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STORIA DI FERDINANDO II.

RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

DAL 1830 AL 1850
SCRITTA
da Giovanni Pagano
LIBRO II.
LA RIVOLUZIONE.
SECONDO PERIODO
DAL 1� GENNAIO AL 15 MAGGIO 1848.
NAPOLI
DALLA TIPOGRAFIA DI B. CANNAVACCIUOLI
Strada S. Anna de' Lombardi n" 47.

1853


CAPITOLO PRIMO.

INSURREZIONE DI PALERMO.

Sommario

Il principio dell'anno 1848 foriero di calamità. I siciliani tramata ed annunziata in varie guise la rivolta, non si tirano in dietro dal loro proposito a vista degli scarsi apparecchi dei Regii. L'alba del 12 Gennajo sorge sanguinosa e trista in Palermo. Manifestazioni amiche dapprima, ostili dipoi. Primi conflitti ed assalti. Forte ribollimento degli animi. Apparisce un Comitato che le ordite fila dirige. Il Luogotenente Duca de Majo spicca pei telegrafi la notizia a Napoli, e dispone variamente le sue truppe. La sollevazione progredisce. Si pubblica il Cittadino, prepotente mezzo di concitazioni. Infelice caso di militari famiglie. Cominciato il bombardamento se ne intimidiscon molti, sospeso poscia si rimette l'ardimento, ed a rischievoli imprese si spingono, in talune delle quali vincono, in altre son vinti. Giunge a Palermo una flotta portante un gagliardo Corpo di Armata, gl'insorti ne rimangono sgomentati.

Poche sventure in mezzo a moltissime cose grate e con fortevoli nelle precedenti pagine ho narrato, moltissime sventure e ruine in mezzo a poche cose grate e confortevoli ora mi ho a narrare. Per ben diciassette anni il Governo era andato applicando l'animo alla felicità al progresso, ed alla civiltà di questi popoli; né indarno, sì come si è dinanzi notato, avea spese le sue cure; pochi di bastarono per minare dalle fondamenta edilizio cotanto, e balestrare questo felicissimo Regno fra uccisioni ruine tutto sangue, ed altre più orrende calamità.

Fra perturbazioni lutto sciagure, e timori grandi volgeva al suo termine l'anno 47 del presente secolo, e fra più grandi timori sciagure, e lutto l'anno seguente incominciava.

I tumulti di Penne di Cosenza di Siracusa, le turbolenze di Gerace di Reggio e di Messina,

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i rumori di Napoli e di Palermo erano altrettanti rivi, cagioni o indizio di furioso torrente, che di breve ringorgato torbido, e rimugghiante sarebbe precipitato dalle Oretee sponde, e quasi tutta Europa con larga inondazione rattristato avrebbe. Taluni d'avidità di fortune, altri da sete di vendette, chi da odio, o da spirito di parte, e chi da furore settario, o da brutale istinto di sangue, o da passioni municipali o da altre cagioni spinto, tutti per diverse vie col medesimo furore, allo stesso scopo di subissare il Regno correvano. Feral nembo sugl'innocenti popoli delle due Sicilie le sfrenate passioni addensavano.

Già per noi si è narrato nel precedente libro quando e come in Sicilia ribollissero gli animi, e con quali modi la insurrezione imbastissero, e i loro proponimenti manifestassero. Ma ossia che le Autorità Principali dell'Isola incontrassero un argine nella corruzione dei subalterni, ossia che credessero che la rivoluzione stesse in pochi sconsigliati, i quali non si pruoverebbero a metterla ad effetto, ossia che una fatai paralisi nei loro animi albergasse, ossia che era ormai tempo in che l'ira di Dio percuoter dovesse le umane generazioni, nulla si fece di positivo da coloro che guidavan la pubblica cosa per ammorzare quelle prime scintille. Cionondimeno la Guarnigione di Palermo si era tenuta pronta e dì e notte nei proprii quartieri ad ogni evento; e si era ordinato, che in caso di allarme il Forte di Castellamare si mettesse nello stato di difesa; le quattro compagnie del secondo di linea si attelassero sullo spalto di esso Forte, mantenendo comunicazione col quartiere della Gendarmeria, e con la truppa accasermata ai Quattroventi, e spedendo una compagnia di rinforzo alle Finanze; la truppa dei Quattroventi garentisse la Vicaria, e l'Arsenale; e che le nove Compagnie del 1.° Granatieri, il 1.° di Linea, ed il 3.° Dragone stessero a tutela dei proprii quartieri, e del Palazzo Reale. Inoltre fin dai principii di Gennajo la Polizia avea spinto imprigionati nel Forte di Castellamare undici dei Capi della rivolta.

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Ad onta di tali disposizioni, e previggenze i Siciliani non si erano tirati in dietro, anzi con maggior fervore nella loro bisogna avanzavano; ed erano molto incuorati dall'estero favore; ché nel torno di quei dì apparve nelle palermitano acque un Vapore Inglese, il cui Comandante disceso a terra tenne abboccamento coi Capi dei Congiurati, e poscia rimbarcavasi ed in altri punti dell'Isola sediziosi semi trapiantava (1). L'incendio d'allora in poi più che mai si nutrì. Un Comitato già esisteva in Palermo composto dei più notabili Cittadini, il quale clandestinamente, e con molto calore dirigeva ed estendeva le file della sollevazione, molte armi e provvisioni si eran preparate, innumerevoli fogli di lusinghe d'invito di minacce pieni occultamente diramavano ai fratelli di Napoli, ed alle milizie, con lo scopo d'indurre i primi a pronta rivolta alfin di stabilire nei domimi continentali un gran punto di diversione delle forze del governo; e di spinger le seconde alla inazione, o al tradimento. In Corleone, in Carini, in Termini, in Cefalù, in Misilmeri, in Bagheria a pieno giorno si affiggevano cartelli turbolenti, si parlava della prossima rivoluzione, gli animi sì rinfocolavano a vicenda, e non altro mancava ad insorgere che il segnale, e la determinazione del tempo. All'una ed all'altra cosa provvidde Palermo addì 9 e 10 Gennajo, poiché pubblicamente si distribuivano cartelli stampati, ne' quali con enfatiche parole fermavasi il giorno 12 di quel mese come principio della rivoluzione. Corsene sollecita la fama per le siculo contratrade, tutti al fatai proposito caldamente attesero.

L'alba del 12 Gennajo 1848 sorgeva tra feste e giulive salve in Napoli, sanguinosa e trista in Palermo sorgeva; poiché, sì come avean fermato, irruppero i Siciliani.

(1) Rossi. Storia dei Rivolgimenti Politici ecc. Voi.. pag.54-Napoli 1851.

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Le milizie fin dalla prima aurora avean preso le posizioni summentovate. Un silenzio universale nunzio di calamità regnava per la sicola metropoli, la maggior parte delle botteghe chiose, nei larghi e per le strade qui e colà come sbadatamente, ma da un pensier comune predominati, vedeansi molti inermi che componevansi in crocchi in brigate si scioglievano si riannodavano, e sempre alla funesta opera scambievolmente s'infiammavano. Verso fieravecchia e via lattarini non mancava qualche pugno di armati ricinti da moltissimi inermi pronti a seguirli.

Intorno alle 8 a. m. confortevoli notizie aveva avuto il Luogotenente de Majo, ma contrarie se l'ebbe poco appresso; poiché spedito il tenente Armenio dello Stato Maggiore per la Città osservava molta gente dalle finestre come se stessero in aspettazione di gravi avvenimenti, trovava abbandonati i posti di guardia della posta e del palazzo di città, avvicinandosi alla casa municipale veniva applaudito con molto batter di mani dal Pretore e da molti Gentiluomini dal loggiato di quella, e da molti altri che nella strada erano, verso il palagio della Intendenza s'imbatteva in una turba di più di quattrocento persone inermi ed armate, le quali ornati i petti di nastri tricolorati, sventolavano bianchi fazzoletti, ed invitavanlo ad appressarsi; e domandate dall'Armonio cosa importar volessero quelle novità rispondevagìi il Capo, che bramavano le concessioni chieste indarno, e che la milizia pel comun bene ad essi si accostasse; e ripreso dignitosamente il chiedente che avrebbene riferito al Luogotenente, facea ritorno a Palazzo.

Poco dopo le infauste novelle di Armenio fu spedito il Capitano Grenet dello Stato Maggiore a perlustrare con un plutone di dragoni la strada che dal piano di S. Erasmo accenna a porta di Castro, e nel ritorno trovava in via Macqueda vicino la porta S. Antonino uno stuolo di gente taciturna, che agitava fazzoletti e bandiere, e tosto faceala dissipare dai dragoni; ma ritornato il perlustratore drappello

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si ebbe tratte due fucilate da alcuni popolani, i quali inseguiti di galoppo fuggendo faceva» fuoco, e si dispersero. Nessun segno rimmanea più di agitazione in quel punto, sì che Grenet ritornava a Palazzo.

Quasi contemporaneamente a tale spedizione era di nuovo mandato Armonio con fanti e cavalieri, il quale percorse varie strade tranquillamente, ma giunto in quella che conduce a porta Montalto una grandine di palle ed un continuo balestrare di materiali varii dalle finestre irruppe. Sì spinse avanti la bersagliata milizia, e fugati i ribelli dalle vie, ritorcea il cammino pel Palazzo, ritraendosi dal pericoloso luogo.

Questi due fatti segnarono il principio della insurrezione, la quale non ebbe più limiti. Cambiossi repente lo stato della città vi sorse un gridare una rabbia un correre contro i napoletani da non potersi dire, tutti i siciliani furono in armi, i più audaci formicavano per le vie, gli altri nelle case rimaneano pronti a concorrer con ogni mezzo di distruzione alla vittoria. Un suonare di campane a martello continuo e pressante accresceva terrore e sdegno; dalle finestre dai balconi dalle feritoje praticate nei muri, dalle grondaje usciva il micidial fuoco. I campanili i monasteri i palagi, ogni edilizio sacro o profano era luogo di guerra.

