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Come è potuto accadere?

ovvero brevi note su

L'ITALIA MERIDIONALE O L'ANTICO REAME DELLE DUE SICILIE

DESCRIZIONE GEOGRAFICA, STORICA, AMMINISTRATIVA DI  GIUSEPPE DE LUCA


A volte incontrare un libro è come incontrare una persona. Capita a tutti noi di conoscere centinaia di persone nel corso degli anni e di tali persone non ricordiamo manco il nome, di altre invece ce ne ricordiamo dopo decenni come se le avessimo di fronte.

Questo testo – a cui abbiamo lavorato, nei ritagli di tempo, per un paio di mesi per metterlo online - di Giuseppe De Luca, stampato durante il trapasso di regime – nella Napoli garibaldin-sabauda, per intenderci – appartiene a quei libri che non non si dimenticano mai.

Vi consigliamo di leggere gli ultimi capitoli – dalla pagina 217 in poi. Se si esclude una parte del titolo (L'ITALIA MERIDIONALE), il testo non concede nulla a quell'autorazzismo che caratterizzerà, fino ai giorni nostri, tutti gli scritti degli intellettuali meridionali.

Vi avvertiamo, però, che è una lettura che se siete nati a sud del Tronto vi farà incazzare di brutto. La descrizione dello sviluppo manifatturiero della quasi totalità dei distretti del Reame provocherà in voi una domanda assordante: come è potuto accadere?

Come è stato possibile che un territorio che aveva raggiunto un tale dinamismo economico, che aveva solamente dei problemi di comunicazione est-ovest assolutamente risolvibili (1) visti gli enormi capitali a disposizione, si sia fatto mettere all'angolo dalla “conquista” sabauda?

Virgolettiamo la parola di proposito, per noi non è stata una conquista, bensì una unificazione a cui parteciparono migliaia di meridionali. Non si conquista un territorio con nove milioni di abitanti senza la collaborazione (2) di una parte degli indigeni.

La guerra civile (3) fra collaborazionisti e oppositori alla piemontizzazione fu la nostra rovina. Dieci anni di combattimenti fra esercito sabaudo-italiano e partigiani del vecchio regime bloccarono i commerci e la produzione.

In nome della patria-una si mise il bavaglio alla stampa (4) e alla opposizione parlamentare (5). Si creò un blocco di potere che aveva nel nord il suo fulcro, la nascente borghesia meridionale fu messa con le spalle al muro con lo spauracchio del brigantaggio.

Con la liquidazione del sistema bancario meridionale - ben spiegata nell'ultima opera di Nicola Zitara, Il Ri-sorgimento toscopadano: una spinta dal basso in l'alto (6) - ci fu precluso il cammino verso la modernità e fummo precipitati in quel sottosviluppo che ancora oggi ci attanaglia.

Che fare?

Nel 1848 avremmo potuto guidare il treno della unificazione [lo stesso Cavour insieme ad altri liberali settentrionali, latore del manifesto fu il Montanari, in un incontro a Palazzo Reale di Napoli il 31 dicembre 1847, offrì a Ferdinando II la corona di re d’Italia (7)]  e non lo abbiamo fatto, lasciando al piccolo Piemonte la possibilità di ergersi a paladino delle libertà dei popoli italici.

Nel 1860 siamo saliti su un treno in corsa guidato da altri, restando nelle carrozze di coda e questo lo hanno pagato decine di milioni di esseri umani – tra cui chi vi scrive -  sparsi per il globo, che sono andati a creare ricchezza per altri.

Si calcola che solamente i meridionali emigrati al nord hanno prodotto 32 (trentadue) volte la ricchezza elargita dallo stato alle regioni meridionali attraverso la cassa per il mezzogiorno. Vaglielo a spiegare ai padani! Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato: di questo detto napoletano essi hanno saputo far tesoro.

Quando avremmo potuto fare da soli – e nel 1860 ne avevamo tutte le potenzialità – decidemmo di lasciarci guidare da altri, oggi che siamo fanalino di coda d'Europa – e in alcune zone siamo quasi terzo mondo – vogliamo fare da soli! Almeno questo pensa una buona parte di coloro i quali hanno capito che in questo stato nato dal risorgimento per noi del sud non ci sarà mai piena dignità di cittadini.

Una cosa è certa: i partiti nazionali, di destra e di sinistra, sono stati generati da questa unificazione, pertanto non potranno mai risolvere il problema meridionale. I più impermeabili al processo di revisionismo storico sono i partiti di sinistra, per motivi che non staremo qui ad analizzare, ma gli esponenti della destra finora non hanno saputo far di meglio. Si son limitati a rimpiangere il bel tempo che fu, a decantare  i primati dell'antico reame ma non hanno mai messo in discussione l'ossatura di questo stato.

Solamente un nuovo contratto statuale che riconosca i torti subiti dai meridionali e ponga le basi per un serio sviluppo delle regioni appartenenti all'ex-Regno delle Due Sicilie potrà salvare questo paese dal caos prossimo venturo.

Zenone di Elea, RdS 4 Marzo 2009  - https://www.eleaml.org


(1) Nel quinquennio 1855-1860 erano stati emanati decreti per la costruzione di alcune tratte ferroviarie: 1) da Napoli a Brindisi; 2) da Napoli agli Abruzzi fino al Tronto; 3) da Salerno fino a Taranto. Cfr. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle due Sicilie, Napoli 1857.

(2) Fu la Consorteria liberale napoletana a pretendere il pugno di ferro contro il brigantaggio. “… i figli dei galantuomini, diventati Guardie Nazionali, sparavano sui contadini assieme alle truppe piemontesi”. Cfr. Carlo Scarfoglio, Mezzogiorno e unità d’Italia, Firenze 1953.

(3) Ricordiamo ai sapientoni che ci snobbano che gli odiati Borbone nel decennio 1850-1860  mandarono a morte 1 solo oppositore (UNO!) mentre il re galantuomo nel decennio 1860-1870 provocò 100,000 morti (CENTOMILA, secondo le stime più prudenti), molti dei quali per fucilazione sommaria.

(4)  En 184 jours, du 1er juillet au 31 décembre 1863, où compte 192 saisies de journaux. Encore ne parlât-on pas des nombreuses arrestations de gérants responsable, dès suspensions forcées, et des amendes énormes imposées subséquemment aux journaux saisis. Cfr. De Naples a Palerme 1863-1864 (Oscar De Poli, 1865), pag. 234.

(5) Emblematico il caso del duca di Maddaloni Marzio Francesco Proto Carafa Pallavicino, patriota e liberale, a cui fu negata la discussione della sua mozione parlamentare del 20 novembre 1861, e per questo si dimise da deputato. Il testo integrale della mozione lo trovate su: https://www.eleaml.org

(6) Potete scaricare l'intera opera in formato PDF dal sito: https://www.eleaml.org

(7) Cfr. Carlo Scarfoglio, Mezzogiorno e unità d’Italia, Firenze 1953 - pag 315-316.

Zenone di Elea, RdS 4 Marzo 2009 - https://www.eleaml.org


L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (1)
L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (2)
L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (3)
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L'ITALIA MERIDIONALE

O

L'ANTICO REAME DELLE DUE SICILIE

DESCRIZIONE

GEOGRAFICA, STORICA, AMMINISTRATIVA.

PER

GIUSEPPE DE LUCA

NAPOLI - 1860


(1) pag. 1-113

AI NOSTRI CONCITTADINI

Pubblicando il Compendio di Geografa di Adriano Balbi, la massima opera del nostro Geografo italiano; poste innanzi alcune nostre poche parole intorno al concetto della Geografia, e un più lungo lavoro intorno alla storia di quella scienza e alla Geografia Antica, noi ci siamo dipartiti dal Balbi nell'ordine delle materie, e siamo entrati nella topografia incominciando dagli Stati italiani. Fu nostro pensiero che l'Italia nostra, che il nostro bel paese fosse descritto innanzi a tutti gli altri e piíi particolarmente; e che l'Italia, allora divisa in tante parti, avesse, in questa descrizione, quell'unità che niuno al mondo non polena ritoglierci. la unita geografica, che fu una grande cagione, anzi la principale, dell'unità politica.

Onde alla descrizione degli altri Stati italiani noi riunimmo quella dell'Illirio, del Tirolo italiano, del Trentino, della Venezia, della Lombardia, della Corsica, delle isole di Malta. Nè solo riunimmo in uno tulle le parti d'Italia, spezzando le dure unità amministrative, che il Balbi aveva voluto conservare; ma ad ogni contrada d'Italia aggiungemmo un'appendice, nella quale, sviluppando la parto topografica, noi demmo molte notizie storiche, geografiche, amministrative, con ricchi quadri di Statistica; e si che la nostra Italia, pubblicata in quel libro, apparve come un lavoro compiuto.

Venendo a questa parte meridionale della penisola, noi siamo discesi in più minuti particolari; e, discorse lungamente le condizioni fisiche, le condizioni storiche e le amministrative di questo paese, abbiamo sviluppato la topografia delle provincie napolitane e siciliane, e fatto di determinare il carattere tisico di ciascuna di esse.

Egli è vero che, avendo pubblicato questo lavoro nel finire del 1859 e nel cominciare del 1860, noi dovemmo conservare alcune denominazioni e suddivisioni degli antichi Stati italiani. Egli è vero che questa parte d' Italia che noi abitiamo, e ch'è la più meridionale e la più bella ad un tempo, entra oggi nel regno d'Italia, entra in un periodo di nuova vita, tanto che il nostro lavoro per questa parte può dirsi antico. Ma quello che forma la parte fondamentale del libro che noi pubblichiamo resta immutato, nulla cangiando le condizioni topografiche e fisiche, le condizioni storiche e statistiche. Ed essendo utile ed importante che queste nostre particolari condizioni sieno conosciute, soprattutto nel momento in cui noi versiamo, nel salutare lavoro di contemperare ed unificare insieme le varie provincie italiane, noi crediamo di far cosa grata ai nostri concittadini, presentando loro questo lavoro, che noi abbiamo fatto con tanto amore, raccogliendo ed ordinando insieme tanti sparsi elementi.

Napoli 1° Gennaio 1861.

Giuseppe De Luca.


DESCRIZIONE

DEL REAME DELLE DUE SICILIE

INTRODUZIONE


Volendo che la descrizione del nostro Reame sia, quanto è possibile, compiuta, noi non disgiungeremo dalle sue vicende storiche le sue condizioni geografiche, le une essendo strettamente legate con le altre, la geografia e la storia incontrandosi nel medesimo punto come unità sul teatro del mondo e delle sue vicende. Né sono le arbitrarle divisioni del paese, le città, i borghi, i monumenti, o qualunque altra opera dell'uomo, ciò che determina lo spazio in che l'uomo pose la sua sede, donde trasse i suoi principj, dove fecondò i germi della sua civiltà; ma è la geografia fisica, la natura del suolo, la configurazione del paese, la diramazione de' monti, il corso de' fiumi, la giacitura delle coste, la natura di quelle valli, in cui si riunirono i popoli come in tanti centri di popolazione e di civiltà.

E se ciò è necessario all'intelligenza della storia di una grande nazione, è assai più necessario alla storia de' nostri popoli primitivi, divisi l'uno dall'altro in molte piccole repubbliche e regioni. Onde, innanzi di discorrere le condizioni storiche del nostro paese, discorriamo le condizioni geografiche; le quali, meglio che qualunque altro principio, spiegheranno la mancanza di unità politica, e spesso la rivalità de' nostri popoli antichi, i quali vennero per conseguenza più facilmente assorbiti dalla potenza romana, stabilita sopra più saldi principj di governo e di disciplina civile e militare.

E non sarà discaro, noi pensiamo, ai nostri concittadini, di vedere ricordate le prische tradizioni, gloriose pe' popoli e le città, ed esempio ed ammaestramento ai presenti ed agli avvenire; essendo che l'uomo si governa spesso e più facilmente con l'esempio che co' precetti; ed è cosa piacevole quella di discorrere la terra abitata dà' nostri padri, e le loro vicende e i fatti memorabili, e i costumi e le idee, onde la narrazione storica può riuscire benefica e guidarci alla sapienza civile, al governo degli altri e di se medesimo, alla intelligenza della legge a cui l'uomo è sottoposto, e de' limiti in fra' quali può perfezionarsi e raggiungere gli alti scopi a cui è condotto misteriosamente dalla legge divina della Provvidenza.

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Quindi, partendo da questo principio, noi gitteremo, innanzi tutto, uno sguardo rapidissimo sull'aspetto fisico del nostro paese, determinando l'ampiezza e le varie forme della sua superficie, i monti, le valli, le pianure, i fiumi, i laghi, e la natura e lo sviluppo delle coste e le condizioni fisiche de' nostri mari, e lo stato dell'atmosfera che ci ricovreDiscenderemo quindi in più minuti particolari intorno alla natura del suolo ed ai prodotti di esso, ed enumerando i minerali più notevoli e più conosciuti, e i vegetali e gli animali; il che faremo o ripetendo o riassumendo importanti lavori di alcuni nostri dotti concittadini, i quali professano specialmente questi rami di scienze.

E determinate per siffatta maniera le condizioni fisiche di questa meridionale e cosi bella parte d'Italia, noi ne discorremo le condizioni storiche e sociali, ricapitolando la storia del Reame, segnando il cammino intellettuale e la coltura degli abitanti, e fino le loro industrie ed i commerci.

Porremo termine a questo nostro lavoro con un'esposizione del sistema amministrativo del nostro Reame, e con una descrizione compiuta, per quanto è possibile, di ciascuna delle nostre provincie, notando gli elementi più importanti della topografia e della statistica.

Il che facendo, noi pensiamo di poter dare una monografia del Reame, la quale riunisca i principali elementi geografici, storici e amministrativi; e ci auguriamo di far cosa non discara ai nostri concittadini, ed isdebitarci di un debito sacro che tutti abbiamo inverso il nostro suolo nativo.

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PARTE PRIMA

CONDIZIONI FISICHE

Limiti, estensione, popolazione. Il Reame delle Due Sicilie, ch'è gran parte d'Italia e la più meridionale, è naturalmente scompartito in due, nel Regno di Napoli propriamente detto, ch'è la parte continentale e nell'Isola di Sicilia. Le provincie del Regno di Napoli formano i Domini i di qua del Faro; le provincie della Sicilia, i Domini i di là del Faro. Noi, fatta una generale descrizione della natura fisica del nostro paese, e ricordate le principali sue vicende storiche, discenderemo in un esame minuto e particolare di ciascuna provincia; e faremo ancora, secondo che il potremo, di ritornare sulla storia della loro geografia.

Il Regno di Napoli, o la Sicilia Citeriore, formando la parte più meridionale della penisola italiana, ha per suoi confini, lo Stato della Chiesa inverso settentrione e a ponente, e i nostri mari in tutto il resto, il Tirreno a ponente e a mezzogiorno, il Jonio a mezzogiorno e a levante, l'Adriatico a levante e a settentrione. La Sicilia è bagnata dal Mediterraneo, il quale prende il nome di Tirreno nel lato più lungo rivolto a settentrione, di Mare Africano nel lato di mezzogiorno, e di Mar Jonio nel lato di oriente.

La maggiore lunghezza del Regno di Napoli, presa dalla foce del Tronto al Capo Spartivento, è 420 miglia. Molto varia è la larghezza; e la maggiore, presa dalla punta della Campanella sul golfo di Napoli fino al promontorio Gargano, è 132 miglia; e la minore, tra' golfi di S. Eufemia e di Squillace, intorno a 18 miglia. Il perimetro intero si calcola che sia 1334 miglia, delle quali intorno a 1144 le coste, comprese tutte le sinuosità dei golfi, e intorno a 190 la linea convenzionale che separa il Regno nostro dallo Stato Pontificio.

La Sicilia è più lunga che larga e la maggiore lunghezza è da levante a ponente, dal Faro al capo Boco, ed è di 180 miglia, e la maggiore larghezza è da settentrione a mezzodì, dalla punta del Faro al Capo Pàssaro, ed è di 130 miglia. L'intero perimetro dell'isola è 570 miglia.

La superficie del Reame è 32, 530 miglia quadrate, delle quali 24, 563 per il Regno di Napoli, e 7967 per l'Isola di Sicilia. La popolazione intera è di 9, 182, 281 abitanti, de quali 6, 951, 261 per il Regno di Napoli, e 2, 231, 020 per L'Isola di Sicilia.

Latitudine e longitudine. Il regno di Napoli è fra' gradi 37° 50' e 42° 55' di latit. nord, e tra i 10° 30' e 16° 12' di long, est dal meridiano di Parigi. L'Isola di Sicilia è posta tra' 36? 38' e 38° 18' di lat. nord; e tra' 10° e 13° 30' di long. est.

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Provincie e Distretti.

Tutto il regno è diviso in 22 Provincie o Intendenze, e queste sono suddivise in Distretti o Sottointendenze; delle quali 15 Provincie sono ne' dominj di quà del Faro, suddivise in S3 Distretti, e 7 Provincie sono nell'isola di Sicilia, suddivise in 24 Distretti:

Provincie Continentali

Distretti

Napoli Napoli, Castellammare, Caserta e Pozzuoli Terra Di Lavoro Caserta, Nola, Gaeta, Piedimonte e Sora Principato Citeriore Salerno, Campagna, Sala e Vallo Principato UlterioreAvellino, Ariano e S Angelo de' Lombardi Abruzzo Citeriore Chieti, Lanciano e fasto 1° Abruzzo Ulteriore Teramo e Penne 2° Abruzzo Ulteriore Aquila, Sulmona, Cittaducale e Avezzano Molise Campobasso, Isernia e Larino Capitanata Foggia, Sansevero e Bovino Terra Di Bari Bari, Barletta e Altamura Terra D'Otranto Lecce, Brindisi, Taranto e Gallipoli Basilicata Potenza, Matera, Melfi e Lagonegro Calabria Citeriore Cosenza, Rossano, Castrovillari e Paola 1a Calabria Ulteriore Reggio, Palmi e Gerace 2a Calabria Ulteriore Catanzaro, Monteleone, Nicastro e Cotrone Provincie Della Sicilia

Distretti

Palermo Palermo, Corleone , Termini e CefalùMessina Messina, Castroreale, Patti e Mistretta Catania Catania, Caltagirone , Nicosia ed Acireale Noto Noto, Siracusa e Modica Caltanissetta Caltanissetta, Terranova e Piazza Girgenti Girgenti, Bivona e Sciacca Trapani Trapani, Mazzara ed Alcamo

Le tre provincie di Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d'Otranto vanno sotto il nome generale di Puglia.

Isole, Capi e golfi.

Isole. Le isolette sparse qua e là intorno alle coste del nostro Reame fanno parte di alcune provincie del continente e dell'isola di Sicilia. Ed appartengono alla provincia di Napoli le isolette d'Ischia, Pròcida, Capri e Nisida; alla provincia di Terra di Lavoro, le isolette di Ventoténe, S. Stefano, Ponza, Palmarola e Zannone; alla Capitanata, le isolette di Trèmiti; alla provincia di Palermo, l'isoletta di Ustica; alla provincia di Messina, le isole Eolie, cioè Lipari, Salina, Vulcano, Stròmboli, Felicuri ed Alicuri; alla provincia di Tràpani, le isole Ègadi, cioè Favignana, Levanzo e Marittimo, e l'isola di Pantelleria.

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Capi. I capi e le punte più notevoli sono: il Capo Miseno e la Punta della Campanella nella provincia di Napoli; le punte di Licòsa c di Palinuro nel Principato Citeriore; Capo Scalèa nella Calabria Citeriore; il Capo Severo e 'l Capo Vaticano nella 2. a Calabria Ulteríore dal lato del Tirreno; il Capo delle Armi, il Capo Spartivento e la Punta di Stilo nella 1. a Calabria Ulteriore; il Capo Rizzuto, il Capo Colonna e la Punta d'Alice nella 2. a Calabria Ulteriore dal lato del Jonio; il Capo Trionto e il Capo Roseto nella Calabria Citeriore; il Capo di Leuca e il Capo Cavallo nella Terra d'Otranto, e la Punta della Penna nell'Abruzzo Citeriore. E aggiungeremo il Promontorio Gargano in Capitanata, che molto s'inoltra nel mare formando diverse piccole punte. I capi più notevoli della Sicilia sono: il Capo Faro o Pelero al nord di Messina; il Capo Pàssaro al sud della provincia di Noto; e i Capi Lilibèo e di S. Vito nella provincia di Tràpani.

Golfi. Il Mar Tirreno forma il Golfo di Gaeta in Terra di Lavoro; il Golfo di Napoli tra il Capo Miseno e la punta della Campanella; il Golfo di Salerno tra la punta della Campanella e la punta di Licosa; il Golfo di Policastro tra le provincie di Principato Citeriore, di Basilicata e di Calabria Citeriore; il Golfo di S. Eufemia tra 'l Capo Suvero e 'l Capo Vaticano; il Golfo di Gioja tra 'l Capo Vaticano e 'l Faro di Messina; ed il Golfo di Castellammare tra le provincie di Palermo e di Trapani in Sicilia.

Il Mare Jonio forma il Golfo di Squillace tra la punta di Stilo e il Capo Rizzuto, ed il vasto Golfo di Taranto tra la punta di Allce e il Capo di Leuca.

Il Mare Adriatico forma il solo Golfo di Manfredonia nella Capitanata.

ASPETTO FISICO DEL SUOLO

Montagne, valli, pianure, fiumi, laghi, sviluppo e natura delle coste

L'aspetto fisico del nostro paese è bello e vario ad un tempo, si pe' mari che lo circondano, e che formano tante baie e seni diversi, e si per la catena dell'Appennino, che, correndo tutta la penisola italiana, si dirama tra noi in tante catene secondarie, e il quale si eleva in alcuni luoghi in monti alti, di aspra natura, e con sommità quasi sempre ricoverte di neve; ed è in altre parti spezzato in burroni orribili e in nude rocce; ma discende piacevolmente in molti altri punti, formando sorridenti ed amene colline.

Di mezzo ai gioghi diversi di quest'Appennino si aprono le fertili valli de' nostri fiumi, e le pianure che hanno termine nelle tranquille acque de' nostri mari. Ed è rapida tra noi questa vicenda nel vario aspetto del suolo, essendo che gli aspri monti e le nude rocce e le più belle e più fertili pianure sono come riunite insieme, tanto angusti sono i termini nei quali si dilarga tra noi le penisola italiana. Ma possiamo dire generalmente, e il dimostreremo, che il nostro paese è fertile, è ricco, è bello; ch'è dolce il nostro clima, sereno e sorridente il nostro cielo; e che non fu senza cagione se i popoli di Oriente da tempi antichissimi si rivolsero a questa terra felice, la quale era la loro Esperia.

Montagne. L'Appennino percorre tutta la penisola italiana, nella sua maggiore lunghezza, imprimendole una fisionomia ch'è sua propria, e si dirama e si sviluppa secondo che si sviluppano le sue coste.

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Mettendo capo nella Liguria, ove si rannoda alle giogaie alpine, forma come un fronte ai golfi di Genova e della Spezia; e, traversato in più modi il territorio parmense e modenese, taglia la Toscana, e circoscrive e chiude per una gran parte la valle del Po. Di là discende nel centro della penisola, e, nel confine tra lo Stato Pontificio e il regno di Napoli, si eleva grandemente e giganteggia. E qui sono i monti più alti dell'Appennino, il Velino e il Gransasso d'Italia, i quali, secondo le determinazioni che abbiamo, raggiungono l'altezza del Cenisio e del San Gottardo, elevandosi il primo di 7872 piedi, e il secondo di 8926 piedi. E di qui altre catene secondarie si diramano nelle valiate del Salto e del Garigliano; e quindi quelle serie di rocce calcari che si distendono verso il nord infino a Narni, e verso il sud insino a Sora; e quei piccoli monti che circondano la sorgente del Teverone, e quegli altri che si sviluppano tra le Paludi Pontine e il Promontorio di Gaeta.

Da questo aggruppamento di rocce, che formano le parti più elevate delle regioni di Abruzzo, si distaccano più rami, seguendo generalmente una direzione dal nordovest al sudest, e si dipartiscono e si spandono nelle provincie di Molise, di Terra di Lavoro e de' Principati Ulteriore e Citeriore. Nel confine del Principato Ulteriore con la Basilicata, e precisamente tra Conza, Acerenza e Venosa, la catena principale dell'Appennino si dirama in due altre, delle quali la prima si dilunga nelle Calabrie fino al Capo Spartivento, seguendo la riva del Tirreno su' golfi di Politicastro e di S. Eufemia, e la riva del Jonio su' golfi di Squillace e di Gerace, formando m. Pollino, la Sila e Aspromonte: e l'altra nelle Puglie fino al Capo S. Maria di Leuca, formando le Murge della Terra di Bari e le basse e interrotte colline della Terra d'Otranto.

Dal tronco principale, e precisamente dal settentrione della Basilicata, diramasi un'altra catena secondaria, la quale, sviluppandosi a guisa di un arco, nel confine de' due Principati, viene a terminare alla punta della Campanella, di rincontro alla pietrosa isola di Capri, formando il Vesuvio e monte S. Angelo; e un'altra diramazione aggruppasi intorno a Melfi ed a Venosa, nella regione del Vùlture. Il gruppo de' monti e delle colline, onde formasi il promontorio Gargano, vi è del tutto distaccato.

Gli altri monti, oltre a quelli che abbiamo notati, che si levano di sopra ai gioghi dell'Appennino, sono la Majella nell'Abruzzo Chietino, la cui cima più alta è M. Amaro, di 8590 piedi; il Monte Chilone a ponente di Troja; il Tiburno nella provincia di Avellino.

Le montagne della Sicilia sono un prolungamento dell'Appennino meridionale, le quali rannodandosi in un gruppo centrale, si sviluppano in tre catene distinte, che vanno a terminare ai tre capi principali della Sicilia, il Capo Boco, il Capo Pàssaro e il Capo Faro, e l'isola prende la forma di una piramide triangolare. La vera regione montuosa della Sicilia si sviluppa dal nord al nordest; e i monti Pelori e le Madonie contano numerose vette elevate oltre 4000 piedi sul livello del mare; e alcune oltrepassano 5000 piedi, ed una di esse, il Pizzo di Palermo, giunge quasi a 6000* piedi. Da queste alte catene, che formano come una cortina da Palermo a Messina, si distaccano qua e là alcuni capi e penisole. Il punto culminante de' monti della Sicilia è l'Etna, vasta montagna vulcanica.

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L'appennino non elevasi generalmente a grande altezza, né presenta le cime piramidali delle Alpi, né le vaste ghiacciaie. I suoi fianchi sono la maggior parte nudi, ma le colline in che va abbassandosi sono verdi e sorridenti.

Regioni idrografiche, valli e pianure. L'Appennino ha un tronco principale che separa in due regioni la penisola italiana, in quella del Tirreno, ch'è la regione occidentale, ed in quella dell'Adriatico e del Jonio, ch'è la regione orientale. Intorno a quel tronco, ch'è come la spina dorsale, si aggruppano molte altre catene secondarie; e qui nel Reame di Napoli abbiamo a notarne cinque, la prima che distendesi fino al promontorio di Gaeta; la seconda fino alla punta della Campanella; la terza fino al capo delle Armi; la quarta fino al Promontorio Gargano, e la quinta fino al capo di Leuca. E tra queste catene secondarie, quella che ha termine alla punta della Campanella e l'altra che ha termine al Capo di Leuca, si diramano dallo stesso punto, e formano come una continua barriera curvilinea, e separano in due parti il nostro Reame, la settentrionale e la meridionale. Ed alta e montuosa è la loro parte di mezzo, declinando ove più ove meno inverso il mare, e costituendo un immenso numero di colline e pianure, ove sono ancora le tracce del dominio delle acque.

In fra le principali e queste diramazioni secondarie dell'Appennino si formano le maggiori valli e pianure del Reame, le quali vengono meglio determinate dal corso de' fiumi che discendono in mezzo ad esse e da' bacini de' nostri piccoli laghi.

E nella regione idrografica del Tirreno formasi la valle del Garigliano e del Volturno in fra' capi di Gaeta e di Miseno; la valle del Sarno tra il capo Miseno e la punta della Campanella; la valle del Sele tra la punta della Campanella e quella di Licosa, e le minori valli del Mingardo, del Lao, del Savùto, del Lamàto, del Mèsima, del Petràce, che da' versanti occidentali dell'Appennino si aprono sulle coste bagnate dal Tirreno.

Nella regione idrografica del Jonio, da' versanti orientali dell'Appennino e meridionali delle Murge, si aprono inverso le coste bagnate da quel mare, le valli dell'Alaro, del Coràce, del Crocchio, del Tàcina, del Nieto, del Crati, dei Sinno, dell'Agri, della Salandrella, del Basento, del Bràdano, del Lieto.

Nella regione idrografica dell'Adriatico, mettendo capo negli opposti versanti dell'Appennino; si formano le valli dell'Ofanto, della Carapella, del Cervàro, del Candelàro, del Fortòre, del Saccione, del Biferno, del Trigno, del Sangro, della Pescàra, del Salino, del Piomba, del Vomàno, del Tordino, del Salinello, del Vibrata, del Tronto.

La Sicilia può essere scompartita in tre regioni idrografiche principali, determinate dalle principali diramazioni de' monti dell'isola, e sono quella del Tirreno a settentrione, quella del Mediterraneo a mezzodì, quella del Jonio ad oriente.

Nella regione idrografica del Tirreno si formano le valli del Tèrmini, del Fiume Grande e del Pollina; in quella del Mediterraneo si formano le valli del Bellici, del Platani, del Salso, di Terranova e di Ragusa; e in quella del Jonio è notevole quella della Giarretta o del Simeto.

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E generalmente possiamo dire, che le regioni montuose del nostro Reame sono spezzate in tante parti, in burroni e in piccole valli, le quali sono d'ordinario il letto pietroso de' torrenti, che con grande impeto discendono nella valle e confondono le loro acque o con quelle di altri fiumi o dei mari vicini.

Ma alcune nostre valli si dilargano grandemente, e dove non sono interrotte dalle diramazioni appennine, si conformarlo in pianure, le quali hanno varia natura ed estensione. Tra le più fertili noteremo quella che si distende tra le sponde del Tirreno e l'arco dell'Appennino da Gaeta a Sorrento; e tra le più estese quella che si dilarga tra l'Appennino delle Puglie e l'Adriatico, dove formasi una superficie piana, di forma quasi ellittica, di 1520 miglia quadrate, che fanno più della 16a parte di tutta la parte continentale del Reame. Lunga 70 miglia, larga 30, questa pianura è circoscritta all'est dall'Adriatico, al nord dal Gargano, al sudovest dalle rocce della Basilicata, di Principato Ulteriore e del Sannio, ed al sud dalle Murge di Bari. Una grande estensione piana offre del pari la Puglia Petrosa e parte di Lecce insino a Brindisi, circoscritta dalla bassa catena, delle dette Murge 8 _

e dal mare. Altra pianura, e forse altrettanto vasta, è quelle che formasi nel distretto di Matèra e si dilarga in sino al golfo di Taranto.

E molte pianure si formano tra le diramazioni de' monti della Sicilia, c noteremo, ira le altre, quella di Catania, formata principalmente dalla valle della Giarretta.

Quasi tutte le valli e le pianure del nostro Reame sono produttive, ed alcune fertilissime, dove sono difese da' venti nocivi, e soprattutto dalla tramontana.

Fiumi. La catena dell'Appennino e delle sue diramazioni, abbassandosi inverso i tre mari che circondano il Reame, rende sensibile l'origine, la direzione, e il più o men lungo corso de' fiumi, i quali traendo la loro origine dai gioghi appennini, scaricano in quei mari le loro acque. E però, essendola distanza di quei monti non maggiore di 37 miglia, né minore di 30 dal Mar Tirreno, fuorchè nelle Calabrie, ove se ne discosta poche miglia; non maggiore di 47, né minore di 14 dall'Adriatico; e tra le 28 e le 16 dal Mar Jonio, se togli alcuni punti delle coste del Golfo di Taranto; cosi i fiumi non hanno un corso più lungo delle sopra indicate distanze se non per ragione delle loro tortuosità; le quali non essendo gran cosa, importano che pochissimi sieno i fiumi considerevoli, e quasi nissuno navigabile, se togli qualcheduno do' più grandi, presso alla sua foce, e solo con qualche burchiello da pesca o scafa da traghettere.

I fiumi più notevoli sono questi, che noi descriveremo secondo i mari dove sboccano.

I fiumi della regione idrografica del Tirreno sono, il Garigliano, il Volturno, il Sarno, il Sele, l'Alento, il Mingardo, il Lao, il Lamàto, il Mèsima ed il Petrace o Marro.

I fiumi della regione idrografica del Jonio sono, l'Alaro, il Coràce, il Crocchio, il Tàcina, il Neto, il Crati, il Sinno, l'Agri, la Salandretla, il Basento, il Bràdano ed il Lieto.

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I fiumi della regione idrografica dell'Adriatico sono, l'Ofanto, la Ñàràpella, il C

ervàro, il Candelàro, il Fortòre, il Saccione, il Biferno, il Trigno, il Sangro, il Foro, la Pescara, il Salino, il Piomba, il Vomàno, il Tordino, il Salinello, il Vibrata ed il Tronto.

I fiumi principali della Sicilia sono, il Tèrmini, il Fiume Grande e il Pollina che sboccano nel Tirreno; il Bellici, il Platani, il Salso, il Terranova, il Ragusa, che sboccano nel Mediterraneo; e l'Anapo e la Giarretta nel Jonio.

Fiumi che sboccano nel Tirreno. Il Garigliano, anticamente Clanis o Glanis, e poi Liris, dalla unione delle quali voci pare che sia derivato l'attuale nome del fiume, sorge nella parte occidentale del Distretto di Avezzano, attraversa la valle di Roveto, e corre dal nord al sud per Terra di Lavoro, quasi parallelamente alla linea che segna il confine del Regno con

I0 Stato Pontificio. Nel tortuoso suo corso di circa 60 miglia, tra i molti affluenti che vanno ad ingrossarlo, è il Fibreno, dopo aver ricevuto il quale,

Il fiume si diparte in due, e, circondando l'isola di Sora, presenta lo spettacolo magnifico di due bellissime cascate, una di 500 piedi in piano inclinato a settentrione di detto comune, e l'altra di quasi 80 piedi, perpendicolare, a mezzogiorno; quindi ingrossato dal Salto provegnente dalla provincia romana di Frosinone, attraversa il territorio di Pontecorvo; e, ricevuto il Rapido, poche miglia a mezzodi di S. Germano, va finalmente a scaricarsi nel golfo di Gaeta. Quasi in tutto il suo corso il fiume corre tranquillamente, c per questa circostanza fu detto taciturno, lento, e che morde con l'onda quieta le sue rive.

Il Volturno, Vulturnus degli antichi, uno dei principali fiumi del regno, ha origine ne' monti che circondano Isernia, ed ingrossato dai molli rivi e fiumicelli che discendono dalle falde dell'Appennino, corre precipitoso al piede boreale del Monte Tifata in Terra di Lavoro. Vicino Cajazzo riceve il Calore, che viene dal Principato Ulteriore, il cui principale affluente è il Sabato. Dopo avere bagnate le mura di Capua dalla parte occidentale, dove comincia ad essere navigabile, corre a gittarsi nel Mar Tirreno presso Castel Volturno. Il corso di questo fiume è di circa 80 miglia, delle quali le prime 23 sono nella direzione dal nord al sud, per altrettante scorre dal nordovest al sudest, e nel rimanente, dopo avere ricevuto il Calore, corre insino al mare dal nordest al sudovest.

Il Sarno sgorga come un gran rivo di acqua a piè del monte che sovrasta alla piccola città di Sarno; scorre tranquillamente in mezzo ad una ricca e fertile pianura, e, passando in mezzo alle mura di Scafati, sbocca nel golfo di Napoli poco lungi da Castellammare.

Il Sele, Silarus degli antichi, è il maggior fiume del Principato Citeriore, pei diversi affluenti che riceve nel suo corso di 35 miglia. Sorge alle

ðåïdici dell'Appennino, presso al borgo d

i Caposele, entro i confini della Basilicata. Sotto Caggiano è ingrossato dal Tanagro, che dopo avere dolcemente percorso il vallo di Diano, s'immette in un sotterraneo cammino vicino Polla, e va a sboccare con spumoso fragore alla Pertosa presso Auletta. Segue quindi il suo cammino e scarica le sue acque nel golfo di Salerno.

L'Alento, piccolo fiume del Principato Citeriore, raccoglie varj affluenti nel Distretto di Vallo, onde s'ingrossa sensibilmente, e si scarica nel Mediterraneo poco lungi da Castellammare della Bruca.

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Vuolsi che dal nome di questo fiume prenda la denominazione di Cilento la circostante regione.

Il Mingardo, più piccolo del precedente per volume di acqua e per lunghezza di corso, si scarica nel golfo della Molpa tra Palinuro e Capo Morice. Presso alla sua foce sono sei grotte, tre delle quali fino dal secolo XI sono dette le grotte delle ossa.

Il Lao, il solo considerevole fra gli altri piccoli fiumi della Calabria che portano le loro acque al Tirreno. Trae la sua origine dal monte Mauro, un miglio distante da Viggianello, ed entra nel mare a mezzodi di Scalèa. Dopo tre miglia di corso riceve le acque di un fiumicello e prende il nome di Lao, e poi riceve il fiume Mormanno presso Laino. In tutto il suo cammino, ch'è intorno a 20 miglia, riceve il tributo di altri 30 fiumicelli, i quali in tempo di pioggia ingrossano il volume dell'acqua assai più di quello che non comporti il suo alveo, e quindi dà luogo a rovinosi traboccamenti.

Il Savùto, fiume delle Calabrie, sorge alle falde dei monti della Sila, presso Martorano, e ricevendo nel suo corso molti fiumicelli, e, tra gli altri, quelli di Martorano e di Rivale, e formando per qualche tratto una linea di divisione tra la Calabria Citeriore e la Calabria Ulteriore 2a, sbocca nel Tirreno sette miglia al nordovest del capo Suvero.

Il Lamato, che dicesi pure Lameto, è il maggior fiume della 2. a Calabria Ulteriore, quantunque non abbia che un breve corso. Riceve, tra gli alti i piccoli torrenti, il Pesipo ed il Polito, e scende al mare quasi nel mezzo del golfo di S. Eufemia.

Altro piccolo fiume di quella provincia è l' Angitola, la quale scendendo dal prossimo Appennino, sbocca nello stesso golfo di S. Eufemia.

Il Mesirna, formato da molti piccoli fiumicelli, che scendono dalle pendici dell'Appennino, ha un breve corso, e sul confine meridionale della Calabria Ulteriore 2a, sbocca nel golfo di Gioja.

Il Petràce o Marro, che dopo un breve corso si scarica anche nel Tirreno, poco discosto dal precedente.

Fiumi che sboccano nel Jonio. L'Alaro, formato da tre sorgenti ne' monti di S. Stefano del Bosco, le quali si riuniscono nel luogo detto Capo dell'Alaro, scorre nella 1a Calabria Ulteriore, e, dividendosi in due rami, circonda Castelvetere e va a scaricarsi nel Jonio. de' due rami ne' quali si divide, quello a settentrione di Castelvetere conserva il nome di Alara, e l'altro verso mezzogiorno dicesi Musa. Il suo corso è di circa 30 miglia, e, nell'inverno, rigonfio di molti aiTluenti, cagiona gravi danni alle campagne circostanti.

Il Coràce, nella 2a Calabria ülteriore, il quale discende da' monti che circondano Taverna, passa pe' territorj di Tiriolo e di Catanzaro; riceve il Fotaco di S. Floro, e dopo un corso di quasi 30 miglia, scorrendo presso Catanzaro, si perde nel golfo di Squillace.

Il Tàcina, più verso settentrione, il quale passa vicino Policastro, e sbocca nel Jonio.

Il Neto o Nieto, il quale prende origine ne' monti della Sila, e corre parte nella Calabria Citeriore e parte nella Calabria Ulteriora 2a, ed ingrossato da molti affluenti, si scarica nel Jonio a mezzodi di Stròngoli nel Distretto di Cotrone.

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Alcuni gli hanno dato il nome di Cqnneto, poiché le sue rive presso alla foce sono coperte di folti canneti.

Il Crati, il maggior fiume della Calabria Citeriore, ha origine su'monti della Sila, poco lontano dalle sorgenti del Nieto. Bagna la città dr Cosenza, dove è ingrossato dal Busento; e ricevendo per via molti altri piccoli fiumi ed importanti rivi di acqua, tra' quali il Coscile, che scende dal Pollino, va a sboccare nel golfo di Taranto, dopo un corso di 60 miglia circa.

Il Sinno, fiume della Basilicata, nel Distretto di Lagonegro. Prende origine in una valle cui fan corona le cime montuose denominate Rapano, Sirino e Spina; e nel suo corso di 40 miglia riceve le acque diventi torrenti o fiumi, di cui i principali sono il Sermento, il Freddo, il Silenzio, il Serrapotamo. Entra poi nel golfo di Taranto tra l' Agri e il Rico di Canna, che serve di confine tra la Basilicata e la Calabria Citeriore.

L'Agri sorge nelle montagne di S. Vito presso MarsicoNuovo, e correndo di occidente verso oriente nella Basilicata, dopo un corso di circa 60 miglia, sbocca nel golfo di Taranto. Tra' suoi affluenti sono notabili le fiumarellc di S. Chinco Raparo e di Armento sotto S. Martino, oltre a molti fiumicelli e torrenti, e il fiume Sauro nel tenimento di Aliano.

La Salandrella, nel Distretto di Matera in Basilicata, che scorre quasi paralelamente all'Agri, e, dopo un cammino di 40 miglia circa, versa le sue acque nel golfo di Taranto.

Il Basento, uno de' maggiori fiumi della Basilicata, sorge sull'Appennino che circonda Potenza, e propriamente sotto Vignola da un laghetto di acqua chiarissima. In tutto il suo corso, ch'è di circa 60 miglia, riceve molti affluenti, e passando fra Trivigno ed

Albano, Oliveto e Tricarico, e quindi per Miglianico, Ferrandina e Bernalda, presso Torre di Ìàrå sbocca nel golfo di Taranto. Questo fiume corre placidamente, ma

è molto profondo e travolge molta mcima.

Il Bràdano, uno de' più grandi fiumi del regno, sorge sullo stesso Appennino dove ha origine il Basento, e deriva propriamente dal lago Pèsole nel bosco di Forenza; e passando presso Acerenza, Montepeloso, Montescaglioso, serbando un cammino quasi sempre parallelo al Basento, ingrossato da vari fiumicelli e torrenti, e formando per un tratto il confine tra la Basilicata e la Terra d'Otranto, si scarica nel golfo di Taranto.

Il Lieto, fiume della Terra d'Otranto, sorge sul confine della provincia, dove il Distretto di Taranto confina con quello di Altamura, in provincia di Bari, e propriamente nel bosco detto S. Antonio presso Laterza. Corre per Castellaneta, di cui la state corrompe l'aria pe' ristagni che vi lascia; riceve non lungi da S. Bartolomeo il fiumicello detto Rio delle Saline o Talvo; e dopo un corso di 20 miglia, si scarica nel golfo di Taranto. Le sue acque sono limpide ed abbondanti.

Fiumi che sboccano nell'Adriatico. L' Ofanto, l' Aufidus degli antichi, ha la sua sorgente poco lungi da quella del Sele, ma nel versante opposto dell'Appennino. Forma un confine tra il Principato Citeriore e la Basilicata, e poi tra la Capitanata e la Terra di Bari, ed ingrossato da molti affluenti, e, tra gli altri, dall' Olivento, sbocca nell'Adriatico, dopo un corso di circa 70 miglia, traversando presso alla sua foce alcuni banchi di sabbia, pe' quali non è accessibile che a sole barche pescherecce.

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La Carapella, ch'è piuttosto un gran torrente che fiume, sorge alle falde del monte Ruinolo verso Rocchetta e Vallata nel Principato Ulteriore. Riceve nel suo corso i larghi rivi che scendono da' colli di detta Vallata, di S. Agata, Rocchetta, Bisaccia; riceve il torrente detto Carapellotto, che scende dalle alture di Deliceto; bagna i territorj di Candela, del comune di Carapella, di Manfredonia, riceve il Calaggio nelle paludi di Salpi, e dopo 50 miglia di corso, va a scaricarsi nell'Adriatico, nelle vicinanze di Torre Rivolo, tra la Torre delle Pietre e la foce del Pantano Salso. Il volume delle sue acque non è sempre uguale, imperciocchè nell'inverno straripa c nella state ristagna.

Il Cervara sorge fra' monti che separano il Principato Ulteriore dal Distretto di Bovino, riceve poco lungi dalla sua sorgente i torrenti che scendono dalle montagne di Greci e Savignano, costeggia per lungo tratto la strada consolare che dal Principato mena nella Puglia, passa sotto il ponte di Bovino, scorre per le pianure di Foggia, e dopo un corso di 50 miglia, mette foce nel Pantano Salso. Questo fiume porta grandi allagamenti nell'inverno, ma è poverissimo di acque nella state, al pari di tutti gli attri. ¡¡nui della Capitanata.

Il Candelàro ha origine presso S. Paolo, tra le alture di Civita e Torre Maggiore, nel Distretto di S. Severo. Riceve il Triolo, la Salsola, il Celone, e radendo il promontorio Gargàno, dopo circa 40 miglia di cammino, si diparte in due rami e mette foce nel Pantano Salso. È ricco di pesca, ed ha due ponti, uno detto di Brancia, sulla strada che da S. Severo mena alla valle di Stignano, e l'altro chiamato di Candelaro, sulla via che da Foggia porta a Manfredonia.

Il Portòre, gran torrente anzi che fiume, è formato da diversi fiumicelli che mettono capo ne' monti del Sannio e della Capitanata; e formando, nel principio del suo corso, il confine di queste due provincie, penetra poi nella Capitanata, presso Torremaggiore, e va a scaricarsi nell'Adriatico tra il lago di Lèsina e Campomarino, di rincontro alle isole di Trèmiti. Passa per luoghi montuosi, ed ha un lungo corso e tortuoso, che si vuole maggiore di 50 miglia.

Il Succione, piccolo fiume, il quale sorge da Rotello, nel Distretto di Larino, e formando, nel breve suo corso di 16 miglia, il confine del Contado di Molise e della Capitanata, nella parte più vicina al mare, sbocca nell'Adriatico.

Il Biferno, fiume del Contado di Molise, il quale prende nome ed origine dal monte Biferno, nel territorio di Bojano, per molti fiumicelli che confluiscono in esso. Ha un letto molto inclinato, e nel suo lungo corso di 65 miglia, riceve molti affluenti, e tra gli altri, il Majo ed il Cigno; e traversando una spiaggia pantanosa, e boschiva presso alla sua foce, si scarica nell'Adriatico tra Campomarino e Termoli. Le acque di questo fiume sono copiose, limpide, perenni. Ha un ponte di fabbrica in Limosani, ed un altro ponte nella via che riunisce Larino a Tèrmoli.

Il Trigno ha origine da tre sorgenti, nelle vicinanze di Vasto Girardo ne' monti che circondano Isernia. Riceve il Caravilli poco lungi da Pescolanciano, il Durone tra Civitanova e Civitavecchia, il Livello al di sopra di Bagnoli, il Rio presso Trivento, e il Tresla presso Lentella, e sbocca nell'Adriatico, dopo un corso di circa 66 miglia, non comprese le sinuosità.

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Era detto dagli antichi Trinium portuosum, perché metteva foce in una specie di porto, poscia scomparso, o perché ricolmato di arena, o per altri naturali sconvolgimenti; ma le sue foci sono tali ancora, che de' molti fiumi di quel littorale, sono le sole in cui le barche pescherecce vi abbiano accesso. Da Trivento in sino al mare, l'alveo del Trigno forma una linea di divisione tra la provincia di Molise e l'Abruzzo Citeriore.

Il Sangro, detto Sams e Sagrus dagli antichi, deriva da due fiumicelli che hanno origine al monte Turchio, vicino Gioja, nel Distretto di Avezzano. A quattro miglia circa dalle sue sorgenti, si apre un vareo tra monti dirupati, tra rocce quasi perpendicolari e profonde balze inaccessibili, egiunge a Castel di Sangro raccogliendo molti fiumicelli e torrenti, che non intorbidano la sua limpidezza come fa il limaccioso Rutino per breve tratto. Volgesi poi a tramontana, e seguendo un cammino tortuoso, forma il confine del Distretto del Vasto con quello di Lanciano, e scaricasi nel mare dopo un corso di circa 60 miglia.

Il Foro discende da una selva di Petroro, sopra un colle della Majella. Riceve nel suo corso molti piccoli rivi e torrenti e tre fiumicelli, e si scarica nel mare Adriatico, a mezzodì di Francavilla.

La Pescara ha origine nel territorio di Montereale nel 2° Abruzzo Ulteriore. Discende come un fossato nelle vicinanze di Coppito, riunendo non meno di dodici ruscelli; e di là prende il nome di Aterno. Nelle vicinanze di Aquila è ingrossato dal Rajo; e formando varie isolette, raccogliendo le acque de' fiumicelli e de' torrenti che scendono da' monti vicini, si precipita nel piano di Campana con pittoresca cascata, e correndo sempre da tramontana inverso scirocco, giunge infino a Pòpoli; ma oltre quel termine cangin il nome di Aterno in quello di Pescara; e torcendo bruscamente il suo cammino inverso maestro, corre in una pianura tra l'erte pendici del Gran Sasso d'Italia e la Majella. In quel tratto di pianura, della lunghezza di 12 miglia, confluiscono con la Pescara non meno di 26 tra larghi e piccoli rivi e torrenti. L'alveo della Pescara è profondo, e ha in qualche parte caverne sotterranee. Fino ai primi anni di questo secolo fu riguardata la sua foce come il porto più sicuro dell'Adriatico, dal Tronto a Manfredonia, e come l'emporio de' tre Abruzzi. Ma andò poi perduta una si bella condizione di quel fiume, per effetto degl'immensi depositi di ghiaja e di terre che vanno formandosi presso la foce, per cagione del rovinoso disboscamento de' monti soprastanti. Un cumulo di sedimenti formatisi lungo la spiaggia ha slargato la foce del fiume, ne ha diminuito proporzionatamente la profondità, e lo ha reso inaccessibile alle barche.

Il Salino trae la sua origine da una sorgente a Guado di Sielle, donde scende con limpide acque nella deliziosa vallicella di Ancri, e di là corre sotto il nome di Tavo insino a Penne, in mezzo a sorridenti colline, ingrossato da molti rivi e piccoli torrenti. Riceve quindi il Fino, ch'è il maggiore suo aumento, e cangia in questo il nome di Tavo. Ma dopo un corso di circa 28 miglia, passando vicino alle Saline, prende il nome di Salino, e con questo nome va a scaricarsi nell'Adriatico, non lungi da Città S. Angelo.

Il Piomba scende dal monte Chiodo con precipitosa rapidità; poi fatto più tranquillo bagna i territorj di Carmignano, Scorrano e Cellino, e dopo avere percorse le campagne di Bozza, ricco del tributo di molti fiumicelli, passando

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vicino Città S. Angelo, dopo un corso di circa 23 miglia, entra nell'Adriatico a poca distanza dalla foce del Salino.

Il Vomàno, Vomanus degli antichi, sorge da' monti della Laga e di Roseto; e passando pe' territorj di Cervaro, Nereto, Montorio, ingrossato da grandi e piccoli rivi di acque, e dal fiume Maone presso Miano, il quale scende dal Gran Sasso d'Italia, corre le campagne di Forcella e Penna S. Andrea, e dopo un corso di oltre 40 miglia, si scarica con tre bocche nell'Adriatico. Questo fiume cresce oltre misura o per effetto delle piogge dirotte, o dello scioglimento delle nevi; diventa allora un torrente, e porta una gran quantità di ghiaja che forma di tratto in tratto grossi banchi, frai quali si divide in canali diversi, e si rende così facile al guado. Ma quando ingrossa furiosamente, straripa e cangia corso, e porta gravissimi danni alle campagne vicine, i cui abitanti gli danno per questa ragione il nome di I ÷èòàío,

Il Tordino nasce sulla montagna di Padula ad occidente del 1.° Abruzzo Ulteriore, riceve molti rivi e fiumicelli, e, tra gli altri, il Viziola; passa rasente la città di Teramo, e dopo un corso di25 miglia tra giri serpeggianti, si perde nell'Adriatico a mezzodì di GiuliaNova. Presso al mare ha un alveo di 1000 piedi, e trasporta grossa ghiaia, la quale, innalzata in banchi, divide in canali le sue acque.

