera approva l'ordine del giorno di Mancini, e si procede alla discussione degli emendamenti alla legge presentati da San-Donato, Musolino, Sineo, Minervini, Catucci.

Emendamento di San-Donato pel trasferimento della capitale aNapoli, firmato da Camerata Scovazzo F., Scovazzo Lor., Marsico, Golia, Catucci, Fabricatore, Petrucelli, Mondella, Robaudi, Vischi, Galucci, Mosciari, Del Giudice, Sprovieri.

Nisco propone l'ordine del giorno puro e semplice contro l'emendamento SanDonato. È sottoscrito dai seguenti deputati:Baldacchini, Pessina, D'Ayala, Mazziotti, Castromediano, Pace, Camerini, Cortese, Paternostro, Amicarelli, Grassi, Gravina, Greila, Pica, Lanciano, Pugliese, Di Martino, Majorana S., Amabile, Maresca, Dino, Tabassi, De Blasiis, Civita, Argentino, Poerio, Giordano, Dorucci, Marcano, Palomba, Venturelli, Pistftielli, Cannavina, De Donno, Majorana B., Matici, Mezzacapo, Soldi, Giacchi, -Cocco, Pironti, Zaccaria, Massari, Plutino, Anguissola, Vacca, Carafa, Sansevero, De Filippo, Cardente, Leopardi, Damiano, Assanti, Macri, Trigona, Leonetti, Braico, Bruno, Caso, Bonghi, Schiavoni, Beltrani, Scavia, De Sanctis (. I., Beneventani, Cutinelli, Avola, De Cesare, Longo, Lacaita, Mancini, Cepolla, Scocchera, Sebastiani, Castellano, Baracco, Atenolfi, Scrugli, Capone, D'Errico, Morelli, Camerini. - Costoro dichiarano: che il programma nazionale dovendo rimanere fuori di ogni discussione, essi reputano inopportuna e dannosa qualunque deliberazione, che possa scemargli credito ed efficacia nella coscienza del popolo italiano».

Dopo la proposta Nisco, San-Donato e considerando che si è voluto impicciolire la quistione, conducendola su d'un terreno nel quale non l'aveva egli portata, ritira il suo emendamento, anziché recare uno sfregio al suo paese, anziché vederlo rinnegato dai propri figli».

Sineo e Catucci ritirano egualmente le loro proposte.

Si passa a deliberare a squittinio nominale se la Camera intenda discutere gli articoli della proposta legge del trasferimento.

Votano pel no. - Alfieri d'Evandro, Ara, Avezzana, Bertea, Berti D., Bertini, Boggio, Borella, Bottero, Brida, Cairoli, Chiapusso, Chiavarina, Chiaves, Coppino, Crispi, Curzio, Deandreis, De Boni, De Benedetti, Ferraris, Greco A., Guglianetti, La Porta, Robaudi, Levi, Libertini, Macchi, Marazio, Marchetti, Massa, Matici, Mautino, Mellana, Miceli, Minghetti, Mongenet, Monti, Morandini, Mosciari, Musolino, Nicotera, Oytana, Pancaldo, Pinto, Pisani, Ranco, Rapallo, Ricciardi, Ricci V., Rorà, San-Donato, Sanguinetti, Sineo, Speciale, Tamaio, Tecchio, Valerio, Varese, Vegezzi Zav., Vegezzi-Ruscalla, Villa, Viora.

Votano pel si. - Acquaviva, Agudio, Alfieri C., Allievi, Amabile, Amicarelli, Andreucci, Anguissola, Arezzo, Argentino, Assanti, Atenolfi, Audinot, Baldacchini, Ballanti, Bargoni, Baracco, Basile, Battaglia, Bellazzi, Belli, Beltrani, Beneventani, Berardi, Berti L., Berti-Pichat, Bertozzi, Betti, Bianchieri, Bianchi A., Bianchi C., Bichi, Bixio, Boldi, Bon-Compagni, Bonghi, Borgatti, Borromeo, Borsarelli, Bossi, Bracci, Braico, Briganti-Bellini G., Brioschi, Broglio, Brunetti, Bruni, Bubani, Ihiffaliui, Busecca, Cadolini, Cagnola, Calvini, Camerini, Camozzi, Canalis, Cannavina, Caniti, Capone, Cappelli,

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Carafa, Cardelli, Cardente, Carnazza, Casaretto, Caso, Castagnola, Castellano, Castelli, Castromediano, Catucci, Cavalletto, Cavallini, Cedrelli, Cempini, Cepolla, Checchefelli, Cini, Cipriiini, di vi ta, Cocco, Cognata, Colucci, Compagna, Conforti, Corinaldi, Correnti, Corsi, Cortese, Costa, Costamezzana, Cugia, Cutiriclli, Cnzzetti, D'Ancona, Danxetta, D'Ayala, D'Asti;, De Blasiis, De Cesare, De Donno, De Filippo, Del Giudice, Della Croce, Della Valle; De Luca, Dei Pazzi, Depreti», D'Errico, De Sanctis F., De Sancìis G., Di Martino, Dini, Dorucci, Èrcole, Fabbricatore, Fabrizi G., Farina, Farini, Fenzi, Ferraccia, Ferrari, Terrario, Fiastri, Finzi, Fiorenzi, Galleotti, Gallucci, Garorano, Giacchi, Gigliucci, Giordano, Giorgini, Giovio, Giustinian, Golia, Grandi, Grassi, Gravina, Greco L., Grella, Grillenzoni, Grixoni, Grossi, Gueiricri Gonz. A., Guerrieri Gnm. C., Jacampo, Jacini, Lacaita, Lamarmora, Lanciano, Lanza, Lazzaro, Leardi, Leonoti i, Leopardi, Longo, Lualdi, Luzi, Maccabruno, Maceri, Macri, May, Majorana B., Majorana S., Malenchini, Marcene, Mancini, Maresca, Marescotti, Mari, Marolda, Marsico, Martinelli, Marzano, Massarano, Massari, Messola, Mazziotti, Mazzoni, Melchiorre, Melegari, Meloni, Meneghini, Menotti, Mezzacapo, Michelini, , Minervini, Minghetti, Mischi, Molla, Molfini, Molinari, Montella, Monzani, Mordini, Morelli G., Moretti, Morini, Mosca, Muchi, Nisco, Oliva, Orsetti, Pace, Palletta, Palomba, Panettoni, Parenti, Passerini, Paternostro, Pepoli, Peruzzi, Pescetto, Pessina, Pezzana, Pica, Pironti, Platino Ag., Platino An., Poerio, Polsipelli, Polti, Prinetti, Prospero, Pugliese, Raffaele, Ranieri, Rasponi, Rattazzi, Regnoli, Restelli, Ricasoli B., Ricasoli V., Ricci G., Robecchi, Robecchi G., Romano L., Romano G., Romeo P., Rovere, Rubieri, Ruschi, Bacchi, Salaris, Sa|imbeni, Salvagnoli, Salvoni, Sandonini, SaunaSanna, Sanseverino, Sansevero, Santocanale, Scalia, Scalini, Scarabella, Schiavoni, Scocchera, Scrugli, Sebastiani, Sorgardi, Sgariglia, Niccoli, Silvani, Siivestrelli, Sirtori, Soldi, Spaventa, Speroni, Spinelli, Sprovieri, Tabasso, Tenca, Teodorani, Tonelli, Tonello, Torelli, Tornielli, Torriggiani, Trezza, Trigona, Ugdulena, Vacca, Valitutti, Vanotti, Vecchi, Venturelli, Verdi, Vischi, ViacontiVenoata, Zaccaria, Zanardelli.

Si astengono. - Cassinis, Massei.

Dichiarazioni posteriori degli assenti.

Pel no. - Friscia, Genero, Solarelli, La Masa, Fabrizi N.

Pel sì. - Piroli, Toscanelli, Montecelii, Saracco, Maggi, Granoni, Rcccagni, Menichetti, Sella, Torre, Nicolucci, Leo, Aroonati, Negrotto, Marazzani, Pelosi.

Si passa alla discussione degli articoli.

Art. 1°. - La capitale del regno sari trasferita a Firenze entro sei mesi dalla data della presente legge.

Contro. - Morandini.

