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Un testo onesto, questo di Delli Franci, lontanissimo anni luce dalla mitologia patriottarda e lontano anche dalla propaganda borbonica.

Dalle sue pagine pagine emerge un Francesco II ben diverso dalla immagine stereotipata  del “Francischiello” tanto caro alla storiografia liberal-patriottica.

Un re che intuisce il senso degli eventi e vorrebbe recarsi in Sicilia per porsi alla testa dell'esercito e combattere gli invasori.

Viene distolto dai suoi propositi sia da consiglieri interessati (alla Liborio Romano per intenderci) sia dai diplomatici francesi che sono portatori degli interessi geopolitici di Napoleone III che non intendono mettersi di traverso ed uscire allo scoperto contrastando direttamente le mene inglesi – gli uni e gli altri apertamente predicano il principio del non intervento ma sottobanco tramano per il  crollo del Regno Napolitano.

Tanto è vero che i francesi mettono sotto tutela militare la zona antistante Gaeta (probabilmente per impedire l'arrivo dei russi nel mediterraneo) spianando di fatto la strada agli assalitori sabaudi della fortezza.

Buona lettura.

Zenone di Elea – Agosto 2011


CRONICA

DELLA CAMPAGNA D'AUTUNNO

DEL 1860.

FATTA SULLE RIVE DEL VOLTURNO E DEL GARIGLIANO

DALL’ESERCITO NAPOLITANO

alla quale è posto innanzi un racconto

di fatti militari e politici avvenuti nel Reame delle Sicilie

nei dodici anni che la precedettero

PER

GIOVANNI DELLI FRANCI

Uffiziale Superiore dello stato Maggiore dell'Esercito Napolitano ed alla immediazione del Re Francesco II. — Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito operante— Commendatore del Real ordine militare di S. Giorgio della riunione — Cavaliere del Real ordine di S. Ferdinando e del merito — Cavaliere di prima Classe del Beai ordine di Francesco I. ecc. ecc. ecc.

CON DUE TAVOLE

NAPOLI

PEI TIPI DI ANGELO TRANI

Conte di Mula 13

1870

(01)

01 - Cronica della campagna d'autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano dall’Esercito Napolitano - Giovanni Delli Franci - HTML

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Proemio pag. …................................................................ 3

Capitolo I. pag. …............................................................. 7

Costituzione del 10 febbraro 1848—Rivolture che ne conseguitarono—Ribellione del 15 maggio 1848— Diffidenze dei liberali verso il governo — Ragioni che provocarono la severità dei governanti—Nuovi ministri.

Capitolo II. Pag. ….......................................................... 14

Errori ed abusi dei governanti dopo il rivolgimento dell'anno 1848 e malcontento dei popoli.

Capitolo III. Pag. …........................................................ 20

Attentato di Agesilao Milano contro la vita di Re Ferdinando II — Nuove misure repressive adottate dal governo e però novelle cagioni di malcontento.

Capitolo IV. pag. …......................................................... 21

Morte di Ferdinando II — Innalzamento al trono delle Sicilie di Francesco II — Notizia di una macchinazione ordita per un cangiamento di successione al trono.

Capitolo V. pag. ….......................................................... 24

Carlo Filangieri primo ministro del Regno —

Immegliamento di vari rami dell'ordine governativo— Macchinamenti della setta tendenti a far diffidare i popoli del Monarca — Lavorio della rivoluzione per rendere l'esercito spergiuro — Insurrezione dei reggimenti svizzeri e loro discioglimento—Apprensioni nei governanti e nei governati — 11 ministro Filangieri rassegna il potere — Il Re elegge nuovi ministri ed indugia a concedere larghezze—Lettera del conte di Siracusa al Re e giudizio che se ne fece.

Capitolo VI. pag. …........................................................ 32

Insurrezione della città di Palermo — Stato d'assedio— Ribellione in Termini, Monreale, Boccadifalco, S. Lorenzo e Bagheria — Tumulti in Trapani — Arresto rii sette nobili persone che costituivano un comitato rivoluzionario in Palermo—Moti in Catania, in Barcellona, in Messina — L'intendente Artale è tolto dal suo ufficio — Governo provvisorio in Alcamo—I faziosi discacciati dal villaggio S. Lorenzo—Colonne mobili di truppe nelle provincie di Palermo e di Trapani — Altri tumulti in Messina — Reazione in favore del governo in Castellammare del golfo ed in Alcamo—Indirizzo del Senato di Messina al Re—Banda di Rosolino Pilo—Guerra in Carini—Altro indirizzo del Senato di Messina al Re — Avvenimenti sediziosi in Palermo e paesi vicini—Misfatti di sangue e di rapina commessi dalle bande in alcuni paesi—Arruolamenti fatti fare nelP isola e notizie del prossimo arrivo che Garibaldi vi avrebbe fatto — Colonna di truppe del generale Landi in Alcamo —Partenza di Garibaldi da Genova — Richiami che ne fecero le potenze d’Europa al governo Sardo e sua discolpa — Lettera di Garibaldi al Re di Piemonte—Benefici conceduti dal Re alle città di Catania, Trapani, Messina e Palermo— Apparecchi del luogotenente per impedire i tentativi di Garibaldi — Disegno di guerra mandato dal Re in Sicilia—Le truppe del generale Letizia ritornano in Palermo.

Capitolo VII. pag. …....................................................... 43

Sbarco di Garibaldi in Marsala — Tumulti nelle province di Trapani e Palermo — Stato d'assedio— Combattimento di Calatafimi — Doglianze del Re al Castelcicala per la inerzia delle truppe —I generali decidono di difendersi in Palermo — Il generale Lanza commessario straordinario in Sicilia — Proclama di Lanza—Le promesse di Lanza non accettate dai Siciliani — Colonna di truppe in Monreale ed a Parco — Garibaldi inganna le milizie Reali e va a Misilmeri—Won-Mechel insegue le bande Garibaidesche verso Corleone e le disperde — Inerzia del Lanza agli avvisi che riceveva del prossimo tumultuare dei Palermitani — Garibaldi entra in Palermo e la città si solleva — Combattimento tra gli armati di Garibaldi e le truppe Reali — Tregua di 24 ore domandata dal generale Lanza—La colonna delle truppe di Won-Mechel entra combattendo in Palermo — Convenzione tra Lanza è Garibaldi — Cessione di Palermo alla insurrezione — Indebolimento della disciplina delle truppe Reali — Governo provvisorio in molte città dell'isola.

Capitolo VIII. pag. ….....................................................  60

Sollevamento della città di Catania e vittoria riportata dalle truppe Reali — Le milizie abbandonano Catania— Al generale Russo è tolto il comandò della provincia di Messina e gli succede Gaetano Afanderivera — Il generale Clary forma il disegno di riconquistare Catania e poi Palermo ed è innalzato a duce supremo di tutte le milizie della provincia di Messina—Il generale Alessandro Nunziante accetta il mandato di sottomettere la Sicilia.

Capitolo IX. pag. ….......................................................  64

Brenier ambasciatore Francese stimola il Re a promulgare ordini rappresentativi nel Regno

— Infelice esito della missione che Giacomo de Martino adempì presso l'Imperatore dei francesi — Decreto di costituzione del 25 giugno 1860 —Ministero Spinelli— Liborio Romano prefetto di polizia aringa i cittadini — Stato di assedio in Napoli — Lo Statuto del 10 febbraro 1848 è richiamato in vigore — Liborio Romano rassicura i napolitani che il novello regime sarebbesi mantenuto —Plenipotenziarì mandati dal governo a trattar la lega col Piemonte — Le forme costituzionali non riescono gradite a chicchessia — Crudo scempio degli ondali della polizia — Napoli liberata dallo stato di assedio — Clary dimanda di esser disciolto dal carico di riconquistar Catania e Nunziante chiede di esser dimesso dal suo grado — Il generale d'Ischitella è eletto a comandante la guardia nazionale — I1 generale Viglia è fatto comandante della piazza di Napoli — Il generale Pianell e Liborio Romano sono nominati ministri, l’uno della guerra, l’altro dell’interno— Tentativo di reazione fatto dai soldati della guardia Reale — Apprensioni del ministero—Lealtà del Monarca verso le concedute.instituzioni — La guardia nazionale cerca d'indurre i soldati a spergiurare— Nunziante novellamente addimada d'essere dimesso dal suo grado, sua partenza e suoi saluti alle truppe.

Capitolo X. pag. …....................................................... 71

Amilcare Anguissola capitano di Fregata diserta la propria armata e si da al nemico —1 napolitani in Milazzo aumentano le loro forze — Combattimento tra garibaldini e, napolitani in Milazzo — Blocco del castello di Milazzo — Le trattative della lega coi subalpini vanno a rilento.— Re Francesco avvisa di venire a nimistà col Piemonte e mandar nuove truppe contro Garibaldi—II comandante generale dell’armata dice di non aver navi apparecchiate a ciò—11 colonnello Anzani parte da Napoliper trattare la resa del forte di Milazzo—Garibaldi occupa Messina senza far guerra —Convenzione tra il generale Clary ed

il garibaldino Medici — Clary minacciato della morte dai suoisoldati domanda di lasciare il comando che aveva— Il generale Per gola è eletto a succedergli.

Capitolo XI. pag. …....................................................... 8t

Stato delle Calabrie — Proclama del ministero al Bearne—Disegno fatto da S. A. R. il conte d'Aquila per abbattere la rivoluzione—Esilio del conte d’Aquila — Assicuranze del ministro Pianell al Re per la guerra che sarebbesi combattuta nelle Calabrie — Il generale Bartolo Marra con lettere indiritte al ministro della guerra nota la non buona fede del governo — Sbarco di garibaldini in Cannitiello — Loro aggressione improvvisa contro le milizie di Bagnara — Garibaldi cerca predare il vascello il Monarca in Castellammare — Apprensioni del governo napolitano e timori dei cittadini—Garibaldi ritorna in Messina — Sbarco di garibaldini alla marina di Porlosalvo — Garibaldi guadagna la città di Reggio — Le truppe del Briganti muovono contro Reggio — Galloni ne cede il castello — La soldatesca del Melendez pone campo al Piale '— I1 generale Vial in Villa S. Giovanni —Le milizie nazionali marciano da Monteleone contro il nemico— La brigata del Briganti depone le armi—Quella del Melendez assalita dal nemico combatte e poi si scioglie — I1 colonnello Ruiz va con la sua soldatesca al piano della Corona e cede altrui il suo comando —II generale Vial domanda all'oste nemica convenzione —. Le milizie'na'zio'nali del Ghio mal condotte si sciolgono in SoveriaMannelli —Quelle del Caldarelli pattuiscono col comitato rivoluzionario di Cosenza.

Capitolo XII. pag. …....................................................... 99

I facinorosi insorgono nella Basilicata — Commuvimenti in Incarico ed in Potenza —Combattimento dei gendarmi e loro capitolazione.

Capitolo XIII. Pag. ….................................................  100

Tumulti in Foggia — Il generale Flores marcia con le truppe verso i Principati — 11 generale Bo nanno scaccia i faziosi da Canosa — Flores condu ce le sue truppe in Bovino e poi in Ariano — Fel lonia di lui—Capitolazione della soldatesca del Bo nanno col garibaldino Turr.

Capitolo XIV. pag. ….................................................  105

I ministri con artifizidistolgono il Re di recarsi in Salerno per affrontare il nemico — Indirizzo al ministero dei capi della guardia cittadina — Mani festazione dei ministri al Re firmata dal solo Libo rio Romano—Altra lettera del conte di Siracusa al Sovrano — Gli autonomisti si risvegliano — Il go verno opera per sopraffarli — Campo'in Salerno — Il generale Cataldo al comando della piazza di Na poli — Disegni di guerra dei generali de Sauget e Pianell — Il generale Gaetano Afanderivera in Sa lerno—Lavorio della setta per sedurre i soldati ed ingannare il Re — De Sauget propone di mandare le truppe al di là di Capua — Consiglio dei gene rali — Il Re manda le truppe al di là del Volturno e delibera partire per Gaeta—In Napoli rimangono diecimila uomini di truppa — Proclama del Re e decreto di remissione di pena ai condannati —Pro testa fatta dal Re alle corti di Europa — Il Monar ca saluta i ministri, il sindaco, il generale de Sau get e parte da Napoli.

Capitolo XV. Pag. ….................................................  117

Garibaldi si trattiene in Salerno — Il prefetto di polizia esorta i cittadini alla calma — Il ministero nega obbedienza al Re — L'armata disobbedisce al Sovrano e si da alla rivoluzione —Liborio Romano invita Garibaldi ad entrare in Napoli e pubblica per le stampe un proclama indiritto ai cittadini—Il generale de Sauget corre a salutare Garibaldi in Salerno

—Il sindaco di Napoli dichiara il corpo della città essersi disciolto— Proclama di Garibaldi ai napolitani — Ritucci comandante delle truppe napolitane sul Volturno — Gaeta residenza Reale e dei rappresentanti delle Corti estere.

Capitolo XVI pag. …...................................................  123

Entrata di Garibaldi in Napoli — Ministero garibaldino—Il generale Cataldo obbedisce al ministro della guerra di Garibaldi —Le truppe napolitane rimase in Napoli, parte si sciolgono, parte servono Garibaldi e parte vanno in Capua — I castelli della Capitale sono ceduti a Garibaldi — Le Reali guardie del corpo a cavallo vengono sciolte — Alunni del Real convitto militare che si recano in Capua— Gli uffiziali in Napoli ricevono ordine di andare in Gaeta — Molti tra essi servono Garibaldi — Considerazioni sulla guerra che si preparava sul Volturno —Sentimenti dei quali era informato lo esercito sul Volturno — Breve storia dello esercito napolitano.

Capitolo XVII pag. …..................................................  137

Descrizione della piazza di Capua — Il generale Pinedo che n'era il governatore minacciato della morte dai suoi soldati fugge in Napoli — Il generale Saiano è eletto a governarla— Proclama del Re all'esercito— Stato di assedio in Capua — Manifestazione del ministro, della marina all'armata— Preparativi di guerra fatti dal Ritucci — I garibaldini occupano Maddaloni, Caserta, Santangelo, Santamaria, S. Tammaro e Cardilo — Il Ritucci conferisce col Re circa le offese a cominciare — Parole indirette dal Re ai soldati— Cagioni che fanno avvisare il Ritucci a differir le offese — Ricognizione verso Santamaria—Ritucci si determina ad investirla — Ragioni che ne impediscono l'opera — Si modifica l’ordinamento del corpo di esercito — Il Re ed i Principi Reali sono del continuo t:a le truppe.

Capitolo XVIII. pag. …..............................................  150

Difesa del forte di Baia—Aggressioni improvvise dei garibaldini contro la cittadella di Messina per obbligarla a cedere — Il generale Locaselo abbandona la piazza di Siracusa — Il colonnello Latour cede la piazza di Augusta al Municipio — Il generale de Benedictis comandante territoriale degli Abruzzi fa sciogliere le milizie eh" erano in Solmona, nel castello di Aquila e nella piazza di Pescara — Difesa della piazza di Civitella del Tronto.



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PROEMIO.

Vari opuscoli, cronache ed articoli di fogli periodici hanno dato finora ragguagli della campagna delle truppe napolitano nel 1860— Tra quelli, altri si diceva essere stati composti da testimoni oculari dei fatti, altri averli i loro autori attinti a buone fonti; ma tutti per verità, sono da giudicare incompleti, inesatti ed alcuni in parte anche mendaci.

A rischiarare dunque il giudizio dei contemporanei, porgere alla storia utili elementi e smentire ciò che ha detto la bugiarda stampa straniera, che pur si delizia da qualche tempo a scagliare basse ed immeritate accuse contro l'onorato soldato di Napoli, rendevasi oltremodo necessario il veder pubblicata la veridica cronaca di quegli avvenimenti, tratta da documenti autentici e dal commercio delle lettere officiali.

A questo scopo volgemmo il nostro pensiero da gran tempo e se finora non svelammo il vero di quei fatti di guerra, ne fu cagione, che non giova qui palesare e che di leggieri si potrà argomentare, da chi voglia e sappia considerare le condizioni dei tempi.

— 4 —

Il nostro lavoro sarà diviso in due parti; nella prima parte narriamo i fatti principali che avvennero dal 1848 fino al cominciamento della campagna sul Volturno e sai Garigliano; nella seconda registriamo giorno per giorno i fatti guerreschi e qualsivoglia altra cosa della campagna.

E perché le nostre fatiche, parto di modesto ingegno, potessero tornar gradite alla gente onesta, sia qualsivoglia la gradazione di partito alla quale si appartenga, ci sforzeremo d'esser cronista imparziale, più che elegante e forbito scrittore. E senza parteggiar per chicchessia, o susci tare inutile basse gare, diremo il vero ovunque si trova ed a 'chiunque esso potesse tornare sgradevole.

A ciò farà ne spinge il nobile pensiero d'esser giovevole alla storia, sotto il cui dominio sono oggidì quelli avvenimenti, ed ai no,stri concittadini, le menti dei quali, ei si contiene pure una volta d'illuminare.

Scrivendo sulla fede di documenti officiali e di fatti nei quali fummo spettatore ed attore ad un tempo, abbiamo eziandio fiducia di evitare vane recriminazioni e noiose potemiche. E se ciò non ostante vi sarà chi per diletto di censura voglia combattere i nostri detti, dichiariamo da ora che non risponderemo ad alcuno: ci offeriamo solo prontissimo di far leggere a chiunque glie ne muove vaghezza, il testo dei documenti, dai quali la nostra cronaca trasse la vita.

— 5 —

Scopo unico del nostro lavoro è l’esposizione pura e semplice delle cose di guerra che risguardano le milizie napoletane nella lotta finale che sostennero. Ma siccome trattasi d'una guerra, ch'ebbe la sua origine da errori politici e da falli e tradimenti di militari, così discorreremo alcun poco, delle cagioni che resero valida l'opera della rivoluzione e dei fatti militari che servono di legame agli avvenimenti del Volturno e del Garigliano.

Vorremmo narrare per filo e per segno altresì le cose della parte avversa, ma dobbiamo rinunciare a questo nostro desiderio per mancanza di elementi certi: favelleremo di essa, solo per quanto risguarda i combattimenti sostenuti.

Napoli Gennaro 1870.

Giovanni Delli Franci.
PARTE PRIMA

PATTI PRINCIPALI CHE AVVENNERO DAL 1848 FINO AL COMINCIAMENTO DELLA CAMPAGNA SUL VOLTURNO E SUL GARIGLIANO.

CAPITOLO I.

Costruzione del 10 Febbraro 1848 — Rivolture che ne conseguitarono — Ribellione del 15 Maggio 1848 —Diffidenze dei liberali verso il governo — Ragioni che provocarono la severità dei governanti — Nuovi ministri.

Innanzi di toccare i fatti di questa guerra, cui accompagnar dovevansi le sventure di un Esercito di meglio che centomila combattenti e quelle di una Dinastia fino al suo disparire, gli è mestieri discorrere brevemente delle ragioni interne che grandemente concorsero al cangiamento politico delle Sicilie.

Non è nostro compito fare la storia civile del paese, scopo di alte intelligenze che con senno pari alla imparzialità ne tramanderanno i fatti ai posteri. Ma poiché trattasi d'una guerra contro la insurrezione, le cui principali cagioni furono la politica e l'interna amministrazione dello stato, non sarà superfluo far cenno di alcune, degne di essere notate. Con ciò crediamo di compiere un dovere di cronologia, per dare agli avvenimenti militari del Volturno e del Garigliano un legame storico che si coordini col passato e mostri degli effetti anche le cause.

— 8 —

E per non deviar troppo dal nostro proponimento, faremo parola della rivoluzione del 1848, essendo stata essa origine di calamità succedetesi per modo l'una dopo l'altra, da formare una serie di civili rivolgimenti. Risalire ai tempi che quell'anno precedettero, sarebbe varcare i confini di un lavoro, che deve tanto distendersi, quanto i fatti speciali durarono.

Nel 1848, voti di più largo vivere civile si venivano manifestando dai liberali d'Italia ai loro Re e Signori e le Sicilie si ebbero più prestamente degli altri popoli italiani una «ostruzione, accettevole per vero da uomini desiderosi di libertà.

La politica delle restanti corti d'Italia, vedute le condizioni dei tempi, fu imitatrice delle larghezze introdotte nel nostro Reame, il quale, per ragione topografica e di prosperità interna, è la prima regione felice della penisola italiana.

Re Ferdinando II sapeva bene che vi ha alcuni momenti, in cui la politica dei principi verso i popoli si trova a quelle solenni prove, nelle quali si compie un giudizio reciproco innanzi agli occhi di tutte le nazioni ed a buon dritto volle mostrare alla opinione pubblica, che la nota sentenza, chi regna non vive per se, non era per lui sterile proverbio. E però avendo Egli stabilito una nuova forma di reggimento, si propose di attuarla.

La costituzione del 10 Febbraro 1848 doveva segnare per le Sicilie un'Era di risorgimento, che ricordasse alla posterità il maggiore avvenimento della vita di questa nazione, in un mutuo accordo tra Re e popoli; che presentasse il migliore esempio della paterna amorevolezza, onorata dalla filiale riconoscenza.

— 9 —

Il Re per la sua generosità aveva diritto di esigere che i suoi sudditi glie ne sapessero grado, affinché il nuovo governo progredisse duraturo all’ombra di morali e materiali guarentigie. I sudditi sapevano grave dovere pesare sulla loro coscienza verso gl'interessi nazionali, per concorrere col potere Reale al bene comune. In questa condizione di cose altro non richiedevasi, che scambievole fiducia tra Re e popoli. generosi sforzi in chi governava, temperanza nei governati. Dimenticare il passato, porre fine alle intestine discordie, concordare gli animi. conciliare e fondere in una sola opinione i pareri discrepanti: ecco i supremi bisogni di quei tempi, per rendere i popoli uniti e forti e le novelle istituzioni invulnerabili. Ma sventuratamente i fautori di libertà, sciogliendo il freno alle idee, ruppero in eccessi di smodate aspirazioni verso nuove forme governative. Violato così quel confine segnato nella via delle ricevute instituzioni. si cercava sovvertire l'ordine interno fino a voler aggredire il potere Reale, spogliarlo dell'autorità Sovrana e forse rovesciare il trono costituzionale, che'era principio dei vantaggi che si speravano., mercé il novelli) ordine di cose.

Ché una nuova insurrezione tenne dietro alle guarentigie costituzionali. Si cospirava in tutti i punti del Regno per abbattere il potere. Le milizie nazionali furono fatte segno ad ogni maniera di oltraggi. Quasi in tute le province i settari guarentiti dalla guardia nazionale scacciarono e manomisero i pubblici funzionavi. In molti luoghi disarmarono la gendarmeria, che poca contro molti, non poteva opporre resistenza.

Finalmente il torrente rivoluzionario irruppe fin sotto gli occhi del Re; la sua persona non fu risparmiata alle contumelie di coloro, cui la sua mano cercava sollevare a migliori destini;

— 10 —

la capitale divenne centro di funestissimo tumulto; le strade furono abbarrate. Non valsero le pacifiche esortazioni, che in quei supremi momenti, partivano ad ogni ora, ad ogn'istante dalla Reggia; i rivoltosi, con apparati di formidabile ostilità, audacemente dimostravano di qual cosa fumigassero i loro cervelli ed il loro sbizzarrire, era da gran parte della guardia cittadina aiutato e difeso.

Chiunque fosse stato testimone di vista della tremenda giornata del 10 Agosto 1792 in Parigi, ed il 15 Maggio 1848 fosse stato spettatore degli avvenimenti di Napoli, è certo che non avrebbe saputo prevedere favorevoli gli eventi della Dinastia.

Il parlamento nazionale degenerò in aperta cospirazione, con atti che simulavano un carattere di legalità; al tempo stesso che cominciata una sanguinosa lotta fra ribelli e milizie nazionali, la città divenne teatro di quelle orrende scene di sangue cittadino, che nelle guerre intestine si versa in olocausto ai capricci di un falso ed esagerato amor patrio. La giornata si decise in favore del ReiLesa per poco la prerogativa Reale, condizione assoluta ed inalterabile della costituzione monarchica, venne restituita nella sua integrità con la forza.

Una costituzione per esser buona è mestieri, che rispondendo alle singole sue parti, sia disciplinata nel suo regime e guarentita nelle sue instituzioni: condizioni principali per una monarchia nazionale rappresentativa.

In Francia invano si è cercato costituire il governo su tali basi. L'assemblea costituzionale del 1789 nello stabilire la prerogativa Reale, errò in dritto ed in fatto; di modoché invece di contenere l'impeto delle passioni rivoluzionarie, prestò loro aiuto e forza tale, che l'autorità del governo fu interamente dissipata (1): il parlamento delle Sicilie ne seguì lo esempio nel 1848.

— 11 —

Questi avversi casi attirarono l’attenzione dello universale e segnatamente degli altri stati Italiani.

E sarà pregio di questa nostra operetta il far qui notare, che Re Ferdinando II in concedere ai suoi popoli quella costituzione, diedela con tale lealtà e col fine di durevole accordo coi suoi popoli, nel progressivo sviluppo delle nuove instituzioni, che non é tra i pubblici scrittori chi osi di niegarlo, o almeno di dubitarne.

Acerbe censure si dissero e si scrissero contro la politica serbata da quel Monarca, dopo che ebbe trionfato della inaspettata ribellione. Ma quando gli ordini costituzionali più che trovare appoggio nel concorso dei popoli, a guarentigia degli interessi nazionali, dovevano invece causare spirito distruggitore e delle forme del governo e del trono istesso, il Principe comprese bene, che il Regno non avrebbe potuto contenersi nella moderazione, che per via della morale influenza che imprime nella coscienza generale il carattere dell’autorità: bisognava consolidare la macchina governativa ed il trono minacciatol'

La crisi politica del 15 Maggio 1848 ripristinò il Regio potere nello stato normale e l'Esercito vinta la insurrezione. riacquistò la sua forza.

Quello avvenimento ne ammaestrò abbastanza, che i faziosi sbrigliano le loro passioni fino agli eccessi, non curanti del bene patrio, il quale esige moderazione in operare, maturità nei consigli, generoso obblio del passato e correndo precipitosi, smarriscono la vera via che conduce alla prosperità nazionale fino a porla in pericolo e perdere se stessi — Né ciò è tutto, ché la divisione dei partiti ha sempre alimentata la guerra civile, spesso coprendo sotto l'egida di una reazione politica la vendetta privata.

— 12 —

I liberali durante le franchigie del 1848, invece di mostrarsi diversi da quelli delle passate turbolenze del nostro Reame, non fecero che rinnovarne le scene. Diffidenti fuor di modo verso l'autorità Sovrana, innanti che il novello regime segnasse la via di progresso a tenersi e l'opera del governo si ponesse a prova, pretesero di dimandare le castellal'

Perché il Re trovossi nella dura necessità di opporre resistenza alle esorbitanze liberalesche.

Però innanzi ai gravi fatti, per i quali non era difficile preveder quelli che a n'ebbero messo in fondo il paese, fu giuocoforza fare opera che incolume si fosse la corona.

Ma Egli non vi sarebbe riuscito senza imbrigliare le passioni smodate. Si trattava di dover'usare di una politica non rallentatrice, che contenesse le soperchianti cupidigie. E se di questa si scontentarono i faziosi, non poterono che rimproverare se medesimi, che non seppero rispettare le forme che li governavano e gl'interessi del trono.

Diceva un uomo di stato, che sovente convien cedere qualche cosa per non lasciarsi strappar tutto. Ebbene se il Re aveva ceduto qualche cosa, restringendo i suoi poteri; i liberali avrebbero dovuto anch'essi seguire queste orme, temperando gli ardori di libertà illimitata. Bisognava che l'uno reciprocamente cedesse all'altro e le volontà fossero concordi.

Per le quali cose, abbisognando il Reame di espedienti pronti e repressivi, che arrestassero il torrente rivoluzionario, da quel giorno malaugurato tacque la libertà ed agì il potere: condizione durissima, che doveva generare nuove intestine calamità.

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Il governo aveva bisogno di menti e di braccia che

Perù gli obblighi ch'Eglino avevano per rispondere al bene del Reame ed alla fiducia che in essi il Principe aveva riposta, si erano di fare che i traviati riparassero sotto la Sovrana clemenza che le opinioni esagerate si temperassero, che si procurassero amici al governo con una generosità che dileguasse le memorie del passato, che si ravvicinassero i partiti, che si fermassero le aspirazioni nazionali su quel limite dond’era cominciata la nuova vita politica del paese e secondo le norme di essa educare i popoli. In tal modo sarebbe stato al certo agevole, ricondurre le idee verso la via, cui la memoria di fatti recenti aveva rendute diffidenti.

Il paese non mancava d'instituzioni governative, le migliori che mai si avessero le più incivilite nazioni di Europa; opera delle elucubrazioni di Ile Ferdinando II, che cominciò fin dal suo innalzamento al trono e nello spazio di venti anni compì, per rifiorire la interna prosperità del Regno.

L'amministrazione pubblica, la giustizia, la finanza, la interna ed esterna sicurezza dello stato, il commercio, le arti, l'industria, l'agricoltura e qualsivoglia cosa possa costituire la felicità d'una nazione, avevano ricevuto stimolo ed incremento sotto il governo di quel Monarca: il che è comprovato da fatti incontrastabili, cui ha reso giustizia la storia imparziale.

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Ognuno conosce come di molto abbisognasse il Reame

Fu mai sempre sventura del nostro paese, che o si  ignorato il vero spirito delle popolazioni, o per troppo conoscerlo, troppo si è voluto abusarne. È questa una verità, che con evidenti ragioni fa solenni testimonianze la storia dei governi viceregnali, che tennero questa nobilissima regione d'Italia, senza sviluppo di civile coltura e d'interna prosperità.

CAPITOLO II.

Errori ed abusi dei governanti dopo il rivolgimento dell'armo 1848 e malcontento dei popoli.

Dal rivolgimento del 1848 non pochi furono gli abusi che conseguitarono. Non vorremmo sollevare un velo che copre amari ricordi, per non mostrare dolorose piaghe esacerbate dalla mancanza di opportuni rimedi. Ma come dicemmo, essendo cose che grandemente contribuirono a nuove sventure, togliamo il doloroso assunto di fermarvici alcun poco e per quanto basti al giudizio dei lettori.

Tra quelli clic si preposero al reggimento della cosa pubblica, furono taluni che seguivano via affatto diversa da quella additata dal senno governativo;

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peroché co

La polizia, creata dalla rivoluzione di Francia accaduta in fine del passato secolo ed introdotta in Napoli al tempo della occupazione militare, per sussidio della giustizia e. per difesa dell'ordine interno, era degenerata e non tendeva al fine di sua istituzione. In essa vedevi alcuni, né probi, né intelligenti, prescelti a compiere offici di lor natura difficili e vedevi altresì corruttela ed ignobili abitudini nei bassi agenti, tolti dalla classe del popolo rotta ai vizi della crapula, del mal costume e della spavalderia, donde le prevaricazioni, la venalità, l'arbitrio. Il Re stesso non fu esente dalla loro cupidigia e non è «hi non sa, che fino quella parte delle limosine, o sovvenzioni del Principe, che passava  per le mani di coloro ai quali era affidata la sicurezza della sua persona, non. si distribuiva, nella sua somma ed integrità, agli sventurati ed ai poverelli.

La province èrano travagliate dai loro governanti, i quali invece di scoprire crimini nocivi all’ordine ed alla interna sicurezza dello stato, si rendevano essi stessi cagione e fomite di malcontento, Cercando Eglino di trovare i segni della demagogia nelle fogge degli abiti, dei cappelli e delle barbe, quasi che i settarì amassero porsi volontariamente nelle mani della giustizia, si facevano molesti a chicchessia, senza riguardo a luoghi, a persone, a circostanze.

Egli è vero che in questi segni si ascondeva uno spirito di opposizione all'autorità che li vietava; ma quando questa pecca non trasmodava in atti materiali e la colpa

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Che tra noi fossero cospiratori politici non era da porsi in dubbio. Il desiderio dell'unità d'Italia, suscitato dal primo Napoleone, non fu spento con la rovina di lui; anzi restò sì tenace nella mente dei turbolenti, che non mancarono in queste belle contrade opere faziose, come quelle dei fratelli Bandiera nei lidi di Cotrone, di Pesacane in Sapri ed altre di simil natura.

Ma certamente si dette incremento al concetto dei settarì e si accrebbero i mezzi di cospirazione, con l'opera stessa della improvvida vigilanza governativa, la quale volendo trovare le sette nei popoli, faceva di tutti i popoli una setta.

Le cospirazioni intanto progredivano, ché i settarì eran troppo cauti per farsi scoprire, e la polizia, vagando incerta nei campi della immaginazione, talvolta cercava la colpa ove non era.

E da questo strano sistema d'inquisizione fu affrancato solo l’esercito ché. il ministro della guerra tenente generale Principe d'Ischitella, mise sotto il suo patrocinio la milizia, che tante prove aveva dato di fedeltà e di valore, sebbene in dura' guerra, pjr la difesa della Monarchia.

La giustizia inquisitrice dei delitti di lesa maestà, non fu immune da colpe. E sebbene non è nostro intendimento censurare ogni sorta di giudizi, pure dioiamo, che tra magistrati, alcuni, sia per ambizione, sia per viltà d'animo, aggravavano la pena dei giudicabili, altri l'alleggerivano. Onde alcune condanne non furono la misura del reato con la pena, ma quella delle colpe col riguardo dei tempi e dello spirito di parte.

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Le regole della pubblica amministrazione, la quale per lo passato progrediva con notevole prosperità in questa terra fertilissima, non erano osservate e furono pretesto agli amministratori di venali speculazioni.

Era troppo recente per essere dimenticato un fatto di clamoroso scandalo che mosse la Sovrana indignazione. Un monopolio con isfrondata impudenza erasi stabilito nella intendenza della 2.° Calabria Ultra, circa la vendita dei grani e delle farine a danno delle popolazioni. Né eia bastando alla cupidigia degli amministratori, si cercò far mercato degli affari di leva, sicché taluni si facevano esenti dal servire nello esercito, obbligandosi altri a militare in lor vece.

Egli è vero, che non mancarono mai progetti di miglioramento amministrativo, ché anzi molti se ne formolavano dai consigli di distretti e delle province, ma, o restavano inattuati, o iniziata l'opera lasciavasi nella metà del suo corso per inefficacia di mezzi.