Il Salinello ha origine nelle vicinanze della Macchia del Conte; riunisce i rivoletti delle campagne per le quali corre tortuosamente; e dopo un corso di 20 miglia circa, entra nel mare, allargando di anno in anno sensibilmente la spiaggia per la molta ghiaja che seco trascina.

Il Vibrata, detto Helvinius dagli antichi, sorge poco lungi da Civitella del Tronto, traversa le pianure di S. Egidio e di S. Donato, e dopo il corso di circa 16 miglia, lungo il quale nasconde e discopre due volte le sue acque sotto il suo alveo ghiajoso, si perde nel mare.

Il Tronto, Truentus degli antichi, trae la sua origine dalle sorgenti di Campotosto presso Poggio Cancelli; raccoglie freddi rivoli in una cupa valle, e dopo avere corso per sassosi monti, comincia a farsi grosso presso Amatrice. Giunto sotto Accumoli, tocca la provincia pontificia di Ascoli, ove s'ingrossa di varj affluenti dalla destra riva, e ravvicinatosi di nuovo al Regno, dal punto che vi entra fino a che si scarica nell'Adriatico, segna il confine tra gli Stati del Papa e il Regno di Napoli. Lungo il cammino di 42 miglia le sue acque portano gran copia di ghiaja e formano scavi e sedimenti argillosi; e il volume delle sue acque cresce per modo che può navigarsi con barche dal mare infino al villaggio di MartinSicuro.

I fiumi della Sicilia che sboccano nel Tirreno sono:

Il Termini, il quale, traendo origine dal monte Gemelli, si getta nel Mar Tirreno vicino Termini, dopo un corso di circa 36 miglia, correndo da mezzodi e settentrione.

Il Fiume Grande, il quale sorge sulle Madonie o monti Nembrodi, passa presso Polizzi, e dopo 24 miglia di corso, gittasi nel Tirreno, tra Termini e Cefalù. Questo fiumicello forma il confine tra Val di Mazzàra e Val Dèmone.

Il Pollina, ch'è un fiumicello della provincia di Palermo, sul suo confine orientale.

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Tra' fiumi che dalla Sicilia sboccano nel Jonio, noteremo la Giarretia o Simeto, ch'è il maggiore fiume dell'isola. Ha origine presso Leonforte nei monti che circondano Castrogiovanni, riceve il Dittaino o Crisa, ed ingrossato da molti altri larghi rivi di acqua, si perde nel Jonio a mezzodi di Catania. E noteremo l'Anapo, nel Distretto di Noto, il quale sorge nelle campagne di Buscemi, e finisce nel seno del porto grande di Siracusa.

I fiumi della Sicilia che sboccano nel Mare Mediterraneo sono:

Il Bellici, il quale sorge ne' monti che circondano Corleone, e correndo da settentrione a mezzodi, forma un confine tra la provincia di Tràpani e il Distretto di Sciacca, e sbocca nel Mare Mediterraneo.

Il Platani, il quale ha origine nel clivo meridionale de' monti Nettunii nella provincia di Palermo, corre inverso mezzodi, infra Sciacca e Girgenti, e gittasi nel Mediterraneo.

Il Salsa, il quale sorge alle falde delle Madonie nella provincia di Palermo, poco lungi da Polizzi; corre verso mezzogiorno, ingrossato da motti fiumicelli, e traversando la provincia di Caltanissetta, entra in quella di Girgenti, e presso Licata sbocca nel Mediterraneo.

Il Terranova, ch'è un piccolo fiume, il quale ha origine su' monti che circondano Caltagirone, e passando presso Niscemi e Terranova, sbocca nel Mediterraneo.

Il Ragusa, il quale ha origine sul Monte Cerretano da un fonte chiamato Fico; cresce quindi per altri rivi da cui è ingrossato, e bagnando la città di Ragusa, da cui prende il nome, si scarica nel Mediterraneo.

E quanto ai fiumi del nostro Reame diremo, che le sorgenti che sgorgano dalle pendici occidentali dell'Appennino sono più copiose di quelle che derivano dalle pendici orientali; ma tutte confluiscono in grossi tronchi di fiumi, e seguono un cammino serpeggiante; ma più tortuoso quelli che sboccano del Tirreno che gli altri che sboccano nel Ionio e nell'Adriatico.

Quando i nostri monti erano più ingombri di folte boscaglie, i letti del nostri fiumi aveano una larghezza e profondità maggiore elf essi non hanno oggi, siccome dimostrano i dintorni del Garigliano, del Volturno, del Sarno, dell'Agri, del Sinno, dell'Ofanto, del Cervàro, i quali fiumi, secondo che dicono alcuni scrittori, scorrevano navigabili per lunghi tratti.

Laghi. Nelle regioni idrografiche che noi abbiamo innanzi determinate sono pure compresi i bacini de' piccoli laghi del nostro Reame, i quali si formano nelle valli che non hanno sbocco apparente, e nelle basse pianure e presso al lido. Vi ha di laghi senza scoli visibili, ve n'ha di altri che sono in comunicazione col mare, ed altri derivati da sconvolgimenti del suolo, per effetto di fuochi sotterranei o di tremuoti.

I più noti, tra' laghi del Reame nella parte continentale, sono i cosi detti laghi di Celàno o di Fùcino, di Fondi, di Patria, di Licola, di Averno, di Lucrino, del Fusàro, di Maremorto, di Agnano, d'Ischia, degli Astroni, di Telese, Caria, del Matese, di Ansanto, di Lèsina, di Varano, del Pantano Salso, di Salpi, non che quello di Pèsole e di altri più piccoli, in alcuno (lei quali fluttuano piccolissime isolette a seconda de' venti. I laghi più notevoli della Sicilia sono, il Lentini e il Pergusa.

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Il lago che primeggia sopra tutti è il Fucino, nel Distretto di Avezzano, il quale offre una figura presso che ellittica, formata da un gran numero di curve or concave ed or convesse; e vuolsi che fosse nella sua origine un cratere di smisurato vulcano. Oltre alle sorgenti che racchiude nel suo proprio seno, molte altre discendono da' colli soprastanti; e vi ha di parecchi fiumicelli che mettono foce in esso, e tra gli altri, il Giovenco, l' Aura di Celàno ed il Mosino di Avezzano, de' quali, tranne il Giovenco, gli altri inaridiscono tutti la state.

Il lago è senza scolo apparente, la maggior profondità delle acque è intorno a 50 piedi. Suol crescere e diminuire, secondo le stagioni più o meno piovose o nevose, e quindi non può determinarsi precisamente l'estensione della sua superficie. Il suo perimetro è intorno a 40 miglia, e può fissarsi a 12 circa la linea dell'asse maggiore dalle rive di Ortucchio a quelle di Avezzano, e a 10 circa la linea dell'asse minore dalle rive di Luco a quelle di Cerchio. Più che in ogni altro sito, sono cavernose le sue sponde nel luogo nominato la Pedagna; e sono vorticose le sue acque nel lato di Luco, dove credesi che esista il suo sbocco principale per meati segreti. Ed ivi specialmente ponendo l'orecchio contro il suolo, si ascolta il fragore delle acque che si perdono per voragini sotterranee; e quando spirano impetuosi i venti di borea e di libeccio, i suoi fremiti rassomigliano a mare in tempesta.

Sono memorandi i rialzamenti ed allagamenti di questo lago, i quali hanno portato gravi danni alle vicine campagne e la rovina di alcune cillà. Valeria, Penne, Archippe, che, ai tempi di Claudio, erano intorno al lago, sono ora sommerse nelle sue acque. E memorando del pari è l' emissario di Claudio, il quale mette capo da un lato nel Fùcino, due miglia distante da Avezzano, e da un altro nel Liri, al di sotto di Capistrello, e che fu una delle opere gigantesche de' Romani, fatta per dare scolo alle acque del lago, e rendere più rari e meno nocivi gli allagamenti.

Sono già molti anni che si lavora per il prosciugamento di questo lago; e già il livello delle acque è molto ribassato, e discoperta una grande estensione di terre fertili, e gli avanzi di quegli antichi abitati che o giacevano sommersi o formavano isolette.

Il lago è lontano 2 miglia dalla Città di Celàno, e perciò chiamasi anche di Celàno. Sono ne' dintorni di quelle rive, oltre Celàno, i comuni di Gioja, Tagliacozzo, Pescina, ed altri di quei circondarj circostanti.

Il lago di Fondi è al disopra della rada o golfo di Terracina, ed è bastantemente esteso e di figura molto irregolare, abbracciando o cingendo un bosco, presso alla riva del mare, e che dicono la selva del Salto. Ha nqve miglia di lunghezza, ed inuguale larghezza. Vi si fa buona pesca, ma non da per tutto, per cagione delle diverse sorgenti di acque sulfuree e di acque minerali che vi sono. I fiumi che mettono foce in esso sono quelli di Monticelli, di S. Magno e quello di Vetere.

Il lago di Patria, nel confine della provincia di Napoli e di quella di Terra di Lavoro, presso al mare, è il lago anticamente detto Palude Linterna, con una lunghezza di 3 miglia circa, ed una larghezza di mono di un miglio. È terminato ne' due estremi settentrionale e meridionale da due lunghi canali, l'uno chiamato il canale di Vena, ch'è l'antico Clanio, e l'altro il canale della Foce.

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Le acque di questo lago luinno una profondità di circa 8 piedi; e tanto nel fondo quanto sulle rive vi sono sorgenti di acque acidule. Vi sono boschi intorno, e le rive del lago, coperte di spesse canne verdeggianti, di giunchi e di piante di lentisco, abbondano di caccia, di cinghiali, di anitre, di beccaccie; e le acque del lago, di cefali, di spinole, di tinche, di anguille.

Il lago di Licola, nel distretto di Pozzuoli, detto pure la Fossa di Nerone, essendo stato scavato per volere di quell'imperatore, come il principio di un canale navigabile che conducesse in sino ad Ostia. Ha cinque miglia di circonferenza, e intorno a 3 piedi di profondità. Comunica col mare, ed è ricco di pescagione non solo, ma benanche di uccelli acquatici, come anitre e folaghe. Prossimo al lago è il bosco del Varcaturo, l'antica Selva Gallinaria, ma non fatta delle antiche e colossali sue piante.

L' Averno è un piccolo lago del Distretto di Pozzuoli, di una grande profondità, e ricinto di colline, vicino l'antro della Sibilla dimana. Vuolsi che Agrippa, per volere di Augusto, ne avesse fatto un porto, il quale comunicava col mare per mezzo del lago Lucrino, e che si fosse chiamato Porto Giulio. Anche oggi si lavora per aprire un canale che riunisca il lago al mare vicino, e lo riduca in un porto, ed i lavori sono molto avanzati. Sulle colline circostanti si trova una strada che mena all'Arco Felice, che fu una porta della celebre Cuma.

Il Lucrino, piccolo lago, vicinissimo a quello di Averno, con cui era prima in comunicazione, tra le colline di Baja e Montenuovo. È paludoso, poco profondo, e coverto di canne sulle sue rive. Questo laghetto è il Cacito degli antichi.

ll Fusàro, anticamente detto Palude Acherusia o Acherontea, è un piccolo lago, di figura quasi ovale, con una profondità poco maggiore di 20 piedi. Le sue acque erano nere nel secolo scorso; poi furono dette fosche e limacciose; ma furono quindi migliorate, e rinnovate con acque marine, mercè di un lungo canale che vi fu fatto. È abbondante di eccellenti pesci, di ostriche squisite; e frequentato da turbe di uccelli che qui chiamansi malardi e folaghe.

Re Ferdinando I di Borbone fece costruire in mezzo al lago una bella casinetta, e vi fece introdurre le ostriche, le quali si moltiplicano sopra pali fitti nelle sottoposte arene.

Il MareMorto è un piccolo lago, poco lungi dal mare; di figura quasi rotonda, con tre miglia di circonferenza, ed abbondantissimo di pesce. Per rinnovare le acque si è cavata l'antica foce verso il seno di Miseno, ed un'altra verso la spiaggia di Miniscola. Questo laghetto era l'antico porto di Miseno.

Il lago di Agnano è tra Napoli e Pozzuoli, verso occidente, alla distanza di un miglio e mezzo dalla grotta detta di Pozzuoli; è cireondato da monti di materie vulcaniche, e alcuni vogliono che fosse il cratere di un antico vulcano. Il perimetro del lago è di circa quattro miglia, e vi si respira aria dannosa ne' mesi estivi, principalmente pe' canapi e i lini che vi si macerano. Oggi si fanno studj importanti per prosciugarlo.

Il lago d'Ischia, posto alle falde de' più bassi colli dell'Epomèo

, ch'è la più elevata montagna dell'isola, verso i lati settentrionale ed orientale, pare si fosse formato da uno spento cratere, tale essendo l'aspetto delle colline

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che lo circondano a levante e a mezzogiorno. Ha quasi mezzo miglio di perimetro, è abbondante di pescagione, e ha contorni molto deliziosi.

Il lago degli Astroni è un piccolo lago, o più precisamente sono tre laghetti, circondati dal monte e dal bosco dello stesso nome. Rappresenta una montagna orribilmente squarciata, confinante ad oriente col lago di Agnano, da cui è discosto un mezzo miglio, a mezzogiorno col monte Lemogeo, ad occidente con la strada Campana, e verso settentrione col territorio di Pianuro.

Il lago di Télese è vicino alla città di questo stesso nome, nel distretto di Piedimonte, poco lungi dal confluente del Calore e del Volturno.

Il lago di Caria, quasi 2 miglia lontano da S. Germano, in Terra di Lavoro, si formò ne' primi anni del secolo passato, e si vide sprofondarsi il suolo, dopo essere cadute abbondanti piogge ed essersi udito un fragore strepitoso. Crebbe il lago sino ad acquistare un perimetro di 2000 piedi, ed una profondità di 80 piedi circa. È abbondante di pesca e specialmente di capitoni.

Il lago del Matese si forma in mezzo ai monti di quel nome, ed ha circa 5 miglia di perimetro, cinto da ciglia di alte rocce.

Il lago di Amanto è lontano 18 miglia da Frigento, nel Distretto di S. Angelo de' Lombardi; ha forma ovale, e circa 180 piedi di giro. Le acque hanno colore cinereo e piombino, ribollono continuamente, e soglionsi alzare sino ad 8 piedi: sollevasi dalle medesime un odore insoffribile che impedisce la respirazione. Quando il vento spira direttamente sul lago, quell'aria pestifera si estende sino alla distanza di una decina di miglia. Il fondo di questo lago è cavernoso.

Il lago di Lésina, nel territorio del comune dello stesso nome, Distretto di S. Severo, è largo 2 miglia, lungo più di dieci, e non più di 4 piedi profondo. L'acqua è salmastra e comunica con l'Adriatico, dal quale è separato per mezzo di una zona di terra lunga e stretta. Versano in esso

1 fiumicelli Apri e Lauro; ma quantunque animato da queste acque e da quelle del mare, pure rende pestifera l'aria circostante. Vi si fa pesca abbondantissima di ottimi capitoni e cefali.

Il lago di Varano è nel circondario di Cagnano, Distretto di S. Severo.

È bacino di questo lago

è un avvallamento giacente alle falde del Gargano. E a poca distanza dal Mare Adriatico, il quale in tempo di alta marea vi spinge dentro i suoi flutti. Presentano le ripe una figura quasi circolare, con lunghezza di miglia otto e larghezza di cinque miglia. Sassose e dirupate sono le sponde, e di ugual natura è l'alveo del suo emissario, non praticabile perciò dalle barche. Gli antichi lo chiamarono Lacus Urianus; e allora il suo emissario formava un porto frequentato detto Portus Garaae.

Il Pantano Salsa è un piccolo lago alle falde del Promontorio Gargano. Vicinissimo alla spiaggia dell'Adriatico, tanto che ne' periodici rialzamenti si frammischiano le acque, e vien perciò chiamato Salso. In tempi più remoti ebbe il nome di Lacus Pantanus. Estendesi in lunghezza da levante a ponente per miglia 10; e non oltrepassa nella maggiore larghezza le 2 miglia. Il suo canale di comunicazione col mare è inaccessibile alle barche, perché attraversato da molti scogli. A traverso di questo lago passa il Candelaro, il quale poi versa le sue acque nel golfo di Manfredonia.

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Il Salpi è un piccolo lago del circondario di Manfredonia, separato dal mare per una strettissima lingua di terra. Ha 12 miglia di lunghezza ed uno di larghezza. In esso versa le sue acque uno de' rami della Carapella, e nelle alte maree vi si mischiano le acque dell'Adriatico, per la qual cosa l'aere diviene malsano e micidiale agli abitanti vicini.

Il Pesole è un piccolo lago che formasi sull'Appennino là dove la giogaia biforcasi in due, e manda un ramo nelle Puglie e un altro nelle Calabrie. Di qui ha origine il Bràdano.

Tra' laghi della Sicilia è notevole quello di Lentini, detto pure Palude di Lentini (Leontinemis palus). Prende questo nome dalla città di Lentini, ch'è presse alle sue rive. Vien formato dalle acque stagnanti del fiume della Regina o di S. Leonardo, e da altri fiumicelli. Le sue rive sono occupate perpetuamente da canne palustri, e abbondano di uccelli di varia specie. Nelle acque del lago è grande copia di pesci minuti.

Il lago di Pergusa, detto anche di Pergo, nel Distretto di Piazza, è 15 miglia lontano da questa città, e poco discosto da Castrogiovanni. Ha una figura quasi circolare, di 4 miglia di giro, ed è ricinto di colline e di fertili campagne. Ha una grande profondità, e manca di scoli apparenti.

E discorrendo de' laghi del nostro Reame, noi vogliamo che si noti, che ve n'ha di altri molti, che più propriamente possono prendere il nome di paludi o di stagni, dove nell'interno delle provincie, e dove presso al lido, ora formati dalle acque stagnanti de' fiumi e de' torrenti, ed ora dalle acque del mare, siccome le lagune che abbiamo notate nelle Puglie presso alle rive dell'Adriatico, o quelle che trovansi nelle vicinanze di Taranto.

Poi che alcuni de' nostri monti sono rimasti nudi di boschi, le piogge dirotte ed i torrenti ne hanno portato la parte feconda di quelle terre, e cangiato le sottoposte campagne in pantani ed in fangosi roveti, siccome è accaduto nelle pianure di Capua, di Salerno, di Eboli, nella valle del Crati, e in molti altri luoghi. E quando, la state, quelle acque si disseccano, producono marasmo per le piante che si putrefanno, pe' pesci ed animali e insetti che muoiono; e quindi rendono l'aria pestifera e portano la morte ai poveri abitanti che sono costretti a lavorare quelle terre.

E quindi tra' più belli e più utili lavori, onde può grandemente migliorarsi l'agricoltura, e crescere la popolazione e la prosperità di un paese, noi pensiamo che sieno quelli delle bonificazioni, segnatamente quando abbracciano vasti terreni maremmani, o altrimenti coverti di stagni fetici o di sterili steppe.

E questi salutari lavori sono stati eseguiti tra noi sopra larghe proporzioni, e diseppellirono e chiamarono a coltura assai vaste e fertili terre, ed infusero quasi una nuova vita ai moltissimi abitanti ch'erano prima in quei pantani, dove vivevano una vita peggiore della morte. Ed ecco i bacini del Volturno, il lago di Fondi, le acque del Clanio, e fino le cime del Matese fatte accessibili alla benefica azione dell'agricoltore. Ecco l'inalveazione del fiume Velino ne' piani di san Vettorino. Ecco nel Principato Citeriore cessare gl'impaludamenti del Val di Diàno, onde ubertose contrade erano condannate a perpetua sterilità. Ecco circoscritto e ben diretto l'alveo del Fortòre e del Sarno; ecco arrestati i rovinosi allagamenti della Salsola, del Celano, del Candelaro.

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E le bonificazioni della Pescara; la colmate de' pantani del lago di Salpi; il prosciugamento e colmate degli stagni denominati Saline e Salinelle di san Giorgio presso Taranto; il bonificamento delle interiori lagune nel porto di Brindisi; lo scolo dato alle acque pantanose del Sombrino; l'arginatura del Mèsima e del Busento; il prosciugamento de' laghi di Cosoleto, della Giambra, della laguna di Bivona, a piè di Monteleone, e di altre di simile natura; e infine il maraviglioso lavoro del prosciugamento del Fùcino, sono opere importanti e di grande utilità.

E come, mercè l'operosità di benemeriti cittadini, migliorarono i campi di Eboli, cosi miglioreranno del pari quei di Pesto, bagnati dal Sele, e non isgombri di miasmi pestiferi, e gli altri che si trovano in condizioni simiglianti.

E mentre qui tra noi è organizzata un'amministrazione, che dicesi delle Bonificazioni, la quale intende ad opere cosi salutari e benefiche, noi ci auguriamo che i nostri concittadini vi concorrano anch'essi con tutte le loro forze, e nel modo e nel tempo che possono, per fare che questi lavori, sieno distesi quanto più è possibile, e la terra non solo cessi di essere nociva, ma sia invece utilmente coltivata e abitata, e sí che cresca la ricchezza e cresca la popolazione, che sono la pietra angolare della grandezza degli Stati.

Sviluppo e natura dalle coste. Le coste marittime della parte continentale del Reame, le quali hanno uno sviluppo di 1144 miglia italiane, sono variamente formate ora da monti, ora da colline, con punte sporgenti nel mare, ed hanno in qualche parte rupi cavernose, rocce tagliate a picco, o dune di sabbia, o bassi piani arenosi o paludosi.

Penetrando i mari che ci circondano entro le nostre terre, si restringono in grandi e piccoli goffi, e danno alle coste una forma ed uno sviluppo diverso.

E le coste del golfo di Gaeta, dal monte della Trinità sino al promontorio di Miseno, si dilungano per miglia 52.

Le coste del golfo di Pozzuoli, dal promontorio di Miseno sino a quello di Posillipo, per miglia 14.

Le coste del golfo di Napoli, dal promontorio di Posillipo sino alla punta della Campanella, per miglia 33.

Le coste del golfo di Salerno, dalla punta della Campanella sino a quella di Licosa, per miglia 61.

Le coste del golfo di Velia, dalla punta di Licosa sino al promontorio di Palinuro, per miglia 29.

Le coste del golfo di Molpa, dal promontorio di Palinuro sino al Capo Morice, per miglia 15.

Le coste del golfo di Policastro, dal capo Morice sino a quello di Cirella, per miglia 43.

Le coste del golfo di S. Eufemia, dal Capo Suvero sino a quello di Zambrone, per miglia 29.

Le coste del golfo di Gioja, dal capo Vaticano sino alla punta del Pezzo, per miglia 37.

Le coste del golfo di Gerace, dal capo Spartivento sino alla punta di Stilo, per miglia 44.

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Le coste del golfo di Squillace, dalla punta di Stilo sino al capo Rizzuto, per miglia 61.

Le coste del golfo di Taranto, dalla punta di Alice sino al capo di Leuca, per miglia 236.

Le coste del golfo di Manfredonia dalla punta di Ripagnolo sino a quello del Gargano, per miglia 66.

Le coste del golfo di Uriano dalla punta di Mileto sino al promontorio di Asinella, per miglia 59.

Le coste della Sicilia non presentano altro seno notevole che quello di Castellammare.

Quasi tutti questi golfi contengono piccoli seni, baie, rade, cale e porti più o meno al coperto de' venti, alti e bassi fondi, banda di arena, secche a íior d'acqua o nel fondo, sorgenti di acque a traverso delle onde, ed incontri di correnti con gorghi pericolosi, tra' quali è famoso quello di Scilla e di Cariddi, formato da due correnti che costringono le acque a piegarsi sopra una curva.

Vi sono de' luoghi dove i flutti del mare hanno corroso le coste, e de' luoghi dove le hanno ricolmate e protratte. Quindi in alcuni punti noi vediamo sommersi gli avanzi di antiche città, e in altri punti è terra asciutta quella che prima era dominata dalle acque. E generalmente possiamo dire che l'azione delle onde, o di quelle periodiche oscillazioni che noi diciamo flusso e riflusso del mare, opera più sulle rive del Jonio e dell'Adriatico che non sulle rive del Tirreno, onde le basse pianure più vicine a quelle spiagge, e soprattutto nella Capitanata, sogliono colmarsi e crescere di anno in anno, mentre nelle spiagge tirrene accade il fenomeno contrario.

Le acque del Tirreno sono tranquille, né soffrono una marea che meriti di essere considerata; e nel Faro di Messina non supera mai tre piedi; il che accade quando sono tempestosi i venti di scirocco e di ponente scirocco, con dirotte piogge per più giorni; chè allora il mare, battendo sulla costa di Capo delle Armi e Capo Pellaro da una parte e sulle rocce di Scilla dall'altra, fa crescere il volume delle acque nello stretto.

I piloti chiamano rema, voce greca antiquata che significa corrente, il flusso e il riflusso dello stretto di Messina; e dicono rema scendente il flusso che dal nord va al sud, e rema montante il riflusso che dal sud va al nord. Le rema scende e monta di sei ore in sei ore.

Fenomeno raro e sorprendente dello stretto di Messina è l' Iride Mamertina, che vien detta comunemente la Fata Morgana. Nel cuor della state, e precisamente in luglio, spesso il caldo diviene bruciante lungo le due coste del canale, soprattutto se per più giorni non spiri alcun vento. Da Reggio alla Torre del Faro le acque non hanno quasi alcun movimento. I torrenti, aridi per la mancanza di pioggia, non intorbidano il mare.

Nella notte tace ogni vento, o leggera aura meridionale rende pin intenso il calore del giorno che cade. Nel primo e nell'ultimo quarto della Luna, o nel vero punto dell'apogeo di quel pianeta, e nell'ultima ora della rema montante e nella prima della rema scendente, questa calma è maggiore, perché le acque dello stretto non sono agitate da corrente. Sul fare del giorno vedesi innalzare dal seno dello stretto e dalle opposte spiagge denso vapore, onde il cielo diviene cinericcio e nero il mare sottoposto.

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Improvvisamente il sole rischiara l'uno e l'altro; i raggi che si rifrangono, rendono tutt'i punti lucidi come cristalli; e poco dopo l'occhio è abbagliato da vivo splendore. L'orizzonte e le acque divengono immensi specchi, ove da prima veggonsi confusi obbietti, e poi palaggi, mura, torri, archi, alberi, navi, monti, l'imagine de' quali cangia ad ogni piccolo agitare delle onde o dell'aria. La Fata Morgana si scorge da Reggio, da Catona, da Gallico, da Villa S. Giovanni e da Messina, città donde ebbe il nome d'Iride Mamertina.

Sulle coste del nostro Reame si osserva il livello del mare dove crescere, dove decrescere, dove rimanere permanente. Sono nel primo caso le coste del Tirreno; e se ne ha una pruova evidente in Baja ed in Pozzuoli, ove sono in tutto o in parte sott'acqua immensi ruderi di antichi edifici, e quattordici colonne che forse facevano parte del tempi» delle Ninfe. E il simigliante si osserva nelle vicinanze di Capri, ove il mare mostra sepolte molte rovine della grandezza romana.

Un fenomeno contrario offrono il Jonio e l'Adriatico, dove le torri, costruite da più secoli sulla spiaggia, veggonsi oggi molto lontane dal mare.

Sono permanenti le sponde del mare là dove salde rocce hanno opposto resistenza ed argine agli attacchi delle onde, e là dove la direzione de' venti dominanti è ben difesa da ripari naturali.

I venti dell'est, dell'ovest e del nord, quando spirano molto impetuosamente, non trovando freno nella parte meridionale della penisola italiana, come la più angusta, sogliono improvvisamente rendere tempestosi i nostri mari, ma soprattutto l'Adriatico, perché ha minor fondo e minore larghezza.

Quanto alla condizione fisica de' nostri mari, l'Adriatico e il Jonio offrono alcune singolarità. L'Adriatico ha un fondo vario, dove arenoso, dove argilloso, dove pietroso e quasi spoglio d'interrimenti. Si osserva nelle acque dell'Adriatico una corrente, che pare costante e molto estesa, la quale scorrendo parallele alla sponda della Dalmazia e dell'Istria, ripiega per le coste del Friuli e della Marca Trevigiana, e corre verso mezzodì per le coste della Venezia, della Romagna e per quelle del nostro Reame. E quindi i depositi fangosi sono trascinati dalla corrente orientale verso la parte occidentale, e si arrestano là dove l'acqua è meno agitata.

Sulle nostre coste dell'Adriatico, e principalmente sulle spiagge degli Abruzzi trovasi accumulata la maggior quantità di tali depositi. Ivi il mare non offre alcun seno, né fondo né rada che dia sicuro ricovero ai legni da guerra e di alta portata mercantile in tempo di burrasca; e sono essi costretti a tenersi tre o quattro miglia lungi dal lido per ricevere imbarchi co' battelli. Ortona, MartinSeguro nel Tronto e Pescara, punti di maggior traffico, non offrono che mediocri caricatoi. S. Vito, GialiaNova, il Vomàno e il Tronto danno appena ricovero a piccoli trabaccoli scarichi ed a barche pescherecce.

Incominciando da' confini della provincia di Molise, e proseguendo sino al Capo di Leuca, sono per lo più basse le sponde, basse le terre, e basse le acque del mare. Siffatta condizione fisica ha dato origine a molti depositi di acque piovane e marine in laghi, stagni e maremme. Dopo i laghi di Lèsina e di Varàno, diviene alta la sponda su' fianchi del Gargàno, e quindi discende dopo Manfredonia.

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Prosegue cosi sino alle vicinanze di Trani, ove s'innalza ed il mare si profonda; poscia si abbassa di nuovo verso Bari, e accoglie diversi stagni: si eleva verso Mola di Bari, e scende poi a poco a poco insino ad Otranto. Lungo questo tratto s'incontrano diverse maremme, e l'una a breve distanza dall'altra. Le più grandi giacciono verso Brindisi ed Otranto. Da Otranto al Capo di Leuca, si alza il lido e si profonda il mare.

Dal cominciamento del Mar. Ionio declina il suolo di tratto in tratto sino a Gallipoli, donde rendesi sempre più basso a misura che si avvicina a Taranto; e di là sino al Capo Spartivento conformasi diversamente, ora più alto ora più inclinato, e quasi sempre con maremme litorali ove allignano macchie e sterpi.

Meno variabili sono le sponde del Tirreno, le quali o sono terminate da rocce tagliate a picco, che formano la più lunga linea, o si abbassano nelle valli formate da' nostri fiumi. E tali sono quasi tutte le coste della Sicilia.

Il fondo del mare segue la natura e l'andamento delle spiagge, secondo le quali ora si eleva ora si abbassa. È arenoso e fangoso là dove le sue acque sono basse, e là dove hanno sbocco le alluvioni; è roccioso e pietroso là dove il suo lido è alto, là dove le sue balze appennine sono a nudo, là dove le sue acque sono profonde.

Climi fisici. Formando il nostro Reame la parte più meridionale d'Italia, quasi in mezzo alle acque tranquille del Mediterraneo, lontano ad un tempo e da' ghiacci perpetui delle regioni polari e da' deserti ardenti della Africa, esso gode quasi generalmente una temperatura mite, sotto un cielo sereno e sorridente. Ma il vario aspetto del suolo, le diramazioni più o meno spesse ed elevate, le coste più o meno alte e basse o arenose o paludose, i mari più o meno distanti, i fiumi più o meno grandi, gli stagni più o meno pestiferi, le valli più o meno lunghe ed anguste, le terre più 0 meno umide, le coltivazioni più o meno salutifere, i boschi più o meno spessi, e la varia natura de' venti dominanti, e i raggi solari più o meno diretti, ecc. , producono una serie di varietà atmosferiche, le quali agiscono potentemente sulla vita degli esseri organizzati, su' vegetali e sugli animali, e sulla natura fisica e morale degli abitanti.

Ora siccome l'aspetto del suolo varia tra noi ad ogni passo, e da' monti più alti e più nevosi si discende nelle valli più belle, nelle pianure più fertili, nelle rive sorridenti de' nostri mari, cosi ad ogni passo quasi varia la temperatura di queste nostre contrade; ma non sono estreme le varietà, e

I climi sono, in generale, temperati e salubri, tranne alcuni luoghi, dove sono acque stagnanti, le quali, guastando l'aere con pestifere esalazioni, portano malefiche influenze.

Da questo vario aspetto del suolo deriva la varia temperatura de' nostri luoghi, e quindi le varie condizioni della coltivazione de' campi, della maturità de' frutti. Per la qual cosa tu vedi in alcuni luoghi la messe maturare quasi due mesi prima che in altri, quantunque tra gli uni e gli altri non sia che la breve distanza di 20 o 80 miglia. E ciò si osserva in ¡special modo nella Capitanata e nella Calabria Ulteriore, dove nelle pianure e nelle marine la messe si recide al cadere di maggio, e nelle montagne più tardi della metà di luglio; e le montagne ¡vi, e segnatamente nelle Calabrie, non sono lontane dal mare che poche miglia.

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Si è osservato che la temperatura delle nostre provincie ha sofferto nel corso di parecchi secoli sensibili cangiamenti, dalla maggiore alla minore densità di freddo, e dalla maggiore alla minore densità di pioggia. E di fatti se vogliamo prestar fede ad alcuni de' nostri antichi scrittori, noi troveremo di che persuaderci, che gl'inverni erano ai loro tempi si lunghi e si rigidi che gelavano grossi fiumi, ed alcuni fiumi si profondi e si larghi che vi si poteva navigare per lunghi tratti. Il qual cangiamento pare che sia derivato dalla distruzione d'immense foreste, dal disseccamento di grandi paludi, e da più vaste coltivazioni là dove le terre erano salde ed incolte.

La parte d'Italia che noi abitiamo, essendo la più angusta della penisola, è più che ogni altra soggetta all'azione de' venti, e i cangiamenti succedono rapidamente in ogni stagione. Il vento che fa più rialzare la colonna di mercurio del barometro è il maestro, il quale, radendo le nevose cime delle Alpi, senza toccare alcun tratto di terra, si rende estremamente rigido; il vento che la fa più ribassare è lo scirocco, il quale, passando sopra alle acque del Mediterraneo, s'impregna delle sue vaporazioni, e porta quella umidità che intorbida l'atmosfera; il vento che fa elevare l'ordinaria temperatura nella state, e la fa ribassare nell'inverno, è il levante, il quale, lambendo lunga estensione di continente, ritrae poco vantaggio dall'influenza del Mar Nero; il vento che la fa più fresca nella state e più umida nell'inverno è il ponente, il quale soffiando sopra l'Oceano Atlantico attraversa il continente della Spagna.

Quantunque la tramontana venga dal polo, pure è meno rigida del maestro, perché discorre minore estensione di montagne, e perché attraversa l'Adriatico. L'Ostro spira meno umido e meno caldo dello scirocco; ed è presso a poco lo stesso il libeccio, il quale suole alle volte essere fra noi molto urente.

Il massimo freddo si abbassa fino a 3 gradi sotto zero del termometro di Reaumur, nelle contrade più meridionali, e fino ad 8 gradi nelle contrade più settentrionali, e il massimo caldo si eleva sino al 31° grado nelle prime, e fino al 27° nelle seconde. La massima elevazione del mercurio nel barometro è di pollici 28 e linee Il "

Ëã, e la minima di pollici 27 e linee 8

e/, 2.

Le contrade piane sono più che le montuoso esposte all'azione de' venti, e quelle che più sono soggette sono le pianure di Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d'Otranto. E nella Capitanata segnatamente spirano dal lato di mezzogiorno o di libeccio i cosi detti Favonii, i quali cagionano un calore soffocante che qualche volta dissecca i frutti e le fronde degli alberi. E nelle Puglie la massima umidità dell'atmosfera ne' giorni di estate accade nelle prime ore pomeridiane, quando è massimo il caldo, essendo che allora spira più forte il vento da mare, il quale viene pregno di vapori.

I venti accompagnati da geli sono il maestro, la tramontana maestro e la tramontana, e quei che producono il massimo calore sono i meridionali.

Cominciano da ottobre a convertirsi in neve le evaporazioni terrestri negli alti Appennini. E le sommità dei monti che prima sogliono imbiancarsi sono quelle del Gran Sasso d'Italia, della Majella, del Matese, di Aspromonte; e le due prime segnatamente oltrepassano il limite delle nevi perpetue. essendo coverte di neve anche nei maggiori calori di está.

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In alcuni anni la neve cade abbondantissima anche nelle pianure, e rende difficili le comunicazioni, e ritarda i lavori campestri.

Nelle contrade mediterraneo di Abruzzo si soffre un clima rigido per più di sei mesi; ma altrove, e soprattutto ne' luoghi marittimi, l'inverno è appena sensibile per due mesi. Ma la vegetazione non è mai interrotta, anche nelle stagioni più rigide, e crescono l'erbe, e le piante si covrono di fiori e di frutti.

I venti che sogliono portare la pioggia sono ordinariamente lo scirocco, il ponente garbino, il ponente maestro e la tramontana greco nelle provincie del lato occidentale degli Appennini verso il Tirreno; il levante, il levante scirocco ed il levante greco in quelle dell'orientale verso l'Adriatico e il Jonio. Ma i primi sogliono dare in comparazione degli altri, più di un terzo di pioggia nel corso dell'anno. La quantità media delle piogge annuali è di 25 pollici nelle regioni verso l'Adriatico, e di 32 pollici in quelle verso il Tirreno.

I giorni piovosi sono più nell'autunno che nell'inverno, più nell'inverno che nella primavera, più nella primavera che nella state; e le piogge sono più frequenti in tempo di giorno che di notte, il che deriva dalla maggiore elettricità o piuttosto dalla maggiore evaporazione e dal maggiore calore che vi dirada l'aria.

Le stagioni più piovose sono l'autunno e l'inverno, quando sogliono accadere, specialmente nelle contrade del Tirreno, improvvise inondazioni, con gravi danni delle coltivazioni de' campi, formando qua e là alcuni pantani da' quali si sviluppano miasmi nella stagione estiva. Nelle altre stagioni si va incontro a siccità le quali divengono funeste se le accompagna per molti giorni un tempo disseccante e un sole cocente.

Più che negli altri mesi scoppiano terribili procelle, quasi sempre seguite da lampi e tuoni e spesso da grandine, in maggio e giugno per le orientali meridionali, in luglio e settembre per le settentrionali orientali; e sono tali qualche volta che il coltivatore vede distrutto in un istante il frutto delle sue fatighe e tutte le sue speranze.

Frequenti nebbie si formano in primavera ed in autunno; e le più dense di vapori e di esalazioni sono quelle che emergono da' terreni paludosi, dai bassi fondi e dalle rive de' fiumi; e sogliono risolversi ordinariamente in pioggia quando il tempo è dolce, ed in gelata quando il tempo è freddo.

Noi non abbiamo una vasta serie di osservazioni meteorologiche, fatte per molti anni e in molti luoghi; e quindi non possiamo venire a conclusioni generali quanto allo stato atmosferico del nostro Reame. Ma quando le nostre società Economiche, stabilite in ogni provincia, potranno, con osservazioni costanti e contemporanee, determinare le varie condizioni atmosferiche de' luoghi, e indagarne le cagioni e vederne i rapporti geografici con la posizione e con la natura del suolo; allora potrà conoscersi per ogni luogo, il grado di calore e di freddo, la natura e la forza de' venti e l'altezza delle piogge, l'umidità dell'aria, la quantità dell'acqua disciolta nell'atmosfera, la purezza dell'aria ne' luoghi aperti o chiusi, e la quantità delle meteore aeree, acquose, ignee, luminose; e quindi potrà conoscersi con buon fondamento se il suolo ha condizioni proprie della vita di alcuni esseri organizzati, e in che modo quelle condizioni possono essere utilmente modificate.

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Intanto ci piace di pubblicare alcune conclusioni generali, alle quali si è venuto dopo 10 anni di osservazioni fatte nel Real Osservatorio di Marina in Napoli, e che sono state ricapitolate brevemente nel modo che segue:.

1. La massima pressione barometrica si ha quando spirano i venti boreali, e la minima quando spirano i venti australi, e pel massimo e pel minimo dal novembre al marzo, che sono i tempi più incostanti per la nostra posizione.

2. La temperatura segue la legge regolare di essere massima nella state, minima nell'inverno, e la massima e la minima temperatura suole avverarsi in punti quasi equidistanti da' solstizj, e la media, che regolarmente si avvera due volte l'anno, si verifica in giorni che distano dagli equinozj quasi quanto la massima e la minima da' solstizj.

3. Quanto all'umidità non può stabilirsi norma alcuna, tranne questa, che il suo massimo si avvera costantemente ne' mesi invernali.

4. Che la pressione media è754mm 69La temperatura media relativa

17 » 8assoluta19 » 9

L'umidità media

455

5. Che la temperatura media dedotta dalle osservazioni del giorno è poco minore di quella ricavata dalle osservazioni del termometrografo.

Il massimo della pioggia caduta in un anno è........... mm 1238,1

Il minimo............................................................................ 640,5

Il medio............................................................................. 1008,9

Il vento dominante del luogo è quello del 4° quadrante e non del 2°.

NATURA E PRODOTTI DEL SUOLO

L'Appennino delle Sicilie ha un andamento irregolare ed ondeggiante, pure la sua direzione generale può ritenersi per N. OS. E. Altri gruppi di montagne meno elevate e con direzione quasi parallele a quella della giogaja principale si distaccano dai suoi fianchi verso l'Adriatico e verso il Tirreno. Colline non molto alte stanno come contrafforti addossate a queste montagne, onde emergono valli longitudinali e trasversali.

La catena principale dell'Appennino da Rionero a Nicastro cangia direzione notabilmente, la quale diviene N. N. OS. S. E. ; e da Catanzaro a 1l'es tremo della penisola, è quasi inversa di questa, essendo prossima a N. N. ES. S. O.

Panno eccezione piccoli rilievi del suolo. Il Gargano la cui direzione è quasi E. O; e le Murge, nelle Terre di Bari e di Otranto, le quali non sono che poggi cui non si potrebbe assegnare una direzione. Nella Sicilia insulare i monti che da Messina si stendono fin presse la base orientale dell'Etna (Peloritani) hanno la stessa direzione di quelli delle due estreme Calabrie, dei quali sono un prolungamento sebbene lateralmente spostati; ed i monti che vanno quasi parallelamente al lato Nord dell'Isola (Nettunii) sono diretti prossimamente dall'E. N. E. all'O. S. O.

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L'Appennino in Terra di Lavoro abbassandosi verso il Tirreno forma un arco, del quale un estremo è a Gaeta, l'altro alla Punta della Campa

nella. I suoi due estremi sono bagnati dal mare, mentre fra questo e la curvatura dell'arco rimane una spaziosa pianura interrotta da colline. A tutto questo tratto di terra, giustamente riflette Breislak, conviene il nome di Campi Flegrei.

In tutta Italia il punto più elevato dell'Appennino è il Gran Sasso, e da esso la sua cresta si abbassa da entrambi i lati nella Italia superiore ed inferiore.

In quest'ultima che spetta al presente lavoro si hanno le seguenti altezze:

Monte Gran Sasso piedi9577ABRUZZIMonte Amaro (Majella) » 8590Monte Velino »7872Monte Greco » 7208

MOLFESE Monte Miletto » 6495TERRA DI LAVOROMonte Frosolone » 6452

BASILICATA Monte Dolcedorme » 6812Monte Rubbia » 5599

CALABRIE Monte Cocuzzo » 5402Monte Aspromonte » 4312

I terreni di sedimento che costituiscono il suolo delle due Sicilie sono soltanto i meno antichi, ed ancora, di ciascun gruppo vi si trovano più sviluppati i piani più superiori. A questi si aggiungono i terreni vulcanici, importantissimi, e che sono stati oggetto di accurati studi i plutonici, che si rinvengono solo nelle Calabrie e nella Sicilia insulare i metamorfici, dove le rocce ignee vengono in contatto con le sedimentarie.

Nel continente i terreni postplioceni occupano pochissima estensione. Dei lacustri i meglio conosciuti sono quelli di Telese, e della sorgente del Volturno in Terra di Lavoro; dei laghetti della Regione Vulturina, del Velino etc. , i quali d'ordinario si legano a travertini antichi. Fra i marini bisogna annoverare le spiagge emerse dal mare, come a Gaeta; a Pozzuoli la Starza, le emersioni e sommersioni del Tempio di Serapide. L'arenaria recente di Messina deve escludersi da questo periodo, non essendo altro, al dir di L. Pilla, che una puddinga delle parti superiori dei depositi pleistoceni di Sicilia.

Di massi erratici o trovanti si hanno esempi a Monte Vergine, a Pietraroja, a Cajazzo, a Cerreto, a Muro in Basilicata; sebbene Scacchi creda che abbiano ultra origine questi massi.

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Di caverne ad ossami son rinomate quelle di S. Ciro e di Billiemi nelle vicinanze di Palermo, alle quali si aggiunge la grotta di Palinuro sul Mediterraneo, in Basilicata.

Dei travertini or ora nominati in via di formazione fu detto ancora che si congiungevano a simili rocce di epoca antica, come quelli di Pesto, i quali assai probabilmente sono del periodo pleistocene. A questo istesso appartengono i depositi conchigliferi di Taranto, l'altro presse Pozzuoli della spiaggia alta su cui è la Villa di Cicerone; in Ischia quelli di S. Alessandro, di Castiglione, e del burrone presso il Lacco. Nella Sicilia soprattutto quelli al Sud, ove ora sono calcaree, ora argille azzurre. Su l'età di questi ultimi non essendo d'accordo i geologi, chi volesse averne piena conoscenza potrebbe leggere le opere di Gemmellaro, di Hoffmann, di Prevost.

Nel cenno dato di sopra della parte orografica delle Sicilie si disse che alle montagne che si distaccavano dai tianchidell'Appennino sono addossate colline come contrafforti. Queste colline sono dei periodi eocene e miocene, e fra esse ed il mare trovasi il terreno pliocene o subappennino.

Il quale è rarissimo verso il Tirreno, mentre verso l'Adriatico per contrario è assai sviluppato e forma una zona che continua oltre nella Italia superiore. Nel 1° Abruzzo Ultra costituisce colli a piè del Gran Sasso; si distende nella pianura delle Puglie, onde Cagnazzi trasse argomento che l'Adriatico comunicasse col Jonio staccando dal continente le Terre diBari e di Otranto. La maggiore altezza cui giunge è ad Ariano. In Basilicata se ne trova un lembo sul Jonio. Forma la valle di Cosenza, ed interrottamente si stende fra i golfi di Sant'Eufemia e di Squillace riposando sul terreno del precedente periodo, ed additando che all'epoca pliocenica quelle estrema parte delle Calabrie era disgiunta dal continente come le provincie di Bari e di Otranto. Finalmente s'incontra ad Aspromonte. a Monteleone, etc. Le marne azzurre che riposano su l'Epomeo in Ischia appartengono a questo periodo. Litologicamente è formato di argille, di marne, di arenarie d'una calcarea marnosa tenera (pietra Leccese) ricca di ittioliti, illustrati da Costa, ed anche di un tufo calcareo. È in questa forma che, soprattutto nella Provincia di Bari, rende meno inuguale il suolo riposando su le Murge.

Nell'Abruzzo Ultra 1° e nell'estrema Calabria fra l'Appennino ed i colli plioceni s'incontra il terreno miocene generalmente composto di argille stratificate e di arenarie che talora hanno odore bituminoso, specialmente dove sono accompagnate da combustibili fossili come a Ripa, a Montorio, a Valle S. Giovanni nel Teramano. Contengono inoltre anche depositi di gesso, al quale non di rado si accompagna il solfo. Spada e Orsini hanno ragioni per riguardare questo terreno come transizione dall'eocene al pliocene.

In Calabria non ha molta estensione né molta potenza. Ad Aspromonte è addossato alle rocce cristalline di esso, e si compone di argille stratificate di puddinghe granitiche, di calcarea bituminifera. In alcuni luoghi contiene strati di carbone (Agnana, Antonimina) similissimo a quello di Monte Bamboli. Anche a Gerace, a Stilo in Calabria Ultra 2a, nel torrente Valanidi presse Reggio può riconoscersi questo terreno. Nell'ultima località è importantissimo perché vi si osserva il terreno miocene sollevato dalle rocce cristalline su te quali si appoggia, e su di esso orizzontale il pliocene.

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Indicando così le due eta di quei terreni terziari e l'epoca del sollevamento dell'Appennino di Calabria. A questo stesso periodo sembra appartenere il carbone di Limina in Sicilia.

L. Pilla riferisce con dubbio at periodo eocene i depositi del Val di Noto, riguardati da Hoffmann coevi agli altri pleistoceni di Sicilia. Una questo periodo è ben riconoscibile anche nella Sicilia continentale, ove si rifletta che la calcarea nummulitico-ippuritica di Pilla appartiene manifestamente a due formazioni ben distinte. Dopo i lavori di Sir R. I. Murchison non è lecito dubitare di questo. Anche C. Prevost afferma di aver trovato nella calcarea di Capo Passaro nummuliti insieme ad ippuriti; ed il fatto ehe persuase Pilla a riguardare come sincrone queste due formazioni, la con cordanza della loro stratificazione, non isfuggì al geologo inglese, il quale fa appunto notare questa condizione, che le rocce cretacee degli Appennini concordantemente ed insensibilmcnte fanno passaggio alla zona nummulitica, nella quale come nelle grandi masse di macigno, intercalate o sovrapposte, svaniscono i tipi secondarii.

Al periodo eocene adunque si dee conchiudere che appartenga la formazione all'Est del M. Gargano, delle vicine isole Tremiti, delle falde del Monte Majella all'Ovest, tutte nummulitiche; il macigno alternante con le argille nell'Abruzzo Teramano, la catena del Pizzo di Sevo tutta di macigno, quello di Alberona e di Bovino in Capitanata, di Basilicata, etc. Caratteristica eminente del macigno è la presenza in esso di fucoidi. In Sicilia l'arenaria appennina a fucoidi di Hoffmann, la calcarea del Monte Erici al Capo Passaro appartengono a questo periodo. AI quale sembra doversi riferire il deposito di salgemma accompagnato dal gesso di Lungro nella Calabria Citeriore, e l'altro di solfo di Val di Mazzara e Val di Noto in Sicilia.

I terreni secondari difficilmente si possono ben caratterizzare nei loro diversi piani nelle Sicilie; sí perché mancano discordanze notevoli, sí perché in taluni sono scarsissimi i fossili, come generalmente nella Italia superiore. Ivi pero sono stati ricercati con tanta solerzia questi terreni, che già parecchi avanzi organici hanno sparso sufficiente luce su la loro età.

Assai generalmente diffuse sono le rocce del periodo Cretaceo ed i fossili più abbondanti nelle calcaree sono gli Ippuriti; in più luoghi si sono rinvenuti fossili dell'epoca Giurassica, non è a dubitare quindi che questo terreno liguri nella serie delle nostre zone di sedimento: ma quale estensione esso abbia non può dirsi con precisione, molto ancora resta a fare, e forse appena si è incominciato.

Le grandi masse calcaree che costituiscono la massima parte dell'Appennino delle Sicilie debbono ritenersi come Neocomiane. Sono Neocomiani il Gran Sasso, il Velino; di calcaree di questo periodo son fatti l'arco dell'Appennino di sopra accennato, il Matese, Monte Cassino, i monti di Venafro, di Vitulano; interrottamente si mostrano nei Principati, in Basilicata e fino nell'estrema Calabria. Nelle terre di Bari e di Otranto costituiscono le Murge, nelle quali è degno di nota che i loro strati sono o di poco inclinati od orizzontali, al contrario che nella catena principale appennina. Il Gargano all'Ovest, e nella Sicilia i Nettunii (?) sono Neocomiani.