Ricciardi fa suo l'emendamento di San-Donato sul tramutamento della capitale da Torino a Napoli, e ampiamente lo svolge. - Indi lo ritira.

A favore. - Castellano, Bixio, il presidente del Consiglio.

Voto motivato di Boggio, Mancini e Cocco per la unificazione legislativa. -r e È approvato.

L'art. 1° è approvato.

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Art. 2°. - Emendamento di Ricciardi e Sirroli sulla spesa del trasolcamento. - È rigettato.

Dopo 12 tornate di lunghissima discussione, la Camera approva a squittinio segreto con voti 91 7 contro 70.

TORNATA DEL 23 GENNAIO 1865. - Discussione intorno la relazione sull'inchiesta parlamentare circa i fatti di Torino del 21 e 22 settembre.

La Commissione d'inchiesta dichiara: che non vi fu provocazione del popolo; che il Ministero non si dipartì dall'osservanza della legge, ma che fu colpevole d'imprevidenza e d'imperizia.

Ricasoli Bellino nel bel principio della discussione propone il seguente Voto motivato: «La Camera, vista la i-dazione della Commissiono da lei instituita per riferire sui deplorabili eventi del 21 e 22 settembre; considerando che il Parlamento deve sopratutto proporsi di stabilire l'ordinamento della nazione; considerando che alla tranquillità ed alla maturità delle discussioni nuocerebbe, mentre gli animi non possono essere ancora rasserenati, il riandare fatti ed avvenimenti chela dovettero profondamente perturbare; considerando che i sacrifizi per lunghi anni con eroica abnegazione sostenuti dalla città di Torino in prò dell'Italia, ed il contegno da essa osservato mentre si discuteva la legge del trasferimento, bastano ad allontanare da lei ogni sospetto di municipalismo} considerando che di grandezza degli avvenimenti e le necessità della nazione consigliano tutti ad immolare sull'altare della patria ed al supremo bene della concordia, ogni risentimento, ogni recriminazione e financo ogni giustificazione; rendendo grazie alla Commissione d'inchiesta per la diligenza con cui ha adempito al mandato affidatole, passa all'ordine del giorno.

Si. oppongono alla proposta Ricasoli: - Mordini, il quale conchiude: e che seppellimento dell'inchiesta nel giorno intimalo dalla stessa Camera alla pubblicità del giudizio, vorrebbe dire impunità pei fatti dolorosi del settembre, ed incoraggiamento a commetterne dei somiglianti; vorrebbe dire esautoramento della Camera, perché il paese non potrebbe più vedere in questo consesso il palladio della libertà, il custode ed il vindice dei diritti e delle prerogative costituzionali».

Crispi domanda ohe si proceda oltre sulla proposte Ricasoli, per non essere né pregiudiziale, né sospensiva. Soggiunge: «Essa vuoi gettare cenere sol fuoco. Non è così che si fa la concordia. Il fuoco si estingue, non si copre. Guai, signori, su il fuoco si copre! Un piccolo vento basterà a soffiare Sulla cenere ed a sviluppare un incendio, nel quale non cadremmo noi soli, ma cadrebbero lo nostre instituzioni».

Parlano in appoggio: - 11 ministro per l'interno. Pinzi.

Minghetti, sulla domanda del deputato Ara, risponde di non Volersi giustificare diunito agli altri colleghi del Ministero di settembre, perché «credono di fare il più grande sacrificio che uomo possa fare alla concordia ed alla patria».

La proposta Crispi viene rigettata. - Seguila la discussione sull'ordine del giorno Ricasoli.

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Contro: - Brofferio. Tra le altre cose dice: t Dopo avere accesa la fiaccola della discordia, e l'avete lanciata in mezzo all'Italia, voi venite a parlare a noi di concordia? Era tempo di parlarne quando stavate lavorando in segreto negli antri della diplomazia per umiliarci, per calpestarci. Ora la vostra tarda parola di concordia è una derisione. - A che giova l'inchiesta? - Giova alla sentila della giustizia, giova ad impedire che nuovo omicidio non ai commetta altra volta, giova al rispetto delle leggi, alla vendetta della società. Il giudizio del Parlamento insegnerà ai ministri ad onorare la libertà, a rispettare il sangue cittadino, e ad avvertirli negli arbitri loro, che, se essi uccidono col fucile, vi è chi percuote con la scure, lo respingo con tutte le mie forze la disgraziata proposta del deputato Ricasoli».

Seguono i discorsi di Rorà, Massei, Rubieri, Roggio, Cassini, Ara.

A favore: Bixio, Mosca, Ferrari, il presidente del Consiglio, il ministro per l'interno.

Rorà propone di aggiungere alla proposta Ricasoli le parole «prendendo atto delle conclusioni della Commissione».

Roggio, Cassinis ed altri ripetono sotto diverse forme l'emendamento di Rorà.

La Porta e Ferraris propongono l'ordine nel giorno puro e semplice sulla proposta Ricasoli.

Dopo il rigetto o ritiro delle proposte, è messa ai voti per isquittinio nominale quella di Ricasoli, ch'è approvata.

Votano contro: - Alfieri, Ara, Arconati, Avezzana, Bargoni, Bellazzi, Bertea, Bertini, Roggio, Borella, Bottero, Brida, Cadolini, Calvino, Camerata Scov. F., Camerata Scov. L., Cassinis, Chiavarina, Chiaves, Ceppino, Crispi, Curzio, Cuzzetti, Della Rosa, De Boni, De Benedetti, Depretis, Fabrizi N., Ferraris, Fossa, Genero, Giuliani, Gravina, Greco A., Guglianetti, La Porta, Levi, Longo, Lualdi, Maccabruni, Macchi, Marazio, Maroldi, Masa, Massei, Mongenet, Monti, Mordini, Morini, Mosciaro, Musolino, Oytana, l'esce Uo, Pezzani, Plutino A., Polti, Romano G., Rorà, Rovere, Tecchio, Valerio, Vegezzi Zav., Villa, Viora, Vischi.

Votano a favore: Acquaviva, Agudio, Allievi, Amabile, Amicarelli, Andreucci, Anguissola, Atenolfi, Audinot, Baldacchini, Ballanti, Barracco, Beneventano, Berardi, Bertozzi, Betti, Bianchi C., Bichi, Bixio, Bonghi. Borgatti, Bossi, Bracci, Braico, Briganti-Bellini Bellino, Briganti Bel. G., Brioschi, Broglio, Bubani, Buffalini, Busecca, Cagnola, Camerini, Canalis, Cannavina, Carafa, Castellano, Castromcdiano, Cavalletto, Cepolln, Checchetelli, Cini, Cocco, Conti, Corinaldi, Correnti, Cosenz, Costamezzana, Cucchiari, Damis, D'Ancona, Danzetta, D. Aste, De Blasiis, De Cesare, De Donno, De Filippo, Dei Pazzi, D'Errico, Èrcole, Fabrizi G., Farini D., Fenzi, Ferraccio, Ferrari, Ferrano, Fiostri, Finzi, Galeotti, Gigliucci, Giorgini, Giustinian, Grandi, Grattoni, Grillenzoni, Grossi, Guerrieri Gonzaga A., Guerrieri Gonz. Carlo,

- 101 -

Jacampo, Jacini, Lacaita, Lamarmora, Lanza, Leopardi, Levito, Macri, Maggi, Mancini, Marescotti, Mari, Martinelli. Marzano, Massarani, Massari, Melegari, Meneghini, Menichetti, Mezzacapo, Mischi, Moffa, Monzani, Morelli G., Morosoli, Mosca, Mureddu, Ninchi, Nischi, Panettoni, Pelosi, Petitti, Piroli, Poerio, Possenti, Prinetti, Rattazzi, Restelli, Ricasoli B., Ricasoli V., Rubieri, Sacchi, Salvagnoli, Sanseverino, Sansevero, Scalini, Scocchera, Sella, Sergardi, Silvani, Speroni, Spinelli, Tabassi, Tenca, Testa, Torelli, Tornielli, Torre, Torriggiani, Trezzi, Venturelli.

Si astengono. - Bianohieri, Bon-Compagni, Borromeo, Malenchini, Minghctti, Morandini, Peruzzi, Pisanelli, Robecchi G., Sandonini, Spaventa, Tamajo, Visconti Venosta.