Assaltarono il gran locale delle Finanze, ferendo due della guardia esteriore, assalirono l'Ospedale Militare, e tutti gl'infermi come prigionieri menarono, disarmavano alcuni granatieri inconsideratamente usciti dal Forte di Castellamare, spedirono messi e lettere e concitatori nelle vicine contrade, tutti alla comune difesa appellando. Le quali piccole fazioni, sebbene non arrecasser veruna iattura al Corpo di Armata stanziante in Palermo, erano nondimeno di grande incitamento alla già concitata città, poiché interpetrato per fuga il ritorno dei militari drappelli, per vittoria la necessitosa dedizione di pochi o infermi soldati, oppressi da numerosi stuoli, e aggiuntivi i magnificamenti di gente entusiasta,

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o della bugiarda fama, ormai parea che la rivoluziono fosse incrollabile fino da quel primo momento, e che man mano si renderebbe più gagliarda e inespugnabile. Nella sera del fatai dì splendea per larga laminazione il palermitano Toledo, l'aere da voci di libertà era assordato, gli animi e le forze pei venturi dì si preparavano, e le armi si forbivano.

Surse la nuova aurora fra nuovi segni preparativi e fatti di conflitto, e mentre gli armati in varia guisa combattevano, i Capi dei Congiurati a tutte le bisogne della rivolta ferventemente vacavano.

Nella piazza della FieraVecchia palesa vasi un Comitato provvisorio volto alla difesa della città, il quale si recava presso i più cospicui cittadini per trarli nel baratro di già aperto; congregava la palermitana municipalità per la instituzione di altri comitati nei quali esso si fuse, provvedendo il primo all'annona, il secondo a somministrare le munizioni da guerra, e sopraintendere alla pubblica sicurezza, il terzo a racemolare tutte le possibili somme e disporne, il quarto a raccogliere tutte le notizie dei fatti e divulgarli per le stampe, e l'ultimo ad accorrere dove bisognassero pronti provvedimenti.

Intanto la fama, più nelle maligne che nelle buone cose sollecita, avea sparso in un baleno le concitazioni onde la siciliana metropoli travagliava, e in tutte le parti si preparavano ad imitarla. Venivano a strade calcate i combattenti dal contado e dai paesi prossimani, la città inondavano, ed allo sdegno ed al sangue i fieri animi aguzzavano. Le donne istesse da quella follia invasate le gemili membra al ruvido esercizio delle armi educavano, o dei loro feriti sollecita cura prendevano, o vestite di Amazzoni con parole e con l'esempio gli animi di già concitati concitavano.

Il Luogotenente Duca di Majo, veduti appena i primi lampi della procella, avea fatto volare sulle ali dei telegrafi

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che il Reggimento Dragoni occupasse il piano S. Teresa e borgognoni, e con un plotone perlustrasse il lungo stradone che accenna a Monreale; che il primo Granatieri della Guardia ed il primo di Linea al piano del Palazzo s'indrappellassero; che un distaccamento l'Ospedale Civico guardasse, e qualche altro il Papireto, il quartiere del Noviziato, e di S. Giacomo, che l'artiglieria stesse sui bastioni di Palazzo, e due pezzi da campagna la dritta Toledo spazzata tenessero; che la guardia delle Finanze si rendesse più gagliarda con l'arrota di un gagliardo distaccamento del secondo di Linea; che la guarnigione del Forte di Castellamare di tre compagnie della Guardia, e due del secondo di Linea, con buon numero di artiglieria si accrescesse; che ai Quattroventi si attelassero due battaglioni del decimo di Linea, uno del nono, distaccandone due partite per custodire la Vicaria ed il Castelluccio del molo; e che due batterie da montagna si ordinassero in battaglia nell'ampio largo della Consolazione per accorrere ove più il bisogno ne scadesse.

Intanto in ogni giorno montava la ribellione, poiché si moltiplicavano i mezzi, i già compromessi gli altri compromettevano, la inattività delle milizie tenuta per viltà oltre ogni credere gl'imbaldanziva, il vapore il Porcupjne arrivava come il fatal cavallo di Troja gravido di armi e di munizioni, la marina inglese faceva plausi, augurii, incitamenti, nel Giardino della Flora e nel Teatro agitavansi le bandierine tricolori in cima alle inglesi spade (1), molte altre circostanze concorrevano al progresso della sollevazione; si che molte cose nel giorno 14 mandavansi ad effetto. Cominciavasi la pubblicazione del Giornale il Cittadino, prepotente strumento di concitazioni. I fatti degli scorsi giorni con esagerate parole recava in luce, le quali pari a scintille fra infiammabili materie guizzanti, accrescevano oltre ogni credere la febbre

(1) D'arlincourt. L'Italia Rossa ecc. pag.169. Ediz. di Livorno.

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che tutti contaminava: le generose milizie eranvi avvilite e malmenate; la ribalda popolaglia magnificata; commendati alla pubblica riconoscenza gli Eroi e le Eroine, contorti i fatti; di laudi di vituperii di esagerazioni di conculcamenti, secondo che portavano le sbrigliate passioni, quel giornale era dispensiero. Blandivano i soldati prigionieri, con ogni maniera di lusinghe accettavano i pochi disertori, negli scritti e nei fatti grande amore ai militari prosternevano; il che per altro non da sensi umani, ma sì bene da scaltri menti e da arti derivava; imperciocché molto tempo non andò e dentro e fuori Palermo crudi fatti succedevano, e più tardi Messina videsi contaminata da barbara gente che la carne degli uccisi soldati masticacchiavano. Bene sei seppero le infelici famiglie militari rinchiuse nel quartiere del noviziato, dal quale, perché divenuto pericoloso, convenne trarle, e farle convoiare da una compagnia a palazzo: una grandine di palle fischiava intorno alle timide donne, le quali faceano schermo dei proprii corpi alle loro innocenti creature: lacrime dolori paure strida ferite la innocente carovana contristarono.

Ormai era tempo che la umanità si ponesse da banda; però il Luogotenente ordinava al Colonnello Cross Comandante del Forte di Castellamare che in ogni 5 minuti briccolasse delle bombe nella scovolta Città risparmiando strada Butera e porta Macqueda, tutte le volte che vedeva innalberata la bandiera sul real palazzo. Scorrevano per lo scosso aere i proiettili il terrore fu grande, e già molti del vicino contado volevano togliersi dall'impresa, quando i Capi fecero intendere, che nella dimane avrebbero trovato modo da impedire il bombardamento.

Ed infatti, il Commodoro Inglese ed i consoli francesi ed inglese ottennero una sospensione di 24 ore, la quale veramente rimise animo ai disanimati villanzoni, l'ardimento venne al colmo, pericoli non curavano, ad ogni più rischievole impresa si abbandonavano.

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Alquanti imprudenti, e forse avvinati osarono farsi innanzi al Castello e tirar colpi di fucile, ma una terribile scarica dei cannoni e della fucileria del lato molestato ogni ardimento spense. Salvadore Miceli, brigante, ardiva mostrarsi alla cavalleria che perlustrava lo stradone di Monreale, ma tosto dalla rischievole impresa ritraevasi. Nel 14 quegli stesso con ribollenti torme combatté il piccolo distaccamento che stanziava in Monreale, e dopo ostinata pugna facealo prigioniero. Nel tempo medesimo un Giuseppe Scordato, eziandio fuorbandito, capitanando gran numero di armati, vinceva dopo breve conflitto il distaccamento di fanti che era in Bagheria. Questi due campioni entravano nella sconvolta città con un confuso satellizio di armati, e quasi a trionfo con le vinte schiere. Gli applausi, le congratulazioni, l'entusiasmo al sommo.

Ardimento partoriva ardimento, e ogni azione di molte altre era cagione o sprone. Introdussersi i ribelli per una finestra nel Quartiere dei Gendarmi a piedi che stavano in armi nel piano inferiore: tosto si appiccò una pugna, ma questi molestati da fucilate e da materiali che dai sovrastanti balconi gittavano, man mano si ritraevano nella strada coperta del Forte, le di cui cannonate a scheggia tennero infrenati gli assalitori, e tempestarono i micidiali balconi; e guari non andò e la gendarmeria con laudevole coraggio discacciava i rivoltuosi, e riacquistava il perduto quartiere. La Guardia delle Finanze ormai stremata di viveri e di munizioni versava in gran periglio ove un assalto si fosse fatto; epperò una Compagnia del secondo di Linea dal Casello coraggiosamente si avanzò fra il fuoco dei popolani, e felicemente giunse in soccorso dei minacciati commilitoni; sì che le Finanze rimasero guarentite, anche perché dal Forte quando a quando lanciavansi nel vicino largo delle bombe.

Mentre tali cose succedevano in Palermo, nel giorno 14 Gennajo scioglieva una flotta di nove legni a Vapore dal porto di Napoli, comandata da S. A. R. e I.

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Il Conte

Viaggiava pel designato luogo la napolitana flotta, o nella seconda metà del giorno 15 vi arrivava. Palermo in veggendola di spavento si empié. Dei ribelli chi si ascondeva, chi ricoveravasi sui legni francesi ed inglesi surti nel porto, la piupparte dileguavasi nell'aperto delle vicine campagne, o su pe' monti che le fan corona, le armate torme gittavan per le strade ogni guerresco arnese, infine pareva come per miracolo finita la ribellione. Frattanto il Maresciallo sbarcava le sue genti sulla banchina del palermitano Molo, le quali unite a quelle dei Quattroventi eran pronte nella dimane ad ogni guerresca fazione. Stavano in sospeso tutti gli animi intorno alle future sorti di Sicilia, ma per la maggior parte si riteneva, che la Palermitana rivolta senz'altro dovea essere postrata da un Generale, che avea a suoi cenni dicciotto battaglioni di fanteria, un reggimento di cavalleria, e ben trentadue bocche da fuoco, oltre a' castelli, e ad una flotta a vapore, i quali non che sottomettere, avrebbero potuto inabissare non una, ma cento città. Tali erano i giudizi! degli uomini; ma i fatti avvenire furono da quelli assai diversi.