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Sul lato Est dell'Appennino degli Abruzzi si mostra il terreno Giurassico, e di questa età può ben ritenersi la base del Gran Sasso. Le calcaree di Torre d'Orlando a Castellammare, le altre bituminifere di Giffoni, quelle di Pietraroja, tutte ittiolitiche, son ben note ai Paleontologi, dopo gl'importanti lavori di Costa. I pesci fossili della prima località sono riferiti da Agassiz a specie giurassiche, mentre quelli di Giffoni secondo Egerton sono di specie classiche. Pure il riferire a questi piani quelle formazioni calcaree pel solo carattere degli ittioliti sembra prematura conclusione. Certo a Torre d'Orlando, a Sorrento si trovano calcaree stratificate con rudisti, e nella prima delle due località sono accompagnate da stratarelli con orbitoliti. Queste calcaree spesso sono convertite in dolomiti, e dolomitiche sono le brecce che le accompagnano, siccome risulta dagli studi di Puggaard. In Sicilia è giurassica la calcarea di Taormina.

Nell'estremo Sud della Basilicata, al Nord della Calabria Citeriore e nelle altre due; nei Peloritani in Sicilia sono limitate le zone cristalline nei nostro paese. Nelle Calabrie costituiscono l'asse dell'Appennino, dove l'Aspromonte è alto 4312 piedi. Dette zone generalmente sono graniti e spesso stratificati, assumendo i caratteri dello gneis e del micascisto. Altre rocce vi sono associate, che hanno tali caratteri da non poter loro convenire alcun noine di quelli adottati dai geologi.

In contatto di esse il macigno è metamorfosato in ftanite divisibile in prismi, (Lagonegro in Basilicata); le argille in scisto argilloso (Carpenzano, Scigliano). Le calcaree sovente prendono i caratteri del cipollino (Olivadi); a Castrovillari hanno tessitura cristalline e contengono diversi minerali.

Famigerati sono i terreni vulcanici delle Sicilie, dove esistono vulcani attivi, semiestinti ed estinti. Si contano fra i primi il Vesuvio, l'Etna, Stromboli. Fra i secondi a Pozzuoli la Sulfatara. La serie dei vulcani estinti è assai numerosa. In Basilicata, il Vulture, il solo su la gronda orientale dell'Appennino. Nei Campi Flegrei stanno raccolti tutti gli altri. Incominciando dal Nord, s'incontra il vulcano di Roccamonfina; degli altri numerosissimi basterà indicare i più notevoli, Astroni, Campiglione, Monte Nuovo, d'epoca storica; in Nisita Porto Pavone; in Ischia l'Epomeo, il Rotaro, etc. ; in Sicilia quelli di Val di Noto, di Palagonia etc. etc. Vi si potrebbero aggiungere i Crater i laghi dei quali danno esempi quelli di Agnano e di Averno.

I terreni vulcanici costituiscono la parte meglio studiata del nostro suo1o. Le opere, le monografie che ne trattano a disteso son troppo note perché fosse mestieri di indicarle. Allo scopo di questo lavoro dee bastare quanto ne sarà detto appresso. Le lave augitiche, leucitiche e feldispatiche, i tufi, generalmente rappresentano questi terreni. Questi Ultimi, sieno in massa solida, sieno incoerenti, sono i più abbondanti; e, fra essi, è indispensabile distinguere quelli che Scacchi indicò col nome di tufi di trasporto, i quali si trovano a formar piccoli depositi staccati riposanti sopra terreni terziari o ancora vulcanici, a grandi distanze dai crateri donde ebbero origine. Cerreto, Mirabella, Alife, il Garigliano sono i I i mili di questi depositi.

Si associano a queste rocce i conglomerati. Le lave leucitiche sono caratteristiche del Vulcano di Roccamonfina, e se ne trovano anche di feldispatiche nei crateri secondarii.

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Le leuciti vi hanno non comuni dimensioni. Le lave del Vesuvio spesso contengono mescolate leuciti ed augiti, sebbene nelle lave antiche le leuciti sieno assai più grandi che nelle moderne, nelle quali non giungono alla grossezza d'un pisello. Augitiche sono le lave del Vulture, ed in questa regione non può tacersi di due altre lave, dell'Haüynofiro e della Haüynotrachite. Le trachiti può dirsi esser produzione quasi esclusiva dei vulcani delle vicinanze di Napoli, estinti o semiestinti. Le lave dell'Etna sovente contengono cristalli di labradorite.

Vulcaniche sono le isole Pontine, ed in esse figurano principalmente i tufi, le lave spesso prismatiche tanto che in Palmarola una grotta, dice Pilla, «quasi uguaglia in bellezza quella di Fingal.» Qualche altra roccia particolare vi si aggiunge; l'ossidiana, abbondantissima a Lipari, e la perlite in masse sferoidali (Chiara di Luna, Ponza). L'isolotto di Zannone intanto è notevole perché il suo lato Nord è tutto di calcarea su la quale si appoggia il basalte. Le rocce di queste isole sono imbianchite per l'azione dei fumajuoli: in più luoghi mostrano l'esistenza di crateri ogni giorno meno riconoscibili per la continua azione del mare.

In tutto vulcaniche sono Ischia e Procida, del pari che le Eolie. Fra queste Stromboli è assai nota pel suo vulcano in attività incessante. Generalmente composte di tufi e di cave, l'ossidiana, le pomici sono caratteristiche fra le loro rocce.

Finalmente i basalti di Val di Noto alternanti con terreni terziarii, quelli di Patagonia, sono assai conosciuti perché occorresse parlarne ancora.

Da ultimo anche si hanno esempi di salse; Maccaluba in Sicilia e la valle d'Ansanto nel Principato Ulteriore ne porgono esempii.

Minerali.

Le materie utili del suolo napolitano non sono moltissime. Oltre ai tufi tanto pregevoli nelle costruzioni, ed alle argille, vi sono calcaree di buon cifetto nelle decorazioni, siccome il marmo di Mondragone, la breccia di Montegargano, la lumachella di Vitulano, l'oficalce di Calabria etc. La pietra Leccese (alberese?) si presta a delicati lavori. Le agate, i diaspriagata della Sicilia, la breccia che porta il suo nome, la lumachella di Trapani sono ben note ai lapidari.

Oltre ai depositi già accennati di salgemma, di solfo, di gesso, altri minori esistono di questi ultimi due presso Ariano e nel Chietino. Di carboni fossili sono stati indicati quelli di Teramo e di Agnana, e bisogna aggiungervi l'altro importante nelle vicinanze di Salerno (Giffoni). Negli Abruzzi s'incontra l'asfalto; depositi di limonite si hanno in Terra di Lavoro. La magnetite, il solfuro di piombo si trovano nelle Calabrie, ed in Sicilia quest'ultimo è argentifero. Ad Olivadi si ha la grafite, a S. Donato il cinabro in piccoli nidi, etc. (1)

(1) Questo sguardo geologico sul nostro Reame noi lo dobbiamo al sig. Gaglielmo Guiscardi, valoroso giovine, i cui lavori sono generalmente tenuti in gran pregio.

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Vegetali.

Definir volendo le condizioni di Geografia botanica del regno di Napoli, uopo è dividerla in tre regioni, le quali sono, cioè, la settentrionale, la media e la meridionale. Questo regno prolungandosi per poco meno di 5 gradi di latitudine dal settentrione a mezzodì, sarà facile inferirne che, indipendentemente dalle considerazioni delle linee isotermiche, ragguagliate alt' elevazione sul livello del mare, de' monti che lo percorrono in detta direzione, speciali caratteri geografici dovranno presentare le piante delle due estremità settentrionale e meridionale di questa estesa linea. Egli è perciò che sul confine degli Abruzzi noi incontriamo piante comuni alla Flora dell'Italia superiore, ai più alti Appennini ed alle stesse Alpi, laddove sul confine della Calabria e nella Sicilia ci si presentano le piante della Grecia, della Siria e delle regioni africane.

Le relazioni fra le piante delle opposte rive del bacino del Mediterraneo, già notate da' botanici e da' geografi, e che in più chiaro lume vengono esposte nella nuova Flora dell'Algeria, cui intesero gli scienziati francesi, preseduti dal Chiarissimo Barone Bory de SaintVincent, indarno rintracciar potrebbonsi altrove nella Flora Napolitana che nelle regioni media e meridionale. Queste tre regioni dovranno perciò circoscriversi nel modo seguente.

La regione settentrionale si estende dalla frontiere settentrionale del regno, dal grado 42 e 50' boreale al grado 41 e 30'. La sua media temperatura può per approssimazione ragguagliarsi a gradi 13. Questa regione comprende gli Abruzzi, il Sannio, e tutta la parte montuosa di Terra di Lavoro. I più alti monti del regno, il Gran Sasso, la Majella, il Velino, alti tra i 7 e 10 mila piedi, trovansi in questa regione. Sul confine meridionale di essa trovansi la Meta a ponente, che segna il confine tra la provincia di Terra di Lavoro e quella di Molise; il Gargano a levante in Capitanata; MonteCassino e Monte Cairo a mezzodì, alti tra i 4 e 6 mila piedi; ed il Matese a settentrione in Molise.

La regione media si estende dal grado 41 e 30' a tutto il grado 40. La sua media temperatura è di gradi 15. Questa regione abbraccia la parte bassa di Terra di Lavoro, le provincie di Napoli e de' due Principati, la Puglia e gran parte della Basilicata.

I suoi più alti monti sono il Vulture a settentrione in Basilicata; l'Alburno in Principato Citeriore ed il Terminio in Principato Ulteriore a mezzodi; il monte Auro detto di S. Angelo di Castellammare a ponente; e sono alti tra i 4000 e 5, 500 piedi.

La regione meridionale si estende dal grado 40 al grado 38 e 12'. La sua media temperatura è di circa gradi 17. Essa comprende le due Calabrie, l'estrema parte meridionale della provincia di Terra d'Otranto, non che quella della Basilicata. I suoi più alti monti sono il Pollino, alto 6, 640 piedi, a settentrione sul confine tra la Basilicata e la Calabria; l'Aspromonte a mezzodi nella Calabria Ulteriore 1a, alto 4, 312 piedi.

Tra le piante più caratteristiche ed esclusive della regione settentrionale voglionsi ritenere le seguenti: Silene acaulis, Trollius européens, Eriophorum latifolium, Saxifraga oppositifolia, cœsia, muscoides bryoides, Androsace villosa, Drgas octopetala, Gentiana nivalis, Papaver alpinum, Valeriana saliunca, Aretia vüaliana, Artemisia mutellina.

Le piante comuni alla regione settentrionale e media, ma che non passano alla meridionale, sono Gentiana acaulis, Veratrum album et nigrum, Draba aizoides, Linum denticulatum, Arbutus uva ursi, Daphne Mezereum, Daphne alpina, Astragalus sirinicus, etc.

Proprie della regione meridionale, o comuni alle opposte sponde del hacino del Mediterraneo sono, Pteris longifolia, Ophyoglossum lusilanicum, Anthemis chia, Statice caspica, Atriplex diffusa, Cnicus sgriacus, Croton villosum, Convolvulus sinuatus, ecc.

Tra gli alberi più caratteristici delle succennate, convien notare i seguenti:

Il Pinus halepensis percorre tutte le tre regioni, ed è comune all'Africa ed alla Siria. Esso scende fin presso al mare presse Pescara, e s' innalza su' monti fino a 2000 piedi. Il Pinus rotundata Link è proprio de' più alti monti della sola estrema regione settentrionale, dove discende da' monti del Tirolo. I pini Laricio calabra e brutia sono esclusivi dell'estrema regione meridionale. L' Abies pectinata percorre la linea montuosa più continentale di tutt'i monti del regno: esso compone interi boschi, a Capracotta nel Sannio, all'abetina di Ruoti in Basilicata, ed all'Aspromonte in Calabria.

Il faggio percorre tutti gli Appennini del regno per una zona che serpeggia tra' 2000 e i 4408 piedi, secondo le varie esposizioni e latitudini.

Il castagno ed il cerro occupano la zona sottoposta al faggio, tra' 500 e i 2000 piedi.

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Le querce di svariate specie scendono fin presse al lido (1).

Il clima dolce, il cielo mite e benigno e la terra ubertosa resero la Sicilia da' tempi più antichi uno de' più belli e più ricchi paesi del mondo. E vi ha frutta di ogni specie, alberi di ogni clima, erbe e fiori odorosi; e crescono il grano, la vite, l'ulivo, il gelso in grande abbondanza, e come nel loro luogo natio.

La Sicilia è la terra del nostro Reame che, quanto alla vegetazione, più si ravvicina alle contrade settentrionali dell'Africa, per la natura del suolo e per la gagliardia del sole; ed ivi cresce, o crescer potrebbe la palma a dattilo, l'arbusto a caffè, il zafferano, la cannella, il cotone, le spezie, tutt'i legni tintori e lo stesso indigo (2).

Animali.

Mammiferi. Cinquantadue specie spettanti a 26 generi costituiscono l'insieme di questa classe, come indigeni al suolo: e tra questi figurano principalmente i Roditori.

Fra i Cheirotteri insettivori, il solo Molossus Cestoni ci liga prossimamente coll'Egitto. L'Orso ed il Camoscio segnano il naturale confine de' più alti Appennini al settentrione, ove pure la Lince (Lupo Cerviero) serve di segnale della estinta fierezza delle belve africane, la quale però è ormai divenuta si rara, che a bistento se ne caccia un individuo, e ad intervalli lunghissimi. E si pure delle belve marine la Foca monaco, e la vitellina appariscono a quando a quando sulle coste del regno provenienti dall'Arcipelago; la Talpa cieca sta in luogo della europea, ed è abbondantissima. il genere Sorex figura con 4 specie, tra le quali si trova il pigmeo de' mammiferi, il Sorex etruscus. de' Roditori l'Istrice si estende su tutto il regno. Conta tre specie il genere Myoxus, ed altrettanti l' Arvicola. Tutti cotesti animali si tengono come nocivi alla domestica ed alla rurale economia, ma uno tra essi (il Ghiro o Myoxus glis) è un gratissimo pasto ai montagnardi, ed anche alla gente agiata di que' luoghi in cui abbonda. La Lepre, la Volpe, il Tasso e la Lontra costituiscono oggetto di commercio per la loro pelle e per la loro carne: e gli Abruzzi traggono annualmente dalla capitale intorno a ducati 3000 dalle sole pelli di Lepre e di Volpe.

Sulle alte montagne degli Abruzzi, come su quelle della Calabria, s'incontra non troppo raro lo Scojattolo nero. La Mustela boccamela, che nella Fauna Italiana figura come esclusiva della Sardegna, trovasi eziandio nel regno di Napoli, benchè perora si mostri rarissime.

I Cetacei, che per esser pelagici non possono rigorosamente far parte di alcuna Fauna locale, non mancano di apparire a quando a quando sulle nostre coste, e per lo più vi restano vittima; per lo più è il Physeter macrocephalus che suole apparire. Terra essa è dunque la nostra in cui non ospita il selvaggiume orientale, non la equatoriale gajezza ed abbondanza,

(1) Queste poche notizie intorno alla geografia botanica del Reame di Napoli noi te abbiamo tolte da una nota del cav. Tenore, pubblicata nella 1* edizione napolitana del Balbi.

(2) Le piante generalmente coltivate nel Regno sono le cereali, il frumento, il formentone, l'orzo, l'avena etc. ; tranne il riso, le leguminose di ogni sorta, tanto civaie, quanto erbe da prato, e l'ulivo, la vite, e il gelso. Alcune piante, come gli agrumi, vegetano soltanto nette regioni meridionali e più calde; altre, come il mandorlo ed il carrubbo, riescono e fruttano meglio in Puglia che altrove, per le condizioni del suolo più favorevoli a quelli.

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né quelle straordinarie forme di viventi, per le quali si distinguono le terre polari. Mensa più lieta offre al contrario a pochi e timidi animaletti.

Uccelli. Questa classe stringe intimamente le relazioni di Europa con l'Asia e con l'Affrica. Non v'è quasi spezie d'uccello

che sia propria ed esclusiva del regno: e forse qui non perviene taluna spezie delle regioni settentrionali di Europa, che si limita alla superiore Italia soltanto. Òàl'

è p. es. l' Accentor alpinus, il Lestrisparasiticus epomarinus, il Mormon arcticas, il Paruspendulinus, la Plectrophanes lapponica e nivalis, ecc. La Tichodroma mumaria è r

àrà ed eventuale nelle regioni pi

ù calde, né molto frequente sulle maggiori altezze degli Appennini. La Bombgcilla garrula apparisce rarissime fiate sul promontorio Gargano. Più altri uccelli avventizi e rari conta la Fauna ornitologica del regno. La dolcezza del clima à permesso che come il Faggiano colchico, il dorato eziandio riprodotto si fosse; e, tra le picciole spezie, il Cardinale e la Vedova.

Quelli che costituiscono un ramo importante d'industria, oltre i gallinacci, sono la Quaglia, la Beccaccia, il Tordo, il Beccafico. I Palmipedi vi tengono un posto secondario, comechè limitati ai laghi, ove la cacciagione non è libera del tutto; e proporzionati essi sono nel numero alla estensione degli stessi laghi.

Delle grandi spezie rapaci, il solo Avoltoio cenerino trovasi di rado sulle montagne più alte di Terra di Lavoro; ed è da presumersi essere colà nidificante o stabile. L'Aquila reale è pur rar

à; e tra notturni la Strige Uralense tiene suo nido sul Taburno. In tutto, questa estrema parte della penisola conta 270 specie tra stazionarie e di passo. Della industria della caccia pochi son quelli che vivono; né molli coloro che possono godere del diletto di questo piacere innocente, ancor che sentisse dell'indole selvaggia.

Rettili. Pochissime sono le spezie di questa classe, e non doviziose di individui. Le Tartarughe sono scarse; e delle spezie terrestri possediamo la greca, delle lacustri la Marin, e delle marine la rarella, la quale frequenta le isole Palmean ed il Faro di Messina. Rara e avventizia ai nostri mari è poi la Dermochelgs coriacea. La Salamandra comune e la S. dell' Imperoto Cos. ( perspicillata Savi) abbondano in certi luoghi montuosi e presso i ruscelli. Il genere Scinco resta confinato nella Sicilia, ove si trova il solo occellato; ed in vece frequente è tra noi, specialmente nella parte più meridionale, il Gecco o Platidattilo delle muraglie e l' Emidattilo tubercolato. Tra gli Ofidiani, la Natrix torquata ed il Coluber atrovirens, ed il viridiflavus sono le specie più abbondanti; ai quali succede l 'Aligodon Austriacus, che sotto nome di Guardapasso è sommamente temuto come venefico. È però fantastica apprensione volgare l'esistenza del Guardapasso, né sempre tal nome si applica alla stessa specie: siccome è opera de' ciurmatori l' Aspide sardo, non essendo altra cosa che l'innocentissimo Anguis fragilis. La Natrix elaphis, o Coluber quadrilineatus, che sotto nome di Cervone è conosciuto appo noi, è la specie gigantesca fra nostrali ofidiani; siccome la Salamandra Imperati è il minimo tra gli Anfibi. La Vipera comune con 3 sue varietà non è si frequente come si fa sospettare, per essere stata generalmente confusa colla Natrice, conosciuta dal nostro volgo col nome di Vipera di acqua. Nella famiglia de' Lucertini la più comune specie è la Lucertola delle muraglie, che falsamente trovasi registrata da qualche patrio scrittore per l' agilis, la quale non è affatto tra noi.

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La L. verde o Ramarro è molto meno ovvia. Le Rane ed i Rospi, senza essere ridondanti, abbondano dappertutto.

Ðåsci. Siccome la parte continentale della penisola italiana porge più acconcio asilo ai volanti, e per abbondanza di pascolo e per dolcezza di clima; cosi i golfi, le baje ed i seni del mare che la bagnano sono opportuni ai notanti perché tranquilla compian le nozze, ed assicurino la loro progenie. Per la qual cosa le specie oceaniche, penetrando nel Mediterraneo al cader dello inverno, ed associandosi a quelli de' suoi naturali abitanti, che nell'ampio seno e nelle coste più meridionali! passan la fredda stagione, si appressano a queste nostre più placide e più temperate per visarne in autunno. Da ciò deriva, che oltre le razze stabili, proprie del Mediterraneo, moltissime specie vi entrano, che dir si possono a' due mari comuni. I Selacini e gli Scomberoidei occupano il primo posto tra questi, e costituiscono un ramo importante d'industria per gli abitanti delle coste del regno; principalmente di quelli posti sulle rive del Canale di Scilla e di Cariddi, per dove passano a stagioni determinate. Quivi spezialmente la pesca dello Spadone o Pesce-Spada è un articolo di commercio specioso per l'una e l'ultra parte del regno. Il Tonno, lo Scombero, l'Alalonga ed altre specie di Scomberoidei vanno compresi in questa categoria.

Da ciò pur risulta l'apparizione di qualche rara specie non propria de' nostri mari, come il Trachyctys, di cui si pretende fare una specie distinta da quella discoperta nella Nuova Olanda (1).

In generale però le spezie che popolano le acque del nostro Mediterraneo sono di picciola mole, e vi predominano gli Sparoidei, i Labroidei, i Blenni, le Sogliole e i Rombi, siccome le Razze, le Tremole o Torpedini, le piccole specie degli Squalidei. Da ultimo il Branchiostoma lubricum segna l'anello estremo de' vertebrati.

Le acque dolci de' laghi e de' fiumi son popolate da' Ciprinoidei, e spezialmente da' piccioli Leucischi, oltre le Tinche ed i Barbi. Solo il Fibreno nutrica una specie singolare ed esclusiva, il Salmo Carpio Lin. Le Lebie, che vivono nelle acque dolci, sembrano pure razze proprie all'Italia, quando ciò non derivasse dal non essersi ancora bene esplorati i laghi delle altre regioni di Europa.

Possiamo guarentire che le specie ben determinate, che si trovano net nostro Mediterraneo, sono al numero di 225. Altre più rare ed eventuali se ne discuopriranno eziandio.

La pesca è un ramo d'industria troppo importante pel regno di Napoli, Noi non possediamo tutti gli elementi bastevoli a darne giusto ragguaglio. Possiamo però offrirne un esempio per rapporto alla capitale. In questa entrano annualmente 12000 cantaja di pesci, di cui la metà proviene dal Golfo di Salerno, e marina contigua; l'altra metà è prodotto delle pescagioni che si fanno nel golfo di Gaeta, isole Palmean, Ischia, Capri, ecc. Ne' giorni di maggiore abbondanza entrano in Napoli 80 cantaja di pesce. Questa cifra divisa per 50,000 abitanti ad un bel circa, dà una mezza oncia per individuo; e, riducendo a sole 4 once ogni porzione, una sola ottava parte del popolo potrebbe mangiarne.

Anellidi. Questa classe di piccioli viventi è ridondante nel nostro Mediterraneo, senza porgere alcun articolo d'industria; salvo quel poco che alla pescagione stessa appartiene, servendo molti fra essi di esca per gli ami de' pescatori. La sola mignatta forma una ri levante eccezione, essendo

(1) Veggasi nella Fauna del Regno di Napoli la monografia di questo genere.

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divenuta in questi ultimi tempi di un uso cotanto generale, che al consumo non bastano quante i nostri laghi ne producono, essendo pur feracissimi.

Infino al 1820 la mignatta è stata conservata entro piccioli boccali di vetro, nella capitale. Ora stanno in vece in grandi tine presso ogni Flebotomo: e le ricerche de' Chimici, de' Cerusici e de' Flebotomisti sono rivolte a cercar modo di prolungarne la vita, e reiterarne l'applicazione Vale a dire, che non si ànno più mezzi bastevoli a succiare il dolce sangue dell'uomo!

Animali articolati. Questa numerosissima branca di viventi trova nel nostro clima sì comodo asilo, che pochi sono quei generi che non ànno il loro rappresentante,

À cominciar da Crostacei, di 338 generi noi ne possediamo 94, tra quali molti comuni coll'Oceano britannico, come i generi Caprella, i Picnogonidi, ecc.; ed altri molli col Mar Rosso. Il popolo ritrae da questa classe di animali qualche alimento, mangiandone buon numero di specie. Tali sono la Maja squinedo, l'Astacus èøïèø, È Palaemon squilla con tutte le specie congeneri, la Squilla mantis åc. åc. åà' anche il Portunus corrugatus, Rondeletii, il marmoreus, e l' holsatus, i quali, lessi e conditi con pepe o peperone, servono di esca ai bevitori di vino. Non danno però alcuna risorsa né al pescatore né ai venditori, per lo più donnicciuole; ricavando appena il vitto di quei pochi giorni che far ne possono smercio. Sogliono svegliar coliche mangiandosi in tempi estivi, e quando portan le uova; ma non perciò sono da imputarsi di veneficio.

Il Palinurus Locusta è ricercato da tutti e sta nella mensa degli apici piuttosto che in quella della gente agiata. Per la contrario l' Aslacus marinus è quasi rifiutato da' primi, e mangiasi dalla infima classe.

Dalle isole Palmeari viene la maggior copia di locuste o ragoste nella capitale. Ivi costano non più di gr. 10 al rotolo, se il loro peso non eccede una libbra; meno se più pesano. Nella capitale le prime si pagano da 30 a 60 grani; le seconde venti, quando sono ancor vive.

Anche taluno sembra finora esclusivo delle nostre acque: tal'è il genere Latreillia, il Fanodemo e lo Scinà, discoperto nel Faro di Messina. La Thelfusa fluviatilis rimpiazza il Cancer terricola dell'America. Il Nephrops norvegicus è raro nel Mediterraneo, e frequente nell'Adriatico.

Gli Aracnidi oltre modo ridondano in generi cosi come in ispecie; gli individui essendo ancor numerosissimi. Per questo lato noi ci troviamo in stretti rapporti con le regioni più settentrionali di Europa ugualmente che con le meridionali, ed anche con le isole Canarie. In questa classe vantava il regno di Napoli una spezialità singolare, il

Tarantolismo. malattia cagionata dal Falangio di Puglia (1).

Gl' Insetti non son numerosi cotanto per quanto la bontà del clima farebbe credere; e ci6 pruova che là dove la mano dell'uomo si moltiplica, gli entomati divengono più rari, seguendo il loro numero la in

versa ragione della coltura de' campi. Per la qual cosa noi troviamo solo gran copia di questi commensali della natura nelle foreste e ne' boschi delle maggiori montagne, come la Majella, la Meta, l'Aspromonte, le Sue, il Pollino åcc. In tutto la nostra

Fauna ne conta finora circa 4000 specie.

(1) Cosi impropriamente delta una specie del genere

Licota, il cui specifico nome di

Tarantola ricorderà mai sempre la presunta malattia che in Taranto credevasi aver sede primaria. Noi non crediamo esser questo il luogo da rivenire su tale argumento, dopo averlo abbastanza altrove trattato. (V. Annuario Zoologico per 1' anno 1S34}, poiché in grazia de' lumi che le scienze naturali han diffusi, e della civiltà progressiva, il prestigio del tarantolismo

va perdendo vigore, e la scaltrezza muliebre non trova in esso rifugio, quando pur ne abbisognasse.

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Le predominanti famiglie sono i Lamellicorni Malacodermi e Crisomelini fra'coleotteri, le Tignuole fra' lepidotteri, i Mimefeonídei tra neurotteri, gli Scatatari fra gl'imenotteri, di cui alcune specie ligano questa estrema parte meridionale d'Italia con la Spagna.

Le Api ed i Bachi da seta prosperano immensamente sotto il cielo napolitano: e se non vanno esenti da morbi lor proprj, o se da infortuni vengono talvolta colpiti, dalla ignoranza più che dal clima cotesti mali provengono. Ed in quanto al baco da seta, quantunque mentite le pruove colle quali si è preteso mostrare che viver possa prosperamente a cielo scoperto, non è strano pertanto che alcuno giunga a compier le ultime sue metamorfosi sull'albero stesso del moro: ne abbiamo già molti esempj.

Queste due specie d'insetti costituiscono un ramo d'industria specioso nel regno. E se la educazione delle api fosse sí bene intesa in ogni altra parte, come nella Terra d'Otranto, il mele e la cera potrebbero superare il consumo, mentre ora non bastano. Pure nelle Puglie l'industria degli alveari sosteneva, in età non molto remote, l'agiatezza di non poche famiglie; né oggi mancan di quelle che sanno trarne vantaggioso partito.

La Cantaride vera (Lgtta vesicatoria) abbonda nelle due Sicilie, specialmente ne' luoghi montuosi della Calabria, degli Abruzzi e nel Gargano.

Essa sembra l'abitatrice del frassino e dell'ulivo. Il commercio di questo insetto non è trascurabile; e forse la negligenza di raccorlo ne rende il prezzo smodato, e lusinga le sofisticazioni de' poco fedeli Farmacisti.

La Mylabris fasciata la sostituisce sovente, ed è conosciuta da tempi remotissimi col nome volgare di Cantaride nostrale.

Come infesti all'agricoltura conviene segnalare l' Anomala Fritsehi et vitis, le quali insieme oltraggiano l'ulivo e la vite nelle più meridionali province del regno. E si pure la Cetonia stictica e la hirtellus, che reudonsi la peste de' nostri giardini.

Le Locuste e gli Acridi si moltiplicano immensamente. Questi ultimi fan sollevare sovente le querele dell'agricoltore. Le specie più infeste sono l' Acridio italiano ed il cruciato. Contiamo ancora una specie che liga la nostra Fauna con quella della Siberia, l' Acridium sibiricum Lin; siccome altri ci accostano all'Egitto per analogie troppo strette (1).

Nell'ordine de' Lepidotteri, oltre la comunissima eruca della Penzia del cavolo e delle rape, la Plusia gamma suol essere dannosissima ai campi, devastando i canapeti; né risparmia l'amarissima Nicoziana là dove questa pianta coltivasi, come nella Terra d'Otranto.

Nell'ordine de' Ditteri massimo danno arreca il Dacus olcae o Mosca a dardo, dalla quale viene sminuito e guasto l'olio, su cui poggia immensamente la nazionale ricchezza.

Lungo saria il catalogo di tutti gli entomati che ingiustamente od a ragione si tengono come nocivi all'agricoltura; ma noi opiniamo che tali non sieno da reputarsi in generale, né direttamente dipender da essi i danni che ne provengono, e che finalmente sono sforzi vani quei che si fanno per distruggerli o sminuirli. Non è però questo il luogo da sviluppare

(1) Qui emendar vogliamo la falsa credenza, che l'Acridio ( Bruco del illustro volgo}, il quale desola a quando a quando le campagne del regno, sia il M igratore (Gr. emigratorias Lin.), e che provenga dall'Aftrica. Noi abbiamo dimostrato nella monografia di questo genero, pubblicata per uso delle Commessioni de' bruchi e de' proprietari de' campi(Napoli 1833', esser questo un errore; e che le specie di tal fatta sono indigene al regno.

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siffatte tesi, le quali si trovano già trattate ampiamente con apposito lavoro.

Molluschi. Discorrendo de' Molluschi noi l i classificheremo nel modo che segue:

1° Cefalopedi. Alle razze già scomparse dai mari attuali, ed a quelle che più non abitano il Mediterraneo, sono subentrate le comuni specie di Polipi, Seppie, Calamari, e l' Argonauta papiraceo. I generi e le specie comuni sono doviziose d'individui, spezialmente nell'Adriatico.

2° Eteropedi. La Carinaria del Mediterraneo è nelle nostre acque in tatuni anni frequente, in altri sparisce quasi del tutto o divien rara.

3° Pteropedi. L'Atlante Peroni o Cheraudrenii è un genere comune coi mari delle Autille. ma sembra per ora assai raro. Rare son pure le Cresie. Le Jalex sono frequenti in preferenza nel Faro di Messina.

4° Gasteropodi. Contiamo settantaquattro generi di quest'ordine ditestacei, e tutti abbondanti di spezie e di individui. Tutte le grandi specie sono mangiabili, e vi sono de' luoghi in cui costituiscono un ramo d'industria. La Porpora però che si famosa era in Taranto (1) pel colore prezioso dal quale trae il suo nome, non è rappresentata che da una specie soltanto, dalla P. emastoma, rarissima in questa parte del Mediterraneo, ed alquanto frequente in quella che bagna la Sicilia insulare. In quanto alle altre specie congeneri è da consultarsi la loro monografia nelle opere venute in luce sopra questo subbietto.

5° Acefali. Delle molte spezie comuni al Mediterraneo, e speciali a qualche suo sito, noi rammenteremo il Mytitus e l' Ostrea edulis. Il primo forma un ramo specioso d'industria de' Tarantini, come sulí Oceano all'

ßà vre de Grace, ed assai più nell'Adriatico a Trieste e a Venezia. L'Ostrica del pari che nel piccolo mare di Taranto si moltiplica nel lago del Fusaro. Paragonando queste due specie con quelle delle quali troviamo gli avanzi nelle terre abbandonate dalle stesse acque, notano i malacologisti tali differenze da far credere che sieno due specie distinte. A noi pare che, non essendovi altro carattere distintivo, eccetto le maggiori dimensioni in quelle che si trovan sepolte, ciò addimostri la condizione diversa in che si trovava il Mediterraneo prima di restringersi all'aja attuale. E la prova noi ricaviamo da ciò precipuamente, che le stesse differenze di proporzione più altre specie se non tutte ne porgono. La qual cosa, dopo averla fatta rilevare al chiarissimo Laylle, l'à egli verificata in più altri rincontri, ed ora vien contestata da tutti coloro che vi porgono speciale attenzione. La Panopea cosi doviziosa altra volta, per quanto ne attestano gli avanzi suoi in Taranto ed in San Felice (2), è sparita dalle nostre acque, e solo alberga presso le coste meridionali della Sicilia.

Fra le Mitilacee, la Perna è scomparsa all'intutto: di essa si trovano non rari avanzi presso Reggio e nelle montagne della Stella.

Il genere Terebratula à perduto almeno 4 specie che prima vivevano; delle quali però rimangono i germi, se cosi ci è permesso spiegarci, ossia si trovano ammiserite per modo che appajon diverse.

In generale, facendo un confronto colle specie del Mar Rosso, noi troviamo

(1) La Porpora Tarentina vien rammentata nella storia di quella città, ove detta fabbrica di questo colore, e de' suoi laboratori avanzano ancora i vestigi, perduta essendosi 1' arte del tutto.

(2) Sono resi celebri due monticelli posti a picciola distanza da questo villaggio del Contado di Molise, per l'abbondanza delle Panopee fossili, le cui conchiglie avendo simiglianza ai genitali feminei, ed il Sifone del mollusco petrificato a quelli dell'uomo, andato ai monticelli suddetti l'aggettivo derivato da quelli.

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i più stretti rapporti fra quello ed i nostri mari: al che basta confrontare la nostra Malacologia con la opera splendidissima del Savigny per averne un documento.

Taranto fa un commercio attivo delle spoglie di questi animali. E di collezioni scientifiche, fin da remoti tempi, è stato il primo paese che ne à dato l'esempio: e nel 1780 meritò l'attenzione del suo Arcivescovo, il quale presentando la Imperatrice delle Russie di una di tali collezioni, l'accompagnò con la loro spiegazione.

In quanto ai molluschi terrestri e fluviatili, le nostre maremme sono ricoperte dell' Helix pisaïa o rodostoma, le cui varietà sono moltissime. L' Helix Naticoides abbonda nelle province più meridionali, ove si mangia avidamente da ogni classe. L'Helix adspersa abbonda nelle regioni più montuose ed umide, siccome in quelle di Terra di Lavoro. La Sicilia ne rende anche di più, talchè in Napoli è conosciuta col nome vernacolo di Maruzza Trapanese, perciò appunto che da Trapani ne provengono annualmente intorno a 80 cantaja, che si consumano dal popolo durante la quadragesima. Laonde costituisce un oggetto di commercio siffatto, che annualmente si spendono nella sola capitale 7300 ducati.

La Verticillus si limita alle regioni del Gargano, ove si mangia da' terrazzani.

Vermi. L'uomo ed i bruti sono appo noi attaccati da' medesimi parassiti che in ogni altra parte di Europa: e se per lo innanzi si è detto che talune spezie non esistono in Italia, questa asserzione viene smentita a misura che si va ponendo mente a questa classe di viventi, negletta per lo innanzi quasi da tutti. Non è però qui il luogo di scendere ai particolari spettanti a queste genie; né pare utile allo scopo di questo articolo il far menzione delle specie.

Zoofiti. I nostri mari ridondano di questi esseri per modo, che nel numero delle specie note, il Mediterraneo vi entra per una quarta parte. Negli Echini, nelle Asterie e nelle Oloturie, se manca di talune specie, le rimpiazza per altre sue proprie. La industria pescareccia si limita solo all'Echino commestibile ( Angina o Riccio di mare), i rimanenti eostituendo soltanto l'oggetto di scientifiche ricerche. I Medusari di ogni genere sono frequenti. de' polipia polipario flessibile siam si doviziosi, precipuamente là ove il fondo è vulcanico, che contiamo intorno a 134 specie delle 600 noverate finora. Delle sole Madrepore esso è scarsissimo, non possedendo che 5 specie soltanto, e tutte minori. Il Corallo vi si trova e nel golfo di Taranto ed in questo di Napoli. Esso è di squisita bontà per uguaglianza di tessuto, e per vivacità di colore; ma è sempre gracile, né molto abbondevole. Questo zoofito pertanto costituisce un ramo importantissimo di commercio pel regno: la sua pescagione rappresenta la somma di duc. 789, 000 per anno, sulla quale 350, 000 sono di puro guadagno.

In risultato generale, fatto il confronto tra le condizioni del regno di Napoli coll'Europa intera, può ritenersi che questo estremo punto italiano, in quanto a zoologia, sia da considerarsi come un punto raggiante, nel quale convengono i germi della maggior parte delle razze viventi; e che, diffusi essi sopra tutti i raggi, vanno di più in più sviluppandosi, pochi restandone ancor circoscritti nel limite angustissimo in cui si ritrovano(1).

(1) Questi cenni intorno alla statistica zoologica del Regno sono stati scritti dal chiarissimo professore O. G. Costa.

PARTE SECONDA

CONDIZIONI STORICHE

I primi abitatori di questa parte d'Italia, che oggi forma il nostro Reame, risalgono a tempi antichissimi, e le lontane origini sono quasi del tutto perdute, o ricordate confusamente tra' menzogneri racconti della favola. Qui vuolsi che fosse la terra Saturnia, qui l'Ausonia, qui la bella Esperia de' Greci. Noi non vogliamo, né possiamo in questo luogo discendere in minute e difficili ricerche; ma seguendo il cammino meno incerto, e ravvicinando le opinioni meno discordi, le tradizioni meno contrastate, noi diciamo, che i popoli nostri primitivi furono i Tirreni, i quali vennero di Asia, dalle ultime falde del Monte Tauro, e dando il nome di Tirreno al loro mare ulteriore, si distesero sopra tutta la penisola italiana, ed ebbero il nome di Taurisci inverso settentrione, di Etrusci al centro, e di Osci a mezzogiorno.

I Tirreni furono seguiti dagl'Iberici, de' quali altri si posarono tra noi, ed altri emigrarono più lontano lino alle bocche del Rodano ed alla penisola, cui essi diedero il nome d'Iberia. E quei rimasi tra noi si scompartirono sopra tutta la Italia, prendendo il nome di Liguri nella parte settentrionale, di Vituli o Itali al centro, e di Siculi o Sicani, nella parte più meridionale, e nell'isola detta allora Sicania, dove si frapposero ai Ciclopi e forse ai Fenici.

Seguirono gli Umbri, i quali, secondo che pare, furono una diramazione celtica, che per la via delle Alpi era discesa infino a noi. E i Tirreni e gl'Iberici e gli Umbri furono le nostre immigrazioni primarie, succedute probabilmente secondo l'ordine che noi abbiamo seguito, e in un periodo di tempo che può circoscriversi dall'anno 2600 all'anno 1600 avanti l'era volgare.

Queste emigrazioni erano quelle che alcuni storici ricordano come le primavere sacre, onde le crescenti tribù di Asia lasciavano le loro sedi primitive, le loro native contrade, e cercavano un asilo in mezzo a nuove terre e sotto altro cielo. Cosi di una sola famiglia, che discese dalle montagne di Armenia, si formarono tutte le altre, e fu popolata tutta la terra poco a poco per vie diverse e in tempi diversi.

Seguirono i Pelasgi, popoli probabilmente di Egitto o di Fenicia, i quali passarono nella Grecia, dove si frapposero ai Jonj primitivi, e di là in Italia, invadendo per diverse vie quasi tutta la penisola. E la prima invasione venne intorno al 1600, avanti l'era volgare, quando i Pelasgi, discesi in mezzo ai Peucezj, salirono fra le altre genti sicule, itale, osche e tusche in sino a Rieti.

E la seconda ne' due o tre secoli che seguirono, quando i Pelasgi, discesi alla bocca meridionale del Po, parte rimasero quivi intorno, e furono poi appresso distrutti; e parte penetrarono fra gli Umbri, gl'Itali e i Tusei, distendendosi sino a Rieti, dove raggiunsero i loro consanguinei.

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Sicchè Rieti fu come il centro della potenza pelasgica; e di là si diramarono più lontano, occupando e fortificando città e castella; e quivi veggonsi ancora, come pure in altre parti d'Italia, le rovine delle loro mura militari, simili alle pelasgiche di Grecia, e similmente a quelle costruite e denominate (Argos, Acras, Arx).

Ma contro i Pelasgi si levarono i popoli primitivi della nostra penisola, da' quali furono ricacciati nel mare, e costretti a cercare altrove un ricovero. E contro di essi si armarono forse anche i Greci, che vennero appresso a fondare le loro colonie qui tra noi, le quali giunsero a grande ricchezza e potenza.

Di quei popoli antichissimi che abbiamo ricordati, di Asia venuti in Europa, erranti e dispersi, noi non sappiamo tutto il cammino, né possiamo determinare precisamente quando e come siensi formati in tribù. Ma noi possiamo dire non pertanto, che quando i Greci ed i Fenici, navigando i nostri mari per cagione del loro commercio, vennero a visitare queste contrade che noi abitiamo, vi trovarono i Piceni, i Vestini, i Sabini, i Peligni, i Marrucini, i Frentani, i Marsi, gli Equi, i Sanniti, i Volsci, gli Ausoni, i Sidicini, i Campani, i Picentini, gl'Irpini, i Lucani, i Bruzi, e i Japigi, nella parte continentale, e i SicuIl e i Sicani nell'isola di Sicilia.

I quali erano popoli quasi feroci, intolleranti di fatiga, scarsamente occupati di agricoltura e di pastorizia. E forse non aveano attro ricovero che capanne semplicissime, né attra veste che un sacco di pelle; parlavano un linguaggio osco, e non avevano alcuna scrittura.

Vivendo in mezzo a queste terre vulcaniche, concepivano la divinità come vendicativa e crudele, e immaginavano che fossero armi de' loro numi, i tremuoti, le guerre, le pesti, i fulmini; ed aveano costume d'interrogarli ne' boschi e nelle profonde caverne; e quasi furibondi rivelavano i tremendi oracoli in mezzo all'ebbrezza, ch'essi riguardavano come dono del cielo.

Gli Etruschi primeggiavano sopra tutt'i popoli della penisola. Noi non sappiamo con certezza in qual tempo essi venissero nella Campania; ma vennero certamente, chè motti riti e costumi nostri erano etruschi.

E in queste nostre contrade, in mezzo a questi popoli antichissimi, vennero, in processo di tempo, gli Elleni. Vennero forse sospinti dalle crescenti e più barbare tribù del nord della Grecia; forse col disegno di ricacciare di qui gli odiati Pelasgi; ma più probabilmente per distendere la loro navigazione ed il commercio. Ed ebbero il nome di Greci, che vuolsi significasse antichi, e si posarono dapprima sulle sorridenti nostre regioni marittime; ma poco a poco, allettati dalla fertilità del suolo, dalla serenità del nostro cielo, vi si stabilirono più fermamente, e in diversi tempi formarono le loro colonie, che divennero ricche e potentissime. Né il fecero senza incontrare di gravi ostacoli; chè quei primi nostri abitatori, incolti e selvaggi, chiudevano loro ogni via interiore, né si sottoposero se non combattuti e vinti.

E quei coloni di Grecia, che prima erano rozzi anch'essi, siccome barbara era ancora la Grecia ch'essi aveano abbandonata, qui tra noi si contemperarono facilmente, e fecero rapidi avanzamenti, e pervennero a grandi ricchezze, favoriti dal commercio che mantenevano con tutte le contrade dell'Oriente, e dalle amichevoli relazioni in che poco a poco si strinsero cogli altri popoli d'Italia.

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E fu un profondo disegno de' Greci quello di formarsi una vasta rete di colonie, e fondarle in contrade fertili, ed importanti per la loro situazione, e dove poteano godere benefiche influenze. Sicché quei punti, che parea fossero gli ultimi termini del mondo de' Greci, divennero poi centri di altri più lontani.

Ma innanzi di discorrere le vicende politiche di quei popoli primitivi, e degli altri che seguirono ad essi, facciamo di determinare la topografia delle regioni da loro abitate, incominciando dalla parte più settentrionale.

Il Piceno

Erano vetuste possessioni de' Siculi e de' Liburni gli Agri Palmense, Pretuziano ed Adriano, che dopo lunghe stagioni caddero sotto il dominio prima degli Umbri, poi degli Etrusci, e infine de' Romani, formando parte del Piceno, ora Marca d'Ancona. I loro confini erano l'Adriatico ad oriente, il paese de' Vestini a mezzogiorno, de' Sabini ad occidente, e de' Piceni a settentrione.

L'Appennino si eleva alto sulla parte occidentale, e molte ed intrigate diramazioni discendono da esso, alcune delle quali vanno poco a poco abbassandosi in vasti piani inclinati, e in ricche valiate, dove sono i più fertili e vaghi terreni della contrada.

E ciascuna di quelle piccole regioni era distinta dall'altra per naturali confini. Il Palmense (circondario di Noreto) era ristretto tra la destra sponda del Truento o Tronto, che dividevano dal Piceno, e tra la sinistra dell' Elvino, ora Ubrata, e tra' monti ed il mare.

E qui era notabile la città di Truento (Truentum), posta sulla riva sinistra del fiume, dal quale prendeva il nome, fabbricata da' Liburni, e celebrata per le sue tinture di porpora. Di quella città ora non veggonsi che pochi avanzi sparsi qua e là, e si ravvisa ancora il pomerio ed il fossato di antiche abitazioni.

Il Pretuziano o l' Agro Pretuzio (circondari di Giulia, Notaresco, Teramo, Montorio, Campli e Civita del Tronto) era tra l'Elvino ed il Vomano, e tra l'Appennino e l'Adriatico. I suoi fertili e ricchi campi erano bagnati dal Salino (Salinum flumen), dal fiume Albula (oggi Vezzola, affluente del Tordino), che vuolsi avesse preso quel nome dalle sue acque bianche come di latte, e dal Batino (Batinum flumen), oggi denominato Tordino.

La città più notevole era Interamnia (Teramo), posta nel seno di una valle circondata dagli Appennini, là dove riuniscono le loro acque l'Albula e il Batino. Fu probabilmente fondata dagli Umbri, e si elevò come metropoli sopra tutto l'Agro Pretuzio. Fu grande, florida e popolosa città, come può giudicarsi dall'ampiezza delle sue mura; e aveva nobili edificj e templi ricchi di musaici, colonne, marmi e porfidi lavorati. Tra tutti gli altri templi rammentasi quello di Bacco, il quale piIl che ogni altro richiamava il culto degl'Interamniti, come quelli che commerciavano soprattutto di vino, e che un agro occupavano formato nella maggior parte da colline apriche, molto atte alla vegetazione delle viti.

Due miglia discosto dalla città, in un'amena campagna, gl'Interamniti innalzarono un tempio alla Dea Feronia; la quale, denominata da' Greci co' nomi di Antephoros e Persephone, era la Dea Proserpina, adorata anche nell'Etruria, nella Sabina e nel Lazio.

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Altra città de' Pretuzii era quella denominata Castro nuovo (Castrum novum), edificata sulla Via Salaria, poche miglia lontana dalla città di Truento, e presso alla foce del Tordino; ed era grande città, e non mancava di Terme. Rovinò a poco a poco, e, tre miglia lontano da quelle rovine, Giulio Antonio Acquaviva Ducadi Atri, nel secolo XV, edificò GiuliaNova.

E ricordata del pari è la città di Beregra, di qua dal corso del Salino, della quale è incerta la situazione e il tempo in cui fu distrutta.

E di altre città era ricca la regione de' Pretuzii, siccome dimostrano le rovine de' loro monumenti, i sepolcri e le medaglie; ed aveva vie importanti, siccome la Via Salaria, che con Roma e i Sabini metteva in comunicazione Castro Nuovo e Adria, lungo la spiaggia; e la Via Metella, la quale partendo da Roma, penetrava per la via degli Appennini orientali nella regione de' Pretuzii; e la Via Raussa, che apriva una facile comunicazione tra le città del Piceno, e tra Roma e l'Adriatico. E due emporj ebbero ancora i Pretuziani, uno più grande nelle vicinanze di Castro sulla foce del Batino, e l'altro più piccolo sulla sinistra sponda del Vomano.

L' Agro Adriano (circondarIl di Atri e di Bisento), era tra il Vomano e il Matrino o Piomba, e tra l'Adriatico e l'Appennino, che separavalo a mezzodi e ad occidente da' confinanti Vestini. E tra' PretuzIl e i Vestini elevavasi l'alpestre cima del Gran Sasso o Montecorno, detto dagli antichi Monte Cumaro (Cumarus Mons), coverto nella parte più bassa da praterie e da boschi e da piante alpine, e nudo di ogni vegetazione in tutto il resto, e spezzato in tante parti da vall i profonde, da voragini e rupi selvagge.

Nell'Agro Adriano era notevole la città di Adria o Atria, da cui prese tal nome, posta a mezzodi del Vomano, 15 miglia lontana da Interamnia, ed una delle più antiche città Italiche. Fu fondata probabilmente da' Tirreni, e fu grande e ricca città, e si elevò sopra tutte le altre vicine; e conservò l'antico suo splendore fino ne' tempi dell'Impero.

A poca distanza dalla città di Adria sorgeva il Castello Matrino o Macrino, ch'era il suo emporio, e che poi i Romani chiamarono Castrum Adriae, formandovi una stazione della Fia 5aian°a. Alcuni scrittori, e tra gli altri il Cluverio, posero quel castello alla foce del Piomba, detta Porto di Atri; ed altri, forse con maggior ragione, lo posero sull'opposta sponda di Vomano vecchio, in un sito ora palustre e rincalzato dalle alluvioni.

Regione Vestina

La regione de' Vestini (distretti di Penne e di Aquila) avea per suoi naturali confini, il Vomano e il Piomba dalla parte di settentrione, le rive dell'Aterno o la Pescara dalla parte di mezzodi, l'Adriatico dalla parte di oriente, e ad occidente quella parte della giogaia del Gran Sasso, che dal sito di Cerfennia, città marsica, correva per quelli di Furconio, Aveja, Tcsirina ed Amiterno presso Aquila.

E più precisamente i Vestini occupavano le due rive della Pescara, ma solo nella parte superiore del sua corso, dell'estremità dell'agro di Amiterno (S. Vittorino) insino ai confini de' Peligni e de' Marti, cioè insino all'estremità nordest dell'Agro di Corfinio (Pentima).

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Molto vario è il suolo di questa regione; e vi ha monti, colli, balze e dirupi, opera insieme di cataclismi e di alluvioni, declinanti verso oriente o mezzodi. Sottoposta un tempo all'Adriatico, che da tempo immemorabile si è andato poco a poco discostando dalle pendici appennine, la contrada offre ancora gli avanzi del dominio delle acque marine; e sono conchiglifere le sabbie calcaree e le marne argillose delle sue colline. Ma i vaghi colli e piacevoli, che allettano lo sguardo di vedute pittoresche verso le Marche e l'Adriatico, danno ubertose produzioni agli abitatori. Estesi boschi vegetano alle falde de' monti, e i fiumi Piomba, Fino, Tavo, Rivo Chiaro, Nora e Cigna, che sboccano nel Salino e nella Pescara, irrigano co' numerosi loro influenti e le loro limpide acque quella contrada.