Altra ragione di malcontento generale derivava dal non fare i pubblici funzionari opera a prò di quelli, che querelavansi di torti ricevuti o di cose simili. Era invalso il mal vezzo, che chi reggeva desse principio ad ogni cosa e nessuno imprendeva a trattare affari, quantunque fossero di propria competenza, senza che fossero iniziati dall'autorità suprema. I ministri stessi non usavano delle loro facoltà, se non quando gliene dava licenza il Sovrano. In tal modo dalle grandi alle piccole cose, tutto pesava sul Re, come ai tempi in cui la società essendo nella infanzia, ogni cosa doveva essere giudicata dal Sovrano. Questo procedimento che derivava, sia da inca

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Ancora la continua assenza della Corte dalla capitale e la diffidenza, che per improvvido consiglio allontanava dai sudditi il Principe, faceva sì che i loro lamenti, o non giungessero al trono, o se per avventura con benevolenza si udissero dal Re, non sempre trovavano favore presso le autorità.

Per dare maggiore efficacia alle regole della cosa pubblica e tenere i funzionari delle province in più stretti vincoli di soggezione governativa, furono creati taluni comandi di divisioni territoriali, ciascuno dei quali esercitava giurisdizione in più province, col mandato di vigilare sopra tutti i rami dell’amministrazione, migliorare lo spirito pubblico ed intendere alla interna sicurezza dello stato.

I generali cui fu dato questa missione, o perché la loro mente non era provveduta di ciò che faceva mestieri per bene adempierla, o perché volessero solamente far pompa di poteri, ne snaturavano lo scopo. Gonfi alcuni del privilegio di sopraintendere ai civili officiali, spesso causavano conflitti di attribuzioni e talora discordie; altri per ignoranza, o per propria volontà, sorpassando i confini del loro compito, non di rado invadevano

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Il governo quindi siffattamente rappresentato discapitava d'opinione e la setta, lavorando con accorgimento, ingannava i popoli con promesse di prospero avvenire ed alimentava tra gl’ignoranti il desiderio di novità.

E mentre i guai interni crescevano sotto gli occhi di chi aveva l’obbligo di pervi rimedio, o di manifestarli al governo con l'aggiunta di tali ed opportuni espedienti, che rimuovessero le cagioni di disordini ed assicurassero il benessere della civile convivenza, si occultava il vero delle cose e per soprassello, con rapporti esagerati e bugiardi, notificavano al governo la tranquillità e contentezza dei popoli.

Non mancavano è vero fra gli stessi funzionari uomini illuminati. i quali caldi di amor patrio e di devozione al Principe, avrebbero volentieri manifestato al governo con lschiettezza le condizioni del paese; ma è verissimo altresì, che il timore di essere contradetti da chi aveva saputo conseguire maggiore fiducia, li tenne sempre silenziosi: ed ecco come la verità stette quasi sempre lontana dal tronol'

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CAPITOLO III.

Attentato di Agesilao Milano contro la vita di Re Ferdinando II. — Nuove misure repressive adottate dal governo e però novelle cagioni di Malcontento.

Il dì 8 Decembre 1856 doveva segnare il cominciamento di un nuovo stadio di sventure politiche, che aggravassero più le condizioni del paese.

L'attentato di Agesilao Milano contro la vita di Re Ferdinando II, sul campo di marte, avvertiva quel Sovrano dei nuovi pericoli che minacciavano il trono delle Sicilie.

Cresciuta la necessità di guarentirne la sicurezza, si crebbero le misure repressive, appunto quando i turbolenti, dimostrando segni di malcontento, vieppiù le detestavano.

Questa volta non si trattava di scoprire macchinazioni settarie, ma d'un fatto assai più importante, quello cioè d'una congiura di regicidio e credevasi trovarne le fila, scoprendone i complici di gran numero. Il silenzio serbato dall'aggressore, confessandosi Egli proprio autore ed esecutore al tempo medesimo d'un concetto così nefando, tolse agl’inquisitori i principali indizi delle indagini. Ma ciò non ostante gli agenti del governo non si ristettero, ché dovendo ad ogni modo far qualche cosa che giustificasse il loro zelo, non vi fu mezzo, né misura, che non si escogitasse per raggiungere la meta.

La polizia riordinò il sistema d'inquisizione e di vigilanza, rendendone ancora estesi e più violenti i mezzi; e ciò produsse nuova cagione di molestie e di malcon

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E perché il reo principale era un soldato, in più stretti vincoli fu tenuta la disciplina della milizia. Nondimeno la congiura restò personificata in un solo, del cui agire non fu in vermi modo partecipante l'esercite.

CAPITOLO IV.

Morte di Ferdinando II. — Innalzamento al trono delle Sicilie di Francesco li. — Notizia di una macchinazione ordita per un cangiamento di successione al trono.

Re Ferdinando II. colpito da lento e ferale morbo si morì il 22 Maggio 1859 e Francesco II erede presuntivo della corona, ascese al trono delle Sicilie fra i voti e le speranze dei suoi popoli. L'indole generosa del giovane Monarca, che dalla infanzia prometteva futura grandezza; l'esser nato da madre per esemplari costumi e per pietà venerata; l'aver conosciuto e veduto Egli proprio i mali che affliggevano i suoi popoli, eran cose per per le quali si potevano nutrire speranze di più felice avvenire. Difatti se vogliamo per poco tornare alla mente la vita passata del nuovo Principe, vi troveremo innumerevoli esempi di magnanimità. Non fu congiuntura della vita di Re Francesco II, al tempo che era Duca di Calabria,

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in cui il popolo napolitano non ricordi tratti di carità verso la sventura, beneficenza senza ipocrisia e quella popolarità che procura ai Principi un secondo impero nei cuori dei sudditi. E Francesco regnava fin dalla culla; il suo primo regno era nell'amore e nelle speranze dei suoi popoli, ingenerate dalla devozione alla memoria ch'Eglino avevano della madre di lui, Maria Cristina di Savoia.

E la venerazione a questa Regina, non compra, né superstiziosa, era sentita da tutti e l'onoravano ugualmente, nobili e plebei, uomini dell’ordine e liberali, italiani e stranieri.

Non ignaro delle condizioni del paese e dei voti dei popoli, Re Francesco sapeva bene che la sua alta missione. dono della provvidenza, esordir doveva con atti di magnanimità, che avvalorassero nelle menti di tutti le concepute speranze. E così facendo avrebbe operato, che alla sua generosità, i sudditi rispondendo con gratitudine, sarebbesi veduta una nuova vita in queste amene contrade ed il nome di lui sarebbe divenuto immortale. Ma le vicessitudini in breve sopravvenute, dovevano amareggiare la letizia, di che, a cagione del nuovo Monarca, erano ripieni i sudditi di lui; peroché una nuova serie di calamità politiche era preparata a questo sventurato paese, per travolgerlo nella rovina, nella miseria, nel tutto.

Non si erano ancor prosciugate le lagrime versate su la spoglia mortale del suo genitore, quand'Egli seppe, che una congiura incominciata sul finir del mese di Aprile, non nata certamente' tra le mura della Reggia come alcuni pretesero, macchinava un cangiamento di successione, per mettere sul trono Luigi Maria secondogenito di Re Ferdinando 11 e nato da Maria Teresa d'Austria.

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La congiura si estese con rapidità per tutto

I popoli di questo Reame inorridirono in udire tanta scelleratezza, sebbene essa non fosse esempio nuovo che la storia dei Regni, a quando a quando rammemora.

Intanto le fila della iniqua trama, vennero per ogni dove troncate a vergogna dei tristi, smascherati dalla giustizia e da tutti abbominati.

Il Re saputa tal cosa raccapricciò; ma per nobiltà d’indole e per severità di morale, incapace dì turbare l’animo suo di sospetti ingiuriosi contro chicchessia, richiamò alla memoria i precetti del vangelo secondo i quali era stato fin dall’infanzia educato; non intese che gl’impulsi del cuore e generoso allontanò dalla mente tutto ciò che poteva mettere altrui in discredito. E questa rara più cn nobile condotta, come si vedrà in seguito, fu cagione dello amore e della generosa abnegazione dei fratelli, i quali, non perdonando a fatiche sofferendo disagi e paventando pericoli, or nei campi. or sulle mura di piazze assediate, difesero la causa del loro augusto germano e Signore.

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CAPITOLO V.

Carlo Filangieri primo Ministro del Regno—Immegliamento di vari rami dell'ordine governativo — Macchinamenti della setta tendenti a far diffidare i popoli del Monarca — Lavorio della rivoluzione per rendere l'Esercito spergiuro— Insurrezione dei reggimenti svizzeri o loro discioglimento—Apprensioni nei governanti e nei governati—Il Ministero Filangieri rassegna il potere—Il Re elegge nuovi Ministri ed indugia a concedere larghezze — Lettera del Conte di Siracusa al Re e giudizio che se ne fece.

Re Francesco avendo rivolto le sue cure ad ingrandire il b«e pubblico, fece assegnamento sul senno governativo di Carlo Filangieri Principe di Satriano, suo primo ministro, per virtù civili e militari commendatissimo. E finché questo uomo di stato potette operare ciò che nella sua mente concepiva, non fu chi non affermò essersi a buon dritto riposto fiducia in lui.

Ai tempi del suo ministero diversi rami dell'ordine governativo s'immegliarono. La giustizia trovò migliori guarentigie nel rifiorimento morale e materiale della magistratura, sollevata a maggior dignità, si per soldi corrispondenti ai mantenitori delle leggi, come per la strada che le fu aperta per occuparne maggiori ordini. L'Esercito, che poco tempo era che languiva, venne incuorato, sì per esser cresciuto di numero e si ancora perché potevasi in esso più facilmente salire a maggior grado. L'amministrazione era per rivivere secondo le norme che la scienza del vivere civile e la sperienza locale dettano per la interna prosperità di un paese. Ed il nuovo ministro, siccome ne diede nobilissimo esempio in Sicilia, fece opera, che più non accadessero, o si vedessero abusi di qualsivoglia cosa.

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Mentre Re Francesco, con l'opera di questo ministro, intendeva al miglioramento d'ogni ordine del suo Reame e faceva che i suoi popoli concepissero speranze di più lieto avvenire, la setta insidiatrice, che altro scopo voleva conseguire, macchinava che si diffidasse delle buone intenzioni del Monarca. Essa sapeva bene essere l'Esercito fedele al trono, disciplinato e volenteroso; era dunque mestieri guadagnarlo e cosi torsi un potente ostacolo al gran progetto della unità italiana.

Molti proclami in istampa si diffusero tra le diverse corporazioni, intesi a scrollare la loro fede e renderle cospiratici e molti furono gli espedienti tentati per far proseliti nelle fila della milizia.

Il primo risultamento di queste pratiche sovvertitrici, si ebbe nello scioglimento dei reggimenti svizzeri posti a servire nel Reame. Antico propugnacolo di fede militare era questa milizia, la quale sarebbe stata la prima, certamente, a combattere nella lotta che prepara vasi. Tutto il mondo conosce che se gli spartani pugnavano per le mogli, pei figli, per la gloria, per la patria, gli svizzeri han sempre combattuto per adempiere il proprio dovere, la religione del giuramento e per conservare l'onore del proprio paese. Questa milizia, che tante prove aveva dato al trono delle Sicilie, era dunque un baluardo di più contro le aspirazioni della setta, ed a questa faceva mestieri di dissolverla. E qual cosa non può il volere umano, quando al concetto della mente rispondono a dovizia i mezzi? I reggimenti svizzeri si fecero insorgere; il generale Alessandro Nunziante assunse l'incarico di lanciar contro loro le metraglie sul campo di Marte ed in breve tempo furono sciolti. (2)

Questo avvenimento fece maravigliare grandemente; avvegnaché della fede militare, la quale siccome è noto

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Però potevasi di leggieri argomentare, che le cose del Régno fossero nei loro stremi ed un mutamento politico sarebbe per sopravvenire. Quindi tutti erano impensieriti e le apprensioni nei timidi, le speranze nei novatori ed i timori nel governo, sì moltiplicavano ogni di.

Molte e svariate opinioni erano in lotta circa l'avvenire della patria. I più moderati consideravano solamente, quale esser doveva la politica del governo e quali le risoluzioni del Monarca rispetto ai fatti accaduti. Essi avvisavano volgersi cosi difficili tempi, nei quali Egli, massime per la sua giovane età, aveva presentissimo bisogno di consiglieri onesti e dotti della scienza dei governi. Aggiungi che della fedeltà di Coloro i quali alla dimestica e di continuo erano dintorno a lui, niuno osava dubitare. Intanto alcuni tra loro cospiravano contro del Principe e bugiardi palesavano; lui farsi guidare, come i suoi avoli, da mente straniera. Si voleva insomma predisporre le menti e gli animi di tutti contro là Signoria dominante; il Che provò abbastanza come negli uomini non pure reputati devoti e fedeli, ma in quelli altresì, che surti da umile prosapia avevano per lunghi anni estorta la particolare confidenza della corte ed onori e fortuna, fosse il tarlo della rivoluzione che dentro rode vali.

Il Principe di Satriano, in guerra illustre capitano e salito in gran fama per senno civile, più volte aveva rassegnato il potere ministeriale per discrepanza di opinioni di stato e più volte, a cagione della fiducia che il Sovrano aveva riposta in lui, fu obbligato a riprenderlo. Ma veduto Egli riuscir vana ogni opera sua, a cagione di tale (3) che brigavasi di renderla inefficace, deliberò far ritorno alla vita privata.

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Perché nel giorno 16 Marzo il Ministero rassegnò al Re i suoi poteri e sciogliendosi, disparve con esso il ministro di Sicilia Paolo Cumbo.

Il Re elesse Presidente dei Ministri il Principe di Cassero, pose il generale Winspeare alla guerra, Gamboa alla giustizia, agli affari di Sicilia il Principe di Comitini e fece che gli altri restassero nei propri dicasteri (4).

Egli è fuor di dubbio che le intenzioni del Sovrano erano in principio consentanee ai voti di coloro che agognavano riforme; ma tornandosi a mente la sentenza ili Giulio Cesare, essere cioè mestieri combattere il nemico ch'è alle porte e niente concedergli, adempì il consiglio di chi suggerivagli d'indugiare l'effetto di esse intenzioni.

Intanto lo spirito pubblico si commuoveva vieppiù; non pochi delusi nella loro aspettativa, dubitavano della lealtà del Principe; gli atti del governo erano continua prova di mal consiglio; si lavorava operosamente a vantaggio della rivoluzione, pronta ad irrompere ad un primo cenno che venisse dall’Italia del Nord: insomma si aspettava Garibaldi.

Essendo le cose a tal punto, che facilmente facevano prevedere prossimi avvenimenti, sorse la voce di un personaggio della Reale Dinastia, che si fece udire dal giovane Monarca. Era la voce dello Zio di lui, il conte di Siracusa. Questo Principe che aveva legami d'intimità ed amicizia con molti uomini del partito liberale, scrisse il 3 Aprile 1860 una lettera al Re, nella quale mentre gli additava i mezzi per salvare la Monarchia, in verità, altro non faceva che tramare contro di essa. Noi qui ne registriamo il testo.

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Sire

«Il mio affetto per voi, oggi augusto capo della nostra famiglia; la più lunga esperienza degli uomini e delle cose che ne circondano; l'amore del paese, mi danno abbastanza il dritto presso V. M. nei supremi momenti in cui volgiamo, di deporre ai piedi del trono devote insinuazioni su i futuri destini politici del Reame, animato dal medesimo principio, che lega voi o Sire alla fortuna dei popoli.

Il principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo delle idee, oggi è disceso vigorosamente in quello dell'azione. Sconoscere noi soli questo fatto, sarebbe cecità delirante, quando vediamo in Europa, altri aiutarlo potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità dei tempi.

Il Piemonte per la sua giacitura e per dinastiche tradizioni, stringendo nelle mani le sorti dei popoli subalpini e facendosi iniziatore del novello principio, rigettate le antiche idee municipali, oggi usufruita di questo politico concetto e respinge le sue frontiere sino alla bassa valle del Pò. Ma questo principio nazionale ora nel suo svolgimento, com'è naturale cosa, direttamente reagisce in Europa e verso chi l'aiuta e verso chi lo accetta e chi lo subisce.

La Francia dee volere che non vada perduta l’opera sua protettrice e sarà sempre sollecita a crescere d'influenza in Italia e con ogni modo per non perdere il frutto del sangue sparso, dell’oro prodigato e della importanza conceduta al vicino Piemonte; Nizza e Savoia lo dicono apertamente. L'Inghilterra, che pure accettando lo sviluppo nazionale d'Italia, dee però controporsi all'influenza Francese,

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per vie diplomatiche si adopera

In tanto conflitto di politica influenza, qual'è l'interesse vero del popolo di V. M. e quello della sua dinastia?

SireiLa Francia e l'Inghilterra per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero per esercitare qui una vigorosa azione, e scuotere fortemente la quiete del paese ed i diritti del trono. L'Austria cui manca il potere di riafferrare la perduta preponderanza e che vorrebbe rendere solidale il governo di V. M. col suo, più dell’Inghilterra stessa e della Francia, tornerebbe a noi fatale; avendo a fronte l'avversità nazionale, gli eserciti di Napoleone III e del Piemonte, la indifferenza Brittannica,

Quale via dunque rimane a salvare il paese e la dinastia minacciati da cosi gravi pericoli?

Una sola. La politica nazionale, che riposando sopra i veri interessi dello stato, porta naturalmente il Reame

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Anteporremo noi alla politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale? — L'isolamento municipale non ci espone solo alla pressione straniera, ma peggio ancora; ché abbandonando il paese alle interne discordie, lo renderà facile preda dei partiti. Allora sarà suprema legge la forza; ma l'animo di V. M. certo rifugge alla idea di contener solo col potere delle armi quelle passioni che la lealtà d'un giovane Re può moderare invece e volgere al bene, opponendo ai rancori. l’obblio: stringendo amica la destra al Re dell'altra parte d'Italia e consolidando il trono di Carlo III sopra basi, che la civile Europa, o possiede, o domanda.

Si degni la M. V. accogliere queste leali parole con alta benignità, per quanto sincero ed affettuoso è l'animo mio nel dichiararmi novellamente.

di V. M.

Napoli 3 Aprile 1860.

Affezionatissimo Zio

Leopoldo Conte Di Siracusa.

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Fu giudizio di non pochi questa lettera non essere del tutto intempestiva e poter giovare ancora agl'interessi della dinastia; la quale opinione molti e i più schivi di cose liberali reputarono non essere senza fondamento, quantunque gli unitari, per le loro arti, avessero fatto sì grandi passi che difflcil cosa era di rattenerli nel loro cammino. Nondimeno sembrava che restasse ancor qualche speranza in favore della Real dinastia, se si fossero posti in opera provvidi espedienti, analoghi alla condizione dei tempi, per togliere ogni pretesto alla rivoluzione.

Ma ciò non poteva andare a sangue di chi con ipocrisia consigliava il Re in privato, mentre cospirava alla rovina del suo Signore, che avevalo arricchito e ricolmato dì favori e distinzioni d'ogni sorta.

Il linguaggio dunque del Conte di Siracusa, fu censurato ed Egli poco poi lasciava i domini del suo Augusto Zio per istanziarsi altrove.

La popolarità che avevasi acquistata questo Principe dei Borboni e l'essere rimasto senza effetto la mentovata lettera di lui, che trovava eco nello spirito dei turbolenti, accrebbero la diffidenza verso il governo, i cui errori succedentisi ogni giorno, il giovane Monarca, vittima della buona fede e del tradimento, camminava verso il precipizio.

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CAPITOLO VI.

Insurrezione della cita di Palermo — Stato d'assedio—Ribellione in Termini, in Monreale, Boccadifalco, S. Lorenzo e Bagheria— Tumulti in Trapani — Arresto di sette nobili persone che costituivano un comitato rivoluzionario in Palermo— Moti in Catania, in Barcellona, in Messina—L'Intendente Artale è tolto dal suo ufficio — Governo provvisorio in Alcamo— I faziosi discacciati dal villaggio S. Lorenzo — Colonne mobili di truppe nelle province di Palermo e di Trapani — Altri tumulti in Messina—Reazione in favore del governo in Castellammare del golfo ed in Alcamo —Indirizzo del Senato di Messina al Re — Banda di Rosolino Pilo — Guerra in Carini — Altro indirizzo del Senato di Messina al Re — Avvenimenti sediziosi in Palermo e paesi vicini — Misfatti di sangue e di rapina commessi dalle bande in alcuni paesi — Arruolamenti fatti fare nell'isola e notizie del prossimo arrivo che Garibaldi vi avrebbe fatto — Colonna di truppe del generale Laudi in Alcamo — Partenza di Garibaldi da Genova — Richiami che ne fecero le potenze di Europa al governo Sardo e sua discolpa —Lettera di Garibaldi al Re di Piemonte — Benefici conceduti dal Re alle città di Catania, Trapani Messina e Palermo—Apparecchi del luogotenente per impedire i tentativi di Garibaldi—Disegno di guerra mandato dal Re in Sicilia — Le truppe del generale Letizia ritornano in Palermo.

La Sicilia ulteriore, incitata a sollevarsi da continui proclami rivoluzionari; sedotta dall'oro straniero ed assicurata altresì di aiuto dalla gente del Garibaldi, iniziò la insurrezione del Bearne. Era allora governata dal tenente generale, luogotenente del re Principe di Castelcicala; uomo di fede sì, ma esperto più della scienza della diplomazia, che di quella del militare.

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Il mattino del 4 Aprile 1860 i facinorosi di Palermo aggredirono le truppe Regie e ridottisi nel convento della (rancia, avvenne sanguinoso combattimento tra loro e la soldatesca. La quale espugnato quel convento e vintili, guerreggiò con altri faziosi che si videro in S. Maria di Gesù, in Boccadifalco, alla Favorita, al ponte detto delle Teste, nel piano dei Porrazzi, a porta S. Antonino, a quella di Termini, alla Sesta casa ed in Monreale. I quali ancora dalle Regie milizie furono conquisi e dispersi.

La fregata napolitana Èrcole che stava innanzi il ponte della Muraglia, scagliò colpi con le sue artiglierie contro i ribelli, che si mostrarono sulla strada di Bagheria e nelle campagne di Villabate.

La popolazione non partecipò a tali disordini e serbò rispetto ed obbedienza alle leggi.

In Termini il sottointendente, per viltà d'animo, lasciò che i ribelli operassero a lor talento ed Egli, con la poca milizia che colà era, si chiuse nel castello. Perché i proprietari di quel luogo, radunatisi, fecero opera di tutelar l'ordine pubblico.

Fu proclamato lo stato di assedio in Palermo (5) e però le circostanti campagne, ripullularono di armati ostinati e feroci, nei quali s'era fatto rivivere con più audacia, l'odio contro il potere che reggeva l'isola.

Nel giorno appresso, nuovi combattimenti avvennero tra essi e le milizie Reali che guardavano l'esterno della città. Le quali assalite in principio, in poca d'ora li sbaragliarono.

In Monreale, in Boccadifalco, in S. Lorenzo, succeduti altri fatti di aggressione contro le soldatesche del Re, toccarono alla fazione liberalesca nuove sconfitte.

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In Bagheria, credevano i ribelli di conquidere le due compagnie del quarto dei fanti che guardavano quella posizione ed assalirono quel paese con numerose masse. Ma quelle si difesero con valore, opponendo loro audace resistenza; della quale fu sì adirato il nemico che crebbe il numero degli assalitori, col tenace intendimento di vincere quei prodi. Nondimeno fu vana la vittoria agognata dai turbolenti; imperoché la truppa Reale, vistasi incalzata da poderoso nemico e non potendo più lungamente resistere, si fortificò in una casina. E quivi, pur senza vettovaglie, disperatamente difendendosi, stette salda e pugnò da forte, sebbene estenuata dal lungo combattere e dalla fame. Nel giorno appresso una piccola colonna di milizie condotta dal generale Sury, andò a snidare i faziosi da Bagheria e dopo aver preso d'assalto quel paese, liberarono quei valorosi rinchiusi nella casina.

Una nave genovese recò nel dì sei, armi e munizioni in Trapani e tosto i facinorosi tumultuarono. E con bandiere tricolori, percorrendo le vie della città, minacciarono di aggredire la soldatesca per liberare i detenuti, che colà ed in Favignana scontavano la loro pena. Il colonnello Floriano Jauch del decimo terzo dei fanti e l'intendente Marchese Silvestre Stazzone, si fecero notare di codardia e dappocaggine e la ribellione, signoreggiando, senz'esser combattuta, si estese in quasi tutta la provincia (6).

E mentre questi fatti avvenivano il generale Salzano, che comandava la provincia di Palermo, con opportuno editto, lodavasi del disprezzo che il popolo aveva dimostrato all’opera dei turbolenti; faceva largir danaro a chi, per le avvenute cose, aveva patito difetto di lavoro ed inculcava a tutti la tranquillità (7).

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Nullameno il direttore della polizia fece arrestare sette nobili persone che appartenevano ad un comitato rivoluzionario e fattole portare nel forte di Castellammare, fece opera, che la giustizia punitrice dei delitti di lesa maestà, li giudicasse (8).

Il Re comprese bene che cominciavansi a vedere le conseguenze del congresso di Parigi avvenuto nel 1856 e quelle del tenebroso abboccamento, che Cavour ebbe di poi insieme al Bonaparte.

Noi non ne ragioneremo, perché non è nostro scopo scrivere per filo e per segno la storia politica, e del Reame delle Sicilie, e delle corti che ne vollero infranta l’autonomia. Diremo solo, che Re Francesco non ignorando tali cose e sapendo altresì, che in Genova ed in altri luoghi del Piemonte si facevano arruolamenti in favore dei Siciliani, avvisò, la salvezza della Dinastia e della indipendenza della patria, stare tutta nell’Esercito. Perché nel giorno 8 Aprilo, mandò nuove truppe in Sicilia e stimolò il luogotenente a guerreggiar contro le bande armate che scorazzavano la campagna per vincerle e sottometterle.

Né di ciò contento il Re, mandò pure al Castelcicala regole di strategia per domare la ribellione (9).

Intanto in Catania accaddero tumulti, tosto sedati dalle autorità civili e militari, ed in Messina la rivoluzione guerreggiò contro le truppe Reali, le quali incontanente la vinsero.

All'Intendente marchese Artale, che mostrò debolezza d'animo, concedendo ai rivoltosi che la polizia non più esercitasse i propri doveri, fu dal governo tolto l'ufficio.

Anche in Barcellona fu qualche agitazione; ma le persone probe del paese, seppero sì resistere ai tumultuanti che l’ordine interno non fu turbato.

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Il 9 Aprile una banda di mille insorti apparve in Alcamo, ove non essendo le civili autorità, che fuggirono, disarmarono la polizia e stabilirono governo provvisorio.

Il luogotenente, visto che nel villaggio di S. Lorenzo si era raccolto gran numero di faziosi, ordinò che due colonne di milizie; una comandata dal maggiore Polizzy dello stato maggiore e composta di sei compagnie di fanti, mezzo squadrone di cacciatori a cavallo, due cannoni e sessanta compagni d'arme; l'altra condotta dal tenente colonnello Torrebruna e forte di quattro compagnie di fanteria ed un plotone di pionieri, camminando per diverse vie, ne li discacciassero.

La prima colonna, cioè quella del Polizzy, col ferro e col fuoco, dopo calorosa pugna impadronitasi del paese, li pose in fuga, e l'altra, per essere arrivata più tardi, non partecipò nella guerra.

Inoltre il Castelcicala stabilì una vigilanza armata con legni da guerra per impedire qualche sbarco clandestino ai lidi dell’isola; volle che le compagnie d'armi perlustrassero le spiagge più remote e forti colonne mobili di truppe andassero nelle province di Palermo e di Trapani. (10)

Ed una di esse colonne col generale Sury percorse i villaggi della Grazia e Villabate; altra scacciò i rivoltosi da Misilmeri e dal convento di Gibilrosso; altra condotta dal generale Cataldo camminò dapprima fino a Marineo e poscia per la Piana dei Greci, Partinico e Montelepre, proclamando dappertutto perdono a coloro. che ravveduti lasciassero di far guerra; altra retta dal generale Letizia, marciò per tutta la provincia di Trapani per ripristinarvi l'ordine e compiere il disarmamento dei cittadini; altra infine capitanata dal generale Primerano percorse i distretti di Termini e di Cefalù per farvi disarmamento.

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Intanto i giorni 10 e 12 Aprile, nuovi tumulti avvennero in Messina ed i facinorosi pretesero di assalire il forte Castellacelo, che sta a cavaliere della città. Il quale facendo incontanente tuonare le sue artiglierie, disperse l'insana turba, che credeva poter di leggieri impadronirsene.

Il giorno 16 Aprile in Castellammare del golfo ed in Alcamo per opera degli stessi abitanti, si ripristinò l'ordine ed il rispetto alle leggi. E la città di Messina, liberata da faziosi riacquistò la pace e la consueta tranquillità. Onde il Senato indiresse al Re calde parole di devozione (11).

Tutti i rivoltosi debellati in Palermo ed in Messina, si congiunsero alla banda di Rosolino Pilo, emigrato siciliano, ch'era sbarcato di nascosto nell'isola e scorreva le campagne, per cercare di stancare le truppe del Re.

Guardavano Carini gran numero di turbolenti i quali erano divenuti il terrore degli abitanti di quei luoghi. Per iscacciarneli, il luogotenente con strategia bene innanzi ordinata, volle che due colonne di soldatesche: una condotta dal tenente colonnello Torrebruna e l'altra dal tenente colonnello Perrone assalissero quel paese e che le truppe del Bosco ch'erano in Monreale e quelle del Cataldo, già arrivato in Montelepre, operassero in maniera da circondar Carini e far prigione tutta la gente della insurrezione.

La guerra in Carini ebbe effetto il giorno 18 Aprile, la truppa del Torrebruna, senz'aspettare l’altra del Perrone, che sbarcò più tardi del tempo fissato, attaccò la pugna. L'ardore della soldatesca fu tale, che dopo due ore di combattimento col ferro e col fuoco s'impadronì di Carini e la saccheggiò. Si combattette anche in Montelepre e le milizie napolitane furono ancora vittoriose.

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luogotenente ordinò che il Cataldo avesse il comando anche della soldatesca che aveva combattuto a Carini e perseguitasse gli avanzi delle già conquise bande.

L'ordine cominciò a ristabilirsi nei paesi circonvicini a Palermo ed il disarmamento fatto dal generale Cataldo, produsse sì salutare effetti, che lo spirito pubblico sembrò alquanto migliorato? Anche nella provincia di Trapani gli animi parvero acchetati in maniera, che le imposte al governo si pagarono pure con faciltà. Ed in Messina la quiete si credette così assicurata, che il Senato ringraziò ancora il Sovrano di speciale beneficio ricevuto (12).

Il 23 Aprile arrivò in Palermo il legno Sardo il Governolo, il quale recando incitamenti di Garibaldi a combattere il governo di Re Francesco, fece sì, che i turbolenti sbizzarrissero novellamente.

Nel giorno seguente nella piazza Ballerò ed alla porta S. Antonino di Palermo, furon grida sediziose ed avvennero disordini in Piana dei Greci, ove fu subito spedito il tenente colonnello Marulli con alcune milizie.

Furono aggrediti i posti telegrafici di Sferracavallo, e Cinisi, i cui impiegati fuggirono.

Ma la truppa Regia corse a gran giornata verso quei luoghi e scacciandone i ribelli, disarmarono le popolazioni.

Per tutti questi avvenimenti il luogotenente comandò, che la soldatesca del Cataldo ritornasse in Palermo e quella del Primerano andasse in Ogliastro.

Egli vedeva chiaro che la gente di Garibaldi tentato avrebbe qualche sbarco nell’isola; ma confidava molto nelle Regie navi che vigilavano e nel valore delle sue truppe.

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Nondimeno il Re, quasi presago di quello che avven

Intanto le truppe del maggiore Bosco in Monreale, fecero una ricognizione sul monte Reddolampo e ne discacciarono i ribelli. Dei quali alcune bande saccheggiarono Ciminna in quel di Termini e commisero misfatti di sangue e di rapina in Sottana, nelle terre di Caccamo, nella piana di Vicari, nel Porticello ed in Petralia, ove quei misfatti furon tali, che i naturali levatisi come un. sol'uomo, ne li discacciarono.

Malaccortamente il 3 Maggio si pensò di togliere lo stato di assedio in Palermo. Il generale che comandava la provincia ne pubblicò la manifestazione (14) ed il luogotenente con un proclama disse agli abitanti dell’isola, parole esortanti alla quiete ed alla interna sicurezza (15). Ciò non ostante fece tornare in vigore la legge del 16 Giugno 1849 contro coloro che, senza licenza dell'autorità,, tenessero o portassero armi. (16)

Anche in Messina cessò lo stato di assedio per l'apparente calma dei turbolenti.

Nondimeno in Girgenti fu spedita una forte colonna di milizia, ché si sospettò verso quel luogo doversi avverare lo sbarco di Garibaldi.

E nel giorno appresso, i cospiratori ch'erano in Piemonte, mentre apparecchiavano in Genova ogni cosa perché Garibaldi invadesse l'isola, facevano arruolare ed internare nelle montagne di Sicilia gran numero di prezzolati ribelli.

Il luogotenente, veggendo i turbolenti di Palermo studiar calma, mentr'Ei si accorgeva che i loro animi erano agitati, sospettò che fosse per avvenire lo sbarco di

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Più tardi arrivarono al luogotenente più precise notizie di Garibaldi e delle sue cose. Egli seppe, l'ardito avventuriere avere i suoi armati in due legni a vapore della Società Rubattino di Genova e guidarli con Nino Bixio; recare in essi copiose armi, venti cannoni e molte munizioni; avere avuto altre artiglierie dal Governo Sardo e propriamente dal comandante il forte di Orbetello; essere la gente di lui divisa in compagnie ch'erano comandate da Bixio, Cenni, Nullo di Bergamo, Mazocchi, Cairoli, Missori, Manara, Lamasa, Carini, Stocco, Orsini, Cosenz ed Anfossi ed alle quali si sarebbero congiunte le bande siciliane di Rosolino Pilo, S. Anna, Bruno, Coppola, Marinimi, Marcello e Mocada; capo dello stato maggiore di lui essere un tal Sirtori e suoi aiutanti di campo l'ungherese Turr col conterraneo Tukerv ed il figlio di Manin.