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CAPITOLO II.

L'ARMATA IN PALERMO.

Sommario

Desauget mette in comunicazione il suo Quartier Generale con le preesistenti truppe; indi nulla di positivo fa. Addatisine i sollevati, riprendono animo ed armi. Assalto delle Finanze, del Convento dei Benedettini, e del Quartiere di S. Zita. Le comunicazioni tra i Regii di nuovo interrotte. Progetto del Luogotenente, e sue trattative col Pretore, le quali punto non rattengono la ribellione. Il Monastero di S. Elisabetta. Il Re affine di cessare la guerra manda opportune concessioni, le quali per turbolenti consigli sono respinte. Indarno si adopera per la pace Desauget. Strane pretensioni del Comitato. Il Quartiere del Noviziato, e della Gendarmeria. Assalto dell'Ospedale Civile; sciagura miseranda degl'infermi raccoltivi. Abbandono del Regio Palazzo. Orrenda catastrofe dell'Olivuzza. Vandalismo della Magion Reale. Le Finanze ingannevolmente strappate ai Regii. Desauget volge l'animo al ritirarsi. Incomportabili pretese del Comitato. Disastrosa ritirata dell'Esercito.

Il Maresciallo Desauget cominciò le operazioni militari aprendo comunicazioni tra il suo Quartier generale dei Quattroventi, e le posizioni che tenevano le preesistenti truppe; epperò il General Nicoletti si muoveva con cinque battaglioni di fanti, una sezione di artiglieria di montagna ed un' altra di campagna, e dopo piccoli scontri lasciava un battaglione nella Villa Filippini, spazzava le vie dai ribelli, perveniva a Palazzo, conferiva col Luogotenente, e tranquillamente ritornava nel Quartier Generale.

Grande animo avean portato le arrivate milizie, grande animo avean ripreso le esistenti milizie; sì che non altro

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Ma indarno il comando si aspettò; una fatai paralisi, sulla di cui cagione vaga ancora incerto lo Storico, la virtù di quel prode e sapiente Guerriero intiepidì o spense.

Bene se ne avvidero, e profittarono i Siciliani ad ogni piccol cosa mai sempre vigili ed intenti; si che man mano andavano riprendendo gli spiriti; i Capi ritornavano alle parole ed agl'inviti, i dileguati si riannodarono, le armi furon ripreso e riforbite, più minaccevole e largo l'incendio arse. Ne' dì seguenti non fu che una continua seguela di combattimenti per impossessarsi delle posizioni delle truppe. Disselciavano le strade, scavando fossato; innalzando barricate: fra le tegole o nei muri facean feritojo; donde i più timidi tiravano, mentre gli animosi talora allo scoperto si mostravano. I soldati alla lor volta gli aperti nemici coi valorosi petti combattevano, e gl'ingnivomi edilizii a furia di cannonate tempestavano.

Le Finanze formarono principale obbietto dei Siciliani. Più volte ma indarno aveanlo assalito; finalmente postarono due piccoli cannoni diretti ad infrangere il cancello di ferro dell'entrata principale, e già erano per riuscire nell'intento il giorno 17 con un largo investimento, allorché, avvertiti del pericolo, accorrevano due compagnie di Granatieri, e del 2.° di Linea, con duo cannoni da montagna, le quali animosamente si spinsero innanzi, e dispersero i rivoltosi, i quali per altro dal vicino Commissariato di Polizia a furia traevano dalle feritoje, sì che convenne assalirgli. Andarono all'assalto tre distaccamenti della Guardia, del 2.° di Linea, e della Gendarmeria poco stanto accorso, ed un pezzo da montagna. Un nembo di palle infieriva da tutti gli edifizii, i prodi soldati si fecero innanzi, forzarono l'esizial Commissariato; dei rivoltosi alcuni perirono, altri scapparono per le finestre; da ultimo incese due bombe che un Uffiziale del 2.° di Linea ave», portato a mano, fecero sbalestrare in aria il tetto del casamento. Conseguito l'intento si facea ritorno alle Finanze.

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Dal Convento dei Benedettini Bianchi era assai molestato l'avamposto di Porta di Castro, si che fu mestieri assalirlo. Due gagliarde partite di Cacciatori e di Granatieri della Guardia, dopo aspro combattimento vi penetravano. Non altro rinvenivano che allegri banchettanti, i quali come prigionieri di guerra eran condotti, quando accorsero i sollevati per liberarli, dirigendo una furia di fucilate sui militari che alla lor volta con egual furia rispondevano; ma in questo i prigionieri tentarono fuggire, sì che i soldati pel sangue dei loro compagni ormai inferociti scaricarono le armi ai loro danni, e si ritirarono.

Il Quartiere di S. Zita in altro giorno fu investito. Il suono della tromba avvisava del pericolo il Comandante del Castello, il quale tosto mandava a conforto del distaccamento che lo guardava una Compagnia del 9.° di Linea, la quale s'internò per la porta S. Giorgio, s'introdusse nel quartiere, e poscia raggiunto il fine si ritirava. Poco dopo andavano con maggior furore all'assalto i ribelli, dei quali alcuni s'introdussero per le finestre, sì che pressata da ogni parte la milizia, in mezzo a un vivo fuoco si riparava nel Castello, lasciando il quartiere in potere di quelli, che tosto a sacco e a ruba il posero.

L'un dì più che l'altro in mezzo a tanta conflagrazione si rendevano difficili le comunicazioni tra i varii posti dello milizie. Abbisognava mandare un nervo di fanti e di artiglierie domandato dal Luogotenente una col Brigadiere del Giudice per riprendere il comando della propria brigata. Preparato il rinforzo, era pronto a muovere, quando udissi un fitto trarre di moschetteria; Desauget si mise in sul credere, che il battaglione lasciato nel giorno innanzi (16) ai Filippini fosse aggredito; sì che ordinava al Brigadiere del Giudice, che nel portarsi a palazzo lo ritraesse da quel luogo ed alla sua schiera lo aggiungesse. Partiva il Brigadiere, ma rinveniva tranquillo il battaglione, il quale ciononostante dovette essere spostato da quel sito; epperò la comunicazione fu di nuovo interrotta.

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I ribelli uscirono

Ardeva a tal modo la guerra spicciolatamente. Sangue fraterno si versava. La piupparte della popolazione Palermitana, uomini buoni e tranquilli, pavide donne, innocenti creature, fra grandi perigli e grandissimi timori erano. Le truppe dall'audacia degl'insorti, dalla reità della stagione, e dai disagi della guerra travagliate. Tanto male presente, reso più grave da mima speranza avvenire, contristava assaissimo gli assediati e gli assedianti; solo il maligno genio della ribellione satollo gavazzava in quella infernale orgia, come le belve fra i carcami, ed i lamenti delle morenti vittime paghe gavazzano. Ormai era tempo di venire a qualche cosa di positivo. Epperò il Luogotenente mandava una lettera al Pretore addì 19, nella quale esortavalo a portarsi da lui alfine di volger l'animo a qualche temperamento che valesse a soffermare lo spargimento del cittadino sangue. Rispondea l'astuto Siciliano variamente ghermendosi per non rendersi all'invito, e progettava che si fosse diretto al Comitato Generale.

Avea il Luogotenente nella notte antecedente spedito a Desauget un Uffiziale dello Stato Maggiore convojato da mezzo squadrone di Cavalieri, affin di rappresentargli, che le truppe del palazzo e del noviziato ormai affralite, e stremate di viveri e di munizioni erano in gran pericolo ove un assalto si fosse dato dai ribelli i che egli era di credere, che spingendo un concertato e simultaneo sforzo delle truppe contro gl'insorti, ottimi risultamenti si conseguirebbero, e che pertanto ove nel suo parere si accostasse, combinassero i movimenti per mezzo dei segni telegrafici. Desauget conveniva nell'esposto del Luogotenente, ma rispondea, non esserne ancora il tempo; porterebbe la sua meditazione sulle proposte cose, si aspettasse quello che andrebbe a risolvere (1).

(1) Rossi. Storia dei Rivolgimenti Politici cc. Vol.1. pag. SO-Napoli 1851.

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Nel mentre che il Maresciallo risolveva, i Siciliani operavano. Il telegrafo di Monte Pellegrino che metteva in relazione i telegrafi di Palazzo e del Castelluccio, veniva distrutto, e con esso le comunicazioni fra le truppe di de Majo e quelle di Desauget mancavano.

Incalzavano le angustie del Luogotenente; poiché ogni speranza si andava spegnendo in lui, sì che lasciata la spada, riprendea la penna ed al Pretore nuovamente scrivea. Si badasse a porre un termine alle ingrate ostilità; fosse informato delle pretenzioni del Siciliano popolo, che egli a Sua Maestà farebbe conoscere; promettere egli l'invio di un Vapore a tale oggetto; frattanto non si traesse colpo da ambo le parti; aspetterebbesi la risposta della Maestà Sua; poiché quanto a lui, nulla potea decidere, null'altro potea fare, che sacrificarsi pel servizio del Re. Lo scaltro Pretore, scorgendo in tali detti quello che ognuno avrebbe scorto, ossia la debolezza per comprimere la rivolta, si facea tosto a rispondere: avere nell'antecedente lettera fatto conoscere che non a lui ma al Comitato Generale la Eccellenza Sua si fosse diretto; aver subito passato a conoscenza di esso Comitato la lettera; il quale avea risposto, che il popolo non poserebbe le armi, se non quando Sicilia riunita in general parlamento avrebbe adattato ai correnti tempi la Costituzione del 1812 - Rescriveva il Luogotenente nel giorno appresso (20): che aveva finalmente conosciute le intenzioni del popolo Siciliano, e che tosto sottometterehbele a Sua Maestà per quelle determinazioni che crederebbe. Il Pretore rispondea aver comunicato il foglio dell'E. S. al Comitato, il quale insisteva nelle già manifestate idee. Infatti fu spedita una Fregata a Vapore per a Napoli, messaggiera delle siciliane sorti.

