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Pubblichiamo il primo volume della monumentale opera di Giacomo Margotti. Non abbiamo seguito un ordine cronologico ma personale, così come ci son capitati fra le mani oppure in base alle nostre predilizioni.

Si tratta di una opera di cui vi raccomandiamo la lettura - in questo volume trovate interessanti articoli sulla questione napoletana.

Zenone di Elea – 10 marzo 2011


MEMORIE
PER LA
STORIA DE' NOSTRI TEMPI
DAL
CONGRESSO DI PARIGI

NEL 1856
AI PRIMI GIORNI DEL 1863.
VOLUME PRIMO
TORINO
STAMPERIA DELL'ORIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
Via Carlo Alberto, casa Pomba, n° 33.

1863.
(A)

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Questi articoli estratti dal giornale l'Armonia vengono ristampati sotto la risponsabilità del gerente Gio. Battista Cuba.

UN'OCCHIATA ALL'ITALIA

DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI PRIMI GIORNI DEL 1863.

Il Congresso di Parigi fu, secondo Lamrtine,1° Une declaration de guerre sous une signature de paix; 2° La pietre d'attente du chaos européen; La fin du droit public en Europe.

Raccogliamo alcune Memorie sui fatti che avvennero principalmente in Italia dal Congresso di Parigi nel 1856 al cominciare dell'anno 1863. Queste due date comprendono uno spazio di tempo fecondissimo d'insegnamenti, e il 1863 mostra l'opera incominciata dai diplomatici sette anni prima! La quale opera percorse tre stadii: s'iniziò con un triplice intervento, l'intervento diplomatico, l'intervento rivoluzionario, l'intervento armato; si proseguì dappoi col cosi detto principio del non intervento, che mentre proibiva agli amici d'intervenire, permetteva ai nemici d'invadere; ed ai giorni nostri sta forse per terminare con uno splendido intervento della divina Provvidenza, di cui abbiamo già avuto segnalatissime prove.

Il primo stadio che noi diciamo dell'intervento, si estende dal Congresso di Parigi alla pace di Villafranca. I diplomatici di Francia, d'Inghilterra e del Piemonte intervennero VS di aprile 1856 nelle cose della Grecia che si trovavano in una condizione anormale; intervennero negli Stati Pontificii, ed il conte Walewski, dopo d'avere stabilito che «il titolo di figlio primogenito della Chiesa, onde si gloria il Sovrano della Francia, fa un dovere all'Imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sovrano Pontefice», ne accusò la situation anormale; intervennero in certi governi della. Penisola italiana, e diedero avvertimenti al governo napoletano, come Napoleone III suole praticare coi giornali e giornalisti del suo impero; intervennero da ultimo nel Belgio, e si lagnarono della società segreta La Marianna, e della stampa belgica che la lodava.

Nel maggio del 1856 discutendosi nel Parlamento inglese ciò che si era fatto nel Congresso di Parigi, il signor Sidney Herbert inveiva con energiche parole contro «la passione d'intromettersi negli affari degli altri paesi». Giorgio Bowyer diceva: «La nostra posizione d'isolani ci rende inetti a conoscere le nazioni straniere». E il signor Gibson osservava: «Egli è veramente strano il vedere i protocolli, che invitano ad intervenire negli affari di Napoli e di Roma in quella che questi documenti si studiano di far apparire che in Turchia,

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dove si potrebbe credere aver noi qualche diritto d'intervento, ogni cosa deve emanare dalla volontà spontanea del Sultano». Ed infine il signor Gladstone, accennando al protocollo dell'8 di aprile, dichiarava: «Dubito grandemente della prudenza di ciò che si è fatto È questione molto grave ed anzi credo che sia una totale innovazione nella storia dei Congressi di pacificazione 1° l'occuparsi di tali argomenti in conferenze ufficiali; 2° di rendere di pubblica ragione le risoluzioni prese».

Fatto è che il Congresso di Parigi, sotto il pretesto della pace, accendeva la guerra in Italia, e dopo l'intervento diplomatico scoppiava tosto l'intervento rivoluzionario. Quando nella Camera dei Deputati di Torino si parlò dei protocolli del Congresso, il dep. Lorenzo Valerio, il 7 di maggio 1856, avvertì che le parole dei deputati non tarderebbero ad infondere audacia e coraggio nei fratelli (Atti Uff. N° 257, pagina 963). E ben presto, nel luglio del 1856, si sequestrano in No vara casse di fucili, di stili e di cartuccie; la notte del 25 di luglio si tenta un'invasione rivoluzionaria in Massa e Carrara; si mandano emissarii a Napoli, a Roma, a Firenze, perché cerchino soscrizioni, e votino medaglie e indirizzi di ringraziamento al conte di Cavour. «Tutti rammentano, scriveva a que' dì l'Italia e Popolo del 30 luglio 1856, N° 210, come all'epoca della memoranda discussione parlamentare il governo sardo a far divampare il fuoco latente nelle altre provincie d'Italia facesse stampare i discorsi di Cavour e di Buffa, e li diffondesse a migliaia di esemplari nei Ducati, nelle Romagne, nel Lombardo-Veneto, a Napoli e nella Sicilia». Vengono di poi le offerte pei cento cannoni d'Alessandria, offerte ideate apparentemente dalla Gazzetta del Popolo di Torino, favorite dalla Gazzetta Piemontese per mettere in rivoluzione l'Italia. Seguono le spedizioni partite dagli Stati di Sardegna, e il barone Bentivegna che, presa l'imbeccata a Torino, sbarca in Sicilia, Carlo Pisacane che da Genova va a Napoli, ed il regicida Agesilao Milano che trova panegiristi in Piemonte; ed i diplomatici che a Firenze ed a Roma abusano della propria inviolabilità per cospirare o proteggere i cospiratori.

Così preparato il terreno, segue l'intervento armato. «Noi ammettiamo, avea detto il conte di Cavour alla Camera dei Deputati, il 6 di maggio, l'indipendenza dei diversi governi; noi non riconosciamo ad un governo il diritto d'intervenire in un estero Stato anche quando dall'altro governo è a ciò fare invitato (Atti Uff. N.255, pag.958). Tuttavia il 10 gennaio 1859 la Corona dichiarava a Torino di non esser insensibile alle voci di dolore che giungevano dalle altre parti d'Italia; e il Moniteur del 4 di marzo 1859 scriveva: «Lo stato delle cose in Italia, sebbene antico, ha preso in questi ultimi tempi, agli occhi di tutti, un carattere di gravita che dovea naturalmente colpire lo spirito dell'Imperatore, perché non è permesso al capo di una grande Potenza, è la Francia, d'isolarsi nelle questioni che interessano l'ordine europeo».

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Il 7 febbraio 1859 l'imperatore, inaugurando la nuova sessione legislativa, avea già dichiarato: «L'interesse della Francia è dappertutto dov'è una causa giusta e civilizzatrice da far prevalere». E il 3 di maggio 1859 Napoleone III annunziava ai Francesi ch'egli scendeva in Italia colle armi alla mano per sostenere l'indipendenza italiana, e una causa che si appoggia sulla giustizia. Fino alla pace di Vili a franca il principio dell'intervento predomina in Italia; intervento diplomatico, intervento rivoluzionario, intervento armato. Nessuno si leva per dire al Piemonte: lasciate in pace gli altri Stati della Penisola; nessuno avverte Napoleone III che se l'Italia è condannata sempre a servire, non dee cangiar di padrone!

La guerra dura pochi mesi, e mentre si ha in Italia intervento ar~ ìnato della Francia, continua l'intervento rivoluzionario. Quest'intervento si vede in Parma, in Piacenza, in Modena, in Bologna, in Toscana, dove il cav. Carlo BonCompagni, che due giorni prima rappresentava il Piemonte presso il Granduca, l'otto di maggio del 1859, cacciato il Granduca, piglia le redini del governo! Napoleone III, parlando al popolo francese, il 3 di maggio 1859, aveva detto: Noi non andiamo in Italia a fomentare il disordine, né a crollare il potere del Santo Padre, che abbiamo ristabilito sul suo trono». Ma poco dopo la venuta di Napoleone in Italia, il disordine predomina, scoppia la rivoluzione di Bologna, e prendono possesso di quella città gli agenti piemontesi. E quando il sig. de Persigny, in un suo discorso, dei 31 di agosto 1860, diceva che «in conseguenza dell'abbandono dell'Austria il Papa perdeva le Romagne»; ed avvertiva che l'abandon du territoire pontifical ne devait pas porter bonheur à l'Autriche, allora il sig. di Persigny dimenticava il rapporto del principe Napoleone, dove era detto che il quinto corpo d'armata per la sua posizione in Toscana e sulla frontiera degli Stati della Chiesa aveva forzato gli Austriaci ad evacuare precipitosamente Bologna ed Ancona.

Nell'atto stesso che si metteva fine alla guerra stabilivasi tra la Francia e l'Austria un principio d'intervento nell'assestamento delle cose italiane, né altro significarono i preliminari di Villafranca dell'11 loglio 1859. Nel quali i due Imperatori pattuirono in primo luogo «di favorire la creazione d'una Confederazione italiana»; e poi di chiedere al Santo Padre d'introdurre ne' suoi Stati riforme indispensabili». Ma poiché l'imperatore Napoleone III abbandonò la Lombardia, e passando per Torino, recossi in fretta a Parigi, mutò opinioni, e il principio dell'intervento converti nel principio del non intervento. E pare che questa conversione si operasse proprio in Torino, dove Gioacchino Napoleone Popoli ebbe larghe promesse dall'augusto cugino. Dicono che Napoleone III rispondesse alle sue lagnanze: - Cugino mio, compiremo la tragicommedia in due atti. Il primo coll'intervento, il secondo col grande principio del non intervento.

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- Lo stesso Gioacchino Napoleone Popoli, il 22 di novembre 1862, diceva alla Camera dei Deputati: «L'imperatore, quando lo vidi qui (in Torino) dopo la pace di Villafranca, e che gli chiesi se sarebbe rispettato il voto del mio paese, mi rispose: purché l'ordine attuale non sia turbato, io vi prometto che non vi sarà intervento» (Atti Uff. N.906, pagina 3523).

Qui comincia il secondo stadio delle nostre Memorie, che si stende dalla pace di Villafranca,11 luglio 1859, fino all'eccidio di Castelfidardo il 18 settembre 1860, tempo in cui predomina il principio del non intervento. Ossia, parliamo schiettamente, in teoria è stabilito che nessuno potrà intervenire nelle cose italiane, ma in pratica tutti intervengono in favore della rivoluzione, e nessuno contro; tutti per promuovere la spogliazione del Santo Padre, nessuno per difenderne la santissima causa.

L'illustre Vescovo di Perpignano, Monsignor Gerbet, addi 25 luglio 1860 pubblicava una stupenda lettera pastorale sui diversi errori del tempo presente, e li enumerava ed offeriva classificati al proprio Clero, affinché non cessasse dal combatterli. Tra questi errori il dotto Prelato metteva i tre seguenti: «1° La dottrina evangelica sull'assistenza fraterna riguarda soltanto gli individui; in nessun caso può ella applicarsi alle vicendevoli relazioni tra Stato e Stato a favore di quel governo legittimo che fosse ingiustamente assalito dai nemici interiori od esteriori.2® La regola ciascuno per sé applicata ai governi è l'espressione del giusto egoismo che vuolsi prendere per norma nelle relazioni internazionali. «3° La pirateria proibita dalla legge di Dio tra particolari, è permessa quanto agli Stati».

La semplice esposizione di questi tre errori basta a dimostrare l'assurdità del principio del non intervento. Che direste voi mai se, ad esempio, Tizio fosse per affogare, e chiedesse aiuto al vicino, e questi gli rispondesse: - Amico, aiutati, che Dio ti aiuterà. Sono pieno di simpatia per te: ma nell'acqua non vi sono caduto io; se riesci a salvarti da te solo, ne godrò assai; ma aiutarti non m'è possibile, perché sto pel gran principio del non intervento 1 - Questa risposta, ridicola nelle relazioni private, non lo è meno nelle relazioni internazionali. Il non intervento è l'egoismo stabilito come diritto delle genti, è l'isolamento dei re e dei popoli, èia negazione della carità fraterna riguardo alle nazioni. E appunto perché il gran principio del non intervento è un'assurdità, veggiamo che in pratica riesce un'impossibilità, e il non intervento non serve se non per impedire l'intervento dei buoni e favorire quello dei tristi.

Napoleone III, che dopo la pace di Villafranca proclamava il principio del non intervento, capì da sé come si mettesse in contraddizione e la prima parte del dramma italiano cozzasse colla seconda. Epperò ordinava al signor Thouvenel, suo ministro degli affari esteri, di purgarlo da quella taccia,

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lo che il ministro faceva col suo dispaccio del 30 di gennaio 1860: Se il governo dell'Imperatore, disse il signor Thouvenel, è egli stesso intervenuto, noi fece che cedendo a circostanze imperiose, perché nello stato delle cose in Italia i suoi interessi glie ne imponevano la necessità». Lo che viene a dichiarare che, nonostante il principio del non intervento, le Potenze possono intervenire per ragione d'interesse, e così tolto nelle relazioni internazionali il motivo dell'amore, della fraternità, della riconoscenza, vi si sostituisce unicamente il freddo e basso motivo dell'egoismo.

Come adunque per interesse Napoleone III nel 1859 era intervenuto in Lombardia, cosi nel 1860 per interesse altri intervenne nel resto d'Italia e s'impadronì dei ducati di Parma e di Modena, della Toscana e delle Romagne, e finalmente delle Marche e dell'Umbria, e del reame delle Due Sicilie. E Garibaldi poté correre a Palermo, e da Palermo a Napoli, e Fanti e Cialdini poterono invadere le terre del Papa, facendo al principio del non intervento l'eccezione dell'interesse, e l'Imperatore dei Francesi non se ne dolse mai, o dolendosene, parve che incoraggiasse le invasioni.

Il conte Camillo di Cavour, il 12 aprile del 1860, diceva ai Deputati le seguenti parole, che leviamo dagli Atti Ufficiali: «La cessione di Nizza e della Savoia era condizione essenziale del proseguimento di quella via politica che in cosi breve tempo gì ha condotti a Milano, a Firenze e a Bologna». Questa dichiarazione vi mette in mano la chiave per comprendere principio del non intervento, coll'eccezione nata dall'interesse. Quel plenipotenziario sardo, che nel Congresso di Parigi e poi in Torino avea sostenuto, non potere i governi invocare l'aiuto altrui, cedeva alla Francia la culla della Dinastia Sabauda e la fedelissima Nizza. E da quel punto tutti gli ostacoli che ai opponevano all'allargamento del Piemonte vennero tolti. Il 2 marzo 1860 il conte di Cavour indirizzava una nota all'incaricato d'affari di Sardegna, colla quale dichiarava d'essere disposto a cedere Nizza e Savoia; ed ecco il lft di marzo dell'anno medesimo pubblicarsi il decreto d'annessione dell'Emilia, e il 22 il decreto d'annessione della Toscana. Il 24 marzo 1860, data memoranda! Farini e Cavour sottoscrivono il trattato che cede alla Francia la Savoia e la contea di Nizza. Ma il 29 di marzo la scomunica, sotto la data del 26, era affissa a Roma!...

Sono pochi giorni, il 12 di gennaio del 1863, Napoleone III protestava di essere venuto in Italia e d'averne difeso l'indipendenza senza patteggiare colla rivoluzione: però di fronte alle proteste sorgono i fatti innegabili. Stava in Italia una congrega di rivoluzionarii. Marco Minghetti dicea nella Camera dei Deputati il 27 giugno 1860: «Siamo tutti rivoluzionarii, e il conte di Cavour pel primo».

E Carlo Luigi Farini, il 29 di giugno dello stesso anno, confermava la sentenza soggiungendo: «Io credo potersi affermare, come diceva il mio onorevole amico, il deputato Minghetti, che qui siamo tutti o quasi tutti rivoluzionarii».

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E un giorno prima, cioè il 28 di giugno, il deputato Cabella avea detto a sua volta: «Napoleone III si è posto alla testa della rivoluzione europea: lo dice e lo fa dire ogni giorno negli scritti suoi e de' suoi fidati. Figlio della rivoluzione, egli è abbastanza sagace per non rinnegare la madre» (Atti Ufficiali della Camera, n«108 e n° 112).

Or eccovi qui la pratica del non intervento. I rivoluzionarii d'Italia s'accordarono con chi s'era posto alla testa della rivoluzione europea; prima régalarongli due belle e buone provincie; poi quelli invasero, e costui fé' la guardia; i primi tolsero, e il secondo tenne il sacco. E quando taluno s'affacciava alle porte d'Italia per vedere che cosa vi si facesse, Napoleone III levavasi e gridava:-Alto là! ricordatevi la legge del non intervento. - II Decalogo avea detto: non desiderare la roba d'altri, non ammazzare, non dire falso testimonio. Ma poco si badò a tutti questi precetti; anzi Tennero in certo modo soppressi, surrogando ai medesimi il precetto napoleonico: - Non intervenire; - precetto assoluto pei buoni, e di nessun valore pei rivoluzionarii.

E parea che il precetto del non intervenire fosse per cessare quando trattavasi d'opporsi all'invasione delle Marche e dell'Umbria. Imperocché Napoleone III avea soventi volte confessato il dovere della Francia di vegliare alla difesa del Romano Pontefice, e il 31 di agosto del 1860 il conte di Persigny aveva detto a Saint-Etienne, che la spada del figlio primogenito della Chiesa continuava «a proteggere (couvrir de sa garde) la persona augusta del Pontefice e il trono venerando della Santa Sede». Che anzi il duca di Gramont, ambasciatore della Francia a Roma, dichiarava che se le truppe sarde invadessero l'Umbria e le Marche, Napoleone III serait forcé de s'y opposer. Ma quando il console francese in Ancona andava a dir questo al generale Cialdini, il generale rispondeva al console: - Conosciamo meglio di voi le intenzioni dell'Imperatore.

Cialdini e Farini avevano conosciuto le intenzioni di Napoleone III a Chambery, dove eransi recati il 29 d'agosto 1860 per complimentarlo in nome del re Vittorio Emanuele. Il Journal des Débats nel suo n° del 5 di settembre 1860, scriveva: «II Movimento di Genova fa osservare che, dopo il ritorno del signor Farini dal suo viaggio di Ciamberi, la politica del Ministero ha preso, un andamento più deciso, che si abbandonarono le misure abbracciate contro i volontarii, e che gli apparecchi di guerra si fanno con un raddoppiamento d'attività». Ed è fuori di dubbio che a Ciamberi Napoleone III, Cialdini e Farini trattarono dell'invasione dell'Umbria, delle Marche e del regno di Napoli, e n'abbiamo in prova un dispaccio del ministro Thouvenel sotto la data di Parigi 18 ottobre 1860, nel quale confessa che l'Imperatore non disapprovò l'invasione.

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È vero che il Thouvenel soggiunge: «S. M. I. supponeva che la caduta della Monarchia Napoletana sarebbe completa, che una rivoluzione si susciterebbe negli Stati Romani, che la sovranità del Santo Padre sarebbe riservata». Ma checché supponesse Napoleone III, il fatto è che, mentre egli proclamava il grande principio del non intervento, consentiva a Farini e Cialdini di intervenire.

E sorse in molti il sospetto che l'Imperatore dei Francesi, quando furono invase le Marche e l'Umbria, ne menasse tanto rumore e disapprovasse pubblicamente il governo sardo, e richiamasse da Torino il suo rappresentante, e promettesse a Roma un rinforzo del presidio ed una opposizione energica ai nemici del S. Padre, soltanto per impedire l'intervento altrui, ed affinché le Potenze cattoliche quietassero, pensando che il Piglio primogenito della Chiesa avea risoluto di difendere il Romano Pontefice ed il suo regno. E questo sospetto crebbe e fu confermato dai modi che tenne il Bonaparte verso il re di Napoli, fingendo di proteggerlo fintanto che vi era il pericolo che le altre Potenze amiche lo aiutassero, ed abbandonandolo poi a Gaeta in balia de' suoi assalitori, quando fu certo che il principio del non intervento avrebbe avuto più forza in Europa di qualsivoglia altro principio.

Nel secondo periodo adunque vedremo proclamato il principio del non intervento, e sotto la protezione di questo principio compiersi la rivoluzione, distruggersi l'esercito pontificio, e i marosi rivoluzionarii andare fino alle porte di Roma. Allora, come un forte inebriato - Il Signor si risvegliò. Falliti tutti ì mezzi umani, appare il braccio dell'Onnipotente, e la Divina Provvidenza mostra che essa veglia a difesa del suo Vicario e che governa il mondo. Ed eccoci al terzo stadio delle nostre Memorie, che comprende l'enumerazione di tutti quei fatti, i quali dimostrarono l'intervento della Divina Provvidenza in favore di Pio IX. Questi fatti cominciano dalla morte inattesa del conte di Cavour, su cui gli uomini della rivoluzione adquiescebant et in ejus scientia et consilio omnia sibi proclivia omnes fore sperabant (de bello Afric.); e vanno fino al cominciare del 1863, quando i documenti pubblicati dal governo francese mettono in chiaro che Francia e Inghilterra fanno a gara per avere il Papa esule da Roma.

Distrutto l'esercito Pontificio, e compiute impunemente le nuove annessioni dell'Umbria e delle Marche, a Pio IX non restava più che Roma, e contro di questa la rivoluzione rivolgeva i suoi pensieri e le sue macchinazioni. Il conte Camillo Cavour, rii ottobre del 1860, diceva ai deputati: «La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del regno d'Italia».

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Il ministro ripeteva questi suoi intendimenti, il 25 di marzo del 1861, nella Camera elettiva, rispondendo al deputato Audinot, e il 5 di aprile nel Senato del Regno, rispondendo alle interpellanze del senatore Vacca sulla questione romana. E già preparava le fila per compiere la spogliazione del Papa, e promuoveva apostasie, e comperava amicizie, e inventava formole, e largheggiava in promesse, e cercava intercessori, e spediva disegni; quando una voce gli tuonò all'orecchio - Stulte, hac nocte repetent a te animam tuam. - E cadde dopo un buon pranzo, cadde col sigaro in bocca, ammalò a morte, e in pochi giorni morì. La rivoluzione restò priva della sua testa.

Ma essa avea un braccio ed un cuore, il braccio a Caprera, il cuore a Parigi, che trasmetteva il sangue ed il moto dappertutto. E la Provvidenza di Dio accecò Garibaldi, il quale si smascherò co' suoi scritti, si rese ridicolo coi suoi indirizzi, si uccise co' suoi attentati; e quel Napoleone III che nel 1859 aveva combattuto a fianco di Garibaldi, che gli avea spedito in fretta soccorsi di truppe, affinché non restasse prigioniero degli Austriaci, quello stesso Napoleone, l'11 agosto del 1862, facea scrivere dal suo ministro. Thouvenel al governo di Torino, essere necessario che Garibaldi rimanga del tutto vinto (tout à fait vaincu). E Garibaldi fu vinto, fu atterrato in Aspromonte, e stette molti mesi inchiodato a letto per una palla venutagli da coloro ch'erano come lui nemici del Papa, e che al pari di lui volevano impossessarsi di Roma.

Restava ancora a Parigi il cuore della rivoluzione, ma quel cuore cominciò a battere più lentamente, perché vide che cosa potea aspettarsi dai rivoltosi, perché conobbe la volontà della Francia del tutto favorevole al Papato, perché stava vicino alle elezioni generali, e nella necessità di almeno soprassedere dalle sue intraprese; perché, senza volerlo e forse senza quasi saperlo, trovossi impigliato nella tremenda spedizione del Messico, che nel 1863 poteva rinnovare i casi del 1812. Per queste e per molte altre ragioni, chi aveva promosso e diretto là rivoluzione fu condotto da' suoi interessi ad arrestarne il corso e barrarne il cammino; e di questa guisa la Provvidenza di Dio interveniva in favore del Papa, levandone di mezzo i nemici che lo perseguitavano, e mettendoli tutti in lite fra loro, cosi che le loro lingue restassero confuse, e a vicenda attraversassero i proprii divisamenti.

Ma questo era, diciam così, un aiuto negativo della Provvidenza che rimuoveva gli ostacoli. Si vide però nel medesimo tempo il suo intervento positivo nel fornire di validissimi difensori la causa del Santo Padre Pio IX. E non fu un tratto della Provvidenza l'unione dell'Episcopato e le sue concordi dichiarazioni, che fermarono gli invasori alle porte di Roma? Di sì perfetta unità non si da esempio nelle storie della Chiesa; e siccome i rivoluzionarii aveano menato vanto di una loro fittizia ed artificiale unanimità, così la Provvidenza li combatto col reale, ammirabile, eloquentissimo, unanime voto dei Vescovi.

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Al quale tennero dietro le dichiarazioni del Clero e quelle de' fedeli rappresentate dal Danaro di S. Pietro.

Calunniavasi sovente l'Italia, dicendo che non avea fede, che non sentiva affetto pel Papa, che di buon grado se l'avrebbe tolto di dosso; male offerte che gl'Italiani mandano da tre anni al Santo Padre Pio IX smentiscono la calunnia. Il grande significato del Danaro di S. Pietro fa sentito dai rivoluzionarii, i quali tentarono di contrapporgli dapprima la soscrizione per un milione di fucili, poi quella pel monumento al conte di Cavour, in terzo luogo il così detto Danaro d'Italia, e da ultimo la sottoscrizione pel brigantaggio, o, come chiamavalo il sindaco di Milano, il Danaro dell'Unità. Nessuna però di queste sottoscrizioni riuscì, e quell'alacrità e quel bollore con cui vennero incominciate diede giù ben presto, e non se ne seppe più nulla. Laddove il Danaro di S. Pietro continua sempre in Italia, come continua in tutto il mondo cattolico, e le persecuzioni de' governi e le interpellanze de' deputati e le minacele de' libertini non valgono ad impedire e nemmeno a rallentare lo slancio degli oblatori.

Fra i tratti della Divina Provvidenza vuolsi annoverare eziandio quella moltitudine di scrittori e di oratori che levaronsi in ogni parte d'Europa in difesa del dominio temporale del Papa; e sebbene molti professassero il protestantismo, ed altri, come ebrei, non credessero nemmeno in Gesù Cristo, pure, mossi da sentimento di onestà, eseguendo i principii della retta ragione, abbracciarono il patrocinio di Pio IX, ed offerirono a lui la borsa, la penna ed il braccio. E lo stesso perdurare de' pericoli e agitarsi delle questioni fu cosa provvidenziale, perché mostrò la forza sovrumana dell'assalito e la rabbia degli assalitori; e fé' sì che meglio campeggiasse la costanza del Papa nel resistere, e la fedeltà e il valore de' figli e de' difensori nel sostenere le sue parti.

Noi avevamo detto e scritto molti anni fa che, se per mantenere il dominio temporale de' Papi si richiedessero miracoli, neppur questi sarebbero mancati; e i libertini ci risposero con un beffardo sorriso. Or veggano i miracoli. Miracolo è che il Papa resti tuttavia in Roma; miracolo ehm, dopo tre anni di diluvio, le acque della rivoluzione non abbiano potuto raggiungere ancora il Vaticano; miracolo la concordia de' Vescovi dispersi su tutta la faccia della terra; miracolo il resistere di Napoleone III alle pretese rivoluzionarie; miracolo in Torino e Parigi questo cadere precipitoso di ministri «di ministeri; miracolo quel ribrezzo che il solo nome di Roma mette agli avversarii del Papa, sicché più non osano profferire questa parola; miracolo che Pio IX, spogliato di quasi tutte le sue rendite, sopperisca ai bisogni dello Stato; miracolo la sua salute in mezzo a tante traversie, a tante angoscio, a tante tribolazioni; miracolo la sua protezione alle belle arti; miracolo la carità di questo gran Papa che, mentre abbisogna per vivere dell'altrui elemosina, distribuisce a piene mani ad altri poveri il danaro offertogli per la sua povertà.

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- I nemici del Papa-Re sentono l'intervento della Divina Provvidenza in favore del Vicario di Gesù Cristo, credunt et contremiscunt; e mentre il deputato Boggio si lamenta gridando: noi abbiamo errato, il deputato Jacini piange dicendo: noi ci siamo immersi in una via cieca che non ha uscita. Il deputato Ferrari avverte che Roma è fatale, il deputato D'Ondes Reggio intima che in Rama non si entra. In mezzo a questi pianti Pio IX ripete: Dominus regit me, et nihil mihi deerit. Gli uni temono l'abbandono a la morte di Napoleone III; gli altri sperano sul rinforzarsi 'dell'Austria, e ricredersi della Russia. Pio IX non teme nessuno, e non ispera che in Dio, uno e vero, che regit et gubernat ut placet, etsi occultis causis, numquam tamen iniustis (S. Agostino, De Civit. Dei, cap. n).

Gettandoci in braccio alla Divina Provvidenza, che fece il grande ed il piccolo, e si toglie egual cura di tutti, noi aspettiamo con Pio IX i nuovi avvenimenti, e in questa aspettazione ricordiamo gli antichi, perché il passato serva di conforto al presente, e di preludio al futuro. È mentre studieremo nei casi d'Italia la. verità di quella gran sentenza del Vescovo d'Ippona: «Non esservi creatura la quale, voglia o non voglia, non serva alla Provvidenza Divina»», benediremo Iddio perciò che ha fatto, e ci terremo sicuri che quanto farà, o permetterà che si faccia, sarà tutto a sua gloria e a trionfo della sua Chiesa.

CENNO BIBLIOGRAFICO

SULLE PRINCIPALI STORIE DE' NOSTRI TEMPI

Giuseppe de Maistre, gran filosofo e gagliardissimo pensatore, come chiamalo Cesare Cantù (1), nell'ammirabile sua opera Del Papa scrisse: «Depuis trois siècles l'histoire entière semble n'être qu'une grande conjuration contre la vérité». Da tre secoli in qua pare che l'istoria intiera non sia altro che una cospirazione contro la verità (2). Se questo è vero della storia in generale, verissimo è della contemporanea italiana, scritta con ispirito di parte e quasi esclusivamente dai cospiratori, coll'intendimento di favorire le presenti e preparare nuove cospirazioni.

Non sarà inutile perciò una breve enumerazione de' libri storici venuti in luce recentemente, non perché il lettore se ne valga come fonti da consultare,

(1) Storia degli Italiani, cap 168, pag.137, cap.115, pag.570, not.57.

(2) Du Pape, cap.12, lib, voL. i, pag.361, Paris,1819.

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ma per l'opposto affinché li tenga in sospetto, e non li accetti se non in quanto adducono le prove e i documenti di ciò che asseriscono. Il quale giudizio per ciascuna di coteste opere confermeremo colla testimonianza di qualche rivoluzionario, perché non s'abbia del nostro quel sospetto medesimo che prudentemente cerchiamo di ingenerare sui libri altrui.

Gli ultimi rivolgimenti italiani: Memorie storiche con documenti, di F. A. Gu alte rio. Firenze coi tipi di Felice Le Monnier, - II Guerrazzi dice di questa storia che è libro di parte destinato a favoreggiare il Piemonte ed esaltare i moderati (Apologia della vita politica di F. D. Guerrazzi, scritta da lui medesima. Firenze 1851, pag.813).

Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, di Angelo Brofferio. Torino 185051. - Il 31 marzo 1851, nella Camera dei deputati, Angelo Brofferio declamò contro la Deputazione di Storia Patria che attendeva in Piemonte «a spolverare vecchi archivii e disseppellire vecchi documenti da logori scaffali». Cesare Balbo gli rispose, e alludendo alla storia pubblicata da Brofferio disse: «Io osservo (e qui sarebbe facile il fare epigrammi) che la storia scritta senza documenti non serve a nulla». E tale è la storia di Brofferio.

Storia d'Italia narrata al popolo italiano da Giuseppe La Farina. Firenze 1851, II La Farina nel breve preambolo posto innanzi al VoL. 5° dice: «Mi lanciai nel vortice della rivoluzione». E pienamente rivoluzionaria è la sua storia.

Lo Stato Romano dall'anno 1815 alt anno 1851, per C, L. Farini. Torino, VoL. I e II,1850; VoL. Ili,1851; VoL. IV, Firenze presso Le Monnier. «Farini ha delle eccellenti qualità, ma non può essere uno storico contemporaneo. Spirito acre, passionato, bislacco, resterà sempre violento,. quantunque si sia fatto battezzar moderato". Lettera di Montanelli nella Voce nel Deserto N° 20; ottobre 10, anno.1851.

Memorie sul?Italia e principalmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, di Giuseppe Montanelli. Torino 1853. Sono le confessioni di Montanelli, dov'egli si dichiara e. dimostra poco sollecito di onestà e delicatezza (pag.110).

Storia d'Italia dall'anno 1814 ai nostri giorni, scritta da Luigi Carlo Farini. Torino 1854. Non venne in luce che il primo volume, di cui il signor Luigi Chiala pubblicò una buona critica nella Rivista Contemporanea. «La storia del Farini, così il signor Chiala, pecca di molte inesattezze; molti fatti si possono rivocare in dubbio appunto per malvezzo di non citare documenti, né certo potrà bastare ai poteri l'autorità pura e semplice del Farini per aggiustar piena fede a questo o a quel racconto. L'acrimonia, la passione e la violenza, che qua e là si scorgono nel giudicare chi da lui dissente, ci tolgono dal lodare in lui la pacatezza ed imparzialità dello storico».

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La Chiesa e lo Stato in Piemonte. Sposizione storico-critica dei rapporti fra la S. Sede e la Corte di Sardegna dal 1000 al 1854, compilata su documenti inediti per l'avvocato Pier Carlo Boggio ecc, VoL. II, Torino 1854. Il Boggio inveisce contro Roma usurpatrice. Tuttavia parlando delle condizioni della Chiesa in Piemonte, confessa che «prima lo Stato tacciava la Chiesa di usurpazione, ora la Chiesa ha tutte le apparenze, e un pochino anche la sostanza della ragione, accusando alla sua volta lo Stato di oppressione». (VoL. I, pag. lxiii).

Della Italia dalle origini fino ai nostri giorni. Compendio storico geografico, dedicato ai giovanotti italiani, per Luigi Zini. - Asti 1853. È una storia per preparare il campo della nostra riscossa, come dice Fautore, che si scatena cóntro il dominio temporale dei Papi.

Storia delle rivoluzioni italiane dal 1821 al 1848 con documenti, di G. Massara, VoL. II, Torino, tipografia di G. Cassone,1849, -Questa Storia incominciò a pubblicarsi nei primi giorni del 1848 col titolo: Storia del Risorgimento italiano. Siccome a que' di erano di moda gli applausi a Pio IX, così queste pagine ne sono piene. Ma ad ogni linea traspare lo spirito rivoluzionario dello scrittore.

Storia del Piemonte dai primi tempi alla pace di Parigi del 30 marzo 1856, di A. Gallenga, VoL. II. -Torino, eredi Botta,1856. Di questa storia scrisse Bianchi-Giovini che è «una rapsodia discretamente noiosa». Unione dell'8 di ottobre 1856, n° 278. Federico Campanella scrisse due articoli sulla Storia del Gallenga nell'Italia e Popolo di Genova del 23 e 24 di ottobre 1856, n«204,295, ed accusò l'autore di avere «abbeverato di fiele la logica, flagellato il buon senso, crocifisso la storia».

Storia delle rivoluzioni e delle guerre d'Italia nel 1847,1848,1849, per Guglielmo Pepe. Il Pepe a quattordici anni ebbe il Colletta a maestro, poco dopo militò per la Repubblica Partenopea nel 1799; si segnalò nella rivoluzione napoletana del 1820, e nella guerra del 184849. A lui, auspice il Municipio Torinese, fu elevato un monumento, dov'è detto che con indomita fede sacrò, a salute d'Italia l'opera ed il petisiero. (Vedi Carrano, vita di Guglielmo Pepe),

DUE ARTICOLI DI PREFAZIONE

La sera del 27 gennaio 1856 il teologo Giacomo Margotti, redattore capo dell'Armonia, che scrive in questo giornale fin dal 1849, fu proditoriamente colpito da mano assassina. Il suo collega Davide Emanuelli pigliava la penna, momentaneamente abbandonata dall'amico, e riferiva così il triste caso nel n° 24 dell'Armonia,29 gennaio 1856.

«Sono pochi giorni, che noi, accennando al luttuoso caso del valoroso scrittore del Labaro di Roma, lo Ximenes, dicevamo, che la stessa sorte potrebbe toccare agli scrittori dell'Armenia. La comunanza d'idee dei campioni della repubblica romana coi campioni del libertinismo piemontese sul modo di educare il popolo a sensi di libertà e di buon ordine; la maniera di intendere la libertà di discussione e d'opinione, cioè il monopolio di tutte le libertà e di tette le opinioni a vantaggio della fazione più forte e prevalente, ci inspiravano quelle parole, non già dettate dal timore, ma dal tristo pensiero del misero stato della nostra patria.

«E sventuratamente a confusione del nostro paese oggi dobbiamo annunciare ai nostri lettori, che quelle dolorose parole furono come un presentimento di ciò che doveva accadere ieri sera, domenica 27 gennaio. Cornea Dio piacque, il colpo andò fallito, è Passassi no, credendo d'avere immolato la sua vittima, fuggì lasciandola immersa nel proprio sangue. Il teoi. Giacomo Margotti è la vittima fatta segno alla rabbia di un micidiale, e la Dio mercé, 'scampato con leggiera ferita, quale almeno finora si presento al giudicio degli uomini dell'arte. Il fatto è abbastanza, truce, e la narrazione non abbisogna di altri colori da quelli in fuori della pura e semplice storia.

Ieri sera adunque in sulle, nove e mezzo, il teologo Margotti tornava, secondo il solito, alla sua abitazione, in via della Zeca, casa Birago. Nello svolto del canto che da via Vanchiglia mette in quella della Zecca, a Iato del caffè del Progresso, venne improvvisamente assalito da un tale, che menandogli un colpo disperato di un grosso bastone in sul capo, lo fece cadere stramazzone a terra: Intronato e sbalordito da quel colpo, il teologo Margotti, caduto a terra, smarrì i sensi, e giacque boccone, finché, passando di là per caso un dabben uomo, e vedendo un prete disteso a terra, corse a lui, lo rialzò led a quell'atto scosso il teologo, e ritornato a' sensi, interrogo dove fosse. E quel pietoso rispostogli che erano sull'angolo di casa Birago, il teologo pregollo che lo accompagnasse a casa sua, indicandogliela; e così accompagnato e sorretto dallo sconosciuto, poté rientrare in casa, dove gli furono tosto porte le prime cure.

«Chiamati gli uomini dell'arte, non riconobbero alcuna lesione grave, la quale potesse, per quanto si può conoscere esternamente, produrre grave pericolo.

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Pare che il colpo, che era diretto alla tempia sinistra, venendo da allo in basso, sia stato ammortito dal cappello, e quindi la contusione è sulla regione dell'orecchio, la cui parte esterna è lacerata da alto in basso.

«L'assassino, che Torse credette che la sua vittima fosse morta, fuggì, lasciando sul luogo il bastone con cui aveva commesso il misfatto. E al vedere quello strumento pare impossibile che il Margotti abbia potuto scampare con b lieve danno. Non è altrimenti una mazza o bastone ordinario, ma un grosso randello di frassino più tenue da un capo e più grosso dall'altro, grossolanamente tagliato: non è che un pezzo di legno ordinario da porre sul fuoco. È questo il solo indizio che rimane a norma del fisco per procedere contro il malfattore; giacché il teologo Margotti sorpreso, non vide chi lo colpiva, e, caduto tramortito, non poté conoscere chi l'aveva colpito.

«Ci giova sperare che il valente nostro scrittore potrà in breve ripigliare la penna, e continuare come per lo passato le sue fatiche a pro della Chiesa e della società. Lasciamo a chi di ragione l'occuparsi della persona dello sciagurato che attentò alla vita d'un pacifico sacerdote, forse per niun altro fine che di obbedire al comando di quella fazione che ordino la morte dello scrittore del Labaro».

Il 24 febbraio il Teologo Margotti, coltro ogni aspettazione quasi miracolosamente risanato, ritornava ai suoi lavori quotidiani dettando, nell'Armonia del 4 febbraio 1856, n° 28, il seguente articolo, che può servire di proemio a quelli che stamperemo dipoi.

AI LETTORI DELL'ARMONIA

GIACOMO MARGOTTI

«Dopo una settimana d'ozio forzato, riprendo i miei lavori. Non odiando nessuno, io credeva di non avere nemici. Molti contava avversarii politici, ma li riputava tutti onoratissimi, che avrebbero fatto a me buona guerra, com'io a loro, guerra di penne e di ragioni, quale s'addice a gente costumata in paese libero, e non la vilissima guerra dell'assassino. Quando qualche benevolo m'avvertiva d'andare cauto, e premunirmi, io apprezzava l'avviso, pel sentimento di benevolenza d'onde partiva, ma mi parea suggerito da una sconsigliata paura, e dicea i in ogni caso, che cosa guadagnerebbero levandomi dal mondo? La causa nostra non dipende dagli uomini, e molto meno da me, l'infimo di tutti. E poi, lo confesso schietto, per, quanto io senta sinistramente della libertà moderna, era persuaso che in Piemonte si potesse ancora scrivere una verità, salva la vita. In Francia, paese di grandi virtù, ma anche di grandi delitti, vedea pubblicarsi da buona pezza giornali schietti e franchi come il nostro, senza che i compilatori corressero rischio di sorta.

«La sera di domenica,27 di gennaio 1856, m'avvertirono ch'io era nell'errore, e che troppo ancora credeva (e Dio sa quanto ci credeva poco!) alla libertà ed all'onestà di certuni. Mi dolse del mio caso, ma assai più dell'inganno.

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Sì, per l'amore che porto alla mia patria, non avrei voluto essere obbligalo a confessare, che nel Piemonte, donde furono cacciati gli Arcivescovi di Torino e Cagliari, annidassero poi gente rotta ad ogni delitto. Ad ogni modo, se taluno odia me, sappia ch'io non odio nessuno. Perdonai, e perdono di buon cuore a chi tentò d'uccidermi, e se lo conoscessi, coll'aiuto del Cielo, vorrei fargli vedere a' fatti, che se i principii della sua politica lo consigliarono a sfracellarmi la testa, le massime della mia religione mi comandano di stringermela affettuosamente al seno. Forse allora costui imparerebbe che differenza corre tra un servo e un nemico del Papa; tra un apologista, e un calunniatore della S. Romana Chiesa. Iddio, che mi legge nel cuore, sa ch'io non iscrivo frasi, ma dico quello che sento. In questo senso parlai ai magistrati, che accorsero al mio letto per gli interrogatorii fiscali. Ho sempre protestato di non voler porgere querela contro nessuno, e se non potei oppormi al diritto che rompete alla società, di buona voglia rinunziai, e rinunzio a quello che mi rompete individualmente.

«Il giornalismo, com'era naturale, s'occupò in questi giorni del fatto mio, ed in modo diverso, io ringrazio que' periodici, che, consci della dignità della stampa, mandarono al collega le loro condoglianze. Ma v'ebbero taluni, così dimentichi del proprio onore, che, per salvare il partito, pensarono di calunniare me con basse insinuazioni. Mentre altri nell'oscurità della notte avea tentalo di rompermi il capo, essi in pubblico cercarono di rovinarmi la fama. Compiango e perdono anche a costoro. Lode a Dio, io posso portare alta la fronte, e contro certe insinuazioni invocare di preferenza l'attestalo medesimo de' miei avversarii. Essi hanno sottomesso la mia vita ad una polizia, di cui non trovasi esempio nel resto d'Italia, e non mi permisero nemmeno di muovermi da Torino senza pubblicarlo. Seppero perfino e dissero, che una volta viaggiando presi il cognome di mia madre, e lo scrissi sul mio baule. Povero a me, se avessi fatto qualche cosa di male!

«Basta, io non voglio più a lungo intrattenere il lettore del mio personcine Noi non sogliamo discutere questioni personali, ma badiamo ai principii, che sono eterni. Non è per mia colpa, se si parlò di me questa volta; e spero che non sarà per ritornarne così presto l'occasione. Mancherei però al debito mio, dove non ringraziassi per le stampe que' tanti, che m'onorarono della loro visita e del loro conforto, lo ve ne so grado, o cortesi; e fu una grande consolazione, un grande onore per me conoscere, che gente di tanto merito partecipavano alle opinioni mie, e sottoscrivevano a' miei pensieri. Ciò mi darà animo per continuare con maggior vigore, sicuro omai come sono dell'approvazione dei buoni e dell'odio mortale de' tristi. Per lo innanzi io avrei quasi riputato superbia ripromettermi tanto guiderdone. Il coraggio non mi venne mai meno, e credo doverlo dichiarare apertamente, ad ammaestramento di molti de' nostri. I quali, soverchiamente timidi, o falsamente prudenti, rinforzano col loro tacere e col loro nascondersi le file dei nostri avversarii.

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«Quanto a me, non cesserò mai di valermi di tutti quei mezzi, che la libertà mi mette nelle mani, per combattere, secondo le mie deboli forze, le battaglie del Signore. Riconosco per una grazia singolare del Cielo d'essere scampato da una morte certissima, e prometto, colla grazia di Dio, di spendere la mia vita in servizio di lui, che volle pietosamente conservarmela. Così egli m'assista, e mi infonda nel cuore il suo santo timore, affinché, secondo la sua grande parola, io non tema coloro che uccidono il corpo, ma solo l'Onnipotente, che può perdere l'anima ed il corpo nella geenna».

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Il professore cavaliere Tommaso Vallauri volle ricordato il caso avvenuto al Margotti con una preziosa iscrizione latina che leggesi a pag.153 del suo Specimen Inscriptionem (Augustae Taurinorum, ex fifibrina Regia an. M DECC LVììI) ed è la seguente:

IACOBVS MARGOTTIVS

ORTU LIGVS CIVITATE TAURINENSIS.

DOCTOR THEOLOGUS SACERDOS

ACERRIMUS CATHOLICAE PROFESSIONE VINDEX

INGENIO LITTERIS CLARISSIMUS

VI CAL. FEBRUARIAS AN M DECC-LVI

DOMUM REDIENS SUB VESPERAM

FRAXINEA SUDE PER INSIDIAS PETITUS

RUPTO CAPITE HUMI EXANIMIS PROCUBUIT

IN LECTULUM DELATUS IAM NON NOSTER

III FERME HORAS A MEDICIS A FAMILIARIBUS DEPLORATUS

IPSUM ALIENATAE MENTIS ERROREM

CIRCA RELIGIONEM HABUIT

UT SE RECEPIT DE PERCUSSIONIS

VENIA COGITAVIT POSTRIDIE QUUM

MELIUSCULUS ESSE COEPISSET

EX SALUTANTIUM VULTU PERVIDIT

QUO ANIMO ATROCEM DECUMBENTIS CASUM FERRENT

QUI NUNC INCOLUMEM VIGENTEMQUE

GRATULANTUR

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TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA IN PIEMONTE

DAL 1847 AL CONGRESSO DI PARIGI

….....

Plures ab bine annos Catholica Ecclesia in Subalpino Regno miserandam in modum affligitur ac divexatur. PIO XI, Allocutione al Sacro Collegio nel Concistoro segreto del 22 gennaio 1855. L'intéret religieax souffre en Piétnont - l'Empereur Napoléon et l'Italie. Paris,1859, p. 30.

Prima di cominciare la ristampa de' nostri articoli convien dare una rapida occhiata alle condizioni della Chiesa in Piemonte, dal giorno in cui nacque la così detta libertà, sino al Congresso di Parigi. Ma essendo difficilissimo ai contemporanei Io scrivere spassionatamente di quelle cose che avvennero testé, e continuano tuttavia nei loro effetti, così noi ci atterremo semplicemente a' fatti e documenti, spogliandoli d'ogni osservazione, e registrandoli a maniera d'effemeridi.

1847, ottobre. Spunta in Piemonte l'aurora della libertà, che è il principio di servitù per la Chiesa Cattolica. Si concede la libertà della stampa a tutti, fuorché ai Vescovi, le cui pubblicazioni debbono venire assoggettate alla censura politica. Monsignor Charvaz, oggidì Arcivescovo di Genova, allora Vescovo di Pinerolo, si richiama altamente contro questa soperchieria, e, non ascoltato, rassegna le sue dimissioni. Carlo Vesme, nelle numero della Concordia,1° gennaio 4 848, scrive contro Monsignor Charvaz, dicendo: «A parer nostro, se sotto alcun aspetto è utile la censura preventiva sulla stampa, lo è appunto per gli atti dei Vescovi i. E il 10 gennaio nella stessa Concordia ripete che è intenzione del governo «di assicurarsi che negli scritti dei Vescovi fra le cose meramente ecclesiastiche non s'inserisca osa che turbi l'andamento civile dello Stato». E il caporione deliberali di que' dì, Vincenzo Gioberti, dopo di aver riconosciuto in un suo scritto sulla Concordia (13 gennaio 1848) che «Monsignor Charvaz per dottrina, ingegno e amore di civiltà è uno de' migliori nostri Prelati»; dichiarava chela legge, la quale sottoponeva alla censura preventiva gli atti episcopali, era necessaria e legittima. «Necessaria, perché chi regge non può permettere che i Vescovi usino della libertà per insolentire è ingiuriare la persona augusta del Re e la persona sacra del Pontefice». Come se i nostri Vescovi avessero fatto una cosa o l'altra! «Legittima, perché a censura non offende i diritti ecclesiastici, ma impedisce solo che altri li trapassi»; ragione che, se vale qualche cosa, è applicabile ai diritti politici, che possono essere più facilmente trapassati dai privati cittadini. Così dunque esordiva la libertà piemontese tra i sofismi, le tirannie, le lagnanze e i gemiti della Chiesa Cattolica!

1848, marzo. In Genova, in Torino e in tutti gli altri paesi dello Stato, dove erano Gesuiti, furono invasi dalla plebaglia i loro conventi, e maltrattati ed espulsi in nome della libertà gli ottimi Padri.

Vincenzo Gioberti, prima cagione di quelle violenze sacrileghe, ne sentì rimorso, e scrisse nella Concordia del 18 marzo 1848, numero 68: «Quando i Gesuiti erano potenti e nocivi (!?), voi rispettavate le loro persone, e non credevate che i torti dell'instituto vi autorizzassero a riscattacene colla violenza...

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Ora testé essi erano sulle mosse per andarsene, e voi invece di lasciarti partire in pace.. Non voglio dire ciò che si fece, poiché tutti lo sanno. Questo è dunque il rispetto che portate alle leggi? Questo è il riguardo che avete all'equità? Questa è la generosità vostra verso i sacri diritti della sventura? L'uso di calcare i miseri non è nativo in Italia, ecc.».

Le Dame del §acro Cuore sono pure obbligate a partire dal Piemonte, e molti altri preti, e parrochi, e famiglie religiose soffrono insulti e persecuzione. L'Arcivescovo di Torino, Monsignor Fransoni, viene costretto a partire perla prima volta dalla sua diocesi.

«1848,10 giugno. La Camera dei Deputati incomincia (e sue tornate, declamando contro il Vescovo di Nizza, perché ha negato la sepoltura ecclesiastica ad un emigrato morto impenitente. Il deputato Barralis racconta, che la sera del 5 giugno, in Nizza, e verso mezzanotte, cinque o seicento persone recaronsi davanti il palazzo vescovile, e con grida e schiamazzi indirizzarono al Prelato mille improperii; dissero contro di lui parole di dispetto e di vergogna; lo svelarono protettore dei Gesuiti, e fautore dei gesuitanti; gettarono dei proiettili contro le finestre, e strappato lo stemma di lui» che era affisso sull'architrave della porta del palazzo, lo strascinarono per le strade e lo trassero al sito in cui anticamente era innalzata 1$ forca, ove ne fecero un solenne auto da fé al canto della Marseillese». A questo racconto Àngiolo Brofferio diceva ai deputati nella stessa tornata del 10 di giugno 1848: «Proviamo a questi orgogliosi Prelati che, se essi non si stancano di far guerra al popolo, il popolo ha anch'esso lo sue folgori e gli anatemi suoi». (Atti del ParL. Subalp., sess.1848, pagine 145,146).

1848,1° luglio. Nella Camera dei Deputati si legge una petizione, segnata N° 199, e spedita dal p. Pellico Francesco della Compagnia di Gesù, «colla quale rappresenta che, se si volesse condannare la Compagnia per mene occulte e segrete corrispondenze coi nemici dello Stato, non si dovrebbe con una legge gettarne i singoli membri in condizione di pubblici delinquenti da deportarsi, sorvegliarsi e privarsi d'ogni comune diritto; ma invece farne giudicare i colpevoli dalle autorità competenti ed all'appoggio di fatti da avverarsi e provarsi. Egli protesta contro una tale futura legge a nome suo e di tutti i suoi confratelli, di cui in questi Stati era Superiore Provinciale» (Atti del Pari Subalp., pag.251).

1848,18 luglio. La Commissione della Camera, oltre la, soppressione dei Gesuiti, propone anche la soppressione degli Oblati, e non sa dire quali sieno gli Oblati che vuol sopprimere. Cornero, relatore, dichiara che la Commissione non era sufficientemente edotta!

1848,25 agosto. Decreto, col quale tanto i Gesuiti, quanto le Dame del Sacro Cuore, sono definitivamente espulsi, e tutti i loro beni mobilio immobili attribuiti al pubblicò erario.

1848,15 settembre. Lettera insolente del ministro dell'interno contro Monsignor d'Angennes, Arcivescovo di Vercelli, falsamente imputato di non avere voluto dare locali per ricevervi la truppa (Vedi l'opera intitolata: Un fatto in Vercelli,1848. Tip. De Gaudenzi).

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1848,4 ottobre. Legge sull'insegnamento, in cui è disconosciuta la sorvegliane dei sacri pastori sulle Università e in tutte le scuole, così pubbliche corno private, anche in ciò che si attiene al catechismo ed ai maestri e direttori di spirito.