Cotali nuove indussero il Castelcicala a far partire da Palermo il sei Maggio il generale Landi con una colonna di truppe per Partinico ed Alcamo, ond’esser preste ad ogni occorrenza.

Appena Garibaldi uscì dal porto di Genova, il governo Sardo, che aveva incoraggiata ed aiutata quell'audace impresa, fece vista di disapprovarla e mandò le navi da guerra, ché infingendo di avversarla, la facilitassero.

Le potenze d'Europa in udire queste cose sembrarono raccapricciare e quelle singolarmente di Francia e

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Nondimeno il Re per dimostrare la sua clemenza ai popoli della Sicilia ulteriore decretò nel 7 Maggio, che le condanne capitali che d'ora innanzi si sarebbero pronunziate, o da tribunali militari, o dalle corti criminali per delitti di lesa maestà, non si eseguissero senza il consentimento di lui.

Inoltre, palesando Egli i suoi intendimenti per far prosperar l'isola, decretò che la città di Catania si avesse in breve vie ferrate, ampio e sicuro porto, franchigia di mercatanzie, tribunale di commercio, cassa bancaria di corte e cassa di sconto. Decretò ancora che il porto della città di Trapani venisse immegliato e che si desse premio ai proprietari delle saline per incoraggiarli nella loro industria. Da ultimo decretò che nella città di Messina si sopprimesse il doppio dazio su i depositi di portofranco ed essa fosse affrancata dal pagamento delle tasse non ancora soddisfatte al governo, e che nella città di Palermo la franchigia dei carboni estori venisse estesa altresì ad altra merce.

I popoli siciliani erano lieti delle benefiche intenzioni del Re, ma i turbolenti che a ben' altra cosa avevano rivolta la lor mente, non se ne contentavano punto.

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E però questi, con promesse di più beato vivere civile, adescavanli a confidare il loro avvenire in Garibaldi e davano opera a tumulti.

E mentre il luogotenente comandava alle soldatesche di Girgenti, condotte dal generale Gaetano Afanderivera, di esser preste a combattere; mandava milizie da Catania in Caltanissetta: ingiungeva ai generale Landi di lasciar Partinico e marciare verso Alcamo e disponeva che il generale Letizia, imbarcando le sue genti alla marina di Scianto su la pirofregata Èrcole, andasse a disperdere gl'insorti, che discesi dalla montagna Orco presso Altavilla avevano saccheggiati ed arsi i paesi vicini.

I faziosi ad arte spacciarono che in Trapani sarebbesi cominciata la guerra ed il luogotenente, reputando ciò esser vero, verso quel luogo ordina che andassero milizie.

E poiché in Palermo erano sintomi di vicina commozione, Egli volle che la soldatesca del Letizia ritornasse in questa città.

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CAPITOLO VII.

Sbarco di Garibaldi in Marsala — Tumulti nelle province di Trapani e Palermo — Stato d'assedio — Combattimento di Calatafimi — Doglianze del Re al Castelcicala per la inerzia delle truppe — I generali decidono di difendersi in Palermo — 11 generale Lanza commessane straordinario in Sicilia — Proclama di Lanza — Le promesse di Lanza non accettate dai Siciliani — Colonna di truppe in Monreale ed a Parco — Garibaldi inganna le milizie Reali e va a Misilmeri—Won-Mechel insegue le bande garibaldescbe verso Corleone e le disperde —Inerzia del Lanza agli avvisi che riceveva del prossimo tumultuare dei palermitani — Garibaldi entra in Palermo e la città si solleva— Combattimento tra gli armati di Garibaldi e le truppe Reali — Tregua di 24 ore domandata dal generale Lanza — La colonna delle truppe di Won-Mechel entra combattendo in Palermo — Convenzione tra Lanza e Garibaldi — Cessione di Palermo alla insurrezione — Indebolimento della disciplina delle truppe Reali—Governo provvisorio in molte città dell’isola.

Il dì undici Maggio due Piroscafi di armati, deludendo la vigilanza dei legni da guerra napolitani, navigavano per Marsala. Le navi Reali il Capri e lo Stromboli, scopertili sul tardi, l'incalzarono con le loro artiglierie fino al lido di quella città (18). Ma si sospesero le offese, perché si amava di consentire alla volontà degl’Inglesi ch’erano in due navi in quelle acque, i quali allegavano essere nel paese alcuni loro uffiziali e marinari. Più tardi, cessata la cagione dello impedimento; fu continuato lo sparo, ma inutilmente, perché Garibaldi con mille dei suoi, giovandosi di questo intervallo ad arte procuratogli da quei stranieri e consentito dagli stessi uffiziali della marineria napolitana, che in gran parie già aveva simpatia con la rivoluzione, erano sbarcati nell'isola con artiglieria e munizioni.

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Garibaldi traversò campagne e paesi non senza trepidazione, che sapeva troppo avventata impresa essere la sua, con i mezzi dei quali poteva allora far uso. Ma non mancarono proseliti e pervenuto a Misilmeri il 14 Maggio, assunse la dittatura in nome di Vittorio Emmanuele Re d'Italia.

Volontari da più parti dell’isola corsero ad accrescere le fila della insurrezione e le varie bande che tenevano la campagna operarono in maniera di unirsi a Garibaldi.

Le Regie milizie, ferme nello adempimento del proprio dovere, si preparavano alla lotta, che doveva decidere delle sorti del paese. Esse, senza indagare lo scopo della guerra, erano decise a sostenere innanzi tutto l’onore delle armi con valore e fede. Il soldato delle armate regolari reclutato dalla legge, pagato dallo stato, ha come assioma che la salvezza della patria è in quella del potere che la governa e che difendendone il vessillo, difende il paese. Ed i soldati napolitani erano a fronte del nemico per non ismentire la loro fama e quella rinomanza antica, fatta più splendida nelle dolorose vicende del 1848. Arroge, che chiamati ad osteggiare novellamente la insurrezione, avevano questa fiata ammaestramento ed esperienza del passato. Essi sapevano che un' evento sfavorevole, avrebbe tolto al Reame la Sicilia ed umiliato l'Esercito, sì che erano determinati a vincere o morire. Era questo lo spirito delle Regie truppe; un felice risultamento dipendeva solamente dalla perizia, dal valore e dalla fede dei generali. Ma questa volta sventuratamente i soldati napolitani erano comandati da Duci, che non avevano deliberata volontà di vincere.

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Appena divulgata la nuova dello sbarco dì Garibaldi in Marcala, i furon tumulti in molti paesi delle provincie di Palermo, di Trapani, di Girgenti,. di Messina, di Catania e di Noto. Ma ovunque furono repressi dalle truppe Reali, che combattendo, vinsero la ribellione suscitata e sorretta dal Piemonte.

Il Luogotenente fece proclamare novellamente lo stato di assedio nella provincia di Palermo; aggiunse nuove truppe alla colonna del generale Landi, cui impose di guerreggiar contro Garibaldi e comandò che colonne mobili di truppe perlustrassero i dintorni di Palermo.

Accaniti combattimenti ebbero luogo il 15 Maggio 1860 oltre Calatafimi tra le Regie truppe comandate dal generale Landi, e le masse di Garibaldi.

Di valore inimitabile, di animo maggior del cimento a fronte del nemico, si rendettero chiare le milizie Reali nella breve ma sanguinosa lotta che sostennero. E conviene por mente, che il soldato che combatte la rivoluzione é la vera vittima del sacrificio, avvegnaché tutto gli cospira intorno per abbatterlo, la forza materiale, l'odio dei rivoltosi, la terra stessa che calpesta. La giornata si decise in favore degli insorti, che si componevano di garibaldini ed indigeni insulari: tristo effetto che condannerà sempre il generale Landi, già giudicato dalla pubblica opinione. Da lui solo dipendeva salvare il Reame dalla crisi politica di cui era minacciato, ma Egli non volle, o non seppe far tesoro delle favorevoli condizioni in cui si trovava. Imperoché, mentre da un canto mise in combattimento poche forze del valoroso ottavo battaglione dei cacciatori, tenendo altre truppe inoperose, dall’altro non sapremmo dire perché non occupò il fortissimo castello che domina la via di Calatafimi, per la quale doveva passare l'avversario.

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E questi due errori furono la cagione dello sfavorevole esito del combattimento; dappoiché resero la soldatesca che combatteva inferiore per numero al nemico e tolsero ad essa il vantaggio d’una importante posizione, mentre si poteva agevolmente circuirlo e vincerlo nelle prime sue mosse.

Chiunque conosce la figura del terreno che fu campo di quella pugna, sappia o nò l'arte della guerra, non potrà non censurare quel capitano, che invece di mostrare perizia e virtù di soldato, si bruttò della taccia di codardia, o come alcuni pretendono di venale fellonia. Landi nel ritirarsi, invece di camminar la bella via che mena a Trapani, si ridusse in Calatafimi, ove ostentando mancanza di mezzi, insufficienza di numero di soldatesche e lamentandosi di questa posizione ch'Egli stesso aveva trascelta a fronte dell'oste nemica, domandava istruzioni al Luogotenente del Re e protestava per ottenere numerosi rinforzi; come se si avesse dovuto trionfare d’un agguerrito e poderoso esercito, non già d'isconflggere una mano di audaci, quantunque fossero potentemente aiutati da governi.

Ma ricevuto l'improvvido ordine di ritornare a Palermo, si ritirò per la via di Partinico, di che maravigliavasi lo stesso avversario, il quale ne lasciò scritto per le stampe. «Così un corpo numeroso, disciplinato ed agguerrito, fuggiva innanzi ad un pugno di gente, abbandonando una posizione pressoché invincibile.» Ed in altro luogo «Salivamo per la strada che mena a Calatafimi guardando stupiti il castello Cortissimo per la sua posizione, stupiti come le truppe Regie non avessero pensato a stanziarvisi, per impedire almeno su quella via la nostra marcia alla volta della capitale.

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Intanto Garibaldi che si ebbe un trionfo perché non si volle contrastargli il passo, mentre ne faceva correre i lieti annunzi nella Sicilia ed altrove, non seppe negare ai soldati napolitani il merito del valore che nei campi è virtù cavalleresca. Egli sapeva che onora più un condottiero il trionfar d'un nemico valoroso, essendo vero che la lode del vincitore si misura dalla qualità dei vinti. Però così scrisse il 17 Maggio da Alcamo «I napolitani si battono da leoni e certamente non ho avuto in Italia combattimento così accanito, né avversari così prodi. Questi soldati ben diretti, pugneranno come i primi soldati del Mondo» E quel condottiero così e non altrimenti doveva giudicare, perché vid’Egli stesso un prode soldato napolitano cacciarsi animoso ove più ferveva la pugna, ferire colui che portava la bandiera della insurrezione e strappargliela, e vide ancora chi esaurito il piombo si batteva disperatamente lanciando sassi.

Dell’ultimo di questi fatti fu testimonio Egli proprio il Garibaldi. E meglio delle nostre parole varranno a confermarlo quelle dei suoi combattenti, i quali scrivevano — «I Regi messi in rotta si ritiravano confusi, lasciando sei prigionieri nella fuga; però non cessavano dal molestarci con ogni mezzo. Si posero a scagliar sassi sopra di noi e colpirono il generale; il colpo fu così forte che cadde. Coloro che lo videro giacere a terra furono atterriti, credendo che fosse ferito, ma ben tosto Egli sorse e narrò l'accaduto».

Dopo i fatti di Calatafimi, egli era facile immaginare quali si fossero le novelle mosse del Dittatore. Guadagnata la forza morale che in guerra è arra di vittoria ed avendo Egli oramai bastanti armati per tentare con maggiore audacia la sorte della guerra, facilmente prevedevasi che avrebbe assalito Palermo.

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Questa volta non era Bellisario che doveva conquistarla con tutte le sue forze di terra e di mare; non si trattava già di scacciarne i barbari come al sesto secolo di nostra Era, né di vincere i Saraceni e gli Emeri che la occuparono dopo la decadenza del romano impero; ma sì di abbattere il potere Reale che vi governava da più d'un secolo e crearne un altro. La città dei vespri non era più per la dinastia dei Borboni la terra di asilo dei suoi Signori. I liberali, con vaghe promesse d'indipendenza, avevano cangiato lo spirito di quelle popolazioni, le quali, tratte in inganno, disamavano chi li governava e ribellandosi proposero di liberarsene.

Intanto il Re lamentavasi col principe di Castelcicala della inerzia delle milizie e comandava che si operasse in maniera da circuire Garibaldi, opprimerlo col valore e col numero dei combattenti e spegnere la rivoluzione nel suo nascimento. Né Egli credendo che bastasse a ciò fare il solo comando; spediva eziandio nell'isola quattro scelti battaglioni di fanti ed una batteria, condotti dal colonnello Bonanno, affinché crescessero la soldatesca che già vi era. Ma il luogotenente, mentre faceva occupare talune posizioni militari fuori della città e ordinava che alcune colonne di truppe percorressero i dintorni per sapere ogni cosa del nemico e poi venire con lui a battaglia, scriveva al Re; un consiglio di generali aver deliberato di tener concentrate le truppe in Palermo e nelle vicinanze, ove la pugna sarebbe stata in breve calorosa e decisiva ed essersi murate quelle porte della città che non avrebbero impedito alle milizie di operare. E queste cose dicendo, pregava da ultimo il Monarca, che lo disgravasse dell'ufficio, il quale gli rassegnava.

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Il Re saputo tuttociò divisò andare Egli proprio a combattere per la indipendenza della patria, ma il ministero ne lo distolse. Ond'Egli deliberò di far partire in sua vece il general Filangieri Principe di Satriano con pieni poteri. E fattolo a se venire, con calde e lusinghieri parole, lo pregò di accettare l'incarico. Ed a lode del vecchio generale Raffaele Carrascosa è debito di giustizia registrare, che veggendo titubare il Satriano, manifestò che partirebbe con lui per essergli dappresso.

Nondimeno il Filangieri, allegando essere la sua salute cagionevole, non accettò l’ufficio; propose che si desse al generale Lanza e scrisse un disegno di guerra, contrario alla opinione portata dai generali in Palermo.

Esso disegno consisteva in abbandonare Palermo e condurre la soldatesca nella centrale provincia di Caltanissetta, affinché le milizie dopo di aver sottomesse le intere provincie di Noto, Catania, Messina e Caltanissetta, marciassero contro la metropoli dell'isola (19).

Palermo che conta meglio che 161551 abitanti, ricorda un'origine assai remota. Essa esisteva molto prima che l'isola venisse occupata dai Fenici e fu capitale dei Cartaginesi fino a che non furono disfatti da Metello 500 anni dopo la fondazione di Roma. Roberto e Ruggiero Normanni espulsi da Sicilia i Saraceni, dichiararono Palermo seconda capitale della Monarchia delle Sicilie. Questa bella e deliziosa città. una delle più popolose in Italia  ha un recinto di poco più che quattro miglia e confina col mare. È difesa da cinte fortificate e fra le opere di sistema permanente sono da notarsi Castellammare e Castelmolo. Vi si entra per quindici porte, delle quali quattro sono le principali, cioè Porta nuova, Porta felice. Porta macqueda e Porta vicaria o S. Antonino.

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Vi sono le strade Toledo e Macqueda, le quali bastantemente larghe ed a rettifilo, s'intersecano tra loro ad angoli retti, tagliando la città ciascuna di essa per un miglio. Le fontane vi abbondano e comunicano per gli usi privati con le abitazioni. Vi sono due porti che meritano di essere notati. Era presso noi residenza di un viceré o luogotenente per lo governo autonomo dell'isola, che dipendeva da quello della capitale del Regno, ch'era Napoli.

Descritte queste cose, le quali appresso varranno a far meglio intendere i fatti che poco poi avvennero nella città, diciamo, che vi hanno casi in cui i duci supremi delle armate, mentre stanno nell'orbita militare, entrano ancora in quella degli affari civili. E quando il maneggio di questi si congiunge a quello della spada. Eglino primamente hanno il debito di bene ed attentamente interpetrare i voti dei popoli e sottoporli alla Regia potestà e poi negli estremi casi compiere con onore i doveri del soldato.

Or dopo quello che si era fatto di bene o di male dagli altri generali, dal primo giorno della rivoluzione fino al tempo ch'essa era giunta innanzi le mura di Palermo, fu inviato in quella città con alti poteri il tenente generale Ferdinando Lanza Brolo, i cui passati servigi potevano allora guarentire la fiducia che il governo riponeva in lui. Egli aveva il Real mandato di ripristinare l'ordine pubblico, anche con la forza se ve ne fosse stato mestieri, animare i buoni, tutelare le persone e le proprietà, investito della dignità di luogotenente generale del Re e commessane straordinario: dignità che riserbavasi in tempi migliori ad un Principe Reale. Lanza esordì le novelle funzioni il 18 Maggio col proclama che registriamo.

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Sicilianil'

«Mettendo il piede sulla mia terra natale, il mio cuore più che di letizia fu colmato di cordoglio, vedendo la città di Palermo ridotta allo squallore, dalle dolorose condizioni che di presente la premono e la incalzano. Pure mi torna consolatore il pensiero di essere stato qua spedito dall’Augusto Monarca qual suo commessario straordinario con le facoltà dell’alterego per la completa pacificazione dell’isola.

Ottenuto questo risultamento, un Principe della Real famiglia già scelto per luogotenente generale di S. M. verrà tra voi. Esso verrà con la missione di compiere tutto ciò che può tornare a vostro maggior bene. Verrà con pieni poteri per amministrare, per provvedere alla esecuzione delle strade, delle ferrovie e di altre pubbliche opere. Verrà per dare il più ampio sviluppo alle vostre risorse, alle vostre industrie, per dotare il paese di mezzi indicati dall'esperienza, come i più propri al progresso della nostra prosperità.

Se il nostro buon Re, fosse stato men sollecito dei vostri mali, forte della giustizia della sua causa, attenderebbe dal tempo la riconoscenza dei suoi diritti inviolabili. Ma fermo e costante nella volontà di fare tuttociò ch'è possibile pel vostro miglioramento morale e materiale, non disconosce, che in queste urgenti circostanze suo primo dovere è quello di proteggere la vostra sicurezza, minacciata in tante maniere negli scomposti tempi che corrono.

Accettando l'alto mandato che mi è confidato, io ho obbedito alla mia coscienza; ma eseguendo gli ordini del Re, ho altresì ceduto ai sentimenti del mio cuore, che vorrebbe risparmiare alla nostra comune patria quei mali, di cui nessuno può prevedere la durata e la misura.

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Considerate bene ciò che potete aspettarvi dallo avvenire. Quali destini vi offrono gl’invidiosi della nostra prosperità sempre crescente? Qual garentia voi avete dei beni di cui diconsi apportatori? Prendete consiglio dalla esperienza; sollevatevi all’altezza della posizione attuale per salvar voi medesimi. Ora che sono in fermento tutte le cupide passioni, voi ignorate» di quali di esse sarete le vittime. Nella tempestosa lotta cui vi sospingono aggressori stranieri, il vostro coraggio civile sostenuto dalle soldatesche Reali può solo salvarvi.

Nel nome Augusto del Re, io accordo un perdono ampio e generoso a tutti coloro, che fuorviati finora, faranno la loro sommessione all’autorità governativa.»

Il Commessane straordinario

con le facoltà dell'Alter-Ego

FERDINANDA LANZA.

Le promesse del luogotenente non furono accolte dai siciliani. Essi vollero darsi ragioni del rifiuto, allegando gli errori del governo degli ultimi dodici anni e le angarie della polizia. Lanza, nativo siciliano, fu fatto segno alle più acri rampogne dei suoi concittadini.

Pertanto Egli, spregiando i consigli che il Re mandavagli pel generale Nunziante, affinché guerreggiasse guerra offensiva contro Garibaldi, avvisò di prepararsi alla sola difesa. Perché riunì tutta la milizia entro Palermo: fece occupare soltanto i Quattroventi, il palazzo Reale, quello delle Finanze, Castellammare e Monreale; comandò che le truppe del maresciallo Gaetano Afanderivera, che stavano tra Girgenti e Caltanissetta, campeggiassero verso Catania; ordinò a questo ed al generale Clary,

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che comandava le soldatesche in Catania, di riparare in Messina in qualunque evento e scrisse al Re rapporti disanimanti, conchiudendo, che in caso sinistro abbandonerebbe Palermo per ritirarsi in Messina.

Il Re di ciò maravigliato, incitavate di nuovo alle offese e mandavagli ogni sorta di vettovaglie, affinché niuna cosa mancassegli.

Le insistenze del Re furono sì gagliarde che parve avessero scossa per poco la vituperevole inazione del luogotenente.

Difatti il 21 Maggio fu mandato il colonnello Won Mechel con una colonna di truppe in Monreale, per combattere Garibaldi ch'erasi fatto vedere in quelle vicinanze. La soldatesca del Won Mechel operò una ricognizione nei dintorni di quel paese e scontratosi con la banda di Rosolino Pilo ebbe a guerreggiar con essa. La zuffa fu sopra ogni dire calorosa e le milizie Reali tornarono vittoriose in Palermo, dopo aver ucciso il capobanda Pilo e fugata la gente di lui.

Due giorni dopo il Won Mechel con la stessa colonna composta di quattro battaglioni, quattro cannoni e due squadroni di cavalleria, ebbe il mandato di scacciar Garibaldi da Parco (20) e per effettuirlo si mandò altra piccola brigata, comandata dal generale Colonna per diversa via (21).

Il dì 24 in che si era su le mosse d'incominciar la pugna, Garibaldi si ritirò, dopo qualche scaramuccia, alla piana dei Greci ed i Regi serenarono a Parco e su lo alture circostanti.

Il 25 le truppe del Colonna furono richiamate in Palermo e Won Mechel, disobbedendo gli ordini avutici esser circospetto su i movimenti del nemico e spregiando il consiglio di Bosco,

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che vedeva nella ritirata di Garibaldi uno stratagemma di guerra, si mise sconsigliatamente ad inseguir l'inimico per la via di Corleone.

Ma Garibaldi aveva ingannato le milizie Reali; Egli avendo incaricato l'Orsini di comandare in sua vece, con la più valida gente, fattosi strada tra sentieri difficili, volse a Misilmeri. Quivi ragunati altri faziosi, che stavano col La Masa sulla montagna di Gibilrosso, determinò attuare l’ardito disegno di giungere d'improvviso a Palermo, cacciarvisi entro, suscitarvi la ribellione e col ferro e col fuoco insignorirsene.

Intanto la colonna del Won Mechel disfatta la banda Orsini a Corleone, facevasi con censurabile lentezza a rintracciar Garibaldi, ch'eragli sguizzato di mano.

Non mancarono al luogotenente avvisi di gente proba su i veri disegni di Garibaldi, furono nunzi d'ogni classe, che svelarono la trama ordita contro i Regi ed il prossimo tumultuare della città. Ma il Lanza si stette inerte a tali assicurante; non provvide a nulla; non occupò quella parte della città che restava aperta allo aggressore; non rafforzò di milizie le porte ed il palazzo delle Finanze ed aspettò che il sollevamento della città fosse avvenuto.

Il 27 Maggio le falangi del Nizzardo di oltre quattromila combattenti, attaccarono pugna con i posti avanzati Regi al ponte dell'ammiragliato ed a quello detto delle Teste presso porta di Termini. La quale era guardata da poca milizia, che teneva una compagnia col capitano Giuseppe Follo ai ponti suddetti.

Il capitano Follo resistette all’urto nemico; ma soperchiato dal numero, combattendo piegò, come suoi farsi, verso la città. Presso la porta il combattimento si fece più vivo e sanguinoso.

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I pochi difensori mostrareno valore inenarrabile; pugnarono uno contro dieci e fecero argine al torrente d’armati che assaliva. Ma stremati di forze, non soccorsi da palazzo Reale e consumate le munizioni, cedettero il luogo alla massa irrompente. Garibaldi entrò nella città, che insorta scagliossi contro i Regi; mentre dalla parte di porta S. Antonino e della flòra, Turr con altra gente garibaldina, veniva per corroborare la ribellione.

Il Generale Bartolo Marra, che comandava tutti i posti avanzati della parte meridionale di Palermo e che trovavasi a porta S. Antonino, andando innanzi con un battaglione e poca artiglieria, diretta dal capitano Ludovico de Sauget, cercò di offendere i nemici con ispari di sbieco. Queste offese sebbene efficaci, pure non arrestarono gli assalitori, i quali andando rapidamente di casa in casa, guadagnarono parte della città.

Al tumultuare della popolazione fu lotta formidabile e le Regie truppe vennero offese dappertutto. Si combattette al bastione Montalto, alla strada Toledo, al rione Ballerò, al Duomo, alla Badia dei sette angeli, alla Badia nuova, ai palazzi Carini e Cattolica, a Porta macqueda, al giardino inglese, a S. Francesco di Paola, alla villa Filippina, nei conventi dell’Annunziata e dei Renedettini e nel quartiere S. Giacomo. Le offese partivano dall’interno degli edifici contro la soldatesca, la quale offrendo il petto ai celati offensori, resistette a si gagliarda tenzone. Palermo divenuta centro di accaniti combattimenti, fu per ben tre giorni spettacolo di orrore e di spavento.

Il forte Castellammare. per ordine ricevuto, fece tuonare le sue artiglierie e lento bombardamento travagliò i sollevati cittadini. Ma il generale Lanza, invece di assalire con tutte le sue forze Garibaldi,

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per respingerlo fuori della città, o concentrare le sue milizie ai Quattro venti, fecele con poco senno ragunare al largo della Reggia ed al piano di S. Teresa.

Due navi da guerra dalla rada, scagliaron colpi con le loro artiglierie contro la città e segnatamente contro al palazzo pretorio, ov'era Garibaldi.

Le truppe del colonnello Bonanno, rimaste in Monreale, non potendo reggere contro le soperchianti masse che assalirono quel paese, ebbero l'insano ordine di tornare in Palermo.

Il generale Cataldo, che con una brigata di truppe guardava la posizione dei Quattro venti, venne con malaccorto comando richiamato a palazzo Reale ed i Regi perdettero così anche le utili comunicazioni col forte Castellammare. Appena le milizie abbandonarono i Quattro venti, tutt'i condannati ai ferri e tutti i carcerati della Vicaria, ch'erano ben duemila, aprirono le prigioni e corsero ad offerire i loro servigi a Garibaldi. Il quale s'impadronì dei quattro cannoni rimasti dal Cataldo nelle caserme delle lasciate carceri.

Finalmente il lungo ed accanito combattere; la mancanza del sonno e del nutrimento, eran cose 'da non sostenersi lungamente da ambe le parti: si aveva bisogno d’una tregua e questa che dall’inimico doveva chiedersi, pur nel 30 maggio la domandò follemente il generale Lanza, al quale fu consentita per 24 ore, onde dar tempo al seppellimento dei morti e partenza dei feriti.

In questi momenti di calma e mentre si apparecchiava ogni cosa per attaccare la pugna, appena cesserebbe la tregua, arrivarono in Palermo il primo e secondo battaglione leggiero comandati dal maggiore Migy ed il colonnello Buonopane.

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Questi giunto a Palazzo Reale, dissuase il luogotenente dal pensiero di ricominciar le offese e si offri di andare insieme al generale Letizia a trattare con Garibaldi il prolungamento della tregua per altri tre giorni, onde aver tempo di ragguagliare il Re d'ogni cosa.

Il generale Lanza dapprima rigettò il consiglio del Buonopane; ma poco poi plaudendolo, lo attuò e fermò una convenzione con l'astuto avversario. (22)

Bisogna por mente, che mentre si facevano le trattative per l'armistizio di 24 ore, arrivava in Palermo per porta di Termini la colonna di truppe comandata dal colonnello Won-Mechel. Il quale, ignorando quanto era per stabilirsi e credendo durare le ostilità, entrovvi con impeto eguale all'ardore di che avvampava. Egli disperse in breve otto barricate costrutte dal nemico e sì strenuamente combattette che i garibaldeschi cedettero sgominati il terreno lino alla Fieravecchia.

Il luogotenente del Re, anziché trarre partito da questo inaspettato incidente, mandò messaggi al colonnello Won-Mechel con l'ordine di arrestarsi, di cessare dal combattere e fortificarsi alla Fieravecchia, ov'era già per opera delle armi pervenuto.

In questo tempo il colonnello Buonopane ed il Brigadiere Letizia, mossi da Palermo per ragguagliare il Sovrano dello stato delle cose nell'isola, esagerando la forza ed i mezzi della rivoluzione, affermavano essere fa resistenza difficile e però facile la vittoria di Garibaldi.

Laonde il Re, stimando esser cosa più decorosa per le milizie di abbandonare Palermo prima d'esser vinte, rimandò nell'isola i sudetti Letizia e Buonopane e scrisse al generale Lanza, che poteva, ove credesse, trattare con la insurrezione la cessione di Palermo, salvando tutto il materiale da guerra.

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E nuovi patti furono sta

La rivoluzione avendo incominciato le sue opere nella capitale della Sicilia, fu assai bene accorta e fece cosa a se propizia; conciossiaché quando i movimenti rivoltosi partono dal centro di una regione, è ben facile ch'essi si distendano rapidamente nelle parti circostanti,

Palermo aveva una guarnigione di 24 mila uomini; valorosa e fedele era la truppa ed alcuni generali non mancavano di perizia e di scienza per vincere le guerre della insurrezione: qualità guarentite dalla opinione che godevano. Non bisognava altro per ottenere un esito felice, che in essi fosse buon volere, tenerezza dell’onor militare, fedeltà nello adempimento dei propri doveri. Aggiungi, che il governo fece ogni opera perché fossero invogliati di combattere con isperanza di buon successo, fino a spedire più volte messaggi portatori d'istruzioni e d'incitamenti al luogotenente del Re.

Fu anche inviato da Napoli il maresciallo di campo Pasquale Marra per sostituire l'altro Salzano nel comando delle armi nella provincia e piazza di Palermo. Ma al luogotenente quest'ordine non piacque, non lo fece eseguire e ne scrisse al Re. Ed il maresciallo Marra, uomo di severa probità, che avevasi nome di buon soldato e d'intelligente generale, si contentò che fosse tenuto più giorni inerte e senz'alcun'oficio nel palazzo Reale. Poscia avuto il comando di tutte le soldatesche, nel tempo della sospension d’arme, non fece opera per iscuotere il luogotenente dalla ignavia in ch'era caduto; non lo consigliò a combattere anche quando il governo, falsamente informato delle condizioni delle sue truppe, consentiva che si pattuisse l'abbandono di Palermo: insomma Ei perdette il suo consueto

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Le iterate tregue furono severamente censurate, come quelle le quali cagionarono la cessione di Palermo al dominio della rivoluzione, che umiliò un possente corpo di esercito, degnissimo al certo di miglior fortuna.

Di qui senza dubbio derivarono, lo scuoramento in che caddero i soldati; la diffidenza che in essi ogni di cresceva verso i generali ed altri comandanti; i sospetti di essere traditi dai loro duci. Delle quali cose bene si avvaleva la rivoluzione, la quale veggendo lo stato in ch'era lo esercito, si confidava di poter facilmente riportare nuovi e tali trionfi, da compiere il suo disegno.

Gli sforzi di soldati capaci delle più ardue imprese, restar dovevano dunque inefficaci a causa d'improvvido comando! Il loro valore doveva ancora parere sopito per colpa di coloro, ai quali correva l'obbligo di suscitarlo e così meritare il plauso dello universale e quell'aureola di gloria militare che non si perde mail'

Pure la costanza dei soldati non vacillò, anzi fu stimolata a prove maggiori, ché oramai l'ardore e l'entusiasmo crebbero in ogni combattente, istigato dal dovere e dall'amor proprio offeso. E ciò ch'essi operarono appresso, ne fu certamente solenne testimonianza.

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Al cattivo ed imprevisto esito della missione affidata al generale Lanza, tenne dietro la sollevazione di molte città e paesi dell'isola, che tumultuando, fecero governo provvisorio.

CAPITOLO VIII.

Sollevamento della città di Catania e vittoria riportata dalle truppe Reali — Le milizie abbandonano Catania — Al generale Russo è tolto il comando della provincia di Messina e gli succede Gaetano Afanderivera—Il generale Clary forma il disegno di riconquistare Catania e poi Palermo ed è innalzato a duce di tutte le milizie della provincia di Messina — Il generale Alessandro Nunziante accetta il mandato di sottomettere la Sicilia.

Catania era rimasta cheta per gratitudine degli speciali benefici ricevuti, ma non era scevra di mene rivoluzionarie. Sciolta la guardia urbana dalle autorità governative sotto sembianza di economia, non rimanevano a tutela dell'ordine interno che poche milizie Reali, comandate dal generale

Il Re mandò rinforzi in Catania ed in Messina il 24 Maggio e comandò al Clary, di fare che le truppe, in caso di conflitto, vincessero la rivoluzione.

Il maresciallo Gaetano Afanderivera che aveva avuto ordine di piegare verso Catania, da Girgenti e Caltanissetta, stavasi accampato al di là del Simeto a vista della città.

Intanto bande di faziosi scorrevano la campagna; impunemente taglieggiavano dappertutto e giunsero a tale audacia da stabilire il loro quartier generale a Mascalucia, distante poche miglia da Catania ed intercettare tutte quante le comunicazioni, tranne quella con Messina.

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Incominciò una lotta sanguinosa: ma il generale Clary che non voleva patire l'onta di farsi soperchiare da masse, sebbene numerose e feroci, forti anche di artiglierie, respinse veementemente gl'insorti ed in poco d’ora li mise in fuga (24). La cavalleria li perseguitò; tolse loro le artiglierie e sì potentemente operò; che gli assalitori, disordinati, fuggirono disperatamente e la città tornò in perfetta calma.

L'ordine ristabilito del tutto in Catania, fece sgomberare dai faziosi i paesi circostanti e molte deputazioni vennero in città a protestare lor fede.

L'Afanderivera si stette inoperoso nel suo campo, durante questo combattimento; a notte avanzata poi entrò nella città ed il mattino seguente volse a Messina coi suoi.

Il Re saputa questa vittoria riportata in Catania, mandò gratulazioni al Clary e fregiò di particolare medaglia le milizie che avevano guerreggiato. (25)

Poco stante, per mandato ricevuto, il generale Rodrigo Afanderivera ed il colonnello Sponzilli del genio fecero una ispezione nelle piazze dell'isola ancora occupate dalle milizie Reali. E perché tanto in esse piazze, quanto in altri luoghi dell'isola si richiedevano aiuti di soldatesca dal continente non se ne potevano ricevere, Eglino dettero al Clary l'ordine di piegare a Messina, abbandonando del tutto la settomessa città. (26)

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Partite le Regie truppe, le bande rivoluzionarie ch'erano state vinte poco innanzi, occuparono Catania e vi fermarono il governo dittatoriale.