Se non che, le pacifiche trattative non aveano punto nulla intiepidito l'ardore della ribellione. Stabiliti otto quartieri militari in tutta la Città; un quartiere generale alla Fieravecchia; una direzione di artiglieria per somministrare le munizioni;

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un uffizio risguardante il servizio marittimo; un regolamento provvisorio per le squadre. Diviso il Comitato Generale in due sezioni, delle quali una alla difesa, e l'altra all'Amministrazione intesa.

Gli armati non si rimanevano inoperosi: in sul cadere del giorno 21 dal rispettato e pacifico asilo di S. Elisabetta, formante cantonata con l'Ospedale Civico nel quale dopo scacciale le monache si era tesa un' imboscata, uscivan fucilate ai danni degli avamposti del Real Palazzo, alle quali vigorosamente risposero i soldati, e dopo smantellata la porta del Parlatorio a colpi di cannone, una compagnia di Cacciatori l'occupò. fuoco in breve finì.

Lo sgombero del battaglione dalla Villa Filippini avea, come si è cennato più innanzi, divisi i due corpi di armata napoletani, e per la distruzione del telegrafo di Monte Pellegrino si era interrotta ogni segnalazione, sì che quando occorreva una comunicazione abbisognava spedire un battaglione per la via fuori le mura. Infine dopo varie ricerche si arrivava a «inalberare un telegrafo ad un' ala sul loggiato coperto di Portauova, il quale con quello del Castelluccio del Molo corrispondeva.

Intanto il Magnanimo Re nel santo scopo di spegnere la guerra, mandava come iride di pace le concessioni che la sua saggezza e i tempi, e lo stato politico di Europa permettevano, di cui facevan parte una generosa amnistia,1' abolizione della promiscuità, la scelta veramente pregevole di S. A. R. e I. il Conte di Aquila a Luogotenente dell'Isola. Nel far del giorno 22 si pubblicarono i Regii Decreti, dalla piùpparte si gridava pace; un dolce fremito di pacificazione toccava tutti i cuori delle milizie; e parean soddisfatta!c palermitane brame. Fallaci apparenze, lusinghevoli credenze! Il linguaggio delle passioni non era muto; coloro che piaggiavano i popolani eran tuttavia viventi; i fatali stranieri non ancora allontanati. Perlocché le regie concessioni si rifiutavano, e baldanzosamente si ritornava al suono della Costituzione.

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Il Maresciallo Desanget nello scopo di comporre la faccenda mandava due Uffiziali al Comitato Generale, premurandoli a sospender le ostilità, e contentarsi di quelle disposizioni. Rispondea il Comitato, aver avuto simili proposte dal Luogotenente, ribadire quelle stesse idee. Facea novelle premure il Maresciallo perché gli atti ostili cessassero, e il Comitato si rendesse a bordo del Gladiatore, Vascello Inglese ancorato nella palermitana rada, per vedere di aprire un' adito alla pace. Pacca sentire il Comitato che si rimarrebbero dalle ostilità nel solo caso in cui si cedessero le posizioni occupate dalle truppe; e che le sorti della Sicilia doveano esser decise dal nazionale parlamento. Disconcluso rimancasi il Maresciallo. A tanta baldanza non altra risposta era opportuna, che quella delle armi; ma le armi non si adoperarono contro coloro che le armi adoperavano, e di sangue, di eccidii, e di ruine la siciliana metropoli empievano.

Respinta ogni via di conciliazione, gl'insorti a guerresche fazioni cotidianamente intendevano. Ai declinar del giorno 22 il quartiere del Noviziato fu l'obbietto degli assalti. Bruciarono la porta del gesuitico tempio che col quartiere, una volta noviziato dei gesuiti, comunicava; scardinarono la porta principale; un doppio assalto commisero; al quale la guarnigione con massimo furore ostava. Videro le sacre mura di Dio le faci, il ferro, il sangue, le morti; i reconditi e quieti recessi da grida furibonde, da lamenti di feriti, da accenti di agonie profanati. Gli assalitori ormai validamente percossi, laceri, sanguinosi e menomati andavano in rotta. Il prode distaccamento in possesso del contrastato luogo. Tornava il giorno tornavano i furori. Più numeroso stuolo andava alla pugna. Resistettero i soldati; tennero fino a sera il quartiere; ma ormai prevedendo qualche sinistro nel terzo giorno, deliberarono di abbandonarlo. Era alta la notte, pieno il bujo, stemperata la piova, gelido l'aere, quando dal Palazzo Reale si muovevano dei carri da trasporto, convojati da fanti: arriva

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conducendo le napolitano famiglie che nel pericoloso luogo stanziavano, facean ritorno silenti in mezzo al fracassio della rea notte, e nel palazzo sani e salvi rientravano. Sopraggiunta la terza luce givano a nuovo assalto i siciliani, ma risposti d, al silenzio, irruppero nel vuoto edifizio di loro sangue tinto, ed a sacco e a ruba il posero. Indi fattisi alle finestre più alte di quelli si misero a trarre furiosamente si come anche traevano dal vicino Palazzo Guccia su i Bastioni del Real Palazzo, sul Papireto, e sul Quartiere di S. Giacomo; ma l'artiglieria di Portanova e del Papireto quel furore con opportuni colpi ammorzò.

La Gendarmeria, che aveva tanto eroicamente difeso il suo quartiere contro 1'assalto dei ribelli verso le 2 p. m. del dì 24 fu obbligata ad uscirne; poiché il fuoco appresovi da quelli con materie bituminose nella tettoja erasi dilatato, e minacciava di arder tutto. Le appaurite famiglie con la Gendarmeria dal pericoloso luogo si ritraevano, e nelle Finanze si ricoveravano.

I siciliani, dopo occupati il Noviziato, il quartiere di S. Zita e della Gendarmeria, volsero le rannate forze contro dell'Ospedale Civile. Un nembo di palle imperversava su quell'edifizio; sì che crivellate o fracassate le finestre, i difensori che se n' eran fatto schermo, male potean reggere; epperò curavano di aprire delle feritoje, ed in tal mentre i ribelli, assalita e schiantata la porta, s'introdussero e misero a fuoco un andito di legname; i soldati scaricate le armi ai loro danni, si ritraevano in altra parte dell'edifizio. Se non che l'attacco alla porta era finto, il vero si effettuiva da un muro di un corridojo unito per mezzo di un arco alla Infermeria de Cappuccini; e già si stava forando il muro quando addatisine i soldati, vi traevano a furia, ma dal fumo che dall'appreso fuoco colà penetrava furono astretti a indietreggiare, e quindi a ritirarsi nel Palazzo Reale in mezzo ad una impetuosa e fitta moltitudine di palle che dai circostanti edifizii grandinavano.

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Impertanto l'incendio che dapprima quasi inosservato era, di breve si dilatava, si accresceva, s'ingigantiva, si rendeva impetuoso; gli sventurati infermi ormai in grave pericolo versavano. Fitti e neri globi di puzzolente fumo ammorbavano i corridoi, e l'aere contaminavano, rendendolo grave al respiro ed alla vista: guizzavan le voraci fiamme in mezzo a quella buja nebbia, ogni cosa all'estrema ruina si appressava. Gl'infermi ormai vicini a tanto infortunio, e senza speme di umano aiuto fra uomini che pensavano a contristare non a soccorrer l'umanità, erano oltre ogni credere desolati. L'istinto invigoriva a taluni le grame ed affralite membra, ed a cercar salute in altri punti li traeva. Avresti veduto tutti dal volto squallido ed esterrefatto, e dagli occhi molli di pianto variamente alla loro salvezza intendere. Gli uni chiedere pietà né indarno ai soldati, nei quali l'amore dell'altrui vita più che la propria potendo, si recavano sulle spalle i morenti o gli storpii, ed in luoghi più sicuri li trasportavano: gli altri carpone, o brancolanti pian piano si strascinavan fuori dell'imminente periglio; taluni più vigorosi davano aiuto ai più deboli: chi smarrito di mente, chi svenuto. Pianti, querimonie, strida, lamenti, scrocidar di fiamme, fracasso di moschetteria, nembi di fumo, incendio distruttore, ruine estreme reser tristo e memorando l'assalto di un edificio cui la carità dei nostri Maggiori destinava a pietoso fine, e che i presenti nella più spaventevole sciagura precipitavano. Oh! quanti vi furono che dalle ire dei morbi scampati, nell'incendio dopo cruda vicenda di timori e di speranze, esalarono la vita! Il luogo istesso che lenimento ai dolori, o fine ai mali. avea dato, divenne per essi voragine di morte!

Il monistero di S. Elisabetta, dopo breve pugna, cadde in mano degl'insorti in quel medesimo dì; sì che i militari tutte le posizioni andavan perdendo; e lo stesso Real Palazzo, sedia del Luogotenente, fra non molto seguiva la stessa sorte.