Dichiarazioni posteriori di assenti che avrebbero votato:

Pel No. -Miceli, Nicotera, Minghetti, Vaini, Deandrcis, Marchetti, Leardi, Cairoti, Ranco, Mellana, Sanguinetti, Cbiapusso, Michelini, Marsico, Farina, Brunet.

Pel sì. - Giovio, Lanciano, Salimbeni, Scarabelli, Mazziotti, Pepoli, Fiorenzi, Vanotti, Scrugli.

Assenti dalla Camera 197.

TORNATE DEL 24 FEBBRAIO E SEGUENTI 1865. - Discussione del disegno di legge per l'abolizione della pena di morte.

A favore dell'abolizione. - Crispi, De Filippo, Panattoni.

Mancini, autore del progetto, lo svolge con sublimità in tutte le sue parti.

Pisanelli, relatore, fa il discorso riassuntivo della Commissione.

Emendamento di Crispi: fa eccezione pei reati militari in tempo di guerra, e pei marittimi.

Lo firmano: - De Boni, Miceli, Bargoni, Mordini, Fabrizi N., Tamaio, Cairoli, La Porta, Sinco.

Svolgimenti di sotto-emendamenti e proposte di Capone, Siccoli e Castagnola.

Contro. - Massari, Vacca, ministro guardasigilli, Chiaves, Conforti, Lamarmora, presidente del Consiglio, Cocco.

Voto motivato sospensivo di Broglio.

Votazione a squittinio pubblico sulla quistione di massima per l'abolizione, che è approvata.

Votano per l'abolizione. - Allievi, Amicarci!!, Andreucci, Ànguissola, Avezzana, Baldacchini, Ballanti, Bargoni, Bellazzi, Belli, Berardi, Bertea, Berti L., Bertozzi, Beiti, Bianchi Cel., Bichi, Boddi, Bonghi, Borgatti, Borromeo, Bossi, Botta, Bollerò, Bràcci, Braico, Briganli Bellini G., Brofferio, Brunetti, Busacca, Cadolini, Cairoti, Calvino, Camerala Scovazzo F., Camozzi, Cantù, Capone, Castagnola, Castromediano, Cempini, Cepolla, Cipriani, Collacchioni, Conti, Ceppino, Correnti, Cosenz, Crispi, Curzio, Cutinelli, Cuzzetti, Della Rosa, Damis, D'Ancona, De Boni, De Benedelli, De Cesare, De Donno, De Filippo, Della Croce, De Luca, De'Pazzi, Deprelis, Devincenzi, D'Ondes Reggio, Èrcole, Fabricalore, Fabrizi G., Fabrizi N., Farina, Farini D., Ferrano, Fiorenzi, Gigliucci, Giusliniani, Golia, Gravina, Greco A., Greco L.,

- 102 -

Griffini, Grossi, Guerrieri Gonzaga An., Guerrieri Gonzaga C., La Porta, Leopardi, Longo, Lovito, Maccabruni, Macchi, Maceri, Macri, Malenchini, Mancini, Mandoj Albanese, Marescotli, Mari, Marsico, Marlinelli, Massarani, Massei, Meneghini, Medie-lumi, Mezzacapo, Miceli, Molfini, Monlecchi, Monzani, Mordini, Moretti, Morosoli, Mureddu, Nisco, Panattoni, Papa, Pelosi, Piroli, Pisanelli, Plutino A., Pocrio, Polli, Ranieri, Rasponi, Regnoli, Restelli, Ricasoli B., Ricci V., Romeo P., Rubieri, Ruschi, Salaris, Salvagnoli, Scalini, Schiavoni, Scrugli, Siccoli, Silvani, Silvestrelli, Sineo, Speciale, Speroni, Tabassi, Tamajo, Tecchio, Tonelli, Toscanelli, Trigona, Venlurelli, Zanardelli.

Votano contro. -AlBeri C., Amabile, Ara, Arconati, Beneventani, Berli D., Berlini, Bonghi Al., Bon-Compagni, Borsarelli, Boyl, Brida, Briganti-Bellini Bellino, Broglio, Brunet, Bubani, Canalis, Cannavina, Caso, Cassinis, Caslello, Cavallelto, Cavallini, Cedrelli, Checchetelli, Chiapusso, Chiavarina, Chiaves, Cocco, Conforti, Corinaldi, Cucchiari, Danzetta, D'Aste, Deandreis, De Blasiis,

D'Errioo, Fumi. Ferrarle, Fiastri, Fiazi, Garofano, Genero, Giorgini, Govone, Grandi, Guglianetti, Jadopi, Lamarmora, Lanciano, Lanza, Maggi, Marazio, Marazzani, Marcbetti, Massa, Massari, Melchiorre, Melegari, Menulti, Michclini, Mischi, Molla, Monti, Morelli G., Musolino, Oytana, Parenti, Petitti, Pettinengo, Prinetti, Rapallo, Rattazzi, RiuciG., Saccbi, Salimbeni, Sandonini, Sanguinetti, Sella, Solaroli, Soldi, Testa, Tonello, Torelli, Torre, Ugduleiia, Valerio, Vegezzi Zaverio, Villa, Viora, Zaccftria.

Si astengono: Bixio, Ferrari, Levi.

Assenti 198.

Dichiarazioni posteriori di assenti.

Pel sì. - Tenca, Galeotti, Passerini, Orsini, Minervini, Minghelti, Vdini.

Pel no. - Merini, Vanotti, Tornielli, Mosca.

Si passa alla discussione dell'articolo, che dopo molti discorsi di oratori e loro emendamenti resta in tal modo redatto:

È abolita nel regno d'Italia la pena di morte in tutti i crimini poniti con la medesima nel codice penale comune.

Alla pena di morie è sostituita quella della reclusione cellulare perpetua.

In tutti i crimini puniti nello stesso codice coi lavori forzati a vita, a questa pena rimane sostituita quella dei lavori forzati per 30 anni.

TORNATA DEL 7 APRILE 1865. - Istanza del deputato De Boni per la discussione del progetto di legge sulla soppressione delle corporazioni religiose.

Lariza Ministro per l'interno, vi acconsente.

Proposta sospensiva di Ondcs Reggio.

Lazzaro e la Porta si oppongono per la brevità del tempo, che rimane sulla discussione di una legge di tanta importanza.

Sono approvate le proposte di Boggio e del Ministro Lanza per la sua discussione dopo quella delle ferrovie.

- 103 -

Sono notevoli le Seguenti parole del ministro sulla urgenza di questa logge: «Vi sono, o Signori, ragioni di alta convenienza politica per indurre il Governo ad insistere caldamente su questo proposito, né io ho alcuna difficoltà a dichiarare, che la ragione principale che a ciò lo induce, si è che sarebbe cosa grandemente impolitica ed improvvida di procedere alle nuove elezioni generali, lasciando insoluta questa grande quistione, dalla quale già da lunga pezza si può dire che in tutte le parti d'Italia l'opinione pubblica si è assai preoccupa!! Sciogliete, o Signori, questa quistione, e voi avrete elezioni, le quali potranno rappresentare assai meglio gl'interessi generali e i sentimenti del paese».

TORNATE DEL 19 APRILE ESEGUENTI 1865. - Discussione dello eccettui di legge per la soppressione delle corporazioni religiose.

Il relatore Corsi in nome della Commissione non accetta l'emendamento ministeriale il quale si restringe alla sola parte che tocca la soppressione, lasciando in disparte ciò che si attiene al riordinamento dell'asse ecclesiastico.

Crispi presenta la quistione pregiudiziale per la incostituzionalità dell'emendamento ministeriale.

La pregiudiziale è appoggiata da D'Ondes, Cantù, La Porta, e dal relatore Corsi.

Ricasoli Bellino fa delle considerazioni a favore della Commissione.

1 ministri Vacca e Natoli sostengono l'emendamento restrittivo «perché il tempo non concede abbastanza larghezza alla discussione completa del progetto, e perché nella imminenza delle elezioni si reputa prudente di eliminare la quistione del riordinamento dell'asse ecclesiastico».

I ministri per le finanze e per l'interno oppugnano la pregiudiziale.