La Provincia di Messina non era immune dal pensiero di ribellione, ma la città memore delle vicende del 1848 non ardiva levarsi a forti tumulti.

Nella cittadella erasi cumulato gran numero di soldatesca; molta v'era ita da Palermo, da Trapani, da Termini, da Caltanissetta e da Catania, sì che forte poteva dirsene il presidio.

A 15 Giugno il maresciallo Russo che reggeva la provincia fu richiamato in Napoli; rimase in sua vece Gaetano Afanderivera e fu dato al Clary, allora innalzato al grado di maresciallo, il comando della milizia che costituiva una divisione.

Questi pensò di subblimar se stesso; concepì il disegno di riconquistare Catania e poscia la perduta Palermo ed il restante dell’isola; lo sottopose di persona all’approvazione Sovrana; vi ebbe plauso e fu rimandato in Messina con la facoltà di operare qual duce supremo di tutto, venendo però rimosso l'Afanderivera dalla potestà che esercitava nella provincia (27).

Il Clary dettesi a riordinar la soldatesca, ad armare squadriglie e prepararsi alla nobile impresa. Ogni di pareva volesse lanciarsi a sorprendere Catania per poi correre difilato in Palermo; ma scemava di giorno in giorno il suo genio militare, la sua volonterosità, il suo ardore, sì che se ne stette molto tempo senza far nulla: di che giovavasi Garibaldi per fermare il governo che Egli aveva proclamato, per mandare il La Masa ed altri tali a propagare la ribellione nelle provincie e nei paesi non ancora insorti e per crescere ed organare i suoi armati, coi reggimenti di truppe che il governo Sardo

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Il Re visto l'indugiare del Clary, comprese bene che il riacquisto di Palermo non avrebbe avuto effetto. Ed affinché fosse avvenuto e pensando a salvare più che se stesso e la sua dinastia, l'autonomia del Regno, si volse al generale Alessandro Nunziante, come quegli che credeva più acconcio allo scopo e più opportuno a ridestare nell'esercito l'addormentata fiducia nei capi.

Costui accettò il mandato di sottomettere la Sicilia; ne scrisse il disegno; preparò un possente corpo di esercito in Napoli ed altrove, composto delle più scelte milizie e si provvide di navi, di trasporti, di munizioni, di cibarie, di ambulanze e di ogni altra cosa che credeva potesse bisognargli. Diceva esser presto ad operare sbarchi per costringere Palermo a cedere; ma anch'Egli ogni dì differiva la partenza, ora con un pretesto, ora con un altro (28). La vera cagione del suo indugiare, la vedemmo poi nelle sue opere a prò della rivoluzione e l’abbiamo letto non ha guari nel diario del Persano.

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CAPITOLO IX.

Brenier ambasciatore francese stimola il Re a promulgare ordini rappresentativi nel Regno — Infelice esito della missione che Giacomo de Martino adempì presso l’Imperatore ilei francesi — Decreto di costituzione del 25 Giugno 1860 — Ministero Spinelli — Liborio Romano Prefetto di polizia aringa i cittadini — Stato di assedio in Napoli — Lo statuto del 10 febbraro 1848 è richiamato in vigore — Liborio Romano rassicura i napolitani che il novello regime sarebbesi mantenuto—Plenipotenziari mandati dal governo a trattar la lega col Piemonte — Le forme costituzionali non riescono gradite a chicchessia—Crudo scempio degli oficiali della polizia — Napoli liberata dallo stato di assedio — Clary dimanda di esser disciolto dal carico di riconquistar Catania e Nunziante chiede di essere dimesso dal suo grado — Il generale d'Ischitella è eletto a comandare la guardia nazionale — Il generale Viglia è fatto comandante della piazza di Napoli — Il generale Pianell e Liborio Romano sono nominati ministri, l’uno della guerra, l'altro dell'interno — Tentativo di reazione fatto dai soldati della guardia Reale — Apprensioni del ministero— Lealtà del Monarca verso le concedute instituzioni — La guardia nazionale cerea d'indurre i soldati a spergiurare— Nunziante novellamente addimanda d'essere dimesso dal suo grado, sua partenza e suoi saluti alle truppe.

Stavano così le cose, quando a dissolvere più la macchina governativa. Francia consigliava concessioni liberali.

Il Re stimolato da Brénier ambasciatore Francese a promulgare la costituzione, tenne consiglio. Ma le svariate opinioni del ministero e dei generali che stimava più fidi ed adatti a consigliare in difficili tempi, lo fecero decidere a scrivere di suo pugno allo Imperatore,

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Latore di questo foglio fu Giacomo de Martino chiamato a bella posta da Roma, ov'esercitava le funzioni di rappresentante del Reame delle Sicilie,

La missione del de Martino, ebbe esito infelice; Napoleone III dichiarò di non poter guarentire cosa alcuna e solo prometteva favorevoli offici; l'Inghilterra d'altro canto non era larga di più valido appoggio.

Intanto la pressione che faceva il Brénier sull’animo del Sovrano, per indurlo a concedere la costituzione, cresceva ogni dì ed il Monarca tentenneva, perché svariate erano le opinioni dei ministri e delle stesse persone della Real famiglia.

Alla fine il richiedere del ministro di Francia a 24 Giugno, fu sì vivo e dirò impetuoso, che il Re fu quasi astretto a cedere, protestando, che delle conseguenze d’un atto di sì grave importanza, avrebbe risposto lo stesso Brenier che sforzavalo a cosa così arrischiata.

Il domani 25 Giugno un decreto Reale, concedette ordini rappresentativi nel Regno, in attenenza ai principi italiani e nazionali e dette ampia amnistia pei reati politici (29).

A 27 Giugno fu nominato il ministero composto dallo Spinelli (30) e venne chiamato a prefetto di polizia l'avvocato Liborio Romano, che fu il più saldo propugnacolo della rivoluzione.

Egli esordì il difficile mandato in questa forma.

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PREFETTURA DI POLIZIA

Cittadinil'

» Nella pienezza degli affetti in me destati per l'alta e difficile missione a cui l'augusto Monarca si compiaceva chiamarmi, io espressi come il mio cuore dettava e con la più grande esitazione i sensi che voi leggeste nella mia precedente ordinanza.

Confortato ora dal contegno dignitoso, con che avete tutti corrisposto alle mie esortazioni, debbo rendervene le più distinte grazie, confidando io interamente che vorrete continuarmi la cooperazione potente della vostra civile temperanza. E perché possa la vostra fiducia nel novello ordine di cose, adagiarsi tranquillamente sulla operosità del governo nell’attuarlo, debbo con letizia aununziarvi, che la costituzione a noi promessa dall'atto Sovrano del 25 di questo mese, sarà quella stessa del 1848 ed a momenti richiamata in vigore. Continuate. cittadini, a giovarmi dell’opera vostra, onde nella calma dei consigli, si attui celeremente l'atto sublime, il quale eleverà a vera grandezza la patria comune, l'augusto Monarca ed il nome napolitano.»

Prefetto

Liborio. Romano.

Intanto la rivoluzione ingrandivasi e diveniva potente di mezzi materiali e morali, ed i ministri poco innanzi arrivati, per dimostrare, che a cagione del lavorio della setta il governo era malsicuro e vacillante, miser Napoli nello stato di assedio.

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Al 1° Luglio il ministero fece rivivere lo statuto del 10 Febbraro 1848 (31) e nello stesso giorno vennero dati gli opportuni decreti (32).

L'armata si ebbe un comandante generale nella persona di S. A. R. il conte di Aquila, Zio del Re, e molte navi lasciarono la Sicilia per ancorarsi a Napoli.

Non era ancor fermata la forma del governo testé largita dal Monarca; la milizia non aveva giurato il nuovo ordine di cose, quando il prefetto di polizia, sognando mene contro il nuovo regime, si fece ad assicurare i cittadini, ch'esso mai non,sarebbe per venir meno (33).

Determinato il governo a trattare un accordo col Re di Sardegna, per conciliare gl’interessi comuni delle due corone, furono deputati due plenipotenziari degni della generale fiducia, (34) per fare una lega, che stabilisse le franchigie nazionali in attenenza dei bisogni d'Italia.

La diplomazia mirava ad arrestare i fatti guerreschi e surrogare alle opere della rivoluzione quelle di un governo, intento a mutare le sorti del paese, procurando i vantaggi dell’autonomia nazionale insieme a quelli della unificazione.

Il Re non poteva fare di più per mostrare ai suoi popoli affetto e lealtà d'animo.

Le novelle forme costituzionali non riuscirono gradite; né agli amanti dell’ordine, i quali veggendo indebolire l’autorità Regia in tempi grossi che vogliono la dittatura, come fecero gli stessi rivoluzionari nella Italia centrale e nella Sicilia ulteriore, credevano, che esse potessero essere arma alla fazione liberalesca di venire in prepotenza: né a quegli stessi liberali, che dominati dal fervore delle passioni, a ben' altra cosa avevano rivolte le loro menti, val dire, all’opera di Garibaldi.

La costituzione non servì ed altro, che per fare che questi sfogassero tutta l'ira loro specialmente in Napoli,

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ove tre giorni dopo che fu pubblicata, per colpevole negligenza, e del generale Giovanni Polizzy che comandava la Provincia e la Piazza e del colonnello Francesco Dupuy che comandava la gendarmeria, furono aggrediti i posti della polizia e col coltello e con le fiamme, si fece crudo scempio degli oficiali di essa (35).

Per tali esorbitanze, rotto il freno delle leggi, come si era uso in casi simili, la libertà cangiossi nella più smodata licenza e le vendette private, furono le solennità onde doveva celebrarsi il novello reggimento politico.

Ed in tanto disordine, il consiglio dei ministri volle la città di Napoli liberata dallo stato di assedio, le autorità militari non si opposero a tale insidioso consiglio ed il comandante della piazza (36) a 2 Luglio ne dette il voluto ed improvvido ordine (37).

Intanto la promulgata costituzione; le trattative per la lega e gli ordini del ministro della guerra, che per non mettere ostacoli al termine di questa seconda cosa, comandava ai generali di non offendere l'inimico. se non quando fossero stati prima da lui offesi, fecero, che apparisse mutato del tutto lo spirito dei belligeranti generali Clary e Nunziante e le loro determinazioni aggressive contro la Sicilia, sembrassero sparite. E ciascheduno di loro incitato dal Re a trovar modo per agire, noi faceva, esagerando le forze di Garibaldi e finalmente il Clary chiese d'essere esentato dall'incarico che si era volontariamente addossato, Nunziante, infingendosi disgustato per essere stato eletto a ministro della guerra il generale Pianell, dimandò d'essere dimesso.

Istituita la guardia nazionale a 13 Luglio (38) n'ebbe il comando il generale Principe d'Ischitella; ma questi venne a 30 agosto discaricato dell’onorevole mandato e surrogato dal generale de Sauget.

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Anche il generale Conte Cutrofiano fu sbalzato dal suo seggio, quando mostrò di volere bene adempiere i propri doveri, ed il comando della piazza di Napoli fu dato al maresciallo Viglia, giovane di alte speranze e fornito d'intelligenza e di sapere maggiore della stima, in che avevalo il governo (38 bis).

A quell'epoca era stato scelto al ministero della guerra il maresciallo Pianell, che nella qualità di comandante territoriale degli Abbruzzi guardava quella frontiera con poderosa milizia. Egli per età era fra i più giovani generali; ed essendo dotato di talenti militari e d indole severa, aveva tale e non ordinarie qualità, che bene potevano far presagire un felice successo nello svolgimento dei fatti che si preparavano.

Egli cominciò a correre l’aringo ministeriale con liberi sensi, che dovevano informar l'animo di chiunque venisse preposto alla cosa pubblica in un regime rappresentativo e ne porse solenni testimonianze con eloquenti manifestazioni all’esercito, intese a suscitare lo amor di patria accanto alle virtù militari (39);

Anche il ministro dell’interno era stato a quel tempo mutato ed era salito a tale posto l'avvocato Liborio Romano, già prefetto di polizia. Egli pure stimò aringare i cittadini, nello assumere il più difficile incarico di quei tempi disastrosi (40).

A 15 Luglio furono immaginati dalla setta nuovi mezzi per operare a danno del giovane Monarca; ed una reazione, fatta iniziare da soldati sedotti da chi cospirava in seno al governo, tendeva ad insinuare timori e malafede verso la politica del Re e muovere il popolo a tumulto. Infatti il consiglio dei ministri ne menò gran rumore, sebbene fosse stata repressa dalle autorità militari, ed insistette presso il Re per una riparazione (40 bis).

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Il Monarca per mostrare ancora più la lealtà del suo animo verso le concedute instituzioni rappresentative, ragunò la milizia nei propri alloggiamenti e l'ammonì. Né di ciò soddisfatto, allontanò da Napoli i corpi della guardia Reale e stimò salutare divisamento promulgare nei cittadini e nei soldati le intenzioni del suo Reale animo (41).

La guardia nazionale fin dal 17 Luglio, che cominciò a prestare il servizio d'ordine pubblico, fu sempre intenta ad adempiere i propri doveri, fino a gareggiare con le truppe nel mandato di quiete del paese (42). Ma essa più che farsi propugnacolo della costituzione, cospirava con la rivoluzione sì che non valevasi di sua influenza, che per fare proseliti e sedurre i soldati a spergiurare.

A conseguir questo scopo di nuova morale, che morale non era, si faceva uso dai novatori di qualsivoglia mezzo: solita teoria dei tempi di turbolenze, quando il fanatismo delle menti esaltate prende il luogo della moderazione, che fecondatrice di saggi consigli è elemento precipuo del vero amor patrio.

Il soldato costante nella sua fede era esposto ad ogni sorta di oltraggi; né era titolo ingiurioso che non gli si desse da chiassatori da strada e da caffè: non estranea merce, con la quale il nostro paese, a prova di civiltà, ha cercato sempre di fondere le opinioni, ravvicinare i partiti, affratellarli.

Era ancora il 17 Luglio, quando il maresciallo Nunziante addimandò di nuovo di essere dimesso. E perché lo si poneva al riposo con la facoltà di potersi recare all’estero, Egli replicando l'inchiesta il giorno 22 vi aggiunse la minaccia, che protesterebbe su i giornali in caso di negazione. Disciolto dai legami militari ed in

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Anche alla moglie di lui piacque svestirsi dell'onore di dama di corte e restituì la nomina che si ebbe.

Né contento di ciò il Nunziante, pensò indirigere un addio in istampa alle milizie leggiere ch'Egli aveva capitanate nel napolitano.

Ma le sue parole furono da queste ricevute col più gran disprezzo e quei saluti calpestati (43).

CAPITOLO X.

Amilcare Anguissola capitano di fregata diserta Ja propria armata o si da al nemico. I napolitani in Barcellona aumentano le loro forze — Combattimento tra garibaldini e napolitani in Milazzo — Blocco del castello di Milazzo — Le trattative della lega coi subalpini vanno a rilento — Re Francesco avvisa di venire a nimistà col Piemonte e mandar nuove truppe contro Garibaldi — Il comandante generale dell’armata dice di non aver navi apparecchiate a ciò — Il colonnello Anzani parte da Napoli per trattare la resa del forte di Milazzo — Garibaldi occupa Messina senza far guerra — Convenzione tra il generale Clary ed il garibaldino Medici—Clary minacciato della morte dai suoi soldati domanda di lasciare il comando che aveva— Il generale Pergola è eletto a succedergli.

Dopo i fatti di Palermo, mentre lo spirito dei ribelli era ripieno di speranza pel successo della loro causa: l'esercito, a cagione dell'amor proprio offeso, intendeva alla riscossa.

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Garibaldi non poteva dominare la Sicilia ulteriore in Palermo solamente; abbisognavano nuovi fatti, ché le sorti delle armi pendevano ancora dubbiose innanzi ad apparati formidabili, onde le due parti belligeranti facevano mostra.

Messina presidiata da numerosa guarnigione, sotto gli ordini del generale Clary, preparavasi a contenere l'urto del nemico, già pervenuto a Barcellona.

Scambiavasi la milizia di Milazzo con un battaglione del primo reggimento di fanti, guidato dal colonnello Pironti e la fregata Reale il Veloce, scortava il trasporto che traghettava quella soldatesca. Comandava il Veloce il capitano di fregata Amilcare Anguissola, uomo che la corte a sé reputava fedele. Questi giunto a Milazzo si allontanò di repente, poiché disse alla ciurma ch'era nella nave avere commessione d'alta importanza a compiere, volse a Palermo, disertò la propria armata ed insieme ad essa nave si dette al nemico.

Garibaldi, lieto di vedere attuati tratti della più inaudita prodizione a suo vantaggio, cercò con pomposo discorso di avere a se la ciurma; ma n'ebbe solamente trentotto ed i restanti, che furon ben centoquarantuno, gli fu forza rimandare in Napoli.

La Fregata venne tosto ribattezzata col nome di Tukerv e mandata ad esercitare la turpe arte del pirata. E l'Anguissola disertore, sulla cui fronte già stava incancellabilmente scritta la sua fellonia, mutò con soddisfazione la veste del soldato in quella del corsaro; navigò in quelle acque e predò due vaporetti mercantili il Duca di Calabria e l'Elba, che senza sospetto transitavano, e con essi menò a Palermo buon numero di cittadini e fratelli d'arme, che vi stavano imbarcati.

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Questi vituperi dell'Anguissola, turbarono il riposo di tutta la marineria, che dichiarò con la stampa di avere in abbominio quelle sozzure, e S. A. R. il conte d'Aquila, scrisse al ministro della marina una lettera, ch'è utile sovvenire (44).

Il nemico intanto ingrossava a Barcellona ed i napolitani divisarono occupare con maggiori forze Milazzo, punto intermedio tra le due parti contendenti.

Laonde il mattino del 14 Luglio una colonna retta dal colonnello Bosco, recossi in quelle contrade in attitudine difensiva. Quella colonna componevasi del 1°, 8°, e 9° battaglione dei cacciatori, d'una batteria di obici da 12 centimetri a schiena ed uno squadrone di cacciatori a cavallo: la sola milizia, ch'erasi improvvidamente stimato dover contenere l'impeto dell'avversario.

Il colonnello Bosco giunto in Milazzo, pose campo al piano di S. Papino; occupò i molini sulla via consolare e spedì un battaglione al trivio d'Archi, che poi ritrasse, dopo aver sostenuto due felici avvisaglie col nemico.

Il mattino del 20 Luglio un combattimento di circa ott'ore contro forze cinque volte maggiori, doveva far chiaro chi fosse il soldato napolitano.

Le schiere avverse, scendendo da Merii presso il villaggio S. Pietro, forti di meglio che ottomila uomini, investirono tutta la fronte dei napolitani per tre vie diverse. Era loro intendimento di percuotere con vigoria il centro, sfondarne le ordinanze e combattere di fianco i lati. Il colonnello Bosco, sebbene si avesse saputo da spie il concetto nemico prima che lo si attuasse, pure per salutare antiveggenza era stato obbligato a disseminare le poche truppe che capitanava, per esser sicuro da qualche sbarco che poteva aver luogo a tergo del suo campo, e perché avessero guardato le molte vie, dalle

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Il nemico, sgominato della resistenza che non immaginava incontrare, aumentò in gran numero le sue masse e tornò ad investire i napolitani. Allora crebbe ancora più il calore della pugna; ed è a notare, che di 2500 uomini che componevano la colonna del Bosco, soli 1600 guerreggiavano, ché gli altri, com'è detto, trovavansi distaccati in vari punti strategici.

Sei compagnie del 1.° reggimento di fanti per colpa del loro duce colonnello Pironti, nel cui animo si suscitò gelosia di comando supremo, rimasero inoperose nella fortezza, col futile pretesto di proteggere le difese, invece di correre in aiuto dei combattenti.

Un plotone di cacciatori a cavallo fece impeto sul nemico per guadagnare un' obice, che per l’uccisione degli animali che lo strascicavano, era rimasto preda di esso. La cennata carica, degna di onorata menzione, ebbe pieno successo; ma oltre del tenente Faraone che videsi sette volte ferito, costava la perdita del capitano Giuliano e di sette cacciatori rimasti vittime del pro

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Questa piccola colonna, rafforzata a tempo dalle truppe di Messina, avrebbe fatto in Milazzo quello che far doveva il generale Landi a Calatafimi.

Ma le irresoluzioni, o i timori del Clary, dovevano ancora una volta essere cagione di niun successo allo esercito.

La giornata si decise in favore del nemico, perché quegli che comandava buon nerbo di milizie in Messina, volle così.

Il colonnello Bosco, dalla forza degli avvenimenti e dal completo abbandono in che volle lasciarlo Clary, fu astretto ad indietreggiare combattendo, ed a piegare sulla città, che aveva stabilito di difendere.

Quella ritirata, che giustificava ad un tempo la prudenza ed il coraggio dei pochi, fu compita col massimo ordine. Però la fedifraga nave il Veloce, che fiancheggiava le masse di Garibaldi, veggendo in ritirata i napolitani, cominciò a percuoterli vivamente, con le sue artiglierie, nei fianchi ed alle spalle. Laonde la colonna del Bosco, bersagliata in siffatta guisa, dovette rinunciare alla difesa della città e sotto la protezione del castello, ridursi in esso: donde poi capitolò ad onorevoli condizioni, dopo ch'ebbe provato al nemico, che la fortezza gli avrebbe opposta ostinata resistenza.

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La giornata di Milazzo, sarà sempre nelle memorie di questa guerra, ricordo imperituro di lode pel colonnello Bosco e per la eletta milizia che comandava.

Garibaldi padrone di Milazzo, pose blocco al castello e cominciò a mostrare di avere intendimento d'incamminarsi verso Messina.

Intanto le trattative della lega andavano a rilento; il Re di Piemonte, sembrava che indarno esortasse Garibaldi a desistere dal guerreggiare (45): la Francia proponeva un armistizio di sei mesi; ma queste pratiche della diplomazia, erano inefficaci innanzi al torrente rivoluzionario, che irrompendo impetuosamente, non cedeva che alla forza ed in ispecie in tempi, in cui ogni diritto, ogni trattato, erano divenuti nulli, mercé la nuova teoria dei fatti compiuti.

I plenipotenziari napolitani proponevano in Torino lo sgombro delle truppe da Messina ed altri luoghi della isola, sol che Garibaldi non invadesse il continente.

Quel governo, fece vista di consentire a ciò; ma aggiunse, che non avendo forza bastante ad imperare su la mente e su l’animo di Garibaldi, che agiva da se solo, non entrava mallevadore di quello che potesse seguitarne.

Così essendo le cose il Re adunò consiglio di ministri e con nobili parole favellando, proponeva di venire a nimistà col Piemonte e di dare subito i passaporti al suo rappresentante. Poscia, facendo parola delle cose di Milazzo, inculcava di soccorrere prontamente quei prodi e di cogliere quella opportunità per agire offensivamente.

Il primo concetto del Re era troppo nobile per essere accettato dal suo ministero, onde venne tosto combattuto e disapprovato. Si decise solo di operare gagliardamente contro Garibaldi ed i generali Pianell e Nunziante che mostravano di propugnare le determinazioni Reali, pel decoro dell’esercito, avvisarono,

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che il generale Clary andasse contro Garibaldi con la soldatesca di Messina e guerreggiasse alle spalle di lui, e che si spedissero fanti e cavalieri a Milazzo, per di qua e di là offenderlo.

Furono dati gli ordini affinché le truppe imbarcassero; ma S. A. R. il Conte d'Aquila, disse la marina non aver navi apparecchiate a tal cosa e però non era da fare assegnamento veruno su i legni da guerra,

Il Re in udire questa manifestazione, trasalì, e dolendosene acremente col suo Augusto Zio, ebbe la come una implicita rivelazione dell’assodamento della marina alla rivoluzione. Voleva irremissibilmente punire tale vergognosa ribellione; ma il ministro Liborio Romano, con acconce parole di speranza per la lega con i Sardi, cangiò la volontà Regia.

Laonde non avendosi potuto avere navi da guerra, né potendo calcolarsi sul solo Clary, ché Egli appunto aveva potentemente concorso a far ridurre Bosco nel castello di Milazzo, per mancato aiuto, fu necessità smettere i} proposito di combattere Garibaldi. Ed invece dal consiglio di ministri e dai generali, si pensò di far capitolare il presidio della fortezza e mandare trasporti, atti ad imbarcar quelle truppe.

E qui cade in acconcio rammemorare, che prima di questa deliberazione, disputando i generali intorno a quello che si conveniva di fare, il Nunziante proponeva al Re di congiungersi a Garibaldi e combattere con lui contro l'Austria: consiglio non saprebbesi dire se più insano o malvagio, che il generale de Sauget non dubitò di dire, che non avrebbe mai dato al Sovrano.

Il ministro della guerra Pianell, considerata la poca

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Garibaldi intanto forzava il presidio del castello di Milazzo ad arrendersi; ma i valorosi che vi erano, sebbene avessero scarse vettovaglie, mancassero di munizioni e fossero ridotti a difendersi nel recinto di vecchie fortificazioni, senza fiancheggiamento e non defilate dalle alture e dalle case, pure risposero alla intimazione con fierezza d'animo che onora il soldato nel cimento, ed alle archibugiate, con lo sparo dei cannoni.

A 22 Luglio il colonnello Anzani dello stato maggiore partiva da Napoli, arrivava il 23 in Milazzo col mandato di trattare con Garibaldi la resa del castello (46) ed il mattino del 25, il presidio con gli onori militari e quasi tutte le armi ed artiglierie, uscivano dal forte e s'imbarcavano su quattro fregate, partite da Napoli con lo stesso Anzani (47).

E qui lasciandole giudicare dai lettori, riferiamo alcune parole trasmesse per mezzo del telegrafo dal ministro Pianell al generale Clary, con le quali quegli dolendosi di essere ricominciate le ostilità, dimandava a costui di sapere, se il colonnello Bosco aveva, o nò, provocata la battaglia.

Altresì notisi,, che la marineria napolitana che dianzi erasi diniegata a trasportare le milizie in Milazzo, per guerreggiar contro Garibaldi, erasi dichiarata poi prontissima a navigare per quelle acque, quando trattavasi d'imbarcare i capitolati della fortezza.

Il giorno 24 Luglio Garibaldi minacciò Messina, con l'antiguardo guidato dal Fabrizi.

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Era venuta la volta del generale Clary, e tutti s'aspettavano ch'Egli operasse con vigore, almeno ora, che ccrcavasi conculcare direttamente il suo onore, il suo amor proprio, il decoro della milizia che comandava.

Nondimeno i fatti non risposero all'aspettazione generale.

I posti napolitani più dappresso al nemico, che stavano a Spadafora, a Gesso, a Rizzo, luoghi naturalmente forti; anziché resistere all'urto della massa avversa, ebbero ordine di piegare combattendo su Messina; la città venne abbandonata del tutto e non si mantennero neppure le comunicazioni con i forti Castellacelo e Gonzaga, che signoreggiano le alture. Così il nemico a 25 Luglio, occupava con l'avanguardia la città di Messina, bloccava i forti mentovati ed Egli stesso maravigliavasi di non ricevere serie offese, né dalle truppe, né dalle artiglierie della cittadella.

La dimane, il restante delle schiere garibaldesche si congiunse a quella parte di esse che stava innanzi, ed il Medici eletto dal Garibaldi a comandare quella provincia, cominciò ad esercitare il suo potere.

Le milizie napolitane agglomerate nel piano che sta avanti le difese della cittadella, erano frementi. E però rotto il vincolo di passiva obbedienza, mormoravano apertamente dei loro capi e forte ne censuravano la condotta.

In questo perveniva al Clary, per mezzo del capitano Canzano dello Stato Maggiore; una lettera del ministro Pianell, nella quale questi significava, esser vivo desiderio del governo di pattuire una tregua col nemico, per facilitare la lega italiana.

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Ed a 28 Luglio, venne stipulata una convenzione tra Clary ed il garibaldino Medici e con le altre condizioni fu stabilito, che alla soldatesca nei

Saputosi in Napoli il patto fermato dal Clary, tutti mostrarono d'esserne indignati, pel vilipendio arrecato all'esercito; ma sopratutti indignò la soldatesca e massime quella che presidiava la cittadella. I lamenti e le mormorazioni di essa crebbero a dismisura, ed il Clary minacciato della morte dalle sue truppe, addimandò di lasciare il comando che aveva.

La domanda venne esaudita ed il brigadiere Gennaro Pergola eletto a succedergli, il 9 Agosto, assunse quel comando (48 bis).

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CAPITOLO XI.

Stato delle Calabrie—Proclama del ministero al Reame—Disegno fatto da S. A. R. il conte d'Aquila per abbattere la rivoluzione — Esilio del conte d'Aquila — Assicuranze del ministro Pianell al Re per la guerra che sarebbesi combattuta nelle Calabrie—11 generale Bartolo Marra con lettere indiritte al ministro della guerra nota la non buona fede del governo—Sbarco di garibaldini in Cannitiello — Loro aggressione improvvisa contro le milizie di Bagnara— Garibaldi cerca predare il vascello il Monarca in Castellammare — Apprensione del governo napolitano e timori dei cittadini—Garibaldi ritorna in Messina—Sbarco di garibaldini alla marina di Portosalvo — Garibaldi guadagna la città di Reggio—Le truppe del Briganti muovono contro Reggio—Galletti ne cede il castello—La soldatesca del Melendez pone campo al Piale—II generale Vial in Villa S. Giovanni—Le milizie nazionali marciano da Monteleone contro il nemico—La brigata del Briganti depone le armi— Quella del Melendez assalita dal nemico combatte e poi si scioglie—II colonnello Ruiz va con la sua soldatesca al piano della corona e cede altrui il suo comando—Il generale Vial domanda all'oste nemica convenzione — Le milizie nazionali del Ghio mal condotte si sciolgono in Soveria-Mannelli — Quelle del Caldarelli pattuiscono col comitato rivoluzionario di Cosenza.

Trionfato ch'ebbe Garibaldi degli ostacoli che aveva incontrato nell’isola, era di rincontro al continente: le Calabrie erano riserbate ai nuovi acquisti di lui, per farsi strada fino alla Metropoli del Regno.

La linea delle tre Calabrie, da Cosenza a Reggio, era occupata da truppe ed il littorale era vigilato da legni da guerra.

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Le apprensioni nei lidi calabri crescevano ogni momento, prevedendo prossimo uno sbarco. E difatti non ostante la crociera che vegliava, o per dir meglio faceva vista di vegliare in quelle acque, vedevi diverse barche d'armati avvicinarsi alla costa di Reggio.

Si sperava che gli esempi di Calatafimi e Palermo, 'le circostanze che resero infruttuoso il valore del Bosco e dei soldati di lui a Milazzo e le incertezza della lega, avessero fatto rinsavire i generali che comandavano le truppe nelle Calabrie e ridestare in essi quel zelo, necessario a tutelare l'onore delle armi e la dignità della vera causa nazionale.

Le Calabrie eran forti di meglio che quindicimila combattenti, con numerosa artiglieria e vantaggio di posizioni: un prospero successo, dipendeva solo dal buon volere dei generali.

Non per giudizio del Re, ma per volontà del ministro della guerra, comandava, suo malgrado, in capo quelle soldatesche, il maresciallo Giovan Battista Vial. Il quale risiedeva in Monteleone e si aveva eziandio il comando territoriale delle Calabrie, vai dire, la suprema potestà in quei luoghi.

Reggevano le armi nelle province; il generale Gallotti in Reggio; il colonnello Locaselo in Catanzaro ed il colonnello Ferraiolo in Cosenza.

Le truppe erano improvvidamente spartite in quattro brigate, indipendenti tra loro; la prima, sotto gli ordini del generale Ghio, accantonava tra Monteleone. Catanzaro ed altri luoghi; la seconda dipendeva dal generale Melendez e stava divisa tra Nicotera, Tropea e Bagnara; la terza, comandata dal generale Marra, era suddivisa in frazioni da Reggio a Villa S. Giovanni e l'ultima stanziava tra Cosenza e Paola ed era diretta dal generale Caldarelli.

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Erano così le cose, quando il ministero, perduto la fiducia dei buoni cittadini, temendo possibili reazioni in favore del Re, che stornar potessero l'opera vigorosa e continua della rivoluzione, pensò dar fuori un proclama, che per vero non valse a rassicurar chicchessia (49). Peroché tutti vedevano chiara, sì la sollecitudine del governo nello sciogliere la guardia urbana, nel comporre la guardia nazionale di gente turbolenta, nel formare la polizia nuova con uomini che avevano la febbre dei nuovi principi, come la sfrontata negligenza di esso, nell'attuare a vantaggio della costituzione, la elezione della rappresentanza del paese.

Il Re capiva bene che la via che calcava, la quale non era la vera via costituzionale, gli aveva spalancato un abisso e che i consigli di star fermo su questo sentiero, erano un'insidia per isbalzarlo dal trono. Più volte pensò scuotere il giogo di quel ministero ed assumere, la dittatura, senza violare le concedute istituzioni; ma troppo giovane nell’arte difficile del governare, non seppe attuare gli arditi disegni della sua mente.

La sua lealtà faceva aperta guerra ai concetti che gli balenavano nel pensiero, e di questa lealtà abusavano appunto i cospiratori, che gli eran dappresso, per vederlo sprofondare tra poco.

Oramai erasi al punto da dirsi perduta la casa Borbone e S. A. R. il conte di Aquila, non meno del Re, viste le nequizie dei congiuratori e la rete ch'essi avevano tesa contro la dinastia, studiò il modo di abbattere la rivoluzione. Egli propose al Re un colpo di stato; la formazione d'un ministero militare con uomini sperimentati; la sospensione dello statuto e quanto altro occorresse, per salvare l'autonomia del Reame.

Il Re in udire queste cose, dapprima vacillava, pò

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Incontanente tutto il ministero concorde, palesò al Monarca le mene reazionarie del Principe: ed esagerandone lo scopo, fino a farlo credere ribelle, addimandò che fosse bandito dal Regno.

Il Re sebbene non prestasse fede a quelle accuse, purtuttavolta non ebbe la fermezza d'animo di opporsi ai suoi ministri; consentì allo esilio, ed il 14 Agosto S. A. R. il conte d’Aquila partì da Napoli (50).