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Già per noi si è cennato in qual modo ai siciliani cuocesse il conquisto del palazzo reale, e come vi si adoperassero in ogni momento, ora soggiungerò, che recatisi ormai in potestà quasi tutti gli edifìci! che lo ricingono, così frequentemente saettavano con la fucileria, e fulminavano coi cannoni, che ormai il largo che innanzi a quello si distende erasi renduto molto periglioso e mortale. Vero è che i bastioni che lo guarentiscono sovente sfolgoravano, ma poco danno ai nascosti nemici apportavano.

Perlocché, volgendo sempre in peggio lo stato delle cose, il Luogotenente de Majo in sull'annottare del giorno 25 raunava un Consiglio di Generali affin di prendere una determinazione opportuna. Andava egli esponendo le ruinose circostanze, i fatali avvenimenti, la stremità dei viveri e delle munizioni, la moltitudine delle famiglie stazianti nel palazzo, il sorprendente progresso della rivoluzione, l'aumento dei ribelli, il favore straniero che confortatali, i disagi delle milizie, la difficoltà di sopportarne ulteriormente, la poca o nessuna speranza dì soccorso dal quartiere generale dei Quattroventi, le istruzioni avute, e per ultimo concludeva, che sarebbe di parere, che tolto ogni indugio nella stessa notte abbandonassero il palazzo reale e i vicini quartieri, e con tutte le milizie presso il Maresciallo Desauget si portassero.

Intese il Consiglio le proposte cose, e dopo qualche osservazione, si accostarono tutti alla conclusione del Luogotenente, sì ché fu fermato, che si chiodassero i cannoni di posizione, tutti i feriti non atti a marciare, le famiglie dei militari, ed una piccola partita di fanti si lasciassero, il Maggiore Ascenso palermitano ne rimarrebbe al comando con le più ampie facoltà di capitolare; e finalmente che si battessero le vie di Colonnarotta e dell'Olivuzza.

Preparatosi tutto alla partenza, la prefissa ora sì aspettava. Ma per via un'altissima sciagura gli attendea; imperocché eran soliti i ribelli di porsi in agguato all'Olivuzza dove la strada corre fra due alte e lunghe mora, e bersagliare il battaglione

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che a quando a quando dal quartiere generale si menava a palazzo reale, latore di viveri munizioni ed ordini. Anzi trapelata non si sa come la partenza, molte altre squadre erano accorse nel fatai luogo, o si tenean parate ad accorrervi.

Era ormai al suo colmo la notte dei 25 Gennajo, nebuloso e profondamente buio il ciclo, crudo ed umido l'aero, per fanghi rigagagnoli e gore impraticabili lo strade, quando si mosse il Luogotenente con una lunga e numerosa carovana di soldati, e di famiglie napolitane. Davano l'addio, che per molti era l'estremo, alle regie mura preservatrici, camminavano qui e colà incespicando con l'incerto pié, agitati dalla paura, percossi dalle intemperie, a malo stento si tiravano innanzi, nella murata via dell'Olivuzza erano ormai giunti, quando si udirono alquante fucilate, le quali ratto si moltiplicarono, si resero fitte, crescenti tempestose; tutta la fuggente moltitudine erano bersaglio. Nessuno si pensi che siasi dato al mondo caso più lacrimevole e miserando di quello. Grida strappate dallo spavento, o dalle ferite, gemiti di fanciulli, strida di donne, lamenti di agonizzanti, accenti di sdegno e di pietà, fracassìo di fucilate, il bujo e mortai luogo irraggiato dalla rapida e sinistra luce degli spari: pagani e militari, uomini e donne, giovani o vecchi, bambini e ragazzi, sani ed infermi, uomini ed animali, tutti nel funesto agguato travolti.

Vide la rea notte atti di crudeltà, di carità no vide, la quale per un benigno risguardo della Provvidenza, mai non si spegno nei cuori umani da gravi disgrazie oppressi. I compagni sani, i feriti o fracassati sorreggevano, i più offesi sui carri posavano; bastava il lamento per aver amico e pronto aiuto: fur viste pietose madri fare scudo de' propri corpi a' propri figli; o i corpicciuli degli estinti lor bimbi tuttavia al seno stringere, chiamarli lacrimando, popparli, né abbandonarli che con forza.

Fra tanto dolore e scompiglio cotanto viaggiava la contristata, sanguinosa, e lacera moltitudine,

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ed ai primi forieri dei primi albori al desiderato Quattroventi pervennero. Molti appena giunti spirarono la vita, moltissimi per pianti e per angosce travagliavano, tutti della orrenda catastrofe grave memoria serbarono.

Le notturne tenebre aveano in gran parte involto nel loro grembo quella grave e grande sciagura, ma assai desolante e commiserevole apparve lo stato della percorsa via all'apparire della diurna luce. Cadaveri di vario sesso, età, e condizione in varia attitudine prostesi; animali da tiro spenti; armi, cannoni, vesti ed altre masserizie, eziandio preziose, formare tristo ingombro; le mura sgretolate pel furioso trarre; gore e fanghi per sangue umano rossi.

Il Luogotenente arrivato appena al quartier generale, posava il comando delle armi di Sicilia nelle mani del Maresciallo Desauget, ed imbarcavasi sur un vapore della squadra; ed il Generale Vial partiva tosto per a Napoli.

Fin dalla prima luce del giorno 26 sventolava!! cento vessilli tricolori sull'antica e temuta stanza de' Re di Sicilia; imperciocché corsa per tempissimo la nuova dei casi orrendi dell'Olivuzza, si erano apprestate le ribollenti turbe all'assalto dei Palazzo; ma invitate dal Maggiore Ascenso per patteggiarne la resa, d' un tratto furiosamente v'irruppero, tutto mettendo a sacco e a ruba: squarciati, o strappati i parati, vuotati e scassinati gli armatiti, tratti o lacerati i quadri, i mobili involati, i pavimenti guasti, i muri sgretolati, a stento salvata dal vandalismo la specola; devastata la casa del Generale Vial ed in mucchio di ruine ridotta: e tosto si venne in sul demolire gli odiati bastioni di tante loro ferite, e di tante loro morti cagione; le superstite genti prigioniere menarono.

Pervenuti a tal modo al possesso del Real Palazzo, diressero i palermitani l'animo e le forze alle Finanze. Intimata la resa, il Comandante di quell'edilìzio rispondea, ché si volgessero al Comandante del Forte di Castellammare,

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Si diressero a costui, e mentre la brulicante moltitudine stara in aspettazione della risposta, buccinarono artatamente voci di pace, prendevano mi attitudine tranquilla, ed a poco a poco appressatisi, furon subito sulla spensierata ed ingannata guarnigione, e disarmatala e fattala prigioniera, si recarono in mano il possesso di quella contrastata posizione.

Volgeva al suo termine il 26 Gennajo, e già tutta Palermo era in potestà degl'insorti, null'altro ai Regii rimanea che il Forte di Castellammare, ed il Quartier generale dei Quattroventi con le sue adiacenze. Nel giorno appresso accorsero con più entusiasmo e sicurezza le siciliane squadre, e tutti gli avamposti dello esercito attaccarono. Occupato fu il Borgo, e tutto all'intorno investito. Resistettero le truppe, e con grave danno de' nemici combatterono. Intanto il Maresciallo Desauget, avvalendosi di altre istruzioni venutegli da Napoli, rivolse il pensiero ad una ritirata, sicché per mezzo del Comandante del Vascello Inglese mandava dicendo al Comitato, che egli s'imbarcherebbe, e che punto non molesterebbe la città, so i suoi non fossero molestati. Rispondeva il baldanzoso e scaltro Comitato: la causa che Palermo difendeva, non esser causa di un sol punto, ma di tutto il Regno delle due Sicilie: senza fallo andrebbe egli con le sue schiere a percuotere altri paesi sorti a libertà: del rimanente volendo anche condiscendere a frenar l'impeto palermitano, esser necessario che si assentisse alle seguenti cose. 1. Che il Maresciallo desse la libertà agli undici palermitani imprigionati il giorno dieci: 2. Si mettesser tosto alla custodia delle prigioni le guardie cittadine: 3. Si cedesse il Forte di Castellammare.

Avuta questa strana ed arrogante risposta, il Maresciallo ben si avvide, che bisognava spingersi ai proprii disegni con la forza; sì che con un ordine di quello stesso giorno annunciava che le Truppe si sarebbero imbarcate. Dopo compiuta. una batteria di montagna; rinforzata la guarnigione

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chiodate le artiglierie; distrutto ciò che non si potea portare; inutilizzati il Castelluccio del Molo e la Batteria della Lanterna, raggranellavasi in massa tutto l'Esercito nel Largo della Consolazione, e nel più alto della notte, silenzioso spingevasi nella via che per S. Paolo e Baida mena a Bocca di Falco. Quivi giunto al far dell'alba addaronsene i villanzoni, e passatone avviso ai loro confratelli, ratto occuparono a calca le soprastanti giogaje, balestrando a tutta furia un turbine di palle. Molte ferite, molte morti accaddevano, moltissimo sdegno nella percossa e paziente truppa sorgeva. La scena dell'Olivuzza fra quelle inospitali balze si riproducea, ma più orrenda perché in aperto giorno più sicuri i colpi, più sconfortante la vista.

Fra morti, ferite, lamenti, ire, e scompigli attraversava quella fatale stretta l'insanguinato e lacero Esercito e nella pianura giungeva, donde proseguiva il cammino pel piani sovrastanti ai Torrazzi; passava in seguito il ponte della Grazia, si divallava nei piani di S. Maria e Gesù e S. Ciro, ascendeva le alture; e in sull'annottare giungeva svigorito, gramo, e logoro nei monti che torreggiano su Villa Abbate.