Dichiarazioni del ministro Vacca in sostegno dell'emendamento ministeriale.

Parlano a favore: Robecchi, Seniore, Alfieri, Bon-Compagni.

Messo a partito se debba tenersi per tema della discussione il progetto della Commissione, oppure l'emendamento del Ministero, la Camera delibera per quest'ultimo.

A favore della soppressione. - Parlano: Sicoli e Bonghi.

Proposta di Bonghi per l'eccezione di alcuni istituti monastici.

Contro la soppressione. - Parlano: D'Ondes, Ugdulena, Toscanelli, Bon-Compagni.

Discussione degli articoli. - 11 ministro per le finanze presenta una nuova redazione dell'articolo 4° relativo alla dote ed assegnamenti delle monache.

Dopo le osservazioni ed emendamenti di Crispi, Pisanelli, Piroli, Cortese, Cavallini, Bargoni, Brunetti e Ninchi, la proposta è rimandata alla Commissione così redatta: «le Monache avranno diritto di optare per la restituzione della dote stessa, quando questa esista in natura nel patrimonio della corporazione, come fu costituita».

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Luzi propone un emendamento all'art. 5°, da rimanere come articolo separato, il quale viene accolto dalla Camera con applausi. Esso è così concepito: Alle religiose soltanto sarà compatibile la facoltà d'indossare l'abito monastico colla riscossione della pensione individuale, menlre i religiosi e laici tornati al secolo dovranno, per godere detta pensione, cessare d'indossare l'abito monastico.

Dopo la votazione sull'articolo della legge, riguardante l'assegno per le monache di alcuni chiostri, il ministro guardasigilli dice: «Signori, dopo il voto emesso dalla Camera nella tornata di questa mattina, il governo del Re sente il dovere d'invitarla a voler sospendere la discussione di questa legge onde il Ministero sia in caso di prendere quelle determinazioni che crederà più opportune».

TORNATA DEL 18 APRILE. - Il ministro guardasigilli presenta un Decreto reale con che si autorizza il Ministero a ritirare il progetto di legge in discussione.

Mellana domanda la parola «non per constatare il diritto che avrebbe la Camera di continuare la discussione sul progetto d'iniziativa parlamentare, ch'è quello della Commissione, non per chiedere i motivi pei quali il Governo si decise ad un atto così grave; di questo risponderà dinanzi alla pubblica opinione; ma per constatare un fatto che dopo la sospensione di ieri si riunivano più di settanta deputati di tutti i colorì a richiesta di alcuni ministri, Tacendo tali proposte che il Governo avrebbe potuto accettare. Ciò si dice perché qualunque siano le conseguenze di questo atto ministeriale, sappia il paese che esse non possono iu modo alcuno ricadere sulla Camera dei rappresentanti della nazione >. Così osserva il marchese Giuseppe Pulce, ebbe termine la prima legislatura italiana, che si appella ottava negli atti del Parlamento, come V. Emanuele si chiama secondo, e lo statuto sardo italiano.

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DAL MINISTERO DEL REGNO D'ITALIA

AL MANICOMIO

Dopo la morte del Conte di Cavour, la caduta del Ministero di Bettino Ricasoli, e la rovina precipitosa di Urbano Battazzi le redini del nuovo Regno d'Italia vennero affidate a Carlo Luigi Farini, il quale sventuratamente venne colpito dalla pazzia mentre ancora stava al Ministero, né gli restò tanto ben dell'intelletto da poter rassegnare la sua rinunzia nelle mani del Re. Della questione Romana sotto il Ministero Farini, e dell'infelicissima fine di quest'uomo, compagno sempre al Conte di Cavour, discorreremo negli articoli che seguono.

IL NUOVO MINISTERO FARINI

(Pubblicato il 10 dicembre 1862).

«Si distruggono i regni, si creano le repubbliche, poi le si abbattono e si installa il despotismo, non per difendere o conquistare la libertà o la gloria, ma per satisfare la concupiscenza, per tórre o chi ha e dare a chi non ha» (Farini, Lettera a G. Gladstone. Torino, 20 dicembre 1852).

Dopo un lavoro di dieci giorni finalmente il regno d'Italia trovò un ministero, combinato Dio sa come, e clic vivrà Dio sa quanto; un ministero composto di dieci ministri, il quale ci dà, per giunta sulla derrata, un ministro senza portafoglio, ma colle venticinquemila lire di stipendio. Progenitore di questo gabinetto è il cav. Carlo Luigi Farmi, che aveva ancora grossi peccati da scontare, e la divina giustizia l'ha condannato (orribile pena!) alla presidenza del ministero del regno d'Italia. E vedrete ch'egli non tarderà a ricevere da suoi ciò che s'ha meritato in Bologna, in Modena, in Torino, come se l'ebbe Garibaldi, e se l'ebbero Durando, Rattazzi, Matteucci e Pepoli. 1 rivoluzionari debbono essere gastigati dalla rivoluzione medesima, affinché siano tormentati per que' stessi delitti che hanno commesso.

Lasciando da parte per ora i nomi degli altri nove ministri, ci occuperemo del solo Farini, sia perché egli, come padre e presidente del ministero, gli da tutto il colora, sia perché i nomi dei ministri colleghi del Farini non sono ancor certi, essendo stati alcuni eletti in contumacia, ovvero durante la loro assenza. Ma studiando ne' precedenti politici del Farini, e massime negli scritti ch'egli mandò alle stampe, non è cosa tanto facile il dire che cosa sarà il suo ministero. Conciossiachè nel Farini si trovi, secondo la stagione, il repubblicano, il mazziniano, l'ufficiale pubblico del Santo Padre Pio IX, il moderato, il monarchico, il federalista, l'unionista e via via.

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Volendo però mettere un po' d'ordine in questa confusione di colori, nella vita politica del Farini si possono distinguere due periodi; l'uno quando il Farini era povero o voleva morir»icco; l'altro quando il Farini fu ricco e volle morir povero. Le sue opinioni, il suo linguaggio, la sua condotta variarono pienamente, e mentre nel primo periodo godeva di mostrare la rozzezza del demagogo, nel secondo studia tutti i mezzi per farsi credere aristocratico. Noi lasceremo da parte l'uomo privato che non appartiene alla nostra giurisdizione, ma parleremo francamente dell'uomo politico, perché n'abbiamo tutto il diritto. Però ogni nostra asserzione verrà sempre provata con citazioni e documenti.

Giuseppe Mazzini ci parla di Luigi Carlo Farini nel terzo volume de' suoi scritti uditi ed inediti, e ci dice che la Giovine Italia «noverava tra' suoi lo storico Farini (1)»; e ci racconta: «Vivono ancora i popolani Bolognesi, che ricordano il Farini vociferatore di stragi nei loro convegni, ed uso ad alzare la manica dell'abito sino al gomito, e dire: ragazzi bisognerà tuffare il braccio nel sangue (21°. Speriamo che il Farini non sia per ripetere questo programma né sulla Dora, né sul Sebeto. Allora era il Farini giovine, il Farini povero, che volea morir ricco; ora è il Farini ricco che vuole morir povero. Tuttavia quella buona memoria di Giuseppe Montanelli lasciò scritto di Farini: spirito acre, passionato, bislacco, resterà sempre violento, quantunque si sia fatto battezzar moderato (3).

Lo stesso Montanelli diceva: «Abbiamo cospirato insieme con Farini per preparare |a rivoluzione romagnola, abortita a Rimini nel settembre del 1845. In quella circostanza ebbi per la prima volta alle mani lo stile di Farini, che scrisse il manifesto ai Principi ed ai popoli d'Europa, che fu il programma della rivoluzione, condannato poi da Azeglio nel libriccino sui Casi di Rimini. Anzi Azeglio trattava gli autori di quei movimenti più duramente che non si legge nel libriccino stampato; ed io nella stessa stanza di Pisa, dove Farini m'avea portato qualche mese avanti a correggere il manifesto della rivoluzione, pregato da Azeglio a dirgli il mio parere sul manoscritto, che mi lesse prima di stamparlo, lo consigliai a moderare certe sue espressioni non meritate dai Romagnuoli (1)» .