Partì ancora dal Regno in quell'epoca il generale Filangieri Principe di Satriano, il quale aveva fermato in suo animo di menar vita più tranquilla altrove. Ma del suo dipartire si rallegrarono i rivoltosi e si addolorarono le milizie, ché gli uni e le altre vedevano allontanare colui, che in un istante poteva mutare le sorti del Reame e della Dinastia (50 bis).

Frattanto le minacce di Garibaldi sul continente crescevano ed il Re parlava sovente con calore al ministro della guerra, incitandolo a provvedere con senno ai bisogni delle truppe, a vegliare su i generali che tenevano comando e ad allestire altro nerbo di milizia, che guidata da esperto ed onorato capitano, potesse assalir Garibaldi alle spalle, quando si facesse a metter piede sul continente.

Il ministro Pianell faceva sicuro il Re di tutto e promisegli, che venuta l'ora del cimento, sarebbe ito Egli stesso a dirigere quel combattimento supremo, che doveva decidere della sorte dell’autonomia del Regno. E difatti. appena avevasi cenno di sbarco di nemici, Egli pareva disponesse immediatamente l'imbarco di lui,

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Bartolo Marra che comandava in Reggio, accortosi che non volevasi combattere Garibaldi, avvegnaché lasciavansi le truppe sprovviste d’ogni maniera di cose e ch'era inutile il dichiararlo, cominciò a scrivere al generale Vial ed al ministro, lagnandosi della fede del governo e chiese d'esser dimesso.

Assai vivace fu il commercio di queste lettere e noi ne registriamo tra i documenti alcune, degne d'essere notate (51).

Egli scoperse dolorose piaghe; non tacque la poca fiducia che inspiravano taluni duci e conchiuse, ch'era stanco d'essere trastullato di parole, o intimidito da inopportune minacce.

In risposta fu incontanente richiamato in Napoli; imprigionato in Castel S. Elmo e poco poi. in punizione dei suoi liberi parlari, noverato fra la quarta classe.

A Marra successe il generale Fileno Briganti, allora promosso a tal grado, ma non si mutò sistema; le milizie continuarono a mancare d'ogni cosa ed i generali se ne contentarono.

La costa era guardata da circa dieci navi da guerra, sotto gli ordini del Comodero Salazar, che vi teneva crociera.

Garibaldi deciso ad agire sul continente, cercò dapprima di far sorprendere Torre cavallo. Vi spedì buona mano di armati la notte del giorno otto agosto, con venti barche; ma respinti dal cannone di Altafìumàra, indietreggiarono e solo pochi uomini potettero sbarcare presso Cannitiello, aventi a capo Missori.

Questo brano d'uomini si posero in salvo su Aspro

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Svanito il tentativo di Bagnara, Garibaldi lasciò al Sirtori l'incarico di armare la costa e preparare il passaggio sul continente ed Egli imbarcò sul Washington e in fretta navigò per la Sardegna: onde aversi i novemila volontari, che Bertani aveva arruolati, per agire in danno degli stati del Papa.

Durante il viaggio il capitano di fregata della marineria Sarda a nome Piola Casella, gli fece concepirò l’ardito pensiero di predare il vascello napolitano il Monarca, che stava in Castellammare in istato d'armamento ed Egli il Garibaldi, si fermò nel golfo di Napoli per attuare questo concetto.

Comandava il Monarca, il capitano di vascello Vacca, il quale sia per malizia, come molti all'ermano; sia per fatale combinazione, aveva disposto sul declinare del giorno 13, che fossero tolte le catene di ferro che assicuravano la nave a terra, restandovi solo quelle di canape. Fu ventura nondimeno, che per l'ora tarda, non potendosi tutte togliere le catene, una sola ne restasse.

Garibaldi nella notte dello stesso dì 13 Agosto, profittando della oscurità, entrò nel porto di Castellammare e mandò barche con uomini armati, a segare le gomene.

Il tentativo pareva fosse per riuscire; dappoiché non essendo sospetto di pirateria cotanto audace, la ciurma dormiva profondo sonno e le poche guardie stavano anch'esse sonnolenti. Ma la catena di ferro rimasta per buona sorte, nell’atto d’essere limata, fece tale strepito da destare la sentinella.

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La quale,. visto accostarsi un battello senza face e buona mano di gente annata dedita a tagliare gli ormeggi ed a scalare il vascello, dette il grido all'armi, che fu tosto ripetuto dalle scolte del castello e propagato per tutta la città.

In un istante marinari e milizie nazionali (52) presero le armi ed anche la guardia cittadina suonò le trombe a raccolta, per tutelare l’ordine interno.

I marinari del Monarca affrontarono con impeto gli assalitori; percossero ed uccisero quelli già saliti sul legno e spararono contro le barche nemiche e contro il piroscafo aggressore.

Da terra corsero i soldati a sostenere la mischia e le artiglierie del forte Pozzano trassero a metraglia: insomma incominciò lotta accanita nel più fitto della notte.

Garibaldi, veggendo non riuscire a lieto fine il suo disegno, col medesimo vapore Washington, si ascose fuggendo tra gli altri legni, ed arrivò a salvarsi, prendendo il largo.

Il capitano di vascello Vacca, dopo di avere ordinato che si togliessero le catene di ferro al Vascello il Monarca, andò in Napoli, senza chiederne licenza a veruno, e però non fu visto in questo conflitto che abbiamo narrato. Del quale, poiché ebbe saputo l'esito, si rifuggì su di un legno inglese: il che fece sospettare grandemente di lui e la pubblica opinione lo reputò conscio e complice di quel turpe tentativo.

L'ardimento del Garibaldi fu magnificato assai dalla rivoluzione, sebbene avesse avuto infelice effetto; mise in serie apprensioni il governo e forti timori ingenerò nell’animo dei cittadini. La classe opulenta di essi, immaginando che l'audace Nizzardo ruminasse di entrare

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Il ministro della guerra con due ordini lodò quanto erasi operato dalle truppe e dalla guardia cittadina per quello avvenimento; (53) mandò parte della soldatesca lunghesso il littorale, per tema di altri fatti, e provvide allo armamento delle batterie di costa.

La città di Napoli fu dichiarata in istato d'assedio ed il comandante della piazza emise l'opportuno editto (54).

Tornato Garibaldi in Messina coi volontari del Bertani, credendosi abbastanza forte per guerreggiare sul continente napolitano, si accinse al passaggio dello stretto.

Raccolse barche ed armati in Torre di Faro, ove aveva il nerbo delle sue schiere, per attirare l’attenzione dei napolitani ed Egli col Bixio imbarcò, con circa quattromila dei suoi, su i vapori Franklin e Torino.

Deludendo la vigilanza della crociera napolitana, che poco vegliava, navigò sulla costa orientale delle Calabrie ed all’alba del 19 Agosto, arrivò alla spiaggia di Melito, posta tra capo dell’Arme e capo Spartimento.

Il Comodero Salazar, si ebbe officiale avviso dello sbarco che doveva aver luogo, con l'ordine d'impedirlo; non adempì il mandato ricevuto e stette fermo a Reggio. Poscia avuto la mattina del 19 l'altro comando di raggiungere Garibaldi a capo dell'Arme, ove s'era scorto, e di combatterlo, temporeggiò con futili pretesti, ed alla fine andò contro di lui con le fregate Aquila ed Archimede.

Nel cammino incontratosi con un legno senza armati,

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Questo legno era il vapore Franklin e su di esso stava Garibaldi, il quale, sbarcati i suoi, andava in traccia di aiuto, per rimettere in mare l'altro vapore il Torino, dato con arte a secco nella marina di Portosalvo.

Difatti poco dopo, il Salazar, scorse al luogo detto Portosalvo, un legno a vapore messo volontariamente a secco ed alquanti garibaldini dediti a vuotarlo.

Immantinente col fuoco delle artiglierie incalzò e disperse gli avversari: s'impadronì di quel legno e delle vettovaglie che vi stavano; fece prigione un solo uomo che trovò sul bastimento e lavorò fino a sera per riporlo in mare e condurselo come trofeo della giornata; ma riusciti vani i suoi sforzi, fu obbligato incendiarlo.

Garibaldi intanto, che per la dabbenaggine vituperevole del Salazar videsi salvato da morte, o da prigionia; fattosi sbarcare sulla spiaggia più vicina, raggiunse i suoi e postosi sulle alture, quivi serenò.

Erano arrivati in Calabria due altri battaglioni cacciatori il primo e quinto, ed il generale Vial, dopo averli fatti vagare due giorni pei monti in cerca del Missori, l’unì al decimo primo dei cacciatori (54 bis) e ne formò una quinta brigata, che pose sotto gli ordini del colonnello Ruiz.

Ed invece di riunire il comando della soldatesca in un generale solo, quando poca volontà aveva di far da condottiero, rendeva impossibile l'azione unica e vigorosa delle milizie, lasciando cinque comandanti di brigata tutti indipendenti tra loro, col solo ordine di aiutarsi a vicenda: cosi ognuno pensava di aspettare l'inimico

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Era in Reggio un battaglione del decimo quarto dei fanti, comandato dal colonnello Dusmet, onorato soldato, che non aveva voluto udir mai parola estranea al proprio dovere. Questi domandò di affrontar Garibaldi, come antiguardo della brigata del Briganti, alla quale apparteneva. Ma il generale Callotti, cattivo soldato dell’esercito, ne compresse lo slancio, si chiuse nel castello con due compagnie e comandò, che i rimanenti fanti con quattro cannoni, prendessero militari posizioni nella città.

E poiché la guardia cittadina erasi annata con fare intendere che avrebbe coadiuvato gli sforzi dei soldati per mantenere l'integrità del suolo, minacciato d'invasione dall'oste avversa, furono dati ad essa guardia alcuni posti per impedire che l'inimico entrasse nel paese. Era questo un agguato che si era teso alle truppel'

Difatti Garibaldi, dopo aver fatto credere con una contromarcia che allontanavasi da Reggio, vi entrò la notte del 20 Agosto pei posti tenuti dalla medesima guardia cittadina ed occupò molti sbocchi di vie e varie case. Poscia, aiutato dai facinorosi della città, assalì la poca soldatesca del Dusmet che dormiva, tenendo le armi a fascio. La quale ridestata, incominciò un accanito combattimento.

Si pugnava con ardore d’ambe le parti; ma le milizie sopraffatte dal numero e bersagliate anche dalle case, già in potere dei nemici, dopo aver perduto il proprio colonnello nella mischia, insieme al figliuolo di lui sottuffiziale nel medesimo battaglione, retrocedettero combattendo e si ridussero con tutta l'artiglieria nel forte.

Quivi stava il generale Galletti, impassibile spettatore di quella zuffa, senza soccorrere i pochi combattenti.

Garibaldi preso possesso della città,, fece barricate d'ogni maniera e cinse il forte d'armati.

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Era il momento di marciare con la più parte delle forze verso Reggio e schiacciar l'inimico.

Ma il ministro della guerra, cui era passata la velleità di mostrare valentia di duce supremo in guerra, si contentò d'incitare il Vial alla riscossa e di fargli rimprovero della infingardaggine di lui. Questi si scusò in mille forme e quasi a confessare la propria dappecaggine, pregava il ministro, di andar'Egli personalmente a capitanare le truppe, come aveva promesso.

Alla brigata del Briganti, come la più vicina, venne ingiunto due volte di attaccar pugna con Garibaldi ed alle truppe del Melendez di sostenere il primo.

Briganti alla fine mostrò di voler fare, e messosi in cammino da Villa S. Giovanni con le sue milizie, tranne l'artiglieria che restò indietro, perché la giudicò disadatta ai concetti della sua mente, giunse il mattino del 21 avanti Reggio e dopo breve censurabile combattimento, retrocedette, dicendosi superato, e sostò spensierato tra Gallico e Catona. senza far uso di militari precauzioni. Poco stante stabilì con l'avversario una tregua, che fu il preludio della trista sua fine e di quella della brigata.

In questo medesimo tempo il Gallotti dopo alquante cannonate, che scagliò contro il nemico, rese vilmente il castello di Reggio (55).

Noti il lettore, che le truppe del Briganti arrivarono innanti Reggio qualche ora dopo che il Garibaldi erasi impadronito di questa città. Onde se quegli avesse pugnato con buona strategia ed il Gallotti, uscendo dal castello, avesse guerreggiato alle spalle dei garibaldini, luminosa vittoria al certo avrebbero riportata le milizie nazionali.

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E Medici e Cosenz, che Garibaldi aveva lasciato a Torre di Faro, imbarcarono su 24 barche quanta gente potette capirvi e passarono lo stretto, sotto gli occhi della fregata napolitana Archimede.

Sbarcati tra Scilla, Bagnara e Favazzina, dopo aver sostenuto una piccola avvisaglia, presero per Solano tra i monti e Cosenz, poco poi, si fece vedere sulle alture dietro villa S. Giovanni.

Il generale Melendez che per comandamento avuto, doveva essere di appoggio al Briganti, aveva messo campo ad Altafiumara, assicurando i suoi lati alle soldatesche del Briganti e del Ruiz. Sapute le cose di Reggio e trovata sola senza sostegno l'artiglieria lasciata indietro dal Briganti, insospettì. E temendo di cadere in qualche rete, non procedette oltre e scrisse al Briganti ed al Ruiz, invitandoli a con giungere tutte le truppe su i monti Piale e Melia, per assalir poi i garibaldini, quando avessero investito i forti della spiaggia.

Dopo più ore, avuta assicuranza d’adesione al progetto di lui, lasciò l'artiglieria, abbandonata dal Briganti, nel castello d'Altafiumara col presidio di due compagnie del quarto di fanteria, comandate dal tenente colonnello Cetrangolo, ed Egli col più della soldatesca campeggiò sul Piale, in aspettando le altre due brigate.

Poco tempo dopo alcuni uffiziali del Briganti, nonché il capitano Milon capo dello stato maggiore di lui, tennero avvisato il Melendez dei gravi sospetti di fellonia che pesavano sul loro duce e delle cattive condizioni di quella brigata (55 bis).

Il Melendez, invece di scendere dal Piale perché, in

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Arroge, che il generale Vial non avendo alcuna notizia delle truppe già alle mani col nemico, pei rotti telegrafi, imbarcò sull’alba del 22 alla marina di Pizzo sul piroscafo francese il Protis (56) il battaglione scelto del decimo secondo di fanteria ed Egli, non vestito della divisa, salito sul vapore la Stella, navigò verso Villa S. Giovanni.

Giunto colà, vide i posti avanzati nemici a Catona; seppe gli avvenimenti di Reggio e chiamato a se il Briganti gli comandò, che tosto si congiungesse al Melendez per pugnare insieme la dimane.

Mandò poi allo stesso Melendez l'ordine di tenersi fermo al Piale, aspettarvi Briganti e Ruiz e con tutte queste truppe attaccare la pugna col nemico; promettendogli altresì, che sbarcherebbe a Scilla il battaglione che stava sul Protis, per soccorrerlo in ogni evento,.

Ciò fatto, il Vial volse a Scilla; ma pel grosso mare non potendo mettere a terra l'ausilio promesso al Melendez, tornò al Pizzo e fatta scendere la soldatesca, s'avvio dritto a Monteleone.

Ma colà la truppa era in attitudine di partenza verso il nemico, per ordine del ministro della guerra.

Perché Egli il Vial, prima di andare contr'esso, dimandò per telegrafo d’essere esonerato dal comando territoriale; ed ottenutolo, mise la cassa militare sul Protis e partì la sera del 24 con le truppe: all'alba del 25 era a Rosarno.

Melendez intanto sul Piale aveva un colloquio col Briganti e col Ruiz e stabilita d'accordo la più acconcia

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Dopo questo convegno, Briganti faceva accerchiare dall'inimico le sue truppe, in posizione disadatta a difendersi, e poco poi faceva depor loro le armi, senza convenzione alcuna.

Alla mezzanotte del 23, Melendez era forzato nelle sue posizioni. Respinto quel lieve attaccar di pugna, fu riassalito il domani da masse più numerose. Incontanente tuonarono le artiglierie e si dette luogo ad una lotta disuguale. I napolitani, difendendosi contro forze di gran lunga maggiore e supplendo col valore al numero, contennero l'urto nemico. Dopo due ore di combattimento, un parlamentario garibaldino dimandò parlare al generale e scongiurandolo a non far versare inutile sangue, propone vagli, che cessasse dal combattere perché d'ogni parte circondato.

Rigettò dapprima con isdegno il Melendez la intimazione del nemico; ma non fornito di cibarie; veggendo occupate dagli assalitori le posizioni del Briganti e del Ruiz; ed oltre ciò saputo il procedere del primo e l'abbandono che l’altro aveva fatto del posto, per incamminarsi altrove, comprese, essere stato tratto in inganno e ridotto a dure condizioni. Laonde accettò una tregua di tre ore soltanto e mandò il colonnello Andrea Marra in Monteleone, per aversi almeno nuove del Vial.

Stabilito l'armistizio, Garibaldi ne fruì e, conculcando il patto, rafforzò d'armati le sue posizioni; altre ne guadagnò con inganno ed allo spirar della tregua impose, o la resa, o l'assalto.

Invano si sforzò il Melendez di chiedere che si prolungasse la sospensione di guerra, lino al ritorno del Marra da Monteleone, ove avevalo inviato; non gli ba

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Tosto un fiero tumulto successe tra soldati; tutti ripetevano la parola tradimento; tutti imprecavano contro i loro capi e rotto ogni vincolo di disciplina, la brigata si sciolse, facendo a brani le armi.

Molti pigliarono la via di Monteleone, senza incontrare resistenza; ma nessuno cambiò la bandiera, sebbene grandi mezzi di seduzione si adoperassero.

Questo inaspettato ed infausto avvenimento, colmò di dolore gli animi dei soldati, che tanti sforzi avevano fatto per rialzare la propria opinione ed ottenere una riscossa. Ma il dolore questa fiata trasmodò in licenza e tale fu l'ira di loro contro dei generali, che uno di essi, dir vogliamo Briganti, tenuto in sommo discredito, cadde ai colpi d'archibugi dei suoi soldati, come fellone.

Il colonnello Buia intanto, che aveva contribuito alla rovina del Melendez, era ito senza comandamento di chicchessia al piano della corona: colà avuto ordine dal Re e dal Ministro della guerra di combattere, unendosi al Melendez, non ubbidì. E poiché gli si era dato facoltà, che ove credesse di non aver forza bastante a reggere quella soldatesca e con essa guerreggiare, di cederne il comando, a chi per grado dovevagli succedere; Egli stesso si liberò di quell'obbligo ed addossatelo ad altrui, imbarcò per recarsi in Napoli.

Il comando di questa truppa, alla quale si erano aggiunti alcuni soldati delle disciolte brigate, rimase dunque al tenente colonnello Morisani. Il quale letto alle sue

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Per la via scontrò soldati d’ogni arma, reliquie del Briganti e del Melendez, i quali raccontando i fatti dei loro capi, trasfondevano nei compagni il pernicioso sospetto di tradigione.

Allora il Morisani, avvisò di prendere la  via di Monteleone ed a Rosarno si unì alle fresche truppe del Vial, nelle quali anch'erasi ingenerata la tema di prodizione.

Questi, invece di riordinar gli avanzi delle sciolte brigate; di ragunare le milizie dei generali Ghio e Caldarelli onde far argine al nemico, si avvilì, dopo la uccisione del Briganti, ed abbandonò la soldatesca per riedere in Monteleone. Mandò poi, per via di mare, il colonnello Bettolini capo dello stato maggiore di lui a Garibaldi, per istabilire una convenzione, mercé la quale i napolitani avessero potuto ritirarsi in Salerno, senza ricevere molestia di sorta.

Garibaldi, che aveva già ridotto a capitolare tutti i forti della spiaggia del Faro, perché presidiati da poca gente, aderì tosto alla domanda del Viale disse, che le milizie alloggiassero tra Pizzo e Monteleone, per poi pattuire la maniera con la quale doveva la ritirata avere effetto.

Il Vial saputo ciò e visto che le milizie avevano obbligato il Ghio a metter campo sulla consolare d’Angitola a due miglia dal Pizzo, comprese bene, che difficil cosa sarebbe stata,di tener le truppe nei proposti alloggiamenti, per conchiudere le trattative.

Perché imbarcatosi sul Protis, ov'era la cassa militare, dette l'ordine alle truppe di retrocedere lentamente e mandò novellamente il Bertolini al campo nemico, affinché notificasse a Garibaldi, la soldatesca napolitana essere in ritirata.

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Ma il Bertolini, non potendo vedere Garibaldi, scrisse al Ghìo, che comandava le truppe, di stare in sull'avviso; conciossiaché un'insidia si tramava per certo dal nemico, a danno delle milizie napolitane. (57)

Il Ghio che capitanava diecimila fanti, quattrocento cavalli e 12 cannoni, ebbe al piano di Bevilacqua una scaramuccia con pochi avversi e superato quel lieve ostacolo, seguitò il cammino.

Garibaldi intanto sapute le cose delle milizie del Regno; volendone la dissoluzione, per trovare minore resistenza nell’occupar Napoli e sapendo di restare inoffeso dalle navi napolitane, che si allontanavano per lasciarlo operare liberamente, andò con pochi dei suoi verso la spiaggia, per seguitare le truppe del Ghio. Il quale, la notte del 29 Agosto, entrò ordinato in Soveria-Mannelli e mostrava avere intendimento di far riposare la sua gente.

Nondimeno invece di porre militarmente il campo ed occupare posizioni forti, ond’essere sicuro del nemico che con perfidia lo seguiva, occupò il paese, che posto in una valle e cinto d'alture, giace presso il letto d'una fiumana, e quivi si dette a scioperato riposo.

Il dittatore entrò in Tiriolo, appena ne uscivano i napolitani, e di là segnalò ai sindaci della provincia d'accorrere con faziosi ad impedire il passo alle truppe, facendo pompa d’armati su le creste dei monti e spargendo novelle sconfortanti del Re e del governo. Ed Egli, forte di tali astuzie, continuò la strada e si trovò il 30 a Soveria-Mannelli.

È fama, che avesse mandato persona al Ghio per accordarsi intorno allo sbandamento di quelle truppe e che questi vilmente vi aderisse.

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Noi non possiamo, per mancanza di documenti affermare, se l'accordo ebbe luogo. Certo é. che dopo poche ore si udirono colpi di archibugi nei vicini boschi; molti uomini si videro sperperati su i monti e più tardi un parlamentario garibaldino annunzio al Ghio, ch'era uopo lasciare le armi, perché stretta la sua colonna d’ogni parte.

Il messaggiero efferiva piena libertà a tutti di servire la rivoluzione, o riedere alle loro case: insomma ripetevasi la turpe scena del Piale. Ed il medesimo generale Ghio, con una truppa capace per numero e per volontà delle più ardite imprese, calpestò l’onor militare, obbliò i doveri del soldato in aperta campagna e cedendo alla intimazione, sciolse le milizie che conduceva, per far cosa grata al duce avverso.

Ma temendo di restare fra i suoi soldati, che imprecavano contro di lui, cercò rifugio tra i nemici.

V'ha chi ha scritto, essere Soveria onta eterna al nome napolitano: noi chiamiamo impropria questa sentenza e diciamo, che quel suolo sarà duraturo ricordo di sventura per le armi napolitane, vergogna incancellabile al nome di Ghio. (57 bis).

Restavano nelle Calabrie le sole truppe del generale Caldarelli, stanziate in Cosenza. Erano colà l’intero reggimento carabinieri a piedi, retto dal colonnello Francesco Donati, una batteria di artiglieria e due squadroni di lancieri.

Il Caldarelli aveva l’ordine di aspettare le milizie di Monteleone ed unirvisi. Ma Egli non istimò di salvare l’onor suo e quello delle armi a lui affidate; volle associare il suo nome a tanti altri di funesta rimembranza e trasgredendo l’ordine avuto,

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stipulò e sottoscrisse il 27 Agosto una convenzione, col comitato rivoluzionario

CAPITOLO XII.

I facinorosi insorgono nella Basilicata — Commovimenti in Tricarico ed in Potenza — Combattimento dei gendarmi e loro capitolazione.

Mentre la rivoluzione potentemente sostenuta al di fuori dalla Francia e dall'Inghilterra ed aiutata dal Piemonte, compiva con tutti i mezzi di che disponeva i suoi disegni in Calabria, nella Basilicata s'insorgeva con fatti sanguinosi.

In quella provincia i faziosi erano disciplinati dall'intendente Cataldo Nitti, strumento di Liborio Romano, e Camillo Boldoni era il capo delle masse rivoltose.

Stanziavano in Potenza dugento gendarmi tra fanti e cavalieri, comandati dal capitano Castagna, uomo ligio ai propri doveri.

Costui aveva rapportato in iscritto le mene della setta; aveva fatto anche arrestare molti facinorosi; ma poco curato dal governo, che lavorava con la rivoluzione, i suoi rapporti caddero sotto severa censura e le disposizioni di lui, vennero contradette dalle autorità locali.

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Il dì 17 Agosto cominciò il moto rivoltoso in Tricarico, ove si disarmarono i pochi gendarmi, e Boldoni, certo di trovar poca resistenza in Potenza, vi si avvicinò.

Il capitano Castagna ebbe avviso da onesti cittadin del prossimo tumultuare della città; adunò i gendarmi; li spartì in drappelli e li condusse fuori del paese, in aspettando gli aiuti, che il maresciallo Scotti avevagli promessi.

Il giorno 18 Agosto, in Potenza fu sollevamento; i faziosi attaccarono zuffa con i gendarmi, che custodivano le carceri e Boldoni si mostrò sulle circostanti alture.

Il Castagna accorse alle carceri per la via esterna della città; ma alcuni drappelli di gendarmi, guidati da sottuffiziali traditori, sboccando alla strada Pretoria, vennero bersagliati dalle case. Quivi ed alle carceri incominciò la lotta ed i gendarmi combattettero da eroi.

Nondimeno, essendo pochi per domare gl’insorti, si riunirono e piegarono pugnando, fino a guadagnare le alture.

Intanto le bande del Boldoni entrarono in città, ne presero possesso e commisero molte violenze su i feriti e prigionieri, non meno che sulle famiglie delle milizie nazionali.

Il Castagna dai monti, saputo che il sesto dei fanti speditogli in soccorso, erasi fermato in Auletta, mandò un suo fido per pregare il colonnello Perrone, che conduceva quel corpo, di venire a lui a passo raddoppiato. Ma i soldati di costui, sedotti dall'oro del nemico, palesavano poca volontà di combattere e molti di essi abbandonarono la bandiera.

Il Perrone, non seppe inspirare fiducia nella sua truppa; non tenne ferma la disciplina: non la rafforzò con

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Questi cercò di ritirarsi e scese al piano S. Loia, ove fu circondato e costretto a capitolare (58 bis).

La dimane 19 Agosto, Potenza proclamò governo provvisorio e tutti i comuni della provincia, furono forzati ad aderirvi.

CAPITOLO XIII.

Tumulti in Foggia — Il generale Flores marcia con le truppe verso i Principati — Il generale Bonanno scaccia i faziosi da Canosa — Flores conduce le sue truppe in Bovino o poi in Ariano—Fellonia di lui — Capitolazione della soldatesca del Bonanno col garibaldino Turr.

Ai moti di Basilicata risposero quelli delle Puglie.

Era comandante territoriale delle Puglie il maresciallo Filippo Flores, il quale affettò smodata devozione al Re ed alla dinastia, finché il governo del Regno si contenne nel regime assoluto; addivenne poi liberale, non appena seppe, che le libere istituzioni del paese, costituivano la forza motrice della rivoluzione, che si svolgeva a danno del Monarca.

Stavano nelle Puglie poche milizie dipendenti dal generale Bonanno, di recente speditovi (59).

Il dì 17 Agosto tumultuò Foggia e i due squadroni che vi alloggiavano, sotto gli ordini del maggiore Maresca, lasciarono stabilire impunemente il governo dittatoriale senz'avversarlo, né furono menomamente molestati.

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Dopo che il Bonanno ito, senza milizia e col capo del suo stato maggiore, in Foggia, ebbe ragguagliato il Flores d’ogni cosa avvenuta in quella città, con l'aggiunta degli espedienti che dovevano praticarsi, questi mandò pochi soldati a quella volta. Ma il ministro della guerra, saputo ciò, comandò al generale Flores di raccogliere le truppe da lui dipendenti e camminar lentamente verso i Principati.

Il quale fatta manifestazione alle sue milizie della ragione per la quale marciavasi (59 bis), si mosse verso Avellino ed ischivò di soggiornare in paesi già sollevati.

Lasciato Barletta il 3 Settembre, prese con i soli cavalli la via dell'Ofanto, per evitare Canosa, che anelava i soldati per iscuotere il giogo dei ribelli che vi si erano annidati, e niente disse di ciò al Bonanno, che coi fanti doveva partire assai più tardi.

Il quale, non avendo obbligo alcuno di seguire una via piuttosto che un'altra, e stimando più acconcia per le sue truppe la via consolare, volse per quella; entrò in Canosa, dopo aver sostenuto una scaramuccia coi nemici, che lo provocarono a combattere, e vi ripristinò l’ordine. (60)

Il Flores da Cerignola rimbrottò in iscritto il Bonanno d'avere usato le armi contro Canosa e comandogli di marciar tosto per Cerignola, ov'egli l'aspettava (60 bis).

Quivi arrivata la soldatesca del Bonanno, Flores tenne consiglio sul cammino da fare. Tutti avvisarono di andare in Foggia per unire alla colonna i due Squadroni di dragoni e poi volgere pel Sannio a Capua: ma Egli, che amava giovare la rivoluzione, spregiò il giudizio dei molti, disse avere ordini di condurre le truppe in Avellino e presa vi a traversa, accampò in Bovino, ove stette tre lunghi giorni.

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Fu mandato ordine al maggiore Maresca in Foggia di raggiungere la brigata; ma costui che aveva mostrato apertamente di favorire la rivoluzione, disobbedì. Ed adescato dal grado di colonnello, che gli offeriva Garibaldi, andò con i suoi a Lucera, per proclamarvi il dittatore.

Il Flores intanto stava inerte a Bovino; l’arrivo di due telegrammi in cifra lo scossero ed Egli ordinò, che si camminasse per Ariano (61).

In sul cammino una staffetta recavagli un plico, sulla cui facciata erano impresse le armi Reali. Egli lesse ciò che dentro era scritto, mentre stava in vettura con la famiglia e fatto venire a se il Bonanno, si spacciò chiamato in fretta in Napoli dal ministro della guerra Pianell, e prescrissegli di guidare la truppa ad Ariano.

Questo paese aveva reagito alla rivoluzione, onde accolse festevolmente la colonna del Bonanno, che vi entrò la sera del 9 Settembre.

Colà le truppe ebbero a vedere stuoli di soldati sbandati, reduci dalle Calabrie, che narrando ai compagni i casi loro a lor modo, ingenerarono gravi sospetti di tradimento contro i capi. Dissero il Re partito per la Spagna; l’esercito sciolto; Garibaldi aver fatto la mostra di piedigrotta; nessun soldato essere in Avellino ed altre cose scoraggiatiti.

Allora la soldatesca cominciò a scuotere il freno della disciplina ed a mormorare apertamente; si credette venduta al nemico e titubava di continuare la marcia.

Il Bonanno aveva saputo il vero delle cose del Regno; e sebbene il Flores avessegli palesato in iscritto la sua fellonìa per incitarlo a passare nelle file del dittatore (61 bis), nondimeno divisò leggere ai soldati il proclama del Re e loro domandò, se stimassero partire pel Volturno —

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Nondimeno il colonnello Trigona, il capitano Occhionero ed altri ufficiali, con le parole e con lo esempio si affaticarono di riunire la colonna, facendo suonar le trombe a raccolta. (62)

Riuniti il più ch'era possibile delle truppe, già diffidenti dei loro capi, si avvisò dal Bonanno di lasciare Ariano, affinché minori fossero i mezzi di seduzione per le sue milizie. Perché, indietreggiando per due miglia, pose campo alla taverna di Camporeale.

Essendo così le cose; il Turr, mandato da Garibaldi a punire i reazionari di Ariano, da Dentecane, ove si era fermato, invitò il Bonanno a capitolare (62 bis).

Questi, mal reggendo i pochi soldati rimasti, accettò la proposta e spedì i capitani Occhionero dello stato maggiore e Bidognetti del reggimento carabinieri, a cavallo, per trattare.

Fu pattuito che le milizie sarebbero ite in Avellino a deporre le armi e che gli uffiziali ed i soldati avrebbero facoltà di servire Garibaldi, o di andare ove lor piacesse. Ma la truppa saputo ciò che trattavasi, prima di udirne i" patti, si sciolse (63).

La provincia di Terra di lavoro, comunque agitata dalla setta, stette tranquilla, ché temeva dei soldati che vi stanziavano.

E gli Abbruzzi, guardati da poca truppa, che il generale de Benedietis ad arte teneva riunita in Giulianova, per aspettare gli eventi, stettero cheti del pari.

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CAPITOLO XIV.

I ministri con artifizì distolgono il Re di recarsi in Salerno per affrontare il nemico — Indirizzo al ministero dei capi della guardia cittadina — Manifestazione dei ministri al Re firmata dal solo Liborio Romano — Altra lettera del Conte di Siracusa al Sovrano—Gli autonomisti si risvegliano—II governo opera per sopraffarli — Campo in Salerno— Il generale Cataldo al comando della Piazza di Napoli — Disegni di guerra dei generali de Sauget e Pianell — Il generale Gaetano Afanderivera in Salerno — Lavorio della setta per sedurre i soldati ed ingannare il Re— De Sauget propone di mandare le truppe al di là di Capua — Consiglio dei generali — Il Re manda le truppe al di là del Volturno e delibera di partire per Gaeta— In Napoli rimangono diecimila uomini di truppa — Proclama del Re e decreto di remissione di pene ai condannati — Protesta fatta dal Re alle corti di 'Europa — Il Monarca saluta i ministri, il Sindaco, il generale de Sauget e parte da Napoli.

Mentre cotali fatti accadevano, molte città, molti paesi reagivano alla rivoluzione, e molti altri, si atteggiavano ad imitarne l'esempio.

Era il momento che Re Francesco, mostrando all'Europa le vere intenzioni dei suoi popoli, travisate dai turbolenti dell’Italia del Nord e da alcuni, che una volta emigrati colà rifuggirono, poteva con accorgimento trionfare. Ma il ministero Spinelli, che tendeva a distruggere la indipendenza del loro paese natio; abusando della lealtà del Principe verso le concedute instituzioni, con mano gagliarda comprimeva i conati di coloro, che non volevano patire le oppressioni rivoluzionarie.