1848,23 ottobre. Il cav. BonCompagni, ministro dell'istruzione pubblica, nomina direttori spirituali, ad insaputa dei Vescovi. Monsignor di Tortona gli scrive: Pare che in un governo in cui lo Statuto riconosce la religione cattolica per religione del paese non si possa ricusare a' Vescovi la piena libertà nel provvedere pei bisogni spirituali della gioventù cattolica; mentre nella Francia stessa, ove si riconosce la piena libertà dei culti, lasciasi esclusivamente ai Vescovi la destinazione dei cappellani nei collegi d'educazione cattolica»

1848,1° novembre. Il cav, BonCompagni, ministro dell'istruzione, scrive una lettera insolente al Vescovo di Tortona, nella quale dichiara che il governo, per la condizione dei tempi, ha dovuto richiamare a sé reiezione dei direttori di spirito e professori di religione. Conchiude che se t troverà qualche difficoltà presso alcuni ministri della Chiesa, esso confida che il Parlamento, la nazione, l'opinione pubblica discerneranno da che parte stia il diritto».

1848,11 novembre. Sulle mura di Torino leggesi un cartellone che dice: i Questa sera la drammatica compagnia Mancini replica a richiesta generale la nuovissima produzione, scritta espressamente dall'artista sig. Alessandro Gaileano, la quale porta in fronte: diavolo ed i Gesuiti». Il Pirata, giornale de' teatri, si lagna che il governo permetta con simili produzioni di alzare cattedra di prostituzione.

1848,20 novembre. Si legge nella Gazzetta di Genova il seguente articolo comunicato dall'Amministrazione di sicurezza pubblica: « Sappiamo che da alcuni giorni la' città si commove per la voce che corre, che sien per ritornare in Genova i funzionarii pubblici dell'Ordine ecclesiastico, che avevano dovuto allontanarsene da quando invalse la nostra nuova vita politica. A noi sembra impossibile una tale imprudenza. Per ora ci limitiamo ad avvertirli, che l'unione del governo e del popolo, per mantenere l'ordine, non ha sicuramente avuto per oggetto di agevolare il ritorno ad idee retrograde; e che se credono di fare conto su qualche simpatia del governo, sono completamente in errore». L'Eccelso Farini, che pubblica i documenti dei governi di Parma, di Modena e degli Stati Pontificii, che cosa pensa di questo prezioso documento della libertà piemontese?

1848 8 dicembre. Circolare del presidente del Consiglio universitario ai presidi, e vicepresidi della facoltà, con cui viene interdetto di potere in avvenire rassegnare ai Vescovi le tesi da sostenersi nei pubblici esami.

1848 25 dicembre. Insolente circolare dì Rattazzi, ministro di grazia e giustizia, ai Vescovi, dove, tra le altre cose, dice loro che sempre quando vogliano entrare in materia politica, debbano conformarsi alle viste, intenzioni e deliberazioni del governo.

1848 luglio. Ventidue parrochi della città di Genova si richiamano al governo «sull'ampio abuso della libertà della stampa, la quale immunemente sparge nel popolo sentimenti ereticali e scismatici, mette in derisione i dogmi più sacrosanti della nostra SS. Religione, non che i SS. Sacramenti, e con satire, sarcasmi e calunnie cerca di rendere spregevoli i ministri di Dio anche i più reverendi,

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cominciando dal Vicario di Cristo, il regnante Pontefice»

1849,22 agosto. Scandalosa tornata della Camera dei deputati contro l'Arcivescovo di Torino e Vescovo d'Asti, t La Camera ordinando che sia nominata una Commissione coll'incarico d'investigare il modo più opportuno e più legale per mettere riparo alla deplorabile condizione della diocesi d'Asti e di Torino, con riservaci provocare definitivi provvedimenti, passa all'ordine del giorno» (Att. uff. della Cartiera, N° 437).

1849 26 settembre. Nota insolente del Ministero alla Santa Sede, in cui minaccia di non dare l'exequatur alle dispense matrimoniali sul primo grado di affinità.

1849 17 novembre. Viene presentata al Ministero una petizione e tendente ad ottenere che vengano rimossi gli ostacoli che impedirono sinora il ritorno dell'Arcivescovo di Torino nella sua diocesi». La petizione porta 10,154 firme, la maggior parte di capi di famiglia.

1850 2 gennaio. Violenze contro l'Arcivescovo di Cagliari, perché non vuol cedere alle esigenze' di una Commissione deputata a preparare il progetto d'abolizione delle decime. - Viene, apposta la mano regia sulla mensa Arcivescovile.

1850, febbraio. Il ministro Siccardi manda a citare il Vescovo di Saluzzo a cagione del suo Indulto per la Quaresima. Nella Camera, il 15 di febbraio, si fa un gran rumore contro quel Vescovo. Il Ministero risponde «1 deputato Brofferio condannando il Vescovo, ma confessando che difficilmente si sarebbe potuto iniziare un procedimento.

1850,25 febbraio. Presentazione del progetto li legge Siccardi contro l'immunità ecclesiastica, e l'osservanza di alcuni giorni festivi, e solenne violazione del Concordato del 1841, giurato da Carlo Alberto in fede e parola di Re.

1850, marzo. I Vescovi e Vicarii Generali Capitolari della provincia ecclesiastica, di Torino pubblicano un indirizzo alla Maestà del Re Vittorio Emanuele II contro il proselitismo protestante e la profanazione dei giorni festivi, eccone un brano:

«Se uomini illusi anelano alla separazione dello Stato dalla Chiesa, non fia mai che nell'animo de' Vescovi siano separati gli interessi dell'Altare e~del Trono. Egli è per ciò che essi si tengono in obbligo d'invocare l'attenzione di V. M. sul proselitismo, che da qualche tempo apertamente si esercita nella città e nel contado dall'eresia protestante, la quale niun mezzo lascia intentato per guadagnare seguaci, impegnando non solo cogli scritti, ma anche colle diatribe ed in luoghi pubblici i dogmi cattolici! adoperando perfino occultamente la seduzione del danaro. - Se la fede nostra santissima ha a lamentare la dichiarata apostasia di taluni, che già di costumi o di spirito si mostravano corrotti ed empiii è pur troppo vero che quest'unica vera fede del divin Salvatore del mondo, sempre propugnata e venerata dai nostri maggiori, viene qui bersagliata; che le leggi, a difesa della religione sapientemente sancite dai gloriosi Avi e dall'Augusto Re Carlo Alberto, genitore di V. M., e tuttora vigenti, sono disconosciute! che i diritti dallo Statuto assicurali alla Chiesa Cattolica Romana sulla religione dello Stato, la quale è pure quella della totalità dei sudditi di V. M., meno un ventunmila di Valdesi e settemila di Ebrei si mettono in non cale, come il giuramenti di osservarlo e di farlo osservare.

Non si potrà poi dai Vescovi tacere a V. M. della profanazione che da qualche tempo bassi a lamentare dei giorni festivi consacrati alla memoria dei misteri di nostra religione, al culto del Signore, della Beatissima Vergine Maria e dei Santi.

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1850,9 aprile. Approvazione della legge Miocardi; protesta e partenza del Nunzio Pontificio da Torino.

1850, maggio. L'Arcivescovo di Torino viene imprigionalo e sostenuto per un me$e in cittadella per aver dato al Clero alcune norme sull'osservanza della legge Siccardi.

1850, giugno. Arresto di Monsignor Arcivescovo di Sassari, imprigionato per un mese. ,

1850, luglio. Malattia e morte del ministro Santa Rosa. Secondo arresto dell'Arcivescovo rii Torino. Inutile perquisizione agli Oblati della Consolata.

1850,26 agosto. Il giornale il Risorgimento pubblica una lettera del conte Camiflo Cavour, dove approva le misure sino ad un certo punto extralegali adoperate dai ministri contro l'Arcivescovo di Torino: dichiara che il Ministero operò egregiamente t e che si dovrà fare così contro il Clero fintantoché vi gara una religione dello stato, «Queste spiegazioni, conchiude il conte di Cavour, varranno a porre in chiaro i miei sentimenti». E pochi giorni dopo il conte di Cavour veniva chiamato a far parte del Ministero, e si può dire che non ne uscisse pili, se ne togli qualche momentaneo eclisse.

1850, settembre. Monsignor Fransoni in carcere. Un decreto del Magistrato d'appello lo condanna e l'Arcivescovo parte alla volta di Francia, dove morì nel 1862.

1860, ottobre. Arresto ed esilio dell'Arcivescovo di Cagliari, Monsignor Marongiu, il quale trovasi ancora oggidì spogliato de' suoi beni ed esule io Roma.

1850,18 settembre. Dalle carceri giudiziarie di Cuneo il sac. D. Luigi Piola scrive la seguente lettera a sua madre:

Sia sempre benedetto il Signore nelle prospere cose e nelle avverse. La pena che mi addolora maggiormente in queste carceri, ai è la pena che io involontariamente cagiono ai miei amici e parenti, ed a lei in modo speciale, mia dolcissima madre. Del resto io sono tranquillo, sufficientemente bene in salute, ed oltremodo consolato dalla fiducia di patire contumelia pel nome di Gesù. Quantunque il governo secondo i regolamenti in vigore non mi passi per i bisogni della vita se non che un pane di munizione con due minestre al giorno ed un saccone di paglia per la notte, come a qualunque altro malfattore più infame qua detenuto, non mi si divieta però di procurarmi d'altronde il necessario per sostenere la mia sanità poco robusta.

E questo bravo sacerdote era poi riconosciuto innocente, e rimesso in libertà dopo quaranta cinque giorni di sofferta prigionia!

1850,25 settembre. «Abbiamo ordinato ed ordiniamo che sia Monsignor Luigi Fransoni, Arcivescovo di «Torino, allontanato dallo Stato, e ad un tempo «provveda al sequestro a mano regia di tutti i beni dell'Arcivescovado, commettendo a' giudici di mandamento, ove sono quelli situati, di divenire alla deputazione di rispettivi economi a spese particolari di detto Monsignore (Decreto del Magistrato d'appello di Torino, sottoscritto Manno).

1850, ottobre, ((teologo Guglielmo Audisio è obbligato ad abbandonare l'accademia di Soperga, reo di aver atteso per tanti anni all'educazione del Clero piemontese, d'aver illustrato la sua patria con applauditissimi libri, e d'aver difeso la causa del Papa e le ragioni della Chiesa nel giornale l'Armonia.

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1850, 25 ottobre. L'abbé Daras protesta nell'Armonia contro insulti ricevuti in Torino, e contro scandalose caricature ingiuriose al Clero cattolico, che ha visto esposte su pei muriccioli della capitale. On tn'a dit, écrive l'ottimo ecclesiastico, que ces expositions etaient une arme poli tigne: elle éclatera dansles mains de ceux qui s'en servent (Vedi Armonia, N° 238,30 ottobre).

1850,1° novembre. Allocuzione del Papa, con cui si lagna di ciò che contro il diritto della Chiesa s'è fatto e stabilito nel Regno di Sardegna. Il Risorgimento scrive riguardo a quest'Allocuzione: «Non mai la concordia col Vaticano ci sembrò tanto facile quanto dopo l'Allocuzione del 1° novembre. A maturarla non manca che un solo mezzo, che attenderemo tranquillamente, ed è il tempo». Sono passati dodici anni, e questo tempo per parte nostra non è ancora venuto!

1850, novembre. Il Ministero vuoi procedere in via d'appello per abuso contro il Vescovo d'Acqui, II guardasigilli ne scrive al presidente del Magistrato d'appello di Casale per sapere in via confidenziale che cosa pensi quel Magistrato della dottrina dell'appello per abuso, dopo lo Statuto. Il presidente ne parla in classe riunita, e manda dire officiosamente al ministro che i Magistrati di Casale opinavano avere lo Statuto abolito quella giurisdizione,

1850,3 dicembre. Il maresciallo della Torre nel Senato del Regno esponein un eloquente discorso le grandi offese che si sono recate alla Chiesa cattolica in Piemonte e nove anni prima dell'autore dell'opuscolo Napoléon IIIet l'Italie dichiara che la politica ministeriale tende allo scisma. Messieurs, dice l'illustre maresciallo, il faut avant tout éviter le schisme, et nous ne l'éviterons pas avec des maximes absolues et tranchantes: nous ne l'éviterons pas en voulant obliger le Saint-Siège à faire pour nous ce qu'il n'a jamais fait pour personne.

1851,1° gennaio. I giornali continuano a vilipendere il Clero, e ad aizzare la plebaglia contro a' preti. Un capoposto in Ivrea, esaltato da tali letture, spara un colpo di fucile contro i cherici che dal seminario si recano al Duomo, e ne colpisce uno nel braccio destro.

1851,9 gennaio. Continuano le calunnie contro Monsignor Artico, e lo stesso Brofferio ne è stomacato, e scrive sulla Voce nel Deserto dei 0 di gennaio 1851: «Dopo di avere avuto sott'occhio le tavole processuali delle imputazioni fatte a Monsignor Artico, sappiamo al giusto che valgano su questo particolare lo porcherie della Gazzetta del Popolo.

1851, gennaio. Il ministro della pubblica istruzione fa guerra al Vescovo di Mondo vi, perché questi aveva interdetto la predicazione ad un professore di religione.

1851,15 gennaio. L'avvocato Brofferio dice nella Camera dei Deputati: «Non avendo potuto sopprimere gli Austriaci, almeno sopprimiamo la Compagnia di S. Paolo». E l'impresa riuscì e la Compagnia di S. Paolo venne soppressa!

1851,6 marzo. Il ministro dell'interno ha l'impudenza di affermare nel Senato del Regno: «Si ingannerebbe, o signori, a gran partito chi dicesse che, al momento in cui ho l'onore di parlarvi, ci fieno rotture tra la S. Sede e il Governo». Il ministro viene solennemente smentito dal Giornale di Roma.

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1851,17 marzo. La Camera dei Deputati discute un disegno di legge proposto dal deputato Peyrone contro i voli religiosi. Brofferio esclama: «Siamo noi capaci di alzare la fronte contro la romana iattanza? Sopprimiamo i conventi, e tutto sia terminato». Brofferio domanda che sia snudata la spada contro i preti fino all'ultimo sangue!!!

1851,18 morso. Gli agenti di pubblica sicurezza si recano a bordo del vapore il Costare, che è presso a salpare da Genova per Marsiglia, e sequestrano una mitra ed un calice, che i cattolici dì Genova offrono all'Arcivescovo di Torino, esule in Lione.

1851,13 maggio. Il ministro sopra la pubblica istruzione scrive una circolare a' Vescovi, imponendo loro certe condizioni relative all'insegnamento delta teologia, l Vescovi piemontesi concordemente rispondono, il 4° di giugno 1851, che non possono accettare tutte le condizioni espresse in detta lettera e senza lèdere gli inviolabili sacrosanti diritti della Chiesa e svellere i fondamenti della cattolica religione». I Vescovi della Savoia alla lor volta dicono al ministro: «Les conditions que V. E. propose aux Évêques de Savoie dans sa lettre du 13 mai dernier relativement à l'enseignent de la théologie sont évidemment contraires aux principes fondamentaux. de la religion catholique, et aux droits les plus incontestables de l'Église.

1851, maggio. Si aggravano i beni della Chiesa d'un'imposta particolare delta di manomorta.

1851,28 giugno. Nel convento dei Francescani di Alghero si fa dalla forza armata una terribile perquisizione, contro la quale protesta il Vescovo con una sua lettera all'Avvocato fiscale generale di Cagliari. Ecco alcune parole del Vescovo istesso:

Fatti raccogliere in un cantuccio del chiostro i religiosi, furono tutti consegnati a guardie di vista, intantoché. si visitava ogni ripostiglio della casa. Si scalarono finestre; si atterrarono le porte delle celle dei padri assenti; si mandò in fascine un solaio. Chiesa e sagrestia non furono risparmiate;'si discese perfino nelle tombe, e quasi che non bastasse di averle visitate soltanto, vi si ritornò nella stessa sera, e colle baionette delle carabine scavando fra la terra e i sepolti cadaveri, non si ebbe ribrezzo di scuoter quel carcame di ossa fradicie, misero avanzo dell'umanità, che da secoli riposavano nell'avello all'ombra dei luoghi santi!...

Di cotanta ingiuria consumatasi con manifesto oltraggio al sacro luogo, con disprezzo di ogni riguardo dovuto all'autorità ecclesiastica, e con flagrante violazione dell'art.27 dello Statuto fondamentale del Regno, il sottoscritto ne porta le sue giuste querele all'ilL. mo signor Avvocato fiscale generale di S. M., e lo prega di adoperare i suoi energici officii, perché non abbiano più oltre a rinnovarsi colali scandali e abosi, e si osservino, nel caso di altre simili perquisizioni, lo prescritte cautele e riguardi.

Il vescovo di Alghero

Fr. Pier Rafaele.

1851, giugno. Il deputato Bertolini propone alla Camera un disegno di legge snl matrimonio civile, e questa lo piglia in considerazione.

1851,6 agosto.1 Vescovi della provincia ecclesiastica di Torino protestano contro l'illegale ed incostituzionale concessione fatta aj Valdesi di aprire un pubblico tempio nella capitale?

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«Possibile, scrivono i Vescovi, possibile che sotto la dominazione della cattolica, religiosissima Casa di Savoia abbia l'errore ad ottenere un trionfo sopra la verità, che, malgrado tutti i suoi sforzi, non mai ottenne sotto la straniera francese dominazione 1». Le stesse protesteranno tutti gli altri Vescovi dello Stato.

1851,22 agosto, lì Papa Pio IX condanna i trattati di Nepomuceno Nuyls, professore di diritto canonico nell'Università di Torino, dove insegna tesi false; temerarie, scandalose, erronee, scismatiche eretiche, affini al protestantismo.

1851,19 settembre. Vien condannato alla prigione il sacerdote Montegrandi, per aver biasimato i comici Tassani, che nel teatro di Vercelli rappresentavano due commedie intitolate, l'una: Gli orrori dell'Inquisizione, e l'altra Il diavolo e i Gesuiti.

1851, ottobre. La stampa periodica impunemente bestemmia il Papato e il Cattolicismo. Il Papa Pio IX è chiamato un miserabile, un barbaro, un infame, il vicariò di Satana.

1851, dicembre, I Vescovi scrivono al Re Vittorio Emanuele II:

«Noi vediamo colla più angosciosa sorpresa come si lasci affidato l'insegnamento del diritto canonico ad un professore, Le cui dottrine furono solennemente condannate dal Capo Supremo della Chiesa siccome scismatiche, eretiche e favorevoli al protestantismo, ed alla stia propagazione: dottrine che noi pure, accogliendo con venerazione l'oracolo che le ha condannate, condanniamo solennemente, e proibiamo a chiunque di professare e difendere un professore, il quale, persistendo ostinatamente negli errori da lui insegnati, pubblica un libello, che lo dichiara apertamente eretico, e frattanto, sedendo sulla' cattedra di una Università che sempre si gloriò d'essere cattolica, imbeve la gioventù di quelle eresie e di quelle perverse dottrine. Come imparerà cotesta gioventù l'ossequio, l'obbedienza alle leggi dello Stato, mentre si addestra con indegni tripudii, e sotto un insegnamento autorevolmente impostole, a ribellarsi all'ossequio ed alla obbedienza dovuta al Vicario di Gesù Cristo, e ad una delle più solenni di lui decisioni?».

1852, gennaio, lì Vicario capitolare di, Genova protesta solennemente contro un regolamento di polizia municipale, in cui si pretende proibire il suono delle campane e, regolarlo per le funzioni della Chiesa Cattolica.

1852,17 gennaio. Una Commissione governativa, esaminato l'indole e le opere della Compagnia di S. Paolo, la dichiarava meritevole di tutta la pubblica riconoscenza. Eppure il 17 gennaio 1852 questa Compagnia viene spogliata dell'amministrazione e del possesso dei suoi beni!

1852,5 febbraio. Il conte dì Cavour nella Camera dei Deputati non vuole che si provveda contro le empietà della stampa, perché «la religione nostra ha tali, basi e tali fondamenta da poter resistere a ben altri pericoli che non siano gli attacchi della nostra stampa».

1852,12 giugno. Il cavaliere Carlo BonCompagni presenta alla Camera dei Deputati un progetto di legge sul matrimonio civile per dar sicurezza alle famiglie!

1852, giugno. I Padri Certosini vengono arbitrariamente e a viva forza espulsi dalla loro casa di Collegno, coi pretesto che il governo ne aveva bisogno per collocarvi l'ospedale dei pazzi.

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1852, luglio. Sottoscrivendosi in Piemonte molte petizioni contro il matrimonio civile, il ministro dell'interno scrive una circolare contro i parrocbi e viceparrochi, e li mette sotto la particolare sorveglianza degli intendenti, sindaci ed altri agenti governativi. Nella stessa circolare il signor Ministro spaccia gli ecclesiastici come intriganti, raggiratori, rei di frodi, violenze, minaccie.

1852, agosto. Il ministro dell'Interno dichiara, che «appartiene esclusivamente all'autorità civile» l'accordar licenza di lavorare nei giorni festivi,

1852,12 agosto. Il conte Ignazio Costa della Torre, avendo scritto un libro contro il matrimonio civile, viene processato e condannato a due mila lire di multa, e due mesi di carcere. Più tardi è pure rimosso dal suo uffizio di consigliere della Corte di Cassazione, in seguito ad una lettera scritta dal ministro guardasigilli al presidente della stessa Corte.

1852,19 settembre. Un Decreto R. spoglia la veneranda Congregazione della Misericordia di Casale. L'11 di ottobre la Congregazione «protesta altamente contro l'esecuzione di un tale decreto, e perché incostituzionale, e perché ingiusto». La Congregazione della Misericordia era stata instituitp nel 1525.

1852,19 settembre. Lettera del S. p. Pio IX a Vittorio Emanuele II. Il Papa risponde all'accusa mossa al Clero piemontese «dì far guerra al governo, e di eccitare i sudditi alla rivolta». Ecco alcune parole dell'immortale Pontefice, in cui domanda documenti che non vennero spediti e mostrati mai:

Finalmente rispondiamo all'ultima osservazione che V, M. ci esterna, addebitando aduna parte del Clero piemontese pontificio di far guerra al suo governo e di eccitarsi sudditi alla rivolta contro di lei e contro le sue leggi. Una tale asserzione ci sembrerebbe inverosimile, se non ci fosse scritta da V. M., la quale assicura di averne in mano i documenti. Ci duole solo di non conoscere questi documenti per non sapere quali siano i membri del Clero che si sarebbero accinti alla pessima impresa di eccitare una rivoluzione in Piemonte. Questa ignoranza ci pone nella necessità di non poterli punire; se mai però s'intendesse per eccitamento alla rivolta gli scritti che per parte del Clero sono comparsi per opporsi al progetto di legge sul matrimonio, diremo che, prescindendo dai modi che qualcheduno avesse potuto adoperare, il Clero ha fatto il suo dovere. Noi scrivemmo a V. M. che la legge non è cattolica, e se la legge non è cattolica, è obbligato il Clero di avvertire i fedeli, anche a fronte del pericolo che incorre. Maestà, noi le parliamo anche a nome di Gesù Cristo, del quale siamo Vicario, quantunque indegno, e nel suo Santo Nome le diciamo di non sanzionare questa legge che è fertile di mille disordini.

La preghiamo ancora di voler ordinare che sia messo un freno alla stampa, che ribocca continuamente di bestemmie e d'immoralità. Deh per pietà! che questi peccali non si riversino mai sopra chi, avendone il potere, non ne impedisce la causa! V. M. si lamenta del Clero; ma "questo Clero è stato sempre in questi ultimi anni avvilito, bersagliato, calunniato, deriso da quasi tutti i fogli che si stampano nel Piemonte, e non si potrebbe ridire tutte le villanie e le rabbiose invettive scagliate e che si scagliano contro questo Clero. Ed ora, perché esso difenderla purità della fede ed i principii della verità, dovrà forse questo Clero incontrare la disgrazia della M. V.? Noi non possiamo persuadercene, e ci abbandoniamo volentieri alla speranza di vedere da lui sostenuti i diritti della Chiesa, protetti i suoi ministri, e liberato il suo popolo dal dover sottostare a certe leggi ohe seco portano l'impronta della decadenza della religione e della moralità negli Stati.

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1852 28 dicembre. Nella Camera dei Deputati i nostri Vescovi vengono chiamati uomini spinti da terrene ambizioni e. da mondane voglie ammantate da religiosa ipocrisia; barbari che non hanno ribrezzo ad avventarsi al letto dei moribondi; che usano perfide insinuazioni, codarda scaltrezza di vocaboli; scrivono libelli incendiarii; danno protervi comandi, e vanno al martirio in carrozza (Atti uff. del Pari., n° 244).

1853, gennaio.1 tre parrochi di Ronco, di Vìllaregia e di S. Giusto vengono imprigionati come rei d'intrighi e di ribellioni. Dopo di aver passato parecchie settimane in prigione, vengono rimessi in libertà, perché non si fa luogo a procedimento.

1853,10 gennaio. Nel comune di Contamine-surArve, in Savoia, esisteva una antica istituzione di beneficenza, composta di cinque Suore, dette della Compassione. I Barnabiti l'aveano fondata il 5 giugno 1683.11 suo scopo era l'istruzione delle povere figlio, i soccorsi ai poveri ammalati e la cura della lingeria della chiesa. Venti rivoluzioni scoppiate in Savoia non osarono toccare questa edificantissima Società; gli incameratori del 93 la rispettarono, ma il nostro Ministero non la seppe tollerare. Un decreto dei 10 gennaio 1853 porta: «Art.1° L'associazione delle Suore della Carità, chiamate Dame della Compassione, stabilita nel comune di Contamine-surArve, e che il governo avea riconosciuto colle regie patenti del 1° maggio 1847, conservandole, l'amministrazione del l'istituzione di beneficenza di quel Comune, è disciolta».

1853,25 aprile. Il ministro dell'interno nella Camera dei Deputati cinicamente spiega l'enigma della sub politica dicendo: «L'oro fa talora dei miracoli, e pochi vi resistono». Che b%l documento, signor Farini, da conservare a lode della libertà e dei liberali!

1853, maggio. Viene limitato il numero dei chierici e novizii da dispensarsi dalla leva, «perché noi abbiamo un eccedente di 10 mila preti», come disse il deputato Borella. I Fratelli delle Scuole Cristiane vengono assoggettati alla leva.

1853,29. giugno. Il S. p. Pio IX nella solennità dei Santi Pietro e Paolo protesta contro il governo Piemontese che da tre anni ommette di adempiere le condizioni di un contratto stipulato tra ir Papa Benedetto XIV e re Carlo Emanuele III, del 5.gennaio 1741, ratificato dalle parti contraenti il 22 gennaio.

1853, giugno. Viene sacrilegamente e misteriosamente rubata una grossa statua d'argento della B. Vergine Consolatrice, dono di Carlo Felice e Maria Cristina. La polizia non riesce a scoprire i ladri.

1853,31 agosto. Un regio decreto secolarizza l'Economato Regio Apostolico con manifesta violazione de' Concordati.

1853, ottobre. Circolare ministeriale agli intendenti contro i Pastori delle anime, accusati di lasciarsi travolgere dalle passioni di partito per proprio od altrui impulso.

1853,21 ottobre. Circolare ministeriale ai superiori degli Ordini Regolari, ove, sotto pena di arresto immediato, si domanda «un elenco delle persone estranee agli Stati del Re, le quali, appartenendo ad un Ordine religioso, fanno parte del convento».

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1853,27 ottobre. Circolare della questura della provincia di Torino contro il Clero, dove è detto: «Anche ai pastori delle animo, ai quali più facile si apre l'orecchio delle popolazioni, devesi rivolgete la più continuata attenzione perché non abusino dell'influenza che loro viene dal ministero che esercitano. E si conchiude intimando l'arresto immediato dei ministri del culto.

1853,3 novembre. Il ministro di grazia e giustizia indirizza a molti parrochi una circolare dove dice che a potendosi ritrarre che i redditi di questa parrocchia superano le annue lire mille, ne fa comunicazione al signor parroco, perché possa presentare al ministero tutte le osservazioni che crederà nell'interesse della parrocchia col corredo de' fatti e documenti che potrà riputare a tal fine necessarii. Se il parroco non risponde, si giudicherà che gli annui suoi redditi superino le annue lire mille, e saranno soppresse le congrue dell'Economato.

1853,15 dicembre. Viene inaugurato in Torino il tempio valdese coll'intervento spontaneo della guardia nazionale. Del che mena grandissimo vanto la Buona Novella, giornale del?evangelizzazione italiana.

1853,23 dicembre. I Vescovi della Savoia e gli altri Vescovi dello Stato protestano contro la legge sulla leva, avversa al Clero secolare e regolare.

«L'esenzione del servizio militare, dicono i Vescovi, è un'immunità indispensabile ai ministri degli altari. Essi non possono essere ammessi ai santi Ordini che dopo lunghi studii; l'età dai 15 ai 24 anni è la sola che sia propria a questa preparazione; il perché quest'esenzione venne fin qui accordata presso tutte le nazioni cristiane, perché né ero, generalmente sentita la necessità.

«L'articolo precitato comprende, è vero, il principio dell'esenzione in favore di quelli che aspirano al sacerdozio nella vita secolare, ma contiene ad un tempo stesso una disposizione ingiuriosa ai Vescovi e contraria in principio all'autorità della Chiesa. Esso riserba al ministro la facoltà di stabilire in ogni anno, e per ciascuna Diocesi, il numero degli aspiranti allo stato ecclesiastico che potranno godere di quest'esenzione. Una tale facoltà suppone il diritto di giudicare delle vocazioni, di apprezzare i bisogni spirituali di ciascuna Diocesi, e determinare il numero dei sacerdoti necessarii per sovvenirvi. Secondo la costituzione divina della Chiesa questo diritto appartiene unicamente al Vescovo».

1854, gennaio. I nostri Vescovi pubblicano un richiamo alla Maestà del Re contro le circolari ministeriali.

I sottoscritti Vescovi delle tre provincie ecclesiastiche di Torino, di Genova e di Vercelli non possono dispensarsi dal manifestare a V. M. i sensi di meraviglia e di profondo rammarico onde furono compresi all'apparire di varie circolari emanate dalla pubblica autorità, m cui si accusano in genere i Pastori fantine ed i ministri dell'altare di abusare dell'influenza del loro ministero di lasciarsi travolgere dalle passioni di partito, ed abbandonarsi ad allusioni imprudenti e mal velate, e talora persino a diretti e violenti attacchi contro il governo e le istituzioni che ci reggono; circolari le quali, supponendo il clero veramente colpevole di tali delitti, prescrivono ai giudici ed ai sindaci vigilanza sulle parole e sulle azioni dei ministri dei culto, minacciano contro di essi criminali procedimenti e persino l'immediato arresto.

Il contegno de' Vescovi, che sono i primarii Pastori d'animi, dalle cui labbra e dalla cui penna mai non uscì una parola contro il governo e contro le patrie istituzioni, questo contegno venne imitato dall'immensa maggioranza dei parrochi e del clero, cosicché, fatta qualche ben rara eccezione, la loro condotta fu mai sempre lodevole e tale al certo da non meritarsi rimproveri, e tanto meno da venir turbata da ingiuriosi sospetti

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pubblicamente manifestati, e da rigorose minacciate generali provvidenze, e, quel che è più, assoggettata alla sorveglianza di un sindaco, che e ne costituisce il canfore ed il giudice, con grave disdoro del carattere angusto di cui è rivestito il sacerdote. La verità di quanto si asserisce risulta ben chiara dalle dichiarazioni d'innocenza ottenute dalla massima parte di quegli ecclesiastici che dalla polizia furono tradotti in prigione.

1854,2 gennaio. Progetto di legge che diminuisce le pene portate dal Codice contro chiunque con pubblici insegnamenti, con arringhe, o col mezzo di scritti, di libri o di stampe, attacchi direttamente o indirettamente la religione dello Stato. E punisce severamente i sacerdoti cattolici, che e pronuncino in pubblica adunanza un discorso contenente censura delle istituzioni e delle leggi dello Stato; cioè a dire leggano ih chiesa una delle tante allocuzioni pronunziate da S. Santità Pio IX.

1854,8 gennaio.1 giornali eterodossi dell'Inghilterra applaudono la politica piemontese: «La politica della Sardegna, dice lo Spectator, non è meno imbevuta di protestantesimo che la sua condotta religiosa». Il Times dichiara che il tempio valdese aperto in Torino stabilisce un nuovo vincolo d'amicizia tra i popoli d'Inghilterra e del Piemonte, che hanno di già comuni così numerosi interessi». (Vedi l'univers del 12 di gennaio 1854). L'8 di marzo del 1854, il marchese Costa di Beau-regard, alludendo agli elogi de' protestantiai nostri ministri, diceva loro che erano riconosciuti dall'immensa maggioranza comme la plus honteuse flétrissure qui puisse être imprimée sur votre front.

1854,10 marzo. Il signor abate Vachetta, economo generale, si reca, in forza di un decreto ministeriale, a sequestrare i beni del Seminario arcivescovile di Torino, beni che restano tuttavia sotto sequestro, mentre il Seminario è trasnuotato in caserma.

1854,15 marzo. L'esimio Vescovo di Biella pubblica un'urgente notificanza, che dice tra le altre cose:

Girano fra noi, come in altre provincia dello Stato', uomini prezzolati e perversi che, coll'apparente scopo d'un commercio qualsiasi o d'un'arte, s'introducono nei negozii e nello case, e perfino vi assalgono per le contrade, onde vendervi a modico prezzo o farvi anche accettare, con niuna o con una minima spesa, libricciatoli pieni di eresie o di bestemmie, e portanti i più bei titoli in fronte, al fine di sorprendere gl'incauti, e far da loro stessi recare in seno alle famiglie il più rio, quanto men sospettalo veleno.

Premendomi di troppo, e per dovere del proprio ministero e per l'amore che porto ai miei cari diocesani, di tutelarti nella loro fede augusta in cui nacquero e vivono, mi trovo in obbligo di farne una pubblica denunzia, onde ognuno sappia premunirsi contro un si scellerato procedere, contro un si perfido attentato.

1854,28 marzo, I Vescovi della provincia ecclesiastica della Savoia mandano un indirizzo al Senato del Regno perché rigetti il progetto di legge del 2 gennaio contro il Clero cattolico e in favore dei protestanti. Si avvertano le seguenti parole dei Vescovi savoini:

L'art.24 dello Statuto costituzionale dice, che tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinanzi alla legge, che tutti godono egualmente i diritti civili e politici. Quando si discuteva nel Parlamento la legge del 9 aprile 1850, voi sapete, signori Senatori, quanto siasi fatto risuonare quest'articolo dello Statuto: eguaglianza dinanzi alla legge, eguaglianza per tutti, niun privilegio pel Clero, niuna distinzione per chicchessia; era allora una parola magica.

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Difatti, la legge del 9 aprile 1854, dice all'art.3°: «Gli ecclesiastici sono soggetti come gli altri cittadini a tutte le leggi penali dello stato». Oggidì non ci preme più questa eguaglianza dinanzi alla legge, si acconsente ad accordare un privilegio al Clero Cattolico, ma è il privilegio delle multe e del carcere, il privilegio della persecuzione!

1854,30 marzo. I Vescovi delle tre provincie ecclesiastiche di Torino, Genova e Vercelli ricorrono al Senato perché rigetti la legge contro il Clero. Tra le altre cose i Vescovi dicono:

«Che questo progetto di legge tenda ad opprimere la libertà della, parola del ministro di Dio, anziché a reprimere gli abusi, si dimostra da ciò, che per reprimere si fatti abusi non mancano pur troppo leggi abbastanza per noi umilianti, E non vedemmo infatti, e non vediamo ogni giorno intentati processi contro li sacerdoti accusati di quest'abuso della parola nel sacro loro ministero? E sé vengono essi assolti dalle fatte imputazioni, non è già perché manchi, o signori, la legge, ma perché manca il fondamento dello imputalo delitto. Nessuno potrà dunque ragionevolmente credere che venga proposta la nuova legge per reprimere abusi, ma piuttosto per rendere vieppiù odioso il Clero, per menomargli la stima che devo godere presso il popolo, per troncargli la parola sul labbro, per restringere coi ferri quella libertà che è indispensabile al sacro ministro per sostenere l'unità cattolica, e per gridare contro i violatori delle divine ed umane leggi».

1854, giugno. Il senatore Scolpis dice al Senato del Regno che da una statistica avuta dal guardasigilli risulta che dal 1848 in poi vennero girati contro gli ecclesiastici QUARANTANOVE processi politici, e i magistrati non poterono infliggere che non condanne. E quali condanne! La condanna dell'Arcivescovo di Torino, dell'Arcivescovo di Cagliari, dell'Arcivescovo di Sassari, e simili!

1854,23 giugno. L'esule Arcivescovo di Torino, dopo aver inutilmente ricorso ai tribunali, protesta contro il sequestro dei beni del suo seminario. «Venendo informati, egli dice, che non solo con decreto del tribunale di Prima Cognizione, in data del 19 maggio, ma successivamente eziandio con quello del Magistrato d'Appello, emanato il 16 giugno, si è irremissibilmente impedito il Seminario di far valere le sue ragioni con essersi quasi contemporaneamente aggiunta l'occupazione di una nuova e ragguardevolissima parte del fabbricato di Torino, mancheremmo troppo essenzialmente al nostro dovere se continuassimo a serbare un silenzio che potrebbe forse interpretarsi quale un segno di tacita acquiescenza. Sforzati quindi a valerci dell'unico mezzo che resta agli oppressi, noi dichiariamo di protestare come protestiamo nel modo il più formale e solenne contro la violenta usurpazione, di cui fu fatto vittima il detto Seminario per parte di chi osò calpestare del pari e i più sacri diritti di proprietà, e le più tremende censure fulminate dai sacri canoni, e segnatamente dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess.22, De reform., cap. XI), contro chiunque s'impadronisce della proprietà della Chiesa.

1854,30 giugno. Giuseppe Malan, deputato di Bricherasio, e appartenente al culto valdese, rende nella Camera pubblica testimonianza di gratitudine al Ministero in nome de' suoi correligionarii (Atti Uffìz., N°319, pag.1190).

1854, agosto. Il Ministero sequestra un avviso dell'Arcivescovo di Torino che ordina dì recitare nella S. Messa e nelle Benedizioni l'Oremus cantra persecutore Ecclesiae.

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1854,14 agosto. Protesta dei RR. Padri della Certosa di Collegno. II giorno 10 del corrente mese di agosto, dicono i Padri, mentre i sottoscritti Padri della Certosa di Collegno attendevano, secondo le loro regole, alle occupazioni del proprio Istituto, ed era assente il loro superiore, la forza armata ne invase la casa. Dopo aver sorpreso il portinaio, ne espulse violentemente i Padri, uno de' quali era infermo da ur mese con tre salassi ed un'operazione di sanguisughe, senza lasciare loro tanto tempo da ritirare la propria mobiglia; anzi chiudendo la chiesa, perdio non finissero di asportarne i sacri arredi; mentre alcuni degli invasori ed altri estranei, che non possono certamente appartenere alla pia popolazione di Collegno, che di mostra vasi invece addolorata per simile violenza, introducevansi nel convento, e vi rubavano oggetti di valore, e fra le altre cose, vino e viveri.

«I Padri della Certosa di Collegno erano steli richiesti alcuni giorni prima di cedere la propria casa; ma non potendo accondiscendere a tale domanda senza averne avuto l'ordine de' proprii superiori, chiedevano ed ottenevano, come era ragionevolissimo, il tempo necessario per interpellarli in proposito.

«Ma discacciati all'improvviso, e raccolti presentemente da una pia persona, senza la cui carità si troverebbero in mezzo alla pubblica strada, dopo avere solennemente protestato in parole, mentre attendono gli ordini de' loro superiori, protestano di bel nuovo in iscritto, e davanti il Piemonte civile, davanti il Piemonte cattolico si richiamano di tanta soperchieria».

1854,18 agosto. Le Canonichesse Lateranensi di S. Croce sono discacciate a viva forza dal monastero che abitavano in Torino. Il Provicario Generale trasmette al ministero la seguente protesta:

«Contro l'atto violento, con cui nella scorsa notte venne rotta la clausura, occupato il monastero di S. Croce, e furono tradotte fuori del sacro ricinto le RR. Monache Canonichesse Lateranensi, e dopo il mezzogiorno vennero tolte al signor rettore le chiavi della chiesa, in cui si conserva la SS. Eucaristia, chiusa quindi la chiesa medesima, fu allontanato dall'attigua abitazione lo stesso signor rettore, per dovere del mio ministero, in nome dell'ecclesiastica giurisdizione, che mi tocca in queste dolorose circostanze di rappresentare, formai mente e solennemente protesto».

1854,22 agosto. Nella notte del 21 al 22 agosto la forza armata, mediante rottura del muro, s'introduce nel monastero delle Monache Cappuccine di Torino, che vengono espulse e mandate a Carignano. Simili violenze si commettono a danno dei Padri Domenicani e degli Oblati di Torino.

1854,25 agosto. Protesta dell'Arcivescovo di Torino.

«Sebbene, dice Monsignor Franzoni, allorquando sotto il 23 dello scorso giugno adempimmo al dovere di protestare contro la spogliazione del nostro metropolitano Seminario, chiaramente conoscessimo che dessa non era che il principio di quella che volevasi ampiamente estendere a danno della Chiesa, tuttavia il vederla sì tosto e si brutalmente eseguita su tanti stabilimenti della medesima non ha potuto a meno di portare al nostro cuore un crudelissimo colpo» Ci è stato, è vero, di un santo conforto l'ammirare l'invitta fermezza sia delle RR. Canonichesse di Santa Croce, che delle RR. Monache Cappuccine Dell'essersi, ad onta delle più impudenti minaccie, costantemente rifiutate a tutto ciò che potesse avere anche solo l'ombra di prestarsi alla violazione della Papale clausura con non avere che strettamente ceduto alla forza; ma ci è riuscito, all'opposto, tanto più desolante il vedere che di questa forza siasi

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contro il sacro loro asilo ardito abusare nella pia indegna scandalosa maniera. Astrettivi quindi dal più positivo incalzante dovere, in conferma ed aggiunta di quanto già fece il nostro signor Provicario Generale, formalmente noi protestiamo contro l'aperta violazione della clausura Papale, contro l'espulsione delle due monastiche famiglie, contro l'usurpazione dei rispettivi toro fabbricati, e contro tutte le inique arti colle quali si è tentato di fare in modo che le due Comunità religiose venissero a rendersi da per se stesse sciolte e distrutte.

Quantunque poi i PP. Certosini di Collegno, egualmente che i RR. Oblati di Maria e i Domenicani di Torino, essendo, come regolari, immediatamente soggetti alla S. Sede, non dipendano dall'ordinaria nostra giurisdizione, siccome però l'avere valentemente scacciati i medesimi dalle rispettive e loro proprie dimore, e l'avere queste prepotentemente occupate, costituiscono tanti separati gravissimi insulti alla Chiesa, noi in nome di essa protestiamo contro tutti e singoli i relativi sacrileghi atti».

1854,30 settembre. Il fisco di Nizza fa due visite domiciliari al parroco di S. Elena per ricercarvi no supposto tesoro t

1854, ottobre. Dopo che i Padri Serviti si erano segnalati nell'assistere i colerosi, e i Padri Gazzani, lanonta, Malliani e Ighina cadevano in Genova vittime della loro carità, i Padri Serviti d'Alessandri venivano espulsi dal loro convento.

1854, novembre. È violato il cimitero cattolico di Novara. Il Vescovo scrive a' parrochi, sotto la data del 6 di novembre: «Un avvenimento ben doloroso ebbe luogo negli scorsi giorni in questa città. Venuto a morte un infelice valdese, ad insaputa dell'autorità ecclesiastica, si volle seppellirlo nel cimitero cattolico. Appena ne fui informato, feci naturalmente i miei richiami a chi si dovea; ma non essendosi potuto ottenere che fosse disumato il cadavere, secondo quello che a tutta ragione prescrivono le gravissime leggi della Chiesa, venne almeno disposto che quella lingua di terra esecrata per la tumulazione dell'eretico fosse separata con un muro totalmente dal cimitero cattolico. Questo sarà poi riconciliato e purificato secondo il prescritto dei sacri canoni.

«Intanto l'iride Novarese, giornale che più d'una volta mostrò ben poco rispetto alle istituzioni della Chiesa, pubblicò un articolo degno di un periodico ereticale; il perché mi son creduto in dovere di dare al signor gerente il monitorio, che qui retro trascrivo.

Anche questo fatto ci ricorda, come la S. V. ben vede, quanto si cerchi in tutti i modi di osteggiare la Religione nostra Santissima, e quanto quindi dobbiamo noi tutti raddoppiare la nostra vigilanza, affine che l'uomo nemico non riesca mai a seminare la zizzania in mezzo dell'eletto frumento, il che speriamo non avverrà per la intercessione della Vergine Santissima».

1854,28 novembre. Viene presentato alto Camera dei Deputati un progetto di legge per «opprimere, le Corporazioni religiose, salvo qualche eccezione.

1855, gennaio. Gli Arcivescovi, Vescovi e Vicarii capitolari dello Stato mandano un indirizzo al Senato del Regnò ed alla Camera dei Deputati, nel quale dichiarano il progetto di legge per la soppressione di corporazioni religiose ingiusto, illegale, anticattolico, antisociale.

1855,8 gennaio. L'Indépendant d'Aosta pubblica un tema che il professore

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di lingua italiana in quella città aveva dettato agli alunni di rettorica, e nei quale tra le altre cose dice vasi. Io non temo né Dio, né il diavolo.

1855,9 gennaio. Carlo BonCompagni nella Camera dei Deputati insulta l'Episcopato francese, perché professa un fervile ossequio alla Sede Romana, ed ha quasi eretto in domma di fede il dispotismo (Atti ufficiali, n° 428, pag.1594).

1855,22 gennaio. Allocuzione di Pio IX, sui mali innumerevoli che soffre la Chiesa in Piemonte, corredata dalla segreteria di Stato con una esposizione ricchissima di documenti.

1855, gennaio. Processo e condanna in Torino del conte di Camburzano per un articolo pubblicalo sull'Armonia. Il Magistrato di Casale rivede la sentenza, e sul verdetto dei giurati il conte di Camburzano viene dichiarato innocente.

1855,6 febbraio. Il conte di Cavour nella Camera dei Deputati svillaneggia la memoria di Giuseppe De Maistre, l'autore del trattato: Du Pape, l'encomiatore dell'Inquisizione; e rìde e fa ridere sul Papa che come Imperatore di Russia appella all'Europa nelle sue dissidenze colla Corte di Sardegna (Alt. uff., n" 452, pag.1675).

1855, febbraio. Una circolare del governo avverte gli intendenti, e questi i sindaci di invigilare i parrochi, perché non facciano allusioni in chiesa all'Allocuzione Pontificia che condanna il disegno di legge per la soppressione degli Ordini religiosi.

1855,12 febbraio. La Gazzetta Piemontese pubblica un articolo di Massimo d'Azeglio, dove insinua che il Cardinale Antonelli abbia promosso i tumulti della Valle d'Aosta. Su questi tumulti vedremo fra breve la decisione dei tribunali.

1855,22 febbraio. Cavour dichiara alla Camera: «Noi comincieremo dal sopprimere gli Ordini religiosi pili ricchi». Il conte di Revel piglia atto della dichiarazione del conte di Cavour, dalla quale risulta che la moralità della soppressione dei conventi sta nel togliere i beni alle Corporazioni più ricche (AH. uff., n«482).

1855,24 febbraio. Il Guardasigilli dichiara alla Camera, che molti frati desiderano la soppressione dei conventi. L'Armonia replicatamente risponde che il Guardasigilli mentisce ufficialmente.

1855,9 marzo. Si legge la sentenza sul processo degli insorti del Ducato d'Aosta. Sedici parroci furono accusati della sommossa, e tutti furono assolti. Anzi dalle requisitorie stesse del fisco risultò che il Clero intervenne tra gli insorti unicamente per sedare la sommossa.

1855,26 aprile. Nel Senato del Regno il Vescovo di Casale fa la seguente proposta in nome dell'Episcopato dei Regii Stati: «L'Episcopato si propone dì offerire a S. M. il Re Vittorio Emanuele li ed al suo governo la somma di lire 928,412 30, la quale fu cancellata dal bilancio dell'anno corrente, e che trovavasi prima assegnata a congrue e supplementi di congrue delle provincie di terra ferma». Il conte di Cavour riconosce in questa proposta una nuova prova dei sentimenti di patriottismo che animano l'Episcopato del Regno (Atti Ufficiali, n° 134, pag.467).

1855,9 maggio. Il conte di Cavour dice al Senato del Regno: «Io credo, o

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Signori, di dover dichiarare che, a parer mio, tutti gli Ordini religiosi che riposano sul principio della mendicità, sono ora radicalmente inutili, sono dannosi» (Atti Ufficiali, n° 147, pag.515). Lo stesso diceva il conte di Cavour degli Ordini religiosi i quali si fondano sopra il voto strettamente contemplativo.

1855,22 maggio. L'offerta dell'Episcopato è rifiutata dal Ministero, e il Senato approva la legge che sopprime i conventi.

1855,29 maggio. È soppressa l'Accademia ecclesiastica di Soperga.

1855,2 giugno. Si sopprimono le Agostiniane con un erratacorrige della Gazzetta Piemontese

1855,6 giugno. Notificazione di S. E. K, l'Arcivescovo di Torino contro la legge che sopprime i conventi, la quale notificazione viene sequestrata dal fisco.

1855,29 giugno. Circolare del ministro Lanza, con cui sottomette le monache che fanno scuola alla vigilanza governativa ed all'esame non altrimenti che si v$a per le altre scuole dello Stato; e ciò a dispetto della circolare ministeriale del 18 febbraio 1851, la quale dichiarava che, secondo le vigenti leggi, le monache maestre non sono tenute a prender l'esame.

1855,12 luglio. In esecuzione della legge che abolisce la maggior parte delle corporazioni religiose, ai vanno facendo visite domiciliari, perquisizioni, inventarii, ecc. nei conventi e nei monasteri degli ordini soppressi. La qual cosa provoca proteste per parte di quelle comunità così vessate dagli agenti del governo. Ecco, per esempio, la protesta fatta all'Abbadessa di Santa Chiara di Cuneo: «12 luglio 1855, a ore 7 di mattina. L'Abbadessa del monastero di Santa Chiara in Cuneo per sé e sua comunità protesta qui sottoscritta contro la violata clausura del suo monastero».

«Suor Vincenzi della Chiesa».

1855,20 luglio. Gli agenti del governo essendosi presentati al convento dei Cappuccini di Ciamberì per pigliarne possesso e farne l'inventario in esecuzione della citata legge per l'abolizione dei conventi, dovettero sfondarne le porte a colpi di scure. Il Padre Ambrogio, provinciale, ed il Padre Anselmo, guardiano del convento, fecero una solenne ed energica protesta contro quella violazione del domicilio.

1855,26 luglio. Allocuzione del Sommo Pontefice relativa alle cose del Piemonte e della Spagna, in cui il Santo Padre parla della e scomunica incorsa da tatti coloro che osarono proporre, approvare, sancire la legge e i decreti contro i diritti della Chiesa e della 5. Sede, come pure contro i loro mandanti, fautori, consultori, aderenti, esecutori».

1855,10 ottobre. Ordine del ministro di pubblica istruzione alle Monache della marchesa di Barolo, le quali nel palazzo della Marchesa medesima insegnavano a leggere ai bimbi dell'asilo infantile, di assoggettarsi all'esame prescritto dallo stesso ministro con circolare del 29 giugno, sotto pena di veder chiuse le loro scuole colla pubblica forza. Le Monache, appoggiate alla legge, rifiatano di obbedire al ministero; ed il 15 ottobre devono cessare d'insegnare l'abbici ai bimbi.

1855,12 ottobre. La Buona Novella stampa le seguenti parole: «Ad eccezione dell'Armonia, del Campanone, del Cattolico e qualche altro foglio clericale, i giornali del Piemonte obbediscono ad una direzione pio' o meno protestante».

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1855,1° novembre. Il convento dei Padri Oblati della Consolata è affittato dalla Cassa Ecclesiastica ad un tale, che ne fa una bettola.

1855,13 novembre. Il ministro di grazia e giustizia presenta al Senato del Regno un progetto di legge sulla libertà dell'usura.

1855,15 dicembre. Il ministero propone nel suo bilancio pel 1856 un assegnamento ai Valdesi.

1855,22 dicembre. Il provveditore degli studii di Ciamberì intima alle Monache del Sacro Cuore che, se nel termine di otto giorni non si presenteranno all'esame, ordinerà la chiusura del loro pensionato.

4856,2 gennaio, lì marchese d'Azeglio, ministro sardo a Londra, risponde in nome del re Vittorio Emanuele all'indirizzo dei protestanti d'Edimburgo i quali si congratulano con Sua Maestà «degli sforzi magnanimi da lui fatti affine di stabilire ne' suoi Stati la libertà civile e religiosa»»

1856, 2 gennaio. La Gazzetta del Popolo manda al Papa un chilo di sapone e metri due di spago per la sua strenna. La Maga di Genova manda per istrenna a Roma una bocca da cannone.

1856,3 gennaio. Il Municipio di Torino congeda dalle sue scuole i Fratelli delle Scuole Cristiane sulla relazione del professore Nuyts, il quale, dopo molti e giusti elogi all'insegnamento dei Fratelli, non trova altro difetto, salvo che esso sarà sempre proclive a sostenere le autorità ecclesiastiche.

1856,14 marzo. Sentenza del magistrato d'Appello di Ciamberì, con cui dichiara che le monache del Sacro Cuore non hanno contravvenuto alle leggi sulla pubblica istruzione, come pretendeva il Ministero per mezzo del fisco, '

1856,26 marzo. Interpellanze nella Camera dei Deputali riguardo al Vicario Capitolare di Fossano, il quale, colle debite facoltà di Roma, aveva nominato ad un canonicato vacante hi Fossano contro il parere del Ministero. Il ministro trova il procedere del Vicario meno conveniente, anzi apertamente biasimevole; ma non può fargli processo, perché non ha violato le leggi.

1856,27 marzo A parrochi della Savoia non hanno ancora ricevuto il secondo semestre del 1855 della loro congrua,

1856, maggio.1 Vescovi della provincia ecclesiastica di Torino mandano alla Camera dei Deputati una protesta collettiva contro il progetto di legge sulla pubblica amministrazione, già votato dal Senato del Regno.

1856,27 marzo. Nota dei plenipotenziarii sardi al Congresso di Parigi perla riforma sulle Legazioni dello Stato Pontificio.

1856,5 maggio. Sono spediti ad un gran numero di case religiose gli ordini di concentramento; cioè viene intimato a varie famiglie religiose di sloggiare dal proprio e recarsi ad abitare in altri conventi.