Non ostante questi suoi precedenti, quando Pio IX salì sulla cattedra di San Pietro, non solo perdonò a Luigi Farini, ma lo elesse al suo servizio, e vi godo intime comunicazioni, entrò in gelosi impieghi, operò in trattati rilevantissimi del governo medesimo, come egli stosso racconta nel suo Stato Romano.

(1) Scritti editi ed inediti di G. Mattini. Milano G. Daelli 1862, vol. III, pag. 49.

(2) Loc. cit. vol. III, pag. 314.

(3) Lettera di Montanelli pubblicata dal giornale di Brofferio, la Voce nel Deserto, N° 20, 10 ottobri; 1S51.

(1) Lettera di Montanelli, eco.

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E poiché il Farini volea ricondurre Roma l 'antica grandezza, prima di dettare quel libro avrebbe dovuto ricordarsi di ciò che scrisse Marco Tullio Cicerone, quando nella sua Divinat, in Verrem asseriva essere indegna cosa, che un questore si presentasse ad accusare quel governo, di cui avea goduto la confidenza.

Cacciato da Roma Pio IX, il Faririi si profferì candidato per la Costituente, ma gli vennero meno i suffragi, e fé fiasco (2). Dopo la ristaurazione tornò all'impiego pontificio, e mentre riceveva stipendio dal Papa, scriveva vituperii contro il suo governo nel Risorgimento di Torino e nel. Costituzionale di Firenze (3). Da ultimo fu conosciuto, e sfrattato da Roma; e venne in Piemonte, dove s'ebbe ottimo asilo. E qui prese a dettare quella sua storia dello Stato Romano, in cui Guerrazzi trovò un piglio di procuratore e soverchie tumidezze e bugie, e rimbrottò il Farini «d'aver gittato addosso ad altrui accuse pessime per iscivolar via, lasciando dietro una traccia di bava a mo' di lumaca»; e lo avvertì che «la storia scrivono gli storici non gli scoiattoli (41°.

Ma era quello il momento, in cui Farini da povero s'incaminava a diventar ricco, e mutava contegno. Mentre era stato membro della Giovine Italia, rinnegava la madre, e tuonando contro Mazzini, scriveva: «Mazzini in teologia o deista e panteista, è razionalista a vece a vece, un po' di tutto; par cristiano, ma non sapresti se sia cattolico, o protestante, o di qual setta; è parso un tempo ch'egli copiasse in tutto Lamennais, cioè un altro uomo senza verun sistema; repubblicano Mazzini noi fu sempre, o noi parve. Un tempo scrisse contro le teorie che appellano socialiste; poi mutati i tempi, ne confettò qualche nuovo scritto e si collegò con socialisti d'ogni nazione. Mediocre uomo credo

10 il Mazzini in tutto, ma gli è un genio di pertinacia; orgoglio tragrande... compatimento de' vizi, e pur troppo anco delle scelleratezze de' suoi... bestemmia e prega, benedice e scaglia anatemi (5)». Le quali parole si potrebbero applicare a Farini coll'epigrafe: Mutato nomine de le fabula narratur!

Noi stiamo a vedere come il nuovo presidente del ministero si farà innanzi alla Camera, dichiarando che è suo intendimento di continuare la guerra contro il Papa, conquistar Roma e fondere tutta Italia in un corpo solo. Imperocché il Farini lasciò scritto tutto l'opposto, e i nostri lettori avranno sovente occasione di ridere a sue spese, reggendo come le sue scritture sieno in piena opposizione colle sue parole. Pigliamo di questi scritti un solo, e sia la lettera al sig. Guglielmo Gladstone a Londra. Torino, 20 dicembre 1852.

(2) Vedi Croce di Savoia e Italia e Popolo del 20 di ottobre 1851.

(3)Vedi il giornale Lombardo Veneto, numero del 21 ottobre 1851.

(4) Apologia della vita politica di F. D. Guerrazzi, scritta da lui medesimo. Firenze, ISSI, pag. 815.

(5) Lo Stato Romano dall'anno 1815 al 1850, voi. III pag. 275-276.

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Qui il Farini ha detto: «Un illustre scrittore italiano consigliava, non ha molto, il Papa a gittare lungi da sé il peso del temporale; ma non avvertiva che lo stesso Papa, finché duri la presente costituzione del Papato, noi potrebbe, e che sarebbe mestieri fosse accetto il consiglio a tutta l'oligarchia dominante in Roma. Può un Papa far per sé il gran rifiuto, non può farlo per gli altri». Dunque il primo punto del programma del nuovo ministero Farini sarà che bisogna adagiarsi al non possumus di Pio IX.

Inoltre il Farini ha scritto al signor Gladstone: «Sia pure che la signoria temporale dei Papi versi in agonia, sia pure che le opinioni universali la condannino; ma molte generazioni, a mio avviso, scenderanno nella tomba prima che pera interamente... Se ogni imperio di sacerdoti resistette lungamente alla morte, quello del sacerdozio cattolico, governato da fortissima gerarchia con mirabile unità, resisterà più di qualsivoglia altro». Dunque, secondo punto del programma del nuovo ministero Farini: a Roma non si va per molte generazioni

E Farini, scrivendo a Gladstone e parlando a' suoi lettori, ripigliava: «I lettori discreti faranno ragione, come essendo sei secoli che in prosa ed in versi l'Italia sclama contro la signoria dei Papi, io non mi accontenti a ripetere lai ed augurii, ed a mandare contento il volgo con dire: sorgi e distruggila... Egli è grandemente improbabile che a breve andare la sia distrutta». Dunque, terzo punto del programma del nuovo ministero Farini: Bando alle illusioni, il Papa sta!

E Farini nella stessa lettera a sir Gladstone rincalzava: «Le questioni che si agitano sulla signoria dei Papi non sono soltanto Romane od Italiane, ma sono Europee questioni, e quindi non sono in balia né dell'arbitrio, né delle forze nostre Qualunque violenza, che i popoli mossi dal pungolo della disperazione potessero perpetrare, non varrebbe ad esautorare oggi il Papa, perché, se non bastassero i cattolici, verrebbero gli scismatici a restituirlo». Dunque quarto punto del programma del nuovo ministero Farini: I deputati italianissimi radano a dormire!

E Farini proseguiva: t lo penso che se è difficile che l'Italia possa a suo beneplacito, quando pure abbia occasione, virtù e lena da tanto, venire in essere di nazione pienamente indipendente, egli è QUASI IMPOSSIBILE che a suo beneplacito, non che distruggere, possa mutare, od alterar colla violenza la signoria del Papa». Dunque, quinto punto del programma del nuovo ministero Farini: Gl'italianissimi si vadano a riporre!

Finalmente il Farini, in sul cominciare del suo Stato Romano, parlando del Congresso di Vienna, così scriveva«Se allora fu qualche segno di spiriti indipendenti, ci parve fatto dalla Romana Corte, la quale si querelò delle terre tolte oltre Po, e delle fortezze occupate in Ferrara e Comacchio. Singolare natura questa della Romana Corte, la quale si rassegna tal fiata, ma non piega mai l'animo né alla forza, né alla fortuna, né per tempo dimentica mai. Esautorata da Napoleone, diede di sé tale esempio di dignità e fortezza, che parve vincitrice anzi clip vinta; e restaurata poi dai vincitori di Napoleone, si richiamò corrucciata del non restituito, quasi signora alle ancelle». E queste parole dovrebbero servire di conclusione al programma del nuovo ministero Farini!

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IL PRIMO ANNUNZIO DEL MINISTERO FARINI

(Pubblicato l'11 dicembre 1862).

Col mezzo del telegrafo il sig. Farini ha sparso per l'Italia il seguente annunzio sotto la data di Torino, 9 dicembre, S. M. si è degnata nominare:

Presidente del Consiglio dei ministri Farini;

Ministro degli affari esteri Pasolini;

Idem delle finanze Minghetti;

Idem di grazia e giustizia Pisanelli;

Idem della guerra Della Rovere;

Idem della marina Ricci Giovanni;

Idem dei lavori pubblici Menabrea;

Idem dell'interno Peruzzi.

Per i portafogli dell'istruzione pubblica e dell'agricoltura e commercio sono designati i signori Amari e Manna, non ancora giunti a Torino.

Il Presidente del Consiglio Farini.