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E vuolsi notare, che questo ministero si desto e vigoroso per combattere i popoli che si levavano a difesa della causa della giustizia e dell’onore, mostrava d'esser sonnolento, quando trattavasi di osteggiar l’opera settaria, dicendosi debole contro la pubblica opinione.

Aggiungi, che fratanto si compivano le turpitudini di Calabria e delle Puglie, innanzi discorse, il Re era quasi assediato nella Reggia dal ministero e dai settari, che ne scrutavano perfino i pensieri.

Non era niuno che avesse coraggio di palesare al Re il vero stato del Regno; niuno che lo consigliasse a ben fare, tutti credendo bastare a prò del Monarca lo spirito favorevole della maggioranza delle popolazioni.

Per lo contrario erano chi dipingeva al Re, atto nefando il reagire, insano provvedimento il combattere ad oltranza il nemico.

I ministri s'ingegnavano a tutt'uomo di distrarre il Sovrano dal nobile divisamento di comandare Egli proprio le truppe e guidarle a guerra di offese; dicevangli pericolosa la reggenza, facile la discordia intestina; mentre d’altro canto vilipendevano l'esercito, spacciandolo indisciplinato e corrotto dalla rivoluzione.

Né ciò bastando; a scoraggiarlo di più, predicavano malvagia l'opera reazionaria; difficile il contenerla e mille altre cose di simil fatta asserivano, col reo intendimento d'infiacchire l'animo di lui e muoverlo a lor talento. E mentre queste cose dicevano, si adoperavano di aizzare i più corrivi a ribellare, spargendo nuove da cagionar tumulti.

Però affermavano le milizie esser pronte a reagire, gli abitanti della contrada di S. Lucia disposti a saccheggiare ed uccidere; facile ed imminente la rovina della patria.

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E con tale arte, riuscirono a strappare dai capi della guardia cittadina un indirizzo, che presentarono al Re, come prova irrefragabile della guerra civile da essi pronosticata (6 i).

Finalmente il ministro Liborio Romano. che lungamente erasi infmto avverso all’unità d’Italia ed aveva elaborate alcune bozze di proclami, nell’interesse dinastico, audace più d'ogni altro nel cospirare, presentò al Re il 20 Agosto una manifestazione del ministero, da lui solo firmata.

Noi non vogliamo compendiare questo importante documento, che rivela una inaudita tracotanza e preghiamo i nostri lettori di leggere il testo, che poniamo a suo luogo (65).

Re Francesco letta la scrittura che gli fu porta, oltremodo stupì dello inverecondo attentato alla Monarchia. Ma invece di fare imprigionare lo spergiuro ministro ed operare, che i magistrati lo punissero, stette muto. Ed il Romano, aspettando la risposta di lui, con fronte imperturbata rimase nel posto e continuò a congiurare.

Non essendo certo la setta d’aver vinto l’animo del Re, a cagione di quello scritto, avvisò prendere altri espedienti e si valse di S. A. R. il conte di Siracusa. Il quale, non appena Garibaldi pose piede in Calabria, diresse con pravi pensieri un'altra lettera al suo augusto nepote (66).

Questa lettera insidiosa, prima che fosse recata al Re, venne stampata su giornali e foglietti, non ostante il vigente stato di assedio e sparsa, sì nelle provincie, come nelle vie di Napoli.

Essa produsse l'effetto desiderato; addolorò il Principe; affievolì il braccio del soldato; compresse le aspirazioni dei buoni ed esaltò l'opera dei settari.

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Nondimeno, coloro ch'erano caldi della indipendenza della patria e volevano efficacemente combattere per essa, adunarono un comitato detto di salute pubblica; affissero ai cantoni delle strade un' appello al Monarca (67) e speravano appoggio nella energia del generale Cutrofiano, ritornato al comando della piazza di Napoli, invece dell'altro Ritucci

Il risvegliarsi degli autonomisti e della legittimità, fu di spavento alla setta ed al ministero, che senza indugiare dettesi ad operare per sopraffarli.

Minuta perquisizione venne fatta in molte case, credute sospette; furono arrestati molti cittadini, che avevan fama di onesti e s'incitò a tale la stampa rivoluzionaria, ch'essa giunse perfino a manomettere la dignità Sovrana, con invereconde accuse.

I capi della guardia cittadina si dissero pronti a combattere la reazione e chiesero soddisfazione dell’insulto, che aveva loro fatto il Cutrofiano, schierando nelle vie della città le milizie per tutela dell’ordine.

Ciò fatto i ministri, atteggiatisi a liberatori della patria, che dicevano salvata da eccidio, narrando al Re essere stata sventata quella ch'Eglino chiamavano cospirazione, accusavano il comandante della piazza di connivenza al sovvertimento e dimandavano l'allontanamento di lui, in omaggio alla pubblica opinione.

Il giovane Re leggeva ornai spedito nel libro delle insidie che gli si tramavano, mettendogli nella mente speranze del futuro. Ma per indole credulo e benigno, si faceva di leggieri convincere ad agire a suo danno. E difatti gli si strappò la promessa che non avrebbe sostenuta la guerra nella metropoli del Regno e levandosi a cielo

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la sua magnanimità, dai ministri suoi e dagli stranieri, consentì pure, che questa sua determinazione

Nondimeno, risoluto a combattere ed arrestare la marcia dell'aggressore Nizzardo, volle che due brigate, comandate dai generali Bosco e Won Mechel, (69) mettessero campo a Salerno.

Si fecero pratiche per comporre un nuovo ministero; ma il generale Principe d'Ischitella ed il Marchese consigliere Pietro Ulloa, che n' ebbero l'incarico, lo ricusarono per difetto d'uomini, che sapessero, o volessero acconciarsi ai tempi che correvano.

I rumori intanto del ministero contro il Cutrofiano e l’Ischitella stesso, crescevano ogni dì e nel consiglio di Stato del 31 Agosto, cui essi intervennero. minacciarono i ministri per forma, da indurii a domandare la esonerazione della carica ministeriale, esonerazione che non venne accettata dal Re.

Nondimeno, per ragione di conciliazione, dopo pochi giorni, fu nominato al comando della piazza di Napoli il generale Cataldo.

Il generale de Sauget, che come abbiam detto altrove, era stato eletto a comandar la guardia cittadina, aveva presentato un disegno di guerra per vincere Garibaldi ad Eboli con tre corpi di esercito, capitanati dal Re e che occupassero, Salerno, Noia e Nocera.

Il ministro della guerra ne aveva foggiato un' altro, cioè di andare Egli a comandare il campo di Salerno, per poi correre con sei battaglioni cacciatori, condotti dal Bosco, in Calabria; unirsi alla truppa del Vial e riconquistare quelle provincie.

Furono esaminati i due disegni, che concordavano nello scopo: il primo fu stimato impreferibile, sì perché umiliava

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l’augusta persona del Re, esponendolo a guerreg

Per assicurare, in ogni evento, la ritirata si crebbero le truppe in Avellino e Salerno e si postarono milizie, a Nocera ed ai Pagani, e tutto pareva apparecchiato alla riscossa.

Ma il generale Pianell metteva tempo in mezzo e per la seconda fiata ingegnavasi di schivare l’onore di capitano. Oscillante tra i doveri di soldato e le simpatie che scaldavangli il cuore per le nuove cose d’Italia, non volle appigliarsi ad un partito decisivo; sperava molto negli eventi e dava opera a giovare la rivoluzione, senza mostrare apertamente di secondarla.

Laonde fattosi aspettare tre giorni al campo di Salerno, vi mandò in sua vece il maresciallo Gaetano Afanderivera,

Questi studiò il terreno; provvide con mezzi passeggieri di fortificazione alla difesa e mutò dai posti avanzati i corpi stranieri, creduti propensi alla seduzione.

Erano a Salerno dodici mila uomini, desiderosi di battaglia e la speranza di vittoria infondevasi ogni dì nel loro animo, in considerando che avevasi a combattere, in aperta campagna, un nemico poco disciplinato ed abituato a vincere con le arti della seduzione e dell'inganno.

Intravide la rivoluzione d’essere fiaccata sul piano d'Eboli; e per evitarlo, sparse nel campo triste nuove del Re e dello esercito e cominciò a subornare la soldatesca. Ma il Bosco rassicurò i suoi, con opportuna manifestazione, che inculcava di non credere a falsi racconti e di star saldi a difendere la propria bandiera.

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Nella Reggia i tristi ingannavano il Monarca e voci sconfortanti, di allontanamento di soldati dall’esercito, echeggiavano in quelle sale.

Il Re sapeva d’essere tradito; ma per bontà d'animo si lasciala spesso condurre a falsa credenza. I generali, su i quali faceva maggiore assegnamento, erano divenuti pusillanimi e non osavano di proporre energici provvedimenti; non ardivano consigliare un appello al paese, per abbattere le forze vive della rivoluzione. Né il Re, per verità, seppe spontaneamente deliberarsi a ciò. Aveva promesso di non far versare inutile sangue e temeva che, in Napoli, se ne versasse sospendendo lo statuto, per sostenere il Regio dritto. Parevagli savio consiglio di sacrificare la sua persona; generosità il cedere al presente. con la speranza dell’avvenire della Monarchia. In tanto scompiglio, nulla si risolveva; prevalevi? sempre la dubbiezza e la rivoluzione acquistava tempo, per agire e consolidare l'asseguimento del fine.

Pure si volle che ciascun generale desse avviso scritto sul morale delle truppe che comandava e non fu alcuno, che le dichiarasse ribelli al Re ed alla patria. Molti le qualificarono volonterose: altri le dissero capaci di prospere imprese e solo pochi risposero di non poter giudicare sì facilmente di esse.

Il generale Bosco, invitato a dare parere delle sue milizie, disse di bel nuovo, essere i soldati anelanti dì battaglia.

Ma poiché Egli aveva ordinato nei corpi una votazione segreta di uffiziali e solo l'ottavo dei cacciatori, comandato dal tenente colonnello Antonio Nunziante, aveva, quasi ad unanimità. manifestato di non aver fiducia nei soldati, chiese che questo corpo fosse tosto tramutato altrove.

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Intento il generale De Sauget. che mai allontanavasi dal Re, in un consiglio di generali nel di 3 settembre, disse inutile la lotta in Salerno e propose di resistere a Garibaldi sul Volturno, mandando le truppe al di là di Capua.

Il Re dubitò che questo nuovo disegno, celasse una insidia per farlo uscir di Napoli e volle pensarvi.

Adunò nuovo consiglio di generali e con voce autorevole impose a ciascheduno di dichiarare il proprio divisamento. Il Principe d'Ischitella preconizzò disastri a Salerno ed avvisava difender Napoli energicamente. E quando vide che il suo parere, non si accettava, si dichiarò sciolto dai vincoli del militare e disse non potersi far guerra in alcun luogo, meglio si sciogliesse l’esercito. Pianell, che non aveva voluto andare, né in Calabria, né in Salerno, affermava, essere le milizie talmente indisciplinate a cagione del sospetto di fellonia dei loro duci, il quale veniva dalle male voci che artifìziosamente la rivoluzione spargeva, da non potervisi fare assegnamento: si esonerò dal carico di ministro e il dimane, udendo appellarsi traditore, per non fare la fine del generale Briganti, scrisse al Re una lunga lettera in sua difesa ed uscì del Regno.

A noi nove anni or sono capitò tra mani questa lettera e non solo potemmo avere agio di leggerla, ma anche di copiarla. Nondimeno, per debito di ossequio verso chi, confidando nelle nostre mani quel foglio, ne vietava di pubblicarlo, volentieri ce ne restiamo.

Won-Mechel, aveva già disapprovato il campo a Salerno e notava poter'essere girato ai fianchi dalla parte di Benevento. Da ultimo Bosco, che aveva cotanto propugnato la difesa di Salerno; dubitando dello sbandamento della milizia, nell'istante del conflitto. propose di metter campo in Noia; poi per dolori ai lembi, dimandò che altri il sostituisse nel comando.

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E saputo la sera del 5 settembre, che Garibaldi avrebbe assalito i napoletani il domani, per non esser fatto prigione in letto, chiese congedo con intendimento di recarsi in Napoli. Ma prima di giungervi, fece sapere al Re, per mezzo del conte di Trapani, che i soldati non avrebbero combattuto e che meglio sarebbe stato di affrancare dal giuramento le truppe, prima che si verificassero nuovi scandali.

Tali pareri dissonanti tra loro, ma concordi tutti nello sconsigliare la resistenza in Salerno, fecero che il Re non sapesse a qual partito volgersi.

In tanto conflitto di opinioni, entrava nel golfo di Napoli l'armata napoletana, senza bandiera, e con ciò raffermava la sua simpatia alla ribellione.

Il Re sperò salvare l’esercito, menandolo in Capua. Egli si stimava felice di uscire dagli artigli del ministero e di respirare aria men contaminata da perfidie. Credeva, che facendosi a trattar cose che si attengono alla sola milizia ed a ricomporre le soldatesche, dietro argini naturali, migliorerebbe le sorti del Reame e della dinastia. Arroge, che il giovane Principe, sapendo che Garibaldi minacciava eziandio gli stati della Chiesa, divisava d'intendersi col capo di essi, per combattere insieme lo stesso nemico.

Laonde consentì di richiamare le truppe di Salerno d’Avellino e quante altre erano fuori la capitale, per mandarle tutte al di là del Volturno, facendo centro di operazioni la piazza di Capua.

Convocato il consiglio di Stato, il sei settembre, si decise di partire per Gaeta.

Prima di lasciare la capitale del suo Reame, chiamò a se i comandanti della guardia nazionale, e disse loro

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calde e commoventi parole, in favore del popolo, dell’ordine e della sicurezza della Metropoli;

Poscia con animo sereno e rassegnato, dimostrò la dignità che deve l’uomo serbare negli infausti giorni della sventura. Egli era lieto di essere, più che al rigore, propenso alla clemenza e si accinse a lasciare la Reggia dei suoi avi insidiata da tristi, per tentare l'ultima volta la sorte delle armi, in cui riponeva oramai la salute del trono e dell’autonomia del Regno.

Divulgatasi la nuova della partenza del capo dello stato, sparve ogni visibile agitazione settaria e ad essa successe una calma angosciosa. Gli onesti si ridussero nelle ville, o emigrarono, ed i tristi raccolti in loro stessi, con tetra quiete, aspettavano l'ora già vicina delle baldorie.

Parecchie persone della corte ed alcuni oficiali civili, si affollarono alla Reggia con domande di essere disciolti dai loro obblighi, ed esauditi, alcuni lasciarono il Regno.

Molti generali ed uffiziali, che non avevano comando di truppe, si affrettarono di offrire i loro servigi e ricevere gli ordini del Sovrano; ma loro fu risposto, che restando truppe nella capitale, essi dovevano rimanere negli incarichi che adempivano, in aspettazione di futuri provvedimenti.

Il regime governativo rimase al ministero Spinelli, che in ossequio de' nuovi principi politici, faceva sparire la indipendenza della patria.

Questo ministero, per raccogliere il frutto delle sue prave opere, si aveva procacciato una testimonianza di affetto e di fiducia dai capi della guardia cittadina, che si dissero interpetri del sentimento di tutto il popolo (70).

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Sebbene i fatti della marineria napolitana fossero stati tali da fare, o poco, o niuno assegnamento su i legni da guerra nondimeno il Re, che ne ignorava i più gravi, sopra di essa sperava,, ed ordinò che il navilio seguisse (71). Ed il ministro Garofalo, il Direttore Capecelatro ed il maggior generale Jauch, della marina, avutone il comando, promisero di obbedire.

La darsena, l'arsenale marittimo il palazzo Reale ed il castello nuovo, furono, affidati al generale Bartolo Marra.

Le castella furono provvedute di vettovaglie, per renderle atte a difesa, in caso di aggressione.

I banchi si rimasero, intatti e guardati, ritraendone solo il bisognevole per due mesi alla soldatesca.

Nel comando d'ella piazza fu confermato il Cataldo, cui fu ingiunto di stare sulla difesa; di tutelare l'onore dello esercito e l'ordine pubblico e di dipendere dal ministero. Spinelli, lasciato al potere.

Rimasero nella capitale circa diecimila uomini, spartiti nelle castella ed in alcune caserme, i quali dipendevano dal generale Cataldo (72)..

Il Re fermato di partire il giorno sei settembre, volle pubblicato ai suoi popoli un proclama che rivelava la grandezza del Principe nella sventura (73), ed il decreto, col quale concesse ai condannati a pene temporanee e durature, per qualsivoglia delitto, munificenza e perdono (74).

Inoltre fece opera, che una protesta si facesse a tutte le corti d’Europa in nome suo, e volle che anche al popolo si manifestasse (75).

Il ministero nelle ore vespertine del 6 stesso, si recò ad ascoltare le ultime parole dell’ingannato Monarca II quale lo ricevette con dignità, loro imponendo l'obbligo

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di fargli rapporto di qualsivoglia cosa avvenisse, e dentro la capitale, e fuori..Poi volse a tutti l'addio; diresse gravi parole al ministro Liborio Romano, che anche in quel momento voleva celare le sue perfidie e mantellare le sue scelleratezze, ed inculcò al Sindaco Principe Pignone Alessandria ed al generale De Sauget, capo della guardia cittadina, con amorevoli parole, la tutela dell’ordine.,

E quest'ultimo, raccogliendo l'augusto saluto, domandò al Re che gli desse un ricordo della sua Real persona. E visto sulla scrivania un temperino, presolo, piangendo disse, quello averlo come memoria di lui.

Poi il Re, con lettera di suo pugno scritta, lasciò al Presidente Spinelli, facoltà di reggere la pubblica cosa.

Adempiuto questo dovere, imbarcò sul vapore la Saetta, comandato dal tenente Criscuolo e tra le acclamazioni e gli evviva dei marinari della flotta, partì, seguito dall’altra piccola nave il Delfino.

Erano col Re la giovane Regina; l’eccelsa signora Duchessa di S. Cesario; i Duchi di Sangro e di S. Vito; il Principe di Ruffano: l'ammiraglio del Re; qualche uffiziale di Stato maggiore ed il segretario di lui commendatore Ruiz.

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CAPITOLO XV.

Garibaldi si trattiene in Salorno — Il prefetto di polizia esorta i cittadini alla calma — Il ministero nega obbedienza al Re — L'armata disobbedisce al Sovrano e si da alla rivoluzione — Liborio Romano invita Garibaldi ad entrare in Napoli e pubblica per le stampe un proclama indiritto ai cittadini — Il generale De Sauget corre a salutar Garibaldi in Salerno — 11 Sindaco di Napoli dichiara il corpo della città essersi disciolto—Proclama di Garibaldi ai napolitani — Ritucci comandante in capo delle truppe napolitane sul Volturno — Gaeta residenza Reale e dei rappresentanti delle corti estere.

Garibaldi intanto giunto in Salerno, aveva fatto sosta per aspettare il momento in cui potesse fare il suo ingresso nella capitale, fra gli osanna dei partigiani.

Le masse del popolo seguirono col pensiero e con lo sguardo il Re. che s'era partito per salvarlo dalle stragi d’una guerra civile,

Nullameno, non vi fu una voce di compassione verso un' augusto infortunio, ché nel tumulto delle passioni esacerbate, i giusti temevano, i devoti tremavano e tutti far dovevano, come avviene nei civili rivolgimenti, causa comune con l'apparente maggioranza. Sopratutti fu indifferente il basso popolo, quello che in Napoli suoi farsi zimbello di qualunque per fortuna vi arriva. Questa classe di gente, tanto proclive al tumulto e feroce nelle favorevoli occasioni, quanto adulatrice e bassa nei tristi eventi, è sempre pronta a mutar partito. a misura che cangiano i tempi, sol che giunga a satisfarne l'ingordigia.

La rivoluzione ammaestrata dall’esperienza, sapendo

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Ma ciò non ostante, il prefetto dì polizia non trasandava di esortare i cittadini alla calma ed alla moderazione (76).

Partito il Principe; il ministero gli negò obbedienza? infranse ogni dovere; ruppe le relazioni con esso e per disparità dei politici pareri, parte si sciolse dai vincoli ond’era ligato e parte esulò, lasciando l'avvenire della patria nelle mani del solo ministro Liborio Romano.

Il Municipio di Napoli, il solo del Regno che aveva resistito agl’incitamenti della setta, unanimamente deliberò di non aderire al nuovo ordinamento governativo; e per non esservi costretto, suo malgrado, si sciolse senza neppure dimandare congedo.

L'armata, che poc'anzi aveva solennemente promesso di navigare per Gaeta, non tenne la parola, non si mosse dal porto, sebbene il Re per mezzo del capitano Rapisardi dello stato maggiore, che spedì in Napoli, avesse fatto opera di richiamarla ai sensi d'onor militare. Il Rapisardi non tornò più in Gaeta a render ragione della commessione avuta; preferì di militare nello esercito garibaldesco, detto poi meridionale, ed il maggior generale Jauch ebbe l’audacia e la inaudita baldanza, di non rispondere nemmeno all'ammiraglio del Re, che chiedevagli da Gaeta i legni in armamento, gli archivi, le macchine per le riduzioni dei fucili ed il carbone già preparato (77).

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Intanto Liborio Romano, nelle cui mani era la somma delle cose; veggendo scissi i rivoluzionari in partiti, per consolidare la vittoria riportata con tante trame, invitava Garibaldi ad entrare in Napoli (77), stampava un proclama indiritto ai cittadini (78) e preparava le luminarie, che dovevano aver luogo alla venuta del dittatore.

Il generale de Sauget correva a Salerno per salutare Garibaldi e pregarlo a non più indugiare il suo ingresso nella capitale del Regno e menava seco il sindaco di Napoli Principe d'Alessandria. Il quale, ingannato su le vere condizioni della forza dì Garibaldi, e però credendo ch'essa fosse bastante ad impedire i tumulti, che facilmente potevano produrre i discordanti partiti, aveva consentito di pregare il nuovo dittatore, che senza por tempo in mezzo fosse entrato nella Metropoli. Ma visto la forza di Garibaldi, essere cosi scarsa da non potersi ottenere il fine ond'Egli erasi colà recato: manifestò al dittatore, non per altra ragione stare dinanzi a lui, se non per dichiarargli, non volere il corpo della città di Napoli obbedire ad altro governo, e però essersi disciolto.

Ed il condottiero Nizzardo maravigliato Egli stesso dei fatti compiuti, che reputava una fantasmagoria, tosto prese la penna e scrisse una proclamazione, che diresse al popolo napolitano (79).

Alla chiamata del Re le truppe che erano tuttavia in armi, si raccolsero verso la dritta sponda del Volturno, tranne quelle che sopraffatte dalla rivoluzione, o ingannate, restarono nella propria residenza. Centro di riunione per tutti fu Capua.

Quelle che trovavansi in Salerno e luoghi circostanti, comandate dallo Afanderivera, il 5 settembre, avuto l'ordine di recarsi in Capua, marciarono a quella volta.

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La gendarmeria, che in tutto il napolitano ascendeva a circa settemila uomini tra fanteria e cavalleria, divisa in cinque battaglioni e cinque squadroni, parte superata dal numero in parecchi luoghi fu disarmata dagli insorti, parte seguì il Re; ma il maggior numero restò ove si trovava e sotto il dominio della rivoluzione. Molti aderirono al novello ordine di governo; (80) ma durante la campagna non pochi uffiziali, sottuffiziali e gendarmi, raggiunsero volonterosi la propria bandiera non senza correre gravi pericoli, aprendosi la via, chi a traverso i monti e i boschi, chi per mare affidati a fragili barche e chi, con imprudenza ed audacia, traversando il campo nemico sotto mentite spoglie.

E vi furono drappelli, che pervennero al campo del Re, serbando intatta la propria divisa ed armati, dopo aver sostenuta anche qualche scaramuccia lungo il cammino.

Delle truppe sbandate e disarmate, buona parte pervenne a Capua a piccoli drappelli dai più remoti punti delle Calabrie e delle Puglie, dolenti del loro infortunio; imprecando contro chi li aveva traditi e venduti e risoluti di combattere fino all’ultimo respiro, per la causa del Re e del paese.

La cancelleria del comando generale delle armi residente in Napoli, il 6 settembre, (81) con tutto il personale degli uffiziali dello stato maggiore dell’esercito, fu trasferita in Capua (82).

Tutte le truppe riunite tra il Volturno ed il Garigliano, furono messe sotto gli ordini del maresciallo di campo Giosuè Ritucci.

Il comando generale rimase implicitamente fuso nel comando in capo, e però alla dipendenza del Ritucci, tutti gli uffiziali dello stato maggiore.

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Furono date talune sommarie istruzioni (83) al supremo comandante, ed Egli scrisse dapprima un rapporto sconfortante (84). Ma accortosi dalla risposta, (85) che il Re voleva onninamente mantenere, quanto aveva scritto all’Imperatore dei Francesi nel mese di Agosto (86), dette alle truppe un primo provvisorio ordinamento (87).

Per la pronta comunicazione dei dispacci Reali e ministeriali e degli ordini fra i diversi alloggiamenti delle truppe e le piazze di Capua e Gaeta, non meno che per provvedere alle necessaire perlustrazioni, fu stabilita una linea di stazioni di gendarmeria 'a piedi od a cavallo a discrete distanze, la quale divergendo a destra, si estendeva fino ad Isernia, punto strategico interessante, che da vantaggio di operare verso gli Abbruzzi e verso la limitrofa Provincia di Molise.

La piazza di Gaeta. oltre le forze di artiglieria necessarie pel servizio della loro instituzione, aveva un presidio di truppe di linea, forte meglio che cinquemila uomini (88) e la città divenne residenza Reale, essendovisi ritirato il Re con la Real famiglia e quanti della corte potettero e vollero seguirlo (89).

Colà pure si stabilì la residenza di tutti i rappresentanti delle corti estere (tranne quelli di Francia, Inghilterra e Sardegna che rimasero in Napoli) dei ministeri di stato (90) e delle direzioni generali delle anni speciali ed ispezioni di fanteria e cavalleria.

Dei trentasei legni, dei quali componevasi la marina da guerra delle Sicilie (91), oltre a molti altri legni di poca importanza, il Re non potette disporre in Gaeta che di sei soli; cioè della fregata a vela Partenope, dell'altra Sannita ch'era per cagione di raddobbo nel porto di Tolone, dei brigantini a vapore a ruote Saetta, Messaggiero e Delfino

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e del legno a vapore Etna avuto a no lo: tutti gli altri legni, erano passati al servizio della rivoluzione.

Il corpo dei cannonieri marinari, composto per la più parte di napolitani delle rive di S. Lucia. Ghiaia, e Posillipo, noti per tradizionale devozione alla dinastia Borbonica, recossi quasi per intero sotto le insegne costituzionali, in Gaeta. Questi valorosi marini, animati da un' entusiasmo che rivelava il loro pronunziato sentimento di affetto alla causa del Re, furono di grande ausilio all’artiglieria della piazza di Gaeta ed al piccolo navilio che ancorava in quel porto.

Oltre del corpo di Esercito operante messo sotto gli ordini del Ritucci; altro piccolo corpo composto di milizie tratte da Gaeta, era posto nei confini del Regno verso Isoletta, estendendosi fino ad Isernia, sotto il comando del maresciallo Luigi Scotti Douglas,

Gran numero di volontari si raggranellavano verso Itri e luoghi vicini e tra essi si ponevano uffiziali e soldati dei corpi che rimasti in Napoli s' erano sciolti, come diremo tra poco. A questi volontari si avvisò di dare per condottiero il colonnello Klische de la Grange, col mandato di ripristinar l'ordine ed il rispetto alle leggi in tutti i paesi delle provincie di Terra di Lavoro e degli Abbruzzi.

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CAPITOLO XVI.

Entrata di Garibaldi in Napoli — Ministero garibaldino — Il generale Cataldo obbedisce al ministro della guerra di Garibaldi — Le truppe napolitano rimase in Napoli, parte si sciolgono, parte servono Garibaldi, e parte vanno in Capua—I castelli della capitale sono ceduti a Garibaldi— Le Reali guardie del corpo a cavallo vengono sciolti—Alunni del Real Convitto militare che si recano in Capua— Gli uffiziali in Napoli ricevono ordine di andare in Gaeta — Molti tra essi servono Garibaldi — Considerazioni sulla guerra che si preparava sul Volturno — Sentimenti dei quali era informato lo esercito sul Volturno—Breve storia dell’esercito napolitano.

Il giorno sette settembre era riserbato all’ingresso del dittatore nella capitale delle Sicilie.

Sin dai primi albori la città era in uno straordinario movimento e per opera dei partigiani, vedevi le strade, i balconi, le finestre, i palagi dei patrizi e le modeste case dei popolani, ornate di bandiere tricolorate con in mezzo le armi Sabaude.

La guardia cittadina, raccolta in armi, distendevasi lungo la via che doveva percorrere Garibaldi, tra le preparate ovazioni del popolo, fatto divenir frenetico, per rendere a lui gli onori. Ed un battaglione di questa medesima forza, fu schierato innanti la stazione della ferrovia.

Poco prima del mezzodì, Egli entrò in Napoli con entusiastiche acclamazioni, accompagnato da tutte le deputazioni ch'erano andate a riceverlo in Salerno, da de Sauget comandante la guardia cittadina e dal ministro Liborio Romano.

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La via del Piliero, per la quale passar doveva il corteo dittatoriale, era stipata di gente, sì che per percorrerla vi si dovette impiegare meglio che un' ora.

Una pioggia di fiori cadeva sul cocchio trionfale da tutti i balconi, fra le fragorose grida di viva Vittorio Emmanuele, viva l'Italia una ed indivisibile.

Garibaldi s'avviò al palazzo Reale detto della Foresteria e vi fu ricevuto dai maggiori della guardia cittadina e dai più famigerati cospiratori. Egli dovette più volte mostrarsi dal balcone per contentare coloro, che col cuore e con la fantasia piena di lui, volevano rivederlo ad ogn'istante.

Mariano d'Ayala, che faceva parte di quel corteo, nella gran sala ov'ebbe luogo il ricevimento, lesse alla presenza del dittatore, un discorso allusivo ai meriti di lui ed alla memoranda, comeché acerba occasione (91bis).

Garibaldi pubblicò il primo decreto e compose il suo ministero (92).

Tutti i bastimenti da guerra appartenenti allo stato delle Sicilie, arsenali e materiali di marina, addivennero proprietà del Piemonte, ché l'armata del Regno era passata intera al servizio della rivoluzione, eccetto pochi uffiziali e la maggior parte dei soldati cannonieri e marinari, che seguirono il Monarca in Gaeta, e pochi altri dei primi, che chiesero poi il riposo.

Il Re dunque era rimase senza legni, meno quelli già indicati.

Il generale Cataldo, che aveva il mandato di rimanere in Napoli, con le truppe ivi lasciate, a tutela dell'ordine ed a difesa di tutto ciò che apparteneva allo Stato, e di obbedire al ministero Spinelli; quando vide al potere il dittatore, con un governo tutto proprio, avrebbe dovuto protestare ed adottare provvedimenti energi

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reggimento fanteria di marina, retto dal colonnello Francesco Nunziante ed il decimoterzo dei cacciatori, comandato dal maggiore Golisani, si sciolsero, negando obbedienza ai loro comandanti, che fecero ogni opera per mostrarsi propensi ai voleri del governo dittatoriale. Di queste truppe, parte andarono spontaneamente in Capua, parte ritornarono alle loro case e solo pochi restarono a servire la rivoluzione.

Del sesto reggimento di fanti che comandava il colonnello Perrone, otto compagnie raggiunsero il Re in Capua, imitando l'esempio del nono reggimento pure di fanti, che come diremo tenne saldo l’onor militare, e quattro compagnie, quelle che presidiavano il forte S. Elmo, si sciolsero.

Il nono di linea or nominato, che trovavasi nel Castello nuovo, parti da Napoli il mattino dell’8 settembre, condotto dal proprio colonnello Girolamo de Liguoro, in perfetta ordinanza, e con le spiegate insegne ed a tamburo battente, traversò le strade della capitale con nobile contegno in mezzo ai cospiratori più ardenti, che festeggiavano ancora la presenza del Garibaldi. Questo corpo giunse in Capua tra le acclamazioni di tutte le milizie, rimaste fedeli al loro Principe (93).

La gendarmeria, i veterani, l'artiglieria e la compagnia zappatori, per opera dei loro capi, rimasero a militare in favore del governo dittatoriale.

I castelli che dovevano gelosamente custodirsi, serbando militare isolamento e neutralità perfetta col Governo

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Gran parte della compagnia delle Reali guardie del corpo a cavallo avrebbe seguito il Re.. Ma niuno dei superiori seppe ordinare,. o suggerire ciò che conveniva al decoro di sì distinta corporazione. E questa, negligenza fu cagione, che un solo Esente, il conte Luigi Milano,, seguisse il Re in Gaeta ed appena diciassette guardie, ed i più che di recente erano stati ammessi a quella compagnia,. si trasferissero in Capua per militare; ove d'ordine sovrano, vennero incardinati nei corpi di cavalleria o fanteria: il resto della compagnia fu sciolto dal Garibaldi (95),

Alcuni alunni del Real convitto, militare uscirono dia esso per propria volontà e prcsentaronsi in Gaeta, bramosi di propugnare anch'essi la causa del Re e della patria e furono, nominati Alfieri delle armi speciali (96).

Agli uffiziali isolati ch'erano, rimasti in Napoli e nelle direzioni d'ogni branca militare, e negli stabilimenti dello stato, e nel comando. degli spedali ed in altri luoghi, non meno. che a tutti i sedentanei, fu fatto noto l'ordine del governo del Re di recarsi in Gaeta fra quattro giorni,, sotto, pena di essere cancellati dai ruoli. Ma di costoro ben pochi obbedirono, massime quelli, delle armi speciali. I più, o, per simpatia verso il nuovo ordine di cose, o, per anteporre i proprii interessi al dovere, aderirono al novello governo, quando ancora sventolava il vessillo della indipendenza della patria in molti luoghi del Regno. E ne furono veduti di poi, alcuni pugnare contro la propria bandiera

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sotto la quale avevano fui dalla infanzia militato, altri apparecchiare cannoni munizioni ed ogni altra cosa per combattere i fratelli d'arme; altri servire il nemico a condizione che loro si risparmiasse l’onta di guerreggiare contro i conterranei.