1856,1° giugno. Il parroco di Verres, D. Bàldassare Menzio, accusato di non aver voluto ricevere per patrino del battesimo uno scomunicato, dalla Corte d'Appello di Torino si dichiara innocente. Il fisco si appellò dalla sentenza, che fu annullata dalla Corte di Cassazione. La stessa Corte d'Appello, composta di giudici diversi dai primi, tornò a confermare la sentenza d'innocenza del parroco.

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Nuovo appello del fisco: nuova annullazione della sentenza fatta dalla Corte di Cassazione.

1856,9 giugno. Circolare del ministro Rattazzi per ordinare ai Sindaci ed agli altri uffiziali di polizia giudiziaria di vegliare con tulio lo zelo sui Clero, la cui condotta verso il governo e le sue istituzioni torna ad eccitare l'attenzione del paese.

1856,1 luglio. Nuova circolare secreta del ministro dell'interno ai sindaci, perché veglino sui parrochi specialmente riguardo a questi punti: 1° Se dicono Oremus prò Rege; 2' se in pubblico od in privato sparlino delle libere istituzioni, delle leggi e del governo; 3° se il parroco sia amato o detestato dai suoi parrocchiani.

1856,15 luglio. Il pastore protestante Bert pubblica una lettera nella Gazzetta del Popolo, in cui conferma che varii cimiteri dello Stato furono violati colla sepoltura dì protestanti fatta per l'intervento dell'autorità civile.

1856,26 luglio. Processo contro il parroco di Castagnole, diocesi di Pinerolo, accasato di non aver detto l'Oremus prò Rege e sparlato delle libere istituzioni. Fu trovato innocente.

1856,11 agosto. Processo contro il parroco di Bosconero, accusato di aver abusato della confessione eccitando diverse persone alla ritrattazione di ciò che avevan fatto contro ie leggi della Chiesa. Il parroco fu dichiarato innocente dal tribunale.

1856,1° settembre. Gli agenti della Cassa Ecclesiastica piombano improvvisamente sul convento dei padri Agostiniani in Genova per farvi un'inquisizione, e sequestrano una somma di danaro, che i poveri religiosi avevano posta a parte per soccorrere alle necessità eventuali; massime sapendosi quanto sia negligente l'amministrazione della Cassa Ecclesiastica a pagare la pensione dei frati.

1856,23 settembre. L'intendente di Oneglia destituisce la maestra damigella Elisa Berio per essere andata in processione pubblica in onore di Maria Vergine.

1856, 25 ottobre. Gli agenti di polizia si presentano al monastero dei Benedettini di Novalesa vicino a Susa per cacciarne)). Il Priore protesta contro quella violenza.

1857,10 gennaio. Antonio Gallenga, deputato ministeriale, viene accusato da Mazzini d'aver ricevuto da Ini un pugnale e mille franchi per assassinare Carlo Alberto. Il Gallenga confessa la verità del fatto, ed è obbligato a chiedere le sue dimissioni la deputato.

1857, gennaio. Il conte di Cavour riceve una deputazione composta di Farini, Mamiani, G. B. Ercolani e Zenocrate Cesari, che gli presentano mi nome delle Romagne e delle Marche una medaglia per aver combattuto contro il Papa nel Congresso di Parigi.

1857,18 gennaio. Giuseppe Dogier, accusatore dei preti della Valle d'Aosta, ritratta le sue calunnie e ne chiede perdono ai sacerdoti che patirono quattordici mesi di prigionia essendo innocenti.

1857,2 gennaio. Nella Camera dei Deputati si chiede che sia eliminato dalla pubblica istruzione ogni insegnamento cattolico, perché lo stato, dice il dep. Borella, non sia nel pericolo e o di dare un insegnamento religioso contrario allo Statuto, o di dispensare un'istruzione religiosa avversa al diritto canonico (Atti ufficiali della Camera, N°36, pag.437).

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1857,28 gennaio. dep. Sineo rigetta l'insegnamento cattolico nelle scuole dello Stato per questa ragione: «Volete esporre il paese ad essere sotto l'influenza d'un insegnamento religioso di questa specie? Sotto l'influenza d'un insegnamento religioso, che vi farà intoni cattolici senza che voi siate uomini onesti!! (Att. uff., n° 44, pag.167).

1857, febbraio. Da una statistica pubblicata dal governo risulta che, dietro la legge del 29 maggio 1855 contro gli ordini religiosi, vennero conquistati a viva forza 112 conventi in terraferma di possidenti, e 40 in Sardegna; 134 conventi di mendicanti in terraferma, e 48 in Sardegna; e 65 collegiate,1700 benefica semplici. Le vittime furono 78501 (Vedi Armonia 1857, N«43,21 febbraio).

1857,14 marzo. Il conte di Cavour si gloria d'aver indotto il Papa a costrurre strade ferrate. «Possiam dire che se finalmente il governo romano si è determinato ad autorizzare una gran rete di strade ferrate, l'esempio del Piemonte vi abbia per qualche poco contribuito!» (Bisbiglio) (Att. Uff., N° 134, pag.509).

1857, marzo. La Gazzetta Piemontese, dissimulando i continui furti che avvengono in Piemonte, nota, quelli che si deplorano nelle Romagne soggette al S. Padre.

1857,30 marzo. La Camera dei Deputati studia ir modo di creare i rabbini. «Se alcuno mi avesse detto, così il deputato Valerio, alcuni anni òr sono, che io sarei stato chiamato qui a deliberare sul modo di creare dei rabbini, in verità che io avrei alzato le spalle e gli avrei riso al naso: eppure eccoci oggi proprio a deliberare come si debbano creare i rabbini» (Rend. Uff., N° 163, pag.620).

IL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia, a.15,23 febbraio 1856).

Lunedì prossimo (25 febbraio 1856) verrà aperto il Congresso di Parigi. Pressoché tutti i rappresentanti delle Potenze sono ornai giunti nella capitale della Francia; godici poltrone stanno disposte nella sala degli ambasciatori per accoglierli a loro agio; l'Europa è in attesa d'una terribile sentenza; la sentenza di pace o di guerra, di vita o di morte. I congressi politici possono talora rassomigliare alle accademie letterarie, ai congressi scientifici, alle tornate dei Parlamenti; convenirsi cioè in una serie di discorsi, di proposte e di risposte senza veruna conclusione. Ma certo è che il presente congresso di Parigi non riuscirà senza qualche risultato o buono, o cattivo.

Dapprima corrispondenze parigine riferiscono come l'imperatore Luigi Napoleone dicesse alla presenza di parecchie persone della sua casa: «On se préoccupe de la manière de procéder qu'adopteront les plénipotentiaires; on a tort. Les choses iront vile et bien. On abordera les questions franchement. Je ne souffrirai pas que l'on avocasse, et que l'on s'amuse dans des difficultés puériles». Se Napoleone l'ha detto, è uomo da mantenere la parola. Di poi le cose ornai sono condotte al punto, che una conclusione è necessaria; e il non afferrarsene nessuna, sarebbe già per sé sola una conclusione, e la pessima di tutte.

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Laonde, congetturando su possibili riluttati del congresso di Parigi, se ne presentano tre: una franca e risoluta decisione di principii: Una parziale composizione delle questioni presenti: una dolorosa separazione dei plenipotenziarii senza essere riusciti a verun accordo.

Incominciando da quest'ultimo, che pare il meno probabile, ognun vede come trarrebbe seco tristissime conseguenze: imperocché, oltre al rendere necessaria la continuazione della guerra, aumentandone a mille doppi la ferocia, ed estendendola a tutto il mondo, proverebbe l'impotenza a cui sono giunti i governi, la disunione che Ji rode, la vertigine che li domina, e darebbe larghe speranze ed audacia straordinaria alla rivoluzione. Guai se le prime Potenze d'Europa, dopo di avere dichiarato la necessità della pace, si dimostrassero incapaci a stringerla! I rivoltosi potrebbero dire a ciascuna di loro: andate a riporvi; voi siete inette a governare, ed a fare il bene dei vostri popoli, vedete il buon partito, e v'appigliate al peggiore!

Fatale sarebbe egualmente una parziale composizione delle cose, perché darebbe all'Europa una pace effimera, procrastinando la guerra invece di finirla. Tutti convengono, che la questione d'Oriente fu il pretesto della gran lotta, e dod ne fu la causa. Le ire bollivano, le idee cozzavano da lunga data fra loro. La Russia e la Turchia somministrarono l'occasione di prendere le armi e venire alle mani, Ma le file dei combattenti restarono confuse, e si videro amici e nemici pugnare a fianchi. combatteva, e non se ne sapea dire la causa. Ora era pei Luoghi Santi, ora per la libertà religiosa, ora per la indi pendenza della Turchia, ora contro la preponderanza russa, Ad ogni fatto d'arme la guerra mutava nome. Cattolici e protestanti uscivano congiunti iu campo: i primi volevano proteggere i franchi, i secondi colla diffusione delle Bibbie tentavano pervertire i soldati: si cercava sostenere l'impero musulmano, e se ne minavano le rozze fondamenta; oggi si accarezzava la nazionalità polacca, domani regalavasi un manrovescio alla nazionalità greca; i rivoluzionarti e conservatori si univano, S'abbracciavano, combattevano, e ciascuno pensava di fare il suo vantaggio.

Volevasi fiaccare il russo invasore, e s'invadeva il suo territorio; volevasi impedire la preponderanza russa, e favorivasi la preponderanza britannica; volevasi mantenere l'equilibrio europeo, e distruggevasi la marina russa, che n'era uno de' principali elementi. L'Inghilterra, rea di 100 usurpazioni, combattea le usurpazioni altrui; e il Piemonte, mentre incatenava i cattolici in capa sua, muoveva a proscioglierei cristiani d'Oriente. Fu una serie di contraddizioni mai più udite, che in certuni destarono il riso, in molti il pianto; perché l'oro getta vasi, il sangue scorrea e il perché s'ignorava.

La guerra passata (voglia Iddio che questa frase sia giusta!) fu effetto dell'Europa disordinata per le continue transazioni, per i principii accettali a metà, per le soverchie condiscendenze, per le mezze convinzioni, le mezze religioni, le mezze empietà, le mezze misure. Questo stato fatale, origine di tante sciagure, resterebbe peggiorato ancora, dove il congresso di Parigi riuscisse ad una parziale composizione.

Quale illusione, pretendere che l'Europa abbia pace, perché Sebastopoli non è più, perché Nicolajeff è, o no, distrutta, perché il territorio della Bessarabia ha mutato confini 1 Sarebbe ben piccolo il genere umano se fosse capace di tanto scompiglio per così lieve ragione!

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Sarebbe ben poca cosa la civiltà nostra se potesse accontentarsi di pascolo così meschino! La causa del male e ben più profonda: ed a, nostro avviso consiste nel difetto di principii sociali e religiosi. Se dal congresso di Parigi uscirà la sanzione di qualche gran massima fondamentale a cui tutti i governi facciano riverenza, allora si, e solo allora sarà da ripromettersene buonissimo frutto.

Noi riputiamo, e gli uomini di buon conto reputano con noi, che la causa prima dello scompiglio d'Europa sia derivata appunto da un congresso; il congresso di Munster e di Osnabruck, che si conchiuse colla pace di Westfalia. Quel trattato, invece di finire la guerra dei Trentanni, la perpetuò; e come ben osserva uno storico, fu una dichiarazione ufficiale dell'impossibilità di rannodare i partiti.

I capitoli di Munster stabilirono l'indifferenza religiosa', che è il tarlo che rode la società; la secolarizzazione de' beni ecclesiastici, che è l'origine delle rivoluzioni economiche venute di poi, e delle tristi dottrine del comunismo e socialismo; lo scandaloso divorzio della legalità dal diritto e dalla giustizia; il sistema del giusto mezzo, tra il vero ed il falso, tra il buono ed il pessimo, tra la ragione ed il torto; la diffidenza e l'antagonismo tra principe e principe; la separazione dello Stato dalla Chiesa e la schiavitù di questa, riconoscendo ne' governanti il jus sacrorum.

Jl Romano Pontefice, questo eterno custode dell'ordine, della morale, della pace dei popoli, che rappresenta Colui che già la portava in terra agli uomini di buona volontà, protestava altamente nella persona di Innocenzo X; colla Costituzione Zelo domus Dei, contro i capitoli di Munster ed il trattalo di Westfalia, e ne dichiarava le conclusioni invalide, inique, ingiuste, dannate, riprovate, ecc.

Se ne videro di fatto i tristissimi effetti. La pace di Westfalia non fu che il principio di nuove lotte, e ad ogni pie sospinto convenne convocare no congresso; il quale, non risolvendo le questioni, e procedendo per mezze misure, come quello di Mttnster, lasciava l'addentellalo ad un altro congresso, ch'era a sua volta un'umiliante confessione d'impotenza politica.

1 rivoluzionarii ebbero sempre pel trattato di Westfalia una grande passione, e Vincenzo Gioberti stima vaio un atto sapientissimo, che cominciò un'era nuota, come appunto incominciarono un'era nuova in Piemonte le riforme di re Carlo Alberto. Fate ragione, o lettori, che gli effetti d'una cosa sieno in proporzione di quelli dell'altra 1

Noi non pretendiamo diè la nostra voce giunga fino nelle sale degli ambasciatori a Parigi. Ma non si fa mai opera vana proclamando la verità; epperò diciamo, che il congresso di Parigi sarà inutile, sarà dannoso, se, lasciate in disparte le piccole questioni, non pianta qualche grande principio in questa povera Europa, ridotta a questo punto perché, senza principii, vede dominare dappertutto l'indifferenza. Indifferenza religiosa, che non si cura dell'empietà; indifferenza politica, onde l'assassino d'un principe è ben accolto in casa del vicino; tolleranza per l'errore, intolleranza per la verità custodita dalla Chiesa; libertà ai tristi, servitù peì cattolici; carezze ai rivoltosi, trascuratezza verso i buoni: ecco l'Europa d'oggidì.

La quale non può vivere più a lungo in questo stato, e domanda che l'indifferenza finisca una volta, e che si stabilisca un sistema, che si emetta una confessione, che i governi abbiano una fede e una dottrina, su cui possano finalmente riposare i popoli.

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LE ANTICHE RISTORAZIONI

(Dall'Armonia, n.51,1° marzo 1856).

Della Santa Alleanza parecchi scrissero di questi giorni, Garnier de Cassagnac sul giornale il Constitutionnel, e Ledru-Rollin sulla Nation di Bruxelles, con diverso intendimento l'uno e l'altro, come dicono abbastanza i nomi degli autori che scrissero, e i titoli de' giornali dove scrissero. Non istara male che noi pure sul medesimo argomento facciamo alcune parole.

Nella Santa Alleanza due cose possono considerarsi: il pensiero che la suggeriva, e l'effettuazione del pensiero medesimo. Per comprendere quest'atto conviene ricordare l'opera della rivoluzione passata, a cui la Santa Alleanza doveva apporre rimedio. Il male indica sempre il metodo della cura, e prescrive da sé il genere della medicina. Conferà nata dunque, e che cosa aveva fatto la rivoluzione? La rivoluzione era nata dall'empietà, che l'aveva estesa per tulio il mondo. Voltaire ne elevava la bandiera gridando: schiacciamo l'infame; e l'infame, nel suo concetto, era Cristo! Questa fu la parola d'ordine, e i rivoluzionarii concordi l'effettuarono coi libri e colle opere, colla penna e colla ghigliottina.

S'incominciò dal sopprimere le decime, poi venne il latrocinio de' beni ecclesiastici, poi la soppressione di alcuni Ordini religiosi, conservando quelli che provvedevano agli infermi ed all'istruzione pubblica, poi tutti gli Ordini furono soppressi, quindi preti e frati trucidati, decapitalo il Re, Cristo, come cantava il Monti, «bestemmiato e deriso un'altra volta, e così distratto il trono e l'altare, e la doppia corona della tirannia e del fanatismo, secondo la frase di Giuseppe Chénier.

Il 10 di novembre del 1793 fu proclamato nella Convenzione, che Dio non esiste e che l'unica religione dovea essere la: volontà del popolo; perciò si abbatterono le chiese, s'incendiarono le reliquie, il matrimonio si rese Sacramento dell'adulterio, e l'effigie di Marat venne sostituita ai tabernacoli lungo le vie. Si stabilì la festa dell'Ateismo, e una cantante nuda, rappresentante la Ragione, dalla sala dell'Assemblea, ove caddero i suoi veli, fu condotta in trionfo all'altare di nostra Donna, dedicato a quella dea (1).

Allora la rivoluzione toccava la sommità dell'arco. Era partila dalla soppressione delle decime, ed era giunta per gradi alla soppressione di Dio. Avéa pure soppresso la Francia dov'era nata, e invece di Viva la nazione, dovea gridarsi: Viva il genere umano! Convenne dare indietro, e ristorare i mali cagionati dalla rivoluzione. Tre ristorazioni noi veggiamo nella storia della rivoluzione francese. L'una immediata per opera dello stesso Robespierre, l'altra più tarda sotto Napoleone, la terza nella Santa Alleanza.

(1) Vedremo più tardi la Dea Ragione proclamata in Italia da Garibaldi.

Tutte queste tre ristorazioni muovono dal principio, che l'empietà produsse lo scompiglio e la guerra, e che la religione per contrario dee portare l'ordine e la pace.

Di fatto Robespierre, che voleva comandare, disapprovava i sacrìleghi saturnali, e questo modo di turbare la libertà dei culti in nome della libertà, e attaccare il fanatismo con un nuovo fanatismo, t L'ateismo, egli gridava, è aristocratico: l'idea d'un grand'Essere, che veglia sull'innocenza oppressa, e punisce il delitto trionfante, è tutta popolare. Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo».

Di che stabiliva la necessità della virtù, e declamava contro i nemici di questa, cioè i ghigliottinanti, e volea, per principio di politica, riconosciuta l'immortalità dell'anima. «L'idea del suo niente, dicea, inspirerà all'uomo più puri ed elevati sentimenti che quella della sua immortalità? Maggiore rispetto pe' suoi simili e per lui stesso, generosità per la patria, audacia contro la tirannia, disprezzo della morte, o della voluttà?.. L'innocenza, che sul patibolo fa impallidire il tiranno sul suo carro trionfale, il potrebbe se la tomba (eguagliasse l'oppressore e l'oppresso?» Perciò Robespierre fé' accettare per acclamazione dal popolo francese questa sentenza: «Il popolo francese riconosce un Essere supremo e l'immortalità dell'anima; e il culto più degno di quello è praticare i doveri dell'uomo.

Allora una serie di feste alle varie virtù, e la libertà dei culti. La Francia tutta applaudì a quel decreto, perché erasi stancata ben presto della dea Ragione, e virtù ed Essere supremo suonarono sulle bocche di tutti. Robespierre condannava chiunque alla virtù era contrario, e l'empio scrittore veniva colpito colla minaccia contro chi deprava i costumi.

Sorse più tardi Bonaparte, console riparatore. Réveillère Lepaux, capo dei teofilantropi, gli scriveva il 21 di ottobre 1797: «Bisogna impedire che diasi un successore a Pio VI, e profittare della circostanza per istabilire in Roma un governo rappresentativo, liberando l'Europa dalla supremazia papale». Bonaparte, che voleva incatenare la rivoluzione, batté la via opposta. Fé rendere esequie solenni a Pio VI, prese parte ai Te Deum che in Italia celebravano le sue vittorie, disprezzò l'incredulità di Cabanis, di Lalande, di Volney, di Partny, di Pigault-Lebrun, di Silvano Marechal, non paventò il titolo di console santocchio! e tre giorni dopo la. vittoria di Marengo parlò al cardinale Marliniana d'un Concordato. Il quale si conchiuse a suo. tempo, e Vescovi e preti ritornarono in Francia, e questa ebbe un ministro pel culto, e un legalo a latore; e la Pasqua del 1802 i cannoni salutarono la prima festa cristiana dopo quella del 1789, ed il popolo udì con giubilo il suono delle campane, vide i riti solenni, provò le care dolcezze della divina parola.

Venne la terza ristorazione nel 1815, e Alessandro I, che volea essere l'angiolo bianco del mondo, stese l'atto, della Sante Alleanza. I tre maggiori Potenti d'Europa prometteano, t conforme ai precetti del Vangelo, che comandano a tutti di amarai da fratelli, di restar legati coll'indissolubile nodo d'una» amicizia fraterna, prestarsi mutua assistenza, governare i sudditi da padri, mantenere sinceramente la religione, la pace, la giustiziai considerandosi come membri di una medesima nazione cristiana, che ha per unico sovrano Gesti Cristo, Verbo altissimo, e incaricati ciascuno dalla Provvidenza di dirigere un ramo della famiglia stessa.

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Invitavano perciò tutte le potenze a riconoscere questi principii, ed entrare nella Santa Alleanza! (Moniteur,5 febbraio 1816). L'atto del Congresso di Vienna venne intestato au nom dv la Très Sainte et inviolable Trinite, e pili innanzi, cioè al 12 di novembre del 1822, Metternich, Chateaubriand, Bernstorff e Nesselrode sottoscrivevano nel Congresso di Verona, per l'Austria, Francia, Prussia e Russia, un trattato segreto, di cui Ledru-Rollin ci da i primi quattro articoli, che noi lasciamo sotto la sua responsabilità. Essi diceano così:

«Art.1° Le Alte Parti contraenti, convinte che il sistemi del governo rappresentativo è inconciliabile coi principii monarchici, nello stesso modo che la sovranità del popolo è inconciliabile col diritto divino, si obbligano a vicenda di adoperare tutti i loro sforzi per distruggere H governo rappresentativo in tutti gli Stati dell'Europa dove esista i ed impedire che venga introdotto dove non è praticato ancora.

«Art.3 Siccome non v'ha dubbio che la libertà della stappa costituisce il mezzo più possente nelle mani dei pretesi difensori dei diritti delle nazioni contro i diritti dei Principi, i contraenti si obbligano d'accogliere tutte le misure indirizzate alla sua soppressione, non solo nei proprii Stati, ma eziandio nel rimanente d'Europa.

«Art.3° Convinti che i principii della religione concorrono più fortemente a mantenere le nazioni in quello stato di ubbidienza passiva che debbono ai loro Principi, dichiarano essere ormai loro intendimento di sostenere nei proprii Stati le misure che il clero crederà dover adottare pel consolidamento dei suoi interessi, cosi strettamente collegati con quelli dell'autorità dei Principi. - I contraenti offrono d'accordo i loro ringraziamenti al Papa per tutto quello che ha già fatto in loro favore, e chiedono la sua cooperazione continua nello scopo di sottomettere le nazioni.

«Art.4° I contraenti, affidando alla Francia la cura di ricondurre le nazioni all'ordine, si profferiscono ad aiutarla nei suoi intraprendimenti, in maniera però da compromettersi meno possibilmente gli uni e gli altri rimpetto ai loro popoli. Perciò forniranno un sussidio di L 20,000,000, che dovrà cominciarsi a sborsare appena verrà sottoscritto il trattato, sino alla fine della guerra».

Tutti questi fatti, che noi siamo venuti discorrendo fin qui, stabiliscono due massime: l'una, che la rivoluzione deriva dall'empietà; l'altra, che ogni ristorazione dee avere il suo fondamento sul principio religioso. Quantunque tutte le ristorazioni accennate partissero da questa base, tuttavia non riuscirono, perché la religione non può accettarsi a metà, e una religione viziata confina coll'empietà medesima (i). Robespierre invocò l'Essere Supremo per poter comandare; Napoleone, stretto il Concordato, io violava subito cogli articoli organici; il trattato del 15 era un atto di diplomazia, e niente di pili, e l'accordo di Verona rimase segreto, ed è ancora oggidì un problema. Intanto la rivoluzione francese continuò, e si svolse in Italia, Francia, Germania, Spagna, ed altrove. Ora si vorrebbe fare un nuovo tentativo per ristorare l'Europa. Ottima è l'idea; ma guai, se non vi risponde l'esecuzione! Ogni tentativo fallito è una provai di debolezza.

(1) La Santa Alleanza fu il ritorno ad un Vangelo protestante.

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L'ITALIA NEL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia, n.99,29 aprile 1856).

Finalmente abbiamo sotto gli occhi i documenti ufficiali relativi al Congresso di Parigi e al trattato di pace del 30 marzo. I nostri lettori saranno impazienti al pari di noi di sapere che cosa si disse, nel Congresso, dell'Italia e del Pie» monte. Ed eccoci a soddisfare questa ben giusta curiosità.

La R. Segreteria di stato per gli affari interni ci favorì graziosamente il volume stampato ufficialmente in Torino col titolo: Traite de paix signé à Paris le 30 mars 1856 entre la Sardaigne, l'Autriche, la France, le Royaume uni de la Grande Bretagne et d'Irlande la Prusse, la Russie y et la Turquie, avec les conventions qui en font partie. Les protocoles de la Conférence et la déclaration sur les droits maritimes en temps de guerre.

Noi vi abbiamo trovato con piacere una formola già da qualche anno scomparsa negli atti del governo. In capo al trattato di pace Vittorio Emanuele 11 si dichiara Re per la grazia di Dio, mentre tutti gli atti del governo sogliono incominciare: Vittorio Emanuele 11, He di Sardegna, e il nome di Dio ne venne da alcuni anni sbandito. L'impegno de' rivoluzionarii nel fare scomparire la prima formola ci fa apprezzare e godere del suo ritorno.

Abbiamo cercato e ricercato in tutte le 168, pagine, che conta il volume, il memorandum del conte di Cavour, ma inutilmente. Questo memorandum famoso non vi si trova. Eppure i nostri giornali e giornalisti continuano a dire che fu presentato; ma noi potremo allora conchiudere che il Congresso Io considerò come un articolo del Fischietto.

Si strinse e segnò il trattato di pace colle convenzioni accessorie, e poi, nella tornata dell'8 d'aprile, quando tutto era conchiuso, il conte Walewski parlò della Grecia, dell'Italia e del Belgio. Dal protocollo XXII, che leggesi a pag.141 e seg. del VoL. citato, noi ricaviamo il risultato della discussione posi assommata dal conte Walewski: «1° Nessuno ha negato la necessità di attendere seriamente al miglioramento delle condizioni della Grecia, e le tre Corti protettrici riconobbero l'importanza di accordarsi su questo proposito.2° I plenipotenziarii dell'Austria si associarono al volo espresso dai plenipotenziarii della Francia, di vedere gli stati Pontificii evacuati dalle truppe francesi ed austriache, appena si potrà fare senza inconvenienti per la tranquillità del paese e là consolidazione dell'autorità della Santa Sede.3° La maggior parte dei plenipotenziarii non negarono L' efficacia che avrebbero misure di clemenza abbracciate in una maniera opportuna dai governi della Penisola italica, e soprattutto da quello delle Due Sicilie.4° Tutti i plenipotenziarii, ed anche quelli che credettero di fare riserve sul principio della libertà della stampa, non esitarono a condannare altamente gli eccessi che i giornali del Belgio impunemente commettono, riconoscendo la necessità di rimediare agli inconvenienti reali che risultano dalla libertà sfrenata, di cui si fa tanto abuso nel Belgio.

Prima però che si giungesse a queste conclusioni il nostro conte di Cavour s'accapigliò coi plenipotenziarii austriaci, e vi fu una disputa,

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che i nostri giornali ministeriali guarda non si ben bene dal raccontarci. Il conte di Cavour disse dell'occupazione degli Stati Pontificii fatta dalle truppe austriache, che dura da sett'anni e che non pare vicina a cessare; e continuò su questo punto, pizzicando l'Austria.

Il barone di Hùbner rispose «che il primo plenipotenziario della Sardegna parlò soltanto dell'occupazione austriaca, tacendo della francese; che nonostante le due occupazioni incominciarono alla medesima epoca, e col medesimo scopo. Ricordò, che non sono i soli Stati Romani occupati in Italia da truppe straniere; che i comuni di Mentone e Roccabruna, parte del principato di Monaco, sono da otto anni occupati dalla Sardegna, e che la sola differenza che corre tra le due occupazioni si è, che gli Austriaci e i Francesi vennero chiamati dal Sovrano del paese, mentre le truppe sarde penetrarono sul territorio del Principe di Monaco contro il suo voto, e vi restano, nonostante i richiami del Sovrano di questo paese».

Il conte di Cavour soggiunse alcune parole, ma dovette riconoscere i diritti del principe di Monaco su Montone e Roccabruna, e in sostanza n'ebbe la peggio. Credevasi di parlare nella Camera dei Deputati di Torino, e si avvide invece che trovavasi nel Congresso di Parigi, ed aveva da fare col barone di Hùbner, e non col deputato Michelini.

Nella tornata del 14 aprile si trattò di bel nuovo dell'Italia, ed il conte di Cavour fece sgraziatamente un secondo fiasco. Ecco come. Il conte di Clarendon propose, che, per evitare quind'innanzi la guerra, dovessero gli Stati ricorrere all'intervento delle Potenze amiche per finire i loro litigi; la qual cosa era stata applicata già alla Porta nell'articolo 7° del trattato di pace.

Il conte di Cavour, prima di emettere la sua opinione, domandò se, nell'intenzione dell'autore della proposta, il voto che sarebbe per esprimere il Congresso dovea estendersi agli interventi militari diretti contro i governi di fatto, citando come esempio l'intervento dell'Austria nel regno di Napoli nel 1821.

Risposero, prima lord Clarendon, poi il conte Walewski, e finalmente il conte Buoi. Quest'ultimo t disse (così il protocollo N° XXIII, p. 165) che il conte di Cavour parlando in un'altra tornata della occupazione delle Legazioni fatta dalle truppe austriache, dimenticò altre truppe straniere, chiamate sul territorio degli Stati romani. Ora, parlando dell'occupazione per parte dell'Austria del regno di Napoli nel 1821, dimenticava che quest'occupazione fu il risultato di un accordo tra le cinque grandi Potenze riunite nel Congresso di Laybach. In amendue i casi attribuiva all'Austria il merito d'una iniziativa e d'una spontaneità, che i plenipotenziarii austriaci sono ben lontani dal pretendere».

L'intervento ricordato dal plenipotenziario della Sardegna, soggiunse il conte di Buoi, ebbe luogo dietro convenzioni nel Congresso di Laybach: esso rientra pertanto nell'ordine d'idee enunciate da lord Clarendon. Simili casi potrebbero nuovamente avvenire, ed il conte di Buoi non ammette che un intervento effettuato in seguito ad un accordo stabilito tra le cinque grandi potenze possa divenire, argomento di richiamo per parte di uno Stato di second'ordine.

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Conchiuse esternando il suo desiderio, che il Congresso, sul punto di chiudere i suoi lavori, non fosse obbligato a trattare quistioni irritanti e capaci di turbare la perfetta, armonia che non cessò mai di regnare tra i plenipotenziarii.

Il povero conte di Cavour, andato per suonare, fa suonato, e il protocollo ci dice che a questa intemerata del conte di Buoi si restrinse a dichiarare qu'il est pleinement satisfait des explications qu'il a provoquées. Bisogna dire che l'onorevole Conte nel Congresso di Parigi fosse di facile contentatura.

Ecco qui tutta la parte che abbiamo avuto nel Congresso di Parigi, ecco il frutto dei nostri milioni 1 Ecco quanto si disse e si fé' per l'Italia!

Conviene notare che il conte Orloff, rappresentante la Russia, non volle prendere veruna parte alla disputa, dicendo che il suo mandato «avea per unico oggetto il ristabilimento della pace».

Il barone di Manteuffel, rappresentante la Prussia, rispondendo agli ammonimenti che volevansi dare al governo delle Due Sicilie, osservò e che converrebbe esaminare se ammonimenti di tal natura non susciterebbero nel paese uno spirito di opposizione, e moti rivoluzionarii, invece di rispondere alle idee che si vogliono realizzare con certamente benevoli intenzioni».

Insomma, esaminati rapidamente gli atti ufficiali del Congresso di Parigi, noi abbiamo conchiuso che non ne hanno molto da godere i tristi, e che i buoni ne sarebbero rimasti assai più soddisfatti se abbracciate si fossero misure più radicali.

Quanto all'Italia, se il conte Walewski avesse serbato un pieno silenzio, si sarebbe forse effettuato assai più presto il suo desiderio di vederla ritornare nel suo stato normale; e se l'occupazione austriaca e la francese dovranno durare ancora parecchi anni, un po' di colpa vi avrà pure la tornata dell'8 di aprile, e il protocollo ventesimo secondo.

LA QUESTIONE DELLA STAMPA

NEL CONGRESSO DI PARIGI

(Dell'Armonia, n.101,29 aprile 1866).

Dopo la conclusione della pace, la cosa migliore che si facesse nel Congresso di Parigi, fu discorrere de' mezzi di conservarla. Tutti i plenipotenziarii convennero, che unodi questi mezzi si eradi mettere un freno alla stampa che predica la strage e l'assassinio. La questione suscitata dal conte Walewski apparentemente avea di mira il Belgio, ma di sghembo veniva a battere il Piemonte, che versa nelle medesime condizioniNoi riputiamo conveniente di riferire, secondo il protocollo XXII, quello che fu detto T8 di aprile nel Congresso relativamente alla stampa, soggiungendo di poi alcune nostre considerazioni.

Il primo plenipotenziario della Francia chiamò e l'attenzione del Congresso sopra un argomento, il quale, benché concernente particolarmente la Francia, non è tuttavia d'un interesse men positivo per tutte le Potenze europee. Egli crede superfluo il dire, che han luogo tuttodì nel Belgio per mezzo della stampa le pubblicazioni più ingiuriose,

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più ostili contro la Francia e il suo governo; che vi si predica apertamente la rivolta e l'assassinio. Egli rammenta, che di fresco alcuni giornali belgi hanno osato preconizzare la società detta La Marianna, di cui si conoscono le tendenze e l'oggetto; che tutte queste pubblicazioni sono altrettante macchine di guerra dirotte contro il riposo e la tranquillità interna della Francia da' nemici dell'ordine sociale, i quali, forti dell'impunità che trovano sotto l'egida della legislazione belga, nutriscono la speranza di giungere ad effettuare i loro colpevoli disegni.

«li conte Walewski dichiara, che l'unico desiderio del governo dell'Imperatore è quello di conservare le migliori relazioni col Belgio. Egli è sollecito di aggiungere, che la Francia non ha che da lodarsi del gabinetto di Brusselle e de' suoi sforzi per attenuare uno stato di cose che non è in poter suo di cangiare, non permettendogli la sua legislazione né di reprimere gli eccessi della stampa, né di prendere l'iniziativa d'una riforma divenuta assolutamente indispensabile». «Noi saremo dolenti (dice egli) di doverci trovare nell'obbligo «di far comprendere noi stessi al Belgio la necessità rigorosa di modificare «una legislazione che non permette al suo governo di adempiere il primo k de' doveri internazionali, quello cioè di non tollerare in casa sua mene e aventi per iscopo manifesto di portar offesa alla tranquillità degli Stati vicini. La rimostranza deVpiu forte somiglia troppo alla minaccia, perché noi non «avessimo a cercare di evitare di farvi ricorso. Se i rappresentanti delle grandi e Potenze dell'Europa considerano sotto lo stesso punto di vista che noi co€ testa necessità, giudicheranno opportuno di emettere la loro opinione a que«sto riguardo, ed è probabile che il governo belga, appoggiandosi sulla gran «maggioranza del paese, si troverebbe in grado di por modo a uno stato di t cose, che non può mancare, o tosto o tardi, di far nascere difficoltà, e «anche de' pericoli, che è nell'interesse del Belgio di scongiurare preventivamente». (Tratte de paix, Turin, Impf. R., pag.146,147).

Primo a rispondere a queste osservazioni e proposte del conte Walewski fu lord Clarendon, il quale disse, che:

«Quanto alle osservazioni del conte Walewski sugli eccessi della stampa belga e sul perìcolo che ne deriva ai paesi limitrofi, i plenipotenziarii della Gran Bretagna ne riconoscono l'importanza, ma rappresentando un paese dove la stampa libera e indipendente è, per così dire, un'istituzione fondamentale, non si potrebbero associare a provvedimenti coattivi contro la stampa di un altro paese. Il primo plenipotenziario della Gran Bretagna, lamentando la virulenza di certi giornali belgi, non esita a dichiarare che gli autori delle esecrande dottrine alle quali alludea il conte Walewski, che gli uomini che raccomandano l'assassinio quale un mezzo di ottenere un fine politico, sono indegni della protezione che guarentisce alla stampa la sua libertà e la sua indipendenza. (Tratte de paix, pag.151,152).

Parlò di poi il conte di Buoi, rappresentante dell'Austria, e dichiarò ohe l'Austria e desidera colta Francia che tutti i paesi d'Europa godano, sotto la protezione del diritto pubblico, la loro indipendenza politica ed una piena prosperità.

«Egli non dubita che una delle condizioni essenziali di uno stato di cose tanto da desiderarsi risieda nella saggezza di una legislazione disposta in modo a prevenire, od a reprimere gli eccessi della stampa che il conte Walewski ha biasimato con tanto

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fondamento parlando d'uno Stato vicino, e la repressione dei quali deve essere considerata come un bisogno europeo. Egli spera che in tutti gli Stati del continente, nei quali la stampa presenta gli stessi pericoli, i governi sapranno trovare nelle legislazioni i mezzi di contenerla nei giusti limiti, ed otterranno in tal modo di mettere la pace al sicuro da nuove complicazioni internazionali». (Loco cit., pag.153).

Il rappresentante della Prussia, barone Manteuffel, dichiarò e che il gabinetto prussiano conosce perfettamente la funesta influenza che esercita la stampa sovversiva d'ogni ordine regolare, ed i pericoli che essa semina predicando il regicidio e la rivolta; aggiunge che la Prussia parteciperebbe volentieri all'esame delle misure che si stimerebbero necessarie per porre un termine a queste mene». (Loco cit. pag.156).

Il nostro conte di Cavour non disse sillaba sull'argomento della stampa; e certo il meglio che potesse fare si era tacere. Laonde il conte Walewski, autore della proposta, conchiuse: «che tutti i plenipotenziarii, eziandio quelli che credettero dover riserbare il principio della libertà di stampa, non esitarono a biasimare altamente gli eccessi ai quali impunemente si lasciano trascorrere i giornali belgi, e riconoscere la necessità di rimediare ai gravi inconvenienti che emergono dalla sfrenata licenza di cui si fa sì grande abuso nel Belgio.

Mutato nomine, fabula de te narratur, signori del ministero. Di fatto, alle riferite parole, dove è Belgio sostituite Piemonte, e poi diteci se il senso non corra egualmente? il conte Walewski ha toccato un fatto, ed enunciò un principio, una massima di diritto internazionale. Il principio si estende a tutti; il fatto è comune al Belgio ed a noi.

Incominciamo da quest'ultimo. Si lagna il conte Walewski, che alcuni giornali belgi abbiano osato preconizzare la società detta la Marianna. Ciò avvenne pure in Piemonte, né il governo francese lo ignora, giacché in questo momento è in corso un processo promosso dal ministro di Francia contro la Gazzetta delle Alpi, appunto per tale motivo. Si lagna il Walewski, che i suoi nemici trovino rifugio nel Belgio, e libertà di cospirare; ed eguale libertà e rifugio hanno pure in Piemonte, e se ne valgono. Lagnasi finalmente, chela legislazione belga non consenta di reprimere questi eccessi; e tale è pur la ragione che adduce il nostro ministero quando se gli additano simili abusi.

Né dicasi essere stato promosso ed approvato in Piemonte un temperamento sulla legge della stampa relativo alle offese contro i governi esteri, conosciuto sotto il nome di legge Deforesta. Imperocché un simile temperamento fu pure introdotto nel Belgio colla legge Faider; anzi nel Belgio si fé' più che tra noi, promovendosi inoltre la legge Nolhomb per l'estradizione dei rifuggiti accusati d'attentato alla vita di capi dei governi esteri, e di membri delle loro famiglie.

Ora se, nonostante questi due temperamenti, il conte Walewski trova motivo di lagnarsi del Belgio, se se ne lagna, quantunque il gabinetto di BrusBelle consti d'uomini conservatori e di clericali, come li chiamano anche colà, potrà egli lodarsi del Piemonte, dove finora non fu adottato che un solo di simili temperamenti, e seggono al ministero i Rattazzi, i Lanza ed i Durando?

Però assai destramente il conte Walewski non volle nominare il nostro paese per indurre il conte di Cavour a condannare se stesso, e potergli dire a suo tempo:

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io vi giudico secondo i vostri principii. Imperocché egli propose al Congresso di sancire una massima di diritto interazionale, cioè che l'interno ordinamento d'uno Staio non dovea danneggiare l'interno ordinamento dello Staio vicino, e quando ciò avvenisse, lo Stato in pericolo avea ragione d'esigere riforme.

Fermato questo principio, la Francia ha diritto di parlare, non tanto al Belgio, ma anche al Piemonte, che gli è egualmente vicino. Né solo questo diritto compete alla Francia, ma pure all'Austria, e il governo piemontese non può a meno di aderire alle esigente dell'una e dell'altra, avendo formato parte di quel Congresso, che riconobbe la massima su cui si fondano.

Noi presentemente intendiamo la notizia corsa testé in Torino, che cioè si stia apparecchiando una nuova legge repressiva contro la stampa, legge che verrà beo presto presentata al Parlamento. Il conte di Cavoar ha riconosciuto in Parigi la necessità di questa legge, e fa assai bene di presentarla spontaneamente Senza che appaia l'influenza straniera. Tale è sempre stato il nostro programma, ed è da buona pezza che noi gridiamo: riformate la legge sulla stampa, riformate la legge elettorale. Ci voleva Ma guerra d'Oriente e il Congresso di Parigi perché finalmente si riconoscesse che noi avevamo ragione.

IL CONTE DI CAVOUR

REDUCE DA PARIGI

È CREATO CAVALIERE DELLA SS. ANNUSATA.

Il 29 aprile 1856 sulle ore due e mezzo pomeridiane giungeva in Torino il conte di Cavour. La sua prima visita era al palazzo reale. La Maestà di Vittorio Emanuele II correva ad incontrarlo e gli presentava il collare dell'Ordino della SS. Annunziata. L'Armonia di sabato 5 maggio 1856, n° 102, pubblicava il seguente articolo intitolato fratelli del conte di Cavour e il suo prossimo giuramento).

Il conte di Cavour, pigliando parte al Congresso di Parigi, e sottoscrivendo il trattato di pace, ha contribuito ad ammettere la Turchia nel gran consesso delle Potenze europee e delle nazioni civili; e S. M. il Re, nominando il conte di Cavour cavaliere dell'Ordine supremo della SS. Annunziata, lo introdusse nell'onorata famiglia dei galantuomini, dei cattolici, dei difensori della religione e del trono;

I Re, scrive il signor Cibrario, coll'istituzione della cavalleria formarono compagnie di cavalieri, viventi in una specie di fraternità, coadiuvandosi a vicenda, soggetti a statuti e regole comuni, e decorati sulle loro vestimenta, sulle loro armi, sulle loro bandiere, colle insegne dell'Ordine a cui appartenevano».

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Se ciò è vero in generale di tutti gli Ordini cavallereschi, lo è molto più di quello della SS. Annunziata. Amedeo VI istituendo nei 1362 l'Ordine, del collare di Savoia, che poi prese il nome che presentemente ritiene, intese di costituire fratelli i quattordici cavalieri che ne fregiava.

Negli statuti dell'Ordine pubblicati da Emanuele Filiberto, i cavalieri, ohe oggi diciamo della SS. Annunziata, si chiamano fratelli, ed all'art.18 è stabilito, che il nuovo cavaliere deve dare ai fratelli il bacio dì pace, All'art.28 si dice, che i cavalieri dell'Ordine saranno tenuti di fare al loro fratello e compagno tutta quella assistenza cie sarà possibile.

Di fatto Carlo Alberto, con suo decreto del 15 marzo 1840, assegnava per cappella dell'Ordine la chiesa della Certosa di Collegao, volendo così indicare la fratellanza in cui dovevano vivere i cavalieri; i quali, dopo d'essere stati congiunti fraternamente in vita, neppure morti dovevano essere separati, ma avere comune la tomba. La formola stessa del giuramento, decretata da Carlo Alberto, stabilisce, come vedremo più innanzi, così fatta fratellanza.

Ciò posto, ricerchiamo quali sieno i fratelli del conte di Cavour, poiché egli venne insignito dell'Ordine supremo. I Cavalieri dividonsi io due specie, altri nazionali, ed altri forestieri: ma tutti sono fratelli tra loro, e stretti ad un patto.

In Piemonte il conte di Cavour ebbe l'onore di diventare fratello dell'eccellentissimo conte Vittorio Amedeo Sallier della Torre. D'ora innanzi egli lo tratterà con rispetto e con amore, e non permetterà che una stampa invereconda, dimentica dei grandi Servigi ch'egli rese allo Stato, ne insulti la veneranda vecchiaia.

Un altro fratello, che acquistò il conte di Cavour, si è l'arcivescovo di Torino, Monsignor Luigi Franzoni. Ci giova sperare, che da questo punto si adopererà in tutte le guise, affinché cessi pur una volta l'esilio a cui venne condannato, ed in nome della fratellanza ed anche della civiltà non vorrà tollerare che la tristissima Gazzetta del Popolo colga per insultarlo l'occasione della morte di suo fratello.

Un terzo fratello del conte di Cavour è il marchese Brignole Sale, che tanto illustrò il nostro Stato quando lo rappresentava in Parigi. Noi siamo certissimi che d'ora in poi l'onorevole Conte si guarderà ben bene dal ferirlo con frizzi, come già fece nelle due Camere, e molto più dal proporre una legge che abbia l'aria d'un personale risentimento contro a lui.

Al di fuori poi i fratelli acquistati dal conte di Cavour sono ragguardevolissimi. Suo fratello è il principe Clemente di Metternich, e potrà il nostro neocavaliere ricorrere più d'una volta al suo savio consiglio per ben governare lo Stato, ed infrenare la rivoluzione.

È suo fratello ancora il conte Giuseppe de Radetzky, ciambellano di S. M. l'Imperatore d'Austria, e finché il conte di Cavour sarà al governo, noi possiamo stare sicuri ch'egli non vorrà rompere guerra al fratello, né promuovere una nuova riscossa. Viceversa il conte Radetzky sarà largo a Cavour de' suoi ammonimenti, ed anche, occorrendo, de' suoi soccorsi.

È inoltre suo fratello Ferdinando II, che presentemente regna nelle Due Sicilie,

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e qnind'innanzi non sarà più permesso all'opero, giornale del ministero, di calunniarlo e confrontarlo perfino con perone e con Cali gola. Il conte di Cavour saprà mostrarsi meritevole della sua nuova fratellanza.

È suo fratello Napoleone III, imperatore dei Francesi, ed il conte di Cavour sei toglierà ad esemplare, perché l'affetto 'spinge naturalmente all'imitazione, e farà pel meglio del Piemonte tutto ciò che l'Imperatore fé' in vantaggio della Francia, mandando ad effetto quei savi ammonimenti che gli lasciò prima che egli partisse da Parigi.

Oh! furono i fratelli e le fratellanze che rovinarono questo nostro paese, dapprima così felice, così rispettato, così ricco, così tranquillo La Provvidenza, che suole mandare il rimedio per quelle vie medesime che servirono all'introduzione del male, forse ci ha preparato il movimento per meno di nuovi fratelli e di nuove fratellanze. in questo nostro dolcissimo pensiero ci conferma il giuramento che sta per pronunziare l'onorevole conte di Cavour. il quale giuramento non è più l'antico che prestavano t cavalieri dell'Ordine della SS. Annunziata, ma, stante la ragione dei tempi, venne modificato fin dall'anno 1822, e poi nuovamente da Carlo Alberto, con suo decreto del 15 di marza del 1840.

Secondo questo decreto il conte di Cavour giurerà di voler ad ogni costo difendere ls prerogative, i diritti, l'autorità del suo Sovrano, e dei suoi successori.

Giurerà di voler vivere nella santa Fede cristiana, secondo i comandamenti di Dio e le istituzioni ed osservanze della Chiesa Cattolica Romana; e se fosse per cadere in qualche errore a questa contrario, senza voler ritornare alla verità, giurerà di restituire piuttosto il collare, che fallire al solenne giuramento.

Giurerà di non commettere alcun tradimento né fellonia contro il suo Re, e di non consentire con coloro che si volessero macchiare di tanto delitto. Anzi di opporsi con tutte le sue forze a simili attentati, e, non potendo far di più, rivelarli al Sovrano.

Giurerà e prometterà che, trovandosi in luoghi, in cui alcuno sparlasse dell'Ordine, o del Sovrano, o di alcuno dei compagni, o dei cavalieri di quello, presenti o assenti, ne sosterrà le parti, come sosterrebbe il proprio onore adoperandovi la sua propria persona e tutto il suo potere.

Guai a chi oserà dire nella Camera una parola o contro il re di Napoli, o contro il generale Radetzky, o contro l'Arcivescovo di Torino! Egli avrà 4a fare col conte di Cavour, il quale è tenuto a sostenerne le parti, adoperandovi perfine la propria persona

Nor» vorremmo però che il signor Conte, coll'ardore d'un neofito, interpretasse questa frase del suo giuramento in modo da stimarsi obbligato a battersi in duello contro chi offendesse o Monsignor Franzoni, o il principe di Metternich. Questo poi no; i religiosissimi nostri Sovrani non intesero mai comandare ciò che si oppone alle dottrine della Chiesa, né il giuramento potrebbe essere mai vincolo d'iniquità.

Inoltre giurerà il conte di Cavour, e questo é il punto della maggiore importanza, che quando occorresse di difendere la Santa Fede cristiana, o mantenere, o ristabilire lei dignità, gli Stati e la libertà detta S. Sede Apostolica di Roma,

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egli andrà a servire personalmente il suo Re, te la sua salute glielo consentirà, ed in caso diverso lo farà servire da altri.

Qualora i mazziniani riuscissero di bel nuovo in Roma, essi dovrebbero questa volta provare la spada del conte di Cavour. il quale frattanto, fedele al suo giuramento, non tarderà a riconciliare il Piemonte colla S. Sede, e a prosciogliere la Chiesa da quelle catene che la tengono serva nel nostro Stato. I Valdesi e gli altri protestanti, che tanto si maneggiano contro il cattolicismo, troveranno un ostacolo insormontabile nel coraggio, nello zelo, nel valore del nuovo cavaliere della SS. Annunziata.

Né si dica ch'egli non ha ancora prestato il giuramento, giacché, avendo accettato la decorazione, è come se avesse giurato, e ad ogni modo si dichiarò dispostissimo a giurare. E l'onorevole Conte non appartiene alla scuola di coloro che tengono in non cale i giuramenti; invece egli ne sente tutta la forza, per principio d'onoratezza, e in specie per punto di religione.

Laonde noi possiamo conchiudere che il premio accordato al nostro ministro è un gran guadagno per noi, è un omaggio ch'egli prestò accettandolo alla fede cattolica, è un pegno che egli ci die per l'avvenire, è lo scioglimento di vincoli anteriori, è un'abiura di errori commessi, un segno di generosa resipiscenza, un ritorno a migliori consigli e ad una politica pili salutare.

«Salve, o generoso cavaliere, salve. Possano i tristi provare ben presto il valore del tuo senno e il potere del tuo braccio. Possano i fratelli riconoscere la bontà del tuo cuore, la sincerità del tuo affetto, e la forza del tuo patrocinio. Possa il Piemonte e la Chiesa avere da te la tanto sospirata pace. Mostrati degno emulo di Ugo di Chàlons, di Aimon de Genove, di Jean di Renne, di Gugliemo di Grandson. Ispirati alla fede del grande Amedeo VI, e ricordati, che avendo egli liberato dalle mani dei Bulgari l'imperatore Giovanni Paleologo, come prezzo di così eminente servigio chiese all'Imperatore di ritornare egli e la sua Chiesa all'unità cattolica, e lo condusse in Roma ai piedi di Urbano VI. Rinnova, cavaliere generoso, questi esempi sublimi, che tanto onorano la storia di Casa Savoia, e riconduci ai piedi di Pio IX il traviato Piemonte, ornai stanco di vivere lontano dalla casa paterna. Così ti mostrerai vero cavaliere della SS. Annunziata, e tutti vedranno che il collare che cingi fert rincula fìdei. Così il nostro Re, nel dare a te, reduce da Parigi, una ricompensa, avrà fatto in pari tempo al suo popolo un gran benefizio».

I PLENIPOTENZIARII SARDI

E LE LEGAZIONI

1 due plenipotenziarii Sardi al Congresso di Parigi che furono il conte di Cavour e il marchese di Villamarina, il 27 marzo 1856 presentarono una Nota a lord Clarendon ed al conte Walewski, relativa alle Legazioni Pontificie. La Nota proponeva di separare amministrativamente le Legazioni da Roma. Di tal guisa, diceva, (Armonia, pag.430) formerebbesi delle Legazioni un Principato Apostolico sotto l'alto dominio del Papa,

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ma retto da proprie leggi, avendo suoi tribunali, sue finanze, suo esercito. Stimiamo che, rannodando per quanto fosse possibile cotesto ordinamento alle tradizioni del regno napoleonico, si sarebbe sicuri di ottenere subitamente un effetto morale considerevolissimo, e si avrebbe Tatto un gran passo per ricondurre la calma frammezzo coteste popolazioni. Senza lusingarci che combinazione di cotesto genere possa eternamente durare, non pertanto stimiamo che per lungo tempo bastar potrebbe al fine proposto; pacificare coteste Provincie e dar una soddisfazione a' bisogni dei popoli, e appunto con ciò assicurare il Governo temporale della Santa Sede senz'uopo di una permanente occupazione straniera». L'Armonia del 10 marzo, n.108, pubblicava il seguente articolo.

Jamais aucun souverain na mis la main sur un Pape quelconque et n'a pu se vanter ensuite d'un règne long et heureux.

De Maistre, Lettres inèd., VoL. I. La Royauté s'insurgeant contre la papauté, commenta des lors de marcher a sa porte.

Proudhon, Conf. D'un révolutionnaire, parag.19.

Un sentimento di sorpresa e di dolore ci cagionò la lettura della Nota verbale consegnata dai plenipotenziarii sardi ai ministri di Francia e d'Inghilterra il giorno 27 di marzo, e pubblicata negli Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, n.257, pagina 964. Noi non avremmo a pezza creduto i nostri rappresentanti né così meschini d'intelletto, né tanto temerarii, ed è cicche ci stupisce e ci addolora.