LA QUESTIONE DI ROMA

NEL DICEMBRE 1861 E NEL DICEMBRE 1862.

(Pubblicatoli 13 dicembre 1862).

«Rinunziare alla questione di Roma è più facile a dirsi che ad effettuarsi; né io veggo nello stato degli animi in Italia e nelle circostanze attuali della Penisola come potrebbe sorgere, e meno poi durare un ministero, il quale dichiarasse tale essere il suo divisamente, né so dove troverebbe sostenimento un'amministrazione, la quale dicesse: occupiamoci d'altro, a Roma ci penseremo poi. Io non sosterrei quel governo»

(Deputalo Cerutti, tornata del 7 dicembre 1861. Atti Ufficiali, numero 349, pag. 4350).

Non v'ha nulla di più istruttivo per tutti, di più consolante pei cattolici, di più vergognoso pei rivoluzionari, che l'istituire un confronto tra il dicembre dell'anno passato e il dicembre dell'anno corrente. Nell'uno e nell'altro si parlò assai in Torino della questiono di Roma, ma con istile e conclusioni molto diverse! Un anno la restava ancora un po' di speranza ai nemici di Pio IX, che lo spoglierebbero della sua città; ma oggidì la disfatta è così completa, che il nuovo ministero non osa più nel Parlamento di nominare Roma, e i giornali libertini gli danno lode di non averla nominata!

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Già nel marzo del 1861 la Camera dei deputati avea discorso per tre giorni, e deliberato su Roma. Il 25 di marzo il deputato Audinot diceva: «L'Italia ha bisogno di Roma, perché Roma è la capitale naturale d'Italia; ha bisogno di Roma, perché da quest'estremo lembo d'Italia non si può eternamente governare tutta la nazione; ha bisogno di Roma, perché Roma, capitale d'Italia, è l'espressione più alta dell'unità e dell'indipendenza della nazione» (Atti Ufficiali, N° 38, pag. 134).

E il conte di Cavour (req uiescat in pace!) rispondeva: «L'onorevole deputato Audinot vel disse senza riserva: Roma debb'essere capitale d'Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma, so questa verità non è prima proclamata, accettata dall'opinione pubblica d'Italia e d'Europa (A sinistra: Bene!). Se si potesse concepire l'Italia costituita in unità in modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente, che reputerei difficile, forse impossibile la soluzione della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi, il dovere di chiedere, 'd'insistere, perché Roma sia riunita all'Italia? Perché senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire» (Atti Ufficiali, N° 38. pag. 135).

E allora il deputato Marliani, nominato testé senatore, si preparava a dire, fra non mollo, a' Veneti: «Popolo di Venezia, confortati e spera; i rappresentanti d'Italia siedono in Campidoglio» (pag. 139). E Gioachino Pepoli gridava: «Fiducia. Santo Padre, fiducia nell'Italia e nel suo Parlamento» (pag. 142). E Torelli: «Si vada a Roma, si abbandoni questa nobile contrada (Torino), si vada a Roma» (ìd.) E Ferrari: «Si vada a Roma: tutti lo desiderano» (pag. '144). E Roggio: «Vogliamo che il potere temporale cessi; vogliamo che Roma sia, e prontamente, restituita agl'Italiani» (Pag. 151). E Ricciardi: «La Camera, persuasa profondamente, la sede del Parlamento e del Governo italiano dover essere in Roma, afferma innanzi al mondo questo solenne diritto» (N»43, pag. 153).

Dopo tre giorni di discussione, 25, 26 e 27 di marzo, la Camera votò alla quasi unanimità un ordine del giorno Bon-Compagni, perché «Roma sia congiunta all'Italia». Da lì a due mesi il conte di Cavour passò all'eternità, e gli succedette nettino Ricasoli. Allora i deputati incominciarono ad aspettar Roma da questo uomo forte, e Roma non veniva, e a Roma non si andava. Finalmente agli onorevoli scappò la pazienza, e fecero le interpellanze del dicembre 1861, le quali durarono dal 2 di dicembre sino all'11, cioè dieci buone tornate.

E il deputato Alfieri diceva: «Io confido nella lealtà e nel fermo proposito del barone Ricasoli di voler andare a Roma» (Atti Uff. N° 337, pag. 1304). E Pisanelli, ora ministro di grazia e giustizia: «Non tarderà il giorno, in cui noi vedremo sventolare in Campidoglio la bandiera italiana» (pag. 1316). E Ricciardi: «L'andata a Roma è per noi questione di vita o di morte» . (pag. 13-19). E Urbano Rattazzi: «Il governo francese non avversa l'idea di rendere libera Roma onde sia restituita all'Italia (pag. 1320). E Bellino Ricasoli, presidenti del ministero, il 6 dicembre 1861, dicea: «La questione romana si scioglierà, perché i tempi moderni l'hanno maturata» (pag. 1334).

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E il deputato Carutti; «Non so dove troverebbe sostenimento un'amministrazione, la quale dicesse: occupiamoci d'altro; a Roma ci penseremo poi» (pag. 1350). E Bertani: «Tocca al Parlamento italiano a mandare solenne ambasciata a Roma, perché legga al Papa il suo capitolato in nome del popolo italiano. Il Pontefice l'ascolterà, per-1 che quella sarà voce di Dio» (pag. 1353).

E il deputalo Depretis domandava: «Le questioni di Roma e di Napoli non racchiudono esse evidentemente l'esistenza di tulio quanto abbiamo acquistato?»

(pag. 1360). E Panattoni: «11 possesso di Roma come capitale d'Italia... è oramai assicurato dal diritto nazionale, dal suffragio popolare già espresso dalle provincie ora unite, e dalle aspirazioni palesi delle popolazioni tutt'ora sottratte alla bramata unità del regno; è finalmente sancito dal volo parlamentare, secondato dall'opinione più illuminata, richiesto dal bisogno della pace europea» (pagina 1365). E Ricci Giovanni, ora ministro della marina, sottoscriveva il 9 dij cembro un ordine del giorno, con cui la Camera invitava il ministero «a darei opera più efficace perché Roma sia restituita all'Italia» (pag. 1371). E Mellana! «può venire il momento in cui stanchi e per tanto tempo delusi nelle loro speranze, il dolore la vinca sulla prudenza, e i Romani insorgano nelle vie di Roma» (pag. 1373). E il deputalo De Cesare: «Il papa non larderà guari a chiedere al gabinetto italiano di volere negoziare sui patti proposti dall'onorevole Ricasoli. . . I! governo del Santo Padre come Redi Roma è nell'impotenza assoluta di poter continuare tutti i servizi pubblici inerenti allo Stato» (pag. 1377). Finalmente, dopo un infinito parlare e straparlare, l'11 dicembre 1861 la Camera approvava con 232 voti contro 79 un ordine del giorno Bon-Compagni Conforti, il quale diceva: «La Camera conferma il voto del 27 marzo che dichiara Roma capitale d'Italia». Conferii soggiungeva: «Ho voluto che queste parole Roma capitale d'Italia rimbombassero perfino nella capanna dei contadini; ho voluto che leggendo il mio ordine del giorno tutti comprendessero che il Parlamento ha il suo pensiero costantemente fisso su Roma (Atti Uff., N° 359, pag. 1386).