I Vestini trassero probabilmente la loro origine da' Sanniti, e il loro nome dalla Dea Vesta, il cui culto era seguito generalmente in fra quei popoli. Non lasciarono i Vestini gran nome nella storia, si per avere occupato un paese di angusti confini, e si per avere confuso i loro fatti di guerra co' vicini Marsi, Peligni, Marrucini e Frentani, co' quali furono sempre alleati; ma sebbene poco numerosi, ed abitatori di borgate più che di città, furono pieni di coraggio e bellicosi.

Tra le piccole città de' Vestini noteremo Pinna, a cui fu dato l'epiteto di verdeggiante, per la copia de' pascoli e degli ulivi di cui era sparso il suo territorio. A' tempi dell'impero era attraversata da un ramo della Via Salaria, e da un'altra strada tutta marittima, che veniva da Castro nuovo, passando pel Matrino. Quell'antica città era situata dove ora sorge Città di Penne, al pendio dell'Appennino, a mezzodi di Adria; e veggonsi ancora avanzi di antichi edifici, e mura e colonne, e giù per un'amena vallata il sepolcreto de' suoi antichi abitatori.

Altra città vestina era Angola (Angulus), a tre miglia dal mare, sopra un'alta collina, tra Aterno ed Atri; e dal guasto nome di Angelus o Angelum, che leggesi nell'Itinerario di Antonino, e che cominciò ad usarsi net medio evo, derivò il nome odierno di Città S. Angelo; ma la città antica era in luogo diverso da quello che occupa la presente.

Cutina, fondata probabilmente da' Pelasgi, fu città forte, e guardava l» frontiera de' Vestini contro i Marrucini e i Frentani.

Á vuolsi che fosse nel luogo dov'

è oggi Civitella Casanova, a breve distanza da Civita Aquana, ove non mancano ruderi antichi. Ed altra città forte fu Cingilia, che guardava l'agro de' Vestini contro i Peligni e i Marrucini.

Aufina fu la città degli Aufinati, detti da Plinio Cismontani, come quelli che abitavano rispetto a Roma di qua degli Appennini. Questa città fu detta Offene nel medio evo, ed è riconosciuta nella moderna Ofena, presso Capestrano, 17 miglia lontana da Aquila.

Peltuino fu una grande città de' Vestini, abitata da Peltuinati; ed è ignoto quando fosse distrutta o abbandonata. Di essa rimangono molti notevoli avanzi in un piano rilevato, 14 miglia ad oriente di Aquila, tra Prata e Caslelnuovo; e si veggono le mura della città, e ruderi di antichi edifizj, e soprattutto un nobilissimo avanzo di un Circo, tutto incrostato di opera reticolata.

A 7 miglia da Priferno la Tavola Teodosiana pone Ateja, nubile città vestina, la quale da moderni scrittori è stata riconosciuta nelle vicinanze di Fossa, a 5 miglia da Aquila, dove anche oggi si dà il nome di Aveja ad una grande pianura, tra il settentrione e l'oriente di detta terra.

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Ed ivi si osservano non pochi avanzi di antiche fabbriche, di archi, ponti ed acquidotti. Il territorio di quella città fu celebrato come il più fertile di quella contrada.

un'altra città vestina fu Priferno, la quale sorgeva nelle vicinanze di Asnenji, alle radici occidentali del Gran Sasso, 3 miglia lontano da Paganica, nel luogo detto Forno, dove nel secolo scorso osservavasi una fontana di antica costruzione. Ivi presso sono alcune grotte, che servirono di catacombe ai martiri dei primi secoli del Cristianesimo.

Nel ramo della Via Salaria da Interocrea ad Alba incontravasi a 7 miglia da Foruli un altro villaggio vestino col nome di Pitino. Nulla non sappiamo dell'epoca della sua distruzione, ed appena ne sopravanza il nome della Rocchetla di Püino, antica torre, 2 miglia a settentrione di Aquila, sul vertice di un monte presso Coppito, nel cui sito e nel sottoposto piano se n'è riconosciuta la situazione. Nel detto luogo, e propriamente intorno al lago di Vetojo, si veggono reliquie di fabbriche romane, e in una prossima collina gli avanzi di un tempio di figura quasi rotonda, oltre a molti altri ruderi sparsi ivi presso in un'area di grande estensione.

Occupando i Vestini una contrada prossima ai Sabini, ma alquanto lontana dalla Salaria, non partecipavano della comunicazione di questa grande strada che per una via vicinale che se ne diramava. E perciò nella Tavola Peutingerana, la quale ci addita le strade di minor traffico, vedesi tracciata una via maestra che da Foruli, dov'era il punto di divisione di molti rami della Salaria, menava dopo 7 miglia antiche a Püino, e dopo 12 a Priferno. Di là ad Aneja, a Pettuino, ad Aufina, per comunicare co' Pinnen« e gli Angulani.

La Sabina

La Sabina era compresa quasi interamente fra gli Appennini, circondata dall'Umbria, dal Piceno, da' Vestini e da' Marsi, e separata, mercé del Tevere e dell'Aniene, dall'Etruria e dal Lazio. Ma di questo ampio paese, irrigato dalla Mella, dall' Illia e dal Velino, la sola parte bagnata dal Velino era compresa nel 2.° Abruzzo Ulteriore, e precisamente nel Distretto di Città Ducale, e in parte di quello di Aquila, dalle tre sorgenti del Velino nella contrada di Civita Reale sin presso la gola del monte Esta o Lisia, dove rivolge il suo corso verso lo Stato Pontificio.

Il paese della Sabina primitiva fu il luogo dove più ripide e alpestri e quasi inaccessibili si aggruppano le rocce de' primarj Appennini.

E in questa montuosa contrada, dove più lungo e più rigido domina l'inverno, dove i gioghi appennini si levano alla maggiore altezza, pare avessero avuto ricetto i nostri popoli più antichi; e qui ebbero la prima stanza le tribù conosciute sotto la generale appellazione di aborigeni, i quali cederono il luogo ai bellicosi Sabini.

Furono i Sabini una delle più antiche genti d'Italia, per modo che Strabone li reputò autottoni, cioè indigeni o nativi della stessa contrada. Il che non dimostra che la loro antichità remotissima, o l'epoca molto anteriore ai tempi storici del loro stabilimento nel nostro paese.

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I Sabini furono in origine una tribù umbrica, che passò in Italia dalle vicinanze del fiume Sabi, nella Peonia, contrada dell'Illiríco, il quale, scorrendo dal monte Ocra, la parte più bassa delle Alpi a settentrione di Trieste, ora divide la Cerniola dalla Croazia; ed è notabile che tra' Sabini troviamo indicati col nome di Ocre gli aspri monti della regione. Di qui venne il nome ad Interocrea, grossa borgata sabina, e rimane ora tuttavia il nome di Ocre a cinque villaggi della contrada, alle radici del monte Cagna. Nume nazionale de' Sabini fu Sobo o Sabino, nel quale veneravano l'autore della loro stirpe.

Essi non appariscono nella storia che nel territorio di Rieti (Reate), e nelle vicinanze di Amiterno; e di qui passarono i Pelasgi e si confusero con essi, ed ebbero comuni non pochi sacerdozj e deità, e varj contrasegni di origine argiva, come lo scudo argolico, gli augurj di Pico, e i numi di Marte e Giunone.

Gli abitanti della Sabina discesero da' sommi Appennini da tempi remotissimi, e molto prima dell'epoca trojana, ed occuparono la contrada che conserva anche oggi il loro nome. E di là emigrarono le tribù Sabelliche, forse costrette dalle angustie e sterilità del suolo, o dalla inclemenza delle stagioni, e si sparsero sopra varie parti d'Italia. I giovani erano riguardati come figli di Marte, e giunti alla età di venti anni, erano armati e mandati per trovarsi una patria, e portavano con se i loro numi e i loro costumi. Sacri animali guidavano i giovani Sabelli nelle loro emigrazioni. Un pico, uccello sacro di Marte, e che fra' Sabini dava gli oracoli nel tempio di

Tiora, guidò la colonia nel

Piceno; un toro un'altra ne condusse nel paese degli

Opici, che poi divenne il gran popolo sannitico, dal quale ebbero origine i

Lucani; un lupo andò innanzi agl'

Irpini. Per tal modo i Sabini si diffondevano nel Lazio e nelle prossime contrade, e si diramavano in quasi tutto il nostro paese, dalle più alte vette appennine, dove nascono il Velino, il Tronto e l'Aterno, insino allo stretto Siciliano, e passavano ancora nella prossima isola di Sicilia.

I Sabini erano indurati nella fatica, e aveano semplici costumi, e intendevano alla coltura de' campi e all'uso delle armi, e sapevano con la stessa mano guidare l'aratro e brandire la spada. Tra le città più importanti della Sabina, noteremo: Amiterno (Àòèårïèò), una delle più antiche città d'Italia, posta a breve distanza dalla sinistra riva dell'Aterno (Pescara). Fu fondata da' Sabini ed abitata da essi; e di là uscirono ad invadere Lista, capitale degli Aborigeni. Dopo de' Sabini la tennero occupata i Sanniti ed i Romani. Questa cospicua città esisteva ancora ne' primi secoli dell'era volgare; ma nei X secolo non presentava altro che rovine, le quali si osservano presso il villaggio di S. Vittorino, tra le fonti dell'Aterno e la città di Aquila. Ivi si sono rinvenute iscrizioni, bassi rilievi, pezzi di colonne con capitelli corintii, e gli avanzi di un anfiteatro; e passato 5. Vittorino, si veggono anche oggi dodici ordini di fabbriche ciclopiche dette la Murata del Diavolo, che formavano i confini de' Sabini co' Vestini.

Foruli, a breve distanza da Amiterno, era un villaggio innalzato sopra una rupe, rammentato da Strabone col nome di Sassi Foruli, e come un rifugio di ribelli. Virgilio lo pose tra le principali borgate e città antichissime de' Sabini. Sorgeva nel luogo dell'odierna Civita-Tomassa, 3 miglia lontano da Aquila; ed ivi furono trovate iscrizioni sepolcrali e ruderi antichi. Di qui avea principio la Via Claudia Nuova.

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Altra città sabina era Casperia o Casperula, ed era agguerrita ne' tempi antichissimi d'Italia. Il suo luogo pare fosse quello di Crespiola o Crispiola, a breve distanza da Aquila, e dove nel secolo XVI vedevansi rovine di antiche abitazioni.

Nelle vicinanze di Amiterno era Testrina o Cestrina, antichissimo villaggio sabino, dove Catone pose la sede primitiva de' popoli di questa regione. Era nel territorio di Vigliano, castello rovinato del Contado Aquilano, nel luogo detto le Cisterne.

Interocrea fu antichissimo borgo de' Sabini, il quale esiste anche oggi fra alti monti ed asprissimi col nome d' Introdoco o Antrodoco. Credesi che presso Interocrea, nel territorio di Civitareale, fosse stata la villa di Tito; e certamente in quelle vicinanze, lungo la Via Salaria, furono trovati gli avanzi del sepolcro della figliuola di Vespasiano.

Sedici miglia lontano da Interocrea era Falacrine, villaggio sabino, celebre nella storia pe' natali che v'ebbe Vespasiano Imperatore. Era nel la valle presso Civitareale, dove nasce il Velino, e che conserva anche oggi il nome di Valle di Falacrine; e tolse quel nome dalla nudità de' suoi monti.

Vico Badio sorgeva sulla Via Salaria, ed ebbe questo nome dal colore del suo terreno; poiché ad oriente del territorio di Accumoli, dove sorgeva quel villaggio sabino, il terreno per lo spazio di più miglia è di quella specie di marna, che lavorato coll'aratro prende un colore giallastro.

A 10 miglia antiche di distanza dal Vico Badio l'Itinerario di Antonino segna una stazione sulla Via Salaria detta ad centesimum, a cagione della colonna miliare che segnava in quel sito la distanza di 100 miglia da Roma.

Ed altra stazione sulla Via Salaria era quella detta ad Aquas, nel luogo che oggi dicesi di Acqua santa, dove era la sorgente di alcune acque salutari.

Tiora fu città sabina, o piuttosto degli Aborigeni ne' più remoti tempi d'Italia, quindi conquistata da' Sabini. Quella città antichissima fu detta Matiena o Matiora, e, distrutta da lungo tempo, conserva il suo nome nell'odierno villaggio di Tora. Le sue mura erano costruite di piccoli ma bene commessi poligoni; e la città era circondata da montagne, tra le quali si erge maestoso il Velino.

Questa città fu celebre per un antichissimo Oracolo di Marte, quasi nelle stesse forme di quello di Dodona; se non che in questa città da una sacra quercia rispondeva fatidica una colomba, mentre che fra gli Aborigeni dava i responsi sopra una colonna di legno un uccello col nome di Pico. E a dugento passi dall'Oracolo di Marte, presso alle rovine di Tiora, vedesi ancora un Jerone, o Tempio dedicato allo stesso nume, le cui antiche mura poligonali servirono di fondamenti a un tempio cristiano detto di 5. Anatolia.

Alla distanza di 24 stadj, o di 3 miglia odierne, da Tiora, Dionigi pone l'antichissima città di Lista, capitale un tempo degli Aborigeni, occupala poscia da' Sabini di Amiterno. La città era posta probabilmente nella valle di S. Anatolia, 3 miglia da Torano, e non sopravvanzano monumenti notevoli.

A 70 stadi di qua da Reate (Rieti), o ad 8 miglia antiche, secondo l'Itinerario di Antonino, posta a piè di un montò era la città di Cotila o Cotilia, la cui fondazione risale ai tempi più antichi d'Italia. Fu città degli Umbri, quindi degli Aborigeni e de' Pelasgi, e quindi, per forza di armi, de' Sabini. Trasse il suo nome dal prossimo lago, detto similmente Cotile, ossia conca o cratere.

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Era al di là di città Ducale, che sorse dalle sue rovine non lungi da Paterno, nel sito che anche oggi conserva il nome di Cotile, e dove il Cluverio osservò grandi ruderi di antichi edifizj.

Presso le rovine di questa città vedesi il lago ora detto di Paterno, ed a breve distanza un altro più piccolo detto Pozzo di Ratignano, a 7 miglia e più da Rieti. E in questo vuolsi che fosse il lago con l'isola galleggiante, di cui parla Dionigi d'Alicarnasso, e che fu detto di Cotilia.

Il lago era angusto ma profondissimo, e tenuto da' Sabini come sacro alla Vittoria, e non vi si poteva entrare che in alcuni tempi determinate. L'isoletta, coverta di erbe e di virgulti, non aveva un diametro più lungo di 50 piedi, e si elevava di un piede sul livello delle acque, ed ondeggiava da questo o da quel lato secondo che spingevala il vento. In questo lago Varrone pone l'umbilico o il centro d'Italia, ora corrispondente al cosi. detto Campo di Sesto, che da una strettissima gola si allunga per circa 3 miglia appiè di Città Ducale.

Presso la città di Cotilia era la villa di Vespasiana, ov' egli recavasi la state per alleggerire le gravi cure dell'Impero, e godere delle fredde acque che scorrevano di là, e di quelle dette di Dattilo, che per acquidotti e conserve fece riunire in un bagno.

S una era città sabina, 5 miglia lontana da Reate; e fu celebrata per un antichissimo tempio di Marte. Era nella Valle Osuna, e propriamente nel luogo detto Alzana, dove si veggono grandi avanzi di fabbriche antichissime. Quei ruderi ci offrono tre ordini di mura poligone, uno sovrimposto all'altro; ed un singolare monumento vedesi tra la prima e la seconda muraglia, ed è un sotterraneo di figura circolare, di pietre senza cemento situate in lungo, ogni fila avanzandosi a scaloni l'una sull'altra sino a che gli danno una figura piramidale, troncata nella cima, e chiusa da due lastre semicircolari insieme unite, che hanno un'apertura circolare nel centro, sulla quale è posta un'altra pietra che la chiude. Alcuni vogliono che fosse stata una cisterna, ed altri un granaio.

Ed altre città e borgate aveano i Sabini, distrutte nelle lunghe guerre ch'ebbero a sostenere contro i Romani, o cadute in miserevole condizione ai tempi dell'impero; e ciò dimostrano i molti avanzi che si veggono sparsi in varj punti di quel territorio, e soprattutto in Amatrice, dove sono avanzi di mura antiche, di porte, di una rocca, e di un camino coverto che menava verso il torrente Castellano.

Tra le vie di comunicazione costruite da' Romani e che attraversavano questa regione ricorderemo la Via Salaria e la Via Claudia Valeria, delle quali la prima usciva di Roma dalla parla Collina, e penetrando tra' Sabini, passava per Interocrea, Falacrine, Vico Badio, e per la stazione Ad centetimum. Ad Interocrea si diramava in un'altra Via che, passando per Testrina presso Vigliano, dove si sono rinvenuti sepolcri, lapidee ruderi antichi, e per Foruli, internavasi nel paese de' Vestini. E questa strada mostra anche oggi, presso le rovine di Cotilia, i suoi regolari e sovente ben lunghi parallelepipedi di pietra macigna; e simili a quelli e molto ben commessi se ne veggono allato del mormoreggiante Velino, sotto il periglioso viottolo di Siguio, dove è maraviglioso il taglio praticato nelle rocce calcan di un'altissima montagna. La Via Claudia partiva da Foruli, e, passando sul PontePecchio, di antica costruzione, correva verso il piano di Pile e gli altri antichissimi ponti che ancora resistono al tempo in quella contrada.

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Regione Peligna

La regione de' Peligni (circondari di Sulmona, Popoli, Scanno, Pratola, Acciano e Pescina) era tra monti e fiumi, in mezzo alle regioni de' Vestini, de' Marsi e de' Sanniti da un lato, e de' Marrucini e de' Frentani dall'altro. Ed era separata da' Vestini mercé dell'Aterno, da' Frentani mercè del Sangro; e da' Marsi, da' Sanniti e dai Marrucini per mezzo dell'Appennino.

Dalle diramazioni appennine del Gran Sasso e della Majella si formano le valli di questa contrada, e tra le quali è notevole quella di Sulmona, di un perimetro di 30 miglia circa, formata da un profondo terreno di alluvione, e tutta intorno cinta e chiusa da alte montagne, da cui discendono l'Aterno, il Vella, il Gizzio e il Sagittario; e quell'ampia valle fu forse in tempi anteriori alla storia ingombra da una grande laguna, siccome dimostrano il limo e la ghiaia e i bianchi ciottoli ond'è ripiena.

Grandi sprofondamenti cagionati da forti tremuoti, o la lenta ma perenne corrosione delle acque correnti, aprirono forse il varco a quell'avanzo di onde marine, che un di occuparono a maggiore altezza quella contrada. Dicasi lo stesso dell'alto Piano di Cinquemiglia, tra Roccarosa e Sulmona.

Il lago di Scanno e quello di Villalago paiono reliquie del gran lago che ricopriva in epoche remotissime quella valle. Scomparse quelle acque per qual vuoi naturale fenomeno, lasciarono il loro fondo ad abbondevoli prati ed ubertosi terreni.

I

Peligni, primi abitatori noti di questa contrada, pare derivassero dall'Illirio, e tolto quel nome dall'antica

Palenum, della quale poi non rimase che la piccola terra di

Palería. Essi furono ora nemici ora alleati de' Romani, ma valorosi sempre; e per cagione del loro valore è da credere che fu scelta la loro capitale

Corfinio come centro della Guerra Sociale.

Tre corpi di popolazioni diverse, cioè di Sulmonensi, di Corfiniensi e Superaquani (1), stretti da legami di una indissolubile confederazione, formavano la nazione Peligna. Sotto un cielo rigido e nevoso abitavano due in luoghi alpestri ed uno nella valle che mena al piano detto di cinque miglia. Ognuno aveva distinto contado, che, governato da capi scelti dal seno della propria popolazione, viveva in un'economia a parte; ma si riunivano insieme quando venivano a pubbliche deliberazioni o a dichiarazioni di guerra.

Volendo notare le poche città de' Peligni note all'antica Geografia, incominciamo dalla parte ove la loro regione confinava con la Marsia e l'Agro de' Vestini lungo l'Aterno. Ed ivi incontriamo Superequo, i cui abitanti furono detti Superequani, per cagione della loro situazione in una pianura elevata rispetto ai Corfiniensi e ai Sulmonensi, che abitavano in un piano declive. Il sito dell'antica Subequo Macrana, fu riconosciuto nelle vicinanze di Castelvecchio, a breve distanza dall'Aterno, e propriamente nella pianura di Macrana, dove furono osservati non pochi avanzi di mura, di rovinati edificj e di sepolcri. E il nome di Subrequo o Subequo, che tuttavia rimane a quella terra ed alla prossima valle, non fanno dubitare che ivi sorgesse la detta città de' Peligni.

Nel confine de' Peligni e de' Marsi, alla stretta gola di Forca Carosa,

(1) Che trassero questo nome dalle loro rispettive capitali, Sulmona, Corfinio e Superequa.

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i Superequani innalzarono un arco laterizio a Livia Augusta. E poco discosto di là sorgeva il villaggio di Statulae, che diede il nome ad una stazione della Via Valeria; e pare fosse nelle vicinanze di Goriano Sicolo, sugli aspri gioghi della regione, dove oggi passa la strada tra Forca Carosa e Pentima; e a giudicarne da' molti avanzi e dalle iscrizioni ivi trovate, pare avesse quel villaggio una qualche importanza.

Corfinio (Çorfinium) fu tra' Peligni la città più insigne e la metropoli, ed una delle più importanti d'Italia, se vuolsi considerare la sua nobile posizione, le insuperabili fortezze che la difendevano, e l'ampiezza delle sue mura e del suo territorio. Ed una pruova non dubbia della importanza di Corfinio si ha da questo, che, scoppiata nel 663 la Guerra Marsica o Sociale, gl'Italiani confederati vi posero non solo la sede de' pubblici concilii, ma l'asilo delle loro libertà; e quella città fu invece di Roma la metropoli di tutti gl'Italiani, e centro della guerra; ed ebbe perciò il nuovo nome d' Italia, com'è manifesto dalle monete di quella celebre federazione.

Il sito dell'antica Corfinio fu riconosciuto nelle vicinanze della terra di

Pentima, e propriamente nel luogo detto la

Civita, dove vedesi ancora un gran tratto della

Via Valeria, ed avanzi di molti sepolcri, e i vestigi delle sue mura di pietre macigne senza cemento, ed acquidotti che vi portavano le acque dell'Aterno e del Sagittario, e i pavimenti delle sue vie, e colonne, gemme incise, elmi ed altri preziosi monumenti, e gli avanzi dell'Anfiteatro e delle Terme.

Sulmona (Sulmo) era grande e bella città de' Peligni, nella vasta pianura bagnata dal Gizzio e dal Vella. Fu alleata de' Romani, ed ebbe a soffrire molto nel passaggio di Annibale, e maggiori danni dalle armi di Silla. Aveva templi superbi, ed innalzavasi sopra tutti gli altri quello dedicato a Vesta ed Apollo.

A breve distanza dell'antica Sulmona, che occupava il sito medesimo della presente, appiè del Morrone, sotto la rupe del Romitorio di S. Onofrío, veggonsi alcuni ruderi di opera reticolata, ne' quali voglionsi riconoscere gli avanzi della Villa di Ovidio, venuta in tanta fama pe' suoi versi immortali; e, nelle limpide e fresche acque che discendono dal monte, la fontana tanto celebrata dal poeta, e nel clivo di quel monte medesimo, il luogo del suo laureto e del boschetto.

Fuori della Via Claudia Valeria, 8 miglia lontano da Sulmona, era il Pago Fabiano, antico villaggio de' Peligni. Plinio lo ricorda per l'uso che si avea di far tepide le viti nel rigido inverno; il quale uso si è conservato in tutta la valiata peligna, e soprattutto a Popoli si portano le tepide acque del Callisto per far caldi gli ortaggi, e a Pratola le acque del Sagittario per far caldo il lino.

Sulla Via Numicia, che da Corfinio menava alla città di Sulmona, era una stazione, indicata nella Tavola Teodosiana col nome di Giove Paleno, per un tempio innalzato a questo particolare nume de' Peligni.

Nella regione de' Peligni gl'Itinerarj Romani non ci additano che la Via Claudia Valeria, le quale da Cerfennia, città della Marsia, conduceva a Corfinio.

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Regione de' Marrucini

La regione de' Marrucini (circondari di Bucchianico, Manopello, S. Valentino e Caramanico, nel Distretto di Chieti) aveva per confini, ad oriente i Frentani, da cui era divisa per il corso del fiume Foro, dalla foce alle sorgenti nelle pendici della Majella; a mezzodi il corso del Rasino o Rasento, che presso Tocco si unisce alla Pescara; ad occidente una parte del Morrone e della stessa Majella, ond'era divisa da' Peligni, e a settentrione il corso dell'Aterno, per mezzo di che era separata da' Vestini.

L'Adriatico ricoprì in tempi remotissimi questa piccola regione, e pare che uscissero dalle acque del mare fino gli stessi alti gioghi della Majella, siccome dimostrano le copiose petrificazioni marine osservate sulle più alte pendici di quella grande montagna. L'agro Marrucino intanto, formato di valli, colli e pianure irrigate da fiumi e rivoli perenni, presenta la più rigogliosa vegetazione in orti, vigne ed oliveti. I primi abitatori di questa contrada furono colonia de' Marsi, e furono gente sannitica, ed ebbero comune il linguaggio, e il valore e la fortezza nel combattere.

Le città più notevoli di questa piccola contrada furono, Interpromio sulla Via Valeria, nel luogo medesimo dove è oggi S. Valentino, tra la Pescara e i piccoli fiumi Orta e Lavino; chè in quel luogo stesso sono molte rovine di città antica, sepolcri, are di marmo, monete, idoletti, canali di piombo, colonnette e pavimenti marmorei.

Un miglio lontano dal territorio di S. Valentino e dalla descritta città d' Interpromio fu un pago, o villaggio di essa, che fu detto Pago a' Interpromio. Il luogo di questo villaggio fu forse l'ameno colle di Mortola, dove si sono rinvenuti antichi ruderi, acquidotti e monete; o la sottoposta pianura di Tocco, dove si veggono più grandi rovine; o il luogo della Badia di S. Clemente di Casauria; i quali siti sono Cuno vicinissimo all'altro.

Teate era antica e celebre città e metropoli della regione. Aveva magnifici edifizj e superbi templi; e veggonsi ancora gli avanzi del Teatro e delle Terme. Sorgeva la città nel sito della presente Chieti, sopra amena collina, dalla quale si gode la veduta de' monti e del mare, e la bella pianura irrigata dalla Nora e dall'Aterno.

Poche miglia lontano dalla città di Teate, presso alla foce del fiume Aterno, era la città di questo stesso nome; ed è da porre tra le più antiche città nostre, della quale l'origine è del tutto sconosciuta. Questa città era emporio comune di molti popoli, frequentata e celebre per il suo porto, comune insieme ai Vestini, ai Peligni e ai Marrucini, co' quali gl'Illirici ed altri popoli dell'opposta spiaggia dell'Adriatico erano in rapporti di commercio.

A giudicarne dagli avanzi di un antico ponte, l'antica città sorgeva sulle due sponde del fiume, e la presente Pescara occupa la parte destra del luogo dell'antica. E quivi intorno si sono scoperti gli avanzi di un sepolcreto e di un tempio.

La regione de' Marrucini era attraversata dalla Via Claudia Valeria, la quale da Corfinio, città de' Peligni, giungeva sino ad Interpromio.

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Regione Frentana

La regione de' Frentani (ne' distretti di Lanciano, Vasto e Larino) aveva per suoi confini, il fiume Foro a settentrione, ond'era divisa dall'agro de' Marrucini, il Frentone o Fortore a mezzodi, ond'era divisa dalla Daunia; l'Adriatico ad oriente, la Majella ad occidente, che la separava da' Peligni e da' Sanniti.

Gli atti gioghi della Majella con le diramazioni che se ne distaccano ad oriente e a mezzodi, e le piccole valli che si aprono in mezzo ad esse, e le basse colline, e i piani in riva dall'Adriatico, bagnati da numerosi rivi di acqua, formavano la regione Frentana. In sul monte vi ha punte ertissime, rupi spaventose, valloni enormi, tra' quali i più grandi e profondi sono quelli di Orfente e dell' Inferno, poco accessibili, e di S. Spirito e Civitella. Ma vi ha grandi declivi coperti di boschi densissimi, e ve n'ha di altri assai piacevoli per il dolce mormorio di chiare e fresche sorgenti, e per il vago aspetto di ridenti e verdi prati, sparsi di erbe e di fiori. La neve che cade in gran copia ne copre la maestosa cima, e in alcune parti gela e dura lunghe stagioni. I colli e le valli in che si abbassano le diramazioni della Majella, e le pianure che si allargano inverso la marina, dimostrano chiaramente la remota dominazione del mare.

I Frentani ebbero origine da' Sabini; ma con le tribù Sabelliche si intramischiarono da tempi remotissimi i Liburni, venendo dalla opposta e vicinariva dell'Adriatico, e insieme con esse abitarono la regione Frentana.

Tra le città antiche che la storia ci ricordi nella regione de' Frentani, noteremo, Ortona, posta presso al mare, poche miglia lontana dalla foce del Foro, nel luogo medesimo della presente Ortona. Era tra' Frentani e i Peligni, e vuolsi fondata da' Liburni. Ortona era l'arsenale marittimo ed il porto della regione; e la natura aveva fatto quel sito molto acconcio a quel fine. Apriva il mare sotto le sue mura un piccolo seno, guardato a mezzodì da colli e da rupi, e a settentrione dal piccolo promontorio dell' Acqua bella. Ma caduto quel promontorio, e ricolmata la parte interna del piccolo porto, esso non è più quello di prima. Ortona era città ricca e popolosa, e centro di grandi commerci: vi avea arti fiorenti;e si sono scoverte iscrizioni che rammentano i collegi de' fabbri, de' navicolari e de' lanarj. Vi aveva belli edificj e templi superbi; e sono ricordati quelli sacri a Marte e ad Apollo, e quello d'Iside di pietre quadrate, innalzato sulla riva del mare.

Quest'antica città frentana ha conservato il suo prisco nome; e perché fosse distinta dalla città omonima appartenente alla Marsia, è detta Oriona a mare. I grandi ruderi degli antichi edifizj, che sono quivi intorno, dimostrano il luogo preciso e l'ampiezza di essa.

Anxano (Anxanum), a breve distanza dalla foce del Sangro, era una delle più importanti città frentane, ed ebbe anche nome di Anxa e Anxia. I primi abitatori furono di razza sabina o sannitica; e la città fu il comune emporio de' Frentani. Il nome di questa città si mutò ne' bassi tempi in Anzano, Lanzano, da cui derivò quello di Lanciano. Ma il sito dell'antica non era ristretto al colle Erminio, su cui sorge Lanciano vecchio, che forma il più piccolo rione della città moderna. Molto più ampia n'era l'area, ed abbracciava tutta l'amena e spaziosa campagna ch'è quivi intorno, circondata da valli e da collinette, dove veggonsi ruderi di antiche fabbriche, e furon trovate statue e monete.

Buea era città frentana, posta sulla riva del mare, di qua della città di Anxano, e fu ricordata da molti geografi antichi, e fu chiara pe' superbi suoi monumenti.

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Se la città fosse distrutta o abbandonata, e quando ciò accadesse, è del tutto ignoto; ma pare che il luogo di essa si sia riconosciuto sull'amena pianura della Penna, 3 miglia lontana dal Vasto, dove furono trovate alcune lapide con iscrizioni poste da' Bucani, e avanzi di templi, di acquidotti, di sepolcri, di mura, di colonne. Si crede che Buca avesse avuto il suo porto, e che mercé di esso e delle facili comunicazioni i Bucani sieno venuti in grande prosperità.

Pallano (Pallanum) fu città de' Frentani; e le superbe rovine di saldissime mura che rimangono anche oggi sul monte dello stesso nome tra Bomba ed Atessa, ed altri antichi monumenti, ci additano in Pallano una non ignobile città. Quelle mura son fatte di enormi pietre macigne di quattro a dieci palmi di diametro, e l'una sovrapposta all'altra senza cemento; e pare che risalgano a tempi remotissimi, anteriori all'epoca romana, e sieno probabilmente opera de' Pelasgi.

Istonio sorgeva tra 'l Senello e il Trigno, ed era città frentana di un'antichità remotissima, abitata e civile avanti i tempi romani, come dimostrano gli avanzi de' suoi monumenti. Era nel luogo che oggi occupa la città del Vasto. Ed ivi furono scoverti grandi avanzi di un tempio magnifico sacro a Giove Ammone, con frammenti di scelti marmi e di colonne di granito orientale, e col simulacro stesso del nume; e ruderi di templi innalzati a Bacco, a Marte, a Giunone, a Cerere. I vestigj di un Teatro, o più propriamente di una Naumachia, e gli avanzi di grandi serbatoj, di cloache, di acquidotti, e le rovine di. molti sepolcri, dimostrano come l'antica città era vasta e popolosa.

Quando, mutate le sorti d'Italia, le nostre regioni caddero sotto il dominio de' Longobardi, quest'antica città divenne sede di un Gastaldo, e credesi che, perdendo l'antico nome, cominciasse allora con voce germanica a dirsi Wast, che significa pretorio o luogo di giustizia, donde derivò il nome attuale di Vasto.

Tra Istonio e Larino, quasi ad uguale distanza, era Uscosio o Vicosio (Uscosium), oppido o castello de' Frentani. Ed era ad un miglio dalla Via Traiana nelle vicinanze del villaggio di Guglionisi, nel luogo detto il Casalino, tra la sponda del Sinarco e la terricciuola di S. Giacomo; e i ruderi di mura antiche, e i sepolcri la dimostrano non ignobile città de' Frentani.

Interamnia Frentanorum fu altra città de' Frentani, lontana poche miglia da Larino, tra le foci del Sinarco e del Biferno, dalla quale sua particolare posizione tolse il suo nome, che cangiò in tempi più vicini a noi in quello di Termoli. E nelle vicinanze di questa nostra città veggonsi ancora i ruderi di templi ed altri monumenti antichi.

Cliternia, oggi Campomarino, fu città de' Frentani, presse alla foce del Tiferno o Biferno. Ed ivi furono trovati avanzi di grandi edifizj, medaglie, frammenti di colonne e sepolcri.

A mezzodi di Uscosio era Larino (Larinum), sulla Via Trajana, città cospicua ed antichissima fra tutte quelle che i Frentani abitarono, siccome dimostrano le medaglie con leggenda osca. I Pelasgi Tessati pare ne fossero stati i primi fondatori. Gli scrittori antichi partano dell'ampiezza e della fertilità de' suoi campi, e non par dubbio che l'agro di Larino si distendesse dal Tiferno al Frentone. Larino ebbe teatri, circhi, anfiteatri, templi superbi, e nel territorio della presente Larino furono trovati gli avanzi di quei monumenti.

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A due miglia di distanza dalla città di Larino sovrastava all'agro larinate una rocca detta Rocca Catena, nel sito dell'odierna terra di Casaca lenda, posta alla falda di un colle.

E a nove miglia da Larino, tra questa città e la Teano appula, era Gerione, importante città e fortezza de' Frentani. Essa pare che avesse avuto la stessa origine di Larino, l'una e l'altra rammentandoci popoli pelasgici, e centauri e domatori di cavalli.

Molti e larghi rivi di acqua bagnavano la regione frentana, scendendo dalle pendici appennine, e mettendo foce nell'Adriatico; e, tra gli altri, noteremo il Foro o Fauro (Faurus fluvius), il quale s'ingrossa di altri fiumicelli, e sbocca poco lontano da Ortona; e il flume Sagro (Sagrus fluvius) tra' Frentani e i Peligni; e il Trinio (flumen Trinium); e il Tiferno (Tifernus amnis), e il Frentone (Frento flumen).

Tra te strade della regione frentana ricorderemo la Via Trajana Frentana, la quale metteva in facili comunicazioni gli abitanti della contrada co' Marrucini e i Peligni da un lato, e dall'altro co' Dauni e i popoli confinanti: aveva un corso di circa 80 miglia, e si sviluppava lungo la spiaggia del mare, toccando Aterno, Ortona, Anxano, Buca.

La Marsia

La Marsia era regione tutta mediterranea, racchiusa tra gli alti gioghi dell'Appennino, e circoscritta dal corso di quattro fiumi che bagnano questa parte delle nostre contrade, formando al tempo stesso i limiti naturali di sette altri popoli confînanti. Quei fiumi sono il Sangro dalla parte di oriente, l'Aterno dalla parte di settentrione, il Torano ad occidente, il Liri a mezzodi; e il primo divideva i Marsi da' Sanniti e da' Peligni, l'Aterno da' Vestini e da' Sabini, il Salto ed il Torano dagli Ernici e dagli Equi, il Liri da' Volsci.

Qui gli Appennini si aggruppano maravigliosamente, chiudendo in mezzo l'ampio bacino del Fucino, e da quella giogaia quasi continua di alte montagne discendono grandi rivi di limpide acque. Irregolare e difforme è la superficie della Marsia; ingombra nella maggior parte di monti e colline, e rotta da valli più o meno larghe e profonde; il monte più elevato è il Velino, e l'ima conca è quella del Fucino.

I Marsi furono probabilmente una tribù di Pelasgi, alla quale poscia si congiunse una parte de' popoli Sabelli. Abitarono i Marsi, come tutt'i popoli italici antichissimi, più borgate che città, e noi noteremo queste soltanto.

Cerfennia, città o grossa borgata de' Marsi, di cui è chiara rimembranza ne' marmi scoverti e nelle Tarole Itinerarie. Il luogo dell'antica città fu riconosciuto presso Colle Armete appiè di Força Carosa, nel luogo detto li Colli, ove furon veduti avanzi di mura e di un grande acquidotto, tratto dal prossimo monte. Ed anche oggidi si dà il nome di Campo Cerfegno ad un'estesa contrada poco lontana da Colle Armele, lungo l'antica Via Valeria, sulla quale sorgeva Cerfennia. Dopo il quinto miglio da questa città la Tavola Peutingerana segna la stazione col nome di Mons Imeus, cosi detta dal monte sulla cui vetta passava la Via Valeria per discendere a Corfinio.

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Marruvio (Marrumum) fu la più cospicua città de' Marsi e la capitale della regione. Partendo dalle distanze notate nella Tavola Peutingerana, il suo sito fu riconosciuto nel borgo odierno di S. Benedetto, alla sponda orientale del Fucino, ove furono trovate iscrizioni sepolcrali, e avanzi di mura e statue.

Luco fu un borgo de' Marsi, e fu cosi detto dal vicino bosco di Angizia.

Il nuovo Luco fu edificato da' Pennensi, colle rovine dell'antico. Ed ivi furono trovati avanzi di fortissime mura di smisurati macigni poligoni senza cemento, che resistevano dopo tanti secoli alle ingiurie del tempo e al furore delle acque del Fucino, e ruderi di grandi costruzioni, alcune delle quali avevano forma di templi.

Archippe fu tra le città de' Marsi, se non la più importante, certo la più antica; se ne attribuisce la favolosa fondazione a Marsia, re o condottiere de' Lidii; e fu assorbita dal Fucino avanti i tempi romani. Credesi che fosse situata sulla sponda del lago dalla parte di mezzodì presso Trasacco.

Angizia era un villaggio de' Marsi sopra un erto monte alla riva occidentale del Fucino a breve distanza di Luco. Fu rinomato tra' Marsi e tra gli antichi il bosco sacro alla dea Angizia, favolosa sorella di Medea.

Autina fu una nobile città della Marsia, e i suoi abitanti erano in fama di forti. Della città antica appena una parte è occupata dalla moderna Civita di Autina, posta nella valle di Roveto, a cinque miglia dal Fucino. L'antica città era vasta, e sono argomenti della sua importanza gli avanzi delle forti mura di sassi poligoni, e i non pochi ruderi di opere reticolate e pietre quadrate appartenenti ai suoi pubblici edifizj, e le Terme con pavimenti a mosaico.

Vesuna era un oppido Marso, ove adoravasi Giove Cacumio, nume sabino, il quale aveva culto negli alti gioghi de' monti. Il sito di Vesuna era nel villaggio di Visino o Visinio presso monte Argatone.

Furono antiche città o borgate de' Marsi, Plestinia, Milionia, Opi e Fresilia sul confine de' Sanniti; e secondo che dimostrano i monumenti, furono città importanti e fortezze de' Marsi, espugnate ed occupate da' Sanniti e quindi da' Romani.

Ma innanzi di porre termine a questa breve descrizione della Marsia, vogliamo notare che il Fucino, posto tra ridenti colli e tra gli alti gioghi dell'Appennino, ricevendo motti grandi e piccoli rivi di acqua, siccome Fonte Grande, Capodacqua, Sarcinale, Tavana, S. Marco, l'Aureo di Celano, il Mosino di Avezzano ed il Giovenco, e varj torrenti e le acque delle piogge e delle nevi, è uno de' più grandi laghi d'Italia, ed è celebre sopra tutti gli altri per le memorie degli antichi.

La più antica memoria del Fucino è in Licofrone, che lo nomina Palude di Forca; poiché i mitografi fecero discendere Reto, favoloso re de' Marsi, da Forca, dio marino. Donde prendesse il nome di Fucino è ignoto, se non fosse per avventura dalle fucoidi, piante acquatiche che han motta somiglianza con l'alga, e di cui se ne incontrano di vaghissimi colori di rosa, verdi e azzurri per lunghi tratti del lago. Strabone diede al Fucino l'ampiezza di un mare; e Virgilio, Orazio e Silio Italico celebrarono la freddezza, la leggerezza e la trasparenza delle sue acque, e il piacevole mormorio delle sue onde. Sulle incantate sue rive furono innalzate Archippe, Angizia, Marruvio, antiche ed Ímportanti città de' Marsi, e non pochi altri villaggi; e i doviziosi Romani innalzarono magnifiche ville, ove passavano la primavera e l'autunno.

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Il Fucino ebbe onori divini, e i Marsi gl'innalzarono templi ed are, anche perché ne temevano le inondazioni, e reputavano salutari le sue acque.

Sulla sponda del lago, due miglia lontano dalla città di Marruvio, sorgeva un'isoletta, che alcuni chiamarono Ortigia, forse prendendo argomento dall'odierno nome di Ortucchio, ed altri la dissero l'isoletta Issa, ricordata da Dionigi di Alicarnasso. Certo è che l'isoletta fu abitata in tempi moito anteriori ai Romani, siccome dimostrano gli avanzi di costruzioni antichissime che tuttavia vi si veggono.

Tra le grandi opere degli antichi fu importantissima quella di disseccare il Fucino, che uscendo spesso dalle sponde del suo bacino aliaga da tempi immemorabili i vicini campi, e a questo fine fu ordinato l'emissario che si disse di Claudio (Çlaudii Emissarium); il quale metteva capo da un lato sul Fucino a due miglia da Avezzano, e dall'altro sul Liri, sotto Capistrello; ed era lungo più di tre miglia, largo da 8 a 10 piedi, alto da 12 a 20 piedi; internandosi per un miglio e quarto nel monte Salviano, e quasi due ne campi Palentini; e avea undici pozzi verticali scavati sul pendio del Salviano, ed altrettanti su quello verso il Liri. Quel canale sotterraneo fu ricolmato e sepolto da lungo tempo; e discoperto in qualche parte ai tempi nostri, ne ha dimostrato il maraviglioso lavoro.

Le regione de' Marsi era traversata in parte dalla Via Valeria, non meno bella della Salaria: essa avea principio da Tiburi o Tivoli, ed era una continuazione di essa la Via Claudia nel paese dei Peligni e dei Marrucini. Questa grande strada dominava la pianura marsica e traversava la regione degli Equicoli,

I Marsi furono popoli forti e guerrieri, e mercè di essi, come di forti alleati, i Romani operarono grandi cose e vinsero i loro nemici, onde venne il proverbio, non potersi dei Marsi, ne senza i Marsi Irionfare. I Marsi forroarono alcune colonie; e l'antichissima città di Anagni, sede del concilio de' popoli Ernici, era abitata da una colonia marsica.

Gli Equi o Equicoli

Gli Equi o Equicoli (circondarj di Celano, Tagliacozzo, Civitella Roveto ed Alvito) erano ristretti in angusto spazio di territorio, abitando i sommi appennini tra il Liri e il Fucino, distendendosi dalle ultime falde del Velino presso le sorgenti dell'Aniene o Teverone, di cui occupavano le due sponde, insino a Tivoli ed a Preneste. La regione degli Equi era fra 'l Lazio e le regioni de' Sabini, de' Vestini e de' Marsi, formando le alpestri valli del Torano e del Salto, le quali offrono e varietà e amenità di siti. Mal nota ed oscura è l'origine degli Equi; ma essi discesero probabilmente dagli Aborigeni, o furono tribù sabina, del pari che gli Ernici e i Marsi. Essi ebbero indole fiera e selvaggi costumi, e viveano di caccia e di rapina, e furono forti, e pericolosi nemici de' Romani, i quali dopo lunghe e sanguinose guerre poterono vincerli e aggregarli al Lazio.

Tra le città notevoli degli Equi, ricorderemo, Cliternia o Cliterno, ch'era una delle principali della regione, e della quale sono ignote le vicende e il tempo in cui fu distrutta. Il sito di questa città equicolana pare fosse stato a mezzodi di Capradosso, nelle vicinanze di Celano, dove furono trovate iscrizioni sepolcrali, e avanzi di bagni ed acquidotti e fabbriche antiche.

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Corbione (Corbio) fu insigne città degli Equi nell'odierna terra di Corvaro, dove si veggono sotterranei acquidotti scavati sul vicino monte Frontino, per trarre l'acqua che dovea servire alla città e alle terme, costruite sopra mura ciclopiche. Ed ivi veggonsi ancora avanzi di un'antica strada che conduceva alle vicine città.

Scapzia (Scaptia) fu una delle più antiche e più illustri città d'Italia, secondo quelloche ne dicono Dionigi di Alicarnasso e Plinio. Fu città degli Equi, fondata probabilmente da' Pelasgi o da' Sicoli. La città era distrutta al tempo delle guerre cartaginesi. La situazione è incerta; ma alcuni scrittori patrj ne assegnano le rovine tra Valle in Fredda e Riofreddo nel luogo detto Scarpa, ch'è forse un'alterazione dell'antico suo nome.

Carseoli (Carseolis) fu città principale ed antichissima degli Equi, posta sulla Via Valeria, 22 miglia romane lontana da Tivoli. Era in rigido clima situata nella valle Toruna, tutta circondata di monti; e nel suo agro non coltivavasi che grano e viti. Come una ripruova de' semplici costumi di quei primi abitanti d'Italia, ricorderemo questo della città di Carseoli, dove ogni anno si facevano sacrifizi di volpi a Cerere, bruciandole co' manipoli delle spighe. La città conservò il suo antico splendore sino al cadere dell'impero, e la Tavola Peutingerana la nota come città principale. Fu distrutta o abbandonata al tempo de' Longobardi, e se ne riconobbe il sito nella pianura tra Riofreddo e Celle, e propriamente nella Selva detta Sesara, che prende nome da un rivolo che I irriga.

Carento o Carenzia era città o grossa borgata equicolana, poche miglia lontana da Carseoli. Le sue rovine, che serbano tuttora il nome di Civita Carenzia, si veggono sopra una collina lontana un miglio dall'albergo del Cavaliere, nelle vicinanze di Poggio Cinolfi; e sono acquidotti, avanzi di strada selciata, medaglie, frammenti di statue, tubi di piombo.

Tra le città antichissime degli Equi è pure ricordata Nerse e Vico di Nerse o Nervesia, distrutta da tempi molto remoti. Si è creduto di riconoscerne le rovine in Civitella di Nesce, dove si sono trovati molli avanzi di monumenti antichi, di vasti recinti, di fabbriche ciclopiche, e sepolcri, medaglie, iscrizioni, e frammenti di statue e di colonne.

Alba Fucente era sopra un'alta collina, tre miglia lontana dal Fucino, e fu detta Fucente, perché non si confondesse con la più antica città omonima detta Alba longa. Vuolsi che fosse fondata da' Pelasgi, e che togliesse quel nome dal colore bianchissimo della rupe sulla quale fu edificata. Fu grande, forte e nobile città, siccome dimostra il recinto primitivo delle sue mura, di costruzione ciclopica, e gli avanzi di templi, di due teatri, di un anfiteatro. Aveva sei porte, donde uscivano altrettante strade che la mettevano in comunicazione con le vicine regioni; ed i Romani fecero di quella città la capitale della quarta regione d'Italia, quando i nostri popoli ebbero perduta la loro autonomia. Delle più belle rovine di quella città antica, delle colonne e de' marmi usò Carlo d'Angiò per edificare sulla riva del Salto il convento de' Templari sotto il titolo di S. Maria della Vittoria, ne' campi palentini, dove sconfisse Corradino.

Verrugine (Verrugo) fu antica città degli Equi, ai quali fu in processo di tempo ritolta da' Romani. Si crede che nel luogo dell'antica fosse oggi il villaggio di Verrecchie, a non motta distanza da Tagliacozzo, dove sono luoghi alpestri, null'altro non significando Verruca che luogo aspro ed erto.

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Cominio (Cominium) fu città degli Equi, posta alle falde degli Appennini, e fu ampia e popolosa. Cadde sotto le armi de' Sanniti, e quindi, insieme con essi, sotto le armi de' Romani. Sorgeva l'antica città nel sito dell'odierno Alvito, ne' tempi cristiani detto Civitas S. Urbani in Cominio. Quivi intorno veggonsi superbe rovine, giudicate avanzi di un tempio di Apollo.

La Via Valeria, tra le più nobili che i Romani aprirono ne' tempi fiorenti della Repubblica, che limitava il Lazio dal lato della Sabina sino al paese de' Marsi, attraversava in parte il paese degli Equi. Da Tiburi conduceva per la valle dell'Aniene a Carseoli e ad Alba, e di là nel paese dei Marsi sino a Corfinio, come indicano le stazioni di essa negl'Itinerarj romani, e i vestigj e le lapide che ne rimangono.

Il Sannio

Il Sannio, che occupava quasi il centro delle nostre contrade, toccava gli agri di sette altri popoli confinanti, ed erano gl'Irpini e gli Appuli dalla parte di oriente, i Frentani a settentrione, i Peligni, i Marsi e i Volsci dalla parte di occidente, e i Campani a mezzodì. E sul confine orientale erano il Sabato e il Tamaro; sul confine occidentale erano il Sangro e l'Appennino; e a mezzodi erano i monti Tifati, i colli Tribulani ed una delle sponde del Volturno.

Il Sannio fu scompartito in tre particolari distretti, che prendevano nome da' rispettivi popoli sannitici che li abitavano, ed erano i Çaraceni o Cariceni, i Pentri e i Caudini; de' quali il primo restringevasi nella parte superiore del fiume Sangro, il seconde in parte degli odierni distretti d'Isernia, Campobasso e Piedimonte; ed il terzo ne' circondari di Montefusco e Mercogliano in Principato Ulteriore, e di Cerreto, Cajazzo, Solopaca, S. Ágata de' Goti, Airola ed Arienzo in Terra di Lavoro.

I Çaraceni, ristretti in angusto paese, tolsero probabilmente il loro nome dalla città di Caracio, ch'era la loro capitale: de' Pentri, ch'erano sulle falde del Matese, è oscura l'etimologia; Caudio diede il. nome ai Sanniti Caudini.

Inuguale molto e di varia natura è l'ampia regione del Sannio, ed ivi veggonsi insieme alti monti e dirupi, lunghe e tortuose valli, grandi e piccoli colli e pianure, bagnati da torrenti e da fiumi.