Il conte di Cavour e il marchese Villamarina ricorrono al Congresso con un atto d'accasa contro il governo pontificio, e dopo d'averlo denigrato con un indegno linguaggio, propongono che le Legazioni siane tolte al Papa, e ordinate sottosopra come i Principati Danubiani, tanto che Pio IX vi abbia quel dominio che resta alla Turchia sulla Moldavia e la Valacchia.

La nota traspira da ogni parte uno spirito di bassa vendetta. Perché il Sovrano Pontefice ha riputato debito suo condannare certi fatti del ministero piemontese, e sostenere i sacrosanti diritti della Chiesa, i nostri diplomatici gli muovono guerra al pari di Mazzini; e riservandosi a cacciarlo più tardi da Roma, per ora tentano di bandirlo dalle Legazioni.

U conte di Cavour, rispondendo nella tornata del 6 di maggio al conte Solaro della Margherita, uscì nelle seguenti parole: Per ciò che riflette la questione romana, posso accertare l'onorevole deputato Solaro della Margherita, che non una parola, sia nel Congresso, sia fuori delle aule in cui si radunavano i plenipotenziarii, fu da me pronunziata, meno che rispettosa pel Capo della Religione Cattolica». (Alt. uff., ir» 255, pag.958).

Noi pubblichiamo più innanzi la Nota verbale, e il lettore vedrà quanta fede meritino le proteste del conte di Cavour. Egli osò dire, che la Corte di Roma lotterà fino all'ultimo momento contro progetti vantaggiosi ai proprii sudditi, che vi si presterà in apparenza per renderli poi illusorii nella pratica;

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e seguendo in una nota diplomatica lo stile della Gazzetta del Popolo, parlò del giogo clericale, del sistema tradizionale del governo pontificio) che falsa lo spirito delle istituzioni, e via dicendo. E dopo d'aver rimesso ai deputati una nota di questo tenore, osò dir loro: Non una parola fu da me pronunziata meno che rispettosa pel Capo della Religione Cattolica! Ma come intendete voi il rispettoso Eccellenza? Date al governo del Papa il titolo di falso, di tiranno, dì menzognero, e intanto protestate di rispettarlo? E siete cavaliere della SS. Annunziata?

Non entreremo a discutere il progetto del conte di Cavour. È stupido e temerario ad un tempo. Stupido, perché stabilisce un principio, un precedente, direbbero i legali, che può riuscire fatale al Piemonte. Stupido ancora, perché suppone una completa ignoranza del governo pontificio, che si vuole riformare; e propone una riforma che non si potrà effettuare giammai. È temerario, perché si intromette in casa altrui, perché getta il tizzone d'una nuova guerra europea, perché fomenta nuove rivoluzioni negli stati del Papa. Proviamo brevemente questi appunti.

Cavour e Villamarina dicono a Francia e ad Inghilterra: sottraeteaì pieno dominio del Papa le Legazioni; e loro dicono ciò, siccome rappresentanti d'una Potenza italiana. Dunque in tutte le Potenze italiane riconoscono il diritto d'immischiarsi di ciò che avviene negli altri Stati;, e più, d'implorare l'aiuto straniero per ottenerne riforme.

Il governo del Sommo Pontefice non sarà mai animato da codardo sentimento di rappresaglia. Ma se esso ricorresse all'Austria, alla Francia, alla Russia dicendo: t In Piemonte i cattolici sono tiranneggiati da quattro ministri e da un centinaio di deputati. In Piemonte non si osservano i Concordati giurati in fedele parola di Re. In Piemonte mi vien negato il pagamento di «io che mi si deve, e sono misconosciuti i miei diritti. Intervenite, soccorretemi». Che cosa potrebbero rispondere i rappresentanti subalpini? Se essi possono invocare il soccorso di Francia e d'Inghilterra contro il Papa, perché il Papa a sua volta non potrà invocare il soccorso d'Austria, di Francia e di Russia contro il Piemonte?

Ma non sarà mai che tali vendette possano rimproverarsi al governo pontificio. Sono i Ghibellini che gettarono sempre l'Italia nelle unghie dello straniero. I Guelfi invece tennero costantemente per l'indipendenza italiana. Però quello che non fé' il Papa, potrebbe fare a suo tempo il Re di Napoli, il Granduca di Toscana, l'Imperatore d'Austria. E se oggi i tempi noi permettono, forse Io permetteranno domani. Perché non ci badarono i nostri plenipotenziarii? Essi hanno piantato un principiò: ciascuna Potenza italiana può immischiarsi delle cose interne degli altri Stati della penisola, ed immischiarsene fino ad invocare l'aiuto straniero. Il principio sta: verrà la stagione delle conseguenze.

Inoltre noi dicevamo che Cavour e Villamarina colla loro Nota verbale proposero l'impossibile, e con ciò fecero mostra di corta intelligenza. Imperocché, o il loro progetto dee mandarsi ad effetto contro la volontà del Pontefice, e noi affermiamo con sicurtà che nessuna Potenza di questo mondo potrà togliere mai al Papa un palmo del suo territorio. Oppure si richiederà il consenso di Pio IX, e questo non si potrà giammai ottenere, perché il Papa, vincolato dai suoi giura meati, non lo può dare.

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Quando il generale Radei, il 6 di luglio 1808, scalato il Quirinale, presentavasi a Pio VII, intimandogli di rinunziare la sovranità temporale degli Stati Romani, ed in pari tempo pregavalo di compatirlo, se dovea eseguire tali ordini per la Tede giurata al ano Sovrano, l'intrepido Pontefice gli rispondeva: «Se ella ha creduto di eseguire tali ordini dell'Imperatore per il giuramento fattogli di fedeltà e di obbedienti, s'immagini a qual modo dobbiamo noi sostenere i diritti della Santa Sede, alla quale siamo legati con tanti giuramenti. Noi non possiamo cedere, né rinunziare quello che non è nostro; il dominio temporale è della Chiesa Romana, e noi non ne siamo che gli amministratori. L'imperatore potrà farci a pezzetti, ma non otterrà mai questo da noi». (Card. Pacca, Memorie storiche, tom.1, part.1«, edizione di Benevento 1833, pag.163).

Signori plenipotenziarii sardi: voi, Francia ed Inghilterra con voi, potranno fare a pezzetti Pio IX, ma non otterranno mai ch'egli rinunzii all'amministrazione ed al pieno dominio di veruna parte de' suoi Stati. Egli non può cedere ne rinunziare quello che non è suo. I diritti sovrani della Santa Sede sopra i suoi dominii sono inalienabili. Se noi sapevate, prima di parlare del governo Pontificio dovevate studiarlo; se lo sapevate, e vi deste a credere di poter ritrovare un Pontefice infedele, scusateci, ma vi mostraste di ben corta veduta.

E poi vi è ancora un'osservazione da fare, perché meglio si apprezzi l'operato dal conte di Cavour e dal marchese Villamarina. Essi eransi eretti in Parigi fautori dell'unità italiana. Ed intanto che cosa mai proponevano? Proponevano di smembrare ancor di più la penisola, di aggiungere alle antiche una nuova frazione, di disunire te Legazioni dalle Romagne. Oh che grandi cervelli l Oh che buoni amici d'Italia!

Alfa pazzia del progetto non si trova riscontro che nella temerità di cbi Io propose. Noi siamo ben meravigliati che il conte Walewski; che disse la Francia figlia primogenita della Chiesa, abbia poi sostenuto la lettura d'una nota tanto ostile alla Santa Sede. Questo fatto mette in qualche sospetto i buoni sul conto del governo imperiale. I suoi nemici, e ne ha in tutte le classi, se ne prevalgono per tacciarlo d'ipocrisia. Noi vorremmo che Luigi Napoleone ci badasse in tempo, e meglio provvedesse a se stesso.

Imperocché in sostanza i plenipotenziarii sardi non fecero altro che elevare in Parigi la bandiera mazziniana. L'accettazione del loro progetto porta fino alla formola di Dio e Popolo, fino alla repubblica. Angelo Brofferio lo disse nella Camera dei Deputati il 6 di maggio: «Il conte Clarendon e il conte Cavour vorrebbero secolarizzato il governo Pontificio nelle Legazioni. E perché nelle Legazioni soltanto, e non in tutto il Romano Stato?». (Atti uff. del ParL. , n° 255, pag.956).

Questa è logica. Come, stabilito l'intervento in una parte d'Italia, si legittima in tutta la penisola; così, strappata al Pontefice una parte del suo potere, nulla impedisce che gli venga tolto interamente.1 plenipotenziarii sardi colla loro Nota mirarono a sbalzare dal trono il Papa: appuntarono una seconda volta i cannoni al Quirinale. Era una metraglia di parole, se volete, ma ciò non iscusa né la temerità, né la baldanza.

E poi costoro si lagnano del governo pontificio, che non gode ne tranquillità, né prosperità! E poi il conte di Cavour ride, e fa ridere il Parlamento

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sull'infelicissima condizione degli Stati Romani! Che direste d'un masnadiere) che si burlasse della povertà d'un viandante spogliato da lui? Ebbene, e questo il caso nostro. Il Piemonte ha reso infelici gli Stati Romani, e attende tuttavia a questo tristo mestiere. II conte di Cavour ha gettato un'offa alla rivoluzione, perché vi perduri. E intanto se ne lagna? La temerità eccede ogni limite.

Egli ha fatto il cortigiano coll'Imperatore dei Francesi, e tolse a lodare il governo delle Legazioni sotto il primo impero. Noi mandiamo il conte di Cavour a leggere ciò che di quel governo disse un liberale, Pietro Giordani, nell'orazione per le tre Legazioni riacquistate, recitata in Bologna i] 30 di luglio del 1815. Là il Giordani confronta il cessato dominio francese colla quiete, l'abbondanza, la sicurezza, la libertà, gli studii fiorenti, le feste ingegnose, le gioie di quel pacifico e beato regno Pontificale.

Quando Pio VJI, reduce in Roma nei 1815, traversava i suoi Stati, una era la voce di tutti: Padre Santo, giustizia e il governo di prima. Così ci racconta il Pacca nella Relazione del viaggio di Pio VII a Genova (Orvieto 1833, pag.125), e se le cose non si ristabilirono pienamente, forse fu perché non si esaudì il voto alla lettera. Oggidì il Piemonte vuoi regalare alle Legazioni la leva militare per ritornarle misere come sotto il governo usurpatore, e convenirle in carne da cannone. Oh il conte di Cavour ritenga pe' suoi così stupendi regali!

Noi diremo francamente ai governo francese: Volete da senno che l'occupazione straniera cessi negli Stati Pontificii? Rintuzzate gli attentati di coloro che la rendono necessaria. Questi attentati partono dal Piemonte. Qui comandano a bacchetta i pili grandi nemici del Papa; qui si scrivono calunnie contro la sua amministrazione; qui si recitano discorsi incendiarii e si suscitano le ire popolari; qui si conturba l'equilibrio italiano ed europeo! Voi avete sbagliato la vostra diagnosi, e non avete conosciuto la vera causa del male. Ritornate a visitar l'ammalato, e se avete voglia di risanarlo, la cosa non è difficile Cavour e Villamarina vi chiamarono in qualità di medico. Coraggio, mano ai ferri: tastate il polso, mettete la mano sul cuore, e non tarderete a conoscere dove sta il calore febbrile. Allora fate per l'Italia quello che fareste per la Francia, e fatelo presto; perché le malattie sociali sono sempre contagiose.

LA TEORIA DEGLI INTERVENTI

(Dall'Armonia, n.111,14 maggio 1856).

«Rispetto alla teoria degli interventi, disse il conte di Cavour alla Camera dei Deputati, mi pare che vi sia manifesto abbastanza qual fosse l'opinione del governo del Re. È su questo terreno che la questione è stata portata, principalmente nel seno del Congresso (di Parigi). È contro la teoria degli interventi che noi abbiamo protestato, è contro la teoria dell'intervento propugnata dall'Austria che la Sardegna e l'Inghilterra, e fino ad un certo punto la Francia, hanno combattuto. Noi ammettiamo l'indipendenza dei diversi governi, noi non riconosciamo ad un governo il diritto d'intervenire in un estero Stato, anche quando dall'altro governo è a ciò fare invitato». (Atti uff. della Camera, tornata 6 di maggio, N° 255, pag.958).

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La stessa dottrina ripeteva il conte di Cavour nel Senato del Regno, rispondendo all'interpellanza del conte di Castagnetta: «Quanto accadde nel Congresso di Parigi, le spiegazioni da me date in un altro ricinto, e che oggi fino ad un certo punto ho ripetute, provano che anche nella politica internazionale corre una grandissima differenza tra i principii dall'Austria professati, e quelli che noi manteniamo. L'Austria crede legittimo ogni intervento a mano armata, quando viene da un governo richiesto. Noi invece professiamo una diversa dottrina, quindi su ciò vi è una distanza, e distanza gravissima, fra l'Austria e noi». (Atti Uff, del Senato, tornata del 10 maggio, N° 56, pag.193). Queste dottrine del ministro piemontese cozzano pienamente coi fatti. Imperocché, se non può essere lecito mai al governo d'invocare l'aiuto straniero contro del popolo, parrebbe, per necessaria conseguenza, che non potesse nemmeno essere lecito ai popoli d'invocare l'intervento straniero contro i governi.

Ora, ci dice la storia, che Carlo Alberto intervenne in Lombardia contro l'Austria, come l'Austria intervenne nelle Legazioni in favore del Papa. Il marchese Pareto, ministro degli affari esteri, scriveva al Presidente del governo provvisorio di Lombardia, il 23 di marzo del 1848: «Abbiamo ricevuto la lettera che ci recò il «onte Martini, la quale ci colmò di gioia, perché ci annunziava la vittoria che il popolo di Milano riportò sopra i suoi oppressori. Tosto che ricevemmo quella lettera, il conte Martini fu presentato al Re, il quale accolse con benevolenza i voti espressi dal vostro deputato. Questi saranno esauditi. Un generale, secondo ce ne espresse desiderio il prelodato conte, parte questa notte per la vostra città. Un corpo d'infanterìa ha ordine di avanzarsi verso Milano per cooperare, a seconda dei nostri desiderii, a quell'ordine che volete mantenere j ordine che vi permetta di riposare un poco dalle vostre eroiche fatiche».

Né si opponga, che il Piemonte interveniva in Lombardia come Potenza italiana, e portava ai Lombardi quell'aiuto che il fratello attende dal fratello, dall'amico l'amico. Imperocché noi risponderemo: 1° Anche l'Austria è Potenza italiana, e come tale intervenne a Napoli nel 1821, e negli Stati Pontificii nel 1849; 2° Re sono fra loro amici, e si chiamano anzi fratelli; laonde, come Carlo Alberto ai Lombardi, possono recarsi reciproco aiuto; 3° Non solo s'invocò nel 1848 l'aiuto del Piemonte, ma anche quello d'Inghilterra e di Francia, e sono dolenti assai gli Italianissimi che loro venisse meno e l'uno e l'altro. Ma per cogliere in contraddizione Camillo Cavour noi non dobbiamo ritornare al 1848, né invocare fatti o dottrine di altri ministri suoi predecessori. Egli ci basta di esaminare le opere sue recentissime e que' documenti che riguardano il medesimo Congresso di Parigi, e sono stampati insieme colle sue parole nella raccolta ufficiale dei discorsi del Parlamento.

Il conte di Cavour al 16 d'aprile indirizzava a lord Clarendon ed al conte Walewsky una Nota, dove diceva, che egli ed il suo compagno Villamarina speravano che il Congresso di Parigi non si sarebbe separato senza prendete in «ria considerazione lo stato dell'Italia, e divisato i mezzi di recarvi rimedio» Ma questa speranza essendo svanita, protestavano dei danni che ne sarebbero derivati non isolo alla Sardegna, ma anche all'Europa. Evidentemente qui Sua Eccellenza voleva l'intervento di Francia e d'Inghilterra in Italia.

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È vero che non parlava se non d'un intervento diplomatico; ma queste sono ciancie; imperocché l'opera della diplomazia è nulla, se non può essere confortata coll'intervento armato.1 diplomatici d'Inghilterra e di Francia, qualora si fossero immischiati nelle cose d'Italia, prendendo su questo punto una risoluzione, doveano anche essere disposti a sostenere la loro sentenza armata mano, e ad ogni modo chi invocava il loro intervento diplomatico non avrebbe potuto giammai contraddire al loro intervento armato.

Vi è ancora di più. H conte di Cavour col suo compagno addì 27 di marzo presentavano ai ministri di Francia e d'Inghilterra una Nota, dove lodavano l'invasione delle Legazioni fatta dalle truppe francesi nel 1796, e la loro incorporazione prima alla repubblica, e poi al regno italico, benedicendo la conquista di Napoleone I. Donde toglievano occasione per supplicare Francia ed Inghilterra a promuovere un loro progetto per istaccare le Legazioni dal governo del Papa, progetto che doveva effettuarsi da un alto commissario, nominato dalle Potenze, e colf aiuto delle truppe francesi.

Ora, che cosa è mai questo, se non un intervento armato? E quali sono le teorie del conte di Cavour su tale materia? Noi dichiariamo di non comprenderne proprio nulla. Imperocché egli nega, che sia legale un intervento a mano armata quando viene da un governo richiesto. E poi chiede egli stesso quell'intervento, non in casa propria, ma in casa altrui. Non vuole, ad esempio, che H Papa ed il Redi Napoli chiamino l'aiuto degli Austriaci; e poi egli invoca l'aiuto dei Francesi e degli Inglesi contro il Re di Napoli ed il Papa. Giunge anzi fino al punto che fa licenza al Congresso di Parigi di discutere le cose de' governi italiani senza che questi vi sieno rappresentati e possano dire le toro ragioni. Noi troviamo in tutto ciò un ammasso di contraddizioni e di assurdità che fanno stordire.

Per mettere meglio in mostra il sistema contraddittorio del conte di Cavour, facciamo un'ipotesi. Supponiamo abbracciato il suo ibrido progetto sulle Legazioni. Esse ottengono un governo separato dal governo pontificio; tutto si compie felicemente; il vicario Pontificio laico è nominato; le truppe francesi hanno assistito al riorganamento, e, terminata l'opera loro, abbandonano l'Italia e ritornano in Francia. Da lì a poco avviene una rivoluzione nelle Legazioni; ed esse si sottraggono anche a quel resto di dominio indiretto riservato al Papa. In questo caso, signor conte di Cavour, ammettete voi che il S. Padre possa implorare il soccorso d'Inghilterra e di Francia? Se voi ci rispondete di sì, la vostra teoria dell'intervento va a monte, e risulta che l'intervento richiesto da un governo è legale, e che i Re possono invocare soccorso de' loro fratelli allora quando le popolazioni non vogliono stare al dovere. Che se ci rispondete di no, ed allora voi date evidentemente nell'assurdo. Come? Francia ed Inghilterra potranno imporre al governo Pontificio uno stato di cose, che poi non avranno il diritto di mantenere? Queste due Potenze, dopo di essere entrate in certo modo sicurtà da parte del popolo verso il governo, non saranno in grado di sostenere la loro parola, e ridurre i ribelli sulla retta via? E come volete allora che il governo Pontificio consenta, e getti la briglia sul collo alla rivoluzione, quando poi, non gli resta verun mezzo per infrenarla?

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La questione toccata dal conte di Cavour è al momento di ricevere una pratica applicazione. Il Sultano ha emancipato i cristiani coll'Hatti-Humanicum. A' suoi sudditi non garba questa riforma. Se domani il Sultano chiederà l'aiuto delle Potenze per far eseguire il firmano, l'Inghilterra e la Francia gli risponderanno: noi non riconosciamo ad un governo il diritto d'intervenire in un estero Stato, anche quando dall'altro governo è a ciò fare invitato? Nemmeno il conte di Cavour darebbe questa risposta. Le potenze confederate riconoscono in loro il diritto d'intervenire, non solo richieste dal Sultano, ma anche contro la volontà del Sultano medesimo. Questo disse chiaramente nella Camera dei Comuni di Londra lord Palmerston il 7 di maggio. Eccone le precise parole:

«Riguardo al quarto punto, tutti ammettono che il firmano è pienamente soddisfacente. Il solo dubbio, che io ho udito manifestare, si è che il Sultano possa rivocarlo domani, e che il trattato neghi alle Potenze alleate il diritto di intervenire. Mail trattato ha fatto menzione di questo firmano, ed è chiarissimo che, se fosse rivocato, gli alleati avrebbero moralmente il diritto d'intervenire e fare rimostranze sufficienti per raggiungere lo scopo che si proposero».

Le rimostranze sufficienti potrebbero estendersi fino alle armi, se non bastassero le parole. Ecco quindi il conte di Cavour contraddire una dottrina che egli stesso ha sottoscritta nel trattato di Parigi. Questo trattato riconoscendo il diritto d'intervento per l'esecuzione del firmano d'emancipazione, riconosce a fortiori nel Saltano il diritto d'invocarlo contro i proprii sudditi. Ora, se la cosa è lecita in Torchia, dee esserlo in tutto il mondo, perché il diritto non è cosa né di luogo, né di tempo, ma universale come la giustizia, da cui deriva.

La tristizia e l'assurdità del sistema del conte di Cavour è manifestissima. Esso rompe i nodi che stringono in fratellanza i sovrani, e mentre tanto si parla della solidarietà dei popoli, condanna all'isolamento i governi. Esso stampa una macchia stilla memoria dei nostri principi,. che nei giorni della rivoluzione ricorsero felicemente all'aiuto delle armi forestiere;e mentre da una parte fomenta la ribellione e suscita le ire della plebe, dall'altra incatena i re e li riduce all'impotenza di sostenere i proprii diritti contro i ribelli. Esso ripugna ai fatti stessi del Piemonte rivoluzionario, e mette in mostra le tristissime mire delle proteste e delle note verbali; prepara la strada al ritorno di Mazzini in Roma, e, reduce questi sul clivo Capitolino, oppone le sue teorie alle Potenze cattoliche che volessero salvare dalla tirannide l'eterna città.

LA COSCRIZIONE MILITARE

NEGLI STATI PONTIFICII

(Dall'Armonia, n.115,14 maggio 1856).

Molte cose ed restano ancora dire ai da plenipotenziarii sardi, e in specie a S. E. il conte di Cavour, intorno alla nota verbale presentata ai ministri di Francia e d'Inghilterra il 27 di marzo, sulle Legazioni Pontificie; e a poco a poco noi faremo di sgocciolare il barletto. Sugli autori di quella Nota una corrispondenza di Torino dell'Italia e Popolo (17 maggio, n° 137) dice:

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«La Nota sulle Legazioni presentala dal ministro Cavour è opera di quattro emigrati delle provincie romane, fra i quali un preside ed un congiunto di N.... che, pel primo, ne trasmisero copia all'Imperatore medesimo». Rimetteremo ad altri l'uffizio di ricercare sotto altri nomi il nome vero. Per noi autori della nota sono i due plenipotenziarii sardi che la sottoscrissero, ed in specie il conte di Cavour che ne porta tutta la risponsabilità.

Di passaggio dobbiamo avvertire che il conte di Cavour, riputando necessario qualche nuovo organamento nelle Legazioni Pontificie, avrebbe dovuto per prima cosa rivolgersi al Papa, e comunicargli le sue idee; e qualora i suoi ammonimenti non fossero stati ben accolti, rivolgersi alla diplomazia. Sua Eccellenza adoperando altrimenti non si dimostrò molto cortese.

Inoltre, avendo il conte di Cavour stabilito di ricorrere ad ogni modo alla diplomazia, potea rivolgersi alle Potenze cattoliche, non all'Inghilterra, dichiarata nemica della S. Sede. Imperocché egli è un atto della maggiore ostilità implorare il soccorso d'un avversario del Papa, per modificare l'interno ordinamento de' suoi Stati. Il procedimento non ci sembra né cavalleresco, ne utile, né italiano.

Finalmente, il conte di Cavour, volendo introdurre riforme nelle Legazioni Pontificie, avrebbe dovuto affidare l'esecuzione delle proprie idee a chi già godesse in casa propria quelle riforme medesime. In caso diverso egli degenerava, come di fatto degenerò, nell'assurdo. E una di queste assurdità ci proponiamo di rilevare nel presente articolo.

Il conte di Cavour, rivolto all'Inghilterra, la prega di introdurre nelle Legazioni Pontificie la coscrizione militare. La quinta delle sue proposizioni dice così: «Une troupe indigene serait immédiatement organisée au moyen de la «conscription militaire». Mettiamo che l'Inghilterra s'indirizzasse al Papa con una simile proposta, e gli dicesse: stabilite la coscrizione militare nelle Legazioni Pontificie. Ognun vede la trionfante risposta che potrebbe rendere il governo del S. Padre. «E come? potrebbe dire agli Inglesi: voi volete ch'io introduca la coscrizione militare in casa mia? E perché non avete incomincialo dall'introdurla in casa vostra? Voi, che andate raccogliendo soldati per tutta Europa, che non volete assoggettare i vostri alla leva forzata, pretendete ch'io faccia altrimenti? Ma, o la coscrizione militare é cosa buona, e adottatela voi, o non é quella delizia che altri suppone, e non imponetela al Papa».

Ci pare impossibile sprigionarsi da questo argomento. Il quale, oltre al chiarire l'imprudenza del conte di Cavour, lascia anche supporre, che la coscrizione militare non sia in se stessa quella beatitudine che altri ne pensa. Se gli Inglesi, che voglionsi maestri di civiltà, non hanno ancora ricorso a questo mezzo per raggranellare i soldati, sì può tuttavia dubitare che questo sia il mezzo migliore..

Ad ogni modo, non si rifinisce mai dal dare addosso al Papa, perché non v'ha negli Stati romani la coscrizione militare. Questa è una delle colpe fra le tante che gli appose Luigi Farini nella sua storia dello Stato Romano. «Si ristorò, così egli, più il cattivo che il buono non ordini di milizia coscritta, truppe racimolate per le strade». (Lo Staio romano, ecc.; tom. I, pag.8).

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Noi non sappiamo come il Farini abbia potuto intitolare la sua storia a Guglielmo Gladstone; ne come questi abbia saputo voltare in inglese l'opericciuola, Che, se ha torto il Papa a racimolare per le strade le truppe, perché l'Inghilterra fa altrettanto, e andò a racimolarne in Italia, in Germania, in Isvizzera?

Procuriamo di studiare un po' l'origine e la natura della coscrizione militare, e veggiamo se essa può dirsi una liberale istituzione da fare il vantaggio e la felicità dei popoli e gola agli Stati Romani.

Essa nacque nella Francia repubblicana colla legge del 49 fruttidoro, anno VI, che fonda vasi sul principio: tutti i cittadini esser soldati. La Carta del 1814 aboliva coll'art.12 la coscrizione, ammettendola poscia nei soli casi di necessità colla legge del 10 marzo 1845. Dopo le gloriose giornate, la legge del 21 marzo 1832 risuscitò pienamente la coscrizione forzata, e ricordò a tutti i Francesi che sono soldati.

€be cosa vi pare di questo principio? È egli vero che tutti nascono con disposizioni naturali alla milizia? Nessuno oserà certamente affermarlo. Le leggi medesime che permettono di farsi surrogare, già riconoscono che non tutti hanno inclinazione, né attitudine alle armi. Laonde la coscrizione forzata si può considerare piuttosto come un'imposta, che altrimenti; e imposta gravissima, in quanto si dee pagare non col denaro, ma col proprio sangue.

Coloro adunque che rimproverano al Papa di non avere ordini di milizia coscritta, gli rimproverano in sostanza di non avere ancora aggravato i proprii sudditi colla più terribile imposizione; di non avere vincolato la vocazione che sortirono dalla natura; di non avere stabilito un ordine di cose, da cui può redimersi chi ha denari, e che devo invece sopportare colui che nacque nella povertà.

-

Voi, che avete inclinazione alte armi, entrate pure nella milizia, ch'io vi assoldo; e voi altri che non amate la disciplina militare, restate pure liberi.- Cosi dice il Papa.

-

Vi piaccia o no fare il soldato, io v'impongo di cingervi al fianco la spada e d'impugnare il moschetto. Se no, pagate una grossa somma, e mettete un altro al vostro luogo. - Così dicono i nemici del Papa.

I popoli a chi debbono mostrarsi più riconoscenti? Chi li ama e benefica di più? Chi lascia loro maggior libertà?

Noi siamo ben lontani dal condannare la coscrizione militare: ma con Luigi Tapparelli diciamo doversi accettare come necessità solo di tempi anormali, non canonizzarsi come regola o invidiarsi come beatitudine..

E quanto agli Stati Romani, merita lode assai il Romano Pontificato, che non ancora ve l'introdusse, e che vuole tentare altri esperimenti prima d'introdurvela.1 popoli portano con sé dalla natura una speciale inclinazione, e noi non crediamo che i sudditi del Papa possano dirsi nati per la milizia. Massimo d'Azeglio dichiarò in Senato che il progetto del conte di Cavour per le Legazioni non era di possibile esecuzione, e a nostro avviso una delle maggiori difficoltà era la coscrizione proposta.

Nel 1849 la coscrizione militare era stata introdotta negli Stati Romani col decreto del 27 aprile, il quale fondavasi su questa considerazione, che la vita è facoltà dell'uomo appartengono di diritto alla società ed al paese, nel quale la Provvidenza lo ha posto. Tremendo principio che sacrifica l'individuo sull'altare del Dio Stato.

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Ma come si dovette eseguire il decreto? Vel dica uno storico della repubblica romana:«Parecchie compagnie di legionarii in arme, spartitisi per le vie e per le piazze di Roma, arrestarono i manovali dei muratori, dei falegnami e degli altri artigiani; poi quanta gente di contado e di città lor venne innanzi, e tutti, indarno repugnanti, circondati da quegli sgherri, che lor tenevano appuntate alla vita le baionette, furono tratti con violenza su presso alle mura, e quivi, come carne da macello, adoperati nei più faticosi lavori, mentre da ogni lato grandinavano loro addosso le palle e le mitraglie degli assedianti». (La Rivoluzione Romana al giudizio degli impaniali) cap. XI, pag.322).

Vorrebbero i plenipotenziarii sardi che queste belle «cene si ripetessero nelle Legazioni sotto il legittimo governo, e che s'andasse in caccia dei sudditi Pontificii, per crearli militari loro malgrado? Questo sì che sarebbe liberalismo di nuova stampa!

Però i fautori della coscrizione militare negli Stati Romani dicono che, senza questo mezzo, non si potrà mai ottenere colà un buon esercito. Noi ci asterremo dall'esaminare questa asserzione, contenti di rispondere, che non sarà poi grande sconcio se il Papa non si distinguerà tra le Potenze europee pel numero e per la natura de' soldati. Il Papa non fa guerra; e quando altri la fa al Papa, le Potenze cattoliche rispondono per lui, e la vittoria sempre le incorona.

Due sono i nemici del Papato: la rivoluzione e l'ambizione: Pana lo combatte nell'interno, l'altra al di fuori; e qualche volta tanto la prima quanto la seconda riuscirono a sbalzarlo momentaneamente dal trono.

Pare a noi che si potrebbe dar forma di trattato a ciò che sempre si praticò fin qui. Le Potenze cattoliche dovrebbero solennemente obbligarsi a sostenere il Papa colle loro armi ogni qual volta egli lo stimasse necessario per premunirsi contro gli interni o gli esterni nemici. E questa sarebbe la migliore coscrizione militare.

LA POLITICA DEL CONTE DI CAVOUR

(Dall'Armonia, n.411,21 maggio 1856).

Non è tanto facile definire la politica del nostro Presidente del ministero; non già ch'egli appartenga a que' caratteri serii, taciturni, che pensano assai e parlano pochissimo; ma perché il conte di Cavour parla troppo, parla sempre, gira come un arcolaio, discorrendo diversamente, secondo i tempi, i luoghi, le persone; talché tutti credono d'averlo con lui, ed egli non è con nessuno ma solo con se stesso, e per se stesso.

Per indovinare ad ogni modo taluno de' suoi disegni, l'unico spediente è di chiederne a' suoi più intimi amici, a' quali avrà detto il suo cuore, se non per averne consiglio, almeno per implorarne soccorso. E tra gli intimi amici di Sua Eccellenza stanno oggidì i Russi, essendo egli carne ed unghia con Orloff, e tutto pieno d'ammirazione e d'affetto pel liberalismo e per la civiltà dei Tomanoff.

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Laonde noi pensiamo che il giornale rassodi Brusselle, il Nord, sia quello pili addentro ne' recessi dell'animo del nostro ministro, e tra l'Espero, l'Opinione e il Risorgimento, figuri come il maggiordomo, sebbene egli faccia il mestiere con una dignità che salva l'onoratezza della stampa periodica. Rivolgiamoci dunque a costui. - Signor Nord di Brusselle, quale è la politica del conte di Cavour? Dove egli mai vuoi condurre il Piemonte? Che cosa pensa per ora? Che cosa desidera? Qual è il suo programma?

Il Nord ei rispondo nel suo n° 137 del 16 di maggio in una corrispondenza di Parigi, che porta la data del 14: t Le conversazioni frequenti e facili tenute dal conte di Cavour, durante i suoi due soggiorni in Parigi, possono servire di complemento ai discorsi ch'egli ha pronunziati in Torino. Chiedendo la secolarizzazione delle Legazioni, e la loro separazione amministrativa dalla Corte di Roma, il signor di Cavour ha francamente espresso la speranza, che la pratica di questo sistema condurrebbe all'indipendenza delle Legazioni, e forse più tardi alla loro annessione al Piemonte. Rigettando ogni intervento straniero in Italia, il conte di Cavour Vuoi riservare al Piemonte, come Potenza Italiana, il solo diritto d'intervenire per mantenere l'ordine ne' diversi Stati Italiani. Non più Papa in Italia, essendo un ostacolo insormontabile all'opera dell'unità italiana; tale è il vero scopo della politica confessata dal conte di Cavour a' suoi intimi. Rimane a sapere, dove il primo ministro sardo intenda di mettere il Papa. Il signor di Cavour non ha ancora aperto l'animo suo su questa questione.

Ed eccovi chiaro e netto il programma politico di S. E., quale almeno lo manifestò a Parigi: 1° secolarizzazione delle Legazioni; 2° le Legazioni tolte al Papa; 3° le Legazioni date al Piemonte; 4° il Papa fuori d'Italia; 5° fuori d'Italia tutti gli altri Principi; 6° l'unità italiana e il solo conte di Cavour, che comanda a bacchetta nella Penisola. Due parole su ciascuno di questi sei punti.

Secolarizzazione delle legazioni. Il conte di Cavour, rispondendo nella Camera dei Deputati al conte della Margherita, protestava, il 6 di maggio, che, volendo migliorare il governo degli Stati Pontifici, era mosso da affetto alla religione: «A parer mio, il trattare questa questione non può fare danno alla religione, debbe anzi giovarla assai, poiché avrebbe molto a guadagnare se la condizione dei popoli venisse qualche poco migliorata.

Ma il Nord ci dice, che in questo progetto gatta ci cova; e che non sarebbe che il principio d'una rivoluzione; di fatto Cavour non rispose a Brofferio quando l'interrogò: «perché nelle Legazioni soltanto v e non in tutto il Romano Stato? Quando poi nel Senato del Regno Massimo d'Azeglio osservò a Sua Eccellenza, che il progetto contenuto nella famosa Nota verbale non bastava, e dicevagli: i soli 'principii d'una buona politica sono il vero ed il giusto; Sua Eccellenza glirispose, che pei tempi presenti non si potea proporre di più colla speranza di riuscita. Ad altri tempi adunque rimandava il Conte i suoi finali disegni.

Le legazioni tolte al Papa, e La scala del progresso è lunga; vuolsi tempo e pazienza per salirne a capo. Il mezzo di andare più presto è di non varcare più d'uno scalino per volta»: scriveva Mazzini a'suoi nell'ottobre del 1846. Camillo Cavour ha raccolto l'ammonimento.

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Per ora si contenta del primo scalino, secolarizzando le Legazioni. Ma dopo viene subito il secondo scalino, che è le Legazioni tolte al Papa. Roma non si è fabbricata tutta in una volta, dice il proverbio. Roma non si può distruggere tutta in una volta, dice il conte di Cavour. E volete che il Papa acconsenta al vostro progetto? Volete che accordi ciò che dee servire per spogliarlo? Mai più, mai più.

Le legazioni date al Piemonte. Ecco il terzo scalino. La politica moderna consiste nel gran principio: levati di Vi che mi ci metta io. Per questa ragione Camillo Cavour si opponeva nel 1848 e 1849 ai democratici; e per questa ragione medesima oggidì si oppone al Papa. Egli vorrebbe spiccar un salto ed andare a comandare nelle Legazioni. Ma vuoi fare il passo più lungo della gamba, e corre rischio di qualche capitombolo. Casa di Savoia non si potè mai ingrandire a questo modo. Nemmeno il primo Napoleone potè conservare le Legazioni tolte al Papa. E potrà conquistarle il conte di Cavour, che è qualche cosa di meno?

Papa fuori d'Italia. Ad una ad una, diceva colui che ferrava le oche. Secolarizzate le Legazioni, Sua Eccellenza vuole secolarizzare il Papa e mandarlo a Gerusalemme. Questo è lo scopo finale: ed ebbe l'imprudenza di dirlo a Parigi, e permettere che giungesse fino agli orecchi del Nord Ma Napoleone 1 non potè scacciare il Papa dall'Italia colla forza delle armi, né Mazzini colla forza del delitto; e Cavour non ci riuscirà colla sua furberia. Vedremo fuori d'Italia il ministro piemontese, ma il Papa vi starà in eterno. Se per mantenervelo saranno necessarii miracoli, anche questi si avranno dalla Provvidenza. Da questo lato noi siamo sicuri; e ridiamo di tutte le Note verbali.

Fumi d'Italia tutti gli altri Principi. Siamo ben presto a capo della scala. L'unità italiana vuole un principe solo. Dunque la cacciata del Papa non basta. Debbono tenergli dietro il Re di Napoli, il Granduca di Toscana, gli altri Ducili e l'Austria. Il conte di Cavour si ha fitto in testa di licenziarli tutti con una Nota verbale. Egli spera molto nel parlamentarismo, e nella forza delle parole. Ma dobbiamo noi chiamarlo o ridicolo, o tristo? Dobbiamo burlarci delle sue smargiassate, o deplorare i suoi traviamenti?

Le nespole matureranno e vedremo. In Roma vi sono due statue, quella di S. Pietro, e l'altra di S. Paolo. La prima tiene in mano le chiavi, e vi sta scritto: Hinc humilibus venia. La seconda impugna la spada, e la leggenda dice: Hinc retribuito superbia. Chi non volle il perdono riservato agli umili, avrà la vendetta che tocca ai superbi. Quella spada fermò i barbari, rintuzzò gl'imperatori germanici, confuse i conquistatori; e non è ancora spuntata. A suo tempo farà vedere anche al conte di Cavour quanto sia duro cozzar con Dio.

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IL CONTE DI CAVOUR

DIPINTO DA' SUOI COLLEGHI

Siccome in queste Memorie s'incontra soventi volte il nome di Camillo Cavour, così, prima d'andare innanzi, stimiamo ben (atto di scrivere poche parole sul suo conto., E quantunque egli sia morto, e le opere sue e la sua persona appartengano interamente alla storia, tuttavia ci restringeremo a dipingere il conte di Cavour colle testimonianze de' suoi medesimi colleghi.

Il conte di Cavour fu per dodici anni un cospiratore. Questa sentenza uscì dalla medesima sua bocca nella Camera dei Deputati, il 27 marzo del 1861.11 deputato Giuseppe Ferrari, il 26 di marzo alludendo al conte di Cavour, avea detto: Non critico i cospiratori che hanno sfidato le atroci polizie dei cessati governi, e non intendo neppur di biasimare chi si associa loro anche dal seggio di una presidenza (1)». Il giorno dopo il Conte di Cavour rispose così; e L'onorevole deputato Ferrari ha voluto farmi l'onore di annoverarmi fra i cospiratori, lo ne lo ringrazio e colgo quest'occasione per dichiarare alla Camera che fui per dodici anni cospiratore (2)».

Marco Minghetti ha dichiarato poi parimente nella Camera che il conte di Cavour era il primo rivoluzionario, e il 27 di giugno 1860 così rispondeva al deputato Ferrari: «Quando l'onorevole Ferrari ci gridava: siate rivoluzionarii, io mi sentiva tentato di rispondergli: ma lo siamo tutti e il conte di Cavour pel primo (3)». La quale sentenza fu tosto approvata e confermata da Carlo Luigi Farini, che il 29 di giugno del 1860, ripigliò: t Io credo potersi affermare come diceva il mio onorevole amico, il deputato Minghetti, che qui siamo tutti, o quasi tutti rivoluzionarii (4)».

La prima cospirazione del conte di Cavour fu d'intrudersi destramente nel ministero (faufiler droitement) (5). Vincenzo Gioberti pronunziò che e nell'indirizzo politico dato dal conte Cavour alle cose piemontesi, mi par d'avvisare.... uno dei maggiori pericoli che sovrastino alla monarchia (6)». Lo stesso Gioberti chiamava il Cavour «pei sensi, gli istinti, le cognizioni quasi estranoda Italia, anglico nelle idee, gallico nella lingua».

La Gazzetta del Popolo lo derideva, dicendolo in italiano

(1) (Atti Ufficiali della Camera, n.40, pag.144, coL. 2°

(2) Atti Ufficiali detta Camera, n.43, pag.155, coL. 1«.

(3) Atti Ufficiali della Camera, n.108, pag.421, coL. 3«.

(4) Alti Ufficiali della Camera, n.112, pag.438, coL. 1.

(5)

Paolo Collet, Silhouette del conte di Cavour, pag.31.

(6) Rinnovamento civile d'Italia, VoL. 15, pag.22.

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Caburro, in inglese Keveur (1).

Sineo nella Camera dei Deputati accusò il conte di Cavour d'un tratto delitto, «n'ebbe un lei mente per sola risposta. Avigdor lo punse in altro modo, e sfidaronsi a duello amendue. Qualche giornale venne fuori coi Molini di Collegn, appuntandolo di fatti intorno a cui i nemici medesimi del conte di Cavour furono i primi a dichiararlo innocente. Una bella «era il popolo sovrano lo prese a fischi ed a sassate. A Tortona un poeta democratico, Eugenio Bianchi lo chiamò novello Nerone. E il deputato Boggio scrisse che il conte di Cavour dopo d'essersi servito degli amici gettava)! lungi da so come aranci spremuti.

Angelo Brofferio nel Diritto (2) pubblicò un appendice dove dipinse fra le altre virtù del conte Cavour la sua portentosa scienza economica, e Egli esordì, così Brofferio, spacciandosi grande finanziere, e promettendo ai Piemontesi il ristauro delle desolate finanze. Per rimetter sangue nelle vuote vene del pubblico erario, che cosa trovò egli di nuovo? Qual peregrina invenzione scaturì dal suo cervello? Per versar danaro nelle casse dello Stato egli studiò di pigliarlo nelle tasche dei contribuenti: tasse oggi, tasse domani, tasse dopo domani! Ecco la sua grande scoperta! ed era proprio il caso di dirgli, come taluno gli disse in Parlamento, che qualunque semplice mortale avrebbe saputo Aire altrettanto.

«Ma da questo sterminio di tributi, sotto il peso dei quali ha incurvato le spalle il povero Piemonte, ne risultò almeno la promessa ristaurazione?

«Il conte Cavour, in una ben nota relazione disse che le finanze erano quasi restaurate, manco male che Vera un quasi ma fatto sta che anche il guasterà di troppo, e che le rabbiose imposizioni cavouriane sono come erano ieri, e come immancabilmente, se non un po' peggio, saranno domani.

«E perché ciò? perché le imposte del signor Conte voglionsi dividere in tre classi: la prima contiene le imposte che si poterono mai eseguire, come, per esempio, quella delle gabelle esercitate dai muhicipii; la seconda entra nel novero di quelle che si eseguirono e non produssero mai altro che tormentose molestie, come l'imposta sulle successioni, colla tortura dei debiti ereditari: la terza e di quelle che si eseguiscono e producono, ma lasciano per via più che due terzi del prodotto nelle unghie degli esattori ed altri uccellacci di rapina della medesima specie. Tali sono le glorie finanziarie del conte di Cavour, che fu proclamato un economista senza pari, un finanziere per eccellenza, un nuovo Bastiat, un altro illustre Cobden!

Nel gennaio del 1862 il professore Domenico Berti pubblicava uno scritto intitolato Lettere inedite del conte di Cavour (3), e da questo leveremo t seguenti particolari. Il professore Berti esordisce con una raccolta d'epigrammi tolti dalle lettere o da' discorsi del conte di Cavour. Ecco il primo riferito colle parole del professore Berti: Mentre (il conte di Cavour) era al Congresso di Parigi, vennegli fatto dall'Imperatore il presente di un bellissimo vaso di porcellana di Sèvres: egli nel darne contezza al suo collega ministro sopra l'interno, aggiunge - Se X Io sa (ed era questi un deputato), povero me,

(1)

Cassetta del Popolo, n.130 del 14 novembre 1848.

(2)

No 249,18 ottobre 1856.

(3) Rivista contemporanea, gennaio 1864, fascicolo XGVIH.

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mi accuserà d'aver venduto l'Italia». Cotesto poteva eeaere un'epigramma nel 1856, ma dopo la cessione della Savoia e della Contea di Nizza non lo pare più!

Ecco un altro epigramma del conte di Cavour raccolto in sull'esordio dal professore Berti: «Dopo la presa di Sebastopoli esortava il suo collega a far cani tare il Te Dum se non altro per aver il piacere di far fare delle brutte smorfie a' nostri canonici» (Rivisita pag.4). Ognun vede quanto sale ci fosse in queste parole, quanta bontà, quanta religione, quanto rispetto per la Chiesa e pe' sacerdoti! Almeno sappiamo, perché talvolta i ministri usano alle chiese e chiedono la funzioni religiose!

Raccoglieremo un terzo epigramma, che servirà d'indovinello ai nostri lettori. Il conte di Cavour annunziava; «Scrivo una lettera studiatamente impertinente ad un nostro collega, per non avergli a dire in faccia: andatevene, siete incapace di fare il ministro» e la scriveva, soggiunge il professore Berti, senza frapporre indugio e scuse, e senza moderare la frase. Ai rimproveri che gli venivano d'altro suo collega su di ciò rispondeva: «Ho caricato un po' troppo, me ne duole, gli riscriverò, non per ritenerlo, ma per placarlo» (Rivista, pag.7). Ora indovinino i nostri lettori chi fosse questo ministro, che venne cosi gentilmente espulso dal ministero! Noi crediamo d'averlo indovinato. Il Berti nota ohe sono cinquanta e più i colleghi, che entrati con lui (Cavour) al ministero, o da lui si congedarono, o furono congedati (Rivista, p. 8).

Celebrata la vena epigrammatica del conte di Cavour, il Berti passa a raccontare i tratti del suo coraggio: «Un giorno nella Camera, quando ancora non aveva acquistato quella supremazia, per cui comandava il silenzio agli amici ed agli avversarii, le tribune lo interruppero coi fischi. Quanto a me i fischi non mi muovono punto: io li disprezzo altamente, e proseguo senza darmene cura, lo ho ascoltato religiosamente il deputato Brofferio, quantunque non professi le sue dottrine; ora ringrazio, non le tribune, di cui e non mi curo, ma la Camera e la parte che mi siede a fronte della benigna e attenzione, che ha prestato alle mie risposte». Queste parole che servivano al conte di Cavour per disprezzare certi fischi delle tribune, serviranno per noi affine di giudicare egualmente certi applausi.

Un altro tratto di coraggio del conte di Cavour è questo: «Gli era venuta per lettera da Ginevra che la polizia di quella città avea denunziato al nostro console essersi in una congrega colà tenuta divisato il suo assassinio. Egli senza punto turbarsi scrive al suo amico: «Mi rido della notizia che mi vien t data, giacché se morissi sotto i colpi di uri sicario, morirei forse nel punto il più opportuno della mia carriera politica». E se la notizia è vera prova che l'assassinio del conte di Cavour non si divisava a Roma, ma a Ginevra, ed è una circostanza da tenersene conto.

Il professore Berti a pag.10 avverte che fin dal 1848 il conte Cavour scriveva contro la Giovine tolta, scriveva in francese e chiamava le sue dottrine les doctrines subversives de la Jeune Italie, ed aggiungeva non esservi in Italia qu'un très~petit nombre de personnes sérieusement disposée» a metterne in pratica gli esaltati principii. E chi avrebbe pensato che tra questo piccolissimo numero sarebbesi trovato di poi lo stesso conte di Cavour! Imperocché, quanto oggi vediamo avvenire in Italia è proprio alla lettera ciò che insegnava e divisava Giuseppe Mazzini.

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Siccome spesso il conte di Cavour parlava contro i clericali, così è utile sapere che cosa intendesse sotto questo nome. Cel dirà il professore Berti: - Un giorno che nella Camera l'avvocato Brofferio discorrendo contro la parte clericale, asseriva che non volevasi quella confondere colla Chiesa, rispondeva il conte di Cavour le seguenti parole: «Se il partito clericale consta di tutti i sacerdoti che sono racchiusi nei chiostri e frequentano le Sacrestie, dove e avremo noi da cercare quei pochi, quegli eletti che rappresentano quella morale cristiana, di cui ha così eloquentemente parlato l'onorevole oratore? Io veramente non saprei dove trovarli, a meno che egli volesse indicarci quei k pochi sacerdoti che disertati i templi ed abbandonati gli ufficii del pio ministero, credettero campo più opportuno per esercitare il loro nuovo apostolato i i circoli politici ed i convegni sulle piazze (Rumori ed agitazione a sinistra), o che egli volesse indicare come nuovi modelli di questo spirito evangelico, di questa carità cristiana quei pochi che seco lui associarono i loro sforzi per mantenere costantemente un centro di agitazione nella città di Torino (Bisbiglio alla sinistra). Se ciò fosse, io dichiarerei senza esitazione all'onorevole deputato Brofferio, che i miei amici politici ed io intendiamo ben altrimenti lo spirito di religione e di morale cristiana».

Le quali parole contraddette poi da altre parole e da molti fatti, noi vogliamo dedicate a quei pochi sacerdoti, che danno tanto scandalo in Italia, ed anche a colui che forse fu comperato a danari contanti dallo stesso conte di Cavour!

Giunto a questo punto il professore Berti viene a dirci che il conte di Cavour avea due avversari da combattere, il Papa e l'Austria. È la formola del Mazzini che dichiarava guerra al Papa ed all'Imperatore! 11 Cavour in un brano di lettera confidenziale diceva: «Se noi ei mettiamo in relazione diretta con Roma, t roviniamo da capo a fondo l'edificio politico che da otto anni duriamo tanta «fatica ad innalzare. Non è possibile il conservare là nostra influenza in Italia, «seveniamo a patti col Pontefice(1)». Ed in un'altra lettera soggiungeva: Se l'attuale nostra politica liberale italiana riuscisse pericolosa e sterile, in e allora il Re 'potrà, mutando ministri, avvicinarsi al Papa ed all'Austria, ma «fintantoché facciamo Memorandum e Note sul mal governo degli Stati del «Pontefice, non è possibile il negoziare con lui con probabilità di buon succcesso. Ed un giorno il conte di Cavour diceva, come attesta il professore Berti: «L'Austria è d'uopo combatterla così in Venezia ed in Milano, come in «Bologna ed in Roma (8)».

Le quali cose furono svolte dal conte di Cavour nel suo Memorandum alla Prussia ed all'Inghilterra in cui protestava che gli Italiani volevano combattere l'Austria, perché» aveva riconosciuto i diritti della Chiesa col Concordatole mostrava che la guerra divisata da lui e da' suoi era principalmente contro il Papa. Imperocché l'influenza austriaca in Roma non esisteva menomamente, e se qualche cosa poteva imputarsi al governo pontificio, era forse d'essere stato troppo arrendevole all'influenza francese. E questo basti per ora sul conto dì Cavour.

(1) Rivista contemporanea, pag.12.

(2) Rivista contemporanea, pag.13.

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IL TRATTATO DI TOLENTINO

(Dall'Armonia n.118,22 maggio 1856).

I plenipotenziari sardi, nella Nota verbale presentata il 27 di marzo 1856 ai ministri di Francia e d'Inghilterra, ricordarono il trattato di Tolentino del 1797, col quale le Legazioni Pontificie vennero tolte al Romano Pontefice, e incorporate alla Repubblica francese. L'Opinione ha il coraggio di lodare quel trattato, e di prenderlo come norma di diritto. Così certi italianissimi amano l'Italia, e intendono la giustizia!

Ma l'Opinione, senza avvedersene, ci ha reso un servizio somministrandoci l'occasione d'un utilissimo confronto. Noi discorreremo le ragioni, che indussero nel 1797 a togliere le Legazioni al Papa, e ci sarà manifesto, per quale motivo oggidì i rivoluzionari intendano allo stesso scopo.

La repubblica francese era nata dall'empietà, e nel Romano Pontefice non potea certamente trovare un amico. Il Direttorio pertanto scriveva a Bonaparte in Italia il 3 di febbraio del 1797, e che, riflettendo su tutti gli ostacoli, che si opponevano al consolidamento della Costituzione francese, pareagli che il culto romano fosse quello, di cui gli inimici della libertà potevano fare dopo lungo tempo l'usò più dannoso. La Religione Romana sarebbe sempre stata nemica irreconciliabile della repubblica. Il governo avrebbe cercato i mezzi di diminuirne insensibilmente l'influenza nell'interno; ma un punto essenziale, per giungere a questo scopo desiderato, sarebbe stato di distruggere, essendo possibile, il centro dell'unità romana. Spettare a lui di farlo, se lo giudicasse eseguibile. Invitarlo dunque a fare quanto potesse (senza compromettere la sicurezza dell'esercito, e senza accendere in Italia la fiaccola del fanatismo, invece di estìnguerla) per distruggere il governo papale. Si mettesse quindi Roma sotto di un'altra Potenza, o pure si stabilisse una forma d'interno regolamento, che rendesse dispregievole ed odioso il governo dei preti, di modo che il Papa ed il Sacro Collegio non potessero pia concepire la speranza di risiedere in quella città, e fossero costretti di andare in cerca d'un asilo in altro luogo». (Correspondance de Bonaparte, VoL. II, pag.518).