La votazione dell'ordine del giorno Conforti-Bon-Compagni fu falla l'il dicembre 1861 per appello nominale; e il deputato Farini, ora presidente del ministero, approvò e fé rimbombare le parole di Roma capitale; le fé rimbombare Peruzzi, le fé rimbombare Minghetti , le fé' rimbombare Pisanelli. Non sappiamo se il rimbombo giungesse perfino nella capanna dei contadini: questo sappiamo, che un anno dopo, proprio l'il dicembre 1862, i Farini, i Minghetti, i Pisanelli, i Peruzzi, creati novellamente ministri, si presentarono nell'una e nell'altra Camera, e quel nome di Roma, che dodici mesi prima avean voluto «che rimbombasse perfino nella capanna dei contadini», non osavano nemmeno pronunziarlo davanti ai deputali ed ai senatori. Oh chi l'avesse dello a costoro un anno fa, chi avesse dello alla Camera, quando si finì di noverare i voti favorevoli all'ordine del giorno, che confermava Roma capitale: - Onorevoli, l'11 dicembre dell'anno nuovo 1862, non solo non avrete Roma, ma vedrete al vostro costello nuovi ministri, a cui mancherà il coraggio di proferire il semplice nome dell'eterna città! -

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Tre principali interpellanze si mossero adunque sulla questione romana nel Parlamento di Torino. La prima interpellanza incominciò il 25 di marzo 1861, e terminò il 27 dello stesso mese, essendo presidente del ministero il conte Camillo di Cavour. Fu conchiusa con un ordine del giorno, che dichiarava Roma capitale. La seconda interpellanza incominciò il 2 dicembre 1861, e tini l'1 1 dicembre, dopo 10 giorni di discussione. Si conchiuse confermando il voto del 27 di marzo, e facendo rimbombare anche nelle capanne del contadino le parole di Roma capitale. L'ultima interpellanza incominciò il 20 di novembre, ed ebbe termine il 1° di dicembre, dopo undici giorni di pubblici dibattimenti. I quali non poterono riuscire a nessuna conclusione, giacché, il ministero, senza aspettare la definitiva sentenza, stimò meglio farsi giustizia da se stesso, e rassegnare i suoi portafogli.

Sicché mentre il i dicembre del 1861, l'aula parlamentare risuonava per un discorso del deputato Ferrari ostile al Papa ed al Cattolicismo, il 2 dicembre del 1862 regnava in quell'aula un silenzio sepolcrale. Urbano Rattazzi disperando di poter giungere fino a Roma, finiva con un suicidio politico; e Pasolini e Cassinis correvano in cerca di nuovi ministri per rattoppare alla meglio le lacere vestimenti!, della povera Italia, che mostrava le sue nudità. Questi due invocarono in loro soccorso Luigi Farini, e tutti tre cercarono e ricercarono un nuovo ministero per tanti giorni, e durante quei medesimi giorni del dicembre, che nell'anno passato s'erano consumati in invettive contro il Papa, e in grandi lusinghe di ottener Roma.

L'Opinione e la Gazzetta del Popolo lodano il nuovo ministero, perché fu parco di promesse, e que' giornali sono lietissimi che il Farini non nominasse Roma. Omai questo nome è divenuto pei nostri politici un ostacolo, un imbroglio, uno spauracchio; la sola parola Roma li scompiglia, li conturba, li atterra; Roma che è per noi cattolici una gloria e una speranza, divenne pei rivoluzionari un'onta, una vergogna, un tormento; e mentre il nostro giornale gode quando può parlare di Roma e del Papa, il nuovo ministero e i suoi giornalisti si studiano di dimenticare e far dimenticare il Papa e Roma.

IL PROGRAMMA DEL MINISTERO FARINI

(Pubblicato il 13 dicembre 1862).

Leviamo dagli Atti Ufficiati della Camera, l'935, pag. 3634, il programma che il sig. Farini lesse ai deputati nella tornata dell'11 dicembre. Ci dicono che nei privati convegni i ministri durassero molta fatica ad intendersi, ed anzi cominciassero ad abbaruffarsi fra di loro, e Peruzzi volesse Roma, e Ricci la pretendesse assolutamente, e Minghetti protestasse di non poterne fare a meno, sicché ingaggiossi la battaglia in terzo «Ed era per uscirne un strana scherzo». Quando intervenne un gran personaggio a pacificare i ministri neonati, e allora si accordarono sul seguente programma.

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Farini, presidente del Consiglio. Signori, poiché ci fu dalla fiducia del Re affidato il grave incarico dell'amministrazione dello Stato, è nostro debito di dichiarare che noi cercheremo anzitutto nell'appoggio del Parlamento quella autorità che è necessaria per compiere nell'interno i buoni ordinamenti, e per rappresentare all'estero l'onore e gl'interessi dell'Italia.

La nazione sente come sia venuto il tempo di assicurare le conquiste e i beneficii dell'unità, e di dare efficace opera all'interno ordinamento.

Noi ci proponiamo di rispondere a questa aspettazione dei popoli indagando studiosamente i bisogni ed interessi loro, compiendo le riforme amministrative designate dall'esperienza sulla base di un largo discentramento, e dando opera solerte allo svolgimento delle libertà costituzionali in ogni parte dell'organismo dello Stato.

Ma questo svolgimento di libertà ha per sua prima e necessaria condizione l'ordine pubblico. Se l'ordine pubblico non fosse fermamente mantenuto, l'Italia sentirebbe diminuire in sé la fiducia del proprio trionfo, e troverebbe come un ostacolo sulla sua via le insuperabili diffidenze dei governi e dei popoli di Europa.

Gl'Italiani hanno dimostrato come, decisi e sicuri nei proponimenti dell'unita e del diritto nazionale, essi non disgiungano questa fede dalla loro profonda devozione alla monarchia ed alla legge.

Allo spettacolo di senno civile che ha dato l'Italia si unisce il sentimento della riconoscenza nazionale verso l'esercito, simbolo e pegno dei nostri destini, che, dopo avere eroicamente combattute le battaglie dell'indipendenza, diede, in una dolorosa prova, il più nobile esempio di abnegazione e di disciplina, restaurando Li violata autorità delle leggi.

Noi portiamo, o signori, al potere, quasi non è bisogno il dichiararlo, intera la fede che sta nell'animo di ogni italiano, i principii di diritto pubblico che hanno costituita la nazione, i voti che il Parlamento ha solennemente espressi. Fermi nell'incrollabile convincimento che l'unità nazionale avrà il suo compimento, crediamo di rispondere ad un sentimento di comune dignità astenendoci dalle promesse a cui non succedono i pronti effetti, e troviamo nella nostra istessa fede il diritto di dichiarare all'Italia che essa deve attendere questo compimento dallo svolgersi degli avvenimenti e dalle occasioni preparate ed attese, senza illusioni e senza sfiducia (Bravo! Bene! al centro).

L'opera del nostro risorgimento si è iniziata ed è progredita per l'adesione spontanea degli animi, pel concorso delle volontà, e si è presentata all'Europa come un pegno di tranquillità e di progresso fra le civili nazioni. Noi seguiteremo per questa via, tenendo conto delle condizioni generali dell'Europa, e solleciti di conservare all'Italia le sue alleanze e la piena sua indipendenza (Benissimo!),

Grande impresa che la Provvidenza ha visibilmente affidato alla nostra generazione, accordandoci le occasioni propizie, le virtù necessarie, donandoci sopratutto quel Re prode e leale, nel cui senno si rinfranca la fede della nazione, nel cui nome s'intitola la nuova concordia italiana, e si confondono gl'indissolubili destini dell'Italia e della dinastia (Vivi segni di approvazione).

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CONFERENZA TRA IL MINISTRO FRANCESE

E FARINI PRESIDENTE DEI MINISTRI

(Pubblicato il 19 dicembre 1862).

Due giorni fa il conte di Sartiges, ministro plenipotenziario di Francia, recavasi a fare una visita diplomatica all'Eccellentissimo Carlo Luigi Ferini, Cavaliere dell'Ordine della SS. Annunziata e presidente del ministero. Il conte di Sartiges portava con sè sotto il braccio due libri; l'uno scritto in lingua francese e intitolato: Statuts et ordonnances du très-noble Ordre de l'Annonciatè précedées d'une notice historique du meme Ordre et suivies du cathalogve des Chevaliers. Turin, de l'Imprimerle Royale MDCCCXL; l'altro: Lettera at signor Guglielmo Gladstone a Londra, scritta da Torino, 20 dicembre 1852, rial devotissimo L. C. Ferini, e pubblicata a Firenze nel 1853 da: Felice Lemonnier.

Con questi due libri il conte di Sartiges veniva introdotto alla presenza dell'eccellentissimo Farini, e fatti i convenevoli da una parte e dall'altra, destramente il plenipotenziario francese domandò che cosa il nuovo ministero pen sasse di Roma, giacché non ne ave» voluto dir nulla alla Camera, nò la Camera avea voglia di udirne parlare, levandosi a rumore ogni qual volta sì proferisse' il grande nome di Roma. E l'eccellentissimo Farini prese a schermirsi dalla domanda, rispondendo al diplomatico che omai s'era parlato in Italia troppo di Roma, e che troppo n'aveano parlato i gabinetti precedenti, a cominciare daI conte di Cavour sino a Rattazzi e Durando, che erano si miseramente caduti; laonde egli ed i suoi colleghi aveano stimato miglior consiglio di serbare su di ciò un alto ed eloquente silenzio.