L'agro de' Caraceni, il quale probabilmente non si allargò oltre il circondario odierno di Castel di Sangro, era diviso da' Marsi per mezzo dei gioghi appennini, e da' Frentani per mezzo del Sangro, e le città più notevoli erano queste:

Aufidena, una delle città principali della regione, anteriore al dominio de' Sanniti, fondata probabilmente da' Pelasgi. Le sue mura erano costruite come le ciclopiche di Tirinto, massi immensi di aspra roccia, non tocca dallo scalpello, gli uni sugli altri sovrapposti a perpendicolo come fusti di colonna, ed aggiustati con minori pietre negl'interstizj, che ci additano il vero stile ciclopico mentovato da Pausania. L'odierna Alfidena ci conserva il nome dell'antica, la quale sorgeva a breve distanza di là, sopra un'erta collina, e dove trovansi avanzi di mura poligone di considerevole grandezze. La Via Numicia traversava l'agro de' Çaraceni, riunendo Sulmona ad Aufidena.

Caricia o Carado fu città de' Sanniti e la capitale de' Çaraceni, e fu grande e forte per modo che fu riguardata come un castello sannitico; ed era posta là dove oggi sorge Castel di Sangro, nelle cui vicinanze furono trovati idoletti, monete e frammenti di statue.

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Aquilonia era nel piccolo distretto 4e' Caraceni, ed è tra le più celebri nelle memorie della nostra storia antica; e qui si salvarono i Sanniti, poi che fu ro n o battuti a Lucera e presso Interanmia. Il luogo dell'antica città era probabilmente quello della odierna Agnone, nove miglia distante da Trivento, e dove, seconde che dicesi, furono trovati ruderi di città antica.

La regione de' Sanniti Pentri era formata dalla vasta catena del Matese e dalle sue pendici e diramazioni, dove veggonsi monti sconvolti, e dirupi, colline, valli, piccole pianure, e grande inuguaglianza di terreno, e rocce squarciate orribilmente; dove tremuoti orrendi e grandi inondazioni mutarono più volte la faccia della contrada; la quale, del pari che le altre, usci auch'essa dalle acque marine, siccome dimostrano le conchiglie e i lunghi strati di pesci petrificati che s'incontrano nella calcarea de' monti che vi si elevano e nella cima stessa del Matese.

Quei monti sono addossati l'uno all'altro, e contengono vaste pianure e grandi boschi, formando una lunga diga appennina, coperta, nelle piu alte vette, di nevi e di ghiacci. E questo paese abitarono i Sanniti Pentri, su' quali pare che la natura aspra e selvaggia del suolo avesse potentemente influito; e si che furono, da tempi molto remoti, e guerrieri e intolleranti di giogo e bramosi di dominio; e niuno, tra' popoli nostri, seppe più lungamente resistere ai Romani, come i Sanniti.

Le città notevoli de' Sanniti Pentri furono queste:

Maronea, grande città e ben fortificata, fondata probabilmente da' Pelasgj. Il suo sito pare che fosse a Rocchetta, nel territorio di Montefalcone, poiché sulla cima del vicino monte vedesi ancora una grande muraglia, lunga quasi un miglio, costruita di grandi pietre calcaree, la quale formava certamente il recinto delle sue mura.

Trebento o Trevento (Trebentum vel Treventum) fu città sannitica, e non fu da meno di tutte le altre della regione. Questa città ha serbato il nome antico, che alcuni vogliono essere derivato dai venti impetuosi che vi dominano; e si crede che nell'alto colle dove ora sorge, al di sopra del fiume Trigno, fosse situata l'antica rocca, e che la città si distendesse nelle contrade di Montelungo e Colle S. Giovanni, dove veggonsi avanzi di antichi edificj, e furono trovate medaglie con leggenda osca.

Duronia fu città de' Sanniti, popolosa, ricca e ben difesa; e il suo sito si suppone che fosse nella contrada bagnata dal fîume Durone, da cui toise o a cui diede il suo nome, e nelle vicinanze di Civitavecchia, 12 miglia lontana da Campobasso, dove furono trovati sepolcri antichi in gran numero, lucerne, monete.

Esernia (AEsernia) fu città antichissima de' Sanniti Pentri, fondata innanzi ai tempi storici; e furono i Pelasgi i primitivi fondatori, siccome dimostra il nome della città, e le medaglie con l'imagine di Vulcano, nume sommo e padre de' Cabiri nelle mitiche credenze di Samotracia e pelasgiche. venerato in questa città sino ai tempi di Roma. Essa prese parte alle guerre sannitiche, e fu occupata da' Romani. L'antica città sorgeva sul luogo dell'odierna; e si veggono ancora gli avanzi delle sue mura poligone e delle sue porte, e ruderi di templi e di sepolcri, ed un acquidotto di considerevole profondità e larghezza, aperto nella roccia per lo spazio di un miglio.

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Tiferno (Tifernum) fu città de' Sanniti, innalzata sulla riva del fiume dello stesso nome. Dell'antica città non resta alcun vestigio; e, quanto alla sua situazione, si crede che fosse presso il magnifico ponte fatto costruire da Benedetto XIII, allorché resse la Chiesa di Benevento, oggi conosciuto sotto il nome di Ponte di Limosano sulla destra sponda del Biferno.

Boviano (Bovianum) era alle radici del Matese, presso le fon ti del Biferno, città capitale della regione de' Sanniti Pentri, ed una delle più antiche. Gli avanzi della città antica non sono nell'odierno Bojano, ma nel misero villaggio detto Civita, in sito più erto sulla soprastante montagna; ed ivi si veggono avanzi di antichi edificj e frammenti di mura e di colonne, e iscrizioni e monete.

Allife (Allifœ) fu una delle più cospicue città de' Sanniti Pentri, a volerne giudicare dalle memorie e da' monumenti; ed era nel mezzo di una spaziosa e fertile pianura, al principio delle valle beneventana, sopra un ramo della Via Latina. Fu città antichissima, di origine greca, fondata probabilmente da' Pelasgi.

Il Teatro, il Circo, l'Anfiteatro, gli acquidotti, le Terme, le mura ed altri pubblici edifizi di Allife dimostrano che fu città popolosa ed insigne, almeno ai tempi de' Romani. Giove, Giunone, Venere, Cerere, Diana, Ercole Gallico ebbero culto dagli Allifani; ed oltre a questi numi, de' quali è memoria in molte lapide della città, vi si adorarono Nettuno, Opi, Volturno, la Fortuna; ma de' molti templi innalzati a quei numi non restano oggi che gli avanzi del tempio di Giove.

E de' molli sepolcri che fiancheggiavano il ramo della Via Latina non veggonsi che le rovine di due soli, de' quali uno, conosciuto sotto il nome di Torrione di Alife, era di forma quasi rotonda, sopra una base quadrala, ricoverto di pietre e di marmi.

Sepino (Sœpinum) fu città sannitica, non meno importante di quelle già descritte, posta sopra un monte vicino al Matese, alle fonti del Tamaro, e fu popolosa, ricca e ben fortificata. Veggonsi ancora gli avanzi delle sue grandi mura poligone, indizio certo di un'antichità remotissima, e vestigi di un tempio e di un teatro, e rottami di colonne di marmo, e un acquidotto e avanzi di sepolcri. Pare che la città antica fosse di origine pelasgica, e che fosse distrutta al settimo secolo; né sorgeva nel luogo dell'odierno Sepino.

Murganzia (Murgantià) fu una delle più importanti e forti città de' Pentri, fondata probabilmente da' Pelasgi, nella campagna vicina a Baselice, il qual villaggio pare formato dalle rovine dell'antica città sannitica. Fu ricca e forte, e prese parte alle guerre de' Sanniti controi Romani, da' quali venne conquistata e saccheggiata.

Ricorderemo in questo luogo che nel distretto de' Sanniti Pentri, laTavola Peutingerana nota due stazioni sul tratto di strada che dalla regione frentana, e propriamente da Gerione, introducevasi nel Sannio e menava a Boviano. E la prima era quella detta Ad Pirum, forse per ragione di qualche albero di tai nome, a nove miglia da quella città de' Frentani, nelle vicinanze di Campolieto; e la seconda quella detta Ad Canales, per ragione degli acquidotti o canali artificiali accanto a cui si trovava nell'anzidetto tratto di strada tra Gerione e Boviano, poco discosta dalla presente Campobasso, e probabilmente nel villaggio di Castropignano.

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E l'odierna terra di Letino, la quale sorge sopra un monte altissimo, sotto di cui scorre il piccolo fiume Lete, da cui certamente tolse il nome, pare che fosse una sede antichissima de' Sanniti Pentri, e forse degli stessi Pelasgi, come fanno credere le fabbriche che vi si veggono di enormi macigni.

Sul confine orientale de' Sanniti Pentri era il fiume Tamara (Tamarus fluvius), il quale ingrossato da molti rivi di acqua, traversando da oriente a mezzodì il paese degl'Irpini, si scarica nel Calore presso monte Acuto sopra Benevento.

La regione de' Sanniti Caudini distendevasi tra' confini della Campania e degl'Irpini, ed era limitala dal Volturno, dal Calore e dal Tamaro. Una catena circolare di monti prolungasi da' gioghi di Venafro a quelli di Presenzano, Vairano e Pietramelara, dove dividendosi in due rami, uno si distende in direzione curvilinea da Baja a Campagnano, e si congiunge al Taburno ed alle sommità del Vitulano, e l'altro si attacca co' monti di Durazzano e di Airola. Queste due diramazioni di monti, che vanno a perdersi nelle pianure di Benevento con le tre ampie e amene valli che vi si aprono, e che prendono nome da Telese, Ducenta e l'antica città di Caudio, formano il paese una volta abitato da' Sanniti Caudini, ameno e ridente come la prossima Campania. Le città popolose e forti che ne' tempi remoti fiorirono in esso furono queste:

Cominio Cerito (Cominium Ceritum), di qua di Benevento e nelle vicinanze di Boviano, dove furono scoperti molti sepolcri e ruderi di antichi edifici e templi. Quivi intorno si leva alto il monte Erbano, tra le eminenze del Sannio Caudino, ricordato da alcuni antichi scrittori, anche come il luogo del passaggio di Annibale dall'Apulia nella Campania. E nella gola di quel monte vedesi ancora un avanzo di una forte muraglia di enormi macigni, ed ivi furono trovate alcune monete cartaginesi.

Compulteria sorgeva alla destra del Volturno, sopra un ramo della Via Latina; e i suoi abitanti furono ricordati da Plinio col nome di Cupeltcrini. Sono ignote le sue vicende, né si conosce il tempo in cui fu distrutta o abbandonata. Il suo sito pare fosse nel territorio di Alvignano, dove nello scorso secolo si vedevano grandi rovine con marmi interi e spezzati e avanzi di templi e di are, acquidotti, sepolcri, monete. Ed era in un aprico altipiano, dal quale si veggono da lungi le falde del Matese, e più da presso S. Angelo e Piedimonte co' vicini villaggi, e le pianure, i fiumi e le selve che li tramezzano. Vi avea belle strade che univano Compulteria con le vicine città, ed una riunendosi alla Via Latina, conduceva a Telena; ed un'altra, per la montagna di Alvignano, conduceva a Trebula, città campana.

Telesia era sulla Via Latina, 15 miglia da Allife, tra le più antiche e più importanti città del Sannio. La origine fu greca, e fu probabilmente opera de' Pelasgi. Alcune delle rovine di questa città si veggono sull'alto monte Acero, ed altre sono nella sottostante collina, ad un miglio circa dalla presente città di Telese. Ivi veggonsi le mura di opera reticolata, te quali di figura ottangolare girano un miglio e mezzo circa; e gli avanzi di un anfiteatro e di un teatro, e un acquidotto che conduceva le acque del Tiferno, e ruderi di templi, e statue spezzate e iscrizioni sepolcrali.

Mele (Melœ ved Mêles) fu città de' Caudini, e fu grande e ben fortificata. Pare di origine greca, e fu probabilmente città pelasgica, occupata poseia da' Sanniti.

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Il suo sito si crede che fosse quello della odierna Melissano, a breve distanza da Ducenta e S. Agata de' Goti, e quivi, in un'amena Valletta, sorge un fiumicello, che ne' tempi passati ebbe il nome di Mela.

A breve distanza da Cerreto furono le città antiche di Fulsule (Fulsulae) e di Orbitanio (Orbitanium), dai Romani tolte ai Sanniti, e tolte ai Romani da' Cartaginesi.

E sul confine della valle Caudina, a mezzodì de' monti Tifati, elevavasi il Taburno (antichissimo nome di lingua osca o sabina), aspro e nudo in su' fianchi, ma con estese e belle pianure sulla sommità rivestite di vaghi boschetti di faggi, abbondanti di chiare e fresche acque, e con amene colline in sulla base rinverdite di erbe e di ulivi. I Sanniti Caudini aveano alle falde di quel monte il loro sepolcreto.

Calazia (Calatia) era presso il Volturno al pendio di un'aprica collina, una delle più antiche città sannitiche. Fu fondata da' Pelasgi; e tra le rovine di essa veggonsi mura ciclopiche, e ruderi di templi ed edifici antichi avanzi di acquidotti; e si veggono nella parte settentrionale della città odierna, a torre Vallone, e nel monte fuor della porta di S. Pietro, nella cui vetta è il castello di Cajazzo.

Saticola fu città de' Sanniti, di una rimota antichità, e Virgilio pose i suoi abitanti tra gli alleati di Turno. È ignoto il tempo della sua distruzione; ma è molto probabile che ciò sia accaduto ai tempi romani, e per opera di Silla. Il suo luogo fu forse quello di Límatola, essendo che un'antica strada da Telesia menava a traverso di essa al tempio di Diana sul monte Tifata, e dove furono scoperte monete, molti sepolcri ed iscrizioni.

Plistia o Plistica fu un'altra importante città de' Caudini, di origine greca, da attribuirsi, secondo che pare, ai Pelasgi. Il sito di essa fu riconosciuto nel luogo detto Presta, tra S. Agata de' Goti e il monte Taburno, dove alla fine del secolo passato furono trovati non pochi avanzi di antichi monumenti.

Ñaudio (Caudium) era sulla Via Appia, undici miglia di qua di Benevento, sul confine della Campania; ed era la capitale del Sannio Caudino, ed una delle più importanti piazze, distrutta meno per la rabbia romana che incrudelì contro tutta questa regione, che per effetto dell'ira accesa dalla ricordanza funesta del fatto delle Forche Caudine; ma la totale distruzione pare non sia avvenuta prima del IX secolo. Le iscrizioni, i ruderi de' monumenti antichi scoverti presso Arpaja, e propriamente alle falde del monte aprico che sovrasta a questo piccolo villaggio, e che tuttavia ritiene il nome di Costa Cauda, dimostrano che ivi sorgeva la città capitale del Sannio Caudino. E sono avanzi di un tempio magnifico di quella città i sedici tronchi di granito orientale trovati sparsi per le strade del vicino villaggio di Airola.

E da Caudio pare che avessero tolto il loro nome le Forche Caudine, cosí memorabili nella patria storia; le quali erano formate, secondo le parole di Livio, da due passi profondi, angusti e selvosi, intorno intorno coronati da monti; chiusa da entrambi è una campagna abbastanza larga, di erba ricoperta e di acque, per la quale passa la via. Ma pria che tu giunga a questa, ti è forza entrare nel primo stretto, ed o retrocedere, o sbucare per l'altro più impedito ed angusto, se vuoi farti più innanzi.

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In mezzo alle molte opinioni intorno al sito delle Forche Caudine, la meno contrastata pare che sia quella che riconosce lo stretto passaggio in quello che si apre tra S. Agata de' Goti e Mojano, nella valle dell'Isclero, il quale, scendendo sopra Cervinara, traversa la strada tra Arpaja e Montesarchio, entra in un lungo e stretto sentiero tra il Taburno ed un ramo de' Tifati, e poi, per Mojano e S. Agata de' Goti, passa nella pianura bagnata dal Volturno, al quale si congiunge presse Cajazzo; essendo che questa era la via più diritta pe' Romani dalle sponde del Volturno a Benevento ed a Luceria, e la quale aveva due gole, una presso Mojano l'ultra vicino S. Agata de' Goti, con una piccola pianura tra mezzo, circondata dalle prossime falde del Taburno; e non vi avea tra il Taburno e i monti di Airola altro passaggio per chi da Calazia montana muoveva alla volta dell'Apulia.

Erculaneo (Herculaneum) fu una delle città più importanti del Sannio, ben fortificata; ed entrata nelle guerre sannitiche, fu vinta ed occupata da' Romani. Il suo luogo pare che fosse quello di Montesarchio, essendosi ne' tempi andati nominata Monte di Ercole la collina sulla quale è posto, per un tempio innalzato a quel nume, dal quale pare che Ercolaneo prendesse il nome. E sono una ripruova di ciò gli avanzi dell'antica città ivi discoperti, gli acquidotti, le colonne.

Maloento o Benevento (Beneventum) fu innalzata nel luogo dove riuniscono le loro acque il Sabato e il Calore, e fu cospicua città ed antichissima. La origine di essa è circondata da favolose tradizioni: i Pelasgi pare fossero stati i primi fondatori; la tennero quindi i Sanniti, e quindi i Romani; e furono questi che cangiarono il nome di Maloento in quello di Benevento, parendo non buono augurio ai nuovi occupatori l'antica denominazione che non intendevano (1). La città crebbe in ricchezza e magnificenza, e fu circondata di mura; ed ebbe il Foro, i Portici, il Pretorio, le Terme, e templi superbi, di cui veggonsi ancora molti avanzi, tra' quali un piccolo obelisco di granito davanti la cattedrale di Benevento, e un arco trionfale, che fu detto di Trajano, che forma anche oggi una delle porte della città, detta porta aurea, opera magnifica, quasi tutta di marmo pario, con grandi colonne scanalate, co' corrispondenti pilastri corintii sopra alti piedistalli. Da quest'arco la Via Trajana, congiunta ad Eclano con l'Appia, menava nell'Apulia.

A breve distanza da Benevento, e forse sulla stessa Via Trajana che ne usciva, sorgeva il pago o villaggio col nomo di Pago Lucultano. E più lontano di là, sulla via che correva al Calore, e di là net paese degl'Irpini, era un altro villaggio col nome di Nuceriola o piccola Nuceria.

La vasta regione de' Sabini e le molte e popolose città che fiorivano in essa ci fan certi delle non poche strade che riunivano quelle città in fra esse e con le altre delle vicine regioni; ed una maggiore ripruova ne abbiamo nella testimonianza degli storici e negl'Itinerarj, e nelle tracce non distrutte delle antiche strade. Una delle più antiche era la strada maestra del Matese, per la quale comunicavano tra loro i Pentri che abitavano quivi intorno. Polibio indicava tre strade che pel Sannio menavano alla Campania, una pel colle Urbano, e per la montagna di Cerreto; l'altra venendo dagl'Irpini, e passando per le gole Caudine; e la terza pel bosco di Liardo, o per quello della Regina.

Altre strade riunivano Saticola con Trebula, Calazia e Compulteria, ed erano quelle che tenevano i Romani combattendo contro i Sanniti e contro Annibale.

(1) Il nome di Maloento derivò forse da' Maliensi, abitatori della Tessaglia, e forså dal culto di Apollo Maloento.

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La Via Numicia, ch'è uno de' rami della Via Claudia Valeria, partendo dal tempio di Giove Paleno menava ad Aufidena, una delle città principali de' Sanniti Caraceni. L'Itinerario di Antonino e la Tavola Peutingerana indicano due altre strade principali, una di 70 miglia antiche da Aufidena ad Equotutico (S. Liberatore) nella regione degl'Irpini, e l'altra di 92 miglia, dalla detta città de' Caraceni a Nuceriola di là di Benevento. Uno de' rami della Via Latina, tra le più nobili che dopo l'Appia avessero i Romani aperte in Italia, metteva in comunicazione con la Campania le vicine città di Calazia e Saticola; e diramandosi in due braccia a Trebula, città campana, uno passava sul Volturno, sotto il castello di Morrone, e per Limatola e la sinistra sponda del Sabato terminava a Benevento; e l'altro per Calazia volgeva verso Telesia, incontrando l'altro ramo che passava per Alife, Telesia e Benevento, e che entrava nel Sannio al ponte di Baja sul Volturno, detto ancora Ponte dell'Inferno.

I Sanniti furono gioventù de' Sabini. Guerreggiando questi popoli da gran tempo contro gli Umbri, votarono ai fiumi, dice Strabone, tutto che nascerebbe in un anno. Debellati i nemici, parte de' nati sacrificarono, e parte consacrarono agl'Iddii. Ma sopravvenuta nel paese una gran carestia, videro in ciò l'ira de' celesti, e sentirono il bisogno di adempiere in tutto il voto, consacrando anche i figliuoli, che furono perciò dedicati a Marte. I quali, come pervennero ad età virile, furono costretti ad uscire dalla patria, e trovarsi altre dimore. Seguirono questi avventurieri un toro per condottiere, il quale si pose a dormire nella contrada occupata dagli Opici, ed ivi fermarono la loro stanza, cacciandone i primi abitatori, e sacrificando al dio della guerra, seconde il responso degl'indovini, il toro che il nume stesso avea loro dato per guida. Furono questi i principi i della bellicosissima nazione de' Sanniti, i quali perciò pare che fossero dinotati col nome di Sabelli, o, come noi diremmo, piccoli Sabini. Altri scrittori di cose patrie, riconoscendo ne' Sanniti le tribù Sabelle, ne fanno derivare il nome da alcuni popoli della Scizia, detti Sanniti, i quali venuti tra noi s' inframischiarono a que' primitivi abitatori. Certa cosa è che essi furono un popolo valoroso e fiorente, il solo tra tutte le antiche genti d'Italia che seppe più aspramente e più lungamente resistere alla sempre crescente fortuna di Roma; né radde sotto le armi romane se non dopo lunghe e sanguinose guerre.

Regione de' Volsci

La regione de' Volsci non ha negli antichi scrittori termini circoscritti, e alcuni confusero i Volsci co' Latini, lasciando molta incertezza sulle città da loro abitate. Noi possiamo dire che dalle vicinanze del Fucino distendevansi insino alla spiaggia del Tirreno, avendo a settentrione gli Equi, gli Ernici e i Marsi, ad oriente i Sanniti, i Campani, i Sidicini e gli Aurunci, a mezzodi gli Ausoni, ad occidente il mare. E furono le pianure bagnate dal Liri, dal Fibreno, dal Tolero, dal Melfe e dal Vinio quelle che formarono il paese de' Volsci, circondato dal gruppo delle Mainardi, di mezzo al quale si eleva il Ateta, una delle più sublimi vette appennine, ed altri monti altissimi nella parte settentrionale, spogli di alberi, o vestiti sino ad una certa altezza di cerri o di quercie, e poi di faggi e di orni; ma le pianure e le valli, dominate da questi monti, e dal Casino e da monte Cairo, sono fertili e ricche; e pare, come tutta la regione volsca, che sieno uscite dalle acque del mare, essendo che sulle circostanti rocce appennine veggonsi

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ancora e piante e conchiglie o pesci fossili petrifícati; e che sieno sollevate per effetto di azione vulcanica, di cui veggonsi tracce sensibilissime ne' banchi vulcanici, su cui riposa la contrada, e nelle acque sulfuree e minerali.

Quantunque i monti fossero la sede primitiva delle nostre antiche popolazioni, e che di là fossero discese ad abitare le basse falde degli Appennini, e le valli e la marina, pure i Volsci pare che abbiano seguito un cammino contrario, e dalla marina si sieno distesi insino al monte.

I Volsci nelle antiche tradizioni sono confusi con gli Aborigeni o coa gli Opici, riguardati come i primi abitatori di questa parte d'Italia; ma certamente essi erano della stirpe stessa degli Osci, e il loro idioma non fu che un dialetto dell'osco. E crediamo probabile che sopra questa spiaggia sieno venuti in tempi remotissimi i Colchi o i Pelasgi, e lo dimostra, più che ogni altra cosa, il culto di Circe sulla spiaggia marina; e il tempio di Feronia, che sorgeva a tre miglia da Terracina, e ch'era forse la Giunone Argiva, dea de' Pelasgi.

Tra le città notevoli della regione de' Volsci ricorderemo queste:

Sora, nella valle del Liri, tra le più vetuste città d'Italia, fondata probabilmente da' Pelasgi, che tutta dominavano la contrada tra il Tevere e il Liri; e fu certo una città molto importante fino da tempi molto remoti, poiché se ne disputarono il dominio i Sanniti e i Romani. Dell'antica Sora non restano che pochi ruderi della sua rocca, la quale fu elevata in luogo cosi aspro e difficile, che una piccola mano di soldati bastava a difenderla, ed i Romani non furono padroni della città se non quando ebbero preso art inganno quest'ardua rocca. Essendo Sora appiè di uno de' monti che la regione de' Marsi separavano da quella de' Volsci, e dove l'Appennino offre un facile sbocco alle valle del Liri, i Sanniti, padroni del paese superiore, poterono spesso scendere e impadronirsene.

Nelle vicinanze di Sora era la borgata di Cereale, povera ed ignobile, ma memorabile nella storia come la patria di C. Mario, il celebre figliuol di Fulcinia.

Affluente del Liri è il Fibreno (Fibrenus fluvius), il quale discende dalle radici di altissime ed orride balze, ed ha limpide e fresche acque. E dove il Fibreno si congiunge col Liri e forma un'isola amena e dilettosa fu la villa de' Tullii, dove nasceva l'illustre oratore di Arpino, e della quale restano ancora alcuni monumenti, e sono mura di opera reticolata e rotte colonne.

E un miglio lontano dalla villa, dove il Fibreno dividesi in due rami, era il ginnasio o luogo di studio dell'oratore, in un'amena isoletta ch'egli chiama l'isola de' beati, e ch'egli ornò di portici, colonnati, statue, imitando quella del suo Attico in Epiro. Qui Cicerone scrisse il trattato delle leggi e alcune sue orazioni. Quell'antico ginnasio era nell'isola oggi detta Carnello, nel luogo in cui sono le valchiere, cartiere e molini regii, ed un antica torre forse del Medioevo.

Arpino ( Arpinum) era a mezzodì di Sora, al di sopra dell'odierno Arpino, una delle più antiche e celebri città de' Volsci, di origine greca, e propriamente pelasgica, come quella delle vicine città degli Ernici. Arpino fu città de' Volsci, e fu la patria di Mario e di Cicerone: ai Volsci fu tolta da' Sanniti, ed ai Sanniti da' Romani.

Arpino, come molte altre città italiche antichissime, venne prima fondata sulla vetta di una roccia dirupata, donde discopresi un vasto ed ameno orizzonte; ma di là discesero gli Arpinati in processo di tempo, e alla distanza di un miglio, sopra una collina inferiore e da presso al Liri, fondarono la nuova città.

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I ruderi che ne sopravvanzano sulla roccia, nel luogo detto Civita ed Arpino vecchio, sono le sue mura pelasgiche dell'acropoli, sulla sommità della quale notasi ancora un monumento ciclopico, volgarmente detto la Casa di Cicerone, ch'è un avanzo del ierone o tempio che vi fu in origine edificato, come ad Alba Fucense ed in altre città pelasgiche. E dell'antica città non restano che le mura di enormi macigni senza cemento, e quattro archi sotterranei.

Atina fu città de' Volsci, nel luogo della moderna, una delle più antiche e forti delle nostre regioni. È ignota la sua origine, ma fu certamente di un'antichità remotissima, se vuol trarsi argumento dalle forti mura ciclopiche. Una parte della città presente è fondata sulle rovine dell'antica, e lo dimostrano le mura e le porte, e rottami di colonne, di statue e di marmi, e rovine magnifiche di edificj, ed un musaico di minutissimo e finissimo lavoro, e rovine dell'acropoli e di sepolcri piramidali, e avanzi degli acquidotti.

Arce (Arx) sorgeva tra Arpino ed Aquino, ed era città de' Volsci. Aveva mura saldissime, pari a quelle di Atina ed Arpino, ed un'inespugnabile rocca, ond'è da giudicarla di un'antichità remotissima, e da porla tra le città saturnie di questa contrada. Sussiste anche oggi nella piccola terra di

Arce, 7 miglia lontana da S. Germano, alle falde meridionali di un'alta montagna. Sulla vetta di quella montagna, dove ora sorge il paesetto di

Rocca di Arce, sopra un'altissima e nuda roccia, era l'acropoli; e sebbene non ne restino che scarse rovine, pure i pochi avanzi delle mura poligone che vi si veggono sono bastanti per darci un'idea de' forti propugnacoli de' nostri popoli antichi.

Nelle vicinanze di Arce e di Arpino, Cicerone, fratello dell'Oratore, vi avea innalzato diverse ville, ed erano belle e superbe, siccome la Manliana, la Bovillana, la Lateria; ma sopra tutte le altre era magnifica quella edificata da presso di Arce, che fu detta Villa Arcana. Parve a Cicerone opera da Cesare, o più veramente di qualche altro romano di Cesare più splendido e magnifico; ed egli discorre dell'acquidotto, delle statue, della palestra, della piscina e del nilo di questa villa, o de' rivoletti a somiglianza del fiume egizio che nella piscina s' immettevano. La villa era situata ad oriente di Arce in un dolce declivio nel luogo detto Fontana buona, dove si veggono ancora i ruderi di opera reticolata, e dove furono scoverte statuette di greco scalpello, di marmo e di bronzo, grossi macigni lavorati elegantemente, mura dipinte, vasi, anfore, dolii di terra cotta.

Casino (Çasinum vel Cassinum) era appiè di un alto monte presso il piccolo fiume Rapido, a 14 miglia da Arce, importante e antica città nella regione de' Volsci. Fu conquistata da' Sidicini, e cadde, dopo le guerre sannitiche, sotto le armi romane. La dolcezza del clima, la fertilità del suolo, e le sorgenti freschissime che in più rivoli ne irrigavano il territorio, vi richiamarono molte famiglie romane. La città era sulle falde del monte che ne conserva il nome, e sull'area della presente città di S. Germano; ed ivi sono molti rottami di colonne, e rovine di sepolcri e di altri pubblici edificj, di un teatro e di un anfiteatro. Molti avanzi dell'antica città ornano oggi la Badia Cassinese.

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Di là dell'Anfiteatro di Casino e della Via Latina era la villa del celebre M. Terenzio Varrone, della quale restano pochi ruderi di opera reticolata nel sito detto i Monticelli, in un'ampia pianura irrigata dal Rapido. E in questa villa, che forse alle altre antepose di Tuscolo e di Cuma, Varrone già vecchio scriveva le sue opere, e segnatamente le agrario, quando, sottrattosi alle agitazioni della vita pubblica, intese solo alle lettere e ai piacevoli studj.

Aquino (Aquinum) era tra le più grandi e popolose città de' Volsci, in un'ampia e fertile pianura, sulla Via Latina; e conservò il suo antico splendore sino ai tempi dell'Impero, come raccogliesi da Strabone, e come dimostrano le molte iscrizioni, e le rovine che veggonsi anche oggi a breve distanza dalla città moderna, nel sito detto Cirila Vetere, tra le quali si notano gli avanzi delle sue mura di sassi quadrati, i ruderi di varj templi antichi, e di un teatro e di un anfiteatro, ed un arco trionfale di stile corintio e jonico.

Fabrateria era sul corso della Via Latina, 8 miglia antiche lontana da Aquino, diversa da un'altra città omonima e più antica, donde trasse l'origine. La città allargò i termini del suo territorio, e crebbe di popolazione con la distruzione di Fregelle, e perciò fu distinta col nome di Fabrateria Fregellana. Il luogo di essa pare che fosse nel piccolo paesetto di Falvetera, ne' confini del regno e della Campagna romana.

Fregelle (Fregellae) era sulla destra sponda del Liri, attraversata dalla Via Latina, ed era tra le più antiche città d'Italia. Fu posseduta in origine dagli Opici, o da' Sidicini, i quali furono della stessa stirpe; e dopo fu posseduta successivamente da' Volsci, da' Sanniti, da' Romani.

Della ampiezza ed importanza di questa città sono una ripruova certa le grandi rovine delle sue mura, formando una figura multilatera, del perimetro di circa due miglia e mezzo, nel territorio di S. Giovanni Incarico, là dove il Tolero (il Sacco) sbocca nel Liri. Ed ivi, tra le altre macerie, veggonsi ancora colonne spezzate, marmi ed avanzi di antichi edificj, e idoletti, vasi, bronzi, e ruderi di magnifici templi. Ebbe il suo porto in quello che oggi dicesi Porto dell'Isola, di rincontro Isoletta.

Interamna era città de' Volsci, sopra quel ramo della Via Appia che riuniva questa città con Aquino e Casino. Era situata sotto Pontecorvo, alla sinistra sponda del Liri, e nell'estesa area che occupava, dove tuttavia rimane il nome di Teramo, si veggono avanzi di edifizj, di acquidotti, strade e mura antiche.

Tra le vie della regione de' Volsci, noteremo la Via Latina, la quale, partendo da Frosinone, fuori de' nostri confini, correva a Fregelle; ma prima di giungere a questa città un ramo di essa, passando il Tolero, menava a Fabrateria, donde per un'altra via traversa si passava a sinistra ad Arce, Arpino e Sora, e più oltre nel paese de' Marsi, A destra la Via Latina, a 4 miglia da Fabrateria, giungeva ad un ponte sul Melfi, e dopo altre á miglia ad Aquino, e dopo altre 7 miglia a Casino.

Nel dominio de' Volsci furono le cinque isolette che sorgono nel Tirreno verso la maremma dello Stato Pontificio, e che si appartengono al Reame delle Due Sicilie. Strabone ne nomina due come le più grandi, Potizta e Pandataria; Pomponio Mela e Plinio aggiungono Sinonia e Palmaria, e Tolomeo la quinta col nome di Partenope. Tre sono più dappresso alla marina che fu de' Volsci e al promontorio Circeo, e sono Palmaria, Ponzia e Sinonia, e, dalla più grande che abitarono, furono anche distinte col generico nome di Ponzie.

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Queste cinque isole, con le altre d' Ischia e di Procida, formano una specie di catena semicircolare, che dal capo Miseno si prolunga insino al Circeo. Motti scogli sono frapposti in fra esse, dei quali alcuni in tempo di calma si ravvisano a poca profondità nel mare, molti si elevano sulle acque, e i più considerevoli sono tra Ponza e Ventotene.

Sinonia, oggi detta Zannone, è lontana dal monte Circello intorno a 15' miglia. Scoscesa in tutte le sue parti, con piccole colline parallele, mostra nelle sue bianche lave le tracce di un antico vulcano; né pare che fosse stata mai abitata ne' tempi antichi e ne' secoli a noi più vicini.

La Palmaria de' geografi antichi, oggi detta Palmarola, prolungasi di là dell'isola di Ponza; non l'abitano pescatori o coltivatori, e serve solo a quei di Ponza per coltivarvi qualche vigneto; nè vi sono ruderi o ricordanze che la mostrino popolata ne' tempi antichi. Tra' dirupi e le balze che la circondano, e che scendono a picco sul mare, si aprono molte grotte, albergo di soli uccelli notturni.

Ponzia (Pontia), a brevissima distanza da Palmarola e da Zannone, e poche miglia da monte Circello, sorge 1a più grande e più rinomata di queste isole, e conserva l'antico suo nome. Quel nome le venne probabilmente dal culto di Venere Ponzia, protettrice del mare e de' porti, adorata in Ermione, città dell'Argolide; e le venne imposto da' Pelasgi, abitatori primitivi di quella regione, e che nell'isola passarono dalla spiaggia che poi fu de' Volsci. E nelle sacre isole, abitate dagl'illustri Pelasgi, è da comprendere anche questa, benché men grande delle più lontane Pitecuse, ma al pari di esse popolata da tempi remotissimi. Ponza è tutta vulcanica; e se ne veggono sensibilissime tracce nelle lave bianche e biancastre che formano quasi tutt'i monti, tutte le balze, tutti li scogli dell'isola, come in quella d'Ischia e ne' campi Flegrei. L'isola passò da' Volsci ai Romani, e sotto l'Impero fu destinata come Pandataria all'esilio d'illustri personaggi.

Pandataria, ora Ventotene, si distende di oriente inverso occ

idente, con èëà forma molto irregolare, avendo una lunghezza di due miglia, ed una larghezza varia, ma che non oltrepassa i 500 passi. Poco elevata sul livello del mare, scoscesa in tutta la sua circonferenza, non vi si pu

ò approdare che per un piccolo porto, della forma di un canale, scavato dagli antichi ne' tufi vulcanici da cui è formata. In tempi remotissimi fece forse parte della stessa isola di Ponza; e, ai tempi de' Romani, fu del pari ch'essa abitata e coltivata; fu luogo di proscrizione, e sopra questo scoglio solitario perì di fame Agrippina, la magnanima sposa di Germanico. Disabitata ed inculta per più secoli, fu ripopolata nel 1770.

La Partenope di Tolomeo, ora detta S. Stefano, è a sudest dell'isola di Ventotene, e quasi di rincontro al suo porto. È un vulcano estinto; e le altissime balze della parte orientale ed occidentale sono formate dagli enormi massi di lave di questo vulcano, che paiono discese in vaste correnti dal cratere, ed indurate al contatto dell'acqua, precipitandosi nel mare.

Il suolo dell'isola è fertilissimo, essa è abitata fin dallo scorso secolo, per cagione dell'ergastolo ivi stabilito.

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Ausoni o Aurunci

L'Ausonia fu la regione abitata dagli Ausoni, e stendevasi lungo la costa del Tirreno dalle vicinanze di Terracina ad occidente, dove confinava co' Volsci, infino a Mondragone (Sinuessa) a mezzodi, dappresso alla Campania. Al di sopra de' fertili colli e delle vaste pianure ¿agnate dal Garigliano, e che hanno termine al mare, l'Appennino circondavala da settentrione ad oriente, e confinava co' Volsci montani e co' Sidicini nella contrada di Teano. Ond'èche, distendendosi non solo nella valle inferiore delLiri, ma ancora verso i monti, comprendevasi nell'odierno distretto di Gaeta, nella provincia di Terra di Lavoro.

I monti Lepini, che dividono ad occidente la valle inferiore del Liri dalle Paludi Pontine, e terminano sulla costa di Terracina, separavano l'Ausonia dall'Agro de' Volsci; e con quella diramazione appennina rannodasi quell'altra che viene dalla Campagna romana e che forma i promontorj di Terracina e di Gaeta. Il Tárele, il Faggeto, il Dofato, il Chiavino sono i monti più alti di questa regione, dalle cui vette coverte di boschi tutto dispiegasi all'occhio il Tirreno con le isole da Capri a Zannone, e monte Circello, le paludi pontine, l'agro romano sino ad Anagni, la pianura un di traversata dalla Via Latina, e Capua e il Vesuvio. Profonde e tortuose caverne serpeggiano nel seno di questi monti, e pendono in esse stalattiti di forme assai bizzarre, e tra le quali sono rotabili quelle di Pastena e l' Arnale della lustra nel borgo di Gaeta.

La contrada è tutta vulcanica, ed offre tracce sensibilissime delle grandi commozioni sofferte. Non è bagnata da altri fiumi che il Liri, di cui forma la valle; ma scorrono intorno molti fonti e flumicelli, de' quali alcuni s'ingrottano nelle viscere de' monti.

Vario è il clima del suolo, siccome è varia la superficie, e da quello assai mite della marina e delle pianure si passa al temperato delle valli e dei colli e al rigido de' monti. La contrada è amena e fertile, e qui vegeta la vite, l'ulivo, l'arancio, il fico, la quercia, il pino, e tutti gli alberi utili e le piante e i fiori di che abbonda il nostro paese, e la terra offre copiosi ricolti di frumento; e qui producevasi il celebrato vino Cecubo.

Ignota è l'origine degli Ausoni, o almeno molto incerta e contrastata; ma in mezzo alle molte e varie opinioni, noi seguiremo quella che li vuole venuti dalla Grecia in Italia in tempi remotissimi. E antichi e possenti popoli d'Italia furono gli Aurunci, e cosi forti e bellicosi che alcuni scrittori li posero tra' giganti; e Virgilio celebrava l'arma di Turno come di un guerriero aurunco, e l'alta statura di questi popoli è ricordata da Dionigi, ed è dimostrata ancora dalla grandezza de' loro sepolcri. Ma ignote essendo le vicende di questi popoli antichi, diremo che gli Ausoni e gli Aurunci furono riuniti insieme, e forse non furono che un popolo solo; ch'essi combatterono contro i Romani, e che avendo parteggiato pe' Sanniti, e non avendo voluto ricevere presidi nelle loro città di Minturna ed Ausona, quelle città furono distrutte e insieme con esse cancellato il nome degli Ausoni. Restano intanto non pochi avanzi delle loro città, e noi ne ricorderemmo i monumenti più degni di memoria.

Le Lautole furono uno stretto passaggio nella regione degli Ausoni, che prese nome dalle acque termali come quello delle Termopili, ed era a breve distanza da Terracina, sulla strada che menava a Fondi; e se n'è riconosciuto il luogo al di là di Portella, ne' confini del Regno e della Campagna romana.

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E quivi intorno era la villa dove sorti i natali l'imperatore Sergio Galba, nel luogo detto oggi Villa di Monticelli, dove veggonsi non pochi ruderi di fabbriche romane.

Amicle, posta di qua dello stretto passo delle Lautole, sul golfo ausonio, fu una delle città più antiche d'Italia, fondata dagli Amiclei di Laconia, i quali vennero sopra queste marine, già popolate da' Pelasgi Tessali; e fu in una bella pianura, ora tutta boscosa, cd in luogo delizioso e ridente, presso al lago di Fondi, il quale perciò fu detto Lago Amiclano. Amicle t'u distrutta da tempi molto remoti, e le tradizioni circa la sua distruzione non sono men dubbio e favolose della sua fondazione; ma pure dopo distrutta conservò qualche celebrità, e, sotto l'Impero, dicevasi mare amidano il golfo sulla cui spiaggia era posta. Pochi avanzi di antichi edifizj detti Grotte di Amicle si veggono all'entrata della Selva di Fondi, ed è tutto quello che sopravvanza dell'antica città.

Nelle vicinanze di Amicle Plinio descrive il luogo dell'antica Ausonia, ch'ebbe nome di Spelonca, cosi detto da una delle naturali caverne che si aprono sopra quella spiaggia, e che dalle magnifiche ville de' primi tempi dell'Impero ivi innalzate, tra le quali primeggiava quella di Tiberio, crebbe facilmente e formò un qualche pago ai tempi del geografo.

La Via Flacca, che da Terracina menava al porto di Gaeta, passava innanzi alla villa Spelonca, le cui reliquie giungono insino al lido; ed un ponte dalla grotta conduceva al Pretorio, nel luogo ora detto Bazzano.

Tra la riva del golfo di Caieta e la città di Fondi, stendevasi l'agro Cecubo, famoso una volta per l'eccellenza de' vini che produceva. L'agro Cecubo si ravvisa ne' dintorni del Lago lungo, e i colli cecubi in quelli di Sperlonga, che conserva il nome dell'antica grotta. Il lago di Fondi era nell' agro Cecubo; e Plinio, parlando delle isole galleggianti, parla di quest'agro; né si puo credere che qualcuna ve ne fosse altrove che nel detto lago, la più spaziosa laguna dell'Ausonia.

A settentrione della selva di Fondi era il lago che fu detto Amiclano, vicino alla distrutta città di Amicle, e celebre nell'antichità per le isole galleggianti. Ed anche oggi, l'onda agitata da' venti, qualche parte distaccando dagli aggregati di terra e di radici, e di foglie e rami secchi che si accumulano alle sponde del lago, e che i pescatori ivi chiamano ballène, forma queste isolette, state maravigliose per gli antichi. Quel lago è quell» stesso che oggi noi diciamo di Fondi, ma meno ampio dell'antico.

Fondi (Fundí) era sulla Via Appia, nello stesso sito dove oggi sorge la città di Fondi, in una vasta pianura, tre miglia lontana dal mare. Fu città degli Ausoni, grande e popolosa e ben fortificata, ed ebbe belli edificj. Sulla porta detta di Portella, in cui sono evidenti segni di antichità, leggesi un'epigrafe nella quale sono ricordate le porte della città, le torri, le terme e le mura. Non resta alcun vestigio delle terme, ma rimangono le mura e sono di costruzione ciclopica, e alcune torri rotonde sul muro pelasgico, simile a quelli di Cora e Voltera, composto di poligoni irregolari lunghi da otto a nove piedi e alti da quattro a cinque. Ebbe templi superbi nella città e fuori delle sue mura, e, tra gli altri, uno dedicato ad Iside, sopra un ameno colle, dove veggonsene ancora i fondamenti magnifici; e si osservano ancor sparsi qua e là ruderi di opera reticolata, sepolcri, urne cinerarie e monete.

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Dal confine marittimo dell'antica Ausonia in sino alla punta di Gaeta, e propriamente da Terracina a Gaeta, si distende l'ampio golfo che i Latini chiamarono Cateto; ed ebbe tal nome da' Laconi (quelli che fondarono Formia ed Amicle) i quali cosi appellavano le caverne; e certo 'grandi spelonche si veggono sopra tutta quei la spiaggia. Gli antichi scrittori parlano di Gaeta come golfo e come porto: la città si formò poco a poco e in processo di tempo, e probabilmente dopo la distruzione di Formia, avvenuta intorno all'anno 842; e in origine non fu che una piccola borgata per uso della gente di mare e di quelli stessi che vi approdavano.

E sopra questa spiaggia amenissima vennero ricchi e possenti Romani e vi fondarono ville superbe; ed oltre alla testimonianza degli antichi scrittori, lo dimostrano i superstiti monumenti, le lapide, le reliquie di fabbriche antiche che si stendevano insino al lido, i grandi avanzi di arcate, di acquidotti, i serbatoi di acqua, gl'idoletti, le medaglie; ed ivi vi avea magnifici sepolcri: e sulla pendice, o sulla cima di apriche collinette, sorgevano templi superbi, de' quali alcuni erano sacri a numi egiziani.

Lamia o Formia (Formiae) sorgeva sulla marina ausonia, nella Via Appia, e fu antica e celebre città. Ne'tempi più remoti fu detta Lamo o Lamia, togliendo quel nome o dalla libica vergine Lamia, rapita da Giove e portata in quel lido, o dalla città tessala di Lamia, bagnata dal fiume Acheloo, il quale nome poterono riprodurre in Italia i Pelasgi-Tessali. Ma lasciando le mitiche tradizioni, da cui è circondata la primitiva Lamia, dinamo solo che in essa entrarono i Laconi, quelli stessi che fondarono la vicina città di Amicle, e per la bontà del suo porto, i nuovi abitatori cangiarono il primo suo nome in quello di Formia. E se vogliamo giudicarne dalle sue rovine fu città cospicua e popolosa, e vi avea magnifici templi, e acquidotti, fontane, terme.

Il dolce clima e la fertilità della terra e del mare, e i deliziosi colli produttivi di quei vini eccellenti tanto lodati da Orazio, traevano i ricchi Romani in questa amena contrada, i quali qui nelle vicinanze di Formia innalzavano ville superbe, tra le quali ricorderemo quella di Cicerone, un miglio quasi prima di giugnere a Formia, a destra della Via Appia> e che fu detta Formiana. Ed era grande e magnifica, giocondo ricovero, secondo che dice Plutarco, per la state, quando più soavi spirano i venti etesii. Il luogo della Villa Formiana fu riconosciuto ne' grandiosi e bei ruderi su' quali fu fabbricata la Villa Marsana, ora di Caposele, alla simstra di Castellone. Poco discosto di là era il sepolcro di Cicerone, sulla falda del monte detto Acerbara, di forma rettangolare, coverto di grossl quadroni di travertino. E nel villaggio di Castellone, nel luogo etesso della Villa di Cicerone, fu riconosciuta la fontana Artacia (Artacia Fons) ricordata da Omero, e celebrata da Catullo.

Pire (Pgrae) era tra Formia e Minturna, sulla spiaggia ausonia, ed è nota solo per la testimonianza di Plinio. Fu fondata da' Pelasgi, i quali pare che avessero voluto in quel nome ricordare la Pirea, parte nota della Tessaglia

Minturna (Minturnae) era sulla Via Appia, dieci miglia lontana da Formia, ed era grande e antica città degli Ausoni, quantunque sia sconosciuto il tempo della fondazione. Parteggiò pe'Sanniti, e fu conquistata da' Romani, i quali ne traevano marinai e attrezzi navali per la flotta romana.

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La città era sulle due sponde del Liri, e vi rimangono grandi avanzi di mura, di un teatro, di un grande anfiteatro, e i ruderi di un acquidotto, che dal vicino colle conduceva nella città salutifere acque. Molti antichi monumenti di Minturna furono adoperati all'edificazione di Traetto.

Sulla marina, e a breve distanza dalla città, era il bosco sacro alla Ninfa Marica, che il Liri traversava prima di metter foce nel mare, e che i Minturnensi aveano in grande venerazione. La Ninfa aveva un tempio sulla vicina spiaggia, che alcuni antichi attribuivano ad Afrodite o Venere. In quel tempio rifiugiavasi C. Mario, e di là con vento favorevole partiva alla volta dell'isola Enaria, per salvarsi da' suoi persecutori.

Vescía era città degli Ausoni, posta di qua di Minturna; e trasse questo nome probabilmente dalle eccellenti produzioni del suo territorio. La prima memoria di questa città non risale ad un'epoca anteriore all'anno 337 avanti l'era volgare, allorché i Latini vi si rifugiarono combattuti dai Romani nelle due battaglie presse il Vesuvio e la città di Minturna. Quindi cadde in potere de' Romani, e fu distrutta insieme con le città di Minturna e di Ausona.

Ausona era poche miglia a settentrione di Minturna, città antichissima fra tutte quelle che gli Ausoni abitarono, e forse la città primaria. Toccò ad Ausona la sorte stessa che a Minturna, per avere inclinato alle parti de' Sanniti nella guerra combattuta presso Lautole. Il luogo deli1 antica città si crede che fosse nella terra di Fratte, in una bella pianura, presso le sorgenti del piccolo fiume Ausente, dove furono trova ti molti mar m i lavorati con frammenti d'iscrizioni, colonne spezzate, capitelli e ruderi di un'antica fontana.

Trifano (Trifanum) fu città o villaggio degli Ausoni, ricordata per la vittoria che il C. Manlio Torquato quivi intorno ottenne sopra i Latini collegati co' Sanniti e co' Campani. Quel luogo, cosi detto da tre templi che sorgevano in esso, era posto tra Minturna e Sinuessa.

Suessa era nella destra del Liri, un miglio distante dal monte Massico, sei miglia dal mare, e sopra vago ed aprico colle, ed era grande e cospicua città degli Aurunci, fondata probabilmente da' Pelasgi, e distrutta da un'eruzione vulcauica, siccome Ercolano e Pompei. Che fosse illustre e popolosa lo dimostrano le molte lapide, e i ruderi dell'antica città che si veggono fuori dell'odierna Sessa, mura di opera reticolata, colonne, acquidotti, ruderi del Circo, delle Terme, del Teatro e di superbi templi.

Aurunca fu una delle città più antiche di queste nostre contrade, fondata probabilmente sul colle della Serra, in fra i Suessani e i Sidicini. Ed ivi veggonsi le rovine di antiche mura, come quelle di Tirinto, Cori, Ruselle ed Arpino; e in queste rovine, di massi vulcanici e di costruzione ciclopica, e troppo remote per una rocca, è forse da riconoscere un tempio della città, dove ancora i paghi vicini si riunivano, come in quello di Alba nel Lazio.

Cale ( Cales) era città degli Ausoni, di assai remota antichità, e tanto che Virgilio pone i Caleni tra gli alleati di Turno. Fu probabilmente fondata da' Pelasgi; divenne in processo di tempo soggetta o collegata co' Sidicini, e insieme con essi combatté contro i Romani, da' quali venne espugnata. Era ricca e popolosa città, ed ebbe monete sue proprie, e fu celebrata pe' vasi e le anfore che ivi si formavano. La città di Calvi pare sia succeduta all'antica Cale; ed ivi rimangono gli avanzi di un Teatro, nel luogo detto le Grotle, e ruderi di templi e di altri pubblici edificj.