Ecco dunque il disegno del Direttorio: la repubblica è nemica del cattolicismo; il cattolicismo nemico della repubblica. Il Direttorio può spiantare la religione nell'interno della Francia, non all'estero. Per riuscire in quest'ultima impresa si dee combattere il governo del Papa; o cacciarlo da Roma, o togliergli il meglio del suo regno, impoverirlo, rendergli impossibile di ben governare, e così chiamare l'odio e il disprezzo sul governo dei preti.

Bonaparte colse nel segno e rispose il 15 di febbraio al Direttorio: «Accorderebbe la pace al Papa se cedeva le Legazioni e le Marche, pagava diciotto milioni di lire, scacciava Colli con tutti gli Austriaci, e consegnava le armi ed i cavalli dei reggimenti formati dopo l'armistizio... Roma poi non potendo sussistere per lungo tempo spogliata delle sue migliori provincie, avrebbe formato una rivoluzione da setola». (Correspondance de Bonaparte, VoL. Il, pag.540 a 543).

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Notate bene questa ragione scritta da Napoleone. Egli credeva che, tolte le Legazioni al Papa, sarebbe stata inevitabile una rivoluzione. Il progetto della famosa nota verbale tende allo stesso scopo; toglie al governo legittimo le sue migliori provincie, le costituisce in un'amministrazione affatto separata, e si consola col pensiero, che Roma formerà così una rivoluzione da se sola.

Mentre tali cose rivolgeva in mente il Bonaparte, gli giunge l'avviso che l'arciduca Carlo è a Trieste, e gli Austriaci accorrono da ogni parte a rinforzare Tarmata d'Italia. Allora egli modifica il suo disegno primitivo, cessa dal chiedere le Marche, e scrive a Joubert, che comandava nella Valle dell'Adige, essere a tre giornate da Roma, trattare però co' pretazzuoli; il Santo Padre avrebbe per allora salvato la sua capitale cedendo i suoi migliori Stati e danaro. Fra pochi giorni ritornerebbe all'esercito, dove stimava necessaria la sua presenza». (Corresp., loc. cit., pag.544).

E Napoleone addì 19 di febbraio 4707 dettava ai plenipotenziarii del Pipa il trattato di Tolentino, il cui articolo 7° dicea: «11 Papa rinuncia in perpetuo, cede, e trasferisce alla repubblica francese tutti i suoi diritti sui tenitori conosciuti sotto il nome di Legazioni dì Bologna, di Ferrara e di Romagna: non sarà però fatto nessun pregiudizio alla religione cattolica nelle suddette Legazioni».

Da quest'articolo l'Opinione ne argomenta la legittimità dell'atto, e la regola del diritto, come chi scrivesse un codice sotto il pugnale del masnadiero. Ma il dabben giornale non è andato innanzi nella storia di quei tempi, e si fermò al 19 di febbraio 1797. Se, continuando, avesse letto fino al 0 di dicembre 1798, v'avrebbe trovato un documento di Carlo Emannele IV, che dice così: S. Mdéclare renoncer à l'exercice de tout pouvoir, et avant tout elle ordònne à tous ses sujets, quels qu'ils puissent être, d'obéir au gouvernement provisoir, qui va ère etabli par le general français.

L'Opinione ed i plenipotenziarii sardi, che invocano l'epoca del trattato di Tolentino, e vogliono ritornarci a quei tempi, non riflettono, che insieme col Papa venne spogliata pure Gasa Savoia, e col medesimo diritto. E la difesa ohe essi stampano d'un atto, si estende di necessità anche all'altro.

Il portavoce del ministero spinge la sua semplicità fino a riferire il brano di una lettera, che Bonaparte scrisse al Direttorio il 4° ventoso, anno V, immediatamente dopo la sottoscrizione del trattato. Ecco le parole citate dall'Opinione.» lo credo che Roma, privata che sia una volta di Bologna, Ferrara e della Romagna, e di trenta milioni, che noi le caviamo, non possa più esistere: questa vecchia macchina si scomporrà da se stessa». L'Opinione non ha creduto di estendere di più la citazione; ma in questa medesima lettera avrà letto che Bonaparte dice ancora al Direttorio: «Clarke, che è appena partite, portasi a Torino per eseguire i vostri comandi...»». Colla spogliazione del Papa va di conserva la spogliazione di Casa Savoia]

Le parole di Napoleone al Direttorio ben chiariscono l'idea di chi vuoi togliere le Legazioni al Papa.» Questo progetto non può avere di mira, in politica, ohe la totale esautorazione del Pontefice da ogni governo temporale; ed in religione, che la distruzione finale del cattolicismo. Sono due punti che appariscono evidentemente dai brani detto corrispondenze che ci vennero citati.

Ma l'Opinione va più innanzi, e per difendere il trattato di Tolentino invoca

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l'autorità del Cardinale Chiaramonti, che fa poi Pio VII, il quale, allora Vescovo d'Imola, in occasione delle feste di Natale del 1799 non solo giustificò questa cessione, ma fece persino l'apologia del reggime democratico, anzi repubblicano, introdotto nei paesi ceduti dalla S. Sede.

L'Opinione sbaglia la data. L'omelia che venne attribuita al Chiaramonti, è intitolata: Omelia del cittadino Cardinale Chiaramonti, Vescovo d'Imola, nel giorno del S$ Natale, l'anno 1797. Mentre il giornale torinese invoca quest'omelia in difesa del governo democratico, bisogna sapere che altri l'hanno già invocata per aizzare i Francesi contro i Cardinali, spargendo voce che in quest'orazione i Francesi erano chiamati lupi divoratori e cani sanguinavi!

Quest'omelia non venne interamente scritta dal Chiaramonti. L'Opinione, che cita la Storia di Pio VII dèi cavaliere Artaud, non avrebbe dovuto omettere le seguenti parole relative, all'omelia: È evidente che il Cardinale Chiaramonti ne ha comporto una parte, ma è pur certo che alcuni passi del tutto inutili vi furono intrusi».

Inoltre il testo medesimo dell'omelia venne ancora corrotto colla traduzione francese, che ne fé' Grégoire, il quale corresse, tagliò, variò col pretesto di evitare i pleonasmi italiani. J Opinione avrà potuto leggerlo nel l'Artaud.

Finalmente ammettiamo che la cosa sia come disse l'Opinione. A chi si dovrà credere per ben conoscere la disciplina della Chiesa? Al Chiaramonti, Cardinale, o a Pio VII, Papa? Pio VII Papa ha dichiarato e mostrato co' fatti, co' patimenti e col martirio, che egli non potea cedere un palmo solo di quel terreno dove comandava.

L'atto finale del Congresso di Vienna, art.103, dichiarava che la S. Sede t rientrerebbe in, possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara, tolta la parte del ferrarese esistente sulla riva sinistra del Po. L'imperatore d'Austria però ed i suoi successori avessero il diritto di presidio nelle piazze di Ferrara e di Comacchio». Il Cardinale Consalvi, plenipotenziario Pontificio al Congresso, con nota del 14 di giugno, indirizzata ai ministri che avevano sottoscritto il trattato di Vienna, dichiarò di trovarsi nella necessità di guarentire i diritti imprescrittibili della S. Sede col protestare contro la dismembrazione del patrimonio della medesima, della provincia d'Avignone, del contado Venesino e della porzione del Ferrarese, esistente sulla riva sinistra del Po, non che contro il diritto di presidio dato all'Austria nelle piazze di Ferrara e di Comacchio». (Vedi Allocutio Pii VII, habita in Concistorio dici 4 sept.1815; e Schoell, Congrès de Vienne, tona. V, pag.347356).

Tornando del resto al trattato di Tolentino, noi non ci saremmo aspettati mai di udirlo lodare da ministri e da penne italiane. Fu quello il più grave insulto ti due colti che onorane l'Italia: il culto della religione e delle arti. Esso tolse al Papa i suoi domini, ed alla Penisola le sue glorie ed i suoi tesori. La Biblioteca Vaticana fu svaligiata, e perdette la Bibbia greca e il Dione Cassio del quinto secolo, il Virgilio del sesto, il Terenzio dell'ottavo. La Trasfigurazione di Rafaello, il S. Gerolamo del Domenichino, l'Apolline e il Laocoonte andarono ad arricchire Parigi. Promuovete, o signori italianissimi, le idee del secolo passato, chiamate voi pure gli stranieri in Italia, ed in nome del risorgimento noi morremo del tutto. Se questa terra infelice gode ancora un po' di fama, è perone qui sta la sede del papato.

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Fate che Pio IX parta da Roma, e nessuno più penserà a noi, se non per spogliarci, o per deriderci, o per compatirci.

LE LEGAZIONI E IL PIEMONTE

NEL 1849 E NEL 1856.

(Dall'Armonia o.121,27 maggio 1856).

Io sul cominciare del 1849, governando in Piemonte il ministero democratico con Buffa, Rattazzi e Vincenzo Gioberti presidente, gli italianissimi Subalpini offerivano al Papa, esule in Gaeta, aiuto, mediazioni, soldati e cose simili. A tale uopo spedivano presso Pio IX il conte Enrico Martini, ohe oggidì è uscito dalla diplomazia e dalla politica, e si è molto sensatamente riabbracciato coll'Austria. In quel ' tempo taluno dei rappresentanti delle Potenze cattoliche presso il Papa ebbe a ricordare il timeo Danaos et dona ferente di Virgilio, e pare che il principe di Cariati, che stava in Francia, giungesse perfino ad accusare i democratici del Piemonte di voler togliere al Papa le Legazioni, mentre faceano vista di portargli soccorso.

Ecco come racconta la cosa Carlo Luigi Farini: «La Corte di Napoli poneva opera solerte a risvegliar i sospetti, «d accrescere i timori nell'animo suo (del Papa), e faceva diligenza per dare ad intendere che tutte le profferte del Piemonte velavano il disegno d'impadronirsi di gran parte dello Stato della Chiesa. I ministri napoletani affermavano averne le prove, e lo stesso principe di Canaline spargeva la notizia, e ne facea testimonianza non pare in Napoli ed in Gaeta, ma in Francia».

A que' dì trovavasi in Napoli ministro pel Piemonte il senatore Plezza, più tardi console dei Carabinieri italiani; e il governo partenopeo lo tenea a bada, e non pe avea ancora voluto riconoscere il grado e la qualità. Quando venne agli orecchi del ministero democratico in Torino l'accusa del principe di Cariati, volle tosto richiamato da Napoli il senatore Plezza, e spedì i passaporti all'inviato napoletano, che risiedeva in Torino, interrompendo ogni uffizio diplomatico.

i Questa nostra deliberazione (scriveva il Gioberti, ministro degli affari esteri) fu cagionata non solo dal rifiuto arbitrario, che il gabinetto di Napoli fece di accettare il sig. Plezza, non allegandone alcuna ragione valevole (essendone state smentite quelle, di cui aveva fatto menzione), e i poco garbati trattamenti recati al medesimo, ma più ancora l'indegna calunnia spacciata in Francia dal principe di Cariati, colla quale ci attribuiva l'offerta di togliere al Papa le Legazioni.

«Spero, continuava scrivendo il Gioberti, che il sospetto di tasta infamia non anniderà per un solo istante nell'animo del Pontefice. Essa dovrebbe bensì giovare a mostrargli qual sia il carattere del gabinetto che l'ha inventata. L'animo candido e leale di Pio IX può essere illuso dalle moine di certi personaggi, i quali fanno i mistici in Gaeta, e si burlano in Napoli della religione e del Capo angusto che la rappresenta. Ella procuri di mettere nel Papa la fiducia nel Piemonte».

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Perché non venga il Risorgimento a chiederci l'originale di questa lettera, affrettiamoci a dire che noi abbiamo trascritto le citate parole da un libro che merita tutta la sua confidenza, ed è io Stato Romano dall'anno 1815 al 1850 per Carlo Luigi Farini; Firenze, Felice Le Monnier 1851, volume III, capo X; Accuse contro il Piemonte, pag.190,191.

Or bene nel 1849 voler togliere le Legazioni al Papa era un'infamia. Tale la dichiarava il ministero democratico, cioè Gioberti, Rattazzi, Buffe e compagni, i quali erano nonostante combattuti dal conte di Cavour come empi e demagoghi. Questo pensiero non s'era mai allacciato alla mente de' ministri subalpini, e chi ne li accusava, rendeva»' reo d'indegna calunnia. Il governo piemontese prenderai tanto a cuore quell'accusa, che spediva i suoi passaporti all'inviato di Napoli.

Siamo nel 1856, e che cosa veggiamo? Veggiamo tanta infamia, non che pensata dai ministri piemontesi, da essi promossa con una Nota verbale indirizzata ai rappresentanti di Francia e d'Inghilterra, dove, proponendosi per le Legazioni un governo pienamente separato dal Pontificio, e nel Papa un semplice dominio di parole, si riesce all'offerta di togliere al Papa le Legazioni.

Questo fatto ba molta gravita in quanto dimostra che il conto di Cavour, dopo il connubio coi democratici, li ha sorpassati nelle loro idee rivoluzionarie, ed osa dare opera ad un progetto, che i democratici medesimi riputavano infame, Ed inoltre da ragione al governo pontificio d'aver fatto divorzio nel 1849 dal nostro; imperocché se ba la baldanza presentemente di intromettersi nelle faccende romane, e proporre la frazionò del regno, che cosa non avrebbe fatto, se v'avesse tenuto guarnigione, o qualche titolo gli desse diritto d'intervenirvi?

Il governo di Napoli può cantare vittoria, e mostrare la sua sagacia con in mano la nota del 27 di aprile. Esso ba ben donde recarsi al Papa, e dirgli: «Beatissimo Padre, nel 1849 il conte Martini pretendeva, che noi avessimo indegnamente calunniato il Piemonte ch'egli rappresentava, allorquando dicevamo che intendeva di togliervi le Legazioni. Vedete oggidì se era calunnia la nostra! Questa nota parla assai chiaro, e vi dice, che le Legazioni fanno gola ai rivoluzionari subalpini; e, oltre la Nota, vi sono le parole del conte di Cavour, riferite dal Nord, secondo le quali si pretende, a suo tempo, d'incorporare al Piemonte le Legazioni tolte al legittimo dominio di Vostra Santità».

Ma ci pare, che le Potenze europee dovrebbero anche trar profitto da simili ravvicinamentì, persuadendosi che la rivoluzione, non che essere cessata tra noi, progredisce, e il conte di Cavour, o da senno o da burla, è il primo a darle di spalla. Di fatto la schiuma della demagogia è col Presidente del nostro ministero, e la Maga di Genova, che, pochi giorni fa, metteva tutte le sue speranze nella Marittima, idolo del suo onore, ora ne ripone anche una parte nel conte di Cavour, e dichiara senza ambagi, che questo suo progetto, di separare da Rana le Legazioni, è la prima opera buona ch'egli abbia fatto.

Donde ci pare lecito inferire, o che realmente fin dal 184$ i democratici del Piemonte divisavano di togliere al Papa le Legazioni, e in questo caso erano ipocrite e menzognere le dichiarazioni contrarie, e serissime sagaci le accuse e

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le avvertenze di Napoli; ovvero, che nel 1856 il ministero piemontese ha progredito d'assai, e, presieduto dal conte di Cavour, attende a fare quello che non ardiva sotto la presidenza di Vincenzo Gioberti, riputandolo un'infamia. Io quest'ultima supposizione dovremo conchiudere, ohe i moderati sono ancora peggiori dei democratici.

RESTITUZIONI DELLE LEGAZIONI

(Dall'Armonia, n.122,28 maggio 1856).

Nella famosa Nota verbale rimessa dai plenipotenziarii sardi ai ministri di Francia e d'Inghilterra il 27 di marzo 1856, ai leggono le seguenti parole: «Nel Congresso di Vienna si esitò per lungo tempo a rimettere le Legazioni sotto il governo del Papa. Gli uomini di stato, che vi sedevano, quantunque preoccupati dal pensiero di ristabilire dappertutto l'antico ordine di cose, s'accorgevano nondimeno, che si lascierebbe di questa guisa un focolare di disordini nel mezzo d'Italia. La difficoltà nella scelta del Sovrano da darà a queste provincie, e le rivalità che insorsero pel loro possesso, fecero traboccare la bilancia in favore dei Papa, e il Cardinale Consalvi ottenne, ma solo dopo la battaglia di Waterloo, questa non isperata concessione».

Qui il conte di Cavour, autore principale della Nota, accenna un fatto, cioè, che le Legazioni vennero restituite al solo legittimo dominio del Romano Pontefice dopo la battaglia di Waterloo. Donde di due cose l'una; o ohe la battaglia di Waterloo avvenne dopo il Congresso di Vienna, oppure che nell'atto del Congresso di Vienna non furono restituite al Papa le Legazioni. Ricerchiamo nella storia le date, e veggiamo fin dove arrivi la scienza del conte di Cavour.

Le battaglia di Waterloo, lo sanno perfino i bimbi, avvenne il 18 di giugno 1815. In quel giorno Iddio Onnipotente vendicava il Romano Pontefice dei sofferti dolori. Napoleone in fuga attraverso morti e morenti portava a Parigi la nuova della propria disfatta, esclamando: io non posso rimettermi: ho disgustato i popoli. Stolto! Dovea esclamare: io non posso rimettermi: ho tormentato un Pontefice; ho disgustato Iddio. La Corona pontificia è la sola, di cui a buon diritto può dirsi: guai a chi la tocca.

È egualmente celebre e nota a tutti la data dell'Atto del Congresso di Vienna. Esso fu segnato il giorno 9 di giugno del 1815, vale a dire nove giorni prima della battaglia di Waterloo. Laonde, se noi proveremo, che nel Congresso di Vienna furono restituite le Legazioni al Papa, sarà manifesto, che il conte di Cavour ha preso nella sua Nota verbale uno scappuccio storico solennissimo.

Apriamo dunque il trattato. Cesare Cantò lo pubblicò nel VoL. XIX della sua Storia Universale tra gli Schiarimenti ai libro XVIII, L'articolo 103, primo alinea, dice: «La Santa Sede rientrerà in possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara». Dunque fin dal 9 di giugno le Legazioni erano già state restituite al Papa.

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La battaglia di Waterloo non avvenne che nove giorni dopo cioè al 18 di giugno. Come pertanto poté dire il come di Cavour, che le Legazioni non furono restituite al Papa, che dopo la battaglia di Waterloo?

Il poverino adunque, o non conosce, o travisa la storia, e la storia contemporanea. Noi amiamo meglio attenerci alla prima parte, e accusarlo piuttosto d'ignoranza, che di malizia. Ma l'accusa è sempre grave, imperocché trattasi d'un ministro degli affari esteri, che presenta una nota diplomatica; e intanto mentre parla del Congresso di Vienna e della battaglia di Waterloo, non sa che questa fu posteriore a quello.

L'anacronismo è tanto più colpevole, in quanto che il conte di Cavour si appoggiò molto su questa inversione di date. Egli, parlando al ministro del nipote di Napoleone III, gli volle far capire, che si tentennò nel restituire al Papa le Legazioni, finché lo zio non era ancora pienamente caduto, e vi venne a questa determinazione allora soltanto, che la sua causa fu intieramente perduta a Waterloo.

Questa astuta allusione non ha altro appoggio, che una superlativa ignoranza storica, giacché i libri c'insegnano come il Congresso di Vienna avesse già compiuto un atto solenne di giustizia, quando Napoleone I poteva ancora ritornare in campo, come di fatto vi ritorno.

Sia veto che nel Congresso di Vienna taluno non volea che venissero restituite al Papa le Legazioni: ma il conto di Cavour avrebbe dovuto aggiungere che la Francia principalmente si adoperò, affinché non. fosse commessa tanta ingiustizia.

Ecco come un diplomatico racconta la cosa: La Francia, colla sua raccomandazione, contribuì a fargli rendere (al Papa) le tre Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna, nelle quali la Prussia avea da principio proposto di trasferire il re di Ssssonia». (Histoire du Congrès de Vienne pur l'auteur de l'histoire de la diplomat. française, tom. Il, Par»,1819, pag.119).

Il Cardinale Consalvi avea messo in sodo i diritti del Pontefice. Nella sua Nota, indirizzata nell'agosto del 1814 alle Corti di Parigi, di Londra e di Vienna sollecitava la reintegrazione di Sua Santità in tutti i suoi possessi: non per motivi temporali, ma per l'osservanza dei prestati giuramenti, fatti dal Sovrano Pontefice al momento della sua esaltazione, giuramenti, secondo i quali egli non potea nulla alienare dei domini della Chiesa, di cui non era che usufruttuario».

E siccome anche a que' di s'invocava, come a' giorni nostri, il trattato di Tolentino, così in un'altra Nota del 30 di ottobre dicea molto assennatamente il Cardinale Consalvi: «Che un assalto non provocato contro uno Stato debole, e che avea proclamato la sua neutralità, non potea venir chiamato guerra, e che un trattato, conseguenza di un simile assalto, era essenzialmente nullo, e come non avvenuto! (Vedi l'opera succit., pag.118).

Se quindi nel Congresso di Vienna si esitò alcun poco nel restituire al Papa il fatto suo, si fu perché anche in quell'assemblea parlavano le tristissime passioni della cupidigia e dell'ambizione; e se in ultimo si udirono le ragioni del legittimo proprietario, non ci poté entrare per nulla la battaglia di Waterloo,

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che già era avvenuta conchiuso il Congresso, e sottoscritto l'atto famoso.

Converrebbe cercar modo da sanare questo granchio preso dal coste di Cavour. Noi ne lasciamo il pensiero all'Opinione ed al Risorgimento. Imperocché ne scapita di troppo la fama del nostro plenipotenziario, e perdono assai di peso i suoi progetti. Se negli esami di magistero, che si danno nella nostra Università, un giovanotto di primo pelo vi mette il Congresso di Vienna posteriore alla battaglia di Waterloo, i professori lo rimandano indietro, e non l'ammettono ai corsi universitari. E che cosa sarà d'un ministro degli affari esteri, che vuole riordinare l'Italia, e poi cade in errori così marchiani?

Il povero conte di Cavour nelle discussioni del Congresso di Parigi avea attribuito all'Austria l'intervento in Napoli nel 1821, il ministro austriaco l'insegnò che quell'intervento non era solo opera dell'Austria, ma delle cinque grandi Potenze radunate nel Congresso di Laybach. Alla quale osservazione egli arrossì, e non seppe che cosa ridire.

Ora egli dovrebbe egualmente vergognarsi di avere in una nota verbale messoli Congresso di Vienna posteriore atta battaglia di Waterloo. Francia ed Inghilterra gli avranno riso al naso: «se gli rendessero risposta, per lo meno dovrebbero dirgli: andate prima a studiare per un anno sotto il signor Ercole Ricotti, professore di storia nell'Università di Torino, e poi verrete nel Congresso di Parigi a riordinare il governo Pontificio.

Coloro che in questi ultimi tempi scrissero in Piemonte alcuna cosa contro il Papa, furono condannati a dire i pia strani spropositi in fatto dì storia. Eccovi Nuytz professore di diritto canonico, che confonde l'abate Fleury col cardinale Fleury, Eugenio III con Eugenio IV, il Concilio di Costanza celebrato nel secolo XV con S. Bernardo morto nel secolo XII, e ci da gli articoli organici come approvati dal Papa,, e mette Bonifacio VIII contrario a S. Bernardo in quelle parole che sono di San Bernardo medesimo. Eccovi p. C. Boggio, che, scrivendo contro il Romano Pontefice la storia Piemontese, fa tornare Carlo Emanuele IV alla reggia natta dopo Waterloo; mentre il Re Sardo avea abdicato lo scettro fino dal 1802, e gli era succeduto Vittorio Emanuele. Eccovi finalmente il conte di Cavour, che fa dare al Papale Legazioni dopo Waterloo, mentre già prima gliele avea restituite il Congresso di Vienna.

La diversità delle opinioni, l'audacia e la temerità della politica, si scusa colla diversità dei partiti; ma quale scusa ritrovare all'ignoranza dei primi elementi della storia in persone che stanno in sul mille, «pretendono di dar lezione all'universo?

Del resto il conte di Cavour, discorrendo del Congresso di Vienna, affermò, che le Potenze tentennarono nel rendere le Legazioni alla S. Sede, avendo ben capito, che queste sarebbero un focolare di turbolenze acceso nel bel mezzo del? Italia.

Qui noi lascieremo l'incarico della risposta al Giornale di Francoforte che si esprime in questa sentenza: «le Potenze rappresentate al Congresso di Vienna non erano di certo istrutte dei disegni dei Carbonari, i veri autori delle sommosse, tanto nelle Legazioni, quanto a Napoli ed a Torino. Il conte Cavour, che ebbe le mani nella prima rivoluzione Piemontese, conosce certamente meglio quei disegni,

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e sa che quella società segreta area eletto le Legazioni a principale campo della sua operatila. Chi ciò sapeva, poteva antivedere, che le Legazioni sarebbero fatte do covo di turbolenze; ma nol poteano sapere le Potenze, che non conoscono se non le manifestazioni di gioia, con cui si salutò nelle Legazioni la caduta della dominazione francese, ed il ritorno di Pio VIII.

IL CONGRESSO DI PARIGI

E

LE SOCIETÀ SEGRETE

(Dall'Armonia, n.123,29 maggio 1856)

Il lavoro delle società segrete continua principalmente in Francia. Ad ogni onesto qualche giornale ne parla. Ora sono arresti di persone, che diedero nome alle società; ora scoperte di documenti terribili, che dimostrano il loro scopo, e di giuramenti, che legano gli affiliati. Eppure non n sa il centesimo di quanto avviene nella oscurità delle congiure! Imperocché e le società secrete e il governo francese s'accordano nel desiderare il silenzio. Lo desiderano le prime perché odiano la luce, e hanno bisogno delle tenebre, come del loro elemento essenziale per vivere. Lo desidera il secondo, perché non iscemi il concetto nella sua fortezza, e perché la notizia del male non riesca ad aggravarlo. Ma il segreto è piuttosto un aiuto, che un rimedio; e serve perché s'addormentino e popoli e governi.

Però il silenzio fu rotto nel Congresso di Parigi dal conte Walewsky, il quale, nella tornato dell'8 di aprile, fortemente rimproverava il Belgio, perché i suoi giornali hanno osato di preconizzare la società dita te Marianna, di cui sono note le tenderne e lo scopo. Nella medesima tornata il plenipotenziario francese criticava il governo pontificio, come che lo facesse con gran riserbo, e dopo di avere dichiarato, che l'imperatore dei Francesi pregiatasi del titolo di figlio primogenito della Chiesa.

Il Congresso di Parigi fu chioso. Ma in sostanza ohe cosa fece contro le società segrete? Nulla. Soltanto ne parlò, e questo servì per rendere più colpevole chi non ha fatto nulla. Un perfetto silenzio avrebbe lasciato supporre o disprezzo o ignoranza del male; supposizione, che ora non è più possibile. Si conobbe il pericolo, si dichiarò, e non vi si appose riparo, o per difetto di coraggio, o per qualsiasi altro motivo. Ansi ci duole di dover dire di più: nel Congresso di Parigi si fé qualche cosa, non contro, ma in favore delle società segrete, e la tornata dell'8 di aprile ba fatto ridere anche i figli della Marianna e della Militante.

Questo almeno apparve manifesto, che né l'usa, né l'altra si vollero schiantare dall'Europa. Imperocché, se Francia avesse proprio voluto farla finita una volta, ad esempio, colla Marianna, qual dovea essere il compito suo? Ricercare per priora cosa dove fosse stabilita. Ci vuol altro che scatenarsi contro i giornali del Belgio, ohe la preconizzano!

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Bisogna prendersela contro que' governi che le danno asilo, ohe l'accarezzano, che forse la promuovono; contro que' governi, che scendono quasi a patto con lei, e le dicono: Salvami, e ti do licenza di rovinare liberamente gli altri.

Ora, dove ha sede la Marianna? Lascieremo parlare un giornale, che è forse il più competente a risponderci, e questo è l'Homme. Il quale, parlando del Congresso di Parigi, scrive: «È un grande onore per la Marianna l'essere stata menzionata in un sì augusto cenacolo. Vuol dire che si teme; e se si teme, dunque è una potenza, ma grande potenza! Ma perché attribuirne la colpa al povero Belgio, che adopera a tutta sua possa le forbici, e non accusare piuttosto l'Inghilterra, dove là Marianna tiene un centro di propagande ben pia formidabili?»

L'Homme, osserva un giornale conservatore, sotto questo rispetto ha compietà ragione. Se non fosse l'impunita, diche la propaganda rivoluzionaria gode in Inghilterra, la propaganda sua, assai pio mite nel Belgio, non esisterebbe, come l'effetto non «siste, quando è tolta la causa.

È in Londra il cuore della rivoluzione, lo spirito delle società segrete. Si rifletta seriamente so questa corrispondenza della Gazzetta Universale: «Il comitato centrate della Marianna risiede in Londra, sotto il nome di Comune rivoluzionario. Sua cura è, che in ogni spartimento della Francia, s'istituiscano comitati figli, sotto nomi diversi. Questi però non si conoscono reciprocamente sono in relazione diretta soltanto col comitato centrale. Se venisse a scoppiare una rivoluzione, questi comitati debbono costituirsi come altrettante convenzioni dipartimentali rivoluzionarie, che avranno la direzione suprema della rivoluzione, e dovranno prestarsi assolutamente agli ordini del comitato residente in Parigi. Ogni comitato figlio deve mandare ogni mese al comitato residente in Londra una relazione sopra certi fatti e particolarità, e uno stato del numero delle truppe, de' gendarmi, de' depositi d'armi, delle casse pubbliche, informazioni sui presunti nemici della rivoluzione, ecc.».

Non è l'Austria, non Napoli, non lo Stato Pontificio, il focolare delta rivoluzione europea. Londra l'accoglie, e le lune rosse, per adoperare una frase del Mamiani, che s'aggirano intorno al sole di Londra, sono quelle che la soccorrono. Nel Belgio, come già disse il conte Walewsky, i giornali preconizzano la Marianna; ed in Piemonte la Maga esclama: «La signora Marianna è la preferita, la signora Marianna è l'idolo del nostro cuore.....non abbiamo altra speranza, che nella signora Marianna........non possiamo aver fede che nella signora Marianna.......non possiamo far altro che raccomandarci alla signora......Marianna». (Maga, N° 56 dell'8 di maggio).

Dicevamo che il Congresso, di Parigi, ben lungi dal fare qualche cosa contro le società segrete, le ha involontariamente soccorse; e questo si dimostra per due capi: 1° perché non ebbe il coraggio di affrontarle e snidarle dal luogo dove hanno la loro sede naturale, occupandosi invece di bazzecole che nulla o quasi nulla influiscono sulla Pace del mondo; 2° perché co' suoi progetti e coi suoi discorsi le palpò cortigianescamente spianando la strada all'esecuzione dei loro progetti.

Udite ancora la Maga: «Quando leggiamo i protocolli del Congresso di Parigi, e vediamo ohe cosa significhi civiltà occidentale, nazionalità ed indipendenza;

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quando vediamo che i pasticci di quattro diplomatici plenipotenziari hanno forza di legare per le mani e pei piedi cinquecento milioni d'uomini; che a Parigi si è disputato delle ore per un palmo di terreno di pia o di meno ad Ismail od a Jatka, e si è passato all'ordine del giorno sulla questione italiana, noi non possiamo far altro, che raccomandarci alla signora Marianna».

Questo pensiero è capace d'una giusta interpretazione, e direbbe certamente il vero chi dicesse: quando vediamo che nel Congresso di Parigi non si fecero che ciance, e non si stabili un grande e solenne principio, e non si osò ansare di fronte colla rivoluzione, e si spese un tempo preziosissimo in formole insignificanti, in cerimonie ridicole, nella penna dell'aquila viva, nelle serate, nei pranzi, nelle conversazioni; noi tremiamo pei governi, per gli imperii, e la Marianna ci spaventa I

Ma taluni si valsero del Congresso di Parigi per declamare contro del Papa; e questo fa un soccorso recalo alle società segrete.1 giornali ci diedero poco fa il programma della Marianna, e il quinto capitolo diceva: La Chiesa, questa tiranna dell'umanità, sarà abolita, e tutti i sacerdoti del paese saranno espulsi». Ora esaminate tutti gli altri programmi libertini, e vedrete che collimano a questo scopo. Il conte di Cavour che cosa disse in sostanza nella sua nota verbale? Egli volle secolarizzare il governo pontificio. E che differenza ci passa tra secolarizzare il governo, ed espellere i sacerdoti? Non v'è che una semplice differenza di nome. Cavour moderato vuole espellere i sacerdoti dalle Legazioni i gli altri vorrebbero espellerli da tutto il mondo. Ammettiamo che il primo abborra dai mezzi de' secondi: ma lo scopo finale è il medesimo; e raggiunto in una parte dello Stato Pontificio, si cercherà di raggiungerlo anche nelle altre parti e negli altri Stati.

Il Congresso di Parigi (ebbe torto nel somministrare materia all'Inghilterra e al Piemonte, di declamare contro del Papa. Con ciò, noi lo diremo francamente, non fé che aiutare la Marianna. Questa è l'ultima conclusione delle idee moderne. Se poteste leggerle nel cuore, ben la vedreste ridere per ciò che s'è fatto. Ride quando vede i governi discordi tra loro; ride vedendo Napoli odiare i Gesuiti, e accarezzare Tanucci; ride se sente divinizzati i principii dell'89, e proclamata l'indipendenza e la tolleranza nel senso libertino.1 gabinetti fino al giorno d'oggi hanno fatto più in favore che contro le società set grate. Il vero e unico nemico di queste è la Chiesa, che le ha fulminate, epperò la dichiarano nemica dall'umanità, e ne giurano l'esterminio.

Non è da ieri che la Chiesa disse solennemente ai principi, ciò che il conte Walewsky proclamò nel Congresso di Parigi. Clemente XII, Benedetto XIV, Pio VII, Leone XII, da buona pezza li avvertirono e scongiurarono di tenersi in guardia contro le società segrete.

«Con ardentissima istanza, dicea l'ultimo Pontefice, domandiamo anche il vostro appoggio,, o cattolici Principi, dilettissimi nostri figli in Cristo, che noi amiamo con singolare e veramente paterno amore. Vi rammentiamo perciò le parole adoperate da Leone Magno, sì quale siamo succeduti in questa dignità, e di cui abbiamo indegnamente ereditato il nome, in una sua lettera all'inoperatore Leone. Dovete con ogni sollecitudine avvertire come la reale podestà vi fu conferita non solo per governare il mondo, ma anche e principalmente per tutelare la Chiesa,

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affinché, repressi gli attentali degli empi, difendiate le buone istituzioni, è ristabiliate la pace là, dove fu turata. Sebbene tanto critica è attualmente la condizione delle cose, che, non solo per difendere la religione cattolica, ma anche per tutelare la incolumità vostra e dei popoli al vostro dominio soggetti, voi dovete reprimere coteste sètte».

È fin dal 12 di marzo del 1885, che Leone XII dava a' governi questi ammonimenti, e coloro che li disprezzarono» sono oggidì vittima delle società segrete; mentre gli altri che restano, pretendono di dar norma di buon reggime alla S. Sede, che mostro sempre di così ben conoscere le Imene e gli attentati degli empi e de' demagoghi. Invece di scrivere memorandum, dovreste, o Principi, aprire gli occhi e pensare a voi stessi. Dovreste badare che ohi medita l'esterminio della Chiesa, vuole nello stesso tempo il vostro esterminio, e quindi, riparare in quest'arca benefica, che vi salverà dal naufragio. L'imperatore d'Austria vi ricorse, e non se n'è ancora pentito, né avrà da pentirsene giammai. Iddio lo benedisse; egli già trionfò nella guerra d'Oriente, ed ora è presso a trionfare nella egualmente, pericolosa pace di Parigi.

L'APPELLO ALLA RIVOLTA

DEI

PLENIPOTENZIARI PIEMONTESI AL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia, n.124,29 maggio 1856).

La rivoluzione esiste nel mondo, anzi esiste in Europa, anzi esiste particolarmente in Italia; ma questi pretendono che stia di casa in un luogo, e quelli in un altro. Facciamo qualche ricerca, e moviamo qualche interrogazione.

Signori plenipotenziari sardi al congresso di Parigi, doveste di casa la rivoluzione? Essi ci rispondono nella loro nota indirizzata a lord Clarendon e al conte Walewski il 16 di aprile del 1856 La Sardaigne est le scul etat de l'Italie qui ait pu éleger une barrière infranchissable à l'esprit révolutionnaire. In tutte le parti d'Italia v'è la rivoluzione, eccetto in Piemonte.

Signor deputato Buffa, dove sta di casa la rivoluzione? Egli ci risponde: «Le condizioni dei vari popoli italiani sono più o meno intollerabili, ma tutte infelici. Ad essi è negata non solo ogni libertà, ma anche quella oneste larghezza, ch'egli stessi governi assoluti oggidì, purché civili, non sogliono negare... Tutto questo non fa che alimentare lo spirito di rivoluzione, che, sorgendo l'occasione, può diventare un grande pericolo, come per l'Europa intiera, così più specialmente per noi..... Lo spirito rivoluzionario si manifeste «si svolge in tutti i paesi, dove sono stanziate le truppe austriache».

Il conte di Cavour adunque e il deputato Buffa, uniti insieme, danno piena risposte alla nostra domanda. Il primo dice dove non è la rivoluzione; il secondo dichiara dove si trova. A dette dell'uno non è in Piemonte; a dette dell'altro trovasi nel rato d'Italia.

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Ora interrogati gli nomini, passiamo ad interrogare i fatti. I primi affermano gratuitamente; i secondi provano senza ammettere replica. Noi non faremo commenti, ma reciteremo soltanto le parole de' giornali.

Il Movimento di Genova del 13 maggio, N«129, scrive: cleri dalle guardie di pubblica sicurezza venne stracciata una carta affissa ad ano dei pilastri del teatro Carlo Felice contenente intimazioni e minaccie per ragioni politiche»»

Il Cattolico di Genova del 13 maggio, N° 1990: «Ad un banchetto di studenti fu gridato: Viva all'Italia unita, e ieri mattina un po' di gente raccolta intorno al mortaio di Porteria incalzò alcuni gridi più o meno consimili».

Il Diritto del 14 maggio, N.115, stampa un brano d'una lettera di Genova che dice così: cleri sera (12) fu trovato affisso vicino alla Posta un cartello anonimo, minacciante il console austriaco».

La Maga di Genova dell'8 di maggio, N° 56, scioglie un inno alla signora Marianna che è fidalo del suo cuore, e dice: «Quando pensiamo al cavalletto di Roma, alle legnate di Napoli, allo stato d'assedio di Parma, al martirio della Sicilia, ai Croati che governano a Milano, alle migliaia di emigrati e di giustiziati in Italia, a repubblicani francesi deportati a Cajenna ed a Lambessa, ai dolori della Polonia; ai gemiti dell'Ungheria, ai fremiti della Germania, non abbiamo altra speranza che nella signora Marianna».

Ciò che è avvenuto recentemente in Torino ed a noi in ispecie, tutti sanno, e non c'è permesso di scriverlo liberamente. Basti solo ricordare un principio di legalità formolato il 19 di ottobre 1853 dal sig. Gallarini intendente reggente la questura, poiché il conte di Cavour avea avuto egli pure l'onore d'una dimostrazione:

«Atti legali non sono le manifestazioni tumultuose detta piazza, le quali se furono represse con energia al primo apparire, lo sarebbero con tutto il rigore assentito dalle leggi qualora si rinnovassero».

Si ricorderanno eziandio le parole, le aspirazioni, i 'voli fatti testé in Parlamento, ed in ispecie ciò che disse il deputato Valerio nella tornata del 7 di maggio:

«Le nostre parole, le parole del sig. Presidente del Consiglio di tanto più importanti delle mostre, non istaranno sicuramente chiuse in questo recinto, o serrate nei confini che segna il Ticino... Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi, e l'audacia ed il coraggio che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d'Italia, non istarà lungo tempo senza Farsi sentire».

La Gazzetta Austriaca, parlando della famosa Nota, scrive: «La Nota del 10 di aprile sottoscritta dal conte di Cavour e dal marchese Villamarina, è un appello alla rivolta».

Colla Gazzetta Austriaca conviene il Diritto del 28 maggio, N° 126, e dice: La conseguenza è quella ohe ne trae la Gazzetta Austriaca, perocché dire ad un popolo come l'Italiano, ancora di vita gagliarda ed indomata: - i tuoi patimenti sono senza nome, i tuoi oppressori senza umanità, né V'ha chi possa toglierti di dosso il giogo, colpa la perfidia dell'Austria, -vuoi significare che lo si incita a disperati tentativi, che la legge della propria conservazione consiglia e suggerisce un tenace amore alle proprie tradizioni; vuoi significare infine che gli si addita qual è l'antico,

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l'inconciliabile avversario d'ogni suo bene -l'Austria -, e gli si dice: INSORGI CONTRO ESSA! Parliamo francamente: è un vero appello alla ricolta».

Aggiungete a questo l'epistolario di Daniele Manin, che stampa io Piemonte, dove dice agli Italiani: Agitatevi, ed agitate, e L'agitazione none propriamente l'insurrezione, ma la precede e la prepara, e parla di punture di spille di larghe ferite di spada, e simili; sommate tutto insieme, e molte altre cose, che sarebbe troppo noioso e pericoloso dire, e voi avrete facilissimamente trovato dove stia di casa, la rivoluzione.

La rivoluzione sta di casa, dove si può cospirare contro la pace e la tranquillità degli Stati vicini, comandandovi e regolandovi le sommosse, quando coll'aiuto di Note verbali, quando con discorsi pronunziati dalle tribune parlamentari, e quando finalmente con lettere e con articoli di giornali

La rivoluzione sta di casa, dove i cittadini sono guardati a vista per le loro idee politiche, e minacciati e designati alla vendetta coloro che vogliono pensare colla propria lesta, ed hanno il coraggio, nel paese della libertà, di non voler sottostare alle altrui opinioni.

La rivoluzione sta di casa, dove il giornalista, non si lascia libero ne' suoi giudizi, ma ode il tumulto presso ai suo Uffizio, e prima di recarsi davanti al tribunale, è obbligato a sostenere un processo sulla pubblica piazza.

La rivoluzione sta di casa, dove il ministro dichiara illegali le manifestazioni tumultuose, che si fanno sotto le proprie finestre, e le vuole represse con tutto il rigore, mentre per contrario, tollera le manifestazioni, che han luogo sotto alle finestre altrui.

La rivoluzione sta di casa, dove la natura e gravita dei reati.........................trova indulgenza chi porta un titolo, e rigore chi mostra.............un titolo diverso, qualunque del resto sia li qualità del delitto.

La rivoluzione sta di casa, dove il ministero s'intromette nelle faccende dì Stati indipendenti, e pretende, sebben forestiero, di governarli come padrone, sottraendo al legittimo dominio di chi ha solo il diritto di comandarvi.

La rivoluzione sta di casa, dove si accorda pienissima tolleranza alle società segrete, e vanno impuniti coloro, che, sotto il nome di Marianna, giungono perfino ad invocare la ghigliottina,

La rivoluzione sta di casa, dove i processi contro gli assassini si protraggono a mesi e ad anni, e ad un povero giornale, che descrisse le feste dello Statuto, non si lascia neppur tanto tempo per prepararsi alla difesa..

La rivoluzione sta di casa E perché dovremo noi continuarci ancora in.......questa, dolorosa enumerazione? Quella Nota medesima, che diceva avere il nostro ministero opposto un argine insormontabile allo spirito rivoluzionario è dichiarata dal Diritto stesso un vero appello alla rivolta.

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MOVIMENTO PROTESTANTE IN ITALIA

(Dall'Armonia, n.135,12 giugno 1856).

Tra i giornali, che ci giungono oggi da Londra, uno ve n'ha con questo indirizzo: Alt Armonia, giornale Papista. U giornale è la famosa Eco di Savonarola, morta da un sono, ma risorta nel giugno del 1860. Ascoltiamo dall'Eco la storia della sua morte e della sua risurrezione.

L'Eco di Savonarola ebbe origine nel 1847.72 numero degli abbonati non è mai giunto a coprire interamente le spese. Alla fine d'ogni anno ci siamo sempre trovati con un piccolo deficit. Così di piccolo deficit in piccolo deficit, nel marzo del 1865 il nostro deficit era montato a lire 70 (sterline)».

L'Eco di Savonarola è scritta da rinnegati italiani. Lo dirige un certo Salvatore Ferretti, e vi pigliano parte Luigi Desanctts, Teodorico Rossetti, e qualche altro della stessa risma. Costoro non trovano amici nemmeno tra le file degli Anglicani; gli stessi protestanti li conoscono e li disprezzano; e dove vive e prospera ogni giornale, essi non riescono a raggranellare tanti abbonati per coprire interamente le spese!

L'Eco moriva perciò d'inedia nel 1855. Ha risorgeva poi nel giugno del 1856 per un caso che racconta in questo modo: «Un cristiano scozzese, amico d'Italia e degli Italiani, così ci scrive: Vi somministrerò i fondi per pubblicare 4.numeri, cioè L. 40. Non lo farei, se non mi sentissi fiducia nei vostri principii cristiani per il modo conseguente, con cui da sì lungo tempo perorate per la causa della verità, secondo i semplici insegnamenti della Bibbia».

Coll'aiuto adunque delle L. 40 l'Eco è risorta, e i suoi scrittori dicono: «Riprendiamo la sospesa pubblicazione dell'Eco nella speranza, che i nostri lettori vorranno procurarci degli abbonati, onde proseguire quest'opera d'evangelizzazione, e sgravarci a poco a poco dell'insopportabile deficit delle lire 70». Bella cosa è la Bibbia; stupendo il Vangelo e l'Evangelizzazione; ma le lire 70 stanno molto più sul cuore degli apostati dell'Eco!

Noi vogliamo però essere giusti, e confessare che l'Eco di Savonarola racchiude qualche verità, e involontariamente rende qualche servizio a quel cattolicismo che combatte. Tra i dieci articoli di questo suo primo numero, che ci sta sotto gli occhi, uno ve n'ha, di cui ci affrettiamo a fare tesoro. Esso s'intitola: Movimento Protestante in Italia, ed è scritto dal suo direttore Salvatore Ferretti.

Secondo il quale quattro grandi elementi, ossia quattro partiti generali compongono il movimento protestante in Italia, i e tutti, sebbene con armi diverse e per fini diversi, sten combattendo dai quattro lati il colosso non più temuto del Vaticano». Sono questi il partito antipapale, il partito antipapista, il partito protestante, il partito evangelico.

Il partito antipapale è quello dei nostri moderati. «Coloro che Io compongono, non vogliono che i Papi ritengano il potere temporale, ma lo spirituale soltanto. Riconoscono gli uni in buona fede, gli altri per convenienza, nel Pontefice di Roma il successore degli Apostoli, il Capo della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, il rappresentante di Dio sulla terra, ma non lo accettano come Monarca.

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Il motivo per cui si oppongono al Papa-re, si è unicamente perché veggono in lui il più grave ostacolo al conseguimento dell'unità italiana, desiderio divenuto ornai universale fra noi. Per dare al loro scopo politico un po' di tinta religiosa, si avvalgono di tutti quei passi della Bibbia, che condannano il potere temporale dei preti, e sopratutto del celebre detto di Gesti Cristo: il mio regno non è di questo mondo».

Ecco adunque i primi ausiliari de' protestanti in Italia: coloro che combattono il governo temporale del Papa. Lo dice l'Eco di Savonarola, che sene intende. Non monta ch'essi professino devozione al potere spirituale del Pontefice. Accusandolo di opporsi al Vangelo, già si fan protestanti, sottraendo alla Chiesa l'unica autorità di interpretare magistralmente la Bibbia. Né solo aiutano il protestantesimo coloro òhe combattono il totale dominio del Papa; ma quelli pure che vorrebbero diminuirlo, o nella sua estensione, o nella sua maniera di governo. Imperocché l'indipendenza politica del Papa riflette sulla sua indipendenza religiosa, e, violata la prima, diminuisce anche la seconda, almeno nel concetto de' popoli.

Siccome a questa schiera appartengono i nostri ministri, e tutti i loro giornali; così la Buona Novella ebbe già a dire, che essi obbediscono ad una direzione più o meno protestante, che è la sentenza ripetuta in altri termini dall'Eco. E se l'anglicanisimo fa buon viso alla nostra politica, non è per altro motivo, se non perché la soccorre nella sua guerra al Papa. In questo senso spiegaronsi sempre le società protestanti ne' loro indirizzi al nostro governo, tanto che il nostro Re in una sua risposta dovette protestar del contrario.

Noi vorremmo che queste confessioni aprissero gli occhi a quelli de' nostri concittadini, che sono ancora in buona fede. Badino che la questione politica è ornai inseparabile dalla religiosa, e l'una non serve che di mantello all'altra. Se hanno caro il cattolicismo, si separino per carità da un partito, che lo combatte più o meno apertamente. Un buon cattolico non parlerà mai contro il Romano Pontefice. Forse che non si farebbe coscienza un anglicano di parlar contro la regina Vittoria, od uno scismatico moscovita di prendersela contro lo Czar? E come poi chi professa il cattolicismo, ed è figlio della Chiesa, oserà levarsi contro Pio IX?

Il secondo partito, che favorisce il protestantesimo in Italia, vien chiamato dall'Eco di Savonarola partito antipapista. È composto di quelli, che si tono apertamente separati dalla Chiesa Romana, e Costoro odiano a morte il Papismo, e lo combattono con tutte quelle armi, di cui possono provvedersi». Gli antipapali non vogliono il Papa-re, ma dicono di venerarlo Pontefice; gli antipapisti noi riconoscono né Pontefice, né re. Dunque sono essi dichiarati protestanti? No, risponde l'Eco. «A prima vista voi li credereste sinceri protestanti, ma se discorrerete un tantino con essi, se farete loro taluna di quelle domande, che non ammettono risposte oblique, né mezzi termini, voi, oltre al trovarli antipapisti per eccellenza, li troverete parimente increduli per eccellenza. Questo secondo partito, dice l'Eco, è il più numeroso.

Notate bene, che anche costoro favoriscono il protestantesimo, e lo favoriscono senza credere a nulla. Di qui argomentate dell'indole e natura di una setta, la quale si vantaggia dell'incredulità. Le parole scritte dall'eco di Savonarola riduconsi

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a dire, che come chi combatte il Papa pel suo governo temporale, viene anche a combatterlo nella sua spirituale podestà; così chi lo combatte come re e come Pontefice, è d'ordinario incredulo per eccellenza.

Questo fatto innegabile dimostra il nesso logico che passa tra le verità, per cui negato un vero si giunge a negar l'altro, e a romper quella catena che tiene ferme le menti in qualche cosa di reale e di positivo. Laonde Terrore chiama Terrore, e l'abisso l'abisso. Il freddo cattolico non rispetta il Papa, poi lo combatte re, poi lo disprezza Pontefice, e si getta finalmente nello scetticismo e nella incredulità.

Il partito degli increduli, detti molto saviamente dall'Eco antipapisti, è il più numeroso. E noi aggiungeremo che lo ingrossano d'assai i fautori del protestantesimo, e i nemici del cattolicismo, giacché non v'è termine di mezzo tra l'essere atei, e l'essere cattolici. La ricognizione di un Dio giusto, provvido, onnipotente, vi conduce fino al Papa, e la guerra mossa al Papa vi mena d'errore in errore fino all'ateismo.

La quale sentenza può essere verificata colla pratica, e addentrandosi un po' nell'animo di coloro, i quali sono antipapisti, si conoscerà di leggierì che o essi nulla credono, o vivono come se non credessero nulla.

Il terzo elemento che riconosce in Italia l'Eco di Savonarola, è il partito protestante, Questi la ragionano così: «Noi siamo filosofi, quindi potremmo benissimo fare a meno di religione. Ma il popolo non è filosofo, dunque ha bisogno d'una religione. La società senza religione non può sussistere. Se all'Italia togliamo il papismo, perché opposto al nostro scopo politico, fa d'uopo che gli sostituiamo qualche altra cosa. Fra tutte le religioni che esistono, il cristianesimo riformato ci sembra la migliore».

Questo, a detta, dell'Italia, è il ragionamento dei protestanti in Italia. I quali vogliono rendere il popolo protestante, cioè o valdese o evangelico, perché riconoscono impossibile di lasciarlo incredulo. Se dipendesse da loro, direbbero ai popoli: Non credete nulla. Ma il popolo non essendo filosofo, veggonsi obbligati ad a scrìverlo al protestantesimo Donde risulta, che nel concetto di costoro essere protestanti ed essere increduli vale presso a poco lo stesso;che essi mentiscono, e s'infingono allora quando vogliono pervertire le popolazioni, e che non solo cessarono di essere cattolici, ma anche onesti.

Ecco finalmente il quarto ed. ultimo elemento, ed è il partito evangelico, il più piccolo di tutti. Che cosa creda, e che cosa voglia questo partito, il giornale di Londra noi dice. $ il partito che esso propugna, e vorrebbe diffuso in Italia. Ila da una stazione missionaria degli Stati Sardi gli scrivono: Sono già 48 mesi che lavoro in questa città, e non abbiamo che quattro persone convertite, «Belle erano le speranze sul principio della mia missione, avendo udienze numerose, e sembrava esservi eccellenti disposizioni, sia nella parte colta della città, sia nelle autorità governative che proteggevano, secondo lo Statuto, a sfida tutta l'opera che mi era stata affidata. Ma come tutto si è ora disperso!»

Questa desolazione dell'eco di Savonarola è molto consolante per noi. Ornai increduli, protestanti, evangelici, riconoscono che è impossibile strappare l'Italia al cattolicismo.

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Negli Stati Sardi le autorità governative proteggono a spada tratta l'opera loro, ma inutilmente. In 18 mesi hanno fatto quattro proseliti, e che proseliti!

Ora, riassumendo cicche ha detto l'Eco fin qui, noi ne possiamo dedurre le seguenti confessioni importantissime: 1° In Italia favoriscono il protestantesimo coloro che combattono il dominio temporale del Papa: 2° Favoriscono in Italia l'incredulità, coloro che vi promuovono il protestantesimo.; 3° Sono finti e menzogneri coloro che vorrebbero protestante il nostro popolo, e predicano soltanto l'eterodossia, perché non hanno coraggio di predicare l'ateismo; 4° Gli Evangelici e i Valdesi, quantunque assistiti e protetti a spada tratta dalle autorità, governative negli stati Sardi, pure non riescono a nulla, e le loro speranze andarono disperse.