Non avevan mancato le feroci turbe di tirare sulle defatigate milizie, sebbene con poco danno perché di lontano. A S. Ciro tuonava il cannone dei ribelli, ma senza positivi risultamenti, e di audacia in audacia progredendo, andarono ad attendere le regie schiere a Villa Abbate per la strada consolare. Quivi appressatisi consolavano il giusto sdegno i soldati, poiché furibondi irruppero sui nemici, ogni ostacolo rovesciarono, le audaci torme rotte e sanguinose nei vicini monti si dileguavano, abbandonando cannoni ed armi. Villa Abbate qui e colà arsa, saccheggiata, e rossa di sangue, mostrava alla sollevata Palermo quali crudi casi sarebberle toccati ove le truppe in cambio di esser tenute in una fatale inazione si fossero slanciate alla guerra.

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Nel mattino del dì venturo (29) l'Oste Regia confortatasi alquanto, dirigeva i suoi passi per le montagne di Altavilla, mettendo in pratica il prudente consiglio, che fatalmente era sfuggito per lo innanzi, di faro occupare dall'antiguardo le posizioni dalle quali i sollevati potean trarre; per tal modo si pose un termine alla loro efferatezza. Al cadere del giorno si pervenne in Altavilla e quivi lo stanco Esercito si riposava fra la pace di quel paese, il quale rispettato in tutte le sue cose era documento della militare giustizia ed umanità.

Già nelle acque di Solanto fumigavan le navi a vapore, delle quali una messaggiera di ordini precisi al Maresciallo di render tutte le sue schiere in Napoli. Si appressavano al solantese lido i laceri ed Militi i soldati, e man. mano sui desiderati bastimenti, confortati dal pensiero di riveder la patria, salivano. Il mare con la sua calma, il cielo col suo sereno, le pietose mire secondavano; soltanto le ribalde torme i buoni eventi contrastar volevano, accingendosi a travagliare l'imbarco; ma occupati i luoghi più opportuni da Cavalieri e da Fanti, e sfolgorati dalle navali artiglierie il crudele proponimento non si ebbe effetto.

Imbarcavansi pertanto le armi, la truppa s' imbarcava, sul naviglio i cavalli non capivano, sì che fu ordinato di uccidergli; ma a tutti i cavalieri, eccetto pochi animi crudi, non abbastò il cuore di spegnere quei generosi animali coi quali tanti pericoli, e tanta parte di lor vita avean passato. Toglievanli le imbardature e liberi gli lasciavano; ma essi, vedendo allontanare la flotta, nelle onde si lanciavano, altissimi ed iterati nitriti metteano, quasi per chiamare, piangere, o dare l'estremo addio ai loro padroni, indi assordato l'aere indarno, stanchi ritornavano all'ingrato lido, e nelle campagne furibondi erravano.

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La qual circostanza, sebbene di poca importanza storica, appositamente ho notato; poiché in un tempo in cui l'umanità con atti crudeli si straziava, non lieve conforto è vedere negli animali quello affetto che negli uomini per la reità de' tempi mancava. Nel mattino del 31 Gennajo la flotta abbandonava le nemiche sponde.


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CAPITOLO III.

CATANIA, MESSINA, ED ALTRE CITTÀ.

Sommario

Quasi tutta Sicilia imita l'esempio di Palermo. Insurrezione di Catania riva sanguinosa dalle poche milizie stanziantevi. Rivoluzione di Messina. Provvedimenti del Generale Cardamone. I Messinesi gagliardamente si fortificano e combattono. Le truppe ogni furore propugnano. Inutili trattative di pace. Sicilia tutta sollevata. Vigoroso combattimento del Forte di Castellammare contro le palermitane batterie. Cessione del medesimo. Decorosa partenza della Guarnigione.

Palermo insorgera e compiva nel surriferito modo la ribellione, non quietavan le altre siculo città, ma il tristo esempio con maggiore o minor fervore, prestezza, ed impeto seguitavano; sì che guari non andò ed in Sicilia tutta il politico incendio largamente arse.

Ai 23 Gennajo l'etnea città si ammutinava, le milizie prendevan posizione nel Castello Ursino, nella Gran Guardia del Duomo, e nel Carcere; dei quali quest'ultimo assaltato con morti, ferite, e danni scambievoli. Nel di vegnente (24) veniva attaccata la Gran Guardia, la quale, dopo aspro combattimento, in cui furono feriti o spenti molti dell'una e dell'altra parte, era abbandonata dai soldati, che andavano a rattestarsi nel portone del palazzo Cutelli. Frattanto giungeva nella sconvolta Catania dalla sconvolta Palermo la vettura corriera sventolando bandiera tricolore; epperò fuvvi entusiasmo, follia, e moto incredibile;sì che all'aprirsi della nuova aurora tutto il popolo si spinse all'assalto dei dugento soldati, i quali tirando in quella stivata massa molte iatture arrecarono.

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Nella dimane, ritornavano alla pugna le accanite e sdegnose turbe: propugnavano dal canto loro le prodi milizie, ma finalmente prevalendo il numero all'arte ed al coraggio, cederono. Tutta Catania restava in potestà dell'abbottinata popolazione; sul Duomo, sul Castello, e su di altri punti culminanti la tricolore bandiera sventolava. I soldati, e molte famiglie napolitane e siculo, di pace bramose, s'imbarcavano sulla fregata a vapore l'Ercole, da poco surta nel Catanese porto, e per a Napoli partivano.

Messina che nel settembre dell'anno precedente aveva innalberato il vessillo della rivolta, già infranto per la operosità del Maresciallo Landi, e che nel sesto giorno di Gennajo aveva rialzato il capo con una clamorosa dimostrazione, punto non ritardò a voltarsi sulle precedenti orme, dopo conosciuti appena gli avvenimenti di Palermo.

Teneva il comando militare della provincia e piazza di Messina il Brigadiere Cardamone, il quale variamente provvedeva alla Cittadella, minacciava lo stato di assedio al primo moto della sollevazione, ed invigoriva le sue forze con le milizie capitanate dal General Nunziante nella vicina Calabria.

Si venne nel pensiero d'imporre con una rivista di tutte le armi raunate in Messina, ma nell'atto istesso di quella udironsi molte ed incomposte grida, sì che ordinavasi la ritirata, e le milizie rientravano nelle caserme della Cittadella, del Salvadore, e di Porta Real Basso..

Si passava intanto il tempo fra disegni, e preparativi dall'una e dall'altra parte, né si era pretermesso dai Messinesi di adoperarsi per mezzo dei Consoli Stranieri, e segnatamente del Conto di Maricourt, francese, onde la temuta Cittadella non agisse, ed il General Cardamone si era lasciato promettere al Conte, che non trarrebbe colpo sulla città, salvo il caso di formale dichiarazione di asse

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Stavan così le cose quando giunti in Messina i Decreti portanti le regie concessioni furon tosto strappati dalle cantonate e fatti in pezzi, e i giornali che li recavano lacerati nei caffè; inoltre l'Intendente fu insultato con voci e fischi; e guari non andò ed una barricata sorgeva nel quatrivio delle quattro fontane, sbarrando la strada d'Austria. Intanto i sollevati davano ripetuti e furiosi assalti ai trinceramenti di Terranova, ed erano valorosamente respinti, nondimeno una grandine di fucilate vibravano dal convento di S. Chiara, e dalle case vicine, e bersagliavano con colpi di cannone la porta che accenna allo spianato della Cittadella. Il General Nunziante ogni sforzo nemico mandava a vuoto.

Ciononpertanto la rivoluzione non si ristava, ma cotidianamente s'ingigantiva, massime per lo manifesto favore del corpo consolare stanziante in Messina. Uno stuolo innumerevole di armati inondava Messina; le strade che accennano alla Cittadella gagliardamente barricate; aperta una lunghissima trincea nella città; poste alquante artiglierie in taluni bastioni dell'antica cinta; costruite ed armate con cannoni di grosso calibro varie batterie rimpetto il bastione di S. Chiara, sulla fiumara, alle quattro fontane, noi piano della Matrice, nella strada d' Austria, sulla Flora, sulla casina a destra del Noviziato, nel Noviziato istesso, e sotto porta Nuova; e per compimento due mortai da 12 si erano piantati sullo spianato della chiesa di S. Girolamo. Inoltre aveano scavato un ramo di mina intorno al bastione di S. Chiara, e rotto i corsi che portavano l'acqua a Terranova.

Con questi grandi apparecchi, e con grandissimi furori appariva l'alba del 20 Febbrajo. Fu messo in fiamme l'Archivio della polizia, si spinsero a combattere il posto avvanzato di S. Girolamo, tutta la Città di bellico rumore rimbombava.

Il General Cardamone invitato dal Comandante della Thetis, fregata inglese, si calò a trattare

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coi Siciliani onde accomodare alla miglior maniera la vertenza e schivare il sangue; ma nulla poté concludere perché disorbitanti le inchieste. Si pretendea che dovesse cedere il forte Real Alto, quello del Salvatore, il piano di Terranova, e ritirare tutto il presidio nella Cittadella. Quindi arse di nuovo la guerra, la quale fu sospesa al cader del giorno per nuovi tentativi di concordia, e fu ripresa con maggiore accanimento verso il mezzodì del giorno 22.

I quartieri di Terranova eran bersaglio di un nembo di moschettate uscente dalle sovrastanti case e dal Convento di S. Chiara; il forte Real Alto riassaltato e vigorosamente percosso dalle cannonate, si aprì largamente dal Iato di terra. I soldati dopo vigorosa resistenza lasciavano quei punti; e si ritraevano nella Cittadella, nel forte S. Salvatore e della Lanterna; intanto i cannoni della Cittadella tuonarono sui soli punti dell'attacco, risparmiando per quanto era possibile la Città.

A questo atto mosse il Corpo Consolare dal General Cardamone, altamente protestando avverso il fuoco della Cittadella ed in ciò molto accesamente portavasi il Console francese, il quale più impetuoso che considerato, sguainata la spada in mezzo al colmo della rabbia la spezzò in segno della rotta amicizia col suo governo l Il tempo correva assai tristo per Napoli, si voleva ad ogni conto e con minacce, e con aiuti diretti, ed eziandio con rodomontate dar lena alla ribellione.