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Diverse vie mettevano in comunicazione gli abitatori della descritta regione co' popoli confinanti, i Latini, i Volsci e i Campani. Principale fra queste e più antica fu l' Appia, la quale da Terracina alla foce del Liri, dividevala in due contrade, nella littorale o meridionale e nella montuosa o settentrionale. Partendo da Terracina quella via traversava Fondi, Formia, Minturna, e di là conduceva a Sinuessa, prima città della Campania; ed altre strade si diramavano da Amicle e da Formia, e riunivano queste città col porto di Gaeta, ed altre strade minori si sviluppavano in ira la Via Appia e la Latina, tra le quali era rinchiusa la regione Ausonia; e tate era la Via Flacca, la quale declinando sotto la marina passava per la rupe di Sperlonga, e serpeggiando dentro terra pe' colli di Gaeta, volgeva verso il, porto di Formia.

Agro Sidicino

I Sidicini abitarono le colline orientali di Rocca Monfina, e fu angosto il loro territorio, ed unica città quella di Teano, non compresi altri paghi e villaggetti, che fecero probabilmente parte della regione, ma de' quali non è rimasta alcuna memoria. I Sidicini erano in fra gli Aurunci e i Campani, e distendevasi il loro agro nelle valli e ne' colli terminati a mezzodi dal territorio di Calvi e di Sessa, e ad oriente e a settentrione da' monti di Venafro.

I Sidicini, del pari che gli Aurunci, i Volsci e i Campani, furono di stirpe osca, ed osco ebbero il linguaggio. Le prime memorie de' Sidicini cominciarono con le invasioni de' Sanniti, da' quali furono vinti, e insieme co' quali caddero sotto la dominazione romana, dopo avere opposta una forte resistenza. E la topografia dell'agro Sidicino noi riduciamo a queste poche notizie intorno alla grande città ch'essi abitarono.

Teano Sidicino era sulla Via Latina, presso le fonti del Savone, tre miglia lontana da Cale e sei miglia da Suessa. Fu greca la sua origine, e in tempi molto remoti;fu sottoposta ai Romani, de' quali segui la varia fortuna. Sono argomento della sua grandezza e celebrità gli avanzi de' suoi monumenti, l'Anfiteatro, il Circo, il Teatro e le Terme, i sepolcri, i templi superbi di cui rimangono i ruderi e le lapide; e sono notabili le sue medaglie di argento e bronzo, con leggenda in caratteri osci e latini.

Opicia o Campania

La Campania è la terra felice e dilettosa che si abbassa in un'ampia estensione di paese, tra il Mar Tirreno e l'Appennino, ed è la più nobile delle nostre contrade, una delle più belle e più vaste nostre pianure, formata dalle valli del Volturno, del Clanio, del Rubeolo, del Sarno, cinta per una parte dal mare, e per l'altra da alte e continue montagne. La spiaggia, divisa in piccoli seni, baje e promontorj, s'incurva in due golfi, uno da Rocca di Mondragone al promontorio di Miseno, l'altro piu vasto dal promontorio di Miseno a quello della Campanella.

Il monte Massico co' colli di Sessa e i monti di Rocca Monfina dividono questa regione dalla valle del Garigliano, in cui si distese l'Ausonia; e il ramo che distaccasi dall'Appennino e forma la penisola sorrentina, la divide dalla valle del Sele, o dall'antica regione de' Picentini. Una parte del Volturno, il monte Callicola, i Tifali, il Taburno erano i naturali confini tra la Campania e il Sannio; e quella diramazione dell'Appennino che corre tra Avella ed Avellino formava il suo confine orientale e la separava dagl'Irpini.

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La vasta pianura della Campania si divide in altre minori, che diconsi di Capua, di Aversa, di Caserta, di Acerra e di Nocera, e in quella del Sebeto presso al mare, la quale si dilarga in quella di Ñola. E presso alla marina di questa contrada sorgono le amene isole di Capri, di Nisida, staccatasi dal prossimo Capo di Posillipo, e le isole di Procida e d'Ischia, parti anch'esse una volta del vicino continente. Tre gole, aperte dalla natura nell'arco degli Appennini che circoscrive la vasta pianura campana al nordest, aprono una comunicazione in fra questa pianura e le altre dell'opposto lato dell'arco, una volta comprese nel Sannio Caudino; e sono quella di Triflisco, a breve distanza da Capua, tra l'estremità settentrionale de' Tifati e i monti della Piana; quella di Maddaloni, in fra il termine orientale de' Tifati e i monti di Durazzano, congiunti co' magnifici ponti della Valle; e quella di Arienzo, chiusa tra' monti di Durazzano e quei di Cervinara.

La Campania trasse probabilmente quel nome dalla conformazione particolare del suo territorio, formato di vaste pianure chiuse da' monti e dal mare; se pure, come pare più probabile, non le venne dalla Campania dell'Epiro, essendo che di là passarono i Pelasgi, i quali poi tutta occuparono la spiaggia che si distende da Sinuessa alla foce del Silaro.

Questa feconda e amenissima regione fu il teatro di grandi commovimenti della natura, e sono sensibilissime le tracce dell'azione del fuoco interno del globo. I monti sono tutti di origine vulcanica, e quindi furon detti Campi Flegrei, i quali pare fossero stati in tempi remotissimi sottoposti alle acque del mare, siccome dimostrano le conchiglie marine. E sono crateri de' Campi Flegrei, in fra gli altri, la Sulfatara, di figura quasi ellittica; l'ampia ed ubertosa pianura di Quarto, le cui grandi correnti di lave giunsero sino ad Aversa ed a Patria; e i laghi di Licola, e l'Averno e il Lucrino, la cui vulcanica natura basta a darci una immagine terribile di questa regione ne' tempi antistorici, e a spiegarci le favolose credenze de' poeti, che gli aditi qui immaginarono de' recessi infernali.

Risalendo a quell'età remotissima in cui la Campania si riposava dalle grandi commozioni sofferte, e l'acqua e il fuoco, come stanchi delle loro lotte gigantesche, pareva fossero in tregua, e lasciassero la terra capace di essere abitata, il suolo della Campania fu popolato dagli Opici, e la regione prese da essi il nome di Opicia. Ma Ausoni, Aurunci, Opici ed Osci, secondo le testimonianze di antichi scrittori, non furono che una stessa antichissima gente italica, la quale probabilmente ebbe prima il nome di Opici e poi quello di Ausoni; e derivarono da' primi Tirreni, ai quali si aggrupparono in processo di tempo gli Umbri e i Pelasgi. Se l'Italia fu dai tempi più remoti sottoposta a diverse invasioni di popoli, la felice ed ubertosa Campania fu la più disputata fra tutte le contrade d'Italia; e n'erano cagione la fertilità del suolo, la dolcezza del clima, e la comodità dei porti. E restringendoci alle colonie, delle quali ci rimangono le memorie certe della storia, noi diremo, che i Pelasgi si unirono, quindici secoli avanti l'era volgare, ai primitivi abitatori della Campania, la quale Plinio riguardò come un certame dell'umana voluttà; ed essi si distesero in fra il Tevere e il Liri, e penetrarono nell'Opicia, e fondarono la città di Larissa. Le colonie Ulissee nella regione Cumana e nella città di Sorrento sopravvennero forse, se non furono più antiche, a quelle de' Pelasgi: esse risalgono ai tempi mitici, e la cronologia è molto incerta.

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E non pochi monumenti sparsi sulla costa occidentale d'Italia, da Preneste sino all'istmo Scilacio, o dall'antico Lazio alla nostra Calabria, serbavano memoria ne' tempi romani di colonie qui giunte dal piccolo stato d'Itaca, e condottevi ancora da' prossimi Leucadii, come ci dimostra il culto del nume di questi popoli, confuso sin da' tempi Omerici con l'eroe d'Itaca. I luoghi che circondano Cuma, non che il promontorio sorrentino, ebbero ad essere le sedi di queste colonie Ulissee; e Silio Italico dinotava Baja col nome di sede itacesia, e ad Ulisse attribuivasi egualmente la fondazione del tempio di Minerva sul promontorio sorrentino.

Altre colonie vennero formate nell'Opicia, e prima di tutte Cuma, per opera probabilmente de' Calcidesi, i quali popolarono in processo di tempo le prossime isole Pitecuse, e di là, cacciati da' terremoti e dalle vulcaniche eruzioni, si dispersero nell'opposto continente, dove fondarono Nola ed Abella, e penetrarono nella regione che fu poi degl'Irpini, dove fondarono Compsa ed Abellino. E nuova colonia, composta di Calcidesi dell'Eubea, di Ateniesi, di Cumani, fondò la città di Napoli, a breve distanza da Falero, che i Bodiani, intramischiandosi ai primi abitatori, avevano già accresciuta con un'altra loro colonia.

A tutte queste colonie greche, che dopo la guerra trojana occuparono i bei lidi dell'Opicia, si unirono in tempi mal noti gli Etrusci, i quali già occupavano le pianure circumpadane e l'Etruria; ed essi fondarono, secondo più certe testimonianze, la città di Capua, che fu la metropoli di altre undici città e la capitale della regione. Quelle città furono probabilmente Sinope, Larissa, Volturno ñ Literno, a breve distanza dalla metropoli; e più lungi sulla marina, Falero, Ercolano e Pompeja, e dentro terra, Nola e Nuceria, e più lontano Marciana e Salerno, e tutte edificate, secondo che pare, da' Tirreni e da' Pelasgi. Sgagliarditi dall'abbondanza o dal dolce clima di si belle contrade, i primi abitatori furono costretti a cederle ai robusti abitatori de' paesi montuosi, ai bellicosi Sanniti, i quali occuparono Volturno e a poco a poco tutte le principali città della Campania, e formarono la nazione de' Campani, la cui capitale era Capua. E tennero quella contrada i Sanniti sino a che non vennero i Campani vinti e conquistati da' Romani, e non confusero la loro storia con quella di Roma.

La Campania fu la Terra Felice di queste nostre contrade, e l'avventurato abitatore può dire con un antico scrittore: «Qui dove abitiamo non intermette il cielo di risplendere, gli alberi di verdeggiare, di covrirsi di pampini le viti, i rami d'incurvarsi sotto i copiosi frutti, le messi dilargheggiare le biade, la natura intera di covrirsi di fiori, di vestirsi di erbe i prati, e sgorgare da' monti chiare e fresche acque.» E di questa, più che di qualunque altra regione, può dirsi con le parole di Lucrezio: Soavi fiori ti dà la terra, ti sorridono i piani del mare, e immensa si diffonde la luce nell'azzurro del cielo sereno. Né solo i preziosi e invidiabili doni della natura le meritarono il nome di Campania Felice, ma i ruderi e i monumenti ancora dell'arte antica quello le acquistarono di terra classica.

Qui si manifestarono grandemente la greca eleganza e la magnificenza latina, e la contrada fu tutta ricoverta di belle magioni, di ville sontuose, di sepolcri marmorei, di templi, di teatri, di anfiteatri, e di altri magnifici edifizj, i quali, comechè distrutti ed abbattuti dal tempo, da' Barbari, dall'umana avarizia e dalle stesse commozioni della natura, serbano tuttavia superbe reliquie della loro primitiva grandezza.

Detto ciò cosi generalmente sopra questa terra felice, facciamo di discorrere le città antiche più importanti, e i monumenti più notevoli.

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Sinuessa era la prima città campana, nove miglia lontana da Minturna, sulla Via Appia. La rimembranza delle celebri viti aminee del prossimo agro Falerno fece conoscere l'origine pelasgica di questa città, essendo che gli Aminei furono popoli della Tessaglia, ed i Pelasgi-Tessali furono tra' più antichi che vennero ad abitare l'Italia. Il nome di questa città campana ci ricorda la Ninfa Sinoessa, nudrice di Nettuno, nume noto dei Pelasgi, al quale è sacro il cavallo delle medaglie di Larissa. La città ebbe pure il nome di Sinope, il quale fu probabilmente più antica di quello di Sinuessa. La città ebbe il Foro, un anfiteatro, templi ed altri pubblici edificj, e ne sopravvanzano alcuni ruderi. Ed era appiè del monte Massico, in una piccola pianura, sopra un seno di mare, da cui vuolsi che avesse ricavato il suo nome. Ed ivi gli scrittori patrj ricordano le rovine del suo porto. La città fu distrutta o abbandonata ne' primi secoli dell'Impero, e meno per l'invasione de' Barbari, che per le pestifere influenze delle vicine paludi.

Due miglia lontano da quel luogo sorse Rocca di Mondragone, dalle rovine di Sinuessa; e di là di quel punto la Via Appia incontravasi con un'altra strada aperta da Domiziano e celebrata da Stazio, la quale, incominciando con un arco magnifico, menava per tutte le città littorali della Campania e fini va a Sorrento.

Nell'agro della città di Sinuessa sgorgano acque minerali, celebri e frequentate presso gli antichi, i quali le distinguevano col nome di Acque Sinuessane; e perciò Marziale distinse Sinuessa coll'aggiunto di molle, e Silio Italico con quello di tepente. Le acque sorgono in più luoghi alla base del Monte Cicala, ch'è una collina del Massico, e sono sature di gas idrogeno solforato. Furono frequentate anche nel Medioevo, e note sotto il nome di Caldane. Sulle rovine delle antiche terme riedificava questi bagni sinuessani il duca di Sessa Consalvo di Cordova, ed innalzava un trofeo alla memoria dell'avolo, il gran Capitano, il quale vinceva i Francesi alle sponde del Liri. Quelle acque sono oggi del tutto abbandonate.

E in questo luogo noteremo, che di sopra a Sinuessa sorgeva presso la Via Appia il villaggio detto Petrino o Villa di Lepta, il quale ebbe un tempio dedicato a Venere Felice, di forma rotonda e ricco di marmi, come dimostrano le iscrizioni e i ruderi. Il villaggio era appiè del monte Massico, verso il mare.

Il Massico è come separato dall'Appennino, circoscritto dalla pianura di Carinola, e da quelle ove furono Minturna e Sinuessa, e noto sotto il volgar nome di Monte Maggiore. Silio Italico descrive il Massico come lieto di campi vitiferi, da' quali avea principio il celebrato agro Falerno(1). poiché il monte si protende molto verso il mare, i Pelasgi-Tessali, che ne abitarono le vicinanze, gli diedero il nome di Massico, che vuol dire più lungo 0 maggiore.

(1) L'Agro Falerno (Falernus ager) fu posseduto dagli Aurunci, e quindi da' Pelasgi, i quali gli posero il nome che porta. Dal dominio de' Pelasgi passò a quello de' Campani, e poscia de' Romani. I PelasgiAminei della Tessaglia lo piantarono di vili e gli antichi lodano la fecondità, i vini e i frutteti di quest'agro, che i moderni topografi riconoscono a sinistra dell'Appia tra il Savone, il monte Callicola e Calvi.

Confinante con l'agro Falerno era il Campo Stellate (Stellatis campus), a destra della Via Appia per coloro che da Roma muovevauo alla volta delta Campania.

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Quivi intorno era l'agro o Vico Faustiano, su' due lati della Via Appia, celebrato per gli eccellenti suoi vini, che Plinio pone al di sopra di tutt'i vini dell'agro Falerno. Contiguo all'agro Falerno era l'altro detto Statano, onde prendeva nome un vino nobilissimo, il quale vinceva i a eccellenza tutti gli altri de' vicini luoghi e de' lontani, il Falerno, il Faustiano, e quello del Gauro verso Baja e Puteoli.

Due miglia fuori della Via Appia, e otto miglia lontano da Sinuessa era il Foro Claudio (Forum Claudii), il quale fu un'importante borgata di questa contrada. Se ne veggono le rovine in una pianura indicata col volgar nome di Civita rotta, tra il villaggio di Ventaroli e la cosi detta montagna spaccata. E vicinissimo al Foro Claudio era il Ponte Campano, innalzato sul Savone (t), e cosi detto perché era al principio della Campania, e la Via Appia per mezzo di esso conduceva a Capua.

Prima di Capua sorgeva una città o grossa borgata detta Foro Popilio (Forum Popilii); e non lontana di là era un tempo Larissa, città antichissima, fondata da' Pelasgi, e distrutta da tempi molto remoti (2).

Trebula era alle falde del monte Callicola (3), cinque miglia lontana dal Foro Popilio, sul confine della Campania e del Sannio; e fu città importante anche ai tempi dell'Impero. Non è nota l'epoca della sua distruzione, ma pare che la città sia caduta insieme con Capua non prima del IX secolo. I ruderi di Trebula si veggono a piè di un'erta collina, a due miglia da Formicola, e sulla vetta le rovinate mura della sua rocca. Le mura erano di pietre piane senza cemento. Veggonsi ancora avanzi di sepolcri, da' quali furon tratti vasi pregiatissimi.

Venafro (Venafrum) era nell'estrema parte settentrionale della Campania, in più alto sito della città presente. Trasse forse quel nome dalla condizione de' suoi boschi i quali abbondavano di molli cinghiali. La città fu grande e popolosa, e la bellicosa gioventù di Venafro accrebbe le romane milizie nella guerra contro di Annibale ne' malaugurati piani di Canne. Una forte muraglia di poligoni di gran mole cingeva la città nello spazio degli odierni edifizj, e più oltre ancora, in un sito oggi coverto di ulivi. E veggonsi ancora rottami di colonne e di statue, e grossi macigni, che sono forse avanzi del Foro. Non rimane alcuna notizia de' templi, ma le iscrizioni ci ricordano il culto che i Venafrani ebbero per Saturno, Silvano, Giove Celeste.

La Via Latina, giunta da Casino a S. Pietro in fine nella stazione ad flexum della Tavola Peutingerana, spartivasi in due rami, l'uno de' quali menava a Venafro e l'altro a Teano. E comechè in generale precipitata, qualche avanzo ne rimane a traverso de' monti, co' ruderi di sepolcri antichi.

Galeno encomia i vini di Venafro, e in più gran pregio se n'ebbero gli olii, i quali furono riguardati come i più pregiati d'Italia. Plinio ricorda le acque acidole di Venafro, che in varie fonti scaturiscono ancora da una piccola collina calcarea, accosto al Volturno.

(1) Il Savone (Savo Fluvius) fu detto pigro da Stazio, perché dividendosí presse alla foce m più canali, e dilatandosi in varie paludi e stagnanti bacini, mancagli il rapido corso degli altri fiumi. Quel fiumicello raccoglie le acque della china orientale e meridionale del monte di Rocca Monfina, passa tra Calvi e Teano, e mette foce nel mare tra le rovine di Sinuessa e la foce del Volturno.

(2) I Pelasgi diedero il nome di Larissa a molte città ch'essi fondarono nelle varie contrade da essi occupate.

(3) Callicola è nome greco e significa bella ed amena collina, e fu dato al monte che divideva 1'antico agro caleno da quello di Trebula, ed è l'alto e ripido monte che dal settentrione di Calvi si abbassa in amene colline verso mezzogiorno insino al Volturno.

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E grande uso ne fecero gli antichi, se vogliamo trarre argomento da' ruderi di antichi edifizj sparsi in quel sito, da' tubi di pietra e di bronzo, dalle statuette e da gran copia di monete.

Casilinn (Casüinúm) era sul Volturno presso alla Via Appia, lontana sei miglia antiche dalla stazione ad ïoïèò. Il fiume la divideva in due parti, e i Romani innalzarono un magnifico ponte che riunisse l'una all'altra. Benché città piccola, pure il fiume e le mura e le torri la rendevano forte. Cadde ne' primi secoli dell'era volgare; ma rimase il nome di Casilino insino al XIV secolo ad un borgo della nuova città di Capua, distrutto nel 1536 per le nuove fortificazioni Ordinate da Carlo V.

Capua, tre miglia lontana da Casilino, era la metropoli insigne della felicissima regione de' Campani. Sono varie le origini che le furono assegnate dagli antichi scrittori delle cose romane, e da' geografi e da' poeti; e chi vuole che derivasse da Capi, compagno di Enea, o re di Alba nel Lazio; e chi da Capi, duce della colonia sannitica che venne ad occuparla in tempi meno remoti; e chi dal campo, o dalla pianura nella quale fu edificata, celebratissima per la sua fertilità. Ma l'opinione di coloro che vogliono Capua fondata da' Pelasgi pare che sia più probabile, rifermata da qualche rara moneta, e dalla tradizione che i Pelasgi occuparono tutto il territorio ch'è quivi intorno, e la costa del Tirreno da Sinuessa alla regione de' Picentini. I Sanniti s'impadronirono in processo di tempo di Capua, ed essi fondarono la nazione de' Campani, non Capua. Da' Sanniti passò ai Romani, e crebbe grandemente sotto la dominazione romana; e il perimetro della città, come dimostrano i ruderi delle mura, era intorno a sei miglia, e i Romani, ne' tempi più floridi, la pareggiavano alla loro città, a Cartagine, a Corinto, e con una popolazione che oltrepassava 300 mila abitanti. Aveva la città sette grandi porte, e ne uscivano altrettante vie, le quali menavano a diverse parti della Campania. Delle due, dette Casilinense e Fluviale, la prima rivolgevasi verso la città di Casilino, e per essa vi entrava la Via Appia; e l'altra, che riguardava il settentrione ed il Volturno, usciva verso il tempio di Diana sul monte Tifata (1). La via che usciva dalla porta di Giove menava al tempio di questo nume sullo stesso monte Tifata. Tre altre, dette Liternina, Cumana ed Atellana conducevano alle città di questo stesso nome; e l' Albania infine, donde usciva la Via Appia, menava dritto alla città di Calazia.

Ebbe Capua il suo Campidoglio, innalzato nel sito dell'antica Torre di S. Erasmo, oggi Quartiere della Torre; e quivi intorno era il tempio di Giove Tonante, splendido e magnifico come quello di Roma; e il tempio di Minerva e di Diana, che fu detta Capitalina; e i templi di Venere Felice, di Cerere e di Nettuno. E dentro le mura della città sorgevano templi sacri alla Vittoria, a Bacco, Nemesi, Iside, Serapide; e fuori le mura il tempio di Castore e Polluce nel sito di S. Leucio, e poco lungi quello di Mercurio, del quale si scopersero varie colonne presso il villaggio di S. Erasmo, e la tronca statua del nume. E i tipi di quei numi furono conservati nelle belle medaglie di bronzo di Capua: in quelle di argento, ' molto rare, vedesi solo la testa di Giove laureato, e l'aquila che stringe un fulmine.

(1) Quasi un miglio lontano dall'antica città di Capua elevasi il monte S. Nicola, formato da una serie di colline che da presso al Volturno piega inverso Maddaloni. Ed essendo per lo più alpestre, la natura ricoprivalo di elci, e dagli elceti che già vi abbondarono vennegli il nome di Tifata.

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Oltre i templi e il Campidoglio, grandi e superbi edifizj pubblici abbellivano questa nobilissima metropoli della Campania. Le curie, i circhi, il Foro de' nobili e quello del popolo, il teatro, L'anfiteatro e le terme, senza dire di altri edifizi minori, la rendevano splendida e maestosa oltre ogni credere, e degna del numeroso popolo che l'abitava. Ma il più grande, il più memorabile de' pubblici edifizi di Capua fu l'anfiteatro, le cui superbe rovine recano anche oggi grande maraviglia. Fu formato di grandi moli di travertino unite senza cemento, e fu ricco di marmi e di statue e di colonne.

Capua fu una delle più ricche città d'Italia, e fu ricordata per la mollezza e pe' lussureggianti e perduti costumi de' suoi abitatori, i quali gli orrori delle stragi mescolavano ai piaceri de' banchetti, e rallegravano i festini co' crudeli spettacoli de' gladiatori.

Conservò il suo splendore e la sua grandezza sino alle prime irruzioni de' Barbari; ma devastata da' Vandali, incendiata da' Saraceni nell'840, si scompartì in più borghi; e due di essi, quello di S. Maria de' Suri e l'altro di S. Pietro in Carpo formarono in processo di tempo l'odierna città di 5. Maria. alle falde del Tifata, ora monte di S. Nicola, ebbero i Capuani le loro ville; e in quel luogo ameno e salubre, furono scoverti bagni, piscine, are, monumenti sepolcrali

Intorno alle mura della città erano non pochi villaggi, i quali ebbero origine e nome da diversi templi sacri a diversi numi, come si raccoglie dall'antica tradizione e da' ruderi e dalle lapide, e i quali formarono con Capua una città sola. Tale era il Pago di Apollo, di cui sono avanzi i grandi macigni del muro settentrionale e del primo ordine della torre della Chiesa di S. Elpidio in Casa pulla, non che i frammenti di colonne e capitelli di ordine corintio, le colonne intere, i fregi, le basi, i rottami di grandi cilindri di granito orientale e di fabbriche laterizie nell'ingresso dell'atrio della detta chiesa. Il Pago di Giove (Pagus Jovius), il quale fu cosi detto dal nume ch'ebbe un tempio magnifico sull'orientale pendice del monte Tifata. Il Pago delle Muse, a breve distanza dal tempio di Apollo. Il Pago di Marte, forse nel luogo del casale di Marcianise, a mezzodi di Capua, e dove furono trovati rottami di finissimo marmo, di grandi colonne di granito e marmo africano, e lavorati macigni di travertino. Per mezzo di questo pago passava l'antica strada che da Capua menava ad Atella. Il Pago di Ercole (Pagus Herculaneus), confinante col Pago Giovio, nel sito che serba ancora il nome di Ercole, dove furono trovati i vestigi del tempio.

Il Paga di Cerere, ad occidente del monte Tifata, nella sottostante pianura, dedicato a quella dea forse per l'abbondanza di spighe che biondeggiano nelle vicine campagne. Ivi furono scoverti gli avanzi del tempio, colonne, capitelli, statue, e un'ara votiva di assai gentile scoltura, che rappresentava la dea con alcune spighe in mano e un cestino di frutta. Il Pago di Alba (¿Edes Alba) nell'antico agro Capuano, era nella direzione di quella porta della città che dal nome di quel tempio fu detta Porta Albana. E molto dappresso alla città era il Vico Caula, nelle cui vicinanze producevansi quei nobili vini Caulini, celebrati da Plinio e da Galeno. Il Tempio o Pago di Diana, alle radici del monte Tifata, formato da tempi remotissimi, fu uno de' più superbi e de' più celebrati. Presse al Tempio era il boschetto sacro, e, seconde alcuni scrittori, anche un circo, nel quale in onore della dea gareggiavano le quadriglie, ed anche un piccolo teatro. Ed ivi presse scaturivano acque calde e sulfuree, e furono costruite le Terme intitolate a Diana.

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Ad occidente di Capua sopra una costa de' Tifati fu un tempio innalzato a Giove, e fu detto di Giove Tifatino, del cui culto presso i Capuani serbano ricordanza le monete e le lapide. Ed era sulla punta orientale del monte, in un erto poggio dell'amena collina, sulla quale siede la città di Caserta, e propriamente nel villaggio di Piedimonte.

Noteremo infine che il monte Tifata è memorabile pe' militari accampamenti che vi furon posti nelle guerre combattute nella Campania. Qui si accamparono i Sanniti combattendo contro i Sidicini; qui i Romani prima di essere tratti nelle insidie della voile Caudina. E qui fu il campo di Annibale, sul vertice del monte, dalla parte che guarda Nola; e gli alloggiamenti di Claudio Marcello, nel sito della vecchia città di Maddaloni, il cui nome derivato dall'arabo Magdalon (rocca, castello) bene accenna alle romane fortificazioni, nelle quali, riducendosi gli abitatori delle vicine campagne, diedero origine alla città.

Calazia (Calatia) era sulla Via Appia, ad oriente di Capua, piccola città o castello de' Campani. Entrò nelle guerre romane, e cadde a poco a poco ne', primi secoli dell'Era volgare. Il suo luogo pare fosse tra 'l villaggio di S. Nicola e la città di Maddaloni; e le iscrizioni ivi scoverte, le colonne magnifiche, le statue e i rottami di marmi, la dimostrano città culta e ricca di belli edifizj, E poche miglia lontano da Calazia, nelle falde estreme del monte Tifata, incontravasi, sullo stesso corso della Via Appia, il Vico Novanense, posto ne' confini della Campania e del Sannio Caudino. Il quale pare che avesse preso tal nome dal vicino villaggio o stazione detta ad novas, il cui sito pare che fosse nelle vicinanze dell'odierno villaggio di 5. Maria a Vico, dove furono scoverti sepolcri, monete, vasi, idoletti.

Volturno (Vulturnum) era città de' Campani, alla foce del fiume dello stesso nome, quindici miglia lontana da Sinuessa. Del pari che Ostia nell'antico Lazio, Volturno non fu in origine che una piccola stazione di commercianti, ma che divenne in processo di tempo città importante. Il maggiore commercio era fatto da' Capuani, da Casilino a Volturno, dove imbarcavano le loro derrate per più lunghi viaggi di mare fuori o dentro la Campania. Castelvolturno di oggi era una parte dell'antica Volturno, le cui rovine si veggono tra alcuni vigneti dove dicesi la Civita, poco discosto dall'antico ponte costruito sul fiume ad uso della Via Domiziana.

La città pare traesse il suo nome da quello del fiume Volturno (Vulturnus amnis), il quale bagnava il Sannio e la Campania, ed è per abbondanza di acque e per lunghezza di corso il più grande, dopo il Liri, tra quelli che solcano questa meridionale parte d'Italia. Il nome di Volturno derivò da Vultur, e fu pe' nostri antichi il fiume avvoltoio, come il Nilo era il fiume dell'aquila per la rapidità del suo corso; e la ragione di quel nome fu forse questa, che nella piena delle sue acque rapiva le prossime terre alle sue ripe.

Literno (Liternum) era otto miglia lontano dalle città di Volturno, presso la foce del Clanio ( Clanius) (1), e fu probabilmente fondala dai Pelasgi, i quali abitarono questi luoghi e questa spiaggia. Conservò il suo splendore sino ai primi secoli dell'Impero; ma fu saccheggiata e quasi distrutta dai Vandali.

(1) Il quale, formato da piccole sorgenti di acque minerali, dolci e sulfuree, a pie di monte Cancello, bagna i confmi. della Campania verso il Sannio Caudino, ed ingrossato dal Riullo e da altre fonti tra Avella e Ñola, bagna il territorio di Aversa, e di là con placido e rettilineo corso si scarica nel mare più vicino alla foce del Volturno che ai colli di Literno.

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Cangiò quindi il suo nome in quello di Patria, per una lapida ivi trovata, dove leggevasi questa parola, e fu interamente abbandonata alla fine del secolo VIII. La città era sulla Via Domiziana, tra la sinistra sponda del Clanio ed il mare, dove poi fu innalzata la littorale Torre di Patria, e stendevasi forse anche sulle falde della collina che fiancheggia la salute, per la quale fu dato a Literno l'epiteto di paludosa (2).

La città di Literno divenne celebre per il volontario esilio di Scipione, del domatore di Cartagine, poi che ingrati si mostrarono contro di lui i suoi propri concittadini. Quivi intorno innalzò la sua villa ed il sepolcro, e con le proprie mani piante mirti ed ulivi. Dicesi ch'egli stesso facesse scrivere sul suo sepolcro: Ingrata patria ne ossa quidem mea habes; la quale lapida, scovertasi infranta, co. me si crede, e dove solo leggevasi la parola patria, fu occasione perché cosi fosse nominata la città di Literno.

Ad un miglio e mezzo dall'antica città di Volturno cominciava la rinomata Selva Gallinaria (Silva Gallinaria), la quale arida, sabbiosa e piena di cespugli, fu cosi detta dalle galline selvagge che vi abbondavano, specie di uccelli molto comuni nelle falde delle Alpi e dell'Appennino, e stendevasi per otto miglia lungo la spiaggia sino all'antica Torre di Patria. Era ricoperta di pini, de' quali si usava per costruire le navi della romana armata di Miseno; e nel medioevo prese il nome di Pineta.

Hame era un luogo di questa regione, tre miglia lontano da Cuma, e celebre per solenni e notturni sacrifici, ai quali tutt'i Campani convenivano.

Cuma (Cumae) era sei miglia lontana da Literno, nella pendice di un monte, a breve distanza dal mare, ed era una delle più antiche città italiche, fondata in tempi remotissimi da greche colonie. In mezzo alle incertezze e alle mitiche tradizioni che circondano la sua origine la meno contrastata è quella che vuole la città di Cuma fondata da' Calcidesi, i quali qui vennero dalla città di Calcide nell'Italia, prossima ai Tesprozii, e fondata probabilmente dai Cureti che vi si trapiantarono dall'omonima città dell'Eubea. Quindi fu detto tesproto il lido di Cuma e spiaggia Cuboica; e dall'Epiro vennero i nomi dati ai celebri luoghi d'intorno a Cuma, alla palude Acherusia, ai popoli Cimmerii, all' Acheronte. Sopra questa spiaggia della Campania, si distinsero i Pelasgi, di qui passarono altri popoli di Grecia e di Asia, e portarono i miti dell'oriente, e la favolose tradizioni dei viaggi di Ulisse. La città fu edificata in un fertile suolo molto proprio al commercio e alla navigazione, e divenne ricca e potente, e dominò sui mari e sulle isole vicine, e mandò colonie a Napoli, Nola, Abella, e fino a Zancle, che fu poi detta Messana, sulla costa di Sicilia. Ma gli abitanti si sgagliardirono a poco a poco, né poterono resistere ai Campani, i quali, occupando la città nel 416 av. l'era volgare, le recarono gravi danni. Parteggiò pei Romani nelle guerre cartaginesi, e divenne quindi romana. Ma scadde della sua prima grandezza, e cominciò a imbarbarire, quantunque non mancassero tracce della civiltà greca, delle antiche leggi ed istituzioni religiose anche ne' primi tempi dell'Impero.

(2) La Palude Literno ( Literna pulus) era vicino la città da cui trasse il nome, formata da tempi remotissimi dal fiume Clanio. e da altre sorgenti che discendono dalle campagne vicine. Quella palude oggi dicesi Lago di Patria.

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Fino alla metà del VI secolo fu descritta come una delle più forti città d'Italia, difesa da un vallo, da torri e da propugnacoli; ma rovinò nel Medioevo, e principalmente nelle guerre de' Goti e degli altri conquistatori che li seguirono. Ebbe medaglie sue proprie, con allusioni ai miti antichi o alle circostanze e qualità de' luoghi; e le più belle appartengono all'epoca della sua autonomia. Ebbe templi superbi, e fu celebrato quello di Apollo, simigliante a quei di Pesto, e del quale furono scoverti rottami di grandi colonne, e basi e capitelli; e il tempio di Giove statore, di cui sopravvanzano alcuni pezzi architettonici di finissimo lavoro. Nella parte bassa di Cuma, in un sito bello e dilettevole, sono reliquie di bagni, ed a poca distanza dell' Arco Felice, innalzato da' Romani per ornamento e sostegno della strada che aprirono nella collina tra Cuma e Puteoli, si veggono i pochi ruderi dell'Anfiteatro.

La città di Cuma, celebre per la sua antichità, pe' supposti luoghi inferni, per gli Elisi e l'evocazione delle ombre, fu celebratissima per la Sibilla che fu detta Cumana; la quale era in una grotta orrenda e tenebrosa, in un sito sottoposto all'acropoli, pochi passi dalla porta della città scendendo verso il mare; e di là la indovina discopriva il futuro ai sacerdoti che la interrogavano.

E di qua di Cuma verso il golfo di Puteoli giace da tempi immemorabili il lago Averno, cratere una volta di uno de' tanti vulcani della Campania; e però come un luogo plutonio, e come porta delle inferne regioni lo tennero gli antichi, i quali ricordano che sulle sponde di quel lago era un tempio sacro a Proserpina, dove si facevano sacrifizj e si consultava un oracolo da tempi molto vetusti. Virgilio nella descrizione de' luoghi inferni della regione cumana parla di una palude consagrata al tragitto dei morti, parta della necropoli o della città de' morti, e delle porte di Cocito e di Lete. Uno stretto e breve passaggio divideva dall'Averno il lago Cocito o Lucrino, del quale un piccolo avanzo oggi si vede tra' deliziosi colli di Baja e Montenuovo in quello che ora dicesi Maricello. Insino a che i Romani di Cuma e de' vicini luoghi non se ne impadronirono ritenne il nome di Cocito, nome noto di uno de' fiumi infernali presso i poeti; ma essendo allora pescosissimo, e però di grande lucro e vantaggio all'erario della repubblica, l'antico nome gli fu mutato in quello di Lucrino. Ai tempi di Augusto fu aperta una comunicazione tra questo porto e l'Averno, per fare de' due laghi il celebre porto Giulio. E presso il descritto lago, dalla parte che guarda Puteoli, Cicerone ebbe una villa, delle più magnifiche tra le molte da lui edificate, ed era propriamente sulla strada che lungo la spiaggia dall'Averno menava a Puteoli.

Intorno alla palude Acherusia, melmosa laguna formata dalla diramazione delle acque marine, ed oggi nota sotto il nome di lago del Fusaro, erano deliziose ed amene colline, che Virgilio dinotò col nome di Campi Elisii, ch'erano i lieti ed ameni soggiorni de' buoni.

Baja (Baiae) era tre miglia lontana da Cuma, in amenissimo sito verso il mare, ed è incerto se ne' tempi anteriori ai Romani fosse una città o un piccolo villaggio. E incerta la origine della città ed il nome, ma è probabile che i Cumani avendo in questo sito da tempi molto remoti una stazione per le loro navi, per cagione del porto che vi apre la natura, vi crescesse una qualche borgata ne' susseguenti tempi, tanto più che anche nel III secolo era Baja nel dominio di Cuma, ed un porto ancora vi ebbero di poi i Romani. E l'amenità del sito e le acque calde per modo vi richiamarono i dominatori del mondo, che dalle molte ville che vi edificarono, ne sorse come una nuova città; e i bagni caldi di Baja erano celebratissimi.

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Vi avea templi sacri a Venere, a Diana, a Cibele, e ville e palagi sontuosi e magnifici, dove insieme con gli agj e le delizie crescevano le voluttà e il mal costume. Tra le ville di Baja era magnifica quella di Mario dalla parte della città di Misero; e quella di Cesare la quale, posta in sito altissimo, vagheggiava i sottoposti golfi; e quella di Varrone, dove avea pure costume di recarsi il più dotto de' Romani; e quella di Lucullo passata in proverbio per la ricchezza e la magnificenza.

Sul versante meridionale di Monte Grillo, intorno a 45 piedi sul livello del mare, sono gli antichi sudatorii, ora noti col nome di Stufe di Nerone; e vi si giunge per un sentiero aperto nella roccia, nella quale si praticarono ancora gli scavi per trovarvi le acque calde, presso cui le dette stufe si formarono a' tempi dell'Impero. E sulla vetta del monte era un palagio, che si vuole di Nerone, il quale comunicava con le stufe per mezzo di splendide gallerie.

Bauli fu un antico villaggio nel luogo dell'odierno Bacoli, ed abbracciava la spiaggia ed il piccolo seno nel quale incurvasi il mare, da Bacoli scendendo alla marina; ed abitato in origine da piccol popolo, divenne, procedendo i tempi, per;la frequenza co' Romani, di qualche considerazione. All'entrare di quel piccolo seno si osservano enormi moli di antiche costruzioni, e vuolsi che sieno avanzi della villa di Q. Ortensio, la quale entrò quindi nel patrimonio de' Cesari, essendo noto che ivi il crudele Nerone accoglieva la madre Agrippina, dopo avere tentato di farla morire nel mare che traghettava da Baja a Bauli.

A breve distanza dal descritto villaggio, e sulla sommità degli stessi colli che ad oriente cingono il porto di Miseno e ad occidente il seno di Baja, vedesi un romano edifizio, di cosi grande magnificenza, che fa bene ricordare i dominatori del mondo, ed è quello che dicesi Piscina Mirabile ordinato probabilmente ad uso di serbatoio di acqua. E poco discosto di là si veggono reliquie di un'altra piscina, nota sotto il volgar nome di Cento Camerelle o Carceri di Nerone; e sulla volta di questo edifizio sorgevane un terzo, il quale, se vuolsi trarre argomento da' nobili pavimentò a musaico e dalle pitture ond'era ornato, si mostra come un avanzo de' piu superbi palagi di Baja.

E poco più oltre di Cuma sorge quasi in forma di piramide il promontorio Miseno, manifesta produzione vulcanica de' Campi Flegrei. E appiè del descritto promontorio, dalla parte di Maremorto, fu la città dello stesso nome, edificata in epoca molto remota e sconosciuta; e avendo in origin6 una qualche stazione per le navi, divenne in processo di tempo una piccola città, e crebbe ingrandita da una colonia romana. E presso al promontorio Miseno era il porto della città, dove Augusto pose una flotta perla difesa del Tirreno. Quel porto vedesi ora diviso in due parti da un argine che forma una linea trasversale e che fu opera di secoli posteriori; quella che si avvicina al monte di Procida, la quale, divenuta quasi acqua stagnante, è detta oggi Mare morto; e l'altra verso mezzogiorno, detta Acqua morta, tra la punta de' Penati ed il promontorio. Maremorto bagna ad occidente una parte de' favolosi regni Tartarei, e nel resto costeggia gli Elisii, innanzi ai quali Virgilio immaginò che scorresse il Lete.

Dieci miglia lontana dalle rovine della città di Cuma sorge nel prossimo golfo una grande isola montuosa che gli antichi dissero isola Püecusa o Enaria, ed oggi dicesi Ischia. E alcuni scrittori antichi crederono ch'essa fosse stata, per la forza delle marine inondazioni, divelta dal promontorio Miseno, del pari che le altre vicine isole, siccome Lesbo fu divelta dall'lda, la Sicilia dal territorio di Reggio.

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Ma Strabone la credè cacciata fuori dalla forza del fuoco come credono i moderni, e come pare che dimostrino i fatti, incontrandosi nell'isola, non altrimenti che ne' Campi Flegrei, crateri e correnti di lave di vulcani spenti; e l'Epomeo, oggi detto monte S. Nicola, si crede che fosse il più antico monte vulcanico dell'isola, alto 2605 piedi sul mare.

L'isola ebbe più nomi e diversi; e i poeti la ricordano con quello d' Inarime, i Greci la dissero Pitecusa, i Latini AEnaria. L'isola fu popolata da tempi remotissimi da una colonia di Eritrei e di Calcidesi, e probabilmente di quelli stessi che fondarono Cuma; e si posero nel principio in un luogo della marina, quello dove sorge il villaggio di Lacco, uno de' più belli e pittoreschi dell'isola (1). E in quella spiaggia si scovrirono preziosi ruderi, attribuiti ad un templo sacro ad Ercole per un'erma marmorea del nume, che ora serve di battistero della Chiesa di Lacco. Alcuni de' detti coloni dopo essere stati in buona fortuna nell'isola si per la fertilità del suolo come per le miniere che vi trovarono, discordi per la divisione delle terre, per lo scavo di tali miniere, o per altra cagione simile, abbandonarono l'isola e passarono nel continente della Campania. E quelli stessi che vi rimasero ne furono in processo di tempo espulsi da' tremuoti e dalle vulcaniche eruzioni. Altri coloni vi mandò Jerone I re di Siracusa, ed altri vennero dalla città di Napoli, ma furono cacciati o da' tremuoti o dalle armi de' Cumani.

Oltre di Lacco, altra città o borgata dell'isola fu quella che per effetto di tremuoto fu sprofondata e distrutta, come scrive Plinio, e che si suppone nella valle di Negroponte come la prima città fondata da' Calcidesi. Ma più che per l'origine greca e pe' popoli che l'abitarono, l'isola fu celebratissima perle perenni acque termali, di cui parlarono Plinio e Strabone; e l'antico uso di quelle acque è dimostrato dalle iscrizioni dedicate ad Apollo e alle Ninfe, in alcune lapide distinte col nome di Nitrodi, messe sopra eleganti are votive, adorne di bassirilievi che rappresentano dove Apollo tra due Ninfe, dove le Ninfe in mezzo ai Dioscuri, dove le Ninfe che apprestano salutevoli lavacri; e gli antichi tennero l'isola come sacra ad Apollo e alle Ninfe, e innalzarono templi di cui è incerto il nome e il luogo. Diremo soltanto che Filostrato, ricordando le calde e fresche sorgenti di quest'isola, e il sotterraneo fuoco e i tremuoti, dice che sull'alta sua cima era un tempio sacro a Nettuno.

Prochila (la Procida di oggi) è la piccola e dilettosa isola di forma irregolare, che sorge due miglia lontano da Enaria, dalla quale fu forse divelta per forza vulcanica. Fu nel principio abitata da' Calcidesi, da quelli stessi coloni greci che fondarono Cuma e si stabilirono nell'isola Enaria. Ma gli antichi la ricordarono come aspera ed incolta, e pare che non fosse abitata che da pescatori e da coltivatori, i quali a vicenda si facevano mercato, gli uni delle biade, gli altri delle prede del mare. L'aratro discopri in quel suolo molte anticaglie, ma di soli sepolcri.

Ritornando dalle isole al continente, noteremo, che da presso ai laghi Averno e Lucrino distendevasi il monte Cauro, del quale gli antichi ricordano le vulcaniche produzioni, e i moderni geologi riconoscono il cratere, uno de' più belli de' Campi Flegrei. Le sue falde erano piantate di vigneti, e come i luoghi vicini dovè esser lieto di nobili ville.

(1) Il come di Laceo deriva dal greco laxxos, pietra, e pare che accenni allo scoglio che a guisa di fungo sorge davanti al villaggio in mezzo al mare, o al luogo petroso e sterile, siccome era alt' arrivo dei primi coloni, o al piccolo ma sicuro porto che vi apre la natura.

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Puteoli era sulla marina a breve distanza dal monte Gauro, città antica ed insigne ai tempi dell'Impero. Fu in origine stazione navale dei Cumani, e non mancò di gente di mare e di altri abitatori;ma fu riguardata come città dopo che fu abitata da Samii, i quali le diedero il nome di Dicearchia, che fu il suo nome antico. Quel nome cangiò poi nell'altro di Puteoli, quando al tempo delle guerre cartaginesi, i Romani vi mandarono una colonia, e trasse quel nome probabilmente dal putore delle esalazioni sulfuree dei dintorni. Sotto la dominazione romana divenne un porto considerevole e sicuro; e a Delo, che fu il maggiore emporio di tutta la terra, successe Puteoli; e perciò questa insigne città fu detta Delo minore; e certamente, fondandosi sull'autorità di Strabone, il suo porto fu uno dei più frequentati d'Italia; e siccome vi aveano stazioni gli Alessandrini e quei di Berito e di Tiro, Stazio nominò i suoi lidi ospiti del mondo.

Gli avanzi di grandiose fabbriche che tuttavia rimangono ci mostrano di quali e quanti edifizj fu ricca quella città. Vedesi ancora la gran diga ad archi e piloni dell'antico porto, e fu cosi ardita e' difficile che fu detta opera de' Ciclopi. Il molo era formato di molti pilastri, che ancora resistono alle ingiurie del tempo, e su' quali reggevansi le basse arcate. Fra questi archi inghiottiva e rimandava il profondo mare, mentre il muro superiore impediva che i venti del mezzodì e le onde commosse agitassero le navi. A questo molo il volgo dà il nome di Ponte di Caligola. Ma opera siffatta fu anteriore ai Romani, ed è da attribuire ai Cumani o ai Samii. Oltre di questo che può dirsi il porto maggiore, altri sicuri ricoveri vi fecero gli antichi, coi quali tutta la città divenne un emporio grandissimo, e vi avea argini gittati sul mare, spiagge chiuse in forma di golfi.

Ebbe quell'antica e popolosa città non pochi templi, e tra' più grandi e magnifici sono ricordati quelli di Nettuno, di Diana, delle Ninfe, di Serapide, di Giove, di Giunone Pronuba, di Bacco; e aveano colonne, portici, statue superbe;, e alcuni di quei templi. siccome quello di Serapide, furono opera de' Tirii. Il Ginnasio, il Teatro e l'Anfiteatro furono gli altri grandi edifizi che adornavano la città di Puteoli. L'Anfiteatro superava in ampiezza tutti gli altri di queste nostre regioni, ed era magnifico del pari che il Campano; e di qui possiamo trarre argomento della frequenza e grande popolazione della città. Rimasto interrato nella massima parte 6no a pochi un n i or sono, ritorna alla luce per gli ultimi scavi fatti, i quali ne discoprono i superbi avanzi. All'anfiteatro Puteolano fu dato il nome di colosseo, ch'ebbe comune col Flavio. . Intorno alla città furono molte ville magnifiche, e se ne veggono ancora gli avanzi.

La città edificata nel principio sull'altura dove oggi si vede, si estendeva sul lido a guisa di anfiteatro e toccava da un lato la Sulfatara e dall'altro la via Campana, dove furono scoverti molti avanzi di sepolcri antichi.

Di sopra alla descritta città di Puteoli, alla distanza di quasi un miglio, si allarga una vasta pianura tutta vulcanica, circondata da colli auch'essi vulcanici, la quale forma il più bell'avanzo de' celebrati Campi Flegrei; e Strabone la disse Foro di Vulcano, e la descrisse circondata da colli ardenti, con fiamme che vedevansi uscire da più parti, e con uno strepito simile a quello del tuono. Nel secolo XV vi rampollava tuttavia acqua termale, la quale forte bullendo si levava fino ad un'altezza di 20 piedi; e caldi vapori acquosi e sulfuree esalazioni si levano ancora dal cratere di questo vulcano semispento.

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Fiorisce sul suolo una gran quantità di solfo, e di qui gli venne il nome odierno di Solfatara. Una catena di bianchi e irregolari colli, detti dagli antichi Leucogei, cinge la descritta cima vulcanica, e da molti spiragli escono pestifere esalazioni e fiammelle. Sgorgano da quei colli alcune acque medicinali, e sono quelle che Plinio ricorda col nome di Fonti Leucogei.

A breve distanza da' Fonti Leucogei si eleva il piccolo monte Olibano, il quale da un lato toccando il more termina dall'opposta parte nelle vicinanze del lago di Agnano. Fu cosi detto perché tutto sterile e petroso, ed oggi è noto sotto il nome più volgare di monte degli Spini o delle brecce. Il grande acquidotto che portava l'acqua a Puteoli, opera di maraviglioso lavoro, fu da' Romani incavato nelle viscere di questo monte.

Ad oriente de' Colli Leucogei, nel pendio di una montagnuola, a breve distanza dal lago di Agnano, è una piccola grotta, che ha la forma di una piccola capanna, le cui pareti e la volta sarebbero rozzamente tagliate nella rocca tufacea della collina. Piccole bolle gorgogliano in alcuni punti della sua superficie, ch'è terrosa, nera, umida, infuocata, e dalla quale si sviluppa il gas acido carbonico sotto la forma di nebbia biancastra, mortifero agli animali che lo respirano. Quella grotta è quella che dicesi la Grotta del Cane.

Neside (Nesis) è la piccola isoletta che oggi dicesi Nisida, divetta dal vicino promontorio di Posilipo, nelle commozioni sofferte in età rimota dal suolo della Campania, o prodotta piuttosto come monte Nuovo per forza vulcanica. Fu nota ai Greci ed ai Latini, e da alcuni ruderi antichi fu creduto che vi fosse stata una villa con qualche vivajo.

Di contro alla descritta isoletta mette capo sul mare il monte di Posilipo, il quale dall' Ermio inoltrandosi per quattro miglia circa verso occidente, divide il golfo di Napoli da quello di Pozzuoli, e forma un arco del delizioso cratere; ed è, come gli altri colli vulcanici della regione, un masso uniforme e continuo di tufo, coverto di fertile terra, sparso di pezzi erratici di lave, di pomici e conchiglie. Ebbe probabilmente i suoi villaggi ne' tempi greci e romani, ed è celebre per una villa magnifica di cui portò il nome. Fu posseduta da Vedio Pollione, liberto e ricco cavaliere romano, il quale ne fece un luogo delizioso, ed egli era colui che nutriva di sangue umano le sue murene.