Dopo di ciò noi ringraziamo l'Eco di Savonarola d'averci spedito questo 'suo preziosissimo numero, la ringraziamo d'aver chiamato l'Armonia giornale Papista, e ringraziamo l'Espero del signor Rattazzi, che ci chiama così sovente giornale del Papa. Gli antipapali e gli antipapisti non sono né cattolici, e neppure protestanti, ma atei, ingannatori, ipocriti che nulla rispettano, nulla credono, e nulla temono. E chi non crede e non teme Iddio, è incapace di vera onestà e capacissimo di tutto.

PIO IX E GLI INONDATI DI FRANCIA.

NEL 1856.

(Dall'Armonia.136,13 ghigno 1856).

Un dispaccio telegrafico di Parigi ieri ci annunzrava la carità di quindici mila franchi fatta da Pio IX in vantaggio degli inondati di Francia. Questa notizia ci die argomenta di parecchie gravissime considerazioni parte proprie a quest'angelico Pontefice, parte generali al Papato, parte relative alla città di Roma, eoe noi vogliamo sottomettere al giudizio de' nostri cortesi lettori.

Abbiamo dapprima pensato al gran cuore di Pio IXvero padre de' fedeli, che tiene in conto di proprie le disgrazie de' figli. Chi può dire a mezzo le opere di beneficenza che compie? Nessun ricorre inutilmente a lui, nessuno piange ai suoi piedi senza dipartirsene consolato. Sebbene egli usi d'ogni industria per nascondere i suoi atti di carità, ad ogni modo sono già tali e tanti, che tutta Roma li conosce in parte e li benedice. Si calcolavano mesi sono a novecento mila scudi romani le elemosine erogate già da Pio IX in danari proprii, ch'egli in buona coscienze potea ritenere per sé. Questa somma è enorme, massime se si considera la ristrettezza della tua lista civile.

Della quale noi abbiamo già parlato, ma molto saviamente quel cattolico e dottissimo uomo, che è iL. signor Bowyer, volle discorrere nella Camera dei Comuni d'Inghilterra il 6 di maggio. Egli disse agli Inglesi chi fosse il Papa, ed il Papa presente. Il Papa tenea spalancate le porte del suo palazzo, Ognuno potea passeggiare attraverso ai suoi magnifici appartamenti, senza essere fermato od altrimenti interrogato.

Nessun altro Sovrano Europeo era meno protetto nella persona che S. Santità, la quale in una recente occasione scese dal Vaticano in S. Pietro

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seguito da quattro guardie svizzere, e da tre suoi ciambellani, e vi amministrò la comunione a 400 de' suoi sudditi. Durante il colera, diceva il signor Bowyer, il Papa servì gli ospedali ed assisté ai malati ed ai moribondi al pari del prete pia umile e devoto. Venne coniata una magnifica medaglia in commemorazione della visita fatta da Pio IX ai colerosi dell'ospedale di S. Spinto, e chiama sogli occhi le lagrime vedere questo grande Pontefice affratellarsi cogli appestati, e benedirne gli ultimi momenti. La medaglia porta la leggenda: Ad Sancii Spiritus lue laberantibus invisit XI taL. sept. a. MDCCCLIV.

La lista civile del Papa, soggiungeva il Bowyer, ammonta a sole 1,500 lire sterline all'anno. E l'Ordina, giornate di Malta, avverte, che è quanto il salario d'un segretarie e mezzo del governò maltese. E qui noi prevediamo una facile obiezione. Gli diranno: come mai Pio IX, che ha sì poco, può aver erogato tanto in opere di carità? Pio IX, egli pure ba goduto della carità cattolica. Un giorno si trovò privo anche di queste 1,500 lire sterline, privo del trono, della patria, ed esule in terra non sua. Ne l'aveano privato coloro, a cui Pio IX avea dato tutto, prima la vita, e poi una parte del suo potere. Allora la carità dei fedeli accorse generosa a sussidiare lo spogliato Pontefice col danaro di San Pietro, ed egli volle spendere in opere di carità ciò che dalla carità gli era provenuto. Sublime alternativa e gara di beneficenza tra il padre ed i figli, che resterà nella storia a lode del secolo nostro memorando per grandi scelleratezze, ma viva Dio 1 memorando anche per grandi virtù.

Noi Piemontesi abbiamo doveri di riconoscenza verso Pio IX, che a molti de' nostri estende anche la sua carità. V'ha in Roma chi venne espulso dal nostro regi», e spogliato di tutti quanti i suoi beni in nome delle libere istituzioni. E costai come potrebbe vivere conforme al suo stato, se il Pontefice non sovvenisse costantemente a' suoi bisogni? Sì, Pio IX, a cui il nostro ministero negò quella misera offerta, che gli era dovuta a titolo di giustizia, benefica continuamente il Piemonte nella persona de' suoi concittadini; e se mai avvenisse, che i nostri ministri dovessero porgere la mano, noi siamo certi, che il loro primo benefattore sarebbe quel Papa, al cui trono stanno insidiando con tanto livore.

Roma è la città di tutti, e nessuno vi è straniero, come il suo Re è il padre universale, e tutti gli sono figli, e forse più cari i più traviati. In quale altra città trovasi un'istituzione simile a quella fondala dal Papa Alessandro VII, che ha periscono di visitare nelle locande e negli alberghi i forestieri infermi, soccorrerli di limosine se sieno poveri, prestar loro tutti i servizi onde abbisognano, custodirne le cose per renderle ai parenti ed agli eredi, qualora venissero a morire? Voi andate a Roma, «se vi coglie un'infermità, o ricco o povero, o cattolico o eterodosso, siete certi della maggior assistenza. Il cattolicismo veglierà su di voi col cuore d'una tenerissima madre. La Chiesa è gelosissima di onesta sua ammirabile istituzione, e il cardinal Vicario di Roma Della Porta Rodiani, il 9 agosto del 1841, pubblicava un editto, minacciando pene contro tutti i locandieri, albergatori ed osti, che tralasciassero di dare avviso quando avessero forestieri malati.

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Per lo che a noi non recò veruna sorpresa la notizia data dal telegrafo, clic Pio IX fosse così generosamente accorso in sollievo degli inondati di Francia. È cosa naturale in un Papa» naturalissima in Pio IX, che tanto sente le altrui sventure.1 Francesi diedero aiuto a lui esule in Gaeta, ed egli non tardò a sovvenire i Francesi infelici, e l'avrebbe fatto egualmente senza la spedizione di Roma, perché la carità considera soltanto la miseria, e non pensa ad altro. I nostri giornali libertini, che spargono la loro bava sulle cose più auguste, non hanno tardato a calunniare anche questo fatto di Pio IX; ina gli uni operano e scrivono da libertini, e l'altro da Pontefice. Quei tristi non intendono più in là dell'egoismo, dell'interesse, del calcolo, e in conseguenza bestemmiano quello che non capiscono.

Lasciamoli dunque in disparte abbaiare a loro talento, © ritorniamo alla gran Roma dei Papi. Quantunque uà professore progressista in un suo corso circostanziato di geografia abbia tentato di togliere a Roma perfino il Tevere, per darlo al regno di Napoli, tutti sanno però che questo fiume attraversa l'eterna città, e di tanto in tanto la contrista colle sue inondazioni. Tito Livione conta dodici nel solo anno di Roma 565. Ma la moderna città v'è mena soggetta, essendo il suo piano di tre a sei metri più alto dell'antica. Talvolta però essa fu vittima degli straripamenti del Tevere, come nel gennaio del 1606, in cui le acque elevaronsi più di 12 metri sopra il pelo ordinario, nel febbraio del 1637, nel novembre del 1660, nel dicembre del 1702, e nei gennaio del 1742. Si può vedere negli Studi statistici su Roma, del conte di Toarnoit, la storia di queste inondazioni. .

Ora la carità cattolica ha pensato ad una istituzione tutta particolare per soccorrere gli inondali. Una distribuzione di pane ai bisognosi ha luogo in Roma quando il Tevere esce dal suo letto. Il segnale del principio di tal dispensa è quando il fiume gonfiatosi per dirotte pioggie o per nevi disciolte, affaccia dinanzi al Pantheon e giunge al ciglio della colonnetta all'angolo dentro del vestibolo di quel tempio. Allora l'Annona provvede subito il pane, i presidenti ragionari allestiscono carri e barchette, e si reca il pane agli abitanti fuori le porte portesi ostiense, angelica e flamminia, e se il bisogno le richiede, per le vie interne del recinto israelitico, dì ripetta, dell'orco e di borgo, e in qualunque altro luogo della città. Finché dura l'inondazione, coloro che trovansi in mezzo alle acque non mancano mai del pane necessario, e nel 1831 e 1836 il pubblico erario vi spese buonissime somme; e v'assegna in media 600 scudi per ogni anno.

Noi non sappiamo se v'abbia qualche cosa di simile in quelle città della Francia, che vanno soggette agli straripamenti de' fiumi. L'imperatore Napoleone nella sua visita in Lione pensò ai provvedimenti da abbracciarsi per impedire nuove inondazioni; ma mentre invocasi l'aiuto dell'arte, se noi scrivessimo in Francia proporremmo l'istituzione, di società cattoliche nelle diverse città esposte ai rischi delle inondazioni, affinché lungo l'anno accogliessero fondi in elemosina da valersene poi all'uopo. E tra i Francesi, così nobili di sentimento e così generosi, di mano, tali società prospererebbero, essendo una nuova gloria pel cattolicismo che «le inspira, e per Roma che ne die il nobile esempio.

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L'UNITA DEL CLERO

E L'ANARCHIA DEI LIBERTINI

(Dall'Armonia, n.141,29 giugno 1856).

Et vous vous étonnez que je vous donne en exemple le spectacle de l'indépendance et de l'union du clergé, lorsque vous ne non a donner en exemple que le spectacle de votre anarchie! Est-ce que vous vous entendez entre vous dans la presse, sur la patrie, les élections, l'organisation do travail, les fortification, l'enseignement, la presse? Quant. a la religion, pour vous c'est la nuit, et pour nous c'est le jour. En fait de religions vous ne savez opposer a b grand Église du Catholicisme que tonte sorte de petite Église, qui se culbutent les unes par dessus les autres, et dont chacun de vous est le Dieu, le prêtre et l'autel».

Cormenin; Feu! Feu!

Il Piemonte dividesi in due parti: la parte cattolica e la libertina. Tutti coloro ohe non appartengono ali» prima, entrano nella seconda. Capo dei cattolici è il Papa, poi vengono i Vescovi, poi i fedeli, che credono ed obbediscono.1 libertini non hanno capo, perché sodo incapaci di ordine, di governo, di concordi». Noi ripaliamo ntilissimo dipingere in brevi parole lo spettacolo che presentano le due parti contendenti nei nostro paese.

Il contegno della parte cattolica venne descritto nella circolare ministeriale del 9 di giugno. Quivi si dice che i nostri mostrano un carattere sistematico, unito, solidario. Ed è serissimo. Ciò che fa l'Arcivescovo Fransoni in Torino, fa l'Arcivescovo Marongiu in Cagliari. Ciò che fanno amendue, approvano tutti quanti i Vescovi dello Stato. Pio IX parla, e la sua santa parola è legge per tatti. I parrochi senza preventivi accordi s'intendono e predicano lo stesso. I confessori serbano no eguale contegno in qualsiasi parte più remota della Stato. Una è fa loro fede, uno il loro capo, una la loro morale, una la loro pratica. S'intimano ritrattazioni per ogni dove, e si negano concordemente i sacramenti ai contumaci. Migliaia di ecclesiastici che mai non si videro, mai non s'intesero, rispondono ad una voce: non licet. Perfino i giornali cattolici vanno perfettamente d'accordo. Quello che dice l''Echo du Mont Blanc in Annecy, afferma contemporaneamente il Courrier de Alpe in Ciamberì, l'Armonia in Torino, il Cattolico m Genova, l'Imita in Casale, l'Ichnusa in Sardegna. Non mai un dissenso fra loro nelle questioni capitali.

Dissero bene i ministri Battam e Deforesta: il contegno dei cattolici ha un carattere sistematico, unito, solidario. Essi trovano nella loro fede un sistema di dottrine, eoo seguono costantemente, che professano anche a costo della propria vita; e mediante la carità vivono uniti fra loro e solidari, soccorrendosi e difendendosi a vicenda. Non si potea fare di noi e de' nostri migliore elogio, i due ministri hanno ripetuto de' cattolici Piemontesi quello che fu scritto dei cattolici di Gerusalemme:

Multidinis autem credentium erat cor unum et anima una. , sieno ringraziati della cara confessione! Deh, che mai e poi mai non si rompa il vincolo della fede e della carità, che ci unisce e ci rende formidabili ai nostri nemici!

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Osserviamo invece la parte libertina. Essa non si sa mettere d'accordo né quanto alle dottrine, né quanto alle persone. Tra i cattolici non vi hanno né divisioni, né suddivisioni; e invece tra libertini questi é repubblicano, quegli moderato; uno segue Martin, l'altro Mazzini; chi vuole casa di Savoia, e chi no. Da una parte s'invoca la diplomazia, dall'altra si maledice. Chi desidera la rivoluzione, chi 'l'agitazione legale; a costoro piace il presente ministero, coloro vorrebbero vederlo sbalzato dal trono. Nemmeno i tribunali riescono a giudicare concordemente; chi da ragione alla Cassa Ecclesiastica, chi ai conventi; oggi si assolve il parroco di Verrès, domani si condanna; in Savoia si giudica in un modo, e in Torino si sentenzia in modo affatto opposto. La Corte di Cassazione si sbraccia nell'annullare sentenze, e i Magistrati inferiori persistono ne' loro giudizi. L'intendente di Genova non si sa capire con Urbano Rattazzi, e rinunzia. Lorenzo Valerio si oppone a Rattazzi, e lo combatte. Berti e Melegari contraddicono a Lanza e lo proscrivono. Cavour, secondo il Diritto, ha tratto in inganno la nazione. Lanza, secondo il Risorgimento, è nemico della libertà, e Rattazzi non ha convinzioni. Durando, secondo la Gazz. del Popolo, è meschinissimo ministro, e secondo l'Unione, un bigotto, che inerita il titolo di Monsignore. Di qui gridasi guerra, di là ripetesi pace, e v'ha perfino ohi non vuote né pace, né guerra, Daniele Manin condanna la teoria del pugnale, e al Diritto non ne garba la lettera, e la Gazzetta dille Alpi denunzia Mania come apostata. V'ha chi grida agli Italiani: insorgete; v'ha chi loro raccomanda di star tranquilli, e aspettare altri tempi. Alcuni rivoluzionari dicono ai patrioti: Riparate sugli Apennini per combattervi le guerriglie etto, maniera degli Spagnuoli; ed altri rivoluzionari ripetono: le guerriglie non fanno per voi, e sugli Apennini morreste di fame. Melegari e compagni convengono, ohe s'abbia da dare la libertà d'insegnamento; Borella e Bottero non la vogliono. Valerio e i suoi pretendono l'imposta unica sulla rendita; Cavour e i ministeriali la negano. I plenipotenziari sardi supplicano Francia e Inghilterra di separare le Legazioni dal governo Pontificio, e Massimo d'Azeglio dichiara io Senato, che questa sarebbe la peggior pensata. Il senatore Montezemolo trova agitato il Piemonte, e il Presidente del ministero lo vede e lo dichiara tranquillo. Non s'intendono nemmeno sullo stato del paese, in cui vivono t

I giornali libertini sono cani e gatti. La Gazzetta del Popolo se la piglia contro il giornale di Nicoletto, il giornale di Nicoletto contro il Risorgimento, il Risorgimento contro l'Espero, l'Espero contro l'Italia è Popolo, l'Italia e Popolo contro l'Unione, l'Unione contro l'Opinione, il Fischietto contro tutti. Si riveggono l'un l'altro le buccie il meglio di questo mondo. Volete sapere, che cosa è la Gazzetta del Popolo! Vi risponderanno che fa schifo; «Brofferio ve la dipingerà nella Voce del progresso. Volete sapere che cosa è il Fischietto? Vi risponderà il professore Mancini, che lo fece bravamente condannare per diffamazione. Volete sapere da chi sia scritte l'Unione, che celebra il venerando Libri? VI risponderanno il Popolo Sovrano, il Messaggiere Torinese, ed il Risorgimento. La Maga vi parlerà del Corriere Mercantile, e questo della Maga, regalandosi l'un l'altro i migliori epiteti, mentre i buoni,

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che assistono a questa guerra villana di giornali e giornalisti, vi ripeteranno quei due versi d'un noto epigramma:

Questo solo, o lettore, io ti so dire,

Che li credo Incapaci di mentire.

Né 'meglio trattano i libertini le loro persone. Vincenzo Gioberti chiama Mazzini perpetuo fanciullo, di politica vile e scellerata, il cui nome giungerà aborrito ed esecrato alla posterità. Guerrazzi nella sua Apologia dichiara i mazziniani inetti a creare, e troppo ardenti u distruggere. Secondo Luigi Farini, il demagogo genovese è uomo medi ocre, solo potente nel fare il male; secondo Bianchi Giovini è un ciarlatano; secondo Garibaldi, citato dal Gualterio, è un uomo, che guasta tutto quello che tócca.

Il Risorgimento del conte di Cavour vi dirà, che Bianchi Giovini è una cosa sola con Mazzini; Enrico Misley vi racconterà come gli mostrasse lo scudiscio; da Brofferio e Bagutti saprete il resto. Viceversa potrete chiedere di Brofferio a Romani, è Bianchi-Giovini ed a Demarchi, che vel dipingeranno di buon inchiostro; mentre Brofferio alla sua volta vi dipingerà e Demarchi e Romani e Govean, e la Gazzetta del Popolo.

Il Rinnovamento civile d'Italia è un classico libro per le pitture che fa degli uomini della rivoluzione. Qui Gioberti chiama Pinelli oscitante, incapace, ostinato, reo dell'eccidio italico. Dice Urbano Rattazzi poco veridico, che ha giuocato la patria, il trono e la vita di Carlo Alberto. Appicca al generale Dabonnida la taccia di maldicente, raggiratore, amico dell'Austria. Accusa Massimo d'Azeglio d'avere trascurato l'egemonia, gli aiuti, la dignità patria. Rimprovera Melegari di professare opinioni degne d'essere stampate a Vienna, non io Italia; mette Farini a fascio coi dottore!li, che insegnano quel che non sanno, e dichiara che Cavour, puntellando i rovinatoti d'Italia, si rendette partecipe egli stesso di tal mina.

Ha chi è intanto questo Vincenzo Gioberti, che sparla degli uomini della rivoluzione? Un altro rivoluzionario cel dipinse, e per farne il ritratto più somigliante vi consumò un libro di 372 pagine. È Mauro Macchi, che scrisse Le contraddizioni di Vincenzo Gioberti, dichiarandolo superbo, sleale diffamatore, menzognero.

Andando innanzi noi troveremo Montanelli, che dice Farini spirito acre, passionato, bislacco, sempre violento; e Farini che da del furibondo allo Star» bini; e Pigri, che richiama contro le calunnie del Guerrazzi; e Guerrazzi, che accusa di peculato Pigli, e via discorrendo.

Questo è Io spettacolo, che danno di sé i libertini nel Parlamento, nel giornalismo e ne' libri. Disuniti nel fine, nei mezzi, negli affetti, non sono concordi che nell'ambizione per cui vorrebbero gli uni salire sopra gli altri, e nella guerra che muovono alla Chiesa ed all'ordine. Veri protestanti in politica, vanno soggetti a tutte le fasi ed a tutte le variazioni del protestantesimo, e non si conoscono se non per le loco negazioni, e per le congiure contro la tranquillità degli Stati.

Se fosse era la sentenza di quell'antico ex pritatis odiis reèpubliea erescit, oggimai l'Italia sarebbe la più grande nazione del mondo.

Ma noi crediamo che dall'odio non possa mai nascere l'unione, né dall'anarchia degli spiriti il buon governo degli Stati. Noi crediamo che l'Italia

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non verrà mai grande né rinomata sotto il governo di certami detti da Gresset

Esprits bis et jaloux,

Qui se rendent justice en se méprisant tous.

UNA CIRCOLARE DEL GUARDASIGILLI DEFORESTA

E DI

RATTAZZI MINISTRO DELL'INTERNO

(Dall'Armonia n.139,17 giugno 1856),

Sotto questo titolo leggiamo nel Cittadino d'Asti del 15 giugno, N° 74:«Poco tempo fa noi riferivamo parecchi fatti esorbitanti di una parte del clero»e domandavamo se, a fronte di essi, il governo poteva tollerare e lacere. Siamo lieti ora di poter dire che non tollerò e non tacque. Il guardasigilli, con vigoroso e dignitoso linguaggio si rivolse agli avvocati generali, dando loro in proposito le più energiche istruzioni. Il ministro dell'interno faceva altrettanto cogli intendenti e cogli uffiziali di pubblica sicurezza. Ecco la circolaredel ministro Battezzi, la quale inchiude in sé pur quella del ministro Deforesta:

Torino,9 giugno 1866.

«La condotta di alcuni membri del clero vesso il governo e le sue istituzioni terna da qualche tempo ad eccitare l'attenzione del paese.

«Avversa questa parte, fortunatamente non molto numerosa, del clero a tutte quelle leggi che tutelano o rivendicano l'indipendenza del potere civile, e che sono la necessaria conseguenza, l'applicazione e lo svolgimento dello Statuto, va oggi specialmente rivolgendo le sue armi contro coloro, che più o meno direttamente, per ragione dei proprii uffizii e di dovere, presero parte all'esecuzione della legge del 29 maggio 4855.

«Il suo contegno ostile era da principio individuale ed isolato, sicché doveva bensì deplorarsi dai sinceri amici della religione;ma coi lumi, ond'è ricca la civiltà presente, poteva senza pericolo lasciarsi in noncuranza, tanto più che tale contegno era disapprovato dalla parte più assennata, la quale ben sa come primo apostolato della religiose sia quello di predicare colla parola e coll'esempio il rispetto e la sommessione alle leggi. Ha oggi quegli atti di avversione e di ostilità dapprima singolari incominciano ad assumere tale un carattere sistematico, unito e solidario, che riesce affatto intollerabile coll'autonomia e coi diritti del potere civile. Le feste Pasquali e quelle dello Statuto hanno principalmente somministrata l'occasione a questi nuovi atti di ostilità.

«E invero, le relazioni che da varie parti dello Stato pervengono al governo, rivelano tali fatti, a cui l'autorità non può e «on deve più rimanere indifferente.

«Ora è il rifiuto del battesimo e degli atti, che sono il fondamento e la prova dello Stato civile delle persone, ora è il rifiuto della sepoltura ecclesiastica. Al tribunale della penitenza s'inquietano, le coscienze, e si fanno eccitamenti inconciliabili colla qualità e coi doveri delle persone che vi si accostano.

«Non è la pace delle famiglie rispettata, né si rifugge dall'usufruttuare perfino le domestiche sventare. Coloro che presero parte all'esecuzione della legge, sono additati al letto dì morte, e in quei supremi istanti! in cui la mente dell'uomo vacilla, si domandano e s'impongono ritrattazioni manifestamente ingiuriose al governo.

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«Neppure la disciplina dell'esercito e della forza pubblica è da certuni rispettata. Stazioni intiere di Carabinieri reali furono respinte dalle pratiche religiose in occorrenza delle feste pasquali, perché obbedendo al dovere, alla voce del superiore, alle leggi proprie, le quali, in caso di rifiuto, loro minacciano la più pronta e la più severa repressione, assistettero gli ufficiali amministrativi alla presa di possesso dei beni dei conventi. In più luoghi il parroco, o con uno o con altro pretesto si è rifiutato d'intervenire personalmente, o d'intuonare i soliti canti in occasione della festa dello Statuto. E insultano i sentimenti dell'intiera nazione, omettendo frequentemente, e non sempre a caso le preghiere pel capo dello Stato, per quel principe leale e generoso, pella di cui conservazione s'innalzano al Cielo i voti di un popolo intiero.

«Per dirla in breve, ora qua ed ora là, ora con parole ed or con fatti, creando un conflitto tra il cristiano ed il cittadino sotto il manto della religione, ed a nome della Chiesa, si va da quella parte del clero insinuando e promovendo la resistenza agli ordini dell'autorità, la ribellione alle leggi, il disprezzo ed II malcontento contro il governo.

«Ragioni di convenienza, ragioni di dignità, ragioni di necessità sociale, comandano ormai un freno a questo sconsigliato procedere; ed è per ciò che il ministro di grazia e giustizia chiamò sovr'es90 con recente circolare l'attenzione dei signori avvocati fiscali generali.

«Le esorbitanze del clero fin dai più remoti tempi furono sempre frenate con energici provvedimenti. Non tutti i mezzi una volta posti per ciò in opera sono ancora oggidì attuabili. Quelle stesse istituzioni che la parte del clero, alla quale alludiamo, va con tanta pertinacia osteggiando, la proteggono contro qualunque atto meno legale; né sarà mai il governo che vorrà contro chiunque siasi e per qualsivoglia motivo eccedere i confini della legalità, tua egli crede che la nostra legislazione e le tradizioni nostre somministrano ancora mezzi pia che sufficienti a frenare ogni eccesso.

«La legge del 5 luglio 1854, l'articolo 200 del Codice penale, ed il noto rimedio economico dell'appello ab abusu, contemplano quasi tutti i casi e i modi con cui sogliono manifestare le ostilità lamentate.

«Colla detta legge infatti si puniscono i ministri del culto, i quali, nell'esercizio del loro ministero, con discorsi o scritti pubblici censurino le leggi dello Stato, ovvero provochino alla disobbedienza di esse o degli atti dell'autorità; e con essa si provvede pure perché non siano eseguiti senza l'assenso del governo i provvedimenti vegnenti dal Pesterò.

«L'art.900 del Codice penale reprime i discorsi pubblici eccitanti il malcontento, il disprezzo contro il governo e gli scritti o fatti della stessa natura. E la giurisprudenza della Corte di Cassazione spiegata nel processo contro il parroco di Verres, cui s'impetava d'aver rifiutato copie padrino l'esattore che aveva concorso alla presa di possesso dei beni di quel convento, non permette più di dubitare che la disposizione di quest'articolo, appunto perché generale ed assoluta, e perché tende evidentemente a mantenere il rispetto e l'obbedienza all'autorità ed alle leggi, obblighi tutti i cittadini senta differenza di classi, di uffici, o di gradi. Né fa d'uopo che il fatto o lo scritto, con cui s'infrange il divieto della legge, sieno pubblici come il discorso; e il rifiuto in ispecie di fare un atto del proprio ministero qualunque siasi, od ammettere altri nell'esercizio di un diritto o all'adempimento di un dovere, è meritamente considerato come un fatto e come un'infrazione al detto articolo del Codice penale.

«Finalmente l'appello ab abusu viene in sussidio alla legge penale per reprimere tutti quegli eccessi e quegli attentati alla sovranità civile che, comunque non sono resto secondo le leggi ordinarie, pure non sono mai da sopportarsi in nessun tempo e da nessun governo.

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«Nulla dunque può sfuggire all'azione della giustizia, e si hanno sempre m pronto le armi legali per reprimere ogni aggressione.

«Grave ella è questa condizione di cose, doloroso è il dovere che la medesima impone; ma il governo né può, né deve, né vuole venir meno al proprio compito. È perciò suo intendimento che si proceda energicamente ogni qualvolta ne è offerta l'occasione.

« Appena occorre poi di avvertire che, se è volontà ben decisa del governo che non si soffrano attacchi di sorta contro le leggi dello Stato e l'autorità del governo, è però del pari intenzione sua che la religione ed i ministri dell'altare sieno rispettati da chiunque, e che ricevano dalle nostre leggi e dai nostri magistrati tutta quella protezione che loro è accordata pel libero e tranquillo esercizio del sacro ministero.

«Il governo riprova il sacerdote, il quale, trascendendo i limiti della propria missione, condanna o censura le leggi, attenta ai diritti del potere, perturba le famiglie o l'ordine sociale; ma egli a sua volta non vuole mai che s'evada il campo puramente dommatico e spirituale, Quel confine oltre il quale l'autorità religiosa non può fare un passo senza offendere le leggi e gl'inviolabili diritti dello Stato, deve egualmente esistere per l'autorità civile in (accia alla Chiesa.

«Le surriferite considerazioni faceva il guardasigilli a' signori avvocati fiscali generali, invitandoli a dare in proposito le più particolari ed appropriate istruzioni agli avvocati fiscali.

«All'oggetto poi che le autorità amministrative e politiche vengano in sussidio alle autorità giudiziarie, si presero dal ministero di grazia e giustizia gli opportuni concerti collo scrivente; e quindi il ministero interni credette opportuno di recare a cognizione dei signori intendenti, sindaci ed altri uffiziali di pubblica sicurezza i savi rilievi come sovra svolti: dal Guardasigilli, affinché servano di norma a seconda dei casi.

«Pertanto i signori intendenti faranno sollecitamente conoscere ai sindaci ed altri uffiziali di polizia giudiziaria, tali disposizioni con invito di vegliare con tutto lo zelo all'applicazione dei principii sovra accennati.

«I signori intendenti dal loro canto procureranno per tale fatto di tenersi nel massimo possibile accordo coi signori avvocati fiscali, sicché dall'attività non mai sia disgiunta la prudenza e riserva, che sono necessario in questa delicata materia.

«Occorrendo qualche dubbio, si rivolgeranno al ministero per le opportune istruzioni, e daranno un cenno di aver ricevuto la presente.

Poche parole di commento, giacché il fisco non ci permetterebbe scriverne di più I Siccardi ed i Hanno resero un servizio segnalato al ministero. Il signor Rattazzi non tardò ad invocare la giurisprudenza della Corte di Cassazione!

Lagnasi il ministro dei sacerdoti, che al tribunale della penitenza inquietano le coscienze. Vorrebbe il signor Rattazzi avere la bontà di scrivere un elenco dei casi riservati al ministero, e dei casi in cai i parrochi in Piemonte possono dare o negare l'assoluzione?

Ciò che fanno i preti tra noi, a detta del signor Rattazzi, non è individuale ed isolato, ma ha un certo carattere sistematico v unito, solidario. Noi vorremmo, che s'interpretasse l'unanimità del clero come suole interpretarsi l'unanimità del Parlamento.

Il signor Rattazzi si lagna, perché stazioni intera di carabinieri furono respinte dalle pratiche religiose in occasione delle feste pasquali.

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Farebbe bene il signor ministro a mandare ai parrochi la nota di coloro» che si debbono ammettere di necessità alla comunione pasquale..

Il signor Rattazzi accusa il clero d'avere create un conflitto tra il cristiano ed il cittadino. Questo conflitto non esisteva qualche tempo fa, e non sappiamo che cosa facesse il clero per crearlo. Se oggidì esiste, si cerchi altrove chi l'abbia creato.

il signor Rattazzi raccomanda il noto rimedio economico del?appello ab abusu. Un ministro liberale, che parla di rimedio economico! Saremmo curiosi di vedere come si applicherà in una causa di negata assoluzione! Il fisco potrà procedere con coraggio, perché l'accusato non dirà mai una parola in sua, difesa

Ora viene il bello. È volontà ben decisa del governo, che i ministri dell'altare sieno rispettati da chiunque, e che ricevano dalle nostre leggi e dai nostri magistrati tutta quella protezione che loro l accordata pel libero e tranquillo esercizio del sacro ministero

Se il ministero volesse sinceramente che i ministri dell'altare fossero rispettati, darebbe buon esempio, e li rispetterebbe. Non li rispetta quando li fa codiare dalla polizia.

Se il ministero volesse che i ministri dell'altare fossero liberi nell'esercizio del sacro ministero, non s'immischierebbe in ciò che fanno, amministrando il Battesimo, la Penitenza, e predicando la parola di Dio; in breve, non avrebbe pubblicato la sua circolare.

Noi ne appelliamo al conte di Cavour. Chiediamo a lui se gli par liberale il procedere del suo collega, gli chiediamo se lo reputa vantaggioso al Piemonte ed alla libertà. Voi, signor conte di Cavour, voi stesso chiamiamo giudice della circolare del signor Rattazzi. Avete mai visto in Inghilterra qualche cosa di simile?

Prima di finire vogliamo congratularci col nostro clero, non gli perché abbia violato la legge dello Stato, che questa è una calunnia, ma di avere osservato concordemente le leggi della Chiesa.

Coraggio sacerdoti di Dio! Unitevi coi Vescovi, obbedite al Sommo Pontefice nell'esercizio del vostro spirituale ministero, e confidate nella Provvidenza: ecce judex advjanuam assista. (Jacobi Ep. cap. V, vera.9).

IL RIMEDIO ECONOMICO

DELL'APPELLO AB ABUSU

(Dall'Armonia, n.144,22 giugno 1856).

Chi l'avrebbe creduto mai? Dopo nove anni di libertà s'invoca in Piemonte un rimedio economico. E chi l'invoca? 11 liberalissimo ministro Rattazzi. £ quando l'invoca? In un momento, in cui più si grida contro i giudizi economici del ducato di Parma! Si, un ministro liberale in questi giorni, in questo paese, raccomanda alla polizia il noto rimedio economico dell'appello ab abusu! E la stampa liberale più assennata, a detta dell'Espero, applaude!

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Noi crediamo, che l'appello ad abusu sia già stato abbastanza confutato nella stessa circolare del signor Rattazzi. È un rimedio economico, e ciò basta per dover conchiudere, che non può esistere sotto un governo costituzionale. Rimedio economico vuoi dire un'eccezione alla legge, e la legge non può patire eccezioni, dove è uguale per tutti. Rimedio economico significa difetto delle volute guarentigie per gli accusati, e questo difetto è assurdo dove si godono le guarentigie costituzionali. Rimedio economico nei giudizi vale economia di giustizia, come dice vasi nel 1848 nella Camera dei Deputati, ed è assurdo, che in uno Stato modello si faccia economia di giustizia, mentre non si la economia di denaro. Rimedio economico significa qualche cosa di simile a legge stataria, a stato d'assedio, ed indica un governo tirannico. L'appello ab abusu è un rimedio economico; dunque è assurdo.

Confortiamo questa nostra asserzione con due autorità, che non ammettono replica. Sia l'una l'avvocato Persoglio, e l'altra l'ex-ministro Siccardi.

L'avvocato Persoglio, in una circolare confidenziale indirizzata agli avvocati fiscali sotto la data del 5 di maggio 1850, scriveva: Nei giudizi Criminali la norma unica da seguirsi è quella tracciata dal Codice di procedura criminale.... Da nessun altro fonte si possono attingere le regole di condotta salvo dalle disposizioni del Codice di procedura criminale, e dalla legge sulla stampa, quando si tratti di reato di stampa, perché fuori della legge non ti è ptò legalità».

L'appello per ab abusu è fuori della legge, giacché, al dir del medesimo signor Rattazzi, è un rimedio economico, cioè un rimedio extralegale. Dove il nostro Codice di procedura traccia le norme per giudicare il confessore che nega l'assoluzione, o il parroco che non ammette alla comunione pasquale? Dunque, a giudizio dell'avv. Persoglio, è un'assurdità sotto il nostro governo. Confrontate di fatto cotta circolare Persoglio la circolare Rattazzi. Nulla di più chiaro ed evidente per mettere in mostra la tristizia de' libertini.

La circolare Rattazzi dice: «l'appello ad abusu viene in sussidio alla legge penale per reprimere tutti quegli eccessi e quegli attentati alla sovranità civile, che, comunque non siano reato secondo le leggi ordinarie, pure non sono mai da sopportarsi in nessun tempo e da nessun governo».

Ma se al dir del Persoglio da nessun altro fonte si possono attingere le regole di condotta salvo dalle disposizioni del Codice, come mai, signor Rattazzi, invocate un sussidio alla legge penale? Dunque non basta in Piemonte sfuggire alle leggi penali? Vi sono dei sussidii per castigare chi non piace ai ministri? E in questo beato paese si castigano anche quegli atti che non sono reato secondo le leggi ordinarie? E come si chiama ciò se non arbitrio e dispotismo?

Ora ascoltiamo l'ex-ministro Siccardi. Egli perorava in Senato il 5 di aprile 1850 in favore della sua legge, che pretendeva propizia ai chierici, e dicea cosi:.

«Ma vi ha di pii, o signori: questa legge non è solamente opportuna, è necessaria. E qui vi prego di andare persuasi che il mio pensiero è alienissimo dal recare una qualunque benché menoma offesa alla dignità del clero. Ila quando ai parla di leggi e di governo, è impossibile di non parlare altresì di repressione.

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Or bene, il clero ai trova a questo riguardo, presso di noi, in una condizione del tutto anormale, dissimile da quella, io cui siasi trovato giammai in questa monarchia.

Prima dello Statuto la legalità non colpiva sempre gli ecclesiastici, ma il potere economico li poteva colpire sempre, È cosa singolare, o signori; le immunità, che sottraevano un ecclesiastico all'azione della giustizia civile, non lo proteggevano contro gli arbitrii del potere, ed una carcerazione che non poteva essere indilla colle solennità di on giudizio da un tribunale civile; veniva ordinata, e talora a tempo indeterminato, con un provvedimento economico. Si diceva in allora che si voleva evitare lo scandalo, come se lo scandalo stesse nella pena e non nel delitto, e specialmente nel delitto impunito.

Era questa in allora quasi una necessità legale. Siccome a governare bene o male è indispensabile qualche mezzo di repressione, quando mancavano i mezzi legali, sj ricorreva a' mezzi economici. Ora non si potrebbero adoperare questi mezzi senza una flagrante violazione dello Statuto; e noi francamente e lealmente applichiamo agli ecclesiastici le franchigie da quello statuite. Non è men vero però che in questa condizione di cose vi ha una lacuna, e questa lacuna sarà riempita colla legge di diritto comune, che è presentata alle vostre deliberazioni».

Il noto rimedio economico è dunque qui condannato solennemente dal signor Siccardi, Dopo la sua legge il potere economico non può più colpire i chierici; non può più essere permesso in Piemonte un provvedimento economico. La legge Siccardi ha messo il clero sotto il diritto comune; dunque ha abolito l'appello ab abusu, che, a detta del signor Rattazzi, è un rimedio economico.

Questo rimedio economico è frutto del più sfrenato assolutismo. Chi lo ammette, dee riconoscere le massime da cui deriva. Avete il coraggio di ammetterle queste massime, signori ministri?

Udite. Nella Spagna il re Alfonso pretendessi avere il diritto dell'appello ab abusu; ma prima dichiarava que el Rey es vicario de Dios en el imperio. Siete pronti, o ministri, ad ammettere questo principio assoluto di diritto divino?

Soggiungeva il re Alfonso, che non dipendeva da nessuno, por que segun natura el signoria no quiere compatirò. Che ve ne pare? Siete pronti ad abolire Io Statuto, per cui il Re si associò compagno nella sua signoria il Parlamento?

L'appello ab abusu, secondo Salgàdo, era qualitas infixa ossibus ac substantiae diademati. Vi piace questo diadema in carne ed ossa? Siete pronti ad ammettere i principii del Salgado, e le sue dottrine sulla monarchia?

Il noto rimedio economico derivava dalla massima di Luigi XIV, che il Re non dipenda da altri che da Dio e dalla tua spada. Vi garba questo assioma? 0 voi faccettate, e allora addio a' grandi principii del 1789! Eccoci alla monarchia assoluta di Francesco I e d'Enrico II. 0 lo rigettate, e il vostro appello ab abusu cade da sé.

Che se volete rinunziare alle libertà costituzionali, e ritornarci a' tempi d'Emannele Filiberto, siate almeno giusti, e dateci intero il regolamento del 3 di aprile 1560. Sapete che cosa diceva il paragrafo 1° di questo regolamento?

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Diceva che le appellazioni ab abusu «peuvent avoir lieu, non seulement si la juridiction ecclésiastique entreprend sur la laïque, mais mime lorsque la laïque entreprend sur l'ecclésiastique».

Siete pronti, o signori, a sottomettere ad un Concilio ecumenico le vostre leggi d'imposta? Se no, e perché volete sottomettere al giudizio dei tribunali civili le leggi della Chiesa? Dunque non vi troveremo mai logici, mai leali? Farete sempre e dovunque monopolio di tutto, monopolio dell'insegnamento, monopolio della giustizia, monopolio della libertà?

Spesso s'accusa il clero di non pareggiare pei governi costituzionali, d'avere, per esempio, maledetto il governo di Luigi Filippo, e di benedire il governo di Napoleone III. E forse che il clero non ha molta ragione? Badate come fu tormentato in Francia negli anni costituzionali di Luigi Filippo.

Al 26 settembre 1830 appello per abuso contro il Desservant di Fréche, per avere celebrato un matrimonio. Al 16 dicembre dello stesso anno affare Pezeux per rifiuto di Sacramenti. Al 28 marzo 1831 affare Casanlong per rifiuto di battesimo. Al 45 di luglio 1832 affare Lienhart per una sentenza d'interdetto. Al 7 novembre 1834 affare Droz, e sua destituzione da curato. Al 16 novembre 1835 rivocazione del vicario Martin dalle ue funzioni. Al 4 febbraio,16 marzo,9 agosto condanna di altri curati, per aver esercitato liberamente il proprio ministero. Al 27 di marzo 1837 condanna dell'Arcivescovo di Parigi. AI 21 dicembre del 1838 condanna del Vescovo di Clermont, che rifiuta la sepoltura al conte di Montlosier. Al 9 di marzo del 1845 lajamosa condanna del Cardinale di Bonald. E così si continua d'anno in anno fino al 1847, in cui si condannano a questo modo il curato di Thann, e il Detteroant di Dampière.

Quaranta processi economici contro il clero per appello ab abusa furono girati a' Vescovi ed ai preti francesi sotto il costituzionale governo di Luigi Filippo. Cormenin e Dupin ne hanno levato la lista. E sotto il governo di Napoleone III quanti processi v'ebbero di questo genere? Quale meraviglia adunque che il primo fosse detestato, e benedetto il secondo?

Volete che il clero benedica in Piemonte le libere istituzioni e canti il Te Deum di cuore? Non lo spogliale, non lo infamate, non lo perseguitate. Fategli vedere la differenza che corre tra i tempi passati e i presenti. Introducetelo nel banchetto della libertà, e lasciatelo libero di fare il bene, come lasciate liberi tanti nel fare il male.

I GRANDI ED I PICCOLI

(Dell'Armonia, n.145,24 giugno 1856).

«lo sono riconoscentissimo a Sua Santità il Papa Pio IX perché egli si compiacque d'essere patrino del figlio, che la Provvidenza mi ha accordato» Domandandogli questa grazia ho voluto chiamare in modo speciale sopra mio figlio e sulla Francia la protezione del Cielo. Io so che uno dei mezzi più sicuri per meritarla, si è d'attestare tutta la mia venerazione per il Santo Padre, che è il rappresentante di Gesti Cristo sulla terra».

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Così parlava Luigi Napoleone III, imperatore dei Francesi, al Cardinale Costanti no Patrizi, il 13 di giugno 1856 in pubblica udienza.

«Vi ringrazio, o illustri Prelati, di quanto operaste nette vostre conferenze in vantaggio della Chiesa e dello Stato. Vi prometto, come ho già promesso al Papa ed a Dio, l'osservanza fedele del Concordato, e fo voti, che i popoli possano godere dei beni temporali senza perdere i beni spirituali».

Cosi parlava Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, ai Vescovi austriaci raccolti a Vienna il 16 di giugno 1856 nell'udienza di congedo.

«Le esorbitanze del clero, fin dai più remoti tempi, furono sempre frenate con energici provvedimenti. La legge del 5 luglio 1854, l'art.300 del Codice penale, ed il noto rimedio economico dell'appello ab abusu, contemplano quasi tutti i casi. Il governo né può, né deve, né vuole venir meno al proprio compito: è perciò suo intendimento, che si proceda energicamente ogni qual volta ne è offerta l'occasione».

Così parlava Urbano Rattazzi ministro dell'interno in Piemonte agli sgherri della polizia sotto il giorno 9 di giugno sguinzagliandoli contro i Vescovi, i parrochi, i confessori, i predicatori.

L'imperatore dei Francesi potente e grande si inchina a Pio IX, reputa una grazia segnalata l'averlo avuto a patrino di suo figlio, proclama l'intervento della Provvidenza nei casi di quaggiù, invoca sulla propria famiglia la protezione del Cielo, e attesta Ia sua venerazione al Vicario di Gesù Cristo sulla terra. E Napoleone parla cosi, perché è potente e grande.

L'imperatore d'Austria riconosce i diritti della Chiesa, corregge gli errori de' suoi predecessori, chiama i Vescovi in Vienna, e loro commette l'ordinamento delle cose ecclesiastiche, li accoglie con riverenza, li congeda con affettuosa venerazione, e loro promette fedeltà alla data parola, e dichiara che la felicità temporale dei popoli dee andare congiunta colla loro spirituale santificazione. E Francesco Giuseppe parla cosi perché è grande e potente.

Il ministro dell'interno in Piemonte calunnia i chierici, cerca di renderli odiati dai popolo, li consegna alle fiere del giornalismo, alle ire ed alle vendette de' proprii nemici, toglie ai parrochi la libertà de' sacramenti e della parola, s'addentra perfino ne' recessi del confessionale, comanda assoluzioni sacrileghe, invoca rimedi economici, e consegna alla polizia Vescovi e preti. E Urbano Battezzi parla così, perché è debole e piccolo.

L'empietà indica sempre bassezza d'animo, e la persecuzione contro l'inerme significa debolezza di braccio, di mente e di cuore. L'imperatore dei Francesi ba saputo vincere la Russia, smantellare Sebastopoli, conquidere la rivoluzione, schiacciare il parlamentarismo, e uno ad uno strascinare riverenti al suo trono i suoi nemici. Egli vede Inghilterra e Sardegna genuflettere davanti a lui, e implorare mercé, dopo avere tanto bestemmialo il 2 dicembre. E quest'uomo in mezzo a tanta gloria, a tanta potenza, a tanta cortigianeria, tenera il Santo Padre, che è il rappresentante di Gesù Cristo sulla terra.

Francesco Giuseppe ha saputo riordinare uno Stato immenso, sconvolto

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dalla rivoluzione e dal febronianismo, vincere schiere innumerevoli di pregiudizi inveterati, trionfare nella guerra d'Oriente senza trarre un colpo di fucile e perdere un uomo solo, sedere per tanti mesi arbitro della pace e della guerra, riconciliare le più ostili Potenze d'Europa, mettere un termine allo sconsigliato spargimento di sangue e di denaro, e nel colmo della sua gloria e del suo potere s'inchina al Papa, ne riconosce i diritti, e vuole accordare ai suoi popoli i beni temporali senza che perdano gli spirituali.

Urbano Rattazzi, che ha sulla fronte il marchio di Novara, e presso i buoni e gli onesti la rinomanza che merita; Urbano Rattazzi, che non sa liberare il Piemonte nemmeno dai ladri e dagli assassini, che vede sotto il suo ministero popolarsi sempre più le prigioni; che sente i fischi non solo degli uomini antichi, ma anche de' nuovi; che è riuscito a scandolezzare perfino il Risorgimento, e a chiamarsene addosso le torsolate, ebbene egli vuoi rendersi celebre col contristare di bel nuovo il Santo Padre, coll'inferocire contro a' poveri parrochi, inermi, spogliati, ricchi solo di zelo, di pazienza e di carità.

Anime piccole! Quando rientrerete in voi stesse per fare senno una volta? Credete voi di durare a lungo, perché avete il coraggio della persecuzione e l'impudenza dell'empietà? Oh via, cantate trionfo, perché sapeste affliggere il Pontefice, e lacerare l'anima di vostro Padre! Andate pettoruti per le vie, perché in questi momenti trovaste ancora il mezzo di bestemmiare Iddio, e crocifiggere Gesti Cristo nella persona de' suoi sacerdoti! Napoleone vi mostra Sebastopoli caduta. Francesco Giuseppe v'additala pace conchiusa, e voi mostrate una circolare alla polizia contro i preti. Voi v'illustrate smantellando la sacristia, penetrando nei confessionali, invadendo i pulpiti. Queste sono le vostre vittorie, e per conseguirle abbisognate ancora di rimedi economici!

Ognun vede l'enorme differenza che passa tra il procedere de' grandi imperatori e de' piccoli nostri ministri, ed ognuno ne sente il perché. Erostrato, non sapendo altrimenti procacciarsi fama, incendiava il tempio di Diana in Efeso. Si vuole ad ogni costo far parlare di noi, e non potendo riuscirvi colle grandi imprese, si cerca d'ottenere l'intento colle solenni ingiustizie. Il clero è condannato a pagare le spese di alcuni bimbi che nabissano, ed a servir di sgabello alle loro vanità. Ma almeno non si rimproveri questo clero, se in mezzo alle sue amarezze ed a' suoi dolori getta uno sguardo sugli imperi francese ed austriaco, e si compiace che là regnino due imperatori amici alla Chiesa, e benedetti da Pio, e fa voti per la prosperità de' loro Stati e delle loro persone. Il clero, lo dicemmo già tante volte, non parteggia per veruna maniera di governo, e si acconcia a tutti, purché buoni. E la loro bontà argomenta unicamente dalla bontà degli uomini che governano, e dalla libertà che accordano alla Chiesa. Perciò canta di gran cuore il Te Deum nel tempio di Nostra Donna di Parigi, ed in quello di S. Stefano di Vienna. Ma in S. Giovanni di Torino non può cantare il Te Deum, se non pensando che anche le tribolazioni dipendono da Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola; non può cantarlo se non ricordando la pazienza di Giobbe, e com'egli benedicesse il Signore anche in mezzo alle calunnie ed alla miseria.

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LA MEDAGLIA A CAVOUR E L'INDIRIZZO DEI ROMANI

(Dall'Armonia n.145,25 giugno 1856).

La medaglia a Cavour e l'indirizzo dei Romani. - Secondo il Risorgimento del 22 giugno, i Romani hanno offerto a Cavour una medaglia e un indirizzo: «La medaglia d'oro di grande dimensione ha da un lato il ritratto del conte di Cavour, e nell'esergo ha la seguente iscrizione: - Per la difesa- dei popoli italiani oppressi - assunta - nel Consiglio di Parigi 1856 - Roma riconoscente». L'indirizzo poi secondo il Risorgimento, era concepito così!

«Eccellenza,

«Quando con la firma di un trattato il Piemonte entrava nella lega occidentale per opera vostra, noi fummo persuasi, che l'ardito divisamento era mosso da alte ragioni e sperammo che giovasse all'Italia, conoscendo che l'Italia v'era nel cuore.

«Noi seguimmo con inquieto amore le armi piemontesi in Crimea, ed allorquando, combattendo da forti, fecero onorata fra genti straniere la bandiera d'Italia, noi palpitammo di gioia, e inorgoglimmo delle laudi tributate a quei prodi perché italiani.

«Ora poi, che in forza di un diritto acquistato a prezzo di sangue sedeste tra coloro che reggono le sorti d'Europa, rappresentaste degnamente, non che il Piemonte, l'intera razione, facendo udire per la prima volta in un consesso di potenti il sacro nome d'Italia, e protestando altamente per i buoi conculcati diritti.

«Roma, fidando nell'iniziativa del Piemonte per l'italica rigenerazione, applaude ai vostri sforzi fatti a prò" della patria comune; e sentendosi degna di aspirare a quel civile governo, che per indole, genio e senno politico all'intera nazione si conviene, desidera che i mezzi scelti dall'avveduto diplomatico affrettino il compimento de' voti dell'italiano cittadino.

«E a testimonio durevole del glorioso avvenimento Roma v'invia una medaglia, che rammenti ai posteri il nostro generoso operato. Accettatela, non come un premio pari al mento rostro, ma come segno della nostra riconoscenza, e Roma,13 giugno 1856.

«IL ROMANI».

Noi potremmo qui seguire l'esempio dei Risorgimene e dirgli che mostri l'orainaie. Ma essendoci burlati altra volta di questa pretesa nei signori del Risorgimene non vogliamo al certo contraddirci, imitandoli. Soltanto ci affretteremo a pubblicare la seguente protesta, la quale per lo meno vale tanto quanto l'indirizzo del?sor girne nto.

Protesta.

I nemici del Papa sono i nemici di Roma e dei Romani. Noi ricordiamo ancora la cattività babilonica l'occupazione francese, la repubblica del 1849. Il trasferimento della Sede apostolica in Avignone diminuì la popolazione di Roma sotto i 35|m. abitanti. L'invasione francese ne fece una città di provincia, e da 465 m. abitanti la ridusse a 423 mila. Prima della repubblica noi eravamo 479 m., e nel 1849 appena 166m. Chi combatte il Papato, combatte Roma, la sua tranquillità, la sua prosperità, il suo lustro. Epperò protestiamo contro il conte di Cavour, che osò immischiarsi in casa nostra, protestiamo contro i suoi progetti di separazione, francamente gli diciamo, che se i Piemontesi amano le sue delizie e le sue quattordici imposte, non le amano certamente.

I Romani

Roma,12 giugno 1856.

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I TORINESI ANTICHI E MODERNI

(Dall'Armonia, n. U9,29 giugno 1856).

Ieri ricorreva la festa di S. Massimo, il grande Apostolo di Torino, il nostro vero rigeneratore, e, secondo il solito, celebravasi solennemente nella nuova parrocchia di Borgo Nuovo, intitolata al santo Vescovo. Noi in quel giorno abbiamo aperto le omelie di san Massimo, raccolte per cura di Pio VI, e dedicate da questo Pontefice a Vittorio Amedeo ili, e v'abbiam fatto sopra un po' di lettura, e se i nostri concittadini cel permettono, diremo loro liberamente ciò che abbiam letto, e ciò che abbiamo pensato.

Leggendo dei Torinesi antichi, e pensando ai Torinesi moderni, ne abbiamo fatto nn po' di confronto; abbiamo paragonato cioè i figli coi padri, e trovato, che se i padri erano buoni, i figli sono tre volte buoni; e che Torino fu ed è sempre quale la dipingeva Giuseppe Scaligero:

Terra ferax, gens laeta hilaris-que addicta choreis.

Nil curam quidquid crastina luna ferat.