Intanto lo stato di assedio non era proclamato, le milizie furono riunite nella Cittadella, ed ogni comunicazione con la Città rotta; a tal modo gl'insorti vedutisi più liberi, maggiormente ai preconcetti disegni attesero.

Per non andare a lungo mi passerò del racconto delle insurrezioni particolari dei paesi; soltanto dirò che più o men presto e con maggiori o minori danni, tutti i paesi o le Città di Sicilia, spontaneamente o forzati innalzarono l'insegna della ribellione;

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man mano si emancipavano dal napolitano governo; il quale pressato dai fati che nella stessa Napoli si svolsero, ritirava le sue guarnigioni dai siciliani forti; per tal modo quietamente furono sgomberate le fortezze di Siracusa, di Melazzo, non così quella di Castellammare, comandata dal Colonnello Gross prussiano agli stipendii nostri, della quale raccoltamente dirò.

Partito l'esercito per Napoli, il forte di Castellammare rimanea raccomandato alle proprie forze, sì che il Consiglio di difesa applicò l'animo a moltiplicare i modi di tutela, ed a scemare i pericoli. Continuamente balestravansi fucilate contro il forte ma senza iatture, ed intanto mettevasi il pensiero ad un attacco più formalo e regolare, al quale il favore inglese ponto non mancava.

Nel dì 29 osservavano dal Forte, che sulla batteria della Lanterna, già dallo partite truppe inutilizzata, eravi un incredibil moto, e varie macchine per armarla; simile affaccendamento vedovasi nella batteria della Garitta; un riparo stavasi ergendo ancora sul bastione di la dalla porta S. Giorgio. Il Comandante Gross chiamava il Comodoro Inglese, perenne mediatore, e rappresentavagli i preparativi dei ribelli, e quindi la necessità di dar fuoco alle sue batterie; e pregavalo di allontanare i legni della sua squadra ancorati (certo artatamente) nella linea che avrebbero dovuto segnare i proiettili del castello; e instava, che il commercio permesso vicino alla Garitta si facesse in altro punto, poiché quivi doveva il Castello dirigere ancora i suoi colpi.

Comodoro faceasi a rispondere, che non stesse in apprensione per la batteria della Lanterna; poiché, assicurante lui, non avrebbe tirato colpo, e che demolirebbela col suo Vascello ove tirasse; quanto alla Garitta, dopo il lasso di due ore potrebbe il Comandante mandare ad effetto il suo proposito. In fatti il giorno dopo fulminava il Forte sulla batteria della Garitta,

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e di breve in mucchio di rottami

Pertanto i fatti del Comodoro furon diversi dalla data fede. Nel 1.° di Febbrajo, quando già la Lanterna si era di tutto punto munita, l'Inglese facea conoscere al Napolitano, che il Comitato di Palermo credea indispensabile di agire contro il Forte, e che perciò andava a disporre l'allontanamento dei suoi legni, e ritirava la data parola. Napolitano però con un misto di dignità e di sdegno fecegli conoscere la ingannatrice azione, la quale però poco gli caleva. Furono allontanate le navi inglesi, sebbene il mare fosse in tempesta.

Oltre alla batteria della Lanterna avevano i Siciliani preparato una barca cannoniera con un pezzo da 24, una batteria con tre pezzi di grosso calibro dentro di un Magazzino vicino Porta Felice; un altra di due pezzi di montagna nel piano soprastante; ed un Obice ed un Mortajo sur una terrazza in quei contorni. Nello stesso tempo si agiva con le parole e gli spaventi. Facevan trapelare nella guarnigione le cose più spaventevoli e ridicole ad un tempo; come a dire mine preparate, materie incendiarie, velenose, bombe, e simili.

Ma il Comandante del Forte era uomo degno di quelle circostanze, e la guarnigione degna di lui, sì che non altro si agognava, che il momento del combattere, venuto il quale, furiosamente si aprirono i fuochi del minacciato e minaccioso Forte: un vulcano parca, che dalle sue viscere irrompesse: con orrendo fracasso sfolgorava. Tiravano le nemiche batterie, ma guari non andò e furono al silenzio ridotte. Dei tre cannoni della Lanterna, due inutilizzati tosto, ed uno rimasto a tiri lenti e rari, taciuto poscia anch'esso: la barca cannoniera a gran fatica corse a salvarsi nel porto: le batterie della porta S. Felice scavalcate, ed abbandonate dai fuggenti artiglieri. Dileguaronsi ancora i ribelli, che innumerevolmente ras

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Mentre ancora durava il veemente trarre del Forte innalberossi sull'inglese vascello e su di altri punti della Città bandiera parlamentaria. Il Comandante a quella vista si preparava ad ordinare che s'innalzasse anche nel Forte la pacifica bandiera; ma gli artiglieri, spinti dal furore della pugna, pregaronlo, che ciò per carità del loro onore, non facesse, e che permettesse che coi loro cannoni bersagliassero. Consentivasi a quell'impeto generoso, e però più furenti le batterie del Forte si accesero; ma il Comodero inglese, mandò sotto al Forte una lancia con ufficiali, i quali a voce chiesero che rimanessero dal trarre perché recavano ordini del Re.

Si ristette, repugnanti gli artiglieri, e per la porta di mare furono introdotti il Comodero Inglese con un altro uffiziale, il Maggiore Steher, ed il Capitano Buonopane dello Stato Maggiore, testé arrivati da Napoli, e due deputati del Comitato. Il Buonopane consignava al Comandante Colonnello Gross una lettera autografa del Re, nella quale, laudata la energia e la bravura della guarnigione, ordinavasi la consegna di Castellammare ai Palermitani, ed il ritorno della invitta truppa in Napoli. Epperò concertato il tutto, uscivano nella sera dei 4 Febbrajo 11 Siciliani, che fin dai principii di Gennajo eranvi rimasti imprigionati, e nel dì vegnente la Guarnigione per la porta del Rivellino, preceduta dall'artiglieria di Montagna, accompagnata dal marziale concento di una militare banda, avviossi pel molo in mezzo ad una brulicante moltitudine di popolo e di armati, e sur una fregata a vapore, che già era rimasta ai bisogni del Forte, mosse per a Napoli.

Per tal modo coloro che tessevano continui tranelli al Governo curavano di far disarmare tutti i Forti e le Castella Siciliane.

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Trapani, Melazzo, la istessa Siracusa, e Palermo restarono sguernite di truppe, l'una dopo l'altra


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CAPITOLO IV.

COSTITUZIONE IN NAPOLI.

Sommario

In Napoli ribollono gli animi. Il Re per ammorzare le minaccevoli faville largisce molte concessioni, e segnatamente accresce i membri e i poteri delle Consulte. Rumori nella Capitale. Moti, uccisioni e ruine nel Cilento. Il 27 Gennajo in Napoli. Ricomposizione del Ministero. Si pubblicano addì 29 Gennajo le basi della Costituzione. Feste e tripudio incredibili, e ripetuti. Apostoli costituzionali. Il Re percorre la città. Disposizioni varie. Pubblicazione del promesso Statuto. Nuove ed iterate feste. Giuramento.

Le siciliane vicende per tutto il Reame dapprima, e poscia per tutta Europa risuonarono. La fama più nelle ree cose che nelle benigne sollecita, i corrieri clandestini in principio e poi palesi, i britannici vapori, talune Legazioni straniere, le voci, la stampa avean divulgato le siciliane commozioni; la gran massa dei ribelli si agitava in tutti i sensi in tutte le ore, e in tutti i modi, e ribolliva, minacciava, irrompeva. Ogni provincia i cattivi semicovava: la stessa Napoli erane largamente infestata.

Più innanzi si è per noi cennato quali cose si fossero fatte nella Metropoli del Regno, ora soggiungerò, che l'agitazione era crescente nello entrare del novello anno, e che giunse al colmo dopo i fatti di Palermo; ma a sole voci ed a gridi la cosa si riducea; perché la gran quantità di truppe che potea accorrere ad ogni lieve alzata d'insegna, rattenea coloro che avean gli animi volti a novità. Ciò non però di meno il Re, a cui cuoceva la pace è la tranquillità, si faceva ad emetter qualche temperamento per ammorzare quel ribollente fuoco, e render paghi gli animi concitati.

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Per la qual cosa, alle immutazioni già discorse nel precedente libro, aggiungeva addì 18 Gennajo un decreto col quale aumentava le Consulte o di consultori straordinarii scelti fra i primi dell'ordine Giudiziario ed Amministrativo, o dei Cittadini, e d'un Consigliere provinciale, eletto da una terna fatta in ogni fine di sessione, e dei Ministri Segretarii di Stato.

Altre concessioni e miglioramenti a questi seguivano. Ordinava, le Consulte di Napoli e di Sicilia dessero parere necessario su tutti i progetti di legge, e sui regolamenti generali; disaminassero ed emettessero pareri sugli stati discussi generali, delle reali tesorerie, e sui provinciali e comunali, nonché sull'amministrazione ed ammortizzazione del debito pubblico, sui trattati di commercio e sulle tariffe doganali, sui voti emessi dai Consigli provinciali: fosse vietato ai Ministri di proporre al Re in Consiglio alcuna cosa intorno ai predetti affari, prima di sentire il parere della Consulta: l'amministrazione dei fondi provinciali fosse cofidata ad una deputazione nominata dai Consigli provinciali e preseduta dall'Intendente; fossero recati in luce per le stampe gli atti dei Consigli provinciali, ed i loro stati discussi dopo la regia approvazione: infine che nello scopo di affidare agli stessi uomini di Napoli e di Sicilia l'amministrazione dei loro beni, per quanto sia compatibile col potere riservato sempre al Governo per la conservazione del patrimonio dei Comuni, la Consulta Generale si occupasse di un progetto avente per basi 1.° la libera elezione dei decurioni conferita agli elettori: 2.° la concessione di ogni attribuzione deliberativa ai consigli comunali: 3.° l'incarico di ogni esecuzione ai Sindaci: 4.° la durata della carica dei Cancellieri Comunali.