Tutti furono messi con un grado di più nel così detto esercito meridionale e pochi soltanto preferirono la vita domestica e quella di cittadino, per non militare in favore di Garibaldi.

Allo stessa tempo si recavano spontanei in Gaeta offerendo i loro servigi, che vennero accettati, due uffiziali dei disciolti reggimenti svizzeri ed il ministro della guerra, lodando il fatto, ne emanava opportuna manifestazione all’esercito (97).

Intanto il Re segnalava da Gaeta al generale Ritucci in data del 7 settembre, che tutte le truppe riunite in Capua e nei dintorni, formavano un corpo di Esercito, destinato ad operare sul Volturno e del quale esso Ritucci doveva essere il condottiero. Ancora disse, che le truppe dopo alquanto riposo andassero ad occupar posizioni, che fossero di guarentigia contro qualsivoglia ardita mossa dell’oste avversa e che si procurasse con ogni mezzo di far venire da Napoli tuttociò che potesse essere necessario alle soldatesche (98).

Poco dopo inculcò di far ritirare da Maddaloni per la ferrovia ogni cosa che fosse stata di uso alla milizia che ivi era, di far. trasferire il battaglione degli allievi militari in Capua e finalmente trasportare tutte le macchine di quella strada, affine di diminuire al nemico i mezzi di rapida comunicazione e di facile trasporto di armati.

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Questa disposizione nondimeno, non ebbe il suo effetto, perché il governo di fatto instituito nella capitale, già comandava all’amministrazione ferroviaria. Quindi il generale Ritucci operò, che si tagliasse la strada in un punto, che fosse oltre la passata delle artiglierie di maggior calibro, che stavano sulle difese di Capua, ed il fabbricato della stazione, debitamente fortificato, ad, divenisse corpo di guardia per un posto avanzato.

Oramai una lotta decisiva era la generale aspettazione nel Regno e fuori: tutti gli sguardi; tutte le menti erano rivolte alle ultime imprese, del dittatore, che dovevano por termine alla insurrezione, sia con la vittoria del principio unitario, sia col trionfo dell’autonomia del Regno delle Sicilie.

Lasceremo Napoli raccorre armi ed armati, formar coorti e falangi per muovere contro Re Francesco, che tradito nella Reggia., entrava nel campo da Re e soldato, per sostenere i dritti della corona e non cedere che da valoroso; lasceremo i ribelli e gl'ingannati nelle loro gioie e nei loro smodati deliri, tra un odio che dimostravano contro una signoria sventurata e tra le aspirazioni verso un nuovo propugnato risorgimento; lasceremo le passioni sbrigliarsi e cozzare tra loro; i timori e le speranze alternarsi e ci fermeremo innanti alle sponde del Volturno, riserbate a nuovi olocausti di guerra fratricida, fra due parti nate in seno ad una medesima patria.

Là vedremo con dolore, famiglie divise in due opposti partiti, per combattere l'uno contro l'altro, entrambi per un principio nazionale diverso tra loro. Da un canto soldati, che fedeli alla religione del giuramento dato al Re ed alla patria, difendevano il trono minacciato e con esso la costituzione del paese;

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dall'altro

Gli uni occupavano la riva destra del Volturno, la sinistra gli altri. La tenzone si presagiva formidabile; la soluzione del problema era nella fortuna delle armi.

Ma dopo che la fazione unitaria riportò trionfi da Marsala a Palermo e poi da Milazzo a Napoli, chi osava porre in dubbio che avrebbe continuato a noverare lieti successi contro truppe, i cui disastri venuti l’uno appresso all’altro e cagionati, o procurati dai loro condottieri, ne avevano affievolita la virtù? Però il giudizio dell’universale già pronunziava la sentenza e la causa del Re avendosi come spacciata, alcuni uffiziali della milizia abbandonarono la loro bandiera e con essa, ingenerosamente, lo sventurato loro Re. (98 bis)

Nondimeno l’esercito rimasto in armi sperava ancora nella sua possanza e nella sua fede, per tentare l'ultima volta una rivincita che lo rinfrancasse appo la critica imparziale, e mostrandosi qual esso era stato in tutti i tempi, riconfermare solennemente la sua storica rinomanza.

Le milizie erano convinte, che le patite militari sventure erano avvenute per colpa dei loro generali e che ben dirette ora, avrebbero agevolmente trionfato del nemico.

Checché taluni abbiano detto della soldatesca napolitana, in momenti in cui le passioni han fatto velo al senno, a discapito anche delle cose patrie e dimentichi che l'onta di questi è pure onta loro; certo è, ch'essa

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Ed a tale proposito ripetiamo con un scrittore, che chi racconta cose di guerra deve procedere guardingo nell’ammettere credenze ed opinioni che emanano da aspirazioni troppo fresche e passionate. Egli deve immaginare di parlare in un tempo, in cui spento l'ardore delle parti, vengono i fatti raccolti dalle labbra del vecchio soldato, spogli d’ogni estraneo carattere e di orpello; imperoché niuna stagione é tanto favorevole al vero, quanto quella che s'interpone, tra una generazione vicina a sparire ed un'altra, che sorge scevra delle paterne passioni, ma non muta all’aspetto delle domestiche sofferenze e delle patrie memorie.

In una fantasia esaltata dalle novità l’amor del vero cede allo spirito di parte ed arriva a sconoscere le stesse cose che, per orgoglio nazionale, si dovrebbero detestare.

Le truppe dunque mostravansi animate da salutare emulazione per la causa che difendevano; e comeché per la seduzione dei tempi e dei recenti scandalosi fatti di Sicilia e di Calabria, la loro disciplina fosse alquanto indebolita, nullameno il loro sentimento di fedeltà al Re' era grande e però capace di far tornare il valore, anche nelle più ardue imprese.

Era principio fondamentale nella coscienza di tutti, la devozione al Sovrano, l'amore al proprio paese, e gli animi erano determinati a combattere fino all’ultimo respiro per rivendicare l'onore dello esercito pa

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A questi intendimenti aggiungevasi, ch'essi sapevano che al cospetto dell’Europa, impassibile spettatrice ed esaminatrice dei fatti compiuti e di quelli ch'erano per compiersi, l'adempimento del loro dovere, diveniva pruora di fedeltà e di valore, il cui evento, qualunque si fosse, doveva far giudicare rettamente, anche dallo stesso nemico, della maniera di combattere.

È certamente doloroso vedere che l’esercito napolitano, a cagione della rivoltura sì del 1860, che di quelle che la precedettero, dovendo aspreggiare coloro che le promuovevano e le aiutavano, rassembrava nemico al paese. Ma se si pone mente alla verità delle cose e si fa giustizia a chi servendo lo stato, deve pel bene di esso ubbidire alle leggi e compiere i doveri che ne derivano, il giudizio sarà per certo men severo e più giusto. E farebbe mestieri che tutti ricordassero e sapessero le instituzioni regolatrici della vita civile delle nazioni e la storia di quei tempi, che per senno e per civiltà vinsero i nostri; ché non sarebbe chi non affermasse,, che il soldato in qualunque condiziono, si trova, purché compia il suo dovere, è sempre benemerito di tutta l'umana famiglia e di qualunque ha in pregio l'onore.

I giudizi che si son fatti delle armi napolitane sono stati inspirati dalle proprie passioni e forse quelli dei combattenti nemici, sono i meno inesatti. Nessuno però nel qualificare questo esercito ha valutato i servigi da esso renduti al paese, così nei lieti, come nei tristi eventi.

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E non t'incresca o lettore, che noi ci soffermiamo per poco innanzi alla storia di lui; conciossiaché questa ricordanza potrebbe riuscire utile a coloro, che amassero di averne, in brevi parole, sovvenimento.

Cominceremo dalle guerre degli antichi Romani, peroché non pochi furono i nostri connazionali che si re sero celebri nelle armi, sin da che Roma libera imperò per lungo volger di anni su tutto il mondo.

La storia ha consacrata la fama del valore onde si resero celebri i Sanniti, i Campani, i Peligni, i Marzi, i Frentani ed i Calabri. Né essa tace dei grandi capitani che onorarono i paesi, i quali composero il Reame delle Sicilie, e rammemora le geste di Ajace da Locri. Milone, Crotoniate. Ottaviano e Prescennio Imperatori romani, Caio Mario' di Arpiuo, e Ruggiero di Loira, Ettore Fieramosca di Capua, Gualterio di Celano. Riccardo Filangieri, Giacomo Caldera e Giovanni Antonio suo nipote, Cesare Maggio, Giuseppe Cantelmo, Ferrante ed Alfonso Marchesi di Pescara e cento altri insigni capitani, che nacquero nel Regno e si coprirono di allori in Italia e fuori.

E risalendo, alla signoria dei Normanni, troveremo il valore napolitano fare onore al paese in Oriente ed in Italia e poi sotto gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi; non meno che in Fiandra ed in Catalogna e lino in Francia, nei tempi che le turbolenze l'agitavano.

Narrando poi le vicissitudini di guerre dal di della restaurazione operata dal terzo Carlo di Borbone nel 1744, insino ai tempi nostri, vedremo i soldati napolitani, benché di recente ordinati, ritornare vittoriosi dalla memoranda battaglia di Velletri, dopo aver vinto vecchie ed agguerrite milizie Austriache.

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Il 1793 ne ricorda il valore dimostrato dal soldato napolitano per terra e per mare innanzi Telone, accanto alle flotte alleate di Spagna, Inghilterra e Sardegna ed in ispecie in proteggere la ritirata dei soldati Britannici inseguiti dal nemico.

Nel 1704 la perizia e la bravura della marineria napolitana contro la Corsica, riscosse gli encomi dell'Inghilterra.

I campi lombardi provarono qual fosse il valore napolitano nella guerra del primo Napoleone, il quale diceva un dì «mi sono avveduto che fra i nostri nemici non era la bella e buona cavalleria napolitana, perché la vittoria è stata men contrastata».

L'ammiraglio Sir Hotham dopo il combattimento tra la flotta AngloSicula e la Francese nelle acque di Savona, scrisse «Mercé, la perizia della marineria napolitana i Francesi perdettero due Vascelli ed un brigantino ed altre navi, sdrucite, a stento potettero riparare nel porto di Telone».

Ognuno sa come i soldati napolitani si aprissero la via fino alle frontiere toscane a traverso l’agguerrito esercito Francese e quante altre prove di straordinario valore, dettero nelle diverse guerre allora sostenute e particolarmente nella difesa della capitale. Lo disse lo stesso generale nemico, che così scriveva al governo di Francia «popoli e soldati erano altrettanti eroi rinchiusi in Napoli; uomini maravigliosi cui noi assalimmo con furore pari a quello, onde ne fu contrastato il terreno palmo a palmo e giammai fu combattimento più accanito, macello più spaventevole».

Anche nelle sventure le armi napolitane meritarono lodi nel 1798. Un esercito privo affatto di buoni elementi di guerra, lino a far tirare le artiglierie da buoi;

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Nel 1806 diciotto mila napolitani tennero forte a 50 mila francesi reduci da rinomate battaglie. Quella guerra fu specialmente segnalata dalla eroica difesa di Civitella del Tronto e di Gaeta, celebrate dalla storia come esempio luminoso di valore e fede militare.

Il Lamarque ed altri illustri personaggi stranieri, resero testimonianza di lode ai soldati napolitani, pel valore dimostrato nelle battaglie, di S. Eufemia, Capri, €otrone, Mileto, Reggio, Àmaritea e Scilla.

Le armi napolitane ribadirono la loro tradizionale rinomanza su i campi spagnuoli con azioni illustri di virtù guerriera dal 1808 al 1814. Quei soldati pugnarono sempre da valorosi, sì che da 12 mila quanti erano prima di entrare in quella campagna, non ne tornarono che 400. Questo fatto sorprendente, attirò l'ammirazione universale e le particolari lodi di molti generali stranieri, fra i quali MacFerlane, Wittingam, Moor, Lord Bentinck ed altri.

Le nostre milizie che nel 1809 furono spedite nel Tìrola, si segnalarono sotto gli occhi di Rusca, Vial e Baraguai di Hilliers, i quali ne fecero speciale encomio.

La campagna di Russia pose a dura prova la qualità dei soldati napolitani nel 1812: ma essi seppero destare l'ammirazione del gran capitano. La storia ha fatto giustizia a quel brano di cavalleria napolitana che condusse salvo Napoleone da Osmiano a Wilna, ed a quelli che protessero la ritirata al retroguardo del prode generale Nev, con coraggio maggiore di ogni elogio. Non pochi tornarono da quella campagna mutilati e molti vi perirono pel fuoco nemico e pel gelo, lasciando di se onorata memoria a quanti furono testimoni del loro valore.

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rinomato Rapp. scrivendo dei soldati napolitani chiamavali «valorosi soldati, sensitivi più che altri mai ai rigori eccessivi del verno e ciò non ostante esempio di coraggio, di perseverante animo e di disciplina».

Le armi napolitane riordinate in Sicilia e congiunte alle inglesi, conseguirono bella fama sotto le mura di Genova e di Ortona, e quelle ordinate in Napoli, si segnalavano per valore nel 1813 in Lutzen, Bautzen, Dresda, Lipsia e più tardi sul Po e sul Panaro.

I campi lombardi rividero gloriose le insegne napolitane nel 1848 e ricorderanno sempre il decimo reggimento di fanti, che dette prova di bravura a fronte delle milizie Tedesche. Né la Venezia può obbliare giammai il prode secondo battaglione dei cacciatori, l'artiglieria, la compagnia del genio ed altri drappelli di corpi diversi napolitani, che colà ridotti, seppero con senno e con valore senza pari, meritare la pubblica estimazione ed il rispetto dello universale.

Nelle vicende di ribellione del medesimo anno, le armi nostre furono ancora vittoriose nelle Calabrie e nella Sicilia ulteriore. Guidate in quell'Isola dallo illustre generale Carlo Filangieri Principe di Satriano contro forze maggiori e formidabili apparecchi di difesa, sostenute da mano straniera, mostrarono quanto potesse la disciplina ed il sentimento del dovere, nel rafforzare il potere legale minacciato.

Gl’inglesi ed i francesi testimoni di veduta delle azioni di valore che si operarono dalle nostre soldatesche, ne fecero meritate lodi. Da Messina a Palermo l'esercito napolitano colse sempre allori di gloria militare, i quali, per tempo che passi, punto non si dimenticheranno.

Poco poi esso venne chiamato a far causa comune con le armi francesi. per rimettere sul soglio pontificio il

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Da ultimo vedemmo ancor prode il soldato napolitano nelle stesse sventure di Calatafimi, di Palermo e di Milazzo, dolorosi ricordi di guerra cittadina, ai quali più tardi dovevano per soprassello conseguitare quelli (e ne ragioneremo in breve) di Santamaria, Caiazzo, Capua, Garigliano, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.

Ognuno di questi luoghi, sebben'è un'amara rimembranza di sangue cittadino che vi corse, è pure ricordanza di gloria militare, riportata in una lotta fratricida.

E poiché questa sventura era inevitabile, narreremo i fatti guerreschi senza passioni politiche e renderemo a ciascuno di essi la giustizia dovuta al merito dei fatti, onorando la virtù di qualsisia. E ciò facendo ricorderemo sempre, che narrare con ischiettezza i fatti nella palestra delle battaglie, è virtù cavalleresca e che il discredito inspirato da passioni di partito, s'è mezzo da giornalista, il quale cerca tutti i modi per servire alla sua causa, o a quella per cui è pagato, non può aver forza di travisare le opere del campo e profanare il santuario di Marte, all'ombra di cui la virtù, sia nel vincitore, sia nel vinto, consegue sempre i meritati allori.

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CAPITOLO XVII.

Descrizione della Piazza di Capua — Il generale Pinedo che n'era il governatore credutosi minacciato della morte dai suoi soldati fugge in Napoli—II generale Salzano è eletto a governarla — Proclama del Re all'esercito — Stato di assedio in Capua—Manifestazione del ministro della marina all’armata — Preparativi di guerra fatti dal Ritucci — I garibaldini occupano Maddaloni, Caserta, Santangelo, S. Maria, S. Tammaro e Cardilo — Il Ritucci conferisce col Re circa le offese a cominciare — Parole indirette dal Re ai soldati — Cagioni che fanno avvisare il Ritucci a differir le offese — Ricognizione verso S. Maria — Ritucci si determina ad investirla — Ragioni che ne impediscono l'opera — Si modifica l'ordinamento del corpo di esercito — Il Re ed i Principi Reali sono del continuo tra le truppe.

Capua era nelle ordinanze militari considerata siccome piazza di primo ordine. Assisa sulla sponda sinistra del Volturno è tagliata e circondata dal fiume, che dalla faccia sinistra del bastione Sperone la bagna insino alla faccia dritta del lontano baluardo S. Amalia da settentrione ad occidente e mezzogiorno, formando come un dodecagono per sette in otto fronti. L'ingegnere d'Harbort dal 1720 al 1751 aggiunse le opere esteriori alla cinta principale. Essa per difetto di opere che la facessero affatto signora del fiume e per la sua figura poco accomodata allo svolgimento di fortilizi, non può lungamente resistere ad ostinato assedio. Vé un castello di forma quadrata eretto da Carlo nell'anno 1552, dov'è sepolto il generale francese Boisgerard che si morì nel fatto d'armi di Caiazzo nel 1799. Fu celebre per la battaglia di Casilino nel 553 vinta dai Romani condotti da Narsete, su i Galli diretti da Buccelina.

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Dal secolo IX fino all’anno 1799 ha sostenuto assedi ventuno: fra tutti sono più celebrati, quello del Caldora nel 1441 e l'altro di Lotrecco nel 1528. È la patria di Gaspare Ferrara conte di Potenza, capitano di cavalleria corazzata che combattette valorosamente a prò di Alfonso II, di cui nel 1496 fu luogotenente nella milizia equestre e seppe anche fortificare molti luoghi della frontiera alla calata di Carlo Vili.

Sulla destra sponda del Volturno evvi un campo formato nel 1838 per gli armeggiamenti delle soldatesche. il cui giro è d’un pentagono irregolare, la superficie di 900 passi quadrati ed i lati appoggiano, alla sponda del fiume, agli spalti da Sperone a porta di Napoli ed alle tre vie che menano, alla Capitale, a S. Maria ed a S. Angelo.

Perché questa piazza d’arme non era capace di valida resistenza, anche per lo stato al quale la si era. lasciata ridurre man mano con improvvido abbandono, quasi che si fosse ai tempi dei beati ozi di Annibale e la previsione di una difesa, che fosse mestieri di farsi in Capua, non bastasse a stare in sullo avviso.

In quel tempo essa era governata dal maresciallo Pinedo, il quale manifestando essere cagionevole della persona. rassegnava il giorno 7 settembre il suo importante carico al generale in capo, che davalo a breve tempo al generale de Comé.

Intanto il ministro della guerra ordinò, che il tribunale militare deliberasse sulla condotta tenuta dal Pinedo nell’esercizio del suo uffizio e mandò per governar Capua il generale Salzano (99).

Il comandante in capo assicuratosi Egli proprio delle regióni di salute allegate dal Pinedo, espresse al ministro l’operosità addimostrata da esso Pinedo

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nei giorni 6 e 7 settembre e domandò se ciò non ostante si dovesse, o nò, sottoporlo a giudizio e per quale imputazione.

Poco poi fece noto al medesimo ministro, che il Pinedo avevagli confidato di aver ricevuto segreto avviso di una congiura ordita contro di lui dai gendarmi del secondo battaglione ed essersi perciò indotto a domandare il riposo. E soggiungeva, il generale in capo, che mentre per evitare qualche tristo caso, in momenti in cui era uopo rafforzare la disciplina, era per disporre che il Pinedo si fosse recato in Gaeta, questi era scomparso senza dir motto ed ignoratasi dove fosse ito.

Non molto dopo fu trovato un foglio senza data, nel quale il Pinedo. ragionando della voluta cospirazione dei gendarmi, esponeva i motivi del suo disparire (100).

Bisognava intanto antivedere la probabilità T imminenti attacchi e far sicura la piazza da qualche improvvisa aggressione.

Il generale in capo nel di 8 settembre, seguito dai. direttori di artiglieria e del genio e da un uffiziale superiore della piazza medesima, sommariamente esaminò le fortificazioni e le artiglierie e notò la necessità di porre in opera mezzi di più potente difesa. Però si fece accurata disamina dei mezzi che si aveva l'artiglieria, dello stato delle opere di fortificazione e di quanto poteva avere attenenza con le condizioni difensive.

Perché, per ordine del Ritucci fu convocato un consiglio di difesa, cui furono chiamati tutti i generali e tutti gli uffiziali superiori di artiglieria e genio, affinché determinassero le migliori misure di difesa, che la. pochezza dei mezzi poteva somministrare.

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Il consesso volta la sua attenzione su tutti i particolari che riguardavano le rispettive incombenze, avvisò darsi opera anzi tutto ai lavori di maggiore urgenza. Laonde fu. risolute: notevole incremento all'armamento della piazza, mettendosi in uso gli affusti che colà erano in serbo; (101) aumento considerevole delle munizioni d'ogni sorta: riparazione degli affusti che trovavansi in batteria; rifazione di opere guaste dal tempo, o per incuria; taglio di alberi nei punti ove potevano essi essere di ostacolo alla difesa, sia in caso di aggressione, sia nelle esplorazioni di vista; sgombramento di materiali inutili; formazione di palizzate nel cammino coperto; miglioramenti dei fossati, delle porte e delle poterne, cosi pel comodo transito, come per la esterna sicurezza; rettificazione delle opere esteriori, dei ponti levatoi ecc. Ancora dovendo l'adunanza provvedere con previsione ai bisogni di vettovaglie, fu dato il carico degli approvigionamenti di viveri ad un commissario di guerra dipendente dallo ordinatore de Dominicis, che per ordine sovrano reggeva l'amministrazione del corpo di esercito.

Nel tempo stesso fu formato uno spedale succursale: si provvide all’ordinamento del personale delle ambulanze ed a quanto altro la campagna esigeva.

Inoltre il generale in capo considerò le condizioni dei luoghi circostanti l’esterno della piazza, affine di togliere ogni mezzo che fosse opportuno alle operazioni del nemico, per mettersi in facile comunicazione con la riva destra del Volturno. E però fu distrutta la scafa che traghettava presso i molini di Triflisco e tolto il ponte a battelli, il cui materiale venne trasportato nella piazza.

Non crediamo fuor di proposito dire, ch'Egli con rin

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Il commercio con gli Abbruzzi fu interrotto del pari che il corso delle poste, con ordine di trasmettersi in Gaeta tutti i plichi e lettere, che potessero venire da quelle provincie.

Intanto il Re il dì 8 settembre da Gaeta emanò la manifestazione che qui registriamo:

«Soldati!

«È tempo ormai che la voce del vostro Sovrano echeggi nelle vostre file, di quel Sovrano che crebbe in mezzo a voi e che spendendo ogni cura pel vostro immegliamento, ha finito di dividere con voi pericoli e sventure.

«Gl’illusi o sedotti che hanno immerso il Regno intero nelle sciagure e nel tutto, non sono più fra noi; e però fo appello al vostro onore, alla vostra fedeltà, alla ragione stessa, affinché l'onta infame di codardia e di tradimento sia cancellata con una seguela di gloriose azioni e di nobili slanci.

Noi siamo ancora in numero sufficiente per affrontare il nemico, che «on combatte con altre armi se non con quelle potenti della seduzione e dello inganno.

Ho lino ad oggi voluto risparmiare molte città ed in particolare la capitale dal sangue e dalle stragi. Ma ridotti ora sulle linee del Volturno e del Garigliano, vorremo ancora aggiungere note umilianti alla nostra qualità di soldato?

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Permettereste voi, che solo per opera vostra il Sovrano lasci il proprio trono e vi abbandoni ad una eterna infamia? No, non mai.

In questo supremo momento ci raccoglieremo tutti intorno alle nostre bandiere per difendere i nostri dritti, il vostro onore ed il nome napolitano, di già per molto avvilito. E se in tal momento vi saranno ancora de' seduttori, che vi mostrano ad esempio quegli sciagurati, che per pura viltà si sono dati al nemico, voi invece mostrerete quei bravi e valorosi soldati, che seguendo la sorte del proprio sovrano Ferdinando 4.° di gloriosa memoria, si ebbero lodi non comuni dallo universale, e beneficenze e gratitudine dallo stesso Monarca.

Questo bello esempio di fedeltà sia per voi di gara generosa: e se il Dio degli eserciti proteggerà la nostra causa avrete a sperare ciò, che altrimenti facendo, non. potrete mai conseguire.

Firmato, Francesco.

Questa manifestazione, che in brevi ma efficaci  ricordava le sventure militari di Sicilia e di Calabria, fu accolta con acclamazione da quei che avevano riparato sotto il vessillo costituzionale, per tentare l'ultima volta fa sorte delle armi. Un grido di nobile indignazione verso i traditori mescevasi alle voci di fedeltà e di devozione per l'augusto Sovrano, e tutti facendo dei loro voti un voto solo, ch'era 1 ' unanime professione di fede, giurarono innanti a Dio ed al mondo di conservare la loro bandiera fino alla effusione del proprio sangue.

Lo spirito delle truppe crasi già ridestato con preludi che facevano antivedere felici risultamenti. Non mancavano che le prove, ed esse si fecero veramente e furono quali si potevano desiderare per l'onore delle armi napolitane.

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Nondimeno, attese le ragioni di guerra, per tenere la città di Capua in certa soggezione, il generale in capo vi proclamò lo stato di assedio, il giorno 9 settembre.

In questa congiuntura il comando delle truppe, del materiale e delle dipendenze di artiglieria, fu affidato al generale onorario Pacifici e quello delle truppe e del materiale del genio al colonnello Colucci, restando direttori dell'arma rispettiva, quelli che già vi erano, cioè il maggiore Campanelli per l'artiglieria ed il tenente colonnello Prichard pel genio.

Per lo stato di assedio furono emanate, in caso di guerra, alcune salutari disposizioni, riguardanti gli uffiziali del genio e le previsioni per spegnere gl'incendi, che poteva cagionare il nemico con le sue artiglierie (108).

Il Re ordinò che la compagnia zappatori venuta da Napoli fosse allogata nella taverna del Garigliano; ma ignorava che questa frazione di truppe facoltative, non aveva seguita la bandiera alle sponde del Volturno, forse perché non ne ebbe l'ordine, o lo ricevette intempestivamente, o come molti asseriscono, perché chi aveva l’obbligo di tenerla riunita, contribuì a disperderla: onde il sovrano comando non venne eseguito (103).

Il ministro della Marina comunicò all’esercito la manifestazione ch'Egli aveva mandata in Napoli per fare che gli uffiziali della marineria napolitana si trasferissero in Gaeta (104).

Quale effetto doveva produrre questa manifestazione ognuno può immaginarlo. È noto allo universale (e noi già lo vedemmo) che la marineria in generale, nonché simpatizzare per la insurrezione, vollero esserle di ausilie, così nei fatti di Sicilia, come in quelli delle Calabrie. Onde non era più da fare veruno assegnamento sul concorso di questa corporazione per la difesa dell’auto

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Come accade in tutte le rivoluzioni, l'opinione predominante é sempre vincitrice di ogni principio che la osteggia ed il disertare, che in condizioni normali é reato ignominioso per ogni militare, reputavasi eroismo patriottico perché volevasi il dissolvimento di tutto l'esercito in favore del trionfo della ribellione.

Noi ricordiamo i fatti della tremenda fine di Luigi XVI, a cagione della forza di quel terribile rivolgimento, ond’Egli fu vittima. Abbandonare la propria bandiera per istare sotto quella della rivoluzione, secondo il linguaggio di quel tempo, era prova di amor patrio e la seduzione pervertì financo alcuni della guardia svizzera, la più fedele propugnatrice della causa di quell'infelice Monarca. Ma all'errore succeduto il pentimento, quei pochi traviati non tardarono a ritornare tra le file dei loro onorati commilitoni, e dopo averne ottenuto il perdono, fecero sacrificio della lor vita su la soglia delle Tuilleries.

Più tardi la storia imparziale fece la meritata estimazione di quei fatti ad insegnamento dei posteri ed un monumento innalzato nella repubblicana Elvezia a quei prodi, che s'immolarono alla fede giurata, tramandò ai secoli futuri un fatto della più alta moralità, compendiato nella tacita eloquenza, della quale quel mausoleo è severa tradizione di virtù guerriera.

Or dopo la condotta della marineria napolitana non restava, che vederla combattere tutta quanta e contro il proprio Sovrano e contro i concittadini e fratelli d'arme

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Intanto, poiché i lati della milizia napolitana, avevano a dritta il littorale propizio ad uno sbarco di nemici ed a sinistra una lunga catena di monti, era mestieri antivedere tutte le ipotesi di aggressione improvvisa e dare alle soldatesche, accantonate tra il Volturno ed il Garigliano, istruzioni che fossero loro di norma, in qualsivoglia evento, per aiutarsi a vicenda. Ed il generale in capo concepì in sua mente le norme da serbarsi in caso di combattimento e ne pubblicò apposita manifestazione all’esercito (106).

Per provvedere alle esigenze della polizia, secondo ciò che é scritto nelle ordinanze di guerra, fu nominato Prevosto generale del campo un uffiziale superiore di gendarmeria (107) e fu statuita una vigilanza tanto nell'esterno, quanto nell’interno della piazza, particolarmente affidata alla gendarmeria, dipendente dal Prevosto generale.

Le divisioni e le brigate ebbero i rispettivi Prevosti con competenti drappelli di magistratura armata ed i commessali di guerra necessari al procedimento della branca amministrativa e segnatamente delle vettovaglie.

E poiché il capo di tutto il servizio amministrativo del corpo di esercito, dir vogliamo il de Dominicis, era stato incaricato delle funzioni d'Intendente generale dell’esercito in Gaeta, fu a lui sostituito il commessario di guerra Rocchi.

Mentre in Capua si preparava ciò che la guerra richiedeva, le masse garibaldine occupavano Caserta, Santamaria ed altri luoghi circostanti, in attitudine difensiva, e fermavano il lor quartier generale in Santamaria.

I posti avanzati nemici, formando una linea eli circonvallazione, si estendevano sulle falde della soprastante montagna di Santangelo,

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per vegliare verso Capua e verso ancora Trilisco e Caiazzo, d'onde le truppe napolitane avrebbero potuto di leggieri girare su i fianchi dell'avversario riuscendogli alle spalle, ed investirlo nel centro dei suoi accampamenti.

Il generale in capo conferì col Re circa le risoluzioni da prendersi. Il parere del Sovrano era di assalir tosto il nemico e non dargli tempo, nè faciltà di addivenire più forte.

Si pose a disamina il Regio proponimento, che sembrava al generale in capo troppo arrischiato, sol perché mancavano elementi certi del vero stato della parte avversa.

Si doveva por mente, che le truppe raggranellate sul Volturno non si erano ancora ricomposte all'ordine normale ed alla disciplina, onde il generale in capo divisava sperimentare il valor loro in qualche scaramuccia difensiva e con piccole vittorie ridestare in esse la sopita bravura.

Il Re, comeché avesse in giusto conto le ponderate riflessioni del generale in capo, pure ebbe ragione di non desistere dal suo proposito ed il Ritucci consentì di attuarlo. Il Sovrano innanti di partire da Capua, così scrisse alle milizie:

«Soldati!

«Nel lasciare Capua affido i suoi baluardi al vostro valore, alla vostra fedeltà, al vostro onore. Lungi da voi l'idea del tradimento: gli uffiziali che vi comandano sono bravi e leali e lo mostreranno combattendo al vostro fianco e dirigendovi.

Il nemico che vi attaccherà è un esercito di gente prezzolata, diretto da un'ardito avventuriere. Siate saldi, così vincerete e salverete l'onore delle bandiere a voi affidate.

Firmato Francesco
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maresciallo di campo Duca di Sangro aiutante generale del E nel comunicare al Ritucci questa scritta, perché venisse letta a tutto il corpo di esercito, fece noto eziandio, essere sovrana volontà che tranne i corpi destinati in Capua. tutti gli uffiziali e soldati isolati dovessero uscirne e che i comandi delle divisioni stanziassero fuori della piazza.

Il comandante in capo che aveva accettato di effettuire la volontà sovrana, sebbene contraria al parere di lui, dette le disposizioni per investire il nemico in Santamaria ed allestì ogni cosa, ond’evitare qualche sinistro effetto di un azione ch'Egli reputava prematura, perché, com'è detto. innanzi, non si erano ben riconosciute e le forze e le posizioni nemiche.

Una impresa senza questi preliminari è sempre censurabile nella guerra; peroché l’esperienza ne insegna e la storia ne porge innumerevoli esempi, che non debba mai tentarsi un fatto d’arme, prima che accuratamente si conoscessero i mezzi del nemico ed il terreno occupato da lui.

Questa pratica che in linguaggio militare dicesi ricognizione, deve precedere ogni guerra offensiva. Nella qual cosa procedettero assai cautamente tutti i grandi capitani, tra i quali si noverano alcuni degli eserciti del Nord, che per decidersi a battagliare, non furono soddisfatti nemmeno di tre ricognizioni e ne vollero una quarta e talora anche mia quinta..

Le considerazioni dunque del generale in capo, non solo potevano dirsi sennate, ma erano dettate altresì dalle regole della scienza militare.

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Perché, saputosi le forze nemiche essere cresciute di numero in Santamaria, a cagione di rinforzi giunti dalla capitale e la città essersi fortificata convenevolmente, il generale in capo dette di tal cosa, finora ignorata, contezza al Re e domandò se ciò non ostante si dovesse porre in atto il Real pensiero; e se in caso di lieto risultamento, fosse mestieri di occupare quel paese. In significare questo dubbio il generale affermava, non doversi lasciar truppe in Santamaria per non iscemare il numero dei combattenti,

Il Re lasciò al generale in capo piena libertà di operare.

Così essendo le cose, diveniva indispensabile una ricognizione ed il giorno 12 settembre del primo e quinto dei cacciatori, di uno squadrone dei carabinieri a cavallo e di una sezione di artiglieria fu composta una piccola colonna guidata dal Capitano Giobbe dello stato maggiore ed a lui quella ricognizione fu commessa.

Questa forza inoltrò verso il nemico e giunta a metà di miglio da Santamaria, scorse i posti avanzati del nemico, che al vederla si atteggiarono a difesa.

H Giobbe compì con calma e fermezza il suo mandato e rientrò nella piazza.