I Torinesi antichi avevano in costume di mascherarsi. San Massimo, nella sua omelia in Kalend. avv., si scatena contro questa pratica, e dice: «Quale vanità più intollerabile che di (formare quel volto, che si degnò il Signore Iddio fabbricare colle proprie mani? I Torinesi moderni tollerano un po' troppo le maschere, e credono a chi s'acconcia una faccia da liberale, da democratico, da patriota, mentre in suo cuore bestemmia la (patria, il popolo, la libertà.

I Torinesi antichi erano dati all'idolatria, e veneravano gli Dei falsi e bugiardi; anzi quantunque convertiti a Cristo, nelle loro case e campagne conservavano gli Idoli. Del che a buon diritto sdegnavasi san Massimo nella sua omelia: De idolis tollendis de propriis possessioni bus. E noi pensiamo, che quell'omelia potrebbe ancora oggidì venir recitata dal pulpito di san Giovanni, giacché un'altra idolatria domina in Torino, l'idolatria degli uomini, ne' quali troppo si crede, l'idolatria delle speculazioni, l'idolatria delle sibille magnetiche che s'interrogano, l'idolatria delle tavole parlanti che si consultano.

Ne' sacrifici che gli antichi Torinesi facevano ai loro idoli, il sacrificatore colla testa piena di vino trinciava con affilato coltello le proprie carni, sperando che l'idolo sarebbe verso lui tanto più pietoso, quanto più egli si dimostrasse crudele verso se stesso. S. Massimo ci dipinge questo insensato, nudo il petto e le braccia, coperte col pallio le coscie, con in mano un gran coltello, sicché egli l'avea più l'aria di gladiatore che di sacerdote.

Ebbene, non ridiamo de' nostri padri. Anche i figli per sacrificare agli idoli politici oggidì si svenano crudelmente, o si lasciano svenare, e non hanno una parola da proferire contro l'indegno sacrifizio che si fa della propria patria 1

I Torinesi antichi lasciavano fare essi pure, ed in vista di molte iniquità e persecuzioni serbavano un vergognoso silenzio. S. Massimo in alcune omelie che disse ad onore de' santi Alessandro, Sisinio e Martirio, trucidati dai villani

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idolatri presso a Trento, acremente rimproverolli di tanta indolenza, esortandoli ad imitare que' Santi, e dicendo loro, che col tacere si rendevano colpevoli, se non col fare il male, almeno coll'assentirvi dissimulandolo, e Né vale il dire, soggiungeva il santo Prelato, che ciò a voi non s'appartiene; imperocché la causa di Dio è causa di tutti, onde ne viene, che il peccato di uno è punito in molti, ed il male dagli altri commesso tocca voi, mentre racchiudesi nella vostra coscienza».

Si lamenta S. Massimo in queste omelie, perché nella sua Torino sieno più obbediti i comandi de' principi che quelli di Dio, vedendosi che più può il terrore degli editti di quelli che la devozione dell'Altissimo. E sul conchiudere da una buona strigliata ai magistrati, i quali, da quanto pare, in quei tempi barbari e feroci pigliavansi poco a cuore la causa della religione.

Contro gli eretici, che infestavano queste nostre contrade, tuonava San Massimo colla voce, ed impugnava la penna: voce tonat, calamo fulgurat, come dice un'antica iscrizione, ed inseguiva Gioviniano, Vigilanzio, Nestorio, Eutiche, Pelagio, confutandone gli errori, e screditandone le persone. Né ci venne mai fatto di leggere, che gli antichi Torinesi lo trovassero troppo acre, o gli raccomandassero di essere piìi moderato. Lo zelo della Gasa di Dio divoravalo, ed egli gridava centro i lupi usciti a disperdere ed uccidere la sua greggia; né ci consta, che S. Massimo sia mai stato condannato per appello ab abusu.

Eppure egli disse un intero sermone per ispiegare quelle parole di Cristo: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio; osservando che molti sogliono scusare ji proprii peccati a titolo del loro uffizio; scusa meschinissima, poiché, quando altro comandano gli uomini, ed altro Iddio, a Dio e non agli uomini convien obbedire.

Tra gli scritti di S. Massimo, uno dei pili importanti è la sua orazione De defectu lunae. Eccone l'occasione e l'argomento.

Un giorno S. Massimo avea predicato un'efficace sermone contro l'avarizia. Ritiratosi io casa, dove, attendeva allo studia ed all'orazione, sente a due ore di sera un tafferuglio, uno schiamazzo per le pubbliche vie; manda i suoi famigli, a sapere che cosa sia, e costoro gli recano in risposta, che, essendosi oscurata la luna per un eclissi, pensava il popolo di compatirla e soccorrerla quasi si trovasse in grandissimo travaglio: Dixerunt mihi, quod laboranti lunae vestirà vociferatiti subveniret, et defectum ejus suis clamoribus adiutaret.

Il santo Vescovo ne fu stordito ed addolorato e la prima volta che salì sul pulpito, prese a dire ai Torinesi: «Oh genti stolte ed ignoranti! e fino a quando vi andrete voi cangiando al pari della luna? Ritornerà ben essa prestamente alla sua pienezza, e non ritornerete voi mai alla vera sapienza? Perde la lana per alcun poco la sua luce, e voi vorrete ancora perdere il lume di vostra salvezza?»

A scusa de' nostri padri si può dire che questo loro pregiudizio era comune a que' di a molti popoli. Secondo il Baronio, nell'Africa si facea baccano quando eclissavasi la luna, per soccorrerla nel suo travaglio, ed abbiamo su questo argomento un sermone di S. Agostino. Osserva Vives ne' suoi commenti alla Città di Dio, che anche gli eruditi tra i gentili temevano che i pianeti stessero per morire eclissandosi, e li soccorrevano col suono di cembali di tamburi;

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onde Giovenale nella sua sesta satira (442) ebbe a dire della loquacità delle donne:

Iam nemo tubas, atque aera fatiget;

Una laboranti, poterit succurrere lunae.

Se Giovenale fosse vissuto a' tempi nostri, direbbe altrimenti. Direbbe cioè, che per soccorrere la luna in travaglio, non è mestieri né di trombe ne di bronzi, ma basta un solo deputato, massime se appartiene al centro sinistro. Egli Farà co' suoi eterni discorsi fracasso sufficiente per soccorrere tutti quanti i pianeti.

Poverini! I nostri padri si davano a credere che la luna morisse, e che col rumore se le potesse portar soccorso. E tra i figli non v'hanno parecchi egualmente imbecilli? Non sono capocchi coloro che temono o sperano, ad esempio, che possa morire il Papato, poiché Rattazzi e Deforesta lo combattono? Non sono mestoloni quegli altri, i quali si persuadono di portare aiuto all'Italia in travaglio coi tamburi dei memorandum colle trombe dei giornali, e coi pifferi delle note verbali? Non sono citrulli quegli altri che credono di liberare dallo straniero il Lombardo-Veneto collo scrivere semplicemente sotto i portici di Po morte all'Austria! Viva il Re d'Italia? Non sono finalmente baggiani coloro che confidano in Palmerston e in Luigi Napoleone, e sperano che l'Inghilterra e la Francia aiutandoli, si daranno della zappa sui piedi?

Non ci scandalizziamo de' nostri padri. Se essi furono credenzoni, buona parte dei figli lo sono al pari di loro, e l'omelia di S. Massimo a' dì nostri non perderebbe proprio nulla della sua opportunità.

PROTEGGETE LA MONARCHIA SABAUDA

(Dall'Armonia, n.149,29 giugno 1856).

In Piemonte, nel breve giro di poche settimane, si videro fatti inesplicabili in materia di processi per delitti di stampa. Si vide condannata la Gazzetta delle Alpi» 15 giorni di carcere per avere augurato un nuovo Pianori all'Imperatore dei Francesi; si vide l'Espero condannalo a sei giorni di prigione per avere dato del ladrone all'Imperatore d'Austria; si vide l'Armonia condannata a diciotto mesi di carcere per aver detto, che nella Festa dello Statuto molte cose e molte persone mostravansi inzaccherate; si vide condannata la Maga di Genova per aver parlato men riverentemente delle gambe di una ballerina; e in mezzo a tante condanne ecco un'assoluzione, un'unica assoluzione. Il fortunato giornale è l'Italia e Popolo, l'organo ufficiale di Giuseppe Mazzini, il quale chiamato in giudizio il 25 di giugno, venne rimandato assalto. Il fatto è grave assai, e inerita la spesa di un articolo.

Il 25 di aprile di quest'anno l'Italia e Popolo, Nudi.117, discorreva del governo piemontese e della questione dell'intervento, ed esordiva così: «Quale è il concetto della Monarchia Savoiarda in fatto d'intervento? È nozione ormai divenuta popolare, che il tentennare, l'irresolutezza fra la cupidigia di nuovi acquisti e la pusillanimità nell'operare, caratterizzano la politica della famiglia di Maurienne. Chi volesse rappresentarla grottescamente, la dipingerebbe sotto il simbolo dell'asino di Burìdan, che se ne sta digiuno fra due misure di avena, per non sapere da qual parte principale».

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Il fisco si scandolezzò di queste parole dell'Italia e Popolo. Trovò la Monarchia Savoiarda chiamata in campo, mentre la persona del Re è sacra ed inviolabile, e non si può parlare di Monarchia, cosa astratta, senza accennare al Monarca» Trovò offensiva la frase, che si riferisce alla famiglia di Maurienne, la quale assumeva un peggiore significato per l'indole del giornale, che la stampava; trovò indegna la similitudine dell'anno di Buridan paragonato alla Monarchia Savoiarda, alla famiglia di Maurienne.

E la reità dell'articolo parve al fisco di Genova così chiara, così evidente, che esso non dubitò di punire il gerente dell'Italia e Popolo prima ancora che fosse condannato; mandò per lui, lo strascinò in prigione, e vel tenne per due mesi; cosa che cerio non avrebbe fatto, quando avesse menomamente messo in dubbio la sua condanna.

Invece, che cosa avvenne? La causa fu sottomessa al giudizio dei giurali, e questi pronunziarono l'innocenza del gerente, e non videro veruna sconvenienza, veruna illegalità nelle frasi dell'articolo. E in quel medesimo momento, in cui i giurati assolvevano l'Italia e Popolo, il suo gerente stava in prigione, onde il tribunale dovette ordinarne il rilascio!

L'Italia e Popolo oggi canta vittoria, e scatenasi contro del fisco. Canta vittoria perché i suoi difensori poterono mostrare come la politica del tentennare Ha inviscerata negli atti e nelle abitudini della Monarchia Savoiarda; e si scatena contro del fisco, perché punì l'innocenza, si rese reo d'arbitrio solenne, e le cagionò danni, che dovrebbe, ma non può riparare.

E sono giusti gli inni e le lagnanze del giornale mazziniano. Ammessa l'infallibilità de' giurati (e non si potrebbe negare, senza pericolo di processo) è certo che all'Italia e Popolo venne usata una vera soperchieria, una grande ingiustizia, una letterale persecuzione; ed essa oggidì può vantare un trionfo contro quella Monarchia di Savoia, che tanto disprezza, e ripetere, come pur troppo ripete, essere la famiglia di Maurienne l'asino di Buridan.

Se le nostre parole potessero danneggiare in qualche modo la causa dell'Italia e Popolo continueremmo a tacere; ma poiché il giudizio è finito, e nessun danno può provenire all'accusato dai detti nostri, ci crediamo in debito di protestare solennemente contro di un fatto, che da ansa ai repubblicani, e che sminuisce di molto il rispetto dovuto alla Monarchia. La protesta non è senza pericolo; ma trovandoci trai giurati e la Casa Sabauda, non esitiamo nella scelta. Molti pericoli abbiamo già corso per essere sorti in difesa dei nostri Re, e ci abbiamo attirato sul capo tant'odio e tanta vendetta; ma non per ciò ci viene meno il coraggio, «, soldati fedeli della Monarchia, non sarà mai, che abbandoniamo il nostro posto.

L'Italia e Popolosi difese dicendo, che essa non avea sparlato della persona del Monarca sibbene della Monarchia; e quest'argomento prova agli occhi nostri la maggiore importanza della cosa. Il giornale mazziniano bada ai principii, e non cura le persone; noi, potendolo, difendiamo le persone, e sempre ed in qualunque caso il principio. La Monarchia, e la Monarchia Sabauda è per noi inviolabile, e le offese che se le recano, ci vanno all'anima.

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In religione il Papa, in politica iL. Re; tutto il Re, tutto il Papa, ecco il nostro programma.

Ora potremmo noi non essere contristati di ciò che avviene in Piemonte? Potremmo tacere vedendo, che l'insulto recato all'Imperatore dei Francesi è punito, punito l'insulto che vien fatto all'imperatore d'Austria, e non c'è verso per castigare chi si professa apertamente nemico della nostra dinastia, e la deride, e l'insulta con villano confronto? Potremmo non gemere vedendo in Genova quasi contemporaneamente assolto chi getta lo sprezzo sulla famiglia di Maurienne, e condannato chi si rise d'una ballerina? Potremmo dissimulare mentre si crede che le istituzioni libere possano patire d'un epigramma dell'armonia, e poi non si può castigare qualche cosa di più che un epigramma.

La guerra ai troni incomincia sempre coi frizzi, e poi va a finire coi processi. L'opposizione scherzava in Ispagna contro Maria Cristina; ora l'accusa di peculato e di peggio, e la vuole condannata. Tutto è il primo passo, e «e questo si può darò impunemente, guai alla Monarchia!

Si dice che i giurati rappresentano l'opinione pubblica. Non vogliamo negarlo solennemente per evitare le conseguenze che deriverebbero dal verdict dei giurati di Genova. Questi hanno assolto l'Italia e Popolo, ma l'opinione pubblica, ossia l'opinione onesta, l'opinione intelligente, la condanna. Il suo scritto, le sue allusioni, il suo confronto, hanno qualche cosa che fa ribrezzo. Certo non istampano nel cuore di ehi legge un buon concetto della Monarchia Sabauda.

Una volta tra noi le offese recate ai governi esteri ed alle persone dei loro Sovrani venivano sottoposte al giudizio dei giurati, come le offese e gli insulti fatti al nostro Re. Le Potenze straniere non istimarono la legge buona guarentigia contro gli scrittori spudorati, e vollero una riforma. La riforma fu compiuta per opera del ministro Deforesta, e questi giudizi vennero sottraili ai giurati, e sottoposti ai tribunali ordinari.

Si fu per ciò che l'Espero e la Gazzetta delle Alpi toccarono una condanna. Se i giudici del fatto fossero stati chiamati a pronunziare sulla reità di questi due giornali, noi possiamo mettere pegno, che amendue venivano assolti.

Di qui ne nasce, che in Piemonte oggidì è più protetto l'onore delle Monarchie estere che della Monarchia nostra, e che si corre maggior pericolo celiando sull'Imperatore dei Francesi e sull'Imperatore d'Austria che sulla nostra Famiglia Reale. E questa, come ognun vede, è un'assurdità che dee cessare.

Noi domanderemo ai ministri e ai loro giornali: diteci, in grazia, se i tribunali di Genova avessero giudicato l'Italia e Popolo, sarebbe essa stata assolta? Ci risponderanno francamente, che i tribunali genovesi avrebbero condannato il giornale di Mazzini. Dunque, ripigliamo noi, in Piemonte altro sogliono sentenziare i giurati, altro i tribunali ordinari. Di che, o gli uni o gli altri hanno torto, solennissimo torto, ed è mestieri, che questa contraddizione cessi, perché ripugna a un buon governo, alla retta amministrazione della giustizia.

Mentre Urbano Rattazzi scrive una circolare draconiana per tormentare i parrochi, calunniandoli come se non pregassero per la persona del Sovrano, in Genova si assolve cui rassomiglia la famiglia di Maurienne all'asino di Buridan.

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Staremo un po' a vedere quali misure abbraccierà il signor Rattazzi, che si dimostra così tenero dell'onore della Monarchia. Egli già venne accasato da Vincenzo Gioberti d'avere giuocato a Novara il trono e la vita di Carlo Alberto. Pensa forse di darci una replica? Cel diranno i fatti.

Quanto a noi, reggiamo ovunque pericoli per la Monarchia; pericoli nella licenza che si permette, nella libertà che si nega; pericoli negli inetti e nei tristi; pericoli nelle condanne e nelle assolutorie, e stimiamo debito nostro esclamare: MINISTRI DEL RE, PROTEGGETE LA MONARCHIA SABAUDA!

L'INGHILTERRA

E

LA RIVOLUZIONE ITALIANA

(Dall'Armonia, n.150,1° luglio 1856).

Se tanto ai parlò in Inghilterra d'Italia e di Piemonte, si fu perché noi siamo andati a chiedere elemosina agli Inglesi, e costoro prima di darci il denaro addimandato, vollero discutere sull'uso che noi saremmo per farne. Una dei punti principali, che dava gravi timori ai conservatori inglesi, si era, che il Piemonte fosse per valersi de' milioni britannici per mettere iu soqquadro l'Italia. Lord Palmerston disse su questo argomento memorande parole, che vengono cosi compendiate dal Daily News:

Lunedì scorso lord Palmerston dichiarò cortesemente al rappresentante di Pio IX e del Re di Napoli nella Camera inglese dei Comuni, che il progetto di legge sull'imprestito sardo non era introdotto per dare al governo sardo i mezzi di rivoluzionare l'Italia. Lord Palmerston accompagnò la sua dichiarazione con un'avvertenza, sulla quale i liberali inglesi hanno diritto di chiedere alla lor volta qualche schiarimento. Disse lord Palmerston, che il governo di S. M. era bensì desideroso di sostenere il governo sardo in quel procedimento illuminato (sic) e liberale (sic, sic), che ha tenuto finora in modo così onorevole (sic, tic, sic); ma che se avesse ad accadere, ciò che per ora non è, che il governo sardo fosse animato da progetti di aggressione, il governo inglese farebbe uso di tutta la sua influenza per distoglierlo da una tele condotta».

Queste parole sono gravi, gravissime in bocca di lord Palmerston, e in questi momenti. H ministro inglese in certo modo canta la palinodia, e parlando cortesemente al rappresentante di Pio IX, fa ammenda d'avere anteposto il governo provvisorio di Roma al governo legittimo del Papa; getta acqua sul fuoco, che esso Stesso ha acceso nei nostri rivoluzionarii, e quasi quasi dice ai libertini piemontesi, che se essi tentassero di usurpare le Legazioni, o conquistare il Lombardo-Veneto, la prima Potenza che si troverebbero contro, sarebbe appunto l'Inghilterra» Ciò che viene a spiegare la fredda risposta di lord Clarendon alla nota dei nostri rappresentanti nel Congresso di Parigi, e i rimproveri contenuti nell'ultimo dispaccio del conte Walewsky al nostro governo.

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L'Inghilterra in certo modo protesta per mezzo di lord Palmerston, che se da qualche milione al Piemonte, lo fa per pura compassione, giacché il conte di Cavour, nelle note indirizzate a lord Clarendon, si lagnò vivamente dello oberate finanze, ma che essa è lontanissima dal voler con ciò sostenere la rivoluzione in Italia, o dare ansa alle mire aggressive de' ministri piemontesi; anzi, qualora essi rinnovassero le pazzie del 1848 e 1849, il governo britannico farà uso di tutta la ma influenza per disfarglieli da una tale condotta.

Che cosa volete di più chiaro e risoluto? Chi dopo tali parole oserà ancora confidare in Palmerston o nell'Inghilterra? Questo governo si pronunzia apertamente per l'Austria, e vuole il Piemonte qual è, né pili grande, né più piccolo. Non vel diceva il conte Solaro della Margherita fin dal 6 di maggio? Non vel profetizzò, che la stessa Inghilterra non sarebbe mai più stata con voi? £ perché noi voleste credere? Uomini nuovi, inchinatevi agli uomini antichi, ed imparate da costoro a conoscere lo stato dell'Europa, la politica dei gabinetti, e le conseguenze degli eventi.

Il Daily News, da cui abbiamo tolto il sunto delle parole di lord Palmerston, ne apprezza tutta l'importanza, e, giornale rivoluzionario qual è, se ne lagna altamente col ministro inglese. Se ne lagna perché lord Palmerston ha fatto supporre, che il governo sardo potesse quandocbessia essere animato da progetti d'aggressione; se ne lagna, perché ha confermato la voce già corsa, che la Sardegna non fosse più sostenuta dalla Francia e dall'Inghilterra nella sua politica; se ne lagna, perché le parole di lord Palmerston dovranno naturalmente diminuire i influenza della Sardegna nei Consigli degli Stati italiani.

«Per ciò che concerne lord Palmerston stesso, dice il Daily News, non abbiamo verun dubbio intorno ai suoi intendimenti ed ai suoi desiderii, che sono riguardo alla Sardegna ed all'Italia, degni di un uomo di Stato inglese. Ma ci duole d'essere indotti, per amore di verità, a dichiarare, che non riponiamo la medesima fede nei suoi colleghi. E peggio ancora abbiamo troppo buone ragioni per credere, che il gabinetto inglese, in questo momento, riceva le sue informazioni relativamente agli affari d'Italia da una sorgente impura».

Ed ecco qui nuovi motivi per gli italianissimi di dolore e di disperazione. Tutti t colleghi di lord Palmerston non sono amici della Sardegna, né voglioso sostenerla nelle sue idee e nei suoi divisamenti. Lord Palmerston, o finto o sincero, ha parlato nella Camera dei Comuni nel senso dei suoi colleghi, e poco monta ciò che egli pensi internamente. In fine, gli stessi agenti diplomatici della Gran Bretagna, che sono in Italia, danno addosso al liberalismo. La presenza di lord Normanby a Firenze fa un male infinito, secondo il Daily News, La notoria sua devozione all'Austria ed alla Corte di Parma ispira a tutti i sanfedisti la piena fiducia, che la Corte ed il gabinetto d'Inghilterra sono dalla parte loro».

Donde conchiude il giornale di Londra: «Se non si prendono misure immediate e risolute per opporsi a questa fatale impulsione, le conseguenze ne saranno oltremodo disastrose». Le uniche misure sarebbero di cambiare in Italia i diplomatici inglesi, che vi sono presentemente, e di cacciare i colleghi di lord Palmerston dal ministero. Ma fioche non sono abbracciate queste due misure,

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noi siamo licenziati dal Daily News a dire, che l'Inghilterra non è pei nostri ministri, né pei nostri italianissimi, ma invece poi sanfedisti, e per l'Austria,

Ora facciamo un po' i conti, e ricerchiamo chi stia in questo momento co| nostro ministero. Non. ci sta certamente l'Austria, perché tra la sua politica e la nostra vi corre un abisso. Non ci sta la Francia, e oltre tanti altri argomenti, l'ha dimostrato l'ultimo dispaccio del conte Walewsky al nostro gabinetto. Non ci sta la Russia, perché essa è benissimo col l'Austria, checché ne sia detto in contrario, e ben lo dimostra ta dimora di Gorkiakoff a Vienna, e le sue ottime relazioni col conte Buoi. Non ci sta la Prussia, ed essa già Io protestò in termini; in un suo foglio, dicendo che, Potenza conservatrice, e Potenza germanica, non potrebbe far comunella con chi grida al tedesco, e promuove la rivoluzione. Chi sta adunque con noi? L'Inghilterra? Leggeste poco fa le parole di lord Palmerston. La Spagna? Ha da pensare a se stessa, ed alle sue colonie. L'Olanda? S'è gettata testé in braccio ai reazionari groenisti,11 Belgio? L' ha data vinta ai clericali nelle passate elezioni. Dunque chi sta con noi? Il ministero nostro è solo, e dee fare da sé.

Ma guai al solo! Vae soli! leggiamo nelle sante scritture. E perché? Quia si ceciderit non habet sublevantem se. E noi già lo provammo a Novara, dove cademmo, e non ci fu chi ci sostenesse. L'avere amici, se è buono per gli individui, è necessario per gli Stati. Si quispiam praevaluerit contra unum, duo resistunt ei. E l'Ecclesiaste alludeva alla politica, perché soggiunge: Melior est puer pauper et sapiens rege sene et stulto, qui nescit praevidere in posterum. Se i nostri avessero avuto un po' di previdenza, certo non si troverebbero oggidì in così fatale isolamento.

Guardatevi intorno, o ministri: chi è con voi? Nessuno. Ministri italiani, avete Italia nemica. Nemici vi sono i principi, de' quali insidiate il trono, nemici t popoli de' quali insidiate la pace. In tutto il resto d'Europa le maggiori potenze hanno ribrezzo di associarsi con voi ne' vostri divisamenti. Voi siete soli, e soli anche in Piemonte, dove le popolazioni guardano con indifferenza i vostri spropositi, e ridono delle vostre castronerie. Vae soli! Guai a voi, o ministri! La vostra caduta è inevitabile: avete seminato il vento, e dovrete di necessità raccogliere tempesta. Avete fatto lega colla rivoluzione, e questa vi strozzerà; e non vedrete una mano amica sostenervi nel vostro pericolo, né una voce pietosa compiangervi nella vostra caduta.

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L'AUSTRIA IN ITALIA

E

L'AVVOCATO FERDINANDO DAL POZZO

(Dall'Armonia, n.155,6 luglio 1856).

Sarà sempre di Dal Pozzo onorata la memoria. Brofferio, Storia del Piemonte, parte 1, capo VII, pag.104, Torino,1849..

Il conte Ferdinando Dal Pozzo, già referendario nel Consiglio di Stato di Napoleone, e primo presidente della Corte Imperiale, uomo amantissimo di libertà, dettava nel 1833 uno scritto divenuto oggidì rarissimo e intitolato: Della felicita che gli Italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi. Lo scritto veniva stampato in Parigi presso Ab. Cherbuliez, libraio, e portava la seguente epigrafe: Il giusto, il ver, la libertà sospiro. Angelo Brofferio nella sua Storia del Piemonte, dopo di aver raccontato i benefizi resi alla libertà italiana dal conte Dal Pozzo, e detto che ne sarà sempre onorata la memoria, viene particolarmente a parlare di questo scritto da noi citato, e si esprime così: «Né io dirò che l'antico ministro del 1821, affievolito dall'età e dalle sventure, fosse nel vero e nel giusto: dico soltanto che oneste erano le sue intenzioni (parte III, cap. II, pag.145). Speriamo che nessuno vorrà attribuire trista intenzione all'Armonia, che crede ben fatto di pubblicare alcuni capitoli del conte Dal Pozzo. Grandi disgrazie furono già chiamate sulla povera patria nostra dagli utopisti, i quali però non cessano dell'abbindolare gli Italiani, e spingerli alle più pazze intraprese. V'hanno certi principii che costoro ci impongono di credere, senza nemmeno permetterci di poterli richiamare ad esame. Poiché noi troviamo che uomini della loro scuola li hanno esaminati essi stessi, e giunsero a conseguenze afflitto contrarie a quelle che se ne deducono oggidì, chi ci vieterà di valerci del loro lavoro, di rimetterlo in luce, di dire, ad esempio, ai nostri concittadini: Ecco come la pensava un avvocato liberalissimo; leggetelo e giudicatelo! Noi dunque pubblichiamo parecchi capitoli dell'opera del conte Dal Pozzo, sottomettendo i suoi ragionamenti al giudizio ed alle critiche di chi la pensasse altrimenti da lui.

CAPO VIII.

Lo accomodarsi allo stato presente delle cose è il più savio consiglio, a cui gli Italiani possano appigliarsi.

Dissi che in primo luogo è pazzia il non sottomettersi alla necessita delle cose; ma non esaurii questo argomento; ed è nondimeno opportunissimo che io il faccia.

L'Italia, come ognun sa, dalla caduta dell'Impero romano, cioè da tredici secoli in qua, fu dominata da genti straniere, Bruii, Ostrogoti, Lombardi, Francesi, Tedeschi e Spagnuoli. A malgrado di un fatto cosi patente» e cosi lungamente costante, uditm sempre decantare l'italico valore! la nazionalità e l'unione italiana, ed altamente predicarsi, esortarsi, minacciarsi, l'espulsione degli stranieri. L'invasione di questi si attribuisce ora ai Papi, che li fecero venire, ora ad altre cagioni, ed ogni invasione si descrive come un'accidente. Egli è un voler chiudersi gli occhi per non vedere una verità storica e politica, brutta si quanto mai si possa dire, ma pur chiara come il sole?

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cioè che l'Italia dalla caduta dell'Impero romano fu sempre debole, divisa, e che per ritornarla all'antico stato, non ci vorrebbe meno che ricomporre l'antico Impero di Roma, ricacciar ne! settentrione i popoli forti, che ne uscirono, e i loro discendenti, non che distruggere tutti gli effetti della loro dominazione, e gli effetti degli effetti, il che è impossibile. Egli è poi facile l'intendere come, mentre l'Italia andava gradualmente infievolendosi, e decadeva (quanto alla potenza militare e politica, intendiamoci, poiché quanto alle arti, alle scienze all'industria, non solo risorse, ma rifulse), altre potenti nazioni siensi formate, conglobate, ingrandite, cioè la gallica, alcune nazioni germaniche, e la monarchia austriaca specialmente; ed è in questa situazione di cose che alcuni pensano a far rinascere in oggi un'Italia politicamente poderosa, e forte, e libera da qualsivoglia soggezione straniera. Si adducono in prova della possibilità, anzi della facilità di riuscire io quest'alta impresa» de' mirabili fatti delle piccole repubbliche italiane, delle magnifiche frasi di poeti ed oratori sullo stato d'Italia; si fa valere il suo primato incontestabile (almeno in origine) nelle arti e nelle scienze, e confondendo l'Italia antica colla moderna, le scienze ed arti di pace con quelle della guerra, le quali ultime sole per altro essenzialmente decidono dei destini politici delle nazioni, si fanno castelli in aria, %i compongono degli eloquenti scritti, delle poesie sublimi, e si crea fantasticamente un'Italia, che né esiste, né esisterà mai; ed intanto si prepara a questa si bella contrada, così dalia natura favorita de' suoi doni, un'infelicità o una servitù, che gl'Italiani potrebbero evitare, o almeno soavizzare, se sapessero da saggi accomodarsi allo stato presente delle cose, ed anzi pigliare da questo le mosse, onde giunger ratto ad assai migliori destini, e levarsi anche a libertà. Numquam libertas gratior exstat quatti sub rege pio, diceva Claudiano.

CAPO IX.

Il dominio austriaco, secondo tutte le apparenze attuali, è per gli Italiani

un'inscampabile necessità. L'idea di espellerlo è la più fantastica e la pia assurda

che mai si possa da taluno di non sana mente concepire.

Conviene che gl'Italiani, calmando la loro fantasia, e considerando pacatamente lo stato politico attuale d'Europa, la lega dei governi europei divenuta pressoché indissolubile, l'amor 'della pace prevalente più che mai, tanto ne' governi moderni, quanto nel grosso dette popolazioni, donde nasce anche un odio alle rivoluzioni, le quali da un'imperiosissima necessità non erompano, massime se da niuna o lievissima apparenza di successo accompagnate; ciò tutto freddamente meditando, gl'Italiani» persuadano, che il dominio austriaco è per loro una necessità inscampabile;-il che io conscienziosamente reputo a gran ventura per essi, e ne dirò in appresso le ragioni; ma per ora basta al mio intento! che si convincano della verità di questa asserzione.

Il presente dominio austriaco, congiungendolo come è d'uopo, coi precedenti governi di vari secoli» da cui esso deriva, e di cui non è che una continuazione pose sì salde e si profonde radici in Italia, che niun evento, né italico, né europeo, - nemmeno la rivoluzione di Francia, che fece cambiar d'aspetto a tante cose politiche, - fu da tanto, da onninamente e per sempre schiantarlo. Due volta, e ad intervallo, parve sbarbato, - e veramente il fu per alcuni anni; -si estolse quindi più vegeto ancora e rigoglioso che mai non sia stato, sfidando i venti e le tempeste. Se le tante vittorie di Napoleone, - non parlo delle insurrezioni! che non furono che piccoli soffi, - non lo abbatterono per sempre, come mai i debolissimi e divisissimi Italiani d'oggidì, quali li ho sopra descritti, si possono lusingare di riuscire in questa grande impresa?

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Pure un gran numero di liberali italiani parlano di scacciare gli Austriaci dall'Italia, come della cosa la più facile del mondo, dimenticandosi, che essa è fra le prime Potenze continentali, divenuta ancora più gigantesca e più guerriera che non quando Napoleone la combatté - l'alleata la più necessaria all'Inghilterra - unitissima di spirito colle altre Potenze continentali nell'intrapresa di soffocare Je rivoluzioni, poco q nulla avente a temere della Francia, governo fresco, che abbisogna di consolidarsi, e non va per l'interesse degl'Italiani a misurarsi coll'Austria.

CAPO X.

Benché riuscisse agl'Italiani di discacciar gli Austriaci il più verisimile è che ritornino.- Che cosa sarebbe contro l'Italia un'Austria espulsa pretendente?

Un'altra osservazione importantissima è a farsi, la, quale si è, che, dato per ipotesi che sua rivoluzione di un grandissimo successo, o altra combinazione politica, agevolasse questo cosi desiderato discacciamento degli Austriaci dall'Italia, in modo anche a parere un'impossibile cosa il loro ritorno, - e questi impossibili quante volte non si realizzano in politica! Perciocché pareva, nel 1810, per esempio, un impossibile la caduta di Napoleone, un impossibile la ristorazione de' Borboni, un impossibile ritorno della Casa Savoia in Piemonte, ecc. ecc., è questi impossibili pareano generalmente tali a tutti i Principi d'Europa, a tutti i popoli, a tutti gl'individui, il che, dalla loro condotta di quel tempo, chiarissimamente si dimostra, qualunque cosa in contrario siasi poi detto e protestato dopo il fatto:-dato dunque per ipotesi che gli Austriaci sieno si ben fugati dall'Italia, che il loro ritorno sì potesse riguardare come il sommo impossibile, - egli è da avvertire che, a meno che l'austriaca Potenza si estingua affatto, e sparisca dalla scena del mondo, un tal impossibile non entrerà mai nella testa dei Principi della Casa d'Austria, di modo che, anche dopo un mezzo secolo o un secolo, questa Casa avrà sempre un pretendente, e un terribile pretendente sulle provincie italiane, che possedeva.

Esso pretendente mediterà invasioni, susciterà guerre estere ed interne, favoreggierà cospirazioni; i suoi fautori trameranno insidie, corromperanno ministri e deputati, in sostanza quelli e questi faranno il diavolo, come tutti i pretendenti hanno fatto e fanno, né lasceranno mai in pace quel governo italiano, che i liberali antiaustriacissimi avrebbero fondato. Non mai potrebbe far presa e consolidarsi. Non si è veduto quello che fecero gli Stuarts nella Gran Bretagna, e che cosa non hanno tentato in Trancia i Cartisti colla duchessa di Berry a nome di Enrico V?

E se questi pretendenti esuli e senza forze loro proprie, hanno tanto potuto iqutetare, ed i Carlisti chi sa fin quando, - se non di continuo, almeno di tempo in tempo, e profittando di tutte le circostanze, -mineranno H governo francese di luglio 1830, cosa non potrà fare l'Austria espulsa, pretendente, colle forze grandissime che sempre le rimarranno contro l'Italia?

Conchiudiamo dunque, che l'Italia coll'Austria congiunta ed inviscerata, -coll'Austria fatta ancora più liberale, che non è, dallo spirito e dall'amor degli Italiani; questa Italia potrà sorgere si alto da comandare a quasi tutto il mondo, ed a rendere i suoi abitatori felicissimi; laddove Italia dall'Austria sceverata, ed in competenza colle altare gigantesche Potenze Europee, non sarà mai che un precario e debole Stato. Nella bilancia de' suoi destini, quale differenza di peso non debbe apportare un'Austria in favore od un'Austria contro! Perciocché un'Austria nutra non vi sarà mai per lei. Bisogna essere cieco affatto per non vedere una così radiante verità.

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GARIBALDI

VlEN FUORI DOPO IL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia, n.166,19 luglio 1856).

Giuseppe Garibaldi, che è la spada d'Italia, come Giuseppe Mazzini ne è l'idea, da qualche tempo in qua va isolando sul nostro litorale marittimo, tenendo, per così dire, un piede in mare e l'altro in terra, per essere pronto ad ogni evento; o di scendere in terra al rompere della guerra, o di pigliar il largo se il vento spira contrario. Ora secondo un giornale genovese, si è stabilito nell'isoletta Caprera, attendendo con guerresca impazienza il non lontano giorno di un nuovo e sensato rivolgimento italiano. Ma sia residuo delle passate fatiche, o noia dell'ozio involontario, il Garibaldi non iste troppo bene in salute, e recossi il 9 di questo mese allo stabilimento idroterapico di Voltaggio per curarsi de' suoi mali. E là appunto doveva aver luogo una di quelle dimostrazioni, che sono tanto in uso nel nostro paese per tenere a bada i pasoibietola. Il Garibaldi adunque, e tanto nel paese, quanto nello stabilire mento de' bagni, fu con molto onore e piacere ricevuto, ed alla sera si radunarono sotto le sue finestre molti del paese, i giovani specialmente, e con a una serenata tanto pia bella, quanto più poco attesa in quel luogo, dove e la bella dea della musica non istà al certo di casa, gli porsero splendido attestato d'amore e di venerazione». (Movimento n.193).

L'animo di Garibaldi non poté essere insensibile a tanta gentilezza della bella dea della musica, ed il giorno dopo, con una lettera tutta spirante le grazie della dea e l'estro della serenala, così ringraziava i cittadini:

«Ai cittadini di Voltaggio,

«Accenti di musica deliziosa bearono questa notte gli abitatori di questo stabilimento, e mi venne detto, che i cittadini di Voltaggio vollero in me onorare il principio italiano.

«lo accetto intenerito, e riconoscente questo omaggio d'un popolo benemerito, ed auguro da queste e da altre non equivocne manifestazioni la prossima liberazione del nostro paese. - Si, giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compire il sublime concetto di Dio, emanato nell'anima dei nostri grandi di tutte le epoche: l'unificazione del gran popolo, che diede al mondo gli Arehimedi, i Scipioni, i Filiberti. - A voi, guardiani delle Alpi, viene commessa oggi la sacra missione; non vi è un popolo della penisola, che non vi guardi, e che non palpiti alla guerriera vostra tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia. - Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l'abituro de' vostri fratelli, ba la paura e la morte nell'anima.

«Gli Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al glorioso vessillo che vi regge, ed io, giubilante di compire il mio voto all'Italia, potrò, Dio ne sia benedetto! darle questo resto di vita. «Dallo stabilimento idroterapico dei signori Ansaldo e Romanengo.

«Giuseppe Garibaldi»

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Come potete ben immaginare, i Voltaggiesi risposero alla lettera dell'eroe d'Italia. Dopo aver enumerato le gloriose gesta del campione d'Italia, i Voltaggiesi, prostrati a' piedi di quel grande, «vi ammiriamo altamente, gridano, e «facciamo da questo momento solenne sacramento, per quanto debolezza e pochezza nostra il consentono, di proporvi a nostro esemplare». A' quei poveretti però due timori sopravennero a turbare l'anima: l'uno è, che quelle loro parole fossero una bassa adulazione, e che il Garibaldi stesso che non è poi un citrullo) se ne pigliasse beffe. Quindi soggiungono: «Né crediate con «ciò, che noi vogliamo adularvi, che ben conosciamo, per isterici fatti e me onorabili tradizioni, quanto sia aliena da ciò la vostra grand'anima».

L'altro timore si è, che gli austroclericali ridano di quella commedia, e Gli e austroclericali rìderanno, siccome sempre son osi a fare, di queste nostre e espressioni, e fortunati noi, se saranno considerate per parti di menti esaltate, siccome a piena gola decantano». Oh che crudeli son mai quegli austroclericali! ridere di cose così serie? e trattare da parto di menti esaltate parole dette nel massimo buon senno? Veramente sono da compatire gli austroclericali, perché anche nel manicomio, con tutta la compassione che altri sente per que' cattivelli, tal volta le dicono così madornali e sbardellate, ed insieme mostrano tanta gravita e un tale far da senno, che riesce impossibile di contenere le risa.

Il Garibaldi partiva il 5 da Voltaggio (pare che il male non fosse così grave, se guarì in cinque giorni), e giunto a Gavi, fu salutato dai concenti della banda e dai fragorosi evviva di quella popolazione, e dimostrato con brevi parole quanta fosse la sua riconoscenza per quella inaspettata dimostrazione di simpatia, accompagnato per un tratto di strada dalla musica e da quei bravi terrazzani, proseguì il viaggio.

Bisognerebbe non aver occhi in testa per non vedere che la cura idiopatica non fu che un pretesto, sapendosi che tali cure non si fanno in cinque giorni! Il Garibaldi volle fare una passeggiata trionfale, non tanto per raccogliere fumo, e suono, e applausi, quanto per attizzare il fuoco italianissimo, e forse per disporre i suoi fili a qualche impresa delle usate. Del resto, non è nostro intendimento di penetrare ne' consigli segreti de' cospiratori. Per noi basta il sapere che queste dimostrazioni, la cui rìsponsabilità cade naturalmente sopra il ministero, sono sempre nuovi, fomiti di dissapori e di ire che straziano la povera Italia, e, peggio ancora, rovinano il nostro paese, il quale non può aspettarsi da queste commedie e da siffatti uomini altro che pianto e miseria.

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ANNIVERSARIO

DELLA MORTE DI CARLO ALBERTO

(Dall'Armonia, n.174,29 loglio 1856),

Oggi è giorno di. gravi e solenni pensieri, perché ricorre l'anniversario della morte di Carlo Alberto. Preghiamo requie al nostro Re; e in questi momenti, ohe hanno tanta rassomiglianza coi giorni del 1848 e 4849, non dimentichiamola sua tristissima fine.

Carlo Alberto compariva sulla scena politica nel 1821, e a Novara si celebrava il prologo della grande tragedia. Molti anni dopo, cioè nel 1849, nella stessa Novara assistevano i Piemontesi alla dolorosa peripezia.

Il 23 di marzo del 1848 si dichiarava all'Austria la guerra fatate, o il 23 di marzo del 1849 lo sventurato Carlo Alberto abdicava in Novara la corona, e si condannava ad un volontario esilio in Oporto.

Chi ha perduto Carlo Alberto? L' hanno perduto que' medesimi che ora stanno intorno a suo figlio. Un di questi, il signor Buffa, sottraeva dalle Poste di Genova una lettera indirizzata a persona amicissima di Carlo Alberto, eia sottraeva poco prima della catastrofe di Novara.

Questo signor Buffa medesimo il 26 di marzo 1849 annunziava nella Camera 'dei Deputati l'opera sua, e l'opera de' suoi colleghi, dando pubblica lettura d'una lettera scritta al ministero dal ministro Cadorna, che aveva assistito all'abdicazione di Carlo Alberto. Recitiamo alcuni periodi di questa lettera.

«La battaglia cominciata alle 11 e mezzo del giorno 23, volgeva in bene per noi sin verso le quattro e mezzo. Da quest'ora piegò in basso la nostra fortuna, perdemmo le posizioni, i nostri reggimenti dovettero lasciare il campo l'un dopo l'altro, l'Austriaco venne quasi alle porte di Novara.

«S. M. Carlo Alberto stette sempre esposto al fuoco, ov'era maggiore il pericolo; le palle fischiavano del continuo sul di lei capo; molti caddero morti vicino a lui; anche a notte egli continuava a stare sugli spalti della città, ove era ridotta la nostra difesa.

«II generale Giacomo Durando dovette trascinarlo pel braccio, perché cessasse di correr ormai inutilmente rischi terribili.

«- Generale, rispose il Re; è questo il mio ultimo giorno; lasciatemi morire. -

«Quando il Re vide lo stato infelice dell'esercito, e gli parve impossibile di resistere ulteriormente, e quindi necessario chiedere una sospensione d'armi, e forse di accettare condizioni cui ripugnava l'animo suo, disse, che il suo lavoro era compito, ch'ei non poteva più rendere servizio al paese, cui da diciott'anni avea consacrato la sua vita; che avea invano sperato di trovar la morte nella battaglia; che inseguito a maturo riflesso avea deciso di abdicare.

«Erano presenti i Duchi di Savoia e di Genova, il ministro Cadorna, il generale maggiore e gli aiutanti di S. M. Alle vive istanze fattegli, perché rivocasse la detta decisione, Carlo Alberto vivamente soggiunse: - Io non sono più Re; il Re è Vittorio mio figlio -.

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«Abbracciò e baciò tutti gli astanti, ringraziando ciascuno dei servigi resi a lui ed allo Stato. Dopo la mezzanotte partì accompagnato da due soli domestici».

Così finiva lo sventurato Monarca che i rivoluzionari voleano Re d'Italia. Pensiamoci. Demetrio di Falera, come racconta Plutarco, voleva «che quanto non ardiscono dire gli amici ai Re loro, si trovasse scritto ne' libri». Ebbene i migliori consigli stanno scritti nella Biografia di Carlo Alberto. Questa insegua a conoscere i tempi, i luoghi, le cose, gli uomini. Per carità, la vita e la morte di Carlo Alberto non ci sfuggano dalla memoria.

] nostri Senatori l'hanno chiamato magnanimo. Ma scrisse Vincenzo Gioberti nel suo Rinnovamento, tona.1, pag.518: I Senatori di Torino si consigliavano piti col giusto e recente dolore, che colla storia; e loro non sovveniva che il dar soprannomi non perituri appartiene solamente ai popoli arbitri della gloria e della loquela. Imperocché, se magnanimi, ai dire d'Isocrate, non sono quelli che abbracciano più che non possono tenere, ma quelli che hanno propositi moderati, e facoltà di condurre a perfezione le cose che fanno, soprastando ai meschini e volgari affetti; non so se i posteri giudicheranno che Carlo Alberto sia stato tale nella sua vita».

E i posteri già incominciano a formolare il giudizio, giudizio severo, perché spoglio dall'adulazione, e dicono Carlo Alberto reo di due colpe: debolezza e ambizione. Le purgò amendue a Novara, dove con fortezza d'animo sopportò la sventura.

Se egli dipoi fosse vissuto, e avesse regnato, certo la disgrazia sarebbe stata utile a lui, ed a noi. Ma poiché Novara gli avea aperto gli occhi, sopraggiunse la morte inesorabile, che glieli chiuse, eternamente.

ATTENTATI RIVOLUZIONARI IN ITALIA

NEL 1850.

(Dall'Armonio, n.176,31 luglio 1856).

Una rivoluzione in Italia era stata vaticinata fin dal 16 di aprile di quest'anno, nella nota che il conte di Cavour indirizzò a lord Clarendon ed al conte Walewsky. Allora diceva il plenipotenziarie) sardo, che in tutta Italia le popolazioni erano in uno stato d'irritazione costante, e di fermento rivoluzionario. Ne eccettuava però il Piemonte, ti solo Stato d'Italia che abbia saputo opporre allo spirito rivoluzionario un argine insormontabile!!!

Questo pensiero veniva svolto e commentato nelle tornate della Camera del Deputati dei giorni 6 e 7 di maggio, durante le quali furono recitati caldissimi discorsi, che si riducevano a dire così: - 0 Francia ed Inghilterra pensino a cacciare l'Austria e tutti i governi legittimi della Penisola incorporandola col Piemonte; oppure scoppierà io Italia una rivoluzione tale da mettere in pericolo tutta Europa. -

Si attese un po' di tempo per vedere come si comportasse la diplomazia a riguardo nostro. Lorenzo Valerio aveva con chiuso i suoi discorsi nella Camera colla seguente tirata:

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«Le nostre parole, le parole del signor presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre, non istaranno sicuramente chiuse in questo ricinto, o serrate nei confini che segna il Ticino. Le frontiere, le baionette, i commissari di polizia, i bini, che ricingono le altre provincie italiane, le quali sono da noi divise, non potranno tener lontano il suono di tali parole. Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi, e l'audacia ed il coraggio che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d'Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire». (Atti. Uff., N.257, pag.963).

Però e nella Camera dei Deputati e nel Senato del Regno s'era raccomandata pazienza agl'Italiani per qualche settimana; affinché la grande quistione potesse fare liberamente il suo corso. L'Italia obbedì. Ma la Francia non tardò guari ad attaccare, come suoi dirsi, al campanello dell'uscio ogni pensiero relativo alle cose nostre; e l'Inghilterra ne fé' tema di qualche discorso nel Parlamento, di qualche articolò nel giornalismo, ma tutto in fin dei conti si risolse in fumo. Le illusioni scomparvero e tutti riconobbero che la diplomazia avrebbe sempre lasciato l'Italia qual è.

Allora veniva di necessità la seconda parte del dilemma piantato dal medesimo conte di Cavour, cioè la rivoluzione. Si aspettavano le cinque giornate in Lombardia, e nulla. Si vociferava una rivoluzione in Messina, e nulla. Speravasi che la repubblica levasse il capo in Roma o nelle Legazioni, e nulla. I Lombardi dicevano, che si erano lasciati infinocchiare una volta, e n'aveano assai.1 Romani ridevano di buon cuore delle illusioni subalpine, e andavano dicendo, che non sono così gonzi da scambiare il Santo Padre coll'avvocato Rattazzi e coll'esattore Cavour. I Siculi davano uno sguardo alle finanze proprie, ed un altro sguardo alle finanze piemontesi, e ripetevano: chi è tanto mestolone da voler posporre la farina alla crusca! Fatto è che chi per questa, chi per quella ragione, nessuno degli Italiani muoveva una paglia.

Dicevasi bensì, che in Napoli nella via di Toledo s'era ritrovato un proclama rivoluzionario; ma l'Osservatore Tortonese ci avvertiva, che quel proclama era stato fabbricato in Torino. Il Risorgimento stampava un preteso indirizzo dei Romani al conte di Cavour. Ma i Romani dell'Italia e Popolo di Genova protestavano contro quell'indirizzo, sacramentando, che Romani non ne erano gli autori. Di Toscana giungeva un busto al nostro presidente del ministero, ma non si trovava chi potesse far sicurtà, che Camillo di Cavour non avesse pagato di sua borsa quel busto medesimo. E frattanto la minacciata rivoluzione non appariva. m

Quando eccoti sequestrate in Novara alcune casse di fucili, di stili e di cartuccie, e scoppialo sui nostri confini di levante un moto rivoluzionario. Siccome dopo il detto nella Camera dei Deputati un tumulto era necessario in Italia, così si tentò in quella parte della Penisola, che pili si prestava all'uopo. Il Ducato di Modena è degli Stati meglio governati, e i nostri giornali bendi rado sanno inventare calunnie contro del Duca. Però Carrara è città difficilissima, e guasta assai pel concorso degli artisti, che Ti convengono per ragione delle cave dei marmi. E d'ordinario i cultori delle arti belle sono intinti di pece rivoluzionaria, cospirando contro «e stessi, perché non v'ha peggior nemico dello arti, quanto la rivoluzione.

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Ed ogni qualvolta noi veggiamo un artista fare il demagogo, ci par di veder un pazzo suicida, che pensa a togliersi dal mondo.

Carrara adunque e i vicini paesi prestavansi doppiamente per un tentativo rivoluzionario, sia per la vicinanza di que' luoghi allo Stato Sardo, dove si può impunemente cospirare, sia per la natura di quelle popolazioni alquanto guaste dal concorso de' forestieri, e da spettacoli che presentano molti studi di scultori, troppo spesso dimentichi di quel detto del Petrarca, che «senza onestà non fùr mai cose belle».

E in Carrara fu tentata la rivolta che fortunatamente non riuscì. Lo stesso Risorgimento ci dichiarò, che le popolazioni non aderirono all'insurrezione, e que' pochi che la promossero, vennero ben presto arrestati, o messi in fuga. La cosa fu incominciata e finita nello stesso giorno; e tutto rientrò nell'ordine con una speranza di meno pei demagoghi, i quali incominciano a convincersi, che il 1848 non può tornar più per la grande ragione, die è già avvenuto una volta. E se gli uomini nuovi dimenticano la storia, non la sanno dimenticare le popolazioni, che vivono d'esperienza, e raccolgono perciò ne' proverbi la loro dottrina.

Come adunque si vide, che la tentata rivoluzione non era riuscita, i nostri giornali ministeriali si affrettarono ad addossarla all'Austria, od alla parte Mazziniana. L'Espero del signor Rattazzi disse, che i rivoluzionari di Carrara e di Massa erano agenti austriaci. Ma ne fu rimbeccato dall'Unione di Torino e dall'Italia e Popolo di Genova. Era di fatto un'assurdità tale, che non se ne intese mai una simile sotto la cappa del sole.

Se non sono però gli agenti austriaci, sono i Mazziniani, soggiunsero gli altri giornali del ministero, e incominciarono a deridere Mazzini ed i suoi. Si legga questa brano della Gazzetta del Popolo:

«La frittata mazziniana è stata realmente fatta, ma si fece qualche cosa di più: s'è fatto un fiasco solenne, ed è il millesimo uno, e non sarà l'ultimo, finché vi saranno illusi! che presteranno fede a certi altitonanti responsi, che emanano da una non so qual bottega (ormai screditata), che ha qualche rassomiglianza coll'antro di Trofonio.

f Vi dissi che stavasi preparando il pian terreno del manicomio, e mi pare di non aver detto un'eresia. Ma lasciamo le iperboli. Il nuovo tentativo mazziniano, concertato con tanta segretezza, che ne parlavano perfino le donnicciole, ebbe quel risultato che se ne poteva aspettare, e buon per quei poveri ingannati, che poterono riparare nel territorio del dinastico Piemonte, che altrimenti le loro teste avrebbero pagato lo scotto.

«Vuolsi che il quartiere generale dei 100 insorti fosse a Santerenzo, e che il Macini vi ai trovasse sotto le spoglie di un padrone di filuca di Lerici, ma è però positivo che non è marciato alla testa della banda che passò i confini.

«In verità che sono tali farse, da dare argomenti per un anno al Fischietto, e se le conseguenze non fossero funeste, vi sarebbe a smascellar dalle risa.

«Persona giunta or ora da Sarzana racconta i fatti a un dipresso come vennero accennati dall'Opinione, solo fa ascendere il numero degli insorti a cento circa, molti dei quali dei nostri paesi confinanti col ducato estense, i quali ritornarono sdegnati ed inveleniti contro gli agenti di una certa setta che avevano loro promesso mari e monti; circa una trentina erano stati arrestati dai nostri carabinieri senza che opponessero la menoma resistenza.

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Forse non sembrava loro vero di non essere caduti negli artigli dei dragoni (birri del duca), i quali non li avrebbero forse portati vivi a Carrara.