Il greco nome di questa villa (1) significa amenità e spensieratezza, e fu poi dato ne' secoli che seguirono all'amenissimo monte sul quale era posta, e si crede non prima de' tempi del Sannazzaro. Furono trovati sopra questa collina molti avanzi di sepolcri antichi e di templi superbi. colonne, statue, e rottami di marmi, e ruderi di stupende fabbriche e di vaste peschiere, alcune coverte dal mare, altre lungo il lido scavate nel monte. La Chiesa di S. Maria del Faro fu edificala sopra rovine di antiche fabbriche. Poco lontano da questi ruderi nella valle della Gaiola si scoperse nel 1825 l'antica grotta, disgombra e riparata nel 1840, e già nota sino dal secolo XV col nome di Grotta di Sejano; la quale avendo principio a sudest della detta valle, si viene giù dilatando tra le ripide falde del Coroglio, ed ha fine al lato nordovest del capo di Posilipo. Questa grotta, se non fu aperta, fu probabilmente ristaurata da Lucullo, il quale possedeva tutta la marittima regione di questo promontorio coll'isoletta Megaride, il Capo di Posilipo e l'isola di Nisida.

(1) Pausilipon

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Tra Nisida e il Capo di Posilipo si elevano dal mare altre due isolette, o piuttosto grandi rottami tufacei caduti nelle onde. e staccati dallo stesso prossimo capo nelle vulcaniche commozioni della Campania. Sulla prima, che sorge più dappresso a Nisida, fu costrutto il Lazzaretto, e gli antichi la dicevano Limon. L'altra più vicina al promontorio è abitata da un Romito, e dicesi oggi la Gajola; ma tra gli antichi ebbe il nome da Venere. Oltre la strada che pei colli di Napoli metteva questa città in comunicazione con Puteoli, un'altra ne aprirono gli antichi a traverso del promontorio di Posilipo, e fu la grotta che dicesi di Pozzuoli, e che al tempo di Strabone era larga per due carri che andavano in opposta direzione, e riceveva luce per alcuni spiragli profondamente aperti nel monte. Non è noto chi fosse l'autore di un'opera si grande; ma pare anteriore ai tempi di Augusto, e fu forse aperta dagli antichi napolitani, e più probabilmente da' Pelasgi in tempo antichissimo, ai quali furono attribuite molte altre opere gigantesche, argini, canali, sotterranei emissarj, non che le maravigliose fabbricazioni poligone, di cui tanti avanzi sono sparsi nell'Asia-Minore, nella Grecia, nell'Italia.

Sull'ingresso della grotta Napolitana si mostra da più secoli il sepolcro di Virgilio, il quale, infermatosi nel viaggio che faceva per veder Metaponto, e morendo a Brindisi, disse che voleva che le sue ossa fossero portate e sepolte in Napoli, città sua prediletta. Il che fu fatto da Augusto; e, con l'epigramma che dettava egli stesso, le spoglie del cantore dell'Eneide furono sepolte nella Via Puteolana.

Alcune grotte, naturali o artificiali, che rimangono sotto la rupe del monte Echia, di rincontro alla piccola isola di Megaride, furono notate dagli antichi col nome di Platamonie, \\ quale si conserva nell'odierno alterato nome di Chiatamone. In una delle mentovate grotte, allato alla Chiesa di S. Maria a Cappella, fu scoverta una mitriaca tavola anaglittica, con simboli del sole e dell'agricoltura; e quindi fu creduto che nel detto antro si adorasse Mitra, il cui culto i monumenti ci mostrano diffuse in tutta la costa del Lazio e della Campania, da Anzio alla città nostra.

Alquanto più innanzi di questo antro mitriaco fu scoverta un'edicola o tempietto sacro a Serapide, ed in una delle sue egloghe ricordavalo il Sannazzaro in vicinanza del marittimo Platamone.

Alle grotte Platamonie sovrastava da tempi remotissimi un aprico ed ameno promontorio, di contro al quale sorgeva a brevissima distanza un'isoletta, quasi tutta cinta di scogli. Gli antichi diedero a quel promontorio il nome di Echia, e dissero Megaride l'isoletta. Lucullo il primo, per quanto pare, vi pose una delle sue magnifiche ville, la quale poi crebbe, a quel che si crede, in un piccolo borgo detto perciò Castellum Lucullanum dagli scrittori della bassa età.

Neapoli (Neapolis) era sul mare un miglio e mezzo lontana dalla isoletta di Megaride, ed era una delle più antiche e più celebrate città della Campania. Sono incerte le origini e le prime vicende di questa città; ma motti scrittori antichi vogliono che i primi fondatori fossero i Cumani, e ricordano questa leggenda. I Rodiani, essi dicono, innamorati di questa costa incantata, vi edificarono una città, cui diedero il nome di Partenope. Qui venne una colonia di Cumani, i quali temendo che la nascente città potesse nuocere alla loro metropoli, la distrussero.

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Ma come per effetto di cosi grave fatto Cuma fu travagliata da orribile peste, i Cumani non giunsero ad allontanare dalle loro mura il terribile flagello se non quando ebbero rialzata la città distrutta; il che fecero in luogo più ameno, ponendo alla nuova città il nome di Neapoli.

Questa città fu bella e ricca e padrona di vasti commerci fino da tempi molto remoti. Fu alleata di Roma, e nella prima guerra punica fornì la flotta romana di navi da cinquanta remi, e nella seconda offri quaranta patere di oro di gran peso. Fu cinta di forti mura, e non fu espugnata ne da Pirro né da Annibale. La città conservò lungo tempo alcune istituzioni greche della sua prima origine, e lungo tempo durò la memoria delle costumanze greche, de' suoi nobili certami, degli studj delle lettere che vi fiorirono, della quiete che gli illustri Romani venivano a godervi, per alleggerirsi delle gravi cure della Repubblica. La città, come Atene ed altre città della Grecia, era divisa in Fratrie, associazioni religiose di famiglie, specie di confraternite, le quali prendevano nome da' Numi protettori. Noi ricorderemo tra le altre, la Fratria degli Eumelidi, riputata la più illustre ed antica, la quale occupava, come credesi, quella parte della nostra città dove sorgono le chiese di S. Paolo, S. Lorenzo e il Duomo, ed adorava Apollo, Cerere e i Dioscuri. La Fratria degli Artemisii, il cui tempio maggiore era quello di Diana o Artemide, che sorgeva nel sito di 5. Maña Maggiore o della Pietrasanta. La Fratria de Cumani, la quale tolse questo nome da' fondatori della città. Una notizia di essa fu trovata nel cippo maimoreo che sosteneva un tempo il battistero di S. Maria della Rotonda. In questa parte della città abitarono probabilmente gli Alessandrini, i quali qui innalzarono un tempio alla Diva Iside. La Fratria degli Antinoüi, la quale prese questo nome da Antinoo, celebre favorito di Adriano, se pure non cangiò in questo il suo nome primitivo. Il suo tempio era là dove ora sorge la Chiesa di S. Giovanni Maggiore. La Fratria degli Eunostidi, cosi detta da Eunosto, eroe di Tanagra, città della Beozia. La Fratria degli Aristei, dal culto di Aristeo, riguardato come figliuolo di Apollo, principale nume de' Napoletani. La Fratria de' Panelidi, così detta perocchè qui si riunivano tutti gli Elidi della città, e della quale ci serbò notizia un marmo scoverto presso la Chiesa di S. Cosmo e Damiano.

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La Fratria degli Enonei o Ebonei, che prese questo nome del culto di Ebone o Bacco. La Fratria de' Teotadi, la quale innalzava un tempio agli Dei Sebasti o Augusti, e ai Numi Fratrii protettori, ed era forse nell'atrio del Banco della Pietà.

Ed oltre a queste che abbiamo qui indicate, altre Fratrie ebbe la città, di cui sono sconosciuti i nomi, e non restano monumenti. Dalle greche fratrie alcuni scrittori derivano gli antichi sedili della città o i tocchi, distinti in grandi e piccoli, i grandi paragonando alle tribù, i piccoli alle curie.

Oltre ai templi che abbiamo indicati, sacri ai Numi tutelari delle Fratrie, molti altri n'ebbe la città e magnifici; e sono ricordati quelli di Mercurio, di Marte, di Ercole, di cui è molto incerta la situazione. Una ripruova incontrastata di quelle divinità noi abbiamo nelle monete antiche della città, di oro, di argento, di bronzo. In alcune di esse vedesi la testa di Apollo laureato, coi noti simboli della cortina e della lira; in altre la dea Pallade, con serto di ulivo e civetta incisa nella galea; in altre Ercole giovine con la clava. In alcune monete vedesi una vaghissima testa muliebre con la chioma all'uso greco e senza i simboli conosciuti delle altre divinità, onde furono credute della Sirena Partenope.

Fu in Napoli un monumento o sepolcro della Sirena Partenope, la favolosa fondatrice dell'antica città, ma n'è incerto il luogo: certo è che Partenope ebbe onori divini da' tempi più remoti, e dava oracoli, ed era onorata con certami e sacrifizi di buoi (1).

Ebbe Napoli i Teatri, il Ginnasio, i Collegi degli Efebi, un gran Portico. Il teatro coverto, che i Greci dissero Odeo, era in quella parte della città che oggi dicesi Anticaglia da' ruderi antichi che sopravvanzano, gran parte de' quali rimasero occupati dal Monastero di S. Paolo e da altri prossimi edifizi. In uno di questi teatri cantò Nerone in mezzo al plauso de' soldati e del volgo. Vi avea più ginnasi, i quali erano destinati alla istruzione degli Efebi o de' giovani, e gli avanzi di uno di essi sono additati nel cosi detto Portico de' Caserti presso Porta Capuana.

Napoli avea una forma mista di governo di Ottimati e di popolo e fu ordinata del pari che Atene: ebbe gli Arconti scelti tra' patrizi, e aveano gli stessi nomi e poteri che in Atene (2).

La città antica era piccola, ed anche riunita alla Palepoli era meno estesa, non solo della Puteoli, ma della stessa Pompei. Aveva forma ovale, e non occupava più di quella parte della città odierna in cui sono i templi di S. Giovanni Maggiore e del Gesù, di S. Marcellino e S. Severino, dilatandosi in alto dove già furono i sedili di Nido e di Montagna, ed abbracciando l'ospedale degl'Incurabili e la vicina Chiesa di S. Agnello. Il mare, formando un seno, bagnava le radici del colle sul quale era posta e donde alcune sorgenti scaturivano che oggi formano alcuni pozzi nel quartiere di Porto. Questo colle soprastava a tre rupi ed al mare, che

(1) I certami celebrati in onore di Partenope erano di remota istituzione ed annuali, e consistevano nel corso con le fiaccole accese.

(2) L' Eponimo era il primo arconte, ed era colui che dava il nome all'anno, e giudicava le cause civili e religiose. Forse, come in Atene, fu detto Basileo il secondo degli Arconti, Polermarco il terzo; Tesmoteti tutti gli altri, i quali vegliavano all'osservanza delle leggi, e difendevano i dritti del popolo centro la forza e gli abusi de' magistrati minori. Demarco era il capo e rappresentante del popolo; Stratego chi soprintendeva alla milizia; Naucelarco il prefetto delle navi.

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giungeva sin presso al tempio di S. Giovanni Maggiore, dove era il Foro ed il porto della città: la piazza di Porto e le altre vicine di Portanova e della Sellaria si ricordano come luoghi paludosi e pieni di giunchi, né furono incorporati alla città prima del 1000. Avanzi di antiche mura furono trovati nel nuovo chiostro di S. Severino, ed erano di grandi e lunghi quadroni di macigno al di fuori, di calce e pietre nell'interno, della grossezza di 10 a 12 palmi. Partendo dal Salvatore il muro antico si distendeva a S. Angelo a Nilo, a S. Pietro a Fusarello; di là a Porta Licinia, poi detta Ventosa, nel sito di S. Girolamo, e di là a 5. Pietro a Majella, a S. Agnello, a Donnaregina, al Duomo, ai monasteri di S. Severo e di S. Severino. Alla porta del palazzo arcivescovile era un'antica porta la quale, trasferita più oltre ne' seguenti tempi, fu poi detta di S. Sofia; e alla porta meridionale del Duomo era la porta Campana, donde uscivasi alla volta di Capua.

La città fu ampliata non solo ai tempi di Augusto, il quale volle i ¡unite insieme Napoli e Palepoli, ma anche ai tempi di Adriano e degli Antonini. La città antica era cinta di forti mura e di torri, ed era divisa in quattro regioni, la Palatina a settentrione, la Termense o Ercolense ad oriente, la Montana ad occidente, la Nilense a mezzodì. Più nobile di tutte era la Palatina, perocchè ivi sorgeva il magnifico Tempio dei Dioscuri, il palagio della città o la Basilica Augustale, il Foro, il quale credesi si stendesse dal largo di S. Lorenzo insino alla Chiesa di 5. Gennaro all'Olmo. La regione Termense prese il nome dalle Terme, delle quali qualche avanzo si vede ancora nelle strade di S. Nicola de' Caserli e della Maddalena. La regione Nilense fu cosi detta dall'antica statua del Nilo ivi scoverta. In essa dimoravano i mercatanti di Alessandria, ed ivi era un tempio innalzato alla dea Iside. La regione Montana o del Teatro comprendeva la collina che dal Monastero della Sapienza si allarga insino al vicolo de' Cinque Santi.

Queste regioni erano suddivise in vicoli, i quali erano pieni di artefici; e in questa città fondata da' greci coloni, ed aperta agli stranieri da tempi remotissimi, le arti giunsero a grande perfezione. La città fu popolosa, ed oltre ai motti che qui venivano per cagione di traffichi, molti Romani riparavano in questo ameno asilo, e qui trovavano pace e riposo dalle agitazioni della vita politica. Era beato il suo clima, di miti e dolci costumi gli abitanti, ed ospitali ozj dava alle muse; e qui correvano da Roma e da più lontane contrade ai nobili giuochi del Ginnasio e alle letterarie palestre. La rocca della città alcuni scrittori pongono nel sito di S. Agostino. Il porto, riparato e difeso da tre erte rupi, sicurissimo pe' navilj, si dilatava dal Molo Piccolo di oggi insino al piede del Colle di S. Giovanni Maggiore. alle radici del colle di S. Marcellino si scopersero in alcune grotte grossi anelli di ferro che servivano per le navi, ed in altre del Mercato si sono vedute arena e conchiglie con altri vestigj delle onde marine.

Napoli ebbe sorgenti di acque calde, con edifizj di bagni non inferiori a quelli di Baja, quantunque molto meno frequentati; ed erano probabilmente presso il promontorio Echia, dove gli antichi patrii scrittori ricordano fonti di acque salubri e minerali, e dove rampollano ancora.

Su' piccoli colli che cingevano la città inverso settentrione ebbero i Napolitani i loro sepolcreti. E molti ve n'avea in tutta la contrada che da Porta S. Gennaro si estende insino alla chiesa di S. Maria della Sanità.

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Due furono scoverti, nel 1673, presso la Chiesa di S. Maria della Vita, ed altri nel giardino presso al Real Museo, de' quali alcuni di tufo, e pero de' tempi greci: in questi furono trovate monete greche di bronzo, vasi dipinti e lucerne. Il centro della necropoli antica era la cima del colle che ora prende il nome dalla chiesa di S. Gennaro de' Poveri; poiché le circostanti falde della collina di Capodimonte e i vicini poggi, non che il piano che dinanzi si stende. si sono scoperti pieni di sepolcri. Ai quali bisogna aggiungere quelli delle catacombe, di questi antri tenebrosi, aperti prima come comunicazioni sotterranee e poi destinati ad uso di sepolcri; e si che in questa terra nostra diletta tu vedi le tombe e le arti maravigliose fin nelle caverne oscure de' monti. Dal lato destro della chiesa di S. Gennaro de' Poveri io una grande rupe tufacea a guisa di spechi si veggono due ingressi, i quali menano a due diversi ordini di cripte. le quali, incavate a grandi volte nella roccia, corrono da ponente a levante, e sono alquanto rischiarate da spiragli laterali. Diversi latiboli vi sono aperti ne' lati de' grandi ambulacri e nelle pareti e nel piano delle volte, e sono pieni di loculi e nicchie pe' cadaveri. Nel primo ingresso di queste catacombe il Vescovo Giovanni I seppellì ne' principj del I secolo il corpo di S. Gennaro, ivi trasferendolo dal sepolcro del fondo Marciano di Pozzuoli, ch'è tra il lago di Agnano e il monte Olibano.

A settentrione della città era il colle Olimpiano, quello che oggi forma il rione di Pontecorvo, e trasse quel nome chi vuole da' giuochi che alla sua vetta si celebravano simili a quelli di Olimpia, e chi da un tempio innalzato a Giove Olimpio. Più alto elevasi il monte Ermo, cosi detto, secondo che pare, da un tempio innalzato a Mercurio. Sopra quel colle il Pontano immaginò la Ninfa Ermi, e Carlo I fabbricò la torre Belforte, e Pietro di Toledo il castello che tuttavia vi si vede.

A breve distanza da Napoli, dalla parte di oriente, sorgeva io sul lido stesso del cratere la città o Torre di Falero, innalzata da tempi remotissimi e sconosciuti alla storia. E poiché Napoli fu fondata da' Calcidesi fondatori di Cuma, non par dubbio che la città di Falero fosse quella stessa nota sotto i nomi di Palepoli e Partenope, i\ primo per essere distinta dalla nuova città de' Cumani, e l'altro per il culto della Sirena di quel nome stesso. L'origine di questa città è circondata di favole; ma in mezzo alle varie e discordi opinioni, ei pare che i primi a fondare sopra questo ameno lido una città o una grossa borgata fossero stati gli Opici, abitatori primitivi della Campania, ai quali s'intramischiarono in processo di tempo i Pelasgi. che dominavano sopra non piccola parte di questa contrada, e i quali pare che abbiano dato alla città il nome di Falero, omonimo di altre città della Tessaglia e dell'Attica. Vennero più tardi i Roda, ed essi magnificarono la città di Falero e portarono il culto di Partenope, ch'era una delle Sirene.

La città. fu antica alleata di Roma, e fu libera sino al 429 av. C. Si riunì quindi ai Sanniti e divenne quindi romana. Essa era posta nell'estremo orientale della città di Napoli, sopra alla piazza del Mercato, presso alle rive del Sebeto, il quale traendo le sue fonti da alcune grotte tra Pomigliano d'Arco e Somma, viene radendo la città di Napoli, e povero di acque mette foce nel mare (1).

(1) Non è chiara l'origine del nome di questo fiume, ma quello che possiamo dire certamente è questo, che il Sebeto fu , al pari di altri fiumi, venerato come nume dagli antichi Napolitani, ed ebbe un tempietto a breve distanza dalla sua foce.

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Gli acquidotti della città derivano uno dal Sebeto conosciuto sotto il volgar nome di Formale, dal latino Formiœ; e l'altro conosciuto sotto Il nome di acquidotto Claudio, dalla valle del Sabato di sopra a Serino nel Principato Ulteriore. quest'ultimo, che fu opera grandiosa degli antichi, veniva per monte Paterno, passava sopra i grandi archi laterizi nella via che mena a Palma, e per Nola, Pomigliano d'Arco, per Capo di Chino, i Ponti Rossi, e per la collina di S. Efremo vecchio giungeva a Napoli dividendosi in due canali, de' quali uno entrava tra le mura della città, volgendo verso S. Pietro a Majella e S. Patrizia, e l'altro per il promontorio Echia e la collina di Posilipo si diramava a Pozzuoli e a Baja, portando grande copia di acqua non meno alle piscine delle ville de' Romani che alla grande Piscina Mirabile.

Atella era tra Capua e Napoli, in una vasta pianura, una delle città più mediterranee degli Opici. È incerta l'origine e le sue prime vicende; e possiamo dire soltanto che dopo avere parteggiato pe' Sanniti, e preso parte alle guerre cartaginesi, cadde sotto la dominazione romana. Ebbe monete sue proprie, conosciute come monete Atellane, con tipi simili à quelle di Capua. Quantunque non resti memoria che del solo Anfiteatro, ornato di colonne di marmo, ebbe probabilmente altri nobili edifizj. La città fu nel I secolo distrutta da un incendio; e ridotte le ville Atellane ad un'estrema miseria per le guerre continue de' Greci e dei Longobardi, ne restò il nome ai soli vichi ne' quali fu ridotta. Fuori del casale di Pomigliano d'Atella se ne veggono le rovine, le quali distendendosi verso occidente vanno a terminare sin dentro all'altro villaggio di S. Arpino; e rimangono fossati, ruderi di mura antiche e di fabbriche laterizie.

Grumo (Grumum), due miglia lontano dalle rovine di Atella, è un popoloso villaggio abitato probabilmente da tempi molto remoti. Qui convenivano quattro strade principali che partivano da Capua, Acerra, Napoli e Puteoli.

E due miglia lontano da Atella verso occidente era il Vico Spuriano (Vicus Spurianus), piccolo villaggio della Campania, il quale importa di ricordare, perocchè sulle sue rovine il Conte Rainulfo edificò nel 1030 la città di Aversa.

Ritornando alla descrizione della marina Campana, noteremo che una via usciva da Napoli, o piuttosto da Partenope, la quale lungo la marina menava alla prossima città di Ercolano. Quella via fu detta Ercolana, e restano ancora alcuni avanzi di antiche selci, simili a quelle della Via Appia, nel luogo detto Pazzigno, a breve distanza dalle paludi di S. Giovanni a Teduccio.

Il cratere della Campania, oltre delle città, era ornato di case e piantagioni, le quali succedendosi l'una alt' altra davano sembianza di una sola città. E vi avea vichi suburbani; e tale pare che sia stato il casale di Pieirabianca detto Leucopetra dagli antichi abitatori, i quali venivano dalla vicina città di Ercolano. Vi avea un portico, che fu detto di Ercole (Herculis Portisus) da un tempio sacro a quel nume; e da questo portico pare che sia derivalo il nome dell'odierno villaggio di Portici. Vi avea un pago o villaggio col nome di Retina, il quale fu cosi detto o per le funi ( retinacèla) con le quali si tenevano fermate le navi, o per le reti che vi tessevano i pescatori della spiaggia: il nome dell'antico villaggio conservasi oggi in quello di Resina.

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Ercolana (Herculaneum) era a breve distanza dal Portico di Ercole, piccola città edificata sulla marina da tempi molto remoti. Vuolsi che fosse fondata da Ercole, anziché nume, eroe dell'età favolosa. I primitivi abitatori furono gli Opici a cui si unirono i Pelasgi, e da questi la città trasse probabilmente il suo nome, il quale in origine fu probabilmente quello di Eraclea. Deliziosa e salutare era la situazione, con un promontorio sporgente nel mare dove il vento di Libia, diceva Strabone, soffia mirabilmente. Questo promontorio era formato da una lava antichissima del Vesuvio, anteriore alla fondazione della città e al passaggio de' Pelasgi nella Campania. E la città stessa fu fabbricata sopra strati di materie vulcaniche simili a quelle onde fu poi ricoverta.

Delle vicende di questa città sappiamo solo ch'essa fu prima dominata da' Sanniti, e quindi da' Romani, fino a che non fu sepulta l'anno 79 di G. C. dalla terribile eruzione del Vesuvio. Benché più piccola di Napoli e di Pompei, pure la città era importante; avea porti sicuri, un mare pescoso, e dava gratissima stanza ai suoi abitatori, in mezzo a ridenti campagne.

Gli scavi della città ci hanno arricchiti de' più belli monumenti dell'arte antica, siccome statue. busti di bronzo e di marmo, quadri in affresco, ornamenti di oro e di argento, vasi, suppellettili, e più di tutti questi preziosi oggetti i preziosissimi papiri, che unica al mondo hanno renduta la scoverta di Ercolano. La città antica non ha potuto essere diseppellita che in piccola parte; e non pertanto sono scoverti il Teatro, il Foro, la Basilica e due templi con alquante case formate alla maniera stessa di Pompei e tutte ricche di statue, di colonne e di musaici. Attraversavano la città lunghe ed ampie strade, dalle quali altre minori si diramavano per modo che restava divisa in parti regolari e simmetriche ( Insulae).

Ma di tutt'i privati edifizj, non pure di Ercolano e di Pompei, ma dei molti che si conoscono degli antichi, il più vasto e magnifico fu quello di una villa situata sul mare, la quale fu detta villa d'Aristide o de' Papiri, fabbricata con lusso per quanto può comprendersi dagli avanzi rimasti, da un pavimento di musaico, dalle spaziose porte con stipiti e soglie di marmo, e dalle statue di bronzo, dagli atrii, dalle colonne, dalle fontane, da un gran giardino circondato di portici, e da' molti volumi di papiri, scritti quasi tutti in greco.

Furono altre nobili ville intorno alla città, e tra le altre è ricordata quella de' Cesari, posta sul mare fuori Torre del Greco

Pompeja (Pompeii) era presso alla foce del Sarno, e nel fondo del Cratere, una delle più belle città della Campania. Ed è ora la città antica dissepolta, la quale, dopo cosi lunghi secoli, rivive co' suoi nobili edificj, e ne dimostra la vita pubblica e la privata, e le arti e i costumi e la ricchezza di quei popoli antichi. La città oggi è muta, ma è bella ancora in mezzo alle sue rovine. Fu fondata probabilmente dagli Osci, i quali la innalzarono sopra una piccola collina, formata di uno strato di lava antica anteriore ai tempi storici. Era l'arsenale marittimo delle vicine città di Nola, Nuceria ed Acerra, le quali trafficavano mercé del Sarno, e portavano e mandavano le derrate della Campania. E da questa sua posizione trasse forse il nome di Pompeja, dal greco Pompeu? che significa spedire. La dominarono i Pelasgi, i Sanniti, i Romani, e forse prima de' Sanniti, le greche colonie di Cuma e di Napoli. Soffri gravissimi danni per il tremuoto del 63, e fu coverta di ceneri nella memorabile eruzione del 79.

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Ma tornò in luce dopo 17 secoli, e gli scavi furono ordinati la prima volta da Carlo III de' Borboni di Spagna, monarca generoso e magnanimo.

La forma della città era ellittica, ed aveva un perimetro di circa due miglia; era populosa e più ampia della vicina Ercolano. Era circondata di mura, di cui alcuni avanzi restano ancora; e quantunque non fossero formate di massi poligoni, pure sono di un'alta antichità. Presentano nella superficie esteriore la figura di un trapezio, maniera di fortificazione usata da' Greci, di cui qualche esempio vedesi nelle mura di Messene e di Platea. Alcune lettere tra osche e greche antiche veggonsi scolpite sopra molte pietre di queste mura. Nella strada fuori la città, che usciva dalla porta verso Ercolano, erano i sepolcri di Pompei, i quali sono belli monumenti rimasti quasi per intero. Le altre porte erano quelle di Stabia, del Sarno, di Nola e del Vesuvio, delle quali non restano che quella di Ercolano e quella del Sarno.

La porta di Ercolano mena alla strada consolare della città, larga 14 palmi, con marciapiedi ( margines) di grosse pietre quadrate da ambe le parti pe' pedoni.

Sull'uno e sull'altro lato della strada sorgevano case magnifiche, di maggiore o minore ampiezza, con ornati diversi, ma costruite quasi tutte alla maniera stessa. Quindi entrando in una casa antica di Pompei, voi trovate il vestibulo e l'atrio, circondati ordinariamente di portici, con piccoli giardinetti, con cisterne che raccolgano le acque piovane; quindi da un lato trovate le celle de' servi, da un altro il triclinia con tavola rotonda di marmo in mezzo, e con rialzamenti di muro dove eran posti i letti di chi banchettava; e quivi intorno la cucina e qualche stufa. Trovate in fondo le stanze per uso di dormire (cubiculi), con qualche nicchia pe' numi familiari. Voi trovate fontane ed altri magnifici ornamenti, belli i pavimenti, spesso di marmo e con fini musaici; e belle le pitture delle mura interne, e varie secondo l'uso a cui le stanze erano adoperate. Non vi avea finestre, e nella parte esteriore vi avea botteghe, che servivano a varj usi, chiuse da due partite di legno, le quali giravano su cardini, ed erano fermate da paletti (pessuli).

Tranne la strada de' sepolcri, che s'inflette più volte prima di giungere al Foro, la maggior parte delle strade scoverte sono parallele e si tagliano ad angolo retto. Queste strade sono strette e capaci appena di due carri: a breve distanza le une dalle altre sono alcune pietre, le quali lasciando libero il passaggio delle ruote, formano una specie di ponte per potere passare da un marciapiede all'altro in tempo di pioggia. Le strade prendono nome da alcune case o pubblici edificj che veggonsi in esse. Quindi dicesi la strada delle Terme quella dove veggonsi gli avanzi delle pubbliche terme; la strada di Mercurio quella dove furono trovate alcune immagini di quel nume o simboli suoi proprj; e cosi via discorrendo. Le Terme aveano vestiboli e sedili, con lunghe sale dove si lasciavano le vesti, dove trovavasi il bagno freddo ( frigidarium), e il tepidario, il quale comunicava con la stufa (calidarium), alla cui dritta era il bagno caldo, nel fondo una grande nicchia semicircolare ( laconium), nella cui volta regolavasi la temperatura con una valvola, e con in mezzo una rotonda vasca ( labrum), per lavarsi, a quanto sembra, solo le mani ed il viso. Fu detta di Mercurio quella strada di Pompei che traversava la città nella maggiore lunghezza dalla porta d'Iside all'arco trionfale di Augusto, e che menava direttamente al Foro, per l'altra strada della Fortuna, dove sorgeva l'edicola

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della Fortuna Augusta, tempietto tutto incrostato di marino e di lavoro corintio.

Il Foro era di figura rettangolare lungo 344 piedi, largo 107, cinto per tre lati da colonne doriche, da ruderi di templi e da altri pubblici edificj, e al termine del quale si vede di contro al tempio di Giove il piccolo arco di trionfo tra molli piedistalli. Quivi intorno erano il tempio di Venere e la Basilica, di cui restano i superbi avanzi; l' Augusteo, creduto un Panteon dedicato agli Dei Maggiori, pe' dodici piedistalli disposti in circolo nel mezzo dell'atrio scoperto, cinto una volta da peristilio. Nella Via stessa del Foro era un' Eumachia, magnifico edificio, che tolse quel nome dalla sacerdotessa Eumachia che lo dedicò alla Concordia ed alla Pietà Augusta, ed era circondato di portici, i quali erano chiusi da' muri della Cripta. Vi avea templi innalzati ad Iside, e ad altre di vi ni la di Egitto e di Grecia.

Gli Alessandrini, che dimoravano nella città come a Puteoli e a Napoli, aveano un culto particolare per la dea detta Pelagia o Marina, come regina del mare ed inventrice della navigazione.

Vi avea due teatri; il più grande era scoverto, tutto rivestito di marino ne11' orchestra, ne' gradini della cavea e nelle scene, destinato alle rappresentazioni tragiche, e comunicava per mezzo di un portico con l'orchestra del piccolo teatro o dell' Odeo, destinato come pare alla commedia od al canto, costruito di tufo, con scale di lava vesuviana, e col parapetto del proscenio e la scena rivestiti di marmo.

Alle innocue e lodevoli rappresentazioni della scena unirono i Pompejani i feroci ludi gladiatorii; e al pari di tante altre città del mondo romano ebbe Pompei il suo anfiteatro, maraviglioso monumento per antichità e magnificenza, posto sopra una collina, a breve distanza dalle mura della città. Aveva grandi e piccole porte che rendevano facile l'entrare e l'uscire; e di contro alla porta settentrionale sta un arco laterizio, decorato una volta di colonne di marmo, di cui veggonsi ancora i rottami; e a destra vedesi un triclinio, e non che supporlo funebre, crediamo che fosse destinato piuttosto ai gladiatori, ai quali si davano lauti banchetti prima d'introdursi nell'arena.

Nella città di Pompei vi avea poche grandi abitazioni, ma in tutte le piccole non era nulla intralasciato di quello che poteva renderle piacevoli e comode, ed erano quasi tutte costruite allo stesso modo. Le case pompejane erano decorate con molta semplicità, e in fuori de' pavimenti e dei musaici, non trovi marmi che ne' teatri e ne' pubblici edifizj; ma molto gusto fu adoperato e molta ricercatezza negli stucchi e nelle decorazioni; e quasi tutte le case erano dipinte di pitture che rassomigliano ad arabeschi, e che oggi diciamo alla pompejana.

Dalle più alte sorgenti del Sarno derivarono i Pompejani le acque che servivano alla città, e ciò dimostrano chiaramente i ruderi di un antico canale ne' fianchi del monte di Sarno, e i molti cunicoli che portavano quelle acque nelle terme e in molte fontane pubbliche e private.

Diciamo infine, che Pompei, situata sopra un vasto scoglio, prodotto da eruzioni antichissime, alla riva di un mare tranquillo, sopra un lido incantato, all'entrare di una fertile pianura, e presso un fiume navigabile (1), offriva ad un tempo una posizione militare, una città di commercio ed un luogo di delizie.

(1) Il Sarno, il quale è formato da quattro limpide fonti che sgorgano da monte Locolano

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Dissepolta in gran parte dalle ceneri ond'era stata ricoverta, si offre oggi ai più eletti studj degli archeologi e degli artisti, e a tutti coloro cui piace di contemplare il passato e gli ammirevoli monumenti dell'arte antica. E i luoghi circostanti erano lieti di belle case e di ville; e alla marina, poco prima della porta per cui si entra in Torre Annunziata, furono trovati i ruderi di una villa magnifica, la quale avea ampie e ben ornate stanze, con pavimento di musaico e pareti dipinte alla maniera stessa di quelle di Pompei.

E queste città erano sulle ultime falde del Vesuvio, sollevato in tempi remotissimi dal fondo del mare, del pari che i vicini monti di Somma e i Campi Flegrei; e il suo nome trasse probabilmente dalla sua natura vulcanica, o dal fuoco che sgorgava da esso. Sono amene e verdeggianti le colline del Vesuvio, coverte di ulivi e di viti, se le ardenti lave non prorompono per distruggere i fertili campi circostanti; ma la sua erta cima e formata di aduste zolle e di sassi abbruciati. Il Vesuvio fu come l'olimpo della nostra Campania, e i nostri antichi vi adorarono Giove con gli epiteti di Summano e di Vesuvio.

Acerra (Acerrae) era di rincontro al monte di Somma, tra Napoli e Capua, nello stesso sito di oggidì. Fondata in tempi anteriori alla storia, fu creduta città de' Pelasgi. A' suoi primitivi abitatori la tolsero i Sanniti, ed ai Sanniti i Romani. Fu nobile città dell'Opicia, popolosa, ricca di pubblici edificj, cinta di forti mura. ,

Ebbe templi sacri ad Iside ed a Serapide, ed un anfiteatro, siccome dimostrano alcune iscrizioni antiche.

Suessola (Suessula) era quattro miglia lontana da Acerra, nei confini della Campania e de' Sanniti-Caudini. Prese parte alle guerre de' Sanniti e alte guerre cartaginesi, e fu ridotta alla condizione di prefettura di Roøà. Fu splendida fino

ne' primi secoli cristiani, e fu distrutta da' Saraceni l'anno 880. Ebbe i suoi templi, e nume principale era Cerere. Veggonsi ancora i ruderi del teatro, e avanzi di fabbriche antiche, e marmi e colonne, là dove si dice il basco di Acerra. In sul monte ad oriente delle rovine della città pare che i Suessolani avessero la loro rocca, che poi si ampliò in un forte castello nel Medioevo.

Nola, nove miglia lontana da Suessola, era nel sito stesso di oggidi, una delle più splendide città campane. Fu fondata probabilmente da' Pelasgi, ai quali in processo di tempo si riunirono i Calcidesi, quelli stessi che si erano stabiliti a Cuma e nella vicina Enaria. Che fosse una colonia greca e che avesse stretti rapporti con te città di Grecia, e particolarmente con Viene, lo dimostrano le monete, i vasi dipinti, scoverti ne' suoi sepolcri, e simili del tutto a quelli dell'Attica, ed altri monumenti dell'arte greca trovati nell'agro della città, e i riti religiosi, le costumanze, gli esercizi ginnastici.

Al I secolo di Roma, Nola era popolosa e fiorente città; fu alleata dei Sanniti, e quindi soggetta ad essi; prese parte alle guerre cartaginesi, e alla guerra Sociale, e quindi fu colonia romana. Volendo trarre argomento dalle sue mura, Nola era ampia città, con un perimetro di oltre tre miglia, e si ridusse in termini più angusti dopo che fu saccheggiata e distrutta da' Saraceni. Le sue mura erano fortissime e di lese da torri, con 12 porte ed altrettante strade.

sterile collina a cui è sottoposta la città di Samo, e dall'altro monte che levasi più oltre a maggiore altezza. Essendo in tempi molto remoti le sue ripe assai più profonde di quelle che or sono, il fiume era allora navigabile per buon tratto dalla foce dentro terra.

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Ebbe due grandi anfiteatri, de' quali uno di marino, e l'altro laterizio più antico, di là della porta verso Napoli. Ebbe molli templi, e i numi principali erano Giove, Apollo, Mercurio, Cibele, Venere, Bacco: sulle rovine di quei templi antichi furono innalzate le chiese cristiane.

La città era divisa per regioni, e le lapide ci ricordano la regione romana e la giovia, la quale fu cosi detta dal tempio di Giove.

Sei miglia lontano da Nola era un paese antico ch'ebbe nome di Laurinio (Laurinium), dal quale prese il nome una delle due porte di Nola donde usciva la strada che conduceva nella regione degli Irpini e nell'Apulia.

Abella era sul pendio di un monte, alla distanza di dieci miglia da Nola, dalla parte di greco, antica città de' Campani, fondata da' Calcidesi. Sono oscure ed incerte le vicende della sua storia primitiva, e solo possiamo dire, che da una colonia di quella città trasse origine la città di Abellino negl'Irpini, e che fu città de' Sanniti e colonia romana. Le rovine che di quella città restano ancora alle sorgenti del Clanio, due miglia circa a settentrione dell'odierna Avellino, ne dimostrano l'ampiezza e l'importanza. Le mura aveano un perimetro di tre miglia, e in mezzo veggonsi i ruderi di un anfiteatro, ed una lapida ne ricorda il teatro, sicuro argumento della gentilezza e civiltà greca. Vi avea templi innalzati a Giove, a Diana, ad Apollo, a Cerere, a Bacco. La città cominciò a cadere a' tempi di Costantino Magno, e fu del tutto abbandonata alla fine del IX secolo.

Nuceria era in una fertile valle tra 'l Vesuvio e 'l monte Gauro, città antichissima, l'ultima delle città mediterranee della Campania. Vuolsi che fosse pelasgica l'origine della città, e lo dimostrano le medaglie e le principali divinità de' Nucerini, Giunone e Nettuno, ricordando che Nettuno era riguardato come re de' Palasgi, e che col titolo di Argiva era adorata Giunone. Al tempio di Giunone, ch'ebbe ad essere il più cospicuo della città, appartengono forse i bellissimi avanzi di antiche sculture architettoniche di che è ricca la chiesa di 5. Maria Maggiore.

La città fu circondata da tempi antichissimi da molti villaggi e paghi; ed una agevole strada riuniva Nuceria a Salerno.

Stabia (Stabiae) era sulla spiaggia del Cratere, alle radici del Gauro. Fu fondata probabilmente dagli Osci, o da' Greci fondatori di Sorrento, e fu dominata da' Nucerini. Prese parte alla guerra sociale e fu distrutta da L. Silla, e i superstiti abitatori si ridussero ad abitare i villaggi vicini; ma conservò il nome di Stabia un borgo della città, anch'esso coverto di ceneri nell'eruzione vesuviana dell'anno 79, e sí che ai tempi degli Antonini Stabia è ricordata come una terricciuola. L'odierna Castellammare era uno de' borghi della città antica, ed era anzi il porto di Stabia, la quale poco discosta di là distendevasi a destra sullo stesso lido. Il luogo era ameno e dilettevole, e tenute in grandissimo pregio le acque medicinali ed il latte degli armenti Stabiani. Ebbe Stabia il suo genio, e gli fu innalzato un tempietto a piè dal monte Lattario (1), in un punto che segna

(1) Il monte Faito, il quale levasi alto ad occidente di Castellammare, è quello che fu detto Lattario ne' secoli della decadenza, celebrato per la fecondità delle erbe, per gli armenti che vi pascevano in gran numero e per 1' eccellenza del latte. Antiche reliquie di abitazioni e di sepolcri si sono scoverte alle sue falde, e dal nome di Lattario derivò probabilmente quello della città di Lettere.

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va il confine tra l'agro di Stabia e quello di Nuceria; e ruderi di templi antichi furono trovati sulle colline circostanti. U centro della città pare che fosse al ponte di S. Marco, e quivi intorno sono avanzi di strade, di edifizj, di sepolcri antichi.

Equa era piccola città ne1 seno stabiense, alla distanza di quattro miglia da Stabia. Distrutta nella guerra Sociale, il suo nome non fu ricordato dagli antichi geografi e storici, ma durò ne' monticelli vicini, che da essa furono detti gioghi aquani, celebrati pe' vini che producevano. Fondata forse da quelle colonie Ulissee che si posavano sulla penisola sorrentina, o dalla cresciuta popolazione de' vicini Stabiensi e Sorrentini, tolse il suo nome dalla pianura (aequum) nella quale fu edificata. Certo è che sul monte soprastante al lido, dove i patrIl scrittori crederono situata la città, fu un villaggio col nome di Massa Equana, ora detto Massaquana, tra' più ameni e deliziosi casali di Vico Equense, dove pare che gli antichi Equani, lasciando la spiaggia, si ritirassero dopo la distruzione della loro patria.

Sorrento (Surrentum) era sei miglia lontana da Equa, sullo stesso sito di oggidì. Era città greca, sia fondata da' Teleboi o da altri popoli dell'Acarnania, sia da quei greci che furono seguaci o adoratori di Ulisse, e i quali fondarono sul promontorio il tempio di Minerva; e la sua origine greca dimostrano le favolose tradizioni dell'arrivo di Ulisse, le greche denominazioni de' luoghi che circondano Sorrento, la rimembranza delle sue fratrie, e le monete ed i templi.

La città era grande e popolosa, frequentata, per l'amenità del suo sito, da' vicini e da' lontani popoli, ed una stazione vi ebbero forse gli Alessandrini, come a Puteoli, Napoli e Pompei. Ebbe il suo Foro, il suo Circo, le Terme, e templi superbi. Nel Foro della città posero i Sorrentini statue a' benemeriti cittadini. U tempio di Cerere era fuori le mura della città, ed era lavoro magnifico e stupendo, volendo trarre argomento dagli avanzi di opera laterizia e reticolare, e da' pavimenti a musaico, e dalle colonne, alcune di porfido, altre di basalte, e da un'ara di marmo pario. ll tempio di Venere era sulla rupe dalla quale si scende al lido che dicesi la Marina grande, e la dea era adorata col nome di Vittrice.

Fu celebrata la salubrità dell'aere di Sorrento, i vasi, e i vini de' colli circostanti, e i pescosi lidi, e qui venivano i Romani a passare ozj beati. Dopo di Sorrento viene la marina di Puolo, dove la baja della città resta divisa da quella di Massa; e sul colle che a destra elevasi alquanto sul mare stava la villa di Pollio Felice, il cui nome tuttavia rimane in quello del luogo. Ed era in un sito bellissimo donde discoprivasi tutto l'ameno lido e le città e le isole; avea bagni, viali, frutteli, marmi diversi, e statue di grandi uomini. Dinanzi alla Casa era il tempio di Nettuno, e dall'altro lato quello di Ercole, l'uno per proteggere il monte, l'altro la marina. Un gran portico, opera degna di una città, copriva l'obliqua strada che menava alla magione. I ruderi di questa villa superba rimangono nel Capo di S. Fortunata, ove si veggono cisterne e parecchi avanzi di fabbriche reticolate, non che un gran bacino scavato nella rupe di figura quasi ellittica, nel quale il mare forma un vago e placido laghetto.

Il promontorio di Sorrento o della Campanella fu detto Ateneo o di Minerva dagli antichi, per cagione del magnifico tempio innalzato a quella dea da tempi antichissimi. L'origine di quel tempio è circondata di favolose tradizioni; ed altri templi vi erano quivi intorno, e tra gli altri quello delle Sirene, se non

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furono una piccola borgata, o quella piccola Atene ricordata da Stefauo Bizantino.

Il tempio di Minerva fu in grande venerazione, e, approssimandosi i nocchieri all'isola di Capri, facevano libazioni alla dea. Qualche vestigio del tempio fu trovato a piè del promontorio presso al mare, e medaglie, vasi, marmi, capitelli e colonne di ordine corintio con la civetta sacra alla dea.

Col promontorio di Minerva ha termine il golfo che dagli antichi fu detto Cratere.

L'isola di Capri è tre miglia lontana del promontorio di Minerva, dal quale fu forse distaccata per naturali sconvolgimenti da tempi remotissimi. Tacito la descrive come un'isola solitaria, e senza porti, dove il verno è dolce pel monte che le ripara i venti crudeli, con amena vista del mare aperto e della costa bellissima. Col nome di Capriene la descrisse Ecateo, il più antico de' geografi, e i Greci le diedero questo nome probabilmente per le capre selvagge che vi ritrovarono. Primi ad occuparla pare fossero stati i Teleboi, poco dopo la guerra Trojana, poiché Omero parla dell'I sola delle Sirene, le quali erano confuse con quei popoli antichi, e dalle sponde dell' Acheloo le tradizioni mitiche le dicono passate presso il Peloro della Sicilia, e di là nelle vicinanze di Capri. Certo è che l'isola fu abitata da' Greci, e sino al tempo di Augusto fu serbato il greco linguaggio e le usanze greche, e i costumi degli Efebi, come nella città di Napoli. Strabone dice che furono nell'isola due piccole città; ed una era Capri, e l'altra quella che oggi dicesi Anacapri, o Capri superiore; e di fatti è antica la lunga scala che mena a quel villaggio dalla Valletta della marina. Quell'isola la tennero i Napoletani, ma volle Augusto che fosse data a lui in cambio dell'Enaria. Ma Capri è ricordata principalmente per la dimora di Tiberio, il quale volle che fossero innalzate dodici ville, e portassero il nome de' dodici Dei maggiori. La natura aspra e selvaggia di quell'isola pareva fosse l'immagine della natura di colui che la dominava, chè ivi erano antiche e profonde selve, ombrose valli, tetre caverne, rocce inaccessibili.

Molte rovine furono trovate di antiche fabbriche di strade, di archi, di acquidotti, di bagni e di sepolcri, e soprattutto ne' luoghi più vaghi e più ridenti. Furono trovate intere colonne di cipollino egizio, ed altre spezzate di giallo e rosso antico; e pitture ammirevoli nelle mura e musaici e intonachi simili a quelli di Pompei.

Nel piano di Damecuta sorgeva una villa magnifica, e bella del pari che le altre; e di là una strada guidava alla sottoposta marina, ed un'altra per le viscere del monte conduceva alla si nota grotta azzurra, conosciuta fin dal secolo XVI, poi smarrita e poi scoverta un'altra volta; e cosi detta poiché per effetto della rifrazione della luce si veggono colorate di azzurro le acque e le pareti della grotta e l'aspetto di chi vi entra.

Molte strade attraversavano la Campania e riunivano le sue città p"1 importanti. Noi noteremo la Via Appia, quella regina delle vie romane, la quale riuniva Sinuessa a Capua; la Via Domiziana, la quale, partendo da Sinuessa sotto un magnifico arco di trionfo, seguiva la spiaggia Campana, attraversando Cuma, Baja, Puteoli, Napoli, Ercolano, Pompei, Sorrento. Un bel tratto di quella strada rimane in quella che prende a Pompei il nome da' sepolcri, che attraversando la città conduceva a Noto; La Via Domiziana passava a traverso di paesi ridenti, vagamente ornati dalle arti e dalla industria degli uomini, e vi

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avea templi, are, sedili (scholae), archi di trionfo, sepolcri, ville, giardini, portici.

I più notevoli avanzi che oggi se ne veggono sono tra' pochi ruderi della città di Cuma, sotto il colle su cui sorge l' Arco Felice, e presso l'Anfiteatro di Pozzuoli.

Dall'anfiteatro di Pozzuoli partiva la Via Campana, e pe' campi Leborii menava a Capua; e un'altra strada, col nome stesso, riuniva Cuma a Capua.

Da questa strada altre secondarie si diramavano, ed una conduceva ad Atella e a Napoli, e un'altra per Suessola, Nola e Nuceria menava a Salerno, donde nella regione de' Picentini, nella Lucania e nella Brezia sino alla Colonna di Reggio sullo stretto di Sicilia. Una via breve riuniva Puteoli a Napoli per la Grotta di Pozzuoli, toccando lungo la marina il castello Lucullano, e un'altra più lunga pe' colli Leucogei, per la Solfatara le falde dell' Olibano e le colline di Posilipo.

Regione de' Picentini.

La piccola regione de' Picentini era tra la Campania e la Lucania, e tra la regione degl'Irpini ed il mare, in quella parte del Principato Citeriore che dalla costa di Amalfi e da' monti della Cava si distende per Salerno e per Eboli infino alle fonti del Sele.

Quei monti si elevano con tronchi o aguzzi coni tondeggianti e dirupati, con pendenze più o meno ripide verso il mare, e formano con le loro diramazioni molte valli, per lo più poco profonde ed anguste, tra le quali stanno i più ridenti paesi della costa. E alcuni di quei monti sono rivestiti di boschi, ed altri sono nude rocce, di vario colore, le quali hanno termine nel mare, dove si aprono in profonde e maravigliose caverne.

Da ogni lato lieti villaggi e borgate si aggruppano intorno sul pendio dei colli, e si elevano in anfiteatro fino sulla vetta de' monti. In angusta valle, tra monti alpestri, siede Amalfi, la quale tanta importanza ebbe nel Medioevo, e quivi intorno, presso al mare e sul monte, sono Atrani e Ravello. Sull'incantevole lido di questa piccola contrada sorgono coi loro ameni frutteti e giardini, Minori e Majori. Oltre il Capo d'Orso trovasi la piccola borgata d'Erchia, dipendente da Majori, e così detta, secondo che vien ricordato, da un tempio di Ercole; trovasi, a breve distanza, Cetara, in un'angusta vallata di non belle apparenze; e vicinissimo era il porto di Fonti, difeso da lungo braccio di scogli, ora del tutto sommerso: in quel porto ricoveravano le navi di Pesto, Velia, Salerno e Marcina, non meno che di altre città marit

time della Campania. Alla marina di Vietri ha termine l'istmo che comincia ad elevarsi alle vicinanze di Nocerà, formato da un ramo dell'Appennino. Oltre quel termine si aprono le pianure di Salerno, di Montecorvino e di Eboli, con un terreno per lo pi

ù argilloso calcareo, sopra strati di materie che dimostrano l'antico soggiorno del mare.

I Picentini di questa piccola regione facevano parte de' Picenti dell'Adriatico, e vincitori i Romani li costrinsero a lasciare le native contrade e a ridursi sul golfo posidoniate. Parteggiarono per Annibale, e furono, dopo le guerre cartaginesi in Italia, ridotti in dura condizione. Condotti i nuovi coloni ad abitare su' monti che hanno termine nel promontorio Ateneo, quel monti

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formarono il limite della Campania e della regione de' Picentini, i quali poco a poco si allargarono infino alle ripe del Silaro. E allora probabilmente edificarono Picenzia, a poca distanza dal mare, la quale ricordava loro il nome e la perduta patria.

Le Isolette Sirenuse, erano tra le due punte di Montalto e S. Germano, piccoli ma celebri scogli nelle memorie favolose de' nostri popoli, ricordati sotto il nome di Scogli o Sassi delle Sirene, o Saxa Musica, per la favolosa tradizione Omerica, che ivi abitassero le Sirene, le quali con la soavità del canto allettavano i naviganti e

È traevano a s

é per divorarli. Le isolette sono cinque, tre delle quali più grandi quanto il numero delle Sirene; e sono 500 e più passi lontane dal lido, e furono evidentemente prodotte da un'eruzione sottomarina, siccome dimostrano le materie vulcaniche onde sono ricoverte, e le grandi caverne, come nella vicina isola di Capri.