E il conte di Sartiges affrettossi a lodare questo contegno del nuovo ministero; ma fe' capire all'eccellentissimo Farini ciò ch'egli, come medico e chirurgo, doveva già sapere, che sebbene le piaghe toccate troppo di frequento inciprigniscano, non isfasciate e medicate mai, possono degenerare in cancrena e portare la morte. Di che esortavate a tacere bensì in pubblico della questione di Roma. ma a cercare privatamente con lui i mezzi da condurla ad un qualche scioglimento. Alla quale proposta l'eccellentissimo Farini non potè a meno di domandare, più per cortesia che per altra ragione, su quali basi intendesse la Francia di sciogliere oggidì la questione di Roma.

Di questa domanda fu lietissimo il conte di Sartiges, e cominciò a sfogliare il suo volume degli Statuti e Ordinanze del nobilissimo ordine dell'Annunciata, e apertolo a pag. 127, prese a congratularsi col Farini ch'egli fosse stato decorato d'un Ordine così splendido. Lesse poscia il decreto di Carlo Alberto, che sotto la data del 15 mar/. o 1840 stabiliva la formata del giuramento dei Cavalieri dell'Ordine dell'Annunziata, e cominciò a scorrere coll'occhio questa formola. E fermossi là dove la formola dice: Voi giurate che vivrete nella santa fede cristiana secondo i comandamenti di Dio e istituzioni e osservanze della Chiesa Cattolica Romana, e qualora (che Dio noti voglia) cadeste in errori a questa contrario senza voler ritornare alla verità suddetta, voi non riterrete il collare più lungamente».

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E insisté su quest'altro periodo: «Voi giurate clic quando il Sovrano o i suoi successori pigliassero le armi per difendere, mantenere e Ristabilire la dignità, STATI e libertà di nostra madre Santa Chiesa, e della Santa Sede Apostolica di Roma, voi verrete personalmente a servire il detto Signore e Sovrano».

E qui osservava il conte di Sartiges all'eccellentissimo Farini com'egli appunto chiedesse al cavaliere della SS. Annunziata di deffendre, maintenir et restablir les Etats du Saint Siège Apostolique de Romme, conforme al giuramento. Ma l'eccellentissimo Cavaliere tagliò corto dicendo eh'pgli non avea prestato alcun giuramento. E il diplomatico a sua volta l'avvertì che il solo avere accettato il collare della SS. Annunziata era una specie di giuramento e di solenne promessa, e come noblesse oblige, così molto più obbliga quella croce che egli porta al collo, e che secondo l'interpretazione d'un altro eccellentissimo, il cavaliere Luigi Cibrario, fert vincula fidei. Tuttavia il conte di Sartiges conchiuse che egli lasciava da parte gli statuti dell'Ordine della SS. Annunziala, ed avrebbe parlato al cavaliere Farini colle parole medesime del^cavaliere Farini.

Ed aperta la lettera che l'eccellentissimo Farini scriveva nel 1852 al signor Gladstone, il conte di Sartiges ne unì insieme parecchie sentenze e ne formò il seguente discorso: «il problema della dominazione temporale dei Papi fu detto con molta ragione importantissimo all'Europa ed alla cristianità. Laonde voi, eccellentissimo signor Farini, volgeste il pensiero ai modi acconci a fermare la signoria temporale dei Papi, e scriveste: - Le questioni che si agitano sulla signoria dei Papi non sono soltanto romane ed italiane, ma sono europee quistioni, e quindi non sono in balìa né dello arbitrio, nò delle forze nostre. Pochi fuorusciti, ai quali plaude la ragazzaglia italiana, possono in Londra sognare di costituire a loro beneplacito una repubblica una ed indivisibile, di cui Roma sia la capitale: ma chiunque non abbia smarrito il bene dell'intelletto, sa che questi sono delirii di menti inferme. Qualunque violenza che i popoli mossi dal pungolo della disperazione potessero perpetrare, non varrebbe ad esautorare oggi il Papa, porche se non bastassero i cattolici, verrebbero i scismatici a restituirlo. Né ciò dipende tanto dalla natura dei governi che prevalgono in Europa quanto dalla natura stessa del problema, il quale è implicito nelle più gravi ed universali quistioni religiose, internazionali e politiche. Se la democrazia (non dico certi settari democratici) trionfasse in tutta Europa, i novelli governi vorrebbero anch'essi mettere mano nelle romane cose. Ciò avverrebbe se il Papa avesse Stato in qualsivoglia terra europea; tanto più avverrà sempre in Italia, perche ogni moto grave, ogni importante mutamento in Italia, commuove le nazioni europee, e sveglia timori, invidie e gelosie che di leggeri non posano. Forse l'Italia non avrà più un'occasione propizia a venire in essere come l'ebbe nel 1848, ma pure non si può ragionevolmente credere, che se anche allora avesse saputo e potuto trionfare dei nemici, gl'invidi e i gelosi l'avrebbero lasciata comporsi in nazionale assetto senza mettervi mano.

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Fu già chiaro anche allora, che gli stessi democratici di Francia e di Alemagna non le erano amici: il Papa era ancora a Roma e pareva alleato coll'Italia, quando la Costituente di Francoforte e Kossuth incoraggiavano ed aiutavano l'Austria, quando le sètte francesi invadevano la Savoia, e quando il signor di Lamartine divisava pigliarsi non la Savoia sola, ma la contea di Nizza. Appena poi fu fatta violenza al Papa, non fu governo europeo che non la condannasse. Quindi io penso che se è difficile che l'Italia possa a suo beneplacito, quando pure abbia occasione, virtù e lena da tanto venire in essere di nazione pienamente indipendente; egli è quasi impossibile che a suo beneplacito, non che distruggere, possa mutare od alterar colla violenza la signoria del Papa; e credo non si possa giungere alla soluzione del problema che col tempo per via di temperamenti, di spedienti e di un concorde arbitrato delle maggiori Potenze. - Or bene, conchiuse il conte di Sartiges, io dico all'Eccellentissimo cavaliere l'armi, presidente del Consiglio dei ministri, di ricordarsi nel dicembre del 1862 di ciò che il 20 dicembre del 1852 il medico Farini scriveva a sir Guglielmo Gladstone».

L'eccellentissimo Farmi si trovò assai imbrogliato, e incominciò a mancargli la frase, e studiò la parola, e infine rispose con quel famoso detto dell'avvocato Galvagno: rispondo che non rispondo. Parlò dell'indirizzo presente della politica francese, della difficoltà dei tempi, dell'inasprimento degli animi, dei pericoli del governo, e licenziósi conte di Sartiges dicendogli, come l'Areopago a San Paolo: vi ascolterò un'altra volta.

Noi non pretendiamo che s'abbiano per certe tutte le parti di questa conferenza tra il Farini e il conte di Sartiges, giacché non fummo nella sala a raccogliere le parole colla stenografia, e non abbiamo le confidenze né del conte di Sartiges, né dell'eccellentissimo Farini. Ma possiamo dichiarare come positiva la conferenza, nella quale il diplomatico francese domandò al Farini di rinunziare a Roma, e provvedere all'assestamento delle cose italiane, riconoscendo il dominio temporale del Papa; e il Farini non ebbe il coraggio né di acconsentire, né di respingere le proposte, e menò, come suoi dirsi, il can per l'aia.

E questa notizia viene confermata dalle seguenti linee dell'Opinione del 18 dicembre, numero 347: «II conte di Sartiges, ministro plenipotenziario di Francia, in una conversazione avuta col Presidente del Consiglio, avrebbe menato il discorso alla questione di Roma, affine di sapere quali fossero a questo riguardo le intenzioni del ministero italiano, e gli sarebbe stato risposto che l'indirizzo presente della politica francese rendeva per ora poco probabile che nuove trattative ci conducano ad una soddisfacente soluzione. Crediamo che la stessa dichiarazione sia stata fatta a Parigi al signor Drouyn de Lhuys dal sig. Nigra».












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