I ragguagli dati da questo uffiziale circa il numero degli avversari, determinarono il Ritucci ad assalire la notte le masse nemiche trincerate in Santamaria.

Egli prescelse a pugnare la seconda divisione del corpo di esercito e comandò che le due brigate che la componevano; la prima cioè del colonnello Polizzy accantonata in Teano e la seconda del generale Won-Mechel

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Egli è vero che trattandosi d'un assalimento parziale si poteva commetterlo alla sola soldatesca del Won-Mechel, che vi era arrivata opportunamente. Ma il timore d'un evento sfavorevole, che avrebbe certamente censurato il primo fatto di guerra dei napolitani, fece che si restasse dal proponimento, per effettuirlo in miglior momento. Oltre a ciò si venne in questa risoluzione perché non si rivocava in dubbio che il nemico, forte per numerose masse, si era dopo la ricognizione ben trincerato in tutt'i punti che potevano venire offesi.

Però differito quel disegno ad altro tempo, il comandante in capo, stimò modificare l'ordinamento del corpo di esercito (108).

Si era al tredici settembre; il tempo scorso era stato impiegato utilmente a ricomporre le truppe alla disciplina e far rivevere in esse la primiera fiducia nei capi e si era provvedato, che non fosse difetto di ciò ch'era necessario per nutrirle.

Il Re ed i Principi Reali erano sempre presenti ove maggiore era il bisogno delle loro persone, per infondere piena fiducia tra le soldatesche, rendersi familiari con i combattenti ed animarli.

Per la inerzia del nemico, non si era ancora sperimentato il valore delle milizie napolitane: ma nel dì seguente cominciarono i fatti di guerra e noi per valutarli meglio e distinguerli per la loro specie e per il loro ordine cronologico, seguiremo gli avvenimenti giorno per giorno.

In tal modo ognuno potrà chiaramente vedere quanto siasi operato nel corso di questa campagna, incomin

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CAPITOLO XXIII.

Difesa del forte di Baia — Aggressioni improvvise dei garibaldini contro la cittadella di Messina per obbligarla a cedere — Il generale Locaselo abbandona la piazza di Siracusa — Il colonnello Latour cede la piazza di Augusta al Municipio — Il generale de Benedictis comandante territoriale degli Abbruzzi fa sciogliere le milizie ch'erano in Solmona nel castello di Aquila e nella piazza di Pescara — Difesa della piazza di Civitella del Trento.

E prima di cominciare la narrazione delle azioni guerresche, stimiamo opportuno dare ai nostri lettori un sunto di ciò che avveniva in altri luoghi del Regno, ove le nazionali milizie, tenevano tuttavia alto e rispettato il vessillo della indipendenza della patria.

Dopo che i forti della capitale si arresero senza combattere alla volontà del Garibaldi, la rivoluzione si accinse a guadagnare il forte di Baia, carico di molta polvere e munizioni da guerra, la cui resistenza teneva in serie apprensioni il governo dittatoriale ed i cittadini.

Era Castellano di quel piccolo forte, posto sulla spiaggia tra Napoli e Pozzuoli e presidiato da 88 invalidi,;57 artiglieri e 40 uomini di fanti, con scarse vettovaglie, il maggiore Livrea vecchio soldato di artiglieria, che aveva consacrata tutta quanta la sua vita a compiere i doveri impostigli dall’onore.

Le fortificazioni di esso consistono in un castello ed in un'opera a tanaglia ad esso congiunta, la quale è

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Questo fortilizio fu eretto da Alfonso 2.° ed ampliato da Pietro di Toledo. sopra una punta scoscesa a pié della quale è uno scoglio unito al continente per via di un ponte.

Ciò premesso si desume di leggieri, che la difesa di tal forte poteva dirsi, più che savia, arrischiata.

Nondimeno è debito della milizia chiusa in un luogo forte di difenderlo con tutti i mezzi di ch'è in sua potestà di usare, fino a quando il nemico apertavi la breccia abbia tentato infruttuosamente duplice assalto. Solo in questi termini, "o per mancanza di vettovaglie, può un fortilizio venire a patti coi suoi nemici.

E queste nozioni militari, universalmente conosciute, avevano messe salde radici nell'animo del Livrea, onde essendogliene stata intimata la resa prima dal sottintendente del distretto e poi il 17 settembre da un maggiore garibaldino; rispose con forte animo, ch'Egli era preparato alla più strenua difesa ed aveva intendimento di appiccare il fuoco alle polveri e far saltare il forte, nel momento appunto che sarebbesi tentato di assaltarlo.

Questa nobilissima risposta crebbe la paura nei cittadini e sdegnò coloro, che non amavano vedere ripetute dal soldato napolitano le gloriose geste di Pietro Micca. Ed il dittatore comandò, che si bloccasse quel castello per costringerlo ad arrendersi per fame.

Ma il presidio con una sortita operata il 26 settembre, fugò i garibaldini e si rifornì d’ogni sorta di cibarie.

In questo il prevegente Castellano, mandò in Gaeta per mare, quanta munizione potette e chiese al Re provvigioni da bocca.

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I garibaldini intanto, fatti più numerosi, si accinsero ad assediare il forte ed il mandato di offesa venne commesso a Marino Caracciolo capitano di fregata della marineria napolitana, datosi a servire Garibaldi con la qualità di comandante la massa, che appellavasi brigata. dei montanari del Vesuvio (109).

Alle gagliarde offese si rispose con più gagliarda resistenza e finalmente per difetto di vettovaglie, il forte nel dì 8 ottobre si arrese al nemico, a patto che la soldatesca potesse andare ove le piacesse.

Erano scorse appena 24 ore dell’avvenuta cessione di Baia ed un legno a vela carico di provvigioni approdava in quella rada; si che imbarcò su di esso la soldatesca e navigò per Gaeta, ove condusse quei bravi difensori del forte.

La cittadella di Messina era pure incitata a rendersi; ma il generale Pergola che n'era il Castellano, esecutore delle ordinanze militari e spiacendogli di ragionar di cosa contraria al suo dovere, rispondeva sempre con recise parole e schivava ancora di venire a parlamento con i messaggieri nemici, che di frequente andavano a lui.

Furono tentate varie aggressioni improvvise contro quei forti baluardi, calpestando i patti fermati dal Clary e dal Medici; ma tutti riuscirono infruttuosi per la fedeltà e pel valore delle truppe, che in tutto sommavano a oltre quattromila uomini (110).

Parecchi uffiziali compresi dalla febbre delle nuove massime abbandonarono la loro bandiera, ma il tradimento non vi allignò (111).

La cittadella stette salda nell'onore militare, non ostante le privazioni di paga e la scarsezza delle cibarie; niun soldato che aveva terminato il tempo prefisso

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Nel qual tempo venne stretta da regolare assedio dal general piemontese Cialdini ed obbligata da crudo e non interrotto bombardamento ad arrendersi alla discrezione del nemico il 12 marzo 1861.

Noi non descriveremo i particolari del breve assedio sostenuto dalla cittadella di Messina, contro le truppe regolari dello esercito Sardo, perché non é compito della nostra cronaca e perché altri lo ha già fatto (112).

Le piazze di Siracusa e di Augusta dipendevano dal generale Pergola, il quale non mancava di tempo in tempo, con opportune manifestazioni e lettere officiali, rammentare a quei presidi ed in particolar modo ai loro comandanti i doveri militari che dovevano compiere, nelle condizioni in ch'erano.

In Siracusa era il generale Ferdinando Locaselo, il quale era stato eletto a quell'officio, invece del generale Rodriquez, che per aver avuto la debolezza d'animo di farsi sopraffare dagli uomini della rivoluzione, era stato richiamato in Napoli per render ragione delle sue opere.

Il Locaselo godeva buona reputazione nello esercito e per iscienza militare e per fede alla bandiera che difendeva.

Le cose da lui operate nel tempo che precesse; il suo svegliato ingegno; la sua energia; la severità sua nel mantenere la disciplina, erano guarentigia di savie ed acconce risoluzioni, nelle difficili congiunture di quella piazza.

I soldati ricordavano il valore da lui dimostrato nella difesa della cittadella di Messina l’anno 1848 ed anco

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Ma questa volta Egli non solo non rispose all'aspettazione generale, ma per disavventura operò altrimenti.

Erano riuniti in luì i poteri militari e civili, perché le autorità tutte preposte al reggimento pubblico di quel paese, lo avevano abbandonato dopo i fatti di Milazzo.

Egli aveva cresciuta la vigilanza alle porte, perché non s'intromettessero faziosi a far tumultuare la città, ma non istette a vegliare su i comitati rivoluzionari.

Di tratto in tratto purgava è vero la piazza (li coloro che si mostravano apertamente fautori delle novità, con mandarli via da essa, ma non promulgò mai lo stato di assedio.

Resse con questa politica le cose lino al 31 agosto; nel quale tempo scrisse al Pergola, chiedendo istruzioni sul da farsi e danaro (113).

Ebbe in risposta la dimandata moneta con l’ordine esplicito di difendere la piazza, come le ordinanze prescrivevano e di tutelare l’onore della milizia a lui affidata (114).

Intanto era scemata la vigilanza alle porte e nella città erano ritornali tutt'i faziosi già scacciati, i quali cominciarono a tener comitati in palese ed a sedurre la soldatesca con le consuete arti dell’oro e dell’inganno.

Stavano nella piazza una compagnia di artiglieri, una di pionieri e quasi tutto il decimoprimo reggimento dei fanti, di cui era colonnello Ansaldo Galluppi, uomo di niun conto e niente fornito delle virtù del soldato.

A questa soldatesca i rivoluzionari avevano dato ad intendere che il Re era partito per Trieste. abbandonando il Reame senza dir motto.

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E tale strana diceria non si smentiva opportunamente dal generale Locaselo, sì che quando i soldati videro arrivare il vapore l'Assisrien con la moneta e dagli uffiziali della tesoreria seppero il Re essere tuttavia in Napoli, cominciarono ad insospettire del generale, a biasimarlo e credendolo fellone, a vegliare sulle opere e sulla persona di lui.

Il Locaselo vistosi diffamato, si stimò disadatto a più comandare le truppe. E saputo i termini ai quali erano venute le cose e la risoluzione del Re di difendersi sul Volturno, giudicò essere acconcio provvedimento, imbarcare la milizia ed abbandonare la piazza.

Per attuare il suo abbominevole concetto, spacciò aver ricevuto ordini di condurre le truppe in Napoli. I saldati dapprima titubarono in creder vera la parola del loro capo, ma rassicurati, scesero alla marina in buona ordinanza il 6 settembre per imbarcarsi.

Il Locascio non aveva neppure giudicato se la soldatesca potesse capire nei pochi legni ch'era riuscito raccorre. Onde l'imbarcarsi non potendosi effettuirc completamente, per difetto di trasporti, fu forza differirlo.

Voleva Egli partir solo, promettendo che sarebbe tornato bentosto con bastante navilio. Ma a questo annunzio i soldati stettero muti e quel silenzio era la franca rivelazione del tradimento che credevano velarsi in quella promessa.

Il tenente Carlo Locascio dello stato maggiore, aiutante di campo e figlio del generale, comprese più del padre il rischio al quale questi esponevasi, se avesse effettuato il pensiere d’imbarcarsi solo e surse a dire, che il generale sarebbe rimasto con le truppe ed Egli

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Questo ritrovato quanto ingegnoso, tanto felice, fu coronato da successo. Per esso lo sdegno dei soldati si rattenne e la disciplina non fu scossa dai cardini.

Mentre queste scene si vedevano nella marina, i rivoltosi fecero sollevare la città; chiusero la porta di mare; per l'altra di terra fecero entrare buon numero di garibaldini, che stavano poco lungi di Siracusa e melarono alle truppe di ritornare nella piazza.

Vuolsi che il generale Locaselo avesse ad arte condotte le cose in tal maniera e che tra essolui ed il comitato della rivoluzione era pieno accordo. Noi non possiamo ciò affermare, per difetto di documenti. Certo è, che quella risoluzione d'imbarcamelo che fece discendere alla marina la soldatesca, senza le necessarie antiveggenze militari, fu sopra ogni dire sconsigliata. Altresì è cosa certa, che potendo Egli rientrare nella piazza, armata mano, noi fece e si accontentò di serenare alla marina sette notti e di ricevere i viveri dal comandante garibaldino ch'eragli succeduto, per imbarcarsi di poi il giorno tredici su di un vapore sardo, spedito da Garibaldi, e navigare per Napoli.

La storia non può registrare questi fatti, senza dare rigida sentenza contro il generale che non seppe, o nou volle conservare e tenere la piazza di Siracusa, fornita di buona artiglieria e convenevolmente presidiata da milizie. La quale piazza nel 1848, con minori mezzi, si oppose alla rivoluzione e comandò la obbedienza alle leggi.

Per le quali cose la nostra cronica condanna il generale Locascio, che senza sostenere assedio di sorta; senza essere forzato da formidabili aggressioni, abbandonò un luogo forte importante e ne uscì senza patto veruno, per accattare dai nemici ch'entravano d’altra parte, mentr'Egli ne usciva, la sussistenza della soldatesca, del cui onore esser doveva custode e mantenitore.

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Abbandonata Siracusa la rivoluzione rivolse le sue mire ad Augusta, ove comandava il colonnello Tompson de la Tour, uomo che corse l’aringo militare senza plauso.

La custodivano circa 500 uomini del decimoquinto reggimento dei fanti, una mano di artiglieri e di pionieri; tutti volonterosi e degni di miglior fortuna.

I garibaldini stavano a poche miglia dalla fortezza; ma non osavano provocare le truppe nazionali, per non appiccare una lotta inutile.

Essi per la inettitudine del Latour erano sicuri della vittoria senza l'opera delle armi, e però fidavano nel tempo.

Difatti sforzarono dapprima il Latour a scrivere a Messina per chiedere istruzioni, dopò lo avvenimento di Siracusa (115).

E poiché la risposta del general Pergola non fu come desideravano i fautori della rivoluzione; (116) tale e tanta seduzione seppero adoperare, che il Latour, calpestando i più sacri doveri e l'onore della divisa, nel di 17 settembre, venne a patti col municipio e stabilì di recarsi in Napoli con i suoi senza molestia. Quivi messi i soldati nell’arbitrio di tornare alle loro case, o di andare in Gaeta, là maggior parte si decisero a sostenere la causa del Re e della indipendenza della patria, che ancora pendeva dagli eventi delle armi (117).

La frontiera degli Abbruzzi, guardata una volta da numerosa e scelta milizia messa sotto gli ordini del generale Pianell, era stata man mano scemata di truppe mentre si compivano i fatti della Sicilia e delle Calabrie.

Al generale Pianell, chiamato al seggio ministeriale della guerra, era succeduto nel comando territoriale dì quelle provincie, il generale de Benedictis, per intelligenza, per sapere e per energia, commendevole.

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Egli aveva pianto in udire il suo figliuolo Biagio uffiziale del genio, aver disertato l'esercito ed essersi dato alla rivoluzione; strombettava fedeltà al trono ed alla bandiera e diceva anelare occasioni per mostrare con i fatti quanto altamente avesse in pregio l'onore della divisa. Però le sue opere non risposero punto alle fatte affermazioni.

La poca soldatesca era stata dapprima ragunata in Giulianova, ma diminuita ancora più di numero, erasi così assottigliata, che appena potette presidiare i fortilizi di Aquila, Pescara e Civitella del Tronto.

Un solo drappello di 90 soldati del decimo dei cacciatori alloggiava in Solmona, a fine di avere in custodia le molte munizioni di guerra che vi erano ed armi e vesti del corpo, cui quel drappello apparteneva.

Della provincia di Aquila era comandante il colonnello Luigi Percz, di poco senno; di quella di Teramo il generale Veltri, vecchio settario e di quella di Chieti il colonnello Scavo, uomo di niuna fama.

Castellano di Civitella del Tronto era il maggiore Ascione, del forte di Aquila il capitano Capaldo e della piazza di Pescara il colonnello Piccolo, eletto di recente a quell'offizio dal de Benedictis.

Costui adoperò tutta la sua autorità per impedire le manifestazioni, che spesso sì facevano in favore dell'autonomia della patria.

Egli chiamava infami reazioni le spontanee avversioni di quei pacifici popoli ai proponimenti della setta ed era fortemente crucciato, che le milizie, alle quali Sopra

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Nullameno quando le cose del Regno precipitavano, concepì lo sciagurato, sebbene arduo pensiero, di consegnare i luoghi forti al nemico; a fine di animare il partito ribelle, che stava cheto perché temeva grandemente di quelle difese, e di far sicura la strada all’esercito Sardo, che vedemmo poscia invadere senza cartello quelle provincie.

Nel mese di Agosto 1860, aggiungendo con arte. insidiosa i suoi comenti agli ordini che emanava da Napoli il ministro della guerra Pianell, prescrisse a tutte le autorità delle tre provincie un regolamento per la interna sicurezza, che disse confacente alle condizioni del Reame in quel tempo, e ne comandò l'esatta osservanza (118).

Di tali prescrizioni il Perez dava più ampie spiegazioni al capitano del genio Giordano che comandava la compagnia zappatori di presidio nel forte di Aquila, con la speranza di avere in lui un aiutatore a mal fare; ma veggendolo tenace ai doveri di soldato, operò artifiziosamente ch'Egli non avesse commercio di lettere con Pescara.

Intanto i ribelli di Aquila pensarono impossessarsi dell’ampio e famoso castello per opera dell’oro. Ed adescati un tale Vecchiarelli sergente di artiglieria ed un certo Rinaldi pur sergente dei.Veterani, stabilirono le cose in maniera, che il primo in un' assalto notturno inchiodasse le artiglierie e l'altro aprisse le porte del castello.

Ma il dì otto Settembre, per buona ventura, conosciutosi dai soldati il turpe mercato che voleva farsi, crebbe la vigilanza di essi alle difese e menando gran ru

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Il Perez invece di far giudicare da un tribunale militare i due sergenti e porre in chiaro la loro colpa, o la innocenza loro, li fece solo uscire dal castello, onde sottrarli alla giusta ira della soldatesca. E fmgendo di prestar fede ai clamori dei cittadini, che dice vansi insicuri nella città, si volse al de Benedietis perché provvedesse alla bisogna.

Anche l'intendente della provincia si mostrò timoroso dell’agitazione del presidio del forte e fu vano che il capitano Giordano ed altri uffiziali assicurassero che la cresciuta vigilanza aveva scopo di rafforzare la difesa, senza celare intendimento veruno di offesa.

Si era al dì otto Settembre; il Re aveva lasciato Napoli; l'esercito stava ragunato nella valle del Volturno ed il de Benedictis conscio di tali avvenimenti, si avvisò di dissolvere i difensori del castello di Aquila.

Per attuare il suo pravo concetto, per telegrafo significò al Perez, che il Re nell’uscire da Napoli aveva ordinato a tutti i militari di non fare ulteriore resistenza e di conservare la disciplina, obbedendo alle autorità costituite. Poscia nelle ore vespertine del medesimo giorno si recò di persona in Aquila; riunì tutti gli uffiziali in sua casa, non esclusi quelli dell'officio topografico che ivi erano di passaggio; lesse loro gli ordini del dittatore che invitavali di aderire al nuovo governo, conservando i gradi e le loro paghe, e persuase tutti a mutar bandiera (119).

Ne ciò bastando, andò il di appresso nel forte, seguito dai medesimi uffiziali, e raccolta la soldatesca disse loro molte bugiarde parole e manifestò aver comandato il Garibaldi, che ciascuno fosse libero, o di rimanere al

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Questo discaro produsse l'effetto desiderato. I soldati vistisi nella facoltà di ritornare ai loro focolari, risolvettero lasciare le anni ed il forte, il quale fu dato in custodia alla guardia cittadina.

Il de Benedictis, che un giorno prima con altre arti aveva fatto sciogliere in Solmona quel drappello di soldati del 10.° dei cacciatori e consegnare armi e munizioni alla guardia nazionale, soddisfatto della riuscita del suo disegno, macchinava nuove insidie contro le piazze di Pescara e di Civitella del Trento.

In questo ebbe le avvertenze che per telegrafo gli avevano mandato il generale duca di Sangro e l'altro Casella ministro della guerra, con le quali gli manifestavano la permanenza del Re e del governo in Gaeta «gli ordinavano di riferir loro tuttociò ch'era imposto al carico che gli era stato confidato (121). Le quali avvertenze turbarono alquanto il riposo del de Benedictis.

Egli è vero che aveva chiesto d'esser dimesso, e del grado che aveva, e dell'uffizio che adempiva, il giorno 5 Settembre, nel dì appunto che il ministro Pianell lasciava il carico del ministero. Ma esercitandone tuttavia le funzioni, aspettava che il governo aderisse alla sua domanda.

Laonde, studiando la più opportuna maniera per uscire d impaccio, risolvette di scrivere al governo in Gaeta; lui avere adempiuto i doveri impostigli dal suo uffizio; essersi adoperato a frenare le masse e gli armamenti che si facevano in favore di Garibaldi; ave impedito la guerra civile e tutelato l’ordine pubblico;

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ma ora quelle provincie, saputo l'ingresso del dittatore in Napoli, essersi sollevate e tumulando, essersi pronunziate per l'annessione al Piemonte e non rimanere pel Re che solo Pescara, ove si verserebbe inutilmente il sangue cittadino (122).

E mentre cosi rispondeva al duca di Sangro, notificò al garibaldino Cosenz in Napoli; alcuni militari dementi, perfidi ed ignoranti essere fermamente decisi a non partecipare alla gioia ed al tripudio universale e proponevano di difendere la loro bandiera. Egli aver fatto opera di dissolvere il presidio di Aquila ed esservi riuscito; non poter praticare altrettanto in Pescara perché quelle milizie minacciavano della morte ed essere utile di mandar truppe del Garibaldi in Chieti, per ogni evento (123).

Il giorno undici Settembre fatto più certo delle cose di Napoli, a fine di evitare ulteriori significazioni, per telegrafo, faceva noto al duca di Sangro; ch'Egli ed i suoi figli, avendo fin dal 5 Settembre dimandato d'essere dimessi dai loro gradi ed uffici, se ne intendevano già disciolti e liberati (124),

In questo esercitava ancora il comando e giovavasene per dissuadere le milizie dalla resistenza (124 bis).

Il comandante di Peseara, colonnello Piccolo, favoriva anche'Egli la rivoluzione, ma era più circospetto nelle sue opere.

Questa piazza noverata tra quelle di seconda classe è chiusa da un pentagono a cavallo della strada consolare e del fiume. Le fortificazioni sulla riva dritta sono bastioni e cortine protette da quattro tanaglie, fossati e strade coperte, con traverse, piazze d'armi e spalti. Sulla sinistra si distende una opera a corno, in cui é un alloggiamento per cavalleria ed una piazza d'armeggiamenti.

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Il giorno cinque Settembre alcune pattuglie che perlustravano nei dintorni, arrestarono cinque carra cariche d'armi e munizioni e le condussero nella piazza. Le autorità della provincia, dichiarando illegale l’operato delle pattuglie, reclamarono là riconsegna dei carri e degli oggetti che trasportavano ed il de Benedietis istesso comandava che fossero restituiti.

Questo comando indignò le soldatesche; fece disparire la fiducia che dovevano avere nei loro capi e scosse dai cardini la disciplina per modo, che tutti mormorando, dubitarono della loro fede.

Arrivati, il giorno otto Settembre, da Napoli gli ordini del governo di fatto, il Piccolo ragunò incontanente il consiglio di difesa e mostrando gli ordini ricevuti, metteva in discussione la condotta da serbarsi nelle condizioni alle quali vedevasi ridotta la piazza.

Quel consesso, dòpo seria ponderazione dei fatti avvenuti e delle cose ingiunte dal Garibaldi (125) decise; di non doversi queste riconoscere, perché emanate da illegittima potestà e dichiarò invece essere obbligo di difendersi.

Ma perché in quell'adunanza, taluno aveva titubato nel risolvere una cosa di tanta importanza, dalla quale dipendeva eziandio l'avvenire della milizia (125 bis); il consiglio avvisò, d'inviare un uffiziale in Gaeta (126) per avere istruzioni precise del governo, già colà trasferito. Da ultimo fu fermato di tener celate ai soldati, già sospettosi dei loro superiori, le pervenute facoltà del governo dittatoriale, fino a che non si avessero dal Re espliciti chiarimenti,

Ma contro l’avviso del consiglio di difesa, il Piccolo fece prima divulgare le ingiunsioni dittatoriali; poscia, palesava alle truppe con apposita manifestazione,

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sì le

L'effetto che produsse la manifestazione del Piccolo nell’animo del presidio di quella piazza, fu contrario al l’aspettazione, di lui. I soldati tumultuarono; gittarono in aria ciò che loro si leggeva e proruppero concordemente nelle grida di «viva il Re», mentre la fanfara dei cacciatori spontaneamente intuonava l'inno Borbonico. Arroge, che accorso il Castellano per far cessare l’entusiasmo della soldatesca, fu minacciato per forma, che dovette fuggire dallo sguardo dei suoi dipendenti.

Ma vari uffiziali, che erano benvisti dalla truppa, riuscirono a calmarla, promettendo la più strenua difesa.

Il seguente giorno si pubblicò una significazione mandata per telegrafo dal de Benedictis, con la quale affermando essere il Re uscito dal Regno, consigliava la milizia di Pescara ad obbedire a quanto aveva scritto il Cosenz ministro garibaldino (128).

Ciò non ostante la maggior parte degli uffiziali e soldaii, persistettero nella risoluzione di nulla decidere, prima che non fosse ritornato il tenente Ricciotti inviato in Gaeta.

Si pensò allora dalle ribelli autorità di ricorrere ad altro espediente, per intimidire i difensori della fortezza,

Ed il giorno dodici Settembre tutta la guardia cittadina, uscì dalla piazza con le armi e si fece propagare la voce, che sarebbesi unita all’altra dei circostanti paesi ed allo esercito garibaldesco, per assalire e combattere i difensori di essa.

Nello stesso giorno i contadini fecero arrestare dalle truppe una vettura nella quale vi erano tre dei principali agenti della rivoluzione (129). Costoro vennero condotti nella piazza e presentati al Piccolo,

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che li ten

Alcuni che si recarono a visitarli furono veduti uscirne con danaro, sì che molti reputarono, che si cercava conl’oro di pervertire i soldati.

Ciò non puossi affermare senza tema di fallo; solamente non è dubbio, che dopo qualche giorno si udirono vari pareri fra le truppe. E quando si seppe l'altra manifestazione del de Benedictis, che lasciava a tutti facoltà di scegliere tra il militare servizio ed il ritornare in patria; e sopratutto quando si videro drappelli li soldati provvedenti da Aquila, che avvaloravano con. la loro presenza la verità delle licenze concedute dal de Benedictis, fu unanime la loro risoluzione di abbandonare la piazza. Onde il giorno sedici Settembre, la soldatesca, lasciate le armi, si sciolse e la piazza fu custodita dalla guardia cittadina, che rientrò in paese per invito fattogliene dallo stesso Piccolo, che ne restò Castellano, a nome del governo dittatoriale.

Gli uffiziali delle armi speciali ed altri dodici dei cacciatori col Tirella e col Ditta (130) e dugento uomini inermi, furono i primi a presentarsi in Capua ed in Gaeta. Poscia a poco a poco la maggior parte del presidio di Pescara e di Aquila, si congiunse pure al corpo di esercito operante sul Volturno.

Civitella del Tronto é una città murata con un castello che fu eretto da Filippo 2.° Essa dilungasi cinque miglia di qua del Trento ed otto da Teramo. Era considerata come piazza di secondo ordine; abitata da oltre 5 mila anime e capace d’un presidio di 500 uomini.

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La guernivano in Agosto 1860, dugento gendarmi e 180 terrazzani volontari comandati dal capitano Giovane (131) 30 artiglieri e 20 soldati littorali con l'aiutante

L'armamento consisteva in ventisei cannoni quasi tutti di ferro e di vecchia fusione. Castellano n'era il Maggiore Luigi Ascione.

Sollevata Teramo andò in Civitella il capitano del genio Mensingher per porre la piazza in migliori condizioni di difesa e per compiere sopratutto il bastione di cinta ai Cappuccini. Ma appena Garibaldi entrò in Napoli, il Mensingher abbandonò la bandiera e si dette al nemico.

Il generale de Benedictis non mancava di usare con Civitella le arti stesse che valsero a stornare la resistenza del forte di Aquila e della piazza di Pescara; ma lo Ascione titubava nella scelta di un provvedimento energico.

La fermezza del presidio, risoluto a sostenere l'onor militare, vinse la perplessità dello Ascione; sì che questi adunò senza più indugiare il consiglio di difesa. E perché tale consesso deliberò lo stato di assedio; Egli nel promulgarlo, dette gli ordini opportuni, e per le sussistenze, e per accrescere e moltiplicare i mezzi dì resistenza.

Il capitano Giovane, che aveva militato da sottuffiziale nel corpo di artiglieria, venne deputato a valorare la difesa.

Questi compì con mura a secco il bastione di cinta ai cappuccini; abbarrò gli sbocchi; accavallò altre artiglierie sopra affusti riparati con i mezzi di che poteva far uso; preparò sassi per scagliarli contro gli assalitori; assicurò le munizioni poste in disadatte conserve e si fornì eziandio di vettovaglie, delle quali potevasi avere necessità in tempo di assedio o di blocco.

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È fama che il maggiore Ascione, il quale aveva ordini di sostener la difesa, mentre da un canto per tema dei soldati si adoperava a farla valida e vigorosa, di celato teneva segrete pratiche con alcuni settarì per trovar modo di rendere la Piazza. Ancora si afferma; lui avere mandato in suo nome ed in quello dello aiutante maggiore Tìscar (132) atto di adesione al governo dittatoriale ed i soldati avere intercettata una lettera, sulla cui facciata erano impresse le armi di casa Savoia, a quel loro maggiore indiretta, con la quale il de Virgili, intendente di Teramo, lo avvertiva della piena adesione di Garibaldi ai voluti patti di resa.

Ma tutto ciò essendo mere assertive, noi che scriviamo sulla fede di documenti, non possiamo tramandarlo ai futuri come cosa certa.

Nondimeno senza timore di fallire diciamo, che i soldati non avevano fiducia alcun nel proprio Castellano e credendolo capace di far mercato del fortilizio, due volt tumultuarono per ucciderlo ed Egli dovette la sua salvezza al capitano Giovane, che valendosi della confidenza che le truppe avevano in lui, giunse a calmarne lo sdegno; loro assicurando che non solo si sarebbe gagliardamente resistito, ma che avrebbe eziandio esercitato Egli proprio tutti i poteri militari, quantunque tra gli uffiziali del presidio non avesse il maggior grado.

Non mancarono più tardi parlamentari a nome sì del de Cesaris di Penne e del Tripoli che si spacciava maggiore d'un nucleo di gente faziosa armata; sì del general Veltri che comandava le armi napolitane nella provincia di Teramo e sì del de Virgili, per consigliare la resa, offerendo patti lusinghieri.

Ma il presidio maravigliosamente infiammato dell’amore verso la bandiera; li rigettò con disprezzo congiunto a furore, ed il consiglio di difesa fu obbligato a

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Poco stante picciol numero di piemontesi insieme ad alcune guardie nazionali, uscite da Civitella col loro capo Ortis e ad alcuni vagabondi componenti, com'essi dicevano, il battaglione Sannita, bloccarono la piazza, esagerando con artifiziosi fuochi di bivacco il loro numero e pubblicando rigorosi bandi contro coloro che si facessero a recar vettovaglie agli assediati. I quali costretti a macinare con le braccia il grano, manifestarono la ferma volontà di voler aggredire gli assedianti: ed a ciò fare incitavanti i volontarì che si erano armati per la difesa del loro suolo nativo.

Il capitano Giovane che, come abbiam detto, erasi investito d'ogni potestà per Io discredito in che era caduto il Castellano, non istimò di opporsi al divisamento della soldatesca, anzi secondandolo, mise in buona ordinanza la più parte del presidio e forte pure di artiglieria operò una sortita.

Gli assedianti, aggrediti nelle loro posizioni, furono in breve fugati per modo, che gran numero di essi ripararono nelle Marche.

Le milizie napolitane, avendo assaliti i faziosi di Campii, s'impossessarono di questo comune, dopo sanguinosa pugna, nella quale degli avversi ventiquattro ne furono fatti prigioni e dieci cavalli e 450 fucili, rimasti sul terreno del combattimento, furono preda dei vincitori. I quali, avendo tolto da Campii danaro ed ogni sorta dì provvigioni, ritornarono plauditi in Civitella.

E in premio di questa eroica difesa condotta dal capitano Giovane, venne costui promosso dal Re al grado di colonnello, con la facoltà di concedere a ciascuno dei suoi commilitoni un grado maggiore di quello che si avevano (133).

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Dopo due giorni altri garibaldini riuniti nel Chietino e nel Teramano e capitanati da un tal Curci, disertore napolitano, bloccarono di nuovo la piazza, dopo di averne invano intimata la resa.

Poco poi truppe regolari dell’esercito sardo condotte dal generale Pinelli e poi dal generale Mezzacapo, assediando la fortezza, l’assaltarono due volte e due volte furono respinti con gravi perdite.

Nel giorno 16 Febbraio 1861, quando già la piazza di Gaeta aveva capitolato col nemico, il Pinelli fece altra intimazione di resa.

Il colonnello Giovane, che ciò sapeva, rispose di cedere la piazza con patti. Ma veduto Egli che il presidio in udire che trattavasi di patteggiare la resa della fortezza, tumultuò e propose di seguitare a difendersi; per dimostrare al nemico che non era partecipe dei voleri dei soldati, abbandonò la piazza con pochi che Io seguirono ed a lui si rendette a discrezione.

Nondimeno, sebbene i soldati di questa piazza fossero stati abbandonati dal loro duce, seguitarono a difendersi. Ed anche quando il Re da Roma mandò il generale napolitano della Rocca col capitano francese Vertray, per intimar loro che si arrendessero cogli stessi patti stipulati in Gaeta, essi noi fecero, non credendo al messaggio del della Rocca.

E solo quattro giorni appresso, rinsaviti dello errore in che erano caduti, disobbedendo al loro general che aveva meritata fama di valoroso e di fedele nell’esercito, si dettero alla volontà del nemico.

Così la piazza di Civitella del Tronto, storico ricordo di altre glorie napolitane, venne in potere dei Sardi il 20 Marzo 1861.

FINE DELLA PARTE PRIMA.






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