«A Sarzana stavasi in grande ansia, ma la popolazione è stata tranquilla. Vi era giunta buona mano di bersaglieri, i quali avviavansi a vigilare i confini onde non venissero violati da chicchessia».

Queste parole fanno stomaco. La Gazzetta del Popolo rìderebbe dei moti di Carrara, se avessero avuto un esito felice? Oh no, per davvero. In ohe cosa dunque fa essa consistere la moralità? Nella riuscita soltanto. E questa dottrina è liberale e civile, o non piuttosto tristissima ed infame?

Noi diremo francamente chi cagionò i tentativi di Massa e Carrara. Non furono né agenti austriaci, agenti mazziniani. Furono invece agenti ministeriali; e Mazzini, se operò realmente in questa circostanza, fu ministerialissimo. Egli sostenne la note Terbale e' la protesta del conte di Cavour nel Congresso di Parigi; egli obbedì alla parola d'ordine pronunziata dalla tribuna piemontese; egli cercò che non fosse smentito il vaticinio del ministero, che avea pronunziato una rivoluzione nella Penisola.1 ministeriali che lo deridono, Bon perciò ingiusti ed ingrati. Tutti coloro che vennero arrestati in Sarzana, o sui confini, meritano la croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro.

Il Risorgimento questa volta fu logico ed onesto nel giudicare il tentativo. Esso lo riconobbe una conseguenza legittima della politica piemontese. L'Italia sha da liberare, egli disse: Mio modo, una buona rivoluzione interna aiutala dal Piemonte. Se non si ammette un tale principio, tutto quello che fanno i ministri non ha più né scopo né significato i sorta. Dunque, posto che Mazzini sia l'autore dei moti di Massa e Carrara, i ministeriali debbono sapergliene grado, e dire ch'egli ha continuato l'opera della redenzione italiana incominciata da Camillo di Cavour nel Congresso di Parigi.

Le popolazioni è vero non corrisposero. Ma Mazzini non potea supporre tale e tanta indifferenza. I ministri non gli dicevano per mezzo dei loro organi ohe tutta Italia bolliva ed aspettava il segnale? Lorenzo Valerio non avea dichiarato che le parole del Presidente del Consiglio avrebbero ispirato coraggio ed audacia ai popoli, e quel coraggio e quell'audacia non (starebbero lungo tempo senza farsi sentire? Se Mazzini dunque si è ingannato, non lo deridete: compatitelo, e tanto più dovete compatirlo, perché l'avete ingannato voi.

Raccogliamo le fila: 1° L'attentato rivoluzionario di Carrara e Massa fu una conseguenza della politica e delle esortazioni del ministero piemontese; 2° Mazzini e Cavour non si possono ornai distinguere nel volere una rivoluzione in Italia, perché svanite le speranze nella diplomazia, debbono convenire amendue nella necessità d'una rivolta: 3° I giornali ministeriali sono necessariamente infinti nel disapprovare l'ultimo tentativo; 4° La sede della rivoluzione non é che in Piemonte, e solo dal Piemonte partono gli eccitamenti alla rivolta; 5° Le popolazioni anche più guaste della Penisola guardano i mestatori che cercano di levarle a tumulto, e non corrispondono ai tentativi; 6° Quanto i plenipotenziari sardi hanno asserito nel Congresso di Parigi é solennemente smentito dai fatti.

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INTERVENTO DEL PIEMONTE

NEL DUCATO DI MODENA

(Dall'Armonia, a.171,1«agosto 1856).

La. stagione delle messi è giunta, e i nostri ministri raccolgono ciò che hanno seminato dopo il Congresso, di Parigi. Essi si sono costituiti accusatori de' governi italiani, e patroni di tutti quanti i rivoltosi della Penisola, onde ne avvenne di necessità, che avessero la piena confidenza de' mestatori, e fossero in sospetto ed in ira ai governi legittimi.

Abbiamo toccato il primo punto nell'articolo precedente, dimostrando che gli attentati rivoluzionari di Carrara erano stati conseguenza naturale della politica del ministero.1 demagoghi non si sarebbero mossi, oltrepassando i confini, se non avessero confidato nel soccorso del Piemonte, se quel soccorso non fosse stato promesso nelle Camere dalla stesso conte di Cavour.

Oggi diremo brevemente dell'altro punto: della diffidenza cioè che debbono avere del governo nostro gli altri governi d'Italia, e del danno che ci recherà codesto essere stimati capaci di sinistre intenzioni.

Nella corrispondenza di Massa ducale, da noi pubblicata nel nostro numero di ieri, raccontavasi siccome il ministero piemontese avesse offerto al Duca di Modena due mila uomini di truppa per combattere la, rivoluzione. Il governo estense ringraziava, dicendo di non averne bisogno, e di bastare a se stesso.

Se la cosa è vera, ci meravigliamo altamente che il ministero abbia osato fare una simile offerta. Come? Vi dichiaraste a Parigi nemici e accusatori del governo di Modena, ed ora gli esibite la vostra roano per sostenerlo? Una delle due: o non foste veridici allora, o non siete sinceri presentemente. Imperocché voi fate due parti, che cozzano fra loro. Se l'estense è buon governo, non dovevate gettarlo a fascio cogli altri d'Italia, e riprovarlo; se è tristo, non vi Conviene dargli di spalla, e mantenerlo in vita.

Questo ragionamento è naturalissimo, e lo avrà fatto certamente il governo di Modena. Il quale ha rifiutato l'aiuto piemontese per non averne bisogno; ma l'avrebbe rifiutato egualmente qualora ne avesse abbisognato, perché tutto dava a sospettare, che l'offerta fosse mossa da tristissimi fini. Noi vogliamo credere che le intenzioni sieno state onestissime; ma queste le conosce Iddio soltanto, laddove gli uomini giudicano dai fatti, e i fatti precedenti consigliano i governi italiani a considerare il piemontese come il loro più sfidato nemico.

Vaglia il vero. Nel 1849 s'esibì pure l'aiuto nostro al Santo Padre esule in Gaeta. Ma lo scopo n'era sincero? A que' dì il ministro di Napoli avvertiva il Pontefice, che il Piemonte, intromettendosi nelle cose dello Stato Pontificio, mirava ad impossessarsi delle Legazioni, e sebbene allora sì protestasse altamente contro questa voce, più tardi si vide che era tutt'altro che una calunnia, quando il conto di Cavour con una temerità senza pari osò chiedere al Congresso di Parigi che sottraesse le Legazioni al governo della S. Sede.

Il Duca di Modena non avea egli il diritto di temei» che se gli volesse recare un aiuto di questo genere?

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Dove i nostri avessero messo piede nel Ducato, se ne sarebbero partiti così facilmente? V'ha un fatto che dice molto contro de' nostri ministri, ed è quello del principato di Monaco. Noi eravamo pure, in virtù de' trattati, protettori del Principe, col diritto di tener soldatesca in casa sua per essere meglio apparecchiati a prenderne le parti. Ebbene, come usammo di questo diritto, e quale fu il valore del nostro patrocinio? Mentone e Roccabruna vi rispondono chiaramente.

Non dimentichiamo la scusa di questo fatto enormissimo, recata da Camillo di Cavour nel Congresso di Parigi. Là egli sorridendo disse, che i popoli di Mentone e Roccabruna non volevano più il Principe. Ma perché non avrebbe ripetuto lo stesso, affine d'incamerare il Ducato di Modena? Oh, i popoli si fanno parlare così facilmente, massime quando il potente trovasi faccia a faccia col debole!

L'offerta del nostro governo all'estense fu ridicola per quattro capi; 1° perché il Duca di Modena avea buono in nano da cavare il ruzzo dal capo ai rivoltosi; perché questi rivoltosi medesimi erano partiti dal Piemonte, ed avevano avuto ricetto da quel governo che offeriva aiuto; 3° perché tutti i Principi italiani sanno ciò che il ministero nostro fece al Principe di Monaco, e dove andasse a parare l'aiuto che gli prestava; 4«perché è troppo fresca la memoria del brutto tiro, che il conte di Cavour tentò di fare al Papa nelle Legazioni.

Ci dicono, che il governo estense rise del tentativo di Carrara, certo come egli è dell'affetto delle popolazioni. Ma sapete quando non ne avrebbe riso? Non ne avrebbe riso qualora i Rattazzi e i Cavour fossero volati in suo aiuto, e gli avessero accordato il toro patrocinio. Da quel punto l'affare sarebbe divenuto ben serio, perché di certa gente non è buona che l'inimicizia.

Frattanto noi possiamo essere persuasi che, come si comportò il Duca di Modena, così si comporteranno col governo nostro gli altri Principi italiani. Essi temeranno il ministero subalpino, come temono i rivoluzionarii; e finché non cangi politica, non sarà mai che ne accettino l'intervento. I fatti non possono contraddire alle idee, e queste essendo rivoluzionarie, rivoluzionario pure dee essere il soccorso. Accettarlo sarebbe un suicidio.

Ma per altra parte è ben doloroso, che i nostri ministri, in nome della unità italiana, abbiano gettato il Piemonte in tale isolamento, da farlo temere come 1 peggiore nemico d'Italia e de' suoi legittimi governi. Si raggiunse uno scopo diametralmente contrario a quello che s'intendeva, giacché, volendosi paralizzare nella Penisola l'influenza austriaca e sostituirvi la piemontese, s'ottenne invece, che i Principi italiani considerassero come loro leale confederato l'austriaco, e dichiarato avversario il Piemonte.

Ecco dove ci condussero gli uomini nuovi Ecco la bella unità italiana che ci regalarono! Il Papa, il Re di Napoli, il Granduca di Toscana, il Duca di Modena, si danno fraternamente la mano congiunti in un solo pensiero; ed il Piemonte sta solitario sulle Alpi tenuto in conto, non di forestiero soltanto, che sarebbe già molto, ma inoltre di nemico!

E la parte sostenuta dai pieni potenziali sardi nel Congresso di Parigi a chi portò danno? Non certo ai governi italiani, che essi accusavano,

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i quali restano padroni in casa propria, e si ridono bravamente degli accusatori. Ma invece recò danno a noi, che, obbligati a ricercare la protezione straniera, non possiamo godere dell'amicizia interna.

Che se voi foste sinceramente italiani, dovreste sentire tutto il peso di un simile castigo. Imperocché non si può dare né dolore, né onta più grande di quella, che tocca ad un membro della medesima famiglia, il quale è confinato alla porta, e tenuto continuamente in sospetto di attentare alla pace domestica.

I CENTO CANNONI PER ALESSANDRIA

(Dall'Armonia, n.181,6 agosto 1856).

«Alessandra per ora è come la parola d'ordine per gli Italiani, e il simbolo dell'Unione», grida oggi la Gazzetta del Popolo (1). Ma la poverina, o ignara, o dimentica della storia nostra, non sa che Alessandria ci ricorda un Papa, un convento, una scomunica.

Un Papa. Alessandria piglia il nome da Papa Alessandro III, a cui gli Italiani la consacrarono, in riconoscenza del suo patrocinio. Federico Barbarossa, il Cavour de' tempi antichi, agognava al patrimonio di S. Pietro, e rompeva guerra indegna al Pontefice. Dolente che il Cardinale Bandinelle» fosse stato eletto successore d'Adrìano, per ambizione politica tentava scindere l'unità cattolica, e ad Alessandro contrapponeva tre antipapi. Questi soprusi eccitavano l'indegnazione negli Italiani. Essi, che non si muovevano ancora ai lamenti de' Milanesi erranti di città in città, si mossero agii insulti recati al triregno. Que' nostri padri erano grandi, perché erano cattolici. Figli affettuosi, sentirono i dolori del loro beatissimo Padre, operarono prodigi di valore, si strinsero in lega, giurarono e mantennero il giuramento. Ma dove giurarono?

Un convento. Ecco la seconda memoria di Alessandria. Nel convento di Pontida gli Italiani deposero gli odii e le gelosie, e giurarono la lega.

(1) La Gazzetta del Popolo allude alla seguente lettera che leggesi nel suo n° 477 del 26 di luglio 4656 (Vedi Armonia n° 473, settembre 5). Amico,

«Suga, %3 luglio 1856.

Un'idea mi ò venuta per la testa, mio caro Govean; tocche prova due cose: «che ho una testa, e che ho delle idee! Dite un po': a quel modo che si esperta una sottoscrizione per uh ricordo alle nostre truppe in Crimea, non si potrebbe egli aprirne un'altra per sussidiare il governo nella santa opera di fortificare Alessandria? Come vedete, lo scopo è lo stesso, trattandosi anche qui, non tanto di spremere ingenti somme dalle tasche degli. oblatori, quanto di dimostrare a chi di ragione che l'idea del generale La Marmora ha un'eco nella nazione tutta quanta, e in altri siti. Trattasi, insomma, di far cicare l'Austria. Ora figuratevi quanto non cicherà essa, quando veda che non solo il Piemonte, ma l'Italia tutta, ma le lontane Americhe, ed ogni popolo incivilito, portino la loro pietra a questo sacrosanto edificio t Oh I provate, vi dico, che sarà un bel ridere».

«Tutto vostro N. Rosa».

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In quel chiostro, che ricordava la santità delle promesse fatte in nome di Dio, i Veronesi, Vicentini, Padovani, Trevigiani, cogli altri popoli della Lombardia e della Romagna, si giuravano aiuto reciproco, compensarsi l'un l'altro dei danni che patissero a tutela della libertà, non soffrire che esercito tedesco scendesse in Lombardia, e ricuperare i diritti che possedevano a' tempi di Enrico III.

Il Barbarossa avea contristato il Vicario di Cristo, obbligandolo a rifuggirsi in Francia. Guai a chi cozza col Papa! e guai a Federico! Alessandro nell'esilio vide i Re di Francia e d'Inghilterra camminare allato al suo cavallo, tenendogli le staffe, come noi vedemmo a' tempi nostri Francia, Austria, Spagna e Napoli stringersi intorno all'Esule di Gaeta, facendo a gara a chi potesse più presto rimetterlo sol trono pontificale. E poi Federico Barbarossa fu rotto nella pianura di Legnano, e non ne campò la vita, che nascondendosi sotto un mucchio di cadaveri. Ma con quali armi combatterono gli Italiani il feroce?

Una scomunica è la terza memoria, che ci ricorda Alessandria. L'esule Alessandro III mandava di Francia i suoi conforti e le sue benedizioni alla lega, e lanciava contro Federico la scomunica, in cui, come «Vicario di S. Pietro, costituito da Dio sopra le nazioni e i regni, assolveva gli Italiani e tutti dal giuramento di fedeltà, con cui a quello eran legati per l'impero o per il regno. Coll'autorità di Dio proibiva, ch'egli avesse mai più forza nei combattimenti, o riportasse littoria sopra i cristiani, o in parte veruna godesse pace e riposo, sinché non facesse frutti degni di penitenza».

E la scomunica operava i suoi meravigliosi effetti. Il 1° di agosto del 1177 Federico serviva in Venezia da mazziere innanzi al Papa, allontanando colla verga la folla, e dopo il Credo della Santa Messa, assolto dalla censura, andava a baciare il piede del Pontefice e fare l'offerta, e poi lo accompagnava per mano fino alla porta della chiesa, gli teneva la staffa, menandolo per la briglia fino al palazzo.

Qui raccontano storici accreditatissimi, che Alessandro III ponesse il piede sul capo all'umiliato Imperatore, esclamando: Super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem.

Or bene, voi dite: «Alessandria per ora è come la parola d'ordine per gli Italiani». Ma, di grazia, dove sta il Papa, che vi conforti e vi benedica? Dov'è il convento, entro cui vi sia dato rinnovare il ghiro di Pontida? Chi pronunzierà la scomunica, che tante volte sbaragliò gli eserciti e fe' cadere le armi di mano ai soldati del primo Napoleone?

Voi siete divenuti oggidì gli eredi degli odii, degli insulti, delle calunnie, de' soprusi, delle ingiustizie del Barbarossa. Voi tentate al pari di lui di rompere l'unità cattolica. Voi volete allontanare il Papa un'altra volta dalla sua sede, e ricacciarlo in esilio. Il successore di Alessandro III non è con voi, ma voi per contrario siete contro Pio IX. È vostro studio amareggiare continuamente l'animo paterno di questo gran Papa. Siete divenuti (oh vergogna!) ghibellini e Tedeschi, e i Tedeschi sono guelfi ed Italiani.

Sì, voi combattete il Papa, e l'Austria lo difende. Voi vi ribellate alla Santa Sede, e l'Austria si sottomette. Voi disprezzate Pio IX e l'Austria lo rispetta. E avete il coraggio di nominare Alessandria, e di parlare della Lega Lombarda? Se questa lega si potesse e dovesse stringere, gli altri Italiani la stringerebbero contro di voi, che raccolte le

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rancide leggi Giuseppine, le gettaste (coraggiosi davvero!) contro il trono pontificale.

E dov'è, o imbecilli, il convento di Pontida per riconciliarvi, riunirvi ed emettere il sacro giuramento? Andrete a giurare in Altacomba, che avete profanato? 0 nella Certosa di Collegno, che avete convertito in manicomio? 0 nel monastero di Santa Croce di Torino, ridotto ad ospedale militare? 0 nella casa dei Serviti d'Alessandria, che tenete vuota, per lasciar senza tetto que' poveri frati? 0 in altri conventi deserti di monaci, e abitati da gente, che noi ci vergogneremmo perfino di nominare?

La sola parola convento dice eloquentemente agli altri Italiani chi Siete voi, che cosa volete, quale amore portate al popolo, che religione avete in cuore, come rispettate la legalità, gli statuti, la giustizia. Nei tempi delle gare intestine furono i frati che riconciliarono e riunirono l'Italia. I frati riamicarono i Milanesi in Parabiago; fra Ventanno da Bergamo compose i popoli discordi della Valtellina e del Comasco; i Senesi fra Bernardino e fra Sii vostro, chiamati in Milano, diedero assetto allo scompigliato governo. Fra Gherardo pacificò Modena; fra Latino, Bologna; e fra Bartolomeo da Vicenza istituì l'ordine militare di Santa Maria Gloriosa per mantenere in calma le città italiane.

Questi frati che tanto bene recarono alla patria, voi li avete spogliati, li tenete prigioni nel loro convento, li obbligate a spendere quell'obolo che loro lasciaste, per premunirsi davanti i tribunali contro le vostre ingiustizie. Essi piangono giorno e notte, e le loro lagrime, i loro lamenti ascendono quotidianamente al Cielo, e chiamano vendetta. E in mezzo a tanta desolazione voi ricordate il giuramento della Lega Lombarda, il convento 'di Pontida, la riconciliazione degli Italiani?

Imitate prima quei nostri padri. Essi fondavano i monasteri, e voi li distruggete. Essi largheggiavano di elemosine verso i frati, e voi li dispogliate. Essi ne udivano con riverenza la santa parola, e voi la volgete in ridicolo. Essi vestivano la cocolla, e voi ne usate per la caricatura. Essi erano cattolici, e voi siete atei. E Tempio è incapace di amare la patria, di sentire la forza del dovere, di stringersi in amicizia, di operare qualche cosa di buono. La pietà è utile a tutto, e gli Italiani non furono mai grandi se non quando furono pii.

E la scomunica! Qui pure vi vogliamo, o signori d'Alessandria, o fautori della nuova Lega Lombarda. Voi pigliate a gabbo le censure ecclesiastiche. Ma Alessandria vi dice che sono tante volte più efficaci di cento e di mille cannoni. La scomunica, come v'abbiamo insegnato, nel secolo XII trasse il Barbarossa in Venezia a' piedi d'Alessandro III, e i cento cannoni non impedirono nel 1849 che gli Austriaci entrassero vittoriosi nella cittadella di Alessandria. Noi vi citeremo migliaia di casi, in cui i cannoni non servirono a nulla, e intanto vi sfidiamo a citare un caso solo, in cui la scomunica tardi o tosto non producesse il suo effetto, a cominciare dall'incestuoso di Corinto fino a quella lanciata contro il Bonaparte e contro la repubblica Romana.

Insomma gli italianissimi, evocando le memorie d'Alessandria della Paglia, non fanno che confutare le opere loro. Volendo rompere guerra al Papato, hanno scritto sopra la propria bandiera una città che ebbe nome da un Papa. Non v'è gloria italiana a cui non vada congiunto il ricordo di un Pontefice, mentre i nemici dei Papi

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segnano l'epoca del nostro fatale scadimento e della nostra miseria. Ogni buon cittadino non pronunzia che con immenso dolore i nomi di Crescenzio, d'Arnaldo da Brescia, di Nicolò di Lorenzo, di Francesco Baroncelli, di Stefano Porcari. «1 Ghibellini antichi, scrisse lo stesso Gioberti, furono la causa principale della mina d'Italia: i Ghibellini moderni continuano l'opera loro». Gli Italiani dei bassi tempi fiorirono di libertà, di commerci, di arti, di lettere, d'armi, e furono gloriosi mentre adoravano la paternità spirituale del primo cittadino italiano: ma col disprezzo di essa sottentrò la servitù. E la servitù del vizio, che è la pessima di tutte, si allargherà ancora, se non si ritorna alla religione antica. La vita, cioè la libertà, la potenza, l'unione, la civiltà di un popolo, dipendono dal vigore del suo spirito, e il vigore spirituale dell'individuo, dello Stato, della società in universale, ha le sue radici nella religione. Gli Italiani saran grandi quando saranno cattolici, quando saranno col Papa. Senza cattolicismo e contro del Papa non saranno che miseri, e peggio che miseri: SARANNO RIDICOLI.

IL RE DI NAPOLI E IL SUO GOVERNO

(Dall'Armonia, n.188,14.agosto 1856)

«Noi delle Due Sicilie abbiamo un torto, di cui ci tocca ogni giorno soffrirne i tristi risultati, quello di non manifestare coi mezzi della pubblicità quanto di bene presso di noi si opera».

Cantalupo, Sul progresso morale delle popolazioni napolitane. Napoli 1856, p. 30.

Come alla maggior parte de' giornali torinesi, così a noi pure venne spedito da Brusselle un foglio intitolato: Question italienne-A Mylord Palmerston et Whigs premier memento. Les Siciles. Lo scritto porta la semplice data: agosto 1856. Lo scrittore promette altri memento, e conchiude dicendo a lord Palmerston: Nous vous dévoilerons prochainement.

Dobbiamo accettare con benefizio d'inventavo questa difesa del Re di Napoli. Vi sono certi tocchi che ci mettono un po' in sospetto. L'Italia e Popolo dì Genova, che è giornale di Mazzini, ne ebbe le primizie. E poi difendendo il Re Borbone, s'accusa il Sommo Pontefice, e si giunge all'eccesso di mettere a fascio l'angelico Pio IX, con que' monarchi e imperatori d'Europa, che hanno ordito dei piéges contre ce roi.

D'altra parte l'apologia del Re di Napoli va fino all'apoteosi. Egli è detto non solo le plus légitime et le plus ancien monarque sur le tròne; ma perfino le successeur du Christ. Coloro che infinocchiano così il Re Ferdinando, quantunque se gli dichiarino amici e gli stieno a' fianchi, sono però i suoi più tremendi avversari. Meglio una nota ostile di Francia e d'Inghilterra, che una smaccata adulazione!

Però nel Memento di Brusselle vi sono alcuni fatti, e noi dobbiamo raccoglierli per presentarli ai nostri lettori. Li sommeremo insieme colle cifre che si leggono nel recente scritto del cav. Benedetto Cantalupo sul Progresso morale delle popolazioni napolitano.

Nel regno delle Due Sicilie non si trovano debiti, non aggravi, non ladri. Le finanze napolitane sono le più prospere dell'Europa.

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Si reputano fortunati coloro che posseggono qualche cartella del Debito pubblico partenopeo, giacché si negoziano a L. 112 nelle borse principali. Non corre anno in Piemonte senza che si contraggano imprestiti; e il Re di Napoli non domanda mai danaro a nessuno!

Le imposte sono modìcissime. L'isola di Sicilia non patisce l'imposta di sangue, che chiamasi coscrizione militare; ed essa non va soggetta ai più ordinari e comuni balzelli, come sono quello del sale, l'altro del tabacco, il terzo della polvere, e il quarto della carta bollata. In Piemonte non si possono scrivere due linee ufficiali ad un ministro senza spenderemo centesimi pel bollo della carta!

Raramente avvengono grassazioni nel regno di Napoli, e i nostri giornali, che vanno sempre in cerca di calunnie contro l'amministrazione di quello Stato, non seppero ancora accasarla sotto questo rispetto.

Il cav. Cantalupo ci diè la statistica criminale napoletana, incominciandola dal 1848, anno di vertigine e di suprema calamità per l'Italia. In quell'anno la cifra de' misfatti nel regno di Napoli fu spaventosa. Nel 1849 ascesero alla somma, enorme di 18,855. Nel 1850 toccarono ancora la cifra di 18,826. Nel 1851 s'ebbe una grande diminuzione, e diminuì del diciottesimo il numero de' delitti dell'anno antecedente. Nel 1854 la diminuzione fu. ancora maggiore, sebbene vi avessero cause straordinarie di delinquere: 1° nel caro del pane; 2° nell'invasione del colera; 3° nella guerra d'Oriente, che eccitava le passioni.

I magistrati napoletani amministrano la giustizia con attività e con coscienza. Eccone la prova. Nel 1854 si porse querela da privati, o da pubblici accusatori contro 27,181 individui. Ne furono condannati solo 5,767, e gli altri messi in libertà, in aspettazione di prove più ampie e di lumi maggiori.

Le cause solennemente discusse nel 1854 furono 5,010, e si udirono perciò 60,275 testimoni. Ciò dimostra come si proceda nelle condanne col calzare di piombo, e non si neghi all'imputato nessuna guarentigia.

Nel 1854 non vi ebbe neppure un caso di rimedio per ritrattazione. Eppure in quell'anno, osserva il cav. Cantalupo, i collegi di Francia e del Belgio, che sono tra i più reputati d'Europa, ne offerivano di strepitosi, ne' quali notavasi, che molti innocenti furono condannati a pene gravissime per falsi testimoni, o per falsi documenti. Tra noi nessuno ha ancora dimenticato il fatto dei coniugi Alessio prima condannati a morte, e poi rimessi in libertà!

Una gran piaga sociale è il duello, e il Piemonte ne deplora di molti, che per lo più restano impuniti. Anche in Napoli un giorno, per pretesti di verun conto, davasi di mano alla spada. Il Re vi rimediò, pareggiando le offese in duello alle premeditate, rendendole di competenza ordinaria benché tra militari, e punendo i rei col laccio. Nel 1854 non vi fu un solo duello!

I delitti politici non mancarono; ma non mancò nemmeno la sovrana clemenza. Dal 1851 al 1854 il Re fé grazia a 2,713. Delle 42 pene capitali, cifra totale delle condanne a morte pronunziate dalle grandi Corti, il Re ne commutava 19 nell'ergastolo,11 a 30 anni di ferri; e 12 ad altre pene minori. Per lo che, conchiude il cav. Cantalupo, consigliere della suprema Corte di giustizia, in Napoli verificavasi

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un fatto unico in tutta Europa, quello cioè di non esservi stata esecuzione capitale per reati politici. L'apologista di Brusselle dice su questo proposito a lord Palmerston: Savez vous que dans le Siciles n'est pas connue la mesure expéditive de la déportation, ni Botany-Bay, ni Lambessa, ni Cayenne, et autres tombeaux semblables des vivants malheureux?

È opportuno qui osservare collo statista di Napoli, che dal 1830 al 1854, dacché regna Ferdinando II, si distinsero sempre i reati politici semplici dai reati politici misti. Questa distinzione, che si è tanto dibattuta nella Camera Elettiva del Belgio in occasione della legge di estradizione, vigeva già nel regno di Napoli. Il Re «ha voluto decisamente, risolutamente, ed a qualunque costo che non si versasse il sangue umano per motivi di lesa maestà, quando questi reati, come nella causa di Rossaroll e complici, ed in altre di simile natura, non erano misti a reati di scorrerie armate, di omicidi o di altri attentati comuni».

Quanto ai reati comuni il Re di Napoli dal 1851 al 4854 ha fatto 7,181 grazia, che sommate colle grazie pei reati politici danno un totale di grazie regie di 9,894. Ed è questo il Re tiranno!

Passiamo ad altro. Noi Piemontesi abbiamo una prova lampante dello stato delle scienze e della condizione degli studi nel regno di Napoli. Re Ferdinando ci ha mandato i migliori professori della nostra università. Scialoja, Mancini, Melegari, Ferrara, appartengono al Re di Napoli, e furono educati sotto quel governo, che si accusa di favorire le tenebre e l'ignoranza.

Chi scrive i nostri diari? Sono in massima parte gli emigrati napolitani, che hanno preso le redini del Piemonte, e vi formano l'opinione pubblica. I Piemontesi, diciamolo a nostra somma vergogna, obbediscono ed imparano, o fanno mostra d'imparare. Ma intanto, chi ha formato i nostri maestri? È re Ferdinando. Egli ha dato avvocati al nostro foro, professori alle nostre scuole, pubblicisti ai nostri giornali!

L'apologista di Brusselle scrive: «I primi uomini di Stato d'Italia, si consacrano alla politica di re Ferdinando. Filangieri, duca di Satriano, il figlio di Gaetano, la prima spada, la più vasta capacità amministrativa d'Italia; i Principi di Carini, di Castelcicala, di Fortunato, di Antonini, di Serracapriola, per ogni maniera di ragioni hanno dato e danno all'Europa diplomatica lezioni di sapere e d'ardimento governativo».

E la beneficenza? Quando il terremoto di Basilicata gittò quelle genti nella desolazione, il Re e la Regina diedero del proprio 10m. ducati; i ministri e i loro dipendenti 21 m. ducati; e gli altri ne seguirono gli esempi, e le oblazioni ascesero a 142m. ducati.

Quando la carestia afflisse il regno di Napoli, come gran parte d'Europa, furono per tutto lo Stato aperti forni di panificazione, commessi in Odessa carichi di grano, e proibita l'esportazione all'estero dei generi necessari alla sussistenza.

Quando il lavoro mancava al popolo, si ordinarono lavori pubblici, e nel solo anno 1854 si spesero 3,556,670 ducati in opere di pubblica utilità militari ed idrauliche.

E l'esercito? «li primo esercito italiano, risponde l'apologista di Brusselle, è l'esercito delle due Sicilie, riordinato con vent'anni di lavoro da Ferdinando II.

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Dopo le antiche legioni romane, giammai l'Italia non ebbe un esercito così numeroso, e nello stesso tempo così ordinato ed istrutto. La prima flotta, dopo la flotta francese, che veleggi nel Mediterraneo e nell'Adriatico, venne interamente creata dallo stesso Re».

Questi sono fatti e non parole. Il Risorgimento di ieri va a cercare chi sia l'autore della difesa del Re di Napoli partita da Brusselle. È ricerca inutile. Dovrebbe invece adoperarsi per ribattere tutte le cifre e tutte le verità che ci vennero accennate.

Provi, che in Napoli v'è una stampa empia e rivoluzionaria come la nostra. Provi, che non sieno Napoletani coloro, che presentemente illuminano il Piemonte. Provi, che il governo di Napoli viva d'imprestiti come noi. Provi, che obbedisca a Francia e Inghilterra come noi; che abbia venduto il suo commercio agli Inglesi come noi; che abbia dovuto accettare gli Austriaci nelle sue fortezze come noi; che tenga in permanenza le forche come noi; che abbia tanti ladri come noi; che trascuri così poco il popolo come noi. Attendiamo dal Risorgimento questa importantissima dimostrazione.

______________

A pag.35 del primo quaderno di queste Memorie tra le tribolazioni della Chiesa in Piemonte venne ommessa la legge del 29 di maggio 1855 pubblicata negli Atti Ufficiali del Governo, n° 878 pag.741, la quale dice: «Cessano di esistere quali enti morali riconosciuti dalla legge civile le case poste nello stato degli Ordini religiosi, i quali non attendono alla predicazione, all'educazione, od all'assistenza degli infermi». Secondo questa legge moltissimi Ordini religiosi doveano essere conservali, e furono distrutti per volontà de' ministri.

L'art.4 diceva: «I beni ora posseduti dai corpi ed enti morali verranno applicati ajla Cassa Ecclesiastica da stabilirsi». La Cassa Ecclesiastica fu stabilita, ma il deputato Angelo Brofferio il 30 aprile 1858 osservava alla Camera: «Una volta avevamo i Frati, ma almeno non avevamo la Cassa; ora abbiamo la Cassa ed abbiamo i Frati. È un po' troppo! (Ilarità prolungata) Atti Ufficiali della Camera, n° 183, pag.693. - Lo stesso Brofferio parlando della stessa legge avvertiva: «Una legge che in due anni ha prodotto più di 600 liti, che razza di legge può essere?» (loc. cit.). E il deputato Borella nella stessa tornata chiamava la medesima legge ambigua, equivoca, diplomatica.

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I DODICI DISCORSI DELLA CORONA

IN PIEMONTE

Per dare un'idea dell'andamento politico ed economico del Piemonte, a partire dal 1848 fino al 1863, cominceremo questo terzo quaderno delle Memorie per la storia de' nostri tempi con un cenno dei dodici discorsi che la Corona disse inaugurando le diverse legislature del Parlamento.

Il primo discorso della Corona venne letto l'8 di maggio del 1848 dal Principe di Carignano, trovandosi, a' que' dì, re Carlo Alberto sui campi lombardi a combattervi la guerra. Iddio aveva allora benedette le nostre armi, e il discorso spirava, dal principio alla fine, giubilo e confidenza! Cominciavasi tuttavia ad annunziare qualche imposta, e il Principe dicea: «Il Ministero vi presenterà il bilancio per Tanno 1849, e vi proporrà ad un tempo i provvedimenti indispensabili per far fronte alle gravi spese necessitate dalle attuali circostanze, e dalla riduzione dell'imposta sul sale». Come si vede l'argomento della diminuzione del prezzo del sale, invocato tante volte, ha una data assai antica, e fu una delle prime parole che suonassero nel nostro Parlamento.

Il secondo discorso della Corona venne scritto da Vincenzo Gioberti, e trovasi stampato nelle sue Operette politiche, voi H, pag.318. Fu letto da re Carlo Alberto il primo di febbraio dell'anno 1849, dopo il rovescio delle nostre armi in Lombardia; e vi si annunziava l'assemblea costituente del regno dell'Alta Italia, e la confederazione dei principi e dei popoli italiani, e la guerra da riprendersi una seconda volta con ferma speranza della vittoria. Non mancava nel discorso un cenno sui necessarii sagrifizii, ma soggiungevasi: «Consolatevi dei sacrifizii che dovrete fare, perché questi riusciranno brevi, e il frutto sarà perpetuo. Il discorso' finora non l'ha indovinata!

Nella seconda guerra avemmo la peggio come nella prima; Carlo Alberto abdicò, e ritirossi in Portogallo. Composte le cose del regno, riapri vasi il Parlamento addì 30 di luglio del 1849 con un terzo discorso, nel quale la Corona raccomandava fortezza e prudenza, dava la buona notizia che «i negoziati coll'Austria erano presso al loro termine», e le nostre relazioni con quella Potenza stavano per divenire amichevoli, e prometteva ordini, miglioramenti, economici. La condizione delle finanze, dicea il discorso ai deputati ed ai senatori, richiede la massima vostra cura, È forza provvedere alle gravi necessità presenti, e ad un tempo stabilire un sistema finanziere, che valga a mantenere inconcusso quell'alto credito di cui il Piemonte ha sempre mai goduto». Il sistema finanziere che venne stabilito s'è visto e si vede!

Il 20 dicembre del 1849 eccovi un quarto discorso della Corona, chiaro, risoluto, semplicissimo, dove si chiede ai deputati di sancire il trattato di pace coll'Austria in quella parte che è di loro competenza.

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«In nome di quella patria, dicea la Corona, che tutti abbiamo cotanto addentro nel cuore, io vi chiedo che, posto in disparte ogni altro pensiero, abbiate quel solo che può rimarginare le sue ferite, e arrecarle onore e salute».

La pace fu approvata, e vennero pagati all'Austria i settantacinque milioni pattuiti. Allora il 23 di novembre del 1850 avemmo il quinto discorso della Corona, nel quale raccomandavasi a' deputati ed a' senatori il riordinamento della finanza: «Importa primieramente ordinar la finanza»; ed accennavasi alla sperimentata prontezza dei popoli dei Piemonte ai necessarii sacrifizii. Incominciavasi a parlare anche d'indipendenza non più dall'Austria, ma dalla Santa Sede!

Dal novembre del 1850 non udimmo più discorsi della Corona fino al 19 dicembre del 1853, Quest'ultimo fu un memorando discorso, che passò in proverbio tra noi, fu cioè il discorso della quasi restaurata finanza! Il Ministero dichiarava che la Camera, «estendendo ai prodotti del suolo i principii fecondi del libero scambio, procurerà ai proprietarii largo compenso colla riforma del cadastro, e con istituzioni di credito, innanzi alle quali verrà a dileguarsi l'usura».

Dopo tanti anni che queste parole vennero pronunziate, i Piemontesi possono rispondere se la finanza è quasi ristorata, se i principii del libero scambio furono fecondi, se la riforma del cadastro ha portato il promesso compenso; se l'usura finalmente s'è dileguata dalle nostre contrade mediante le istituzioni di credito! Noi non faremo nessun commento, giacché i fatti parlano abbastanza da sé.

Il 12 di novembre del 1855 suonava nell'aula parlamentare il settimo discorso della Corona. Allora noi eravamo in guerra colla Russia, e combattevamo «per la causa della giustizia e della civiltà, e per l'indipendenza delle nazioni!» Allora, combattendo la Russia, concorrevamo «al trionfo dei principii medesimi che noi propugniamo!» Guai a chi avesse pronosticato a' que' giorni una nuova e prossima alleanza collo Czar!

Nel 1853 il discorso della Corona ci prenunziava la quasi ristaurata finanza; ma nel 1855 invece ci dava la notizia che «le spese della guerra renderanno necessario un nuovo ricorso al credito pubblico» tanto più che e la scarsità dei raccolti, il rinnovato flagello del colera, unite ad altre inaspettate contingenze, scemarono le pubbliche entrate». Notate bene, o lettori, questo indietreggiamento, che fra poco ve ne daremo un altro esempio.

Il 7 gennaio del 1857 fu il giorno dell'ottavo discorso della Corona. Le finanze allora erano ristorate! «Il ritorno della pace, più favorevoli raccolti, il progressivo sviluppo della ricchezza nazionale, avendo migliorato la condizione del pubblico erario, discuterete per la prima volta un bilancio in cui le spese e le entrate si pareggiano pienamente».

A quelle parole il Piemonte respirò. Imperocché il pareggio dei bilanci era da noi messo a fascio coi problemi d'impossìbile soluzione, come a dire il moto perpetuo, e la quadratura del circolo. Udito invece dalla Corona che il pareggio s'era ottonato, molti credettero che il 1857 avesse chiuso nel nostro Stato l'era delle imposte, degl'imprestiti, dei debiti.

- 131 -

Ma il 14 dicembre dello stesso anno 1857 il nono discorso della Corona, disingannavaci pienamente, giacché ci era annunziato un nuovo imprestito sotto il pretesto di opere pubbliche. Deploravansi, gli sfavorevoli eventi che si opposero al regolare sviluppo delle risorse dello Stato, laonde conveniva «ricorrere al credilo per provvedere alle grandi opere iniziate dalla Spezia al Cenisio, a difesa dello Stato, a vantaggio ed onore della nazione». È vero che giunti all'ergo, ministri rinunziarono all'intrapresa della Spezia, ma non rinunziarono d'un solo centesimo all'imprestito dei quaranta milioni.

Il 10 di gennaio del 1859 la Corona disse il suo decimo discorso, e annunzio: «La crisi commerciale da cui non andò immune il nostro paese, e la calamità che colpì ripe tu temente la principale nostra industria, scemarono i proventi dello Stato, ci tolsero di vedere fin d'ora realizzate le concepite sperante di un compiuto pareggio tra le spese e le entrate pubbliche». Poi la Corona soggiunse: «L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno....... Andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della Patria». Conchiudeva però la Corona avvertendo che andavamo incontro a pericoli «giacché nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di Noi».

La Corona non parlava più in Torino fino al 2 di aprile del 1860. In quel giorno discorreva, come sempre, di sacrifizii, ma era un sacrifizio di nuovo genere che annunziava, la cessione della Savoia e di Nizza, e Per riconoscenza alla Francia, pel bene d'Italia, per assodare l'unione delle due Nazioni che hanno comunanza di origini, di principii e di destini, abbisognando alcun sacrificio, bo fatto quello che costava di più al mio cuore.... ho stipulato un trattato sulla riunione della Savoia e del Circondario di Nizza alla Francia.

Il 18 febbraio 1861 udì vasi l'ultimo discorso della Corona in Piemonte, e non se ne disse altro fino al 1863. Proclamatasi l'Italia libera ed unita quasi tutta, lodavasi l'Imperatore dei Francesi che serviva la rivoluzione italiana «man tenendo fermo la massima del nonintervento a noi sommamente benefica»; dichiaravasi indissolubile il nodo stretto tra la Francia e l'Italia, e da ultimo, come sempre, chiedevansi denari, a lo son certo che vi farete solleciti a fornire al mia governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare». In altri termini: sono certo che voterete nuovi imprestiti, e approverete nuove imposte. E questo fu il ritornello comune a tutti i dodici discorsi della Corona, dal primo dell'8 di maggio 1848 all'ultimo del 18 febbraio 1861.

MINISTERI

NOMINATI IN PIEMONTE DOPO LA PUBBLICAZIONE DELLO STATUTO

(La croce + indica i ministri che nel 1863 erano morti)

Decreto delli 16 marzo 1848.

Presidente del Consiglio. Balbo conte Cesare +

Ministero Esteri. Parete marchese Lorenzo

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Interni. Ricci marchese Lorenzo

Guerra. Frauzini conte Antonio +

Grazia e Giustizia. Sclopis di Salerano conte Federigo

Finanze. Thaon di Revel conte Ottavio

Istruzione pubblica. Boncompagni cavaliere Carlo

Lavori pubb., Agr. e Commercio. Des Àmbrois di Nevache

cavaliere Luigi.

Decreti delli 27 e 29 luglio 1848.

Presidente del Consiglio. Casati conte Fabio

Esteri. Pareto marchese Lorenzo

Interni, Plezza avvocato Giacomo

Guerra. Di Collegno cavaliere Giacinto +

Grazia e Giustizia. Gioia avvocato Pietro

Finanze. Ricci marchese Lorenzo

Istruzione pubblica. Rattazzi avvocato Urbano; poi Gioberti

abate Vincenzo +

Lavori pubblici. Paleocapa cavaliere Pietro

Agric. e Commercio. Durini conte Giuseppe, poi Rattazzi

avvocato Urbano

Ministro resid. presso S M. Moffa di Lisio conte Guglielmo +

Ministro senza portafoglio. Gioberti abate Vincenzo, sino alli 4 agosto

Decreti delli 15,16 e 29 agosto 1848.

Presidente del Consiglio. Alfieri marchese Cesare

Esteri. Perrone di San Martino conte Ettore +

Interni. Pinelli cavaliere Pier Dionigi +

Guerra. Franzini conte Antonio, sino ai 22 agosto, quindi il

cavaliere

DaBormida Giuseppe, sino ai 27 ottobre, giorno in cui fu

nominato il cavaliere e

La Marmora Alfonso

Grazia e Giustizia. Merlo professore Felice, prò interim +

Finanze. Thaon di Revel conte Ottavio Istruzione pubblica. Merlo professore Felice Lavori pubblici. Derossi di Santa Rosa cav. Pietro +

Agric. e Commercio. Boncompagni cav. Carlo, sino al 27 ottobre, giorno in cui fu nominato Torelli Luigi,

Ministro resid. presso S. M. Regìs conte Gaspare Domenico

Ministro senza portafoglio. Colla commendatore Federico +

Decreto delli 16 dicembre 1848.

Presidente del Consiglio. Gioberti abate Vincenzo, col portafoglio degli

affari esteri, quindi fu surrogato alla presidenza

- 133 -

dal signor barone Chiodo ed al ministero esteri dal signor

Deferrari avvocato Domenico +

Interni. Sineo avvocato Riccardo

Guerra. Sonnaz cavaliere Ettore, quindi

» La Marmora cavaliere Alfonso, poscia

» Chiodo barone Agostino

Grazia e Giustizia. Rattazzi avvocato Urbano

Finanze. Ricci marchese Vincenzo

Istruzione pubblica. Cadorna avvocato Carlo

Lavori pubblici. Tecchio avvocato Sebastiano

Agric. e Commercio. Buffa avvocato Domenico +

Decreto delli 30 marzo 1849.

Presid. del Cons. ed Esteri. De Launny cav. Gabriele +

Interni. Tinelli cavaliere Pier Dioiiigi +

Guerra. Morozzo della Rocca cav. Enrico

Grazia e Giustizia. Demargherita barone Luigi +

Finanze. Nigra commendatore Giovanni

Istruzione pubblica. Mameli cav. Cristoforo

Lavori pubblici, Commercio ed Agricoltura. Galvagno comm. Filippo

Ministro segretario di stato senza portafoglio, incaricato interinalmente

di quello dell'Istruzione pubblica.

Gioberti abate Vincenzo +

Decreto del 7 maggio 1849.

Presta, del Cons. ed Esteri. D'Azeglio cav. Massimo

Interni. Pinelli cav Dionigi sino al 20 ottobre i, quindi ì Galvagno comm. Filippo

Grazia e Giustizia. Demargberita «barone Luigi +

sino al 20 dicembre, poscia

» Siccardi conte Giuseppe +

Guerra. Morozzo della Rocca cav. Enrico sino al 7 settembre, quindi

» Bava barone Eusebio +, generale d'armata, sino al 2 nov.,

poscia La Marmora cav. Alfonso

Finanze. Ricci march Vincenzo sino al 7 settembre, quindi

Nigra commendatore Giovanni

Istruzione pubblica. Mameli cav. Cristoforo sino al 10 novemb.1850,

poscia Gioja cav. avv. Pietro

Lavori pubblici Galvagno commendatore Filippo, sino al 20

ottobre 1849, quindi Paleocapa cav, Pietro

Agric. e Commercio. Galvagno predetto sino al 20 ottobre, quindi

Derossi di S. Rosa cav. Pietro +

poscia Cavour conte Camillo nominato il dì 11 ottobre 1850;

epoca in cui l'agricoltura e commercio abbracciò pure la Marina +.


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Rimpasto Ministeriale.

Finanze. Conte Cavour +, presidente del Consiglio

(Decreto 4 novembre 1852)

Esteri. Dabormida Giuseppe, nominato il 4 novembre 1852; il 10

gennaio 1855 si dimise, e fu surrogato dal conte di Cavour

Interni. Ponza di S. Martino nominato il 4 novembre 1852,

rinunziò, e venne surrogato interinalmente dal Ministro

di Grazia e Giustizia

Guerra e Marina. Ferrerò della Marmora cav. Alfonso

Grazia e Giustizia. Rattazzi avv. Urbano nominato il 27 ott.1853.

Istruzione pubblica. Cibrario Luigi nominato il 4 novembre 1852

Lavorj pubblici. Paleocapa cavaliere Pietro; riconfermato

il 4 novembre 1852.

Ministero 1855-1856.

Finanze. Conte Cavour + presidente del Consiglio, continuando la reggenza

del portafoglio delle finanze, surrogò Cibrario il

5 maggio 1856 nel Ministero degli esteri.

Esteri. Cibrario commendatore Luigi rinunciò e fu surrogato

da Cavour il 5 maggio. Interni, Rattazzi.

Guerra e Marina. Giacomo Durando.

Grazia e Giustizia. Deforesta commendatore.

Istruzione pubblica. Lanza commendatore Giovanni, incaricato il

19 novembre 1855 ed il 13 febbraio 1856 di reggere

il portafoglio delle Finanze durante l'assenza del ministro Cavour.

Latori pubblici. Paleocapa commendatore Pietro, riconfermato il

4 novembre 1852.

Ministero 18571859.

Esteri e Finanze. Conte Cavour +

Presidente del Consiglio. Interni. Rattazzi.

Guerra e Marina. Ferrerò della Marmora cav. Alfonso.

Grazia e Giustizia. Deforesta.

Istruzione pubblica. Lanza commendatore Giovanni.

Lavori pubblici. Paleocapa commendatore Pietro, rimane senza portafoglio

e fu surrogato dal commendatore Bona.

Ministero 1859.

Presidenza. Conte Camillo Benso di Cavour +

Esteri. Benso di Cavour conte Camillo +

- 135 -

Interno. Camillo conte Benso di Cavour +

Guerra e Marina. Ferrerò della Marmora cav. Alfonso.

Finanze. Lanza commendatore Giovanni.

Istruzione pubblica. Cadorna commendatore Carlo.

Latori pubblici. Bona commendatore Bartolomeo - Paleocapa,

ministro senza portafoglio.

DOPO LA PACE DI VILLAFRANCA

Ministero del 19 di luglio 1859.

Presidente. Alfonso La Marmora, ministro della guerra.

Interno. Commend. Urbano Rattazzi.

Finanze. Oytana Commend. Gianbattista.

Grazia e Giustizia. Avv. Miglielli Vincenzo.

Esteri. Generale Dabormida Giuseppe

Lavori pubblici. Monacelli.

Istruzione pubblica. Conte Gabrio Casali.

Ministero del 1860 nominato il 21 di gennaio dello stesso anno.

Esteri. Benso di Cavour conte Camillo + presidente. Con decreto del

7 settembre 1860 fu incaricato interinalmente del portafoglio

della guerra in assenza del ministro Fanti

Marina. Conte di Cavour suddetto +

Interni. Farini Cav. Dottore Luigi Carlo

Guerra. Fanti Cavaliere Manfredo

Grazia e giustizia. Cassinis Avv. Gio. Battista interinalmente incaricato

con decreto del 29 settembre del portafoglio dell'interno.

Finanze. Vegezzi Avvocato Francesco Saverio.

Istruzione pubblica. Mamiani della Rovere Conte Terenùo.

Latori pubblici. Jacini Cav. Avv. Pietro.

Agricoltura e commercio. Corsi Cav. Tommaso; con decreto 8 aprile 1860

fu nominato Ministro senza portafoglio; il 5 luglio

Ministro d'Agricoltura e Commercio.

Ministero del 1861.

Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell'estero e della Marina. Benso di Cavour Conte Camillo + nominato il 21 gennaio 1860; il 20 marzo.1861

diede le sue dimissioni, il 23 marzo fu incaricato della composizione

d'un nuovo ministero. Morì il 6 giugno 1861.

Interno. Minghetti commendatore Marco, nominato con decreto

del 31 ottobre 1860.

Grazia e Giustizia. Cassinis avvocato G. B. dal 24 gennaio 1860

al 12 giugno 4861.

- 136 -

Finanze. Vegezzi avvocato Saverio, si dimise il 22 marzo, fu surrogato

dal cav. Bastogi.

Guerra. Generale Fanti Manfredo dal 21 gennaio 1860 al 12 giugno 1861.

Istruzione pubblica. Mamiani tino al 22 marzo 1861 poi Francesco Desanctis.

Lavori pubblici. Peruzzi Ubaldino nominato il 14 febbraio 1861

in surrogazione di Jacini.

Agricoltura industria e commercio.' Corsi cav. Tommaso fino al 22 marzo

1861: fu surrogato dal barone Natoli che si dimise il 12 giugno 1861.

Ministro senza portafoglio. Niutta cavaliere Vincenzo dal 23 marzo

al 12 giugno 1861.

Ministero Ricasoli annunziato al Parlamento il 12 giugno del 1861.

Presidenza ed affari esteri. Barone Dettino Ricasoli.

Interno. Marco Minghetti commendatore.

Finanze. Pietro Bastogi.

Guerra. Generale Della Rovere Alessandro.

Marina. Menabrea Conte Luigi Federico.

Grazia e Giustizia. Avv. Vincenzo Miglietti.

Lavori pubblici. Ubaldino Peruzzi.

Istruzione pubblica. Francesco Desanctis.

Agricoltura e commercio. Cordova Filippo.

Ministero Rattazzi del 1862, nominato con Decreto del 3 di marzo.

Presidenza e affari esteri. Urbano Rattazzi coll'incarico di reggere il portafoglio

degli interni. Poi restò ministro dell'interno e fu nominato agli esteri

Giacomo Durando.

Grazia, Giustizia e Culti. Commendatore avv. Filippo Cordova surrogato

poi da Raffaele Conforti.

Guerra. Conte Agostino PetittiBagliani di Roreto luogotenente generale.

Finanze. Commendatore Quintino Sella.

Marina Conte Carlo Pellione di Perdano, Vice ammiraglio.

Istruzione pubblica. Commendatore avv. Stanislao Mancini. Fu poi surrogato

dal comm. Carlo Matteucci. '

Lavori pubblici. Avv. Agostino Depretis.

Agricoltura industria e commercio. Marchese commendatore Gioachino

Napoleone Pepoli.

Ministero Farini del 9 dicembre 1862.

Presidenza Cav. Luigi Carlo Farini.

Esteri. Conte Pasolini Giuseppe.

Interno. Cav. Ubaldino Peruzzi.

Finanze. Comm. Marco Minghetti

- 137 -

Guerra. Generale Alessandro della Rovere.

Marina. Marchese G. B. Ricci, surrogato dal Marchese di Negro.

Grazia e Giustizia. Avv. Giuseppe Pisanelli.

Lavori pubblici. Conte Menabrea Luigi Federico.

Istruzione pubblica. Professore Michele Amari.

Agricoltura e commercio. Commend. Giovanni Manna.

Uno dei segni caratteristici della rivoluzione si ò un attività divorante che consuma tutto, uomini e cose, e principalmente gli uomini. In Ispagna avviene come in Torino. In trentanni di rivoluzione la Spagna ha divorato quaranta due ministeri. Il gabinetto 0' Donnell fu tra quelli che vissero pili lungamente, giacche durò quasi cinque anni, dal luglio 1858 al marzo 1863. In un sol mese, nel mese di luglio del 4854, v'ebbero in Ispagna tre crisi ministeriali. Nell'ottobre del 1849 il gabinetto Cleonard non durò che ventiquattr'ore. Il marchese di Miraflores ministro nel 1863 lo fu pure nel 1846, ma per due mesi soltanto.






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