Cosa o Cossa era città de' Picentini sulla costa che poi prese il »orne da Amalfi; e non si ha altra memoria se non questa, che all'anno di Roma 451 vi fu mandata una colonia al tempo stesso che a Pesto, situata a non motta distanza sullo stesso golfo. La città fu probabilmente fondata da¡ Pelasgi.

Macrina o Marcina fu innalzata sulla spiaggia ed ebbe un'origine pelasga. Fu occupata da' Sanniti, e fu distrutta auzi che conquistata da' Romani. E ignoto in quale epoca e per quali guerre fosse distrutta e abbandonata nel Medioevo; certo è che nel VI secolo appena ne rimaneva il nome nel luogo dov'era stata fondata, nella marina sottoposta all'attuale città di Vietri.

Metelliano (Metellianum) era una borgata tra' monti, tre miglia al di sopra della città di Marcina, di un'origine sconosciuta, ma certamente antica, come rilevasi da alcuni avanzi di fabbriche antiche, e da acquidottie serbatoj di acqua. Qui ripararono gli abitatori di Marcina nella distruzione della loro patria, ed essi diedero la prima origine alla città di Cava, ricordata nelle carte più antiche col nome di Civitas Müüianensis Cavw

Salerno (Salernum) era presso al mare, un miglio lontano da Marcina, otto da Nuceria, ed era propriamente alle falde de' colli che circondano la presente Salerno. La sua origine pare fosse pelasga, ma sono ignote le sue prime vicende. Certo è che i Romani vi mandarono una colonia nel I secolo di Roma, e Salerno parteggiò per la Repubblica nelle guerre cartaginesi e nella guerra italica. Era celebrata tra gli antichi la salubrità dell'aria di Salerno, e i ricchi doni di Pomona e di Bacco, per la qual cosa q"eí numi avevano altari ed erano adorati sopra tutti gli altri. Adorarono ancora i Salernitani Giunone Lucina, la grande dea protettrice de' parti novelli.

Picenzia (Picentia) era sette miglia lontana da Salerno, città de' Picentini, ed anzi la sede principale. Ebbe probabilmente la stessa origine di Salerno e di Macrina; e confederata con la città di Pesto, parteggiò pei Cartaginesi nella seconda guerra cartaginese; ma, cessate quelle guerre, lu combattuta e distrutta da' Romani. Il nome di Picenzia dura ancora i« quello di Bicenza dato alle poche rovine di una rocca addossata ad una roccia, alla chiesa di S. Maria a Vico, in vicinanza del fiume Picentino e del ponte di Cagnano costruito sopra questo fiume.

Ebura era l'ultima città de' Picentini, 12 miglia lontana da Piceniia' fuori della strada che menava nella Lucania, e presso al confine di essa.

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essendo che il Silaro era tra l'una e l'altra regione (1) È incerta l'origine e il nome di questa città; ma è certo che i Greci si distesero nel suo agro: e lo dimostrarono i sepolcri che sono intorno alla città e i vasi dipinti in essi scoverti. La città antica fu edificata sulla collina di Montedoro, circa dugento passi a settentrione dell'odierna Eboli. Vi rimanevano vestigi della sua rocca e delle sue mura di grossi macigni senza cemento insino al 1640, quando furono tolti di là per lastricare la nuova città. E a breve distanza da quella rocca rimangono ancora avanzi di mura massicce di poligonia costruzione, i quali pure dimostrano l'antica fabbricazione e fortificazione greca. Una strada riuniva questa città a quella di Pesto, passando sul Sele per mezzo di un ponte.

Irpinia.

L'Irpinia era tra le regioni de' Sanniti Caudini, de' Dauni e de' Lucani, rinchiusa tra' gioghi de' monti e tra' i corso de' fiumi. Gl'Irpini occuparono le opposte pendici del monte Taburno, con le varie colline che, gradatamente discendendo le une dopo le altre, giungono alle vaste pianure della Puglia; e tre fiumi principali non solo ne irrigavano i fertili rum pi, ma li divisero da' popoli vicini, il Sabato ed il Calore a settentrione da' Sanniti Caudini, l'Aufido ad oriente da' Dauni, la catena dell'Appennino ad occidente e a mezzodì da' Lucani, da' Picentini e da una parte della Campania, donde penetrò una greca colonia che fondò due città illustri, Abellino e Compsa. E in questi limiti, ne' quali è compresa quasi l'intera provincia di Principato Ulteriore, si tennero gl'Irpini ne' più remoti tempi, quando, indipendenti dalle altre popolazioni sannitiche , formarono un popolo distinto, non meno ragguardevole degli altri derivati da' Sanniti.

Gl'Irpini furono una delle grandi colonie sannitiche che, lasciando le patrie dimore per la cresciuta popolazione, si divisero da' loro padri, come questi da' Sabini; e ciò è accaduto prima del I secolo di Roma.

E se i Sanniti furono guidati da un toro nelle terre degli Osci, un lupo fu il condottiere degl'Irpini nelle contrade di là del Taburno, e da questo animale, che in lingua sannitica addimandavasi

Irpo, il nuovo popolo ebbe il particolare nome d'Irpini.

Gl'Irpini formarono un popolo indipendente e diedero il loro nome alla regione da essi abitata. Furono dominati da' Romani, e parteggiarono per Annibale, dopo la battaglia di Canne; ma, cessate le guerre cartaginesi, furono facilmente sottoposti alla Repubblica. Ripresero le armi nella guerra sociale; ma quando Silla ebbe occupata le città di Eclano, la più illustre di quella regione, ebbe termine ogni gloriosa memoria degl'Irpini.

Nella descrizione di questa regione noteremo, il monte Pariente, nei confini della Campania e dell'Irpinia, formato da un gruppo di nove monti, alcuni nudi di piante, alpestri ed inaccessibili, altri meno ripidi e coverti di varie specie di alberi, e con alcune valli in mezzo. E fama che sopra quel monte si venerasse Cibele, la dea delle montagne, a cui ne' primi tempi dell'impero si fosse quindi innalzato un tempio; ed è fama che un altro tempio sorgesse ivi sacro a Vesta, presso la Badia di Loreto, in un

(1) Il Silaro scende dalle falde del Paflagone, uno degli alti gioghi dell'Appennino, da molte orribili crepacce, e lungo il suo corso divideva gl'Irpini da' Lucani ed i Lucani dai Picentini.

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sito più basso alle falde del monte, dove furono scoverte reliquie di lab briche e grandi vasi di pietra.

Abellino (Abellinum) fu una delle città primarie degl'Irpini, e fu fondata probabilmente da' Calcidesi fondatori di Abella nella Campania. La città antica non era nel sito dell'odierna Avellino, ma presso Atripalda, che n'è 4 miglia lontana, nel sito che conserva il nome di Civita, dove tuttavia si ravvisa l'intero circuito delle sue mura di opera laterizia, e dove furono trovati molti monumenti antichi, lapide, statue, colonne, monete, acquidotti e sepolcri. Ivi rimangono i ruderi di un Circo o Anfiteatro, e di templi dedicati ad Ercole, a Pallade, a Diana, a Giove.

Ebbe una rocca nel sito dove nel X secolo fu innalzata Atripalda, e in una collina ad oriente erano le Terme, e vedesi ancora qualche traccia dell'acquidotto che vi portava le acque del fiume Sabato.

Sabazia (Sabatia, Sabatium) era a breve distanza dalle sorgenti del Sabato (1), dal quale tolse il suo nome come molte altre città dell'Italia antica, ed era città fiorente ne' primi secoli di Roma; si diede al partito di Annibale, dopo la battaglia di Canne, e tornò, dopo le guerre cartaginesi, soggetta ai Romani. Il sito dell'antica città pare che fosse nella valle ch'è rinchiusa tra' monti di Serino, nel luogo detto Ogliara, che serba ancora il nome di Civita. Ed ivi veggonsi le grandi muraglie che in figura ellittica hanno un perimetro di quasi tre miglia, con avanzi di porte, di torri quadrate e cisterne.

Fulsule (Fulsulae) era città degl'Irpini, e fioriva nel tempo della seconda guerra cartaginese. Era popolosa e fortificata, parteggiò per Annibale, e fu espugnata da' Romani. Il luogo dell'antica città fu riconosciuto nell'odierno Montefusco, detto anche Monte fulsule nel medio evo.

Taurasia, una delle primitive città degl'Irpini, posta presso alle rive del Calore, fu fondata probabilmente da uno smembramento de' Sanniti primitivi. Essa cadde in potestà de' Romani dopo la famosa giornata di Aquilonia. La memoria di Taurasia sopravvive nell'odierno Taurasi, sopra un luogo elevato, a destra e a due miglia dal Calore, dove fu forse l'acropoli della città, se non la città stessa. Non resta che un'antica torre diroccata, e qualche avanzo delle mura ond'era circondata.

E nelle vicinanze di Taurasia, nella regione degl'Irpini erano le città di Corneliano, Cisauna, Fratuento, Ferentino, ricordate nella storia delle guerre tarantine e cartaginesi.

Eclano (Aeclanum) era sulla Via Appia, 12 miglia lontano da Abellino, una delle più splendide città degl'Irpini, e forse, per amenità di sito, per maestà di maestrati e per gloria militare, non cedeva il luogo a nissun'altra città della regione. A poca distanza da Mirabella, nel luogo detto le Grotte si veggono i grandiosi vestigi della città con avanzi di mura reticolate. La città aveva il Foro e la Curia, e l'Anfiteatro e le Terme, e in mezzo alle rovine di questi grandi edifizj furono scoverte statue di numi e lapide e titoli sepolcrali. Vi avea templi innalzati a Cerere, Giunone, Diana Nemorense, Iside, e ad altri numi, siccome dimostrano le lapide e le are eclanensi. La città prese parte alle guerre sannitiche e alla guerra sociale, e divenne colonia romana.

(1) Il Sabato, il quale ha le sue prime sorgenti nelle falde del monte Terminio presso Serino e Solofra, trasse forse il suo nome da qualcuno de' culli asiatici delle nostre regioni diffusi dalle colonie primitive, e massime da' Pelasgi, i quali vi addussero il culto de' Cahiri, uno de' quali volevasi padre del dio Sabazio.

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Alla sinistra di Eclano era un villaggio antico detto Foro Nuovo (Forum Novum), ed era nel luogo oggi detto Fuorno nuovo, manifesta corruzione del nome antico, presse un bosco tra Paduli e Benevento, dove furono trovate medaglie greche e corniole.

Ctuvia era città degl'Irpini, posta verso i monti sannitici, e propriamente alla falda di Montechiodi, dove furono scoverti avanzi di antichi edifizi, vasi, idoletti, gemme incise. La città fu teatro di stragi orrende nelle guerre de' Sanniti.

Equotutico (Equostuíicus) era sulla Via Appia, 12 miglia antiche lontana da Foro Nuovo, una delle più importanti città degl'Irpini. È incerta l'origine, se non vogliamo, per una tradizione serbataci da Servio, attribuirla a Diomede, favoloso fondatore di altre vicine città della Daunia, nume archegete di primitive colonie greche. Il sito della città antica pare fosse presso Castelfranco, nella pianura di S. Eleuterio, dove rimangono reliquie della Via Appia, e si scoprirono titoli sepolcrali e colonne milliarie, e una lapida che ricorda le pubbliche terme.

Quattro strade consolari s'incrociavano nel sito di questa città: la Via Appia Trajana, che veniva da Benevento; la Claudia Valeria; un'altra che conduceva a Venosa ed un'altra che fu detta Erculea.

Furono città degl'Irpini, Vescellio (Vescellium), Volano, Panna, Patumbino, e furono fortificate ed ebbero parte nelle guerre de' Sanniti e dei Cartaginesi. La situazione è incerta.

Trivico (Trivicum) era fuori della Via Appia, e piuttosto che una città od un oppido, fu in origine una unione di tre vichi. L'odierna Tricico, posta sulle falde di un erto monte, è alquanto lontana dal sito dell'antica presso il fiume Lavella, nel luogo dove ne rimangono i ruderi col nome di Cinta.

A sudest di Trivico, quasi nel mezzo della regione sta la famosa valle di Ansanto, pe' fenomeni geologi notabile da tempi immemorabili. Si apre in mezzo una piccola laguna dalla quale si svolgono gassi micidiali, e si sente di lontano il gorgoglio delle sue nere e fetide acque. Virgilio la descrisse come un varco dell'inferno, e gli antichi erano compresi da un religioso rispetto pe' fenomeni che quel suolo manifestava; e tennero quel luogo come sacro, del pari che gli antri plutonii, ed innalzarono un tempio alla dea Mefite, la cui immagine era di nera argilla.

Compsa era alla distanza di 29 miglia di Abellino, sopra un piccolo colle nelle vicinanze dell'Ofanto, una delle più antiche e più importanti città degl'Irpini: fu città greca, edificata probabilmente da una colonia di Calcidesi, di quei medesimi che aveano innanzi edificato Cuma, Nola, Abella, Abellino, e fu ricca e popolosa, ed ebbe monete sue proprie. Ebbe il Foro e la Curia, e templi ed are.

L'odierna Coma pare sia succeduta all'antica Compsa, se non nella situazione precisamente, almanco nel nome. Nell'agro di questa città è ricordato un tempio sacro a Giove Viculino, ossia protettore de' vichi e de paghi. Nelle vicinanze di Compsa era il Castello Carissano (Castrum Canssanum), e si crede nel luogo dell'odierna terra di Cairano, siccome dimostra la traduzione che ivi fosse l'antica rocca di Compsa, non che te anticaglie scoperte nel circostante agro, dove da' molti sepolcri scavati atie pendici del monte furono tratte fuori antiche armi e monete.

Romulea era città degl'Irpini presso la Via Appia, posta sopra un luogo elevato, fu città forte e popolosa, la quale prese grande parte alla guerra de' Sanniti.

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Gli antichi scrittori attribuirono ai Sanniti l'origine di questa piccola Roma degl'Irpini. Il luogo della città pare fosse il sito del!' odierna Bisaccia, sopra un'erta falda dell'Appennino.

Aquilonia fu un'altra città di questo nome nella regione degl'Irpini, e il sito era quello dell'odierna Lacedonia, dove furono trovate monete e avanzi di monumenti antichi.

Diverse grandi strade attraversavano il paese degl'Irpini, ma nella parte superiore confinante con l'Apulia. La più lunga era quella che partendo dal grande arco innalzato a Trajano in Benevento dirigevasi dal Calore dell'Ofanto passando per Nuceriola. Era questa strada un ramo della Via Appia, di cui restano ancora alcune tracce nella grande ed amena pianura del Cavante. Questa strada passava sull'amenissima collinetta dove già fu Eclano, e di là menava dritto a Frigento. Inoltravasi quindi per una gola di vari monti, dov'è Guardia Lombarda, donde seguiva fiancheggiata di ostelli e sepolcri fino alla città Romulea, presso alla quale fu un qualche nobile tempio, volendo trarre argomento dalle rovine di un grande edifizio fra marmi e rottami di grandi colonne; e di là la strada volgeva ad Aquilonia, e, per luoghi piani ed ameni, inverso l'Ofanto. Un altro ramo prendeva una direzione più settentrionale alla sinistra di Benevento, e passando l'Appennino presso Equotutico menava ad Eca (Troja) nell'Apulia.

Ed altre strade secondarie si ricongiungevano con queste per diramarsi nell'Apulia e nelle altre regioni circostanti.

La Lucania

La Lucania si distese nella parte più larga della Sicilia citeriore, dalle rive del Tirreno a quelle del Jonio, ed era terminata da quattro fiumi, dal Silaro ad occidente, che divideva la dalla regione de' Picentini, dal Lao ad oriente, ch'era tra la Lucania e la Brezia, e verso il Jonio dal Sibari e dal Bardana. E quindi la Lucania antica comprendeva l'ampio paese ora formato da' distretti di Vallo, Sala e Campagna nel Principato Citeriore, e da' distretti di Lagonegro, Potenza e Melfi nella Basilicata.

La catena dell'Appennino giunge fino al confine settentrionale della Lucania, e forma con le sue minori diramazioni tutto il territorio di quella contrada: ad occidente di Venosa si diparte in due rami, de' quali uno più basso va per l'Apulia, e l'altro più elevato piega inverso mezzodì, c si avanza oltre i confini della regione infino allo Stretto di Sicilia. Monti e valli si aprono in mezzo alle diramazioni dell'Appennino, di varia forma ed ampiezza, bagnate da larghi e piccoli rivi di acqua, che da' gioghi appennini discendono infino ai mari circostanti del Tirreno e del Jonio. E potremo dire con uno de' nostri più chiari scrittori di cose patrie, che varia è la qualità del suolo e del clima della Lucania, siccome quella che abbraccia una ben grande estensione di paese; che attraversata in quasi tutta la sua estensione dall'Appennino, il quale dal monte Alburno inoltrandosi verso le falde del Pollino termina fra' due mari, e distendendosi in belle c vaste e per lo più amene colline in riva del Tirreno, ha rigidi interni ne' luoghi mediterranei, dolci ne' piani. Non pochi e bei fiumi la irrigano, e limpidi ruscelli. Pregevole e rara n'è pure la Flora; e belli ed estesi sono i pascoli, e numerosissimi gli armenti, onde l'agricoltura fu prosperevole

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fino da' primi tempi, e i Lucani crebbero in popolazione e potenza non meno del grande e valoroso popolo de' Sanniti, da cui ebbero origine. Plinio pone i Pelasgi tra' popoli primitivi della Lucania; ma prima de' Pelasgi fu abitata dagli Enotri, i quali dominavano tutta la spiaggia della penisola da Taranto a Posidonia, e succederono agli Enotri probabilmente gl'Itali, i Morgeti, i Sicoli. Ma quando gli Elleni aveano occupate le marine di questa contrada, cresciuti i Sanniti in grande popolazione, condussero nella regione mediterranea una loro colonia, che poi formò il gran popolo de' Lucani; ma ciò accadde dopo che i Sanniti si furono impadroniti di Volturno e di Capua, le quali erano in una regione più vicina e più ubertosa.

E ignoto da chi ricevesse la Lucania questa denominazione, e quale fosse la sua etimologia, ma pare che fosse greca, e derivasse dalla condizione del suolo, poiché argillosi sono per lo più i terreni e molla luce danno per la loro bianchezza.

I Lucani ebbero parte alla guerra de' Sanniti e de' Tarentini, e caddero insieme con essi sotto la dominazione romana; se ne distaccarono nelle guerre cartaginesi, dopo la battaglia di Canne, ma dopo breve spazio di tempo, senza combattere, tornarono soggetti alla Repubblica. Presero parte alla guerra Sociale; e quando tutti gli altri popoli italici, accordati o vinti, deponevano le armi verso la fine di quella guerra memorabile, i soli Lucani e i Sanniti la sostennero infino alla fine, ed ottennero del pari che gli altri popoli il bramato dritto di cittadinanza, e furono messi nelle tribù per dare il loro suffragio.

Ebbero i Lucani alcune medaglie di bronzo co' tipi di Giove fulminante, di Marte, di Ercole, di Pallade o Bellona, e continuarono a batterie sino all'epoca della seconda guerra punica. I Lucani ebbero tra gli antichi il vanto di essere ospitali e giusti.

Nella descrizione topografica di questa regione, partendo dalla foce del Silaro inverso Posidonia, noteremo il tempio di Giunone Argiva, di cosi remota antichità che dicevasi fondato da Giasone. Ma i fondatori del tempio furono probabilmente i Pelasgi, i quali dominavano sopra tutta la spiaggia della Campania in sino al Silaro, e più oltre ancora sul lido stesso della Lucania: l'adorazione della dea di Argo era propria de' Pelasgi.

Posidonia o Pesto (Pœstum) era sulla marina de' Lucani, oltre il tempio di Giunone Argiva. Quantunque fosse incerta la sua origine, pure la città era greca, e greci erano i costumi ed il linguaggio. Le sue monete ed i templi superbi ne dimostrano lo splendore e la prospera fortuna e la perfezione delle arti; e i tipi delle ancore, de' limoni e di altri nautici arnesi in tali medaglie son pruova certa che i Posidionati erano un popolo di marini. Cadde Posidonia con l'occupazione de' Lucani, e cominciò a rimbarbarire, perdendo con la libertà l'idioma e le istituzioni elleniche. Divenne quindi romana, e prese parte alle guerre tarentine e cartaginesi come colonia e alleata della Repubblica, la quale soccorse mandando patere di oro e navi. Accorciando e alterando il nome antico di Posidonia, i Lucani le diedero quello di Pesto. Questa città fu celebrata da' poeti dell'impero per la fertilità de' suoi campi, e per le rose che il dolce clima faceva fiorire due volte l'anno.

Sono maestose le rovine de' templi di Pesto; e il più grande, che si suppone sacro a Nettuno, è uno de' più belli e de' più superbi che si conservino dell'antichità;

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e le colonne scanalate di ordine dorico sono simili a quelle del Partenone e più massicce di quelle. Simile al tempio di Nettuno è un altro più piccolo, che vuolsi sacro a Cibele, e le cui rovine hanno molla somiglianza con quelle di Segeste in Sicilia.

Veggonsi ancora i vestigi di un anfiteatro, e di altro grande edifizio, che fu forse una basilica o una palestra, e alcuni avanzi di mura che circondano un gran piano quadrilatero, giudicato il Foro della città.

Volendo trarre argomento da' molti ruderi sparsi intorno alla città nella pianura e ne' colli circostanti, dobbiam dire che la città era cinta di borghi e di ville, e che era grande e fiorente la popolazione nel recinto della città ed oltre quel termine. Le mura erano di grandi macigni di travertino di forma quadrata o bislunga, commessi insieme senza cemento, e aveano torri quadrate a breve distanza l'una dall'altra.

Pesto fu città ricca ed illustre; ed oltre ai templi superbi e alle colossali tazze ivi trovate di porfido e di granito, la città era ricca di molte altre opere minori, ed ivi furono trovati sarcofaghi, colonne, sculture, bassirilievi, ornati di verde antico, e vasi dipinti, patere, tripodi, monete e lucerne.

La città durò sino ai principj del X secolo, e fu distrutta da' Saraceni. Gli abitanti emigrarono su' monti vicini dove edificarono Capaccio, e sulla costa amalfitana, dove edificarono Positano.

Sotto le mura di Pesto formavano la Palude Lucana gli stagnanti rigagnoli del fiume Salso e le fonti minerali che da massi tufacei zampillano nella circostante pianura e danno origine al fiumicello Lupata. Nelle vicinanze di questa laguna fu vinto Spartaco dal ferro de' Romani. Altre paludi infettano questa ridente contrada alla sinistra de' templi pestani, e formano il cosi detto Sele morto, nel quale si crede che fossero una volta 1' antica foce del fiume ed il porto Alburno.

Abitati da Greci e da Romani erano molti punti della spiaggia lucana, e molti ruderi di antiche fabbriche e medaglie furono trovati, tra gli altri luoghi, ne' vigneti di Castello dell'Abate.

La punta più sporgente di quelle spiaggia era il promontorio Posidio o Nettunio, che oggi dicesi la Punta di Licosa, ed era sacro al nume tutelare di Posidonia. Di contro a quel promontorio, quasi ad uguale distanza tra Posidonia e Velia, poco più di un miglio dal continente, sorge nel seno pestano l'isoletta Licosa, molto celebrata tra gli antichi poeti c geografi, i quali ne trassero il nome dalla Sirena Leucosia, ivi balzata dal mare e sepolta.

Jela, Elea o Velia era sulla spiaggia lucana, 25 miglia lontana da Posidonia, poco meno di due miglia dalla foce dell'Alento (1), e fu grande e celebre città. Vogliono alcuni che fosse fondata da' Tirreni, altri da' Focesi o da' Turii, e l'epoca è incerta. La storia di questa illustre città ricorda la tirannia di Nearco, le leggi di Parmenide e di Zenone, i quali fiorirono, il primo verso l'anno 504, l'altro verso il 464; la celebre scuola formata da quei due filosofi che fu detta Eleatica; e la resistenza che gli Eleati opposero ai Posidoniati ed ai Lucani. Di Velia restano molte monete con tipi eleganti e varj, e vasi dipinti che dimostrano la perfezione delle arti e la floridezza della città. Ebbe nobili edificj, e templi innalzati a Minerva, a Proserpina, a Cerere.

(1) L'Alento era nobile fiume della Lucania, ricordato de' Greci e da' Latini co' nomi Elete e di Alento.

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Il sito della città antica era sul monticello dove sorge il diruto castello gotico di Castellammare della Bruca, e nella pianura sottoposta. Veggonsi ancora gli avanzi delle mura di grossi macigni quadrati senza cemento, ed avanzi di acquidotti e serbatoi di acqua.

A 500 passi dal castello gotico è sulla marina un gran semicerchio ingombro di sabbia, il quale mostra tuttavia i vestigi del porto di Velia, una volta capace di molti navili. Ed altri piccoli porti erano sulla spiaggia, nei piccoli seni di quel lido, rincalzati poi da' sassi e dalle arene, e nel sito detto il Lago furon veduti grossi anelli di ferro per legarvi le navi.

Appartennero all' Eleatide le due isolette Ponzia ed Iscia, che sorgevano incontro al seno veliense, e furono dette Enotridi, poiché prima possedute dagli Enotri.

E dopo di Velia sorgeva il promontorio e il porto di Palinuro, ricordato da poeti e geografi antichi e circondato di favole. Questo porto, ora rincalzato dalle correnti, era uno de' più grandi d'Italia. Ivi sopra una collinetta a breve distanza dal mare rimangono i ruderi di un monumento di opera reticolata in forma di piramide, e forse fu il cenotafio innalzato al favoloso Palinuro.

E sopra questo medesimo lido era il fiume e il seno di Melpi, e la città di questo nome, il fiume Mengardo ed una città grande ed antichissima, la quale ebbe probabilmente il nome di Fistelia, ed il promontorio, il porto e il fiume di Pissunto o Bussento, dal quale prenderà nome una città a poca distanza dalla sua foce, edificata da colonie greche. Questa città fu abbandonata in processo di tempo, e nel medioevo è ricordata col nome di Paleocastrum o di antico castello, che poi diede origine al nome odierno di Policastro.

Scidro (Scidrus) fu città antichissima della regione, anteriore non solo all'occupazione de' Lucani ma a quella delle stesse colonie greche. l Sibariti, scacciati dalla loro patria, vennero ad abitare questa città, il cui sito era probabilmente nell'odierno porto di Sapri, che tolse quel nome dai Sibariti.

Blanda era a 7 miglia da Scidro, sulla Via Aquilia, che da Pesto lungo la spiaggia aveva termine alla Colonna Reggina. Era grande e popolosa città, e tolse questo nome dal suo sito dilettevole in sulla spiaggia. Il luogo dell'antica città era probabilmente nella contrada di S. Venere, un miglio distante da Maratea, e mezzo miglio dal mare. Ed ivi furono trovati antichi ruderi, e i resti di un tempietto di fabbrica reticolata, e sepolcri, idoletti, monete.

Più oltre in sulla spiaggia sorge l'isoletta di Dino o Dina, con piccolo porto, e nota per la pesca de' coralli. quest'isoletta fu detta di Venere, per un piccolo tempio ivi innalzato a quella dea.

Lao era presse al mare, l'ultima città della Lucania, e tolse questo nome dal fiume Lao, che questa regione separava da quella de' Bruzj. Era città greca, e se non fu fondata, fu certo accresciuta da una colonia di Sibariti superstiti alla rovina della loro patria. Ebbe magnifici monumenti, e monete sue proprie, con comodo e sicuro porto, e fu padrona di un ricco commercio. Il sito della città era a Scalea, dove veggonsi avanzi di mura antiche, e di acquidotti e di sepolcri.

Lungo il corso del Lao, risalendo nella parte mediterranea, incontravasi la città o grossa borgata di Murano ( Muranum), e più oltre la città di Nendo (Nerulwn).

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Tebe (Thebae) era a non molta distanza da Nernlo, città greca conquistata da' Lucani. Fu fondata probabilmente da una colonia venuta dalla Beozia; e quantunque non sia certo né il tempo né il luogo, pure credesi antica, e molto innanzi all'occupazione de' Lucani, e credesi che fosse nella pianura sotto Castelluccio, sopra Laino, dove veggonsi rovine di una città antica, e furono trovati non pochi idoletti di Ercole, alcuni di bronzo e moltissimi di terra cotta, i quali ricordano il nume patrio de' Tebani della Beozia; ed avanzi di fabbriche laterizie, sepolcri e medaglie greche e romane.

Grumento (Grumentum) era città de' Lucani antichissima e fortificata, posta fra le più alte e fredde montagne nel cuore della regione, e di origine greca. Prese parte ed ebbe molto a soffrire nelle guerre cartaginesi. Il sito della città antica era nelle vicinanze di Moliterno, la quale vuolsi innalzata sulle rovine di un villaggio antico detto Mendicoleo. I Grumentini ebbero templi sacri a Giove, Giunone, Apollo, Silvano, Mercurio; e bagni e terme; e veggonsi ancora i vestigi di un arco-acquidotto, che da sotto Moliterno, alla distanza di tre miglia, vi conduceva l'acqua delle limpide sorgenti di Castagneta. La città fu distrutta alla fine del Il secolo da' Saraceni, e la maggior parte de' Grumentini ripararono allora nei vicini paghi di Sarconi, Moliterno, Marsico Vetero, Viggiano, Montemurro, S. Martino ed Armento; i quali erano pure antichi, e i due ultimi sopra gli altri, come può argomentarsi da' vestigj di antiche fabbriche, e da' molti sepolcri ivi discoperti, e da' pregiati vasi.

Ance o Anxia era una delle città più antiche della Lucania, 15 miglia lontana da Grumento. Fu fondata da coloni greci, com'è manifesto da' sepolcri discoperti, e da' vasi di ogni forma e grandezza e di gran pregio per le storie mitiche che vi sono dipinte. Fino ne' bassi tempi fu uno de' più forti castelli della Lucania, anche per la sua eminente posizione; a tempo de' Normanni fu detto Ansa ed Ansum o Castellum Ancii, donde derivò il nome odierno di Ami.

Potenzia (Potentiá) era una delle città più cospicue della Lucania, quasi nel centro di tutte le nostre regioni. Ebbe origine greca e fu probabilmente fondata da' Pelasgi: delle sue vicende sappiamo questo, che inclinò alle parti di Annibale, e quindi fu in dura condizione ridotta da' Romani. Innalzo templi ad Ercole, a Cerere, a Venere Ericina, la celebre dea della Sicilia adorata sul monte Erice presso Trapani; e fu popolosa e fiorente città.

Oppido (Oppidum) sulle falde di un monte, 12 miglia a settentrione di Potenza, sul confine della Daunia, era antica abitazione de' Lucani; e furono trovati nel suo agro sepolcri antichi, ed armi e monde e vasi di molto pregio, le quali cose tutte dimostrano la contrada abitata da' Greci.

Numistro era città de' Lucani, forse nel luogo dove ora sorge la città di Muro, ricordato come il luogo dove vennero a battaglia Marcello ed Annibale, con grave perdita de' loro eserciti. Ivi furono trovate diverse medaglie, titoli sepolcrali e ruderi antichi, i quali furono avanzi probabilmente de' piccoli villaggetti ond'era circondata la città, sparsi nella prossima valle del Platano (1).

(1) Fiume che scende dalle alture di Tito e di Picerno, formato da varj rivoli, nato dalla fiumara di Muro. Il nome pare che sia di origine greca.

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Lavianio (Ladanium) era antico villaggio della Lucania, posto sopra alti dirupi, e conserva il suo nome in quello di Laviano, ultima borgata del Principato Citeriore, nel confine dell'altro Principato e della Basilicata.

Ursento (Ursentuni) era città Incuria quasi un miglio a mezzodì del luogo dove confluiscono insieme il Tanagro e il Silaro, ed ivi furono scoperti molli avanzi di edifizi antichi con diverse medaglie di Locri e di altre città della Magna Grecia. Sotto il nome di Ursentini furono compresi altri villaggi e borgate nelle vicine contrade, donde poi sorsero ne' tempi di mezzo Colliano e Valva.

Vulcejo o Vulcento era a poche miglia a destra di Ursento, e non ebbe, secondo che pare, un'origine anteriore ai Lucani. Parteggiò per Annibale nelle guerre cartaginesi, e fu da' Romani ridotta in dura condizione. Fu città popolosa, ed ebbe templi e pubblici edifizi importanti, e fu circondata da diversi paghi, compresi nella denominazione comune di Volcentani. La città conservò il suo nome, prima in quello di Bulcino, e poi di Buccino, a cavaliere di una collina di contro al monte Alburno.

Poco discosto di là, dove il fiume Bianco mette le sue acque nel Platano, è posta la grossa terra di Vietri, dove è da credere fondata da tempi antichissimi una città o grande borgata degli abitatori primitivi della regione. Distrutta in tempi sconosciuti, lasciava il nome sino da' tempi romani ai campi circostanti, perciò detti Veteri (Campi Veteres). Ivi furono trovate lapide sepolcrali, monete, stoviglie, armature antiche.

Acerronia era città de' Lucani, e il sito pare che fosse a breve distanza da Brienza, nella contrada che tuttavia serba il nome di Acerrona, dove furono trovati sepolcri e vasi ed altri oggetti antichi. Cinque miglia lontano da Acerronia era un Foro Popilio, il quale, Come tanti altri simili, fu un sito di mercatura nella strada pubblica.

Atena o Atina era nella Lucania, città antica e di origine greca, la quale dopo la seconda guerra cartaginese fu ridotta da' Romani alla dura condizione di prefettura. Ebbe un anfiteatro, e se ne veggono ancora i ruderi in mezzo ai molli altri della città nel piano sotto l'odierna terra di Atena, nel sinistro lato della Valle di Diana.

Polla era 4 miglia lontana dalla descritta città di Atina, ed era città antica, come dimostrano i molli sepolcri ivi discoperti. La città trasse il nome probabilmente dal tempio di Apollo, che sorgeva sul principio della valle di Diano, del quale restano ancora gli avanzi tra annosi lauri in mezzo ad un piacevole boschetto.

Tegira o Tegiano fu città della Lucania, di origine greca, la quale trasse il suo nome da Tegira, città della Beozia, molto celebre pel culto di Apollo. Nelle guerre cartaginesi inclinò alle parti di Annibale, e fu sottoposta quindi a un duro giogo da' Romani. Il sito della città antica pare fosse quello di Diano, e volendo trarre argomento da' ruderi antichi, dalle colonne, da' rottami di marmo e dalle lapide, la città fu ricca e popolosa.

Marcelliana era grossa borgata anziché città de' Lucani, e se ne veggono i ruderi nelle vicinanze di Sala, il cui nome, come altri simili, accenna a luogo o città distrutta; e nell'amena pianura sottostante sono stati scoperti vestigi di rimota antichità e sepolcri.

Ñoïsiliïo o Consilina era due miglia lontana da Marcelliana, a sinistra e fuori della Via Aquilia, grande città e antichissima, siccome dimostrano la spaziosa aerea e gli avanzi delle mura ond'era cinta. Il luogo della città era quello che oggi dicesi

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la Civita, sopra amena collina, un miglio lontano da Padula, e quivi intorno furono scoverte medaglie greche e romane, corniole ed al t re, anticaglie, e sepolcri e lapide, e statue e colonne e avanzi di vie romane.

Oltre della grande strada Appia, la quale toccava nella spiaggia lucana le città di Pesto, Blanda e Lao, noteremo, tra le strade di quella regione, la Via Aquilia, la quale traversando la Campania da Capua a Nuceria, e la regione de' Picentini per Salerno e Picenzia, traversava la Lucania e la regione de' Bruzii, e aveva termine a Reggio.

Alia Via Aquilia congiungevasi la Numicia, la quale per Venosa menava nella Lucania; e questa strada medesima col nome di Erculea prolungavasi insino a Potenzia.

un'altra strada dal fiume Bradano correva per la Lucania in una direzione più meridionale, ed a Nerulo univasi con la Via Aquilia; ed un'altra strada menava da Venosa a Turio nella Magna Grecia, toccando le grosse borgate di Oppido e di Celiano.

La Brezia

La Brezia era nella parte più meridionale della nostra penisola, lungo la spiaggia tirrena, da' confini della Lucania insino allo stretto di Sicilia. I Brezii abitavano, secondo che dice Strabone, un chersoneso, dentro il quale un altro se ne comprende che forma l'istmo tra il seno scilletico e l'ipponiate; ed era quella parte delle nostre Calabrie compresa quasi tutta ne' soli distretti lungo il Tirreno, da quello di Castrovillari a quello di Reggio.

L'Appennino si aggruppa in questa regione in vaste ed elevate masse con numerose valli e profondi burroni, ed è ripido e scosceso dalla parte del mare; segue lo sviluppo delle coste e si eleva in Aspromonte, nella parte più meridionale della penisola. E seconde che dalla Lucania discendono inverso la Brezia, i monti hanno natura più selvaggia, e non veggonsi gli aranci, non i mirti, ma la quercia, la betulla, i sicomeri, i castagni, i faggi. Ma agli alti gioghi, al di sopra de' quali eleva il Pollino la sua fronte argentea e maestosa, molti altri monticelli si aggruppano, attraversati da piccoli torrenti, e rendono vario e pittoresco l'aspetto del suolo e varia la vegetazione.

Questa contrada ebbe varj nomi in tempi diversi, e fu detta Enotria, Italia, Morgezia, Sicelia o Sicilia, Brezia, e in fine Calabria. E quei nomi primitivi i Greci derivarono da quelli de' re che l'uno dopo l'altro vi dominarono, attribuendoli ad Enotro, Italo, Morgeto, Sicelo o Sicolo; e furono greci i popoli di questa parte estrema del nostro paese. Si disse che Bretto fu il fondatore de' Brezii, da cui trasse la regione il nome di Brezia, che poi cangiò in quello di Calabria nel Medioevo, abbracciando con quest'ultima denominazione molte città della Magna-Grecia.

Sono incerte le origini de' Bruzii, e molto varie le opinioni; e chi li vuole servi, chi pastori, chi disertori de' Lucani; ed altri che furono Japigi, i quali, combattuti dalle colonie elleniche, annidarono nella Sila e quindi formarono il popolo bruzio, riunendosi a quei che rimane

vano di Enotri o Pelasgi, e rafforzandosi co' fuggitivi Osci o Sicoli. L'epoca in cui i Bruzii formarono una nazione indipendente pare che debba riportarsi all'anno Ç56 av. l'era nostra.

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Divenuti essi padroni della regione a mezzodì del Lao e del Crati, mossero animosi ai danni delle greche città confinanti; e quelle della costa occidentale, siccome quelle ch'erano più deboli e divise, caddero più facilmente in loro potere; e distendendosi dalla Selva della Sila a quella di Reggio, occuparono Temesa, Ipponio e Terina, elessero in Consentia la loro città capitale, e fondarono Mamerto, sede di un popolo bellicoso, che più di ogni altro ritrasse de' marziali spiriti de' Brezii. Né valsero contro i Bruzii gli aiuti degli Epiroti e de' Lucani, e di Agatocle tiranno di Siracusa, venuti per sostenere le città greche, e i Brezii conquistarono Cotrone, Reggio e Locri. Ma Roma pose fine alle loro conquiste e alla loro indipendenza.

Entrarono i Brezii nelle lunghe e sanguinose guerre cartaginesi, e parteggiarono per Annibale, ma gravi danni ebbero a soffrire e da' Cartaginesi e da' Romani, da' quali furono ridotti nella stessa condizione de' Picentini e de' Lucani.

Volendo descrivere le città e i luoghi più notevoli della Brezia noi ci restringeremo a quelli ricordati ne' tempi floridi dei suoi popoli.

Cerilli o Cerille, in fra il Boto e il Lao, rimasta spopolata nelle guerre di Annibale, era piccola città antica ricordata da Strabone. Il luogo era quello di Cerella vecchia, le cui rovine la dimostrano di grande estensione.

Seguendo la spiaggia tirrena, dopo Cerilli veniva il Porto Partenio, il quale trasse probabilmente questo nome dalla Vergine Artemide o Diana (Parthenia), il cui culto pare fosse stato portato da' Focesi; il promontorio Lampate, oggi Capo di Amantea, il quale prendeva nome dalla prossima città di Lampesia.

Clampesia o Lampesia era sulla riva del mare, città di origine pelasgica, riconosciuta da tutti i geografi nel luogo dell'odierna Amantea, o in quelle vicinanze.

Temesa o Tempsa era città de' Brezii poche miglia discosta da Clampezia e fondata da' Greci in tempi molto remoti. Fu occupata da' Cartaginesi e da' Romani, e ridotta a colonia di Roma. Di questa città si hanno poche monete di argento, e alcune di esse dimostrano l'alleanza di Temesa con Crotone.

Terina era sul lido del mare a breve distanza dalla foce del Savuto e del piccolo fiume che ha nome Grande, il quale, con le alluvioni e con la melma che porta, ne ha coverte le rovine da tempi molto remoti. E fu una illustre città, fondata probabilmente dagli Etoli, accresciuta da una colonia di Crotoniati, occupata da' Lucani e da' Bruzii, distrutta da Annibale. Le medaglie che rimangono ancora di quella città, con molti e diversi tipi, e di bellissimo lavoro, attestano l'eleganza greca e l'opulenza della città. La città antica era 4 miglia lontana dalla presente Nocera, la quale pare che sorgesse dalle sue rovine. In quel luogo furono trovati avanzi di acquidotti, sepolcri, rottami di bassi rilievi, mosaici, idoletti di bronzo, cammei, armature e monete terinee; e in quella che dicesi Terra di Castelluccio veggonsi abbattute muraglie, di un recinto circolare, e sembrano le mura dell'acropoli.

Di contro a Terina sorgeva a breve distanza dal lido una isoletta, oggi in gran parte ricoperta dalle onde, la quale fu detta prima Terina, e poi Ligea, dal sepolcro della Sirena dello stesso nome. E a 3 miglia dall'isoletta Ligea si protende nel mare il promontorio Suvero, che chiude alla destra il golfo di S. Eufemia; e dalla prossima città di Terino fu detta Terineo, e più comunemente Lamezio dalla città omonima e dal fiume che scorre al sinistro lato, or detto Lamato con lieve alterazione del nome antico.

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Lamezia era tra 'l promontorio e il fiume Lamezio, fondata da greci coloni, accresciuta da' Crotoniati. Il luogo dell'antica città de' Lametini pare corrisponda a quello di S. Eufemia, posta a breve distanza dal mare, e da cui ha preso nome il prossimo golfo.

Napizia o Napezia era antica città greca, nella spiaggia tirrena, da cui ebbe prima nome di Napetino il golfo Ipponiate. La città fu distrutta da' Saraceni, e i Napitini prima si riunirono ne' casali di Braccio, S. Donato e Manduci, e poi rifabbricarono nella seconda metà del secolo XV l'odierna città di Pizzo, per opporsi allo sbarco ed alla dimora de' Corsali.

Ipponio (Hipponium) era presso al mare, antica ed illustre città, fondata da una colonia di Locresi Epizefirii. Fu occupata da' Bruzii, ai quali fu ritolta prima dagli Epiroti, e poi da Agatocle, tiranno di Siracusa; e cadde infine sotto la dominazione de' Romani, i quali vi mandarono una colonia, e ne divisero l'agro. Poche monete restano di quella città, tutte di bronzo, ma di bel lavoro, co' tipi di Giove, Pallade ed Apollo. Vi avea templi superbi, ed era celebratissimo quello di Proserpina, i cui superbi avanzi duravano ancora ai tempi del Conte Ruggiero, il quale fece trarre le grandi pietre quadrate e i marmi e le colonne per abbellire la Badia e la Cattedrale di Mileto. Il maggior culto era per la dea Cerere, la quale si credeva volgarmente che dalla vicina Sicilia fosse venuta a cogliere fiori ne' ridenti prati d'Ipponio. de' pubblici edifizi della città non restano memorie che del teatro e de' bagni termali.

Ipponio fu florida e ricca città; e Agatocle vi fece costruire un arsenale, e Gelone vi piantò nelle vicinanze un amenissimo verziere, che chiamò Corno di Amallea dalla fertile regione di Etolia irrigata Aa\\'Acheloo. Era città fortificata, e restano ancora gli avanzi delle mura di enormi massi di tufo senza cemento. Ed ebbe il suo porto nel fondo del golfo formato dal capo Zambrone, dove quando bassa e tranquilla è la marea si veggono vestigi delle antiche costruzioni.

Tropaea, posta sopra uno scoglio che cade a picco sul mare, era nel luogo stesso in cui ora sorge la città dello stesso nome. Fu fondata da' Greci, ed era circondata da altri villaggetti, i quali ebbero probabilmente la stessa origine.

Poco al di sotto di Tropea è una piccola punta di terra detta le Formicole, tra la quale e le vicine isolette si allarga un sicuro porto naturale, da qualche vicino tempio detto Porto di Ercole dagli antichi.

Nicotera, città de' Bruzii, conserva anche oggi il sito e il nome antico, che significa segno della vittoria

Mesma o Medma fu città antica ed importante di questa regione, fondata da' Locresi, ed occupata in processo di tempo prima da' Lucani e poi dai Bruzii. Ebbe il suo emporio, poco discosto dalla città, la quale era sulle coste tra Ipponio e Reggio, a breve distanza dalla sinistra riva del Messina, dove furono trovati infiniti rottami di terre cotte, e monete e medaglie di bronzo, con tipi diversi di bello lavoro.

Metauro era città de' Bruzii, a breve distanza dalla foce del fume dello stesso nome, tra le città marittime poste tra il golfo Vibonese e lo stretto Siciliano. Fu fondata da' Locresi, ed accresciuta da una colonia di Zanclei, venuti dalla città di Zancle, poi detta Messana. I patri topografi riconoscono il sito della città antica nell'odierna Gioia.

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E seguendo la costa tirrena infino a Reggio, incontravasi il Porto Balaro (Balarus Portus), probabilmente nella marina di Bagnara; la piccola fiumara Crotaide, celebre ne' miti primitivi di queste contrade, riguardata da Omero come la madre di Scilla; il promontorio Scilleo, l'alto scoglio di Scilla, nelle cui caverne la greca fantasia pose un mostro marino, terrore de' naviganti; e la Colonna Reggina, di contro al Peloro; e un tempio sacro a Nettuno innalzato quivi intorno.

Reggio (Rhegium) fu città antichissima, della quale oscura e favolosa è l'origine primitiva. La contrada circostante fu abitata da tempi molto remoti da' Sicoli e da' Morgeti, ma i veri fondatori della città pare fossero i Calcidesi, accresciuti in processo di tempo da altre colonie greche, e specialmente dalla stirpe de' Messenii, che di là passarono nella Sicilia, e cangiarono il nome di Zancle in quello di Messana. Il governo era aristocratico, le leggi erano di Caronda di Catania. La città prese parte alle guerre del Peloponneso, e combatté contro la potente Siracusa; fu dominata da Dionigi, e poi da' Romani.

Fra' pubblici edifizj sono ricordati il Pritaneo e il Ginnasio. Ebbe templi sacri ad Apollo, a Venere, a Giove Olimpio, a Mercurio, a Diana, a Pallade, ai Dioscuri.

Editicata la città in una delle più fertili ed amene contrade, in un angolo lello stupendo bacino tra gli opposti promontori de' Bruzii e della Sicilia, divenne florida e ricca da' primi tempi della sua fondazione, e rivaleggiò con le più illustri città greche. Da questa città ebbe nome il prossimo promontorio Reggino, che è da riconoscere nella Punta di Calamizzi, nella quale più si protende la spiaggia. Quel Promontorio in origine fu forse detto Artemisia, come quello dell'Eubea, donde vennero i fondatori di Reggio, e cosí denominato da un tempio sacro ad Artemide o Diana. Dopo la punta di Calamizzi si avanza sul mare il Capo Pellaro, cosí detto dal villaggio di questo nome, distante 6 miglia circa da Reggio: qui si restringe lo stretto Siciliano, e questa punta. pare che corrisponda al promontorio Bruzio degli antichi. E più oltre, 12 miglia da Reggio, Strabone e Plinio posero il promontorio Leucopetra, cosi detto dalla bianchezza della sua formazione calcarea, e che oggi ha nome di Capo delle Armi.

E queste che noi abbiamo descritte sin qui erano città notevoli della costa tirrena de' Bruzii. Nella parte mediterranea, incominciando dal confine de' Lucani, incontreremo:

Sifeo (Sgphaeum), città di origine greca, nel luogo dove fu poi innalzata l'odierna Castrovillari, la nuova cuta degli Svevi. E in quelle vicinanze furono trovat i avanzi di antiche fabbriche, acquidotti e sepolcri con vasi di pregiato lavoro, monete ed anticaglie.

Altre città mediterranee della Brezia, di origine greca tutte, erano Platea, nella stessa situazione di Platici, ora casale del contado di Cerchiara, nella direzione di Castrovillari. Sestio, probabilmente nella situazione della odierna Saracena. Ninea, di molto remota fondazione, nel luogo di s. Donato, tra Acquaformosa e Policastrello. Balbia, in una contrada produttiva di pregiati vini, che dal nome della città furono detti balbini, nel sito stesso di Altomonte, Interamnio, nel sito dell'odierna Fermo presso Altomonte, tea due influenti del Coscile. Artemisia, nelle vicinanze di S. Agata. Verge nel sito di Roggiano; e quivi intorno Caprasia, Argentano, Bresile, Acra, ch'è da riconoscere nell'odierna Acri.

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Consenzia o Cosentia, celebre metropoli della regione, appiè di alto monte, dove il Basento si riunisce al Crati. Fu città greca, la quale poi cadde nel dominio de' Brezii; venne in potere di Annibale, e, sul finire delle guerre cartaginesi, si arrese volontariamente ai Romani con altri castelli minoei. La città ebbe monete sue proprie di oro, di argento, e moltissime di bronzo, le quali tutte dimostrano il culto delle sommesse colonie elleniche. I tipi di quelle monete erano quelli de' numi adorati nella città, di Minerva, di Apollo, de' Dioscuri, della Vittoria, di Giove, di Marte, di Cerere. Fu città popolosa e florida e ricca di monumenti e di pubblici edifizj.

Dalle vicinanze delle descritte città insino al monte de' Reggini (Reginus Vertex), l' Aspromonte di oggidì, estendevasi su' gioghi dell'Appennino la grande selva della Silo, celebrata da motti scrittori, e la quale somministrò legnami per le flotte degli Ateniesi e de' tiranni della Sicilia.

Pandosia era una delle più antiche città della regione;, di origine greca, e circondata di miti ne' racconti favolosi de' primi poeti e storici. Fu occupata da' Lucani, quindi da' Bruzii, quindi da' Romani, e fu distrutta nel Medio Evo. È incerta la situazione della città antica; ma pare probabile che fosse presso il villaggio di Mendicino, tra Cosenza e la marina, dove fino ad oggi è dato il nome di Pantusa ad una vasta estensione di terreno, e sono stati scoverti sepolcri, lucerne, candelabri, rozzi vasi, idoletti ed altre anticaglie.

Altre città fondate dagli Enotri o da' Pelasgi nella parte mediterranea della Brezia furono, Citerio, Menecina, nel sito del villaggio di Mendicino; Ixia o Asia, città fortificata; CU tu, nelle vicinanze della città di Tillesio; Tirio o Turio, di cui furono trovati ruderi antichi e sepolcri presso Tiriolo, e molli vasi e idoletti, e la quale fu fondata da quelli stessi Ateniesi che prima fondarono la città di Turio nella Magna Grecia; e Mamerzio (Mamertium), presso alle fonti del Metauro, probabilmente fondata dai Bruzii, quando stendevano il loro dominio sino ai limiti della sacra selva reggina; e che tolse questo nome da Marte, nume tutelare de' Bruzii non meno che de' Sanniti, il quale armato di asta e di scudo vedesi effigiato sulle monete che a questa città si attribuiscono.

Due grandi strade traversavano la Brezia al tempo de' Romani; uoa più antica, prolungata dall'Appia sulla costa meridionale, e l'altra nell'interno della regione, le quali tutte e due mettevano capo a Reggio. La prima partiva da Lao, nel confine della Brezia e della Lucania, menava a Cerille, e correndo lungo la costa avea termine a Reggio; e l'altra, partendo da Caprasia, giungeva alla Colonna Reggina.












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