Inoltre stabiliva il Re dei Direttori di varii Ministeri per le Cose di Sicilia; favoriva regolarmente la libertà della

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Pertanto queste benefiche mosse della sovrana benignità non andavano a garbo di coloro, che fomentavano la rivoluzione, e a ben altre mire tenevan fitto il pensiero, massime in un tempo in cui la siciliana rivolta metteva radici, ed una conflagrazione universale preparavasi non che in Italia, in Europa. Agitavansi più che mai i novatori, e con parole, e moti cercavano di appaurire il Governo; ed ecco scoccante il mezzodì de' 22 Gennajo, succedere un subuglio per le vie di Napoli. Scappavan di tutta fretta le carrozze da nolo, scappavano gli abitanti e nelle proprie case spaventati ritraevansi, serravansi a furia le botteghe e i portoni, un fremito di voci si udiva, tutti il fantasma della rivoluzione temevano, le vie rimanevan vuote, un alto silenzio regnava: Napoli come tomba. Pertanto fatto capolino dalle finestre ognuno domandava che fosse successo, dove erano i rivoltosi, cosa avean fatto, e man mano si calmavano le menti, e rientravan tutti negli usi proprii: Napoli qual prima ritornava.

A questa prima pruova i novatori non si stettero; e due giorni dappoi alla medesima ora, quanto il meglio seppero e più poterono, la città di rumori, grida, moti e timori empirono. Ma tosto, la primitiva calma ritornava. Il Governo si mise nella ricerca degli autori del disordine, stava dubbioso, aborriva dal pensiero di tinger di sangue cittadino il real seggio di Napoli, a nessun partito diffinitivo si appigliava, ed ormai sconfortato prevedeva il nascimento di una sollevazione.

Mentre il Governo tentennava, i settarii s'invigorivano ed operavano. Constabile Carducci da Capaccio alzava il primo la ribelle insegna, e d'innocente, sangue la bruttava. Fattosi capo e guida di buon nervo di faziosi percorrea i montuosi paesi del Cilento, e tutti evocava a libertà: seguivanlo costrette, abbindolate, o volontarie le cele

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Il Cilento di eccessi, di rumori, di spaventi risuonava. Il terribile Apostolo della moderna libertà alle spaventate menti come orrido spettro si appresentava.

Si dava l'assalto a Casalicchio, piccola borgata, si toglievano alla Guardia Urbana le armi, al suo Capo la vita. Carducci poco poscia occupava Sala di Gioi, spegnendovi un Gizzo, il cui capo sanguinante facea conficcare ad un palo impiantato avanti la Chiesa. Sitibondo di sangue e di eccidii, scriveva fra l'altre cose ad un suo proselite «Voglio augurarmi, che le mie disposizioni sieno state da lei eseguite, cioè di aver fatto in Gioi fucilare quel giudice regio, il sindaco di Salella, ed il comandante urbano di Cicerale giusta le mie prescrizioni; del pari porre a sacco ed a fuoco Ogliastro e Frignano, cioè tutte quelle famiglie le quali conoscerà aver favoreggiato per le truppe regie... Disporrò intanto che il sig. Comandante Ferrara si unisca alle sue forze per soggiogare Castellabate, ove terrà le stesse norme precisatale per Ogliastro. L'esorto a non risparmiare il sangue e far danaro, se vuol vedere progredita la causa nostra».

Ai primi rumori le Autorità della Salernitana provincia si erano scosse, e si scossero eziandio quelle di Napoli. Partivano le milizie provinciali sulle pesta dei ribelli, partivano da Napoli sotto il comando del colonnello Lahalle. Tagliavan quelli la scafa del fiume Sele per impedire o ritardare il passo alle inseguitrici truppe; le quali con tatto ciò passavano, sulle orme dei sollevati erano, gli raggiunsero in Laurino, dove il monte s'innalza aspro e rotto, sprofondandosi nel vallone in cui rimugghia il Calore. I ribelli resisterono dapprima e poscia si dislegarono e si dettero a precipitosa fuga; sì che molti fra quelle rupi scheggiate e sassose trabalzarono pria morti che sfracellati e catrafatti.

Carducci da quel disastro campato issofatto a riva il mare gonfio d'ira giungeva, ed in Ascea raggranellava un

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La morte dell'innocente Barone, e più il modo barbaro, ed eretico empierono di terrore e di sdegno tutti i buoni cittadini, come di spavento e di sdegno empiranno quelli che dello sventurato e crudo fatto avranno notizia, e gravi maledizioni vibreranno contro il barbaro Apostolo, oggimai segno dell'ira di Dio.

La fama divulgava i fatti del Cilento; tutte le provincie, o a meglio dire i settarii delle provincie si commovevano, e quelli della Capitale maggiormente mettevano animo e speranza. Si radunavano nei caffè, dando notizie strane, giudizii stranissimi, si instigavano ad irrompere; le cose maggiormente pressavano; e nel giorno 27 una larga e folta dimostrazione fecero; dopo la quale, affermavano, si sarebbe venuto alla insurrezione armata ove il Governo ritardasse a condiscendere ai loro voti.

In verità intorno alle ore meriggiane di quel dì si fece tra settarii, lusingati, e prezzolati una grossa turba, la quale via facendo maggiormente s'ingrossava per curiosi osservatori,

(1) D'Arlencourt. L'Italia Rossa.3.° Ediz. di Livorno pag.177.

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per l'esca del danajo che qui e colà distribuivasi, e per quella tendenza che è in Napoli, come nelle altre città, di accorrere alle novità. Procedeva inerme, pacata, e minaccevole dalla strada Foria, si avviava per Toledo, emettendo a quando a quando evviva sediziose, le quali erano per la piupparte in maniera ridicola guastate, giungeva a S. Brigida, ritornava sui medesimi passi col medesimo tenore, e più audacemente; moltissimi si scuoprivano, un maggior novero di nastri tricolori appariva, molte signore che per la piùpparte a disegno stavano dai balconi accrescevano gli stimoli alla concitata turba.

Intanto le botteghe, e i portoni si serravano, stavan tutti in paurosa sollecitudine. Ordinante il Re, percorse la strada di Toledo il Generale Statella, Comandante della Piazza, il quale recava alla Reggia la notizia delle narrate cose. Continuava il rumore, più generale diveniva, quando udissi per ben tre volte tuonare il Forte di S. Elmo, e volti colà gli occhi si vide sventolare la bandiera rossa, segno di allarme, la quale, dagli acciecati fu creduto in prima segno costituzionale, epperò salutato con evviva, e grida festevoli, fino a che uscite le truppe, e cangiato l'aspetto della Città in modo ostile dileguavasi la moltitudine, finiva lo schiamazzio, chiudevansi gli usci, le botteghe i portoni, un sinistro presentimento agitava gli animi dei buoni, Napoli rimase solitaria e silenziosa: solo i novatori si concitavano in segreto, spedivan messi per le provincie.

Il Re messo a giorno di tutto, tradito nella sua stessa Reggia, avvertito ingannevolmente di tante cose, rimanea fermo ed immoto in tanto moto, e guidato dalla bontà del suo cuore volle pur mettersi nella via di appagare gli animi concitati; sì che, chiamato in sul far della sera alla Reggia il Duca di Serracapriola, già ambasciatore a Parigi, e dipoi il Principe di Torella, ricomponeva il Ministero, disegnando per la Presidenza e gli Affari Esteri, esso Duca di Serracapriola; per gli Affari ecclesiastici,

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e Grazia e Giustizia il Barone Cesidio Bonanni; per l'Interno Carlo CianciuIIi; per le Finanze il Principe Dentice; pei Lavori Pubblici il medesimo Principe di Torcila; per l'Agricoltura e Commercio e Pubblica Istruzione il Commendatore Scovazzi; e per la Guerra e Marina il Maresciallo Garzia; e destinava il Principe del Cassero alla presidenza della Consulta.

Composto a tal maniera il nuovo ministero, immantinenti raunavalo in Consiglio il Re, affin di statuire il convenevole in quelle gravi circostanze, e già le aure costituzionali cominciavano a spirare, ed indi ad ingagliardire. Nello stesso tempo presentavansi al Re i Ministri delle Potenze Settentrionali, forte instando a tenersi fermo contro le costituzionali pretensioni; dall'altro lato quelli che tali pretensioni vagheggiavano maggiormente si rinfocolavano, facevan giungere alla Reggia sinistre e bugiarde voci; si che il Re pressato da tante circostanze si decideva alla voluta concessione, ordinando al nuovo Ministero di presentargliene le basi, per sottoscriverle.

Ed alla verità nel 29 Gennajo apparve un decreto, il quale riportava: il Sovrano concedere una costituzione; essere stato incaricato il nuovo ministero per redigerla fra dieci giorni sulle seguenti basi

1. Il potere legislativo esercitarsi dal Monarca e dalla Camera dei Pari e dei Deputati, delle quali la prima sarebbe a scelta del Re, e l'altra degli elettori secondo un censo da statuirsi.

2. L'unica religione dominante dover essere la Cattolica Apostolica Romana; la tolleranza degli altri culti vietata.

3. La persona del Re sacra ed inviolabile, né soggetta a responsabilità.

4. I Ministri mai sempre responsabili di tutti gli atti del governo.

5. Le forze di terra e di mare dover dipendere sempre dal Re.

6. La guardia nazionale doversi organizzare in modo u informo per tutto il reame.

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7. La stampa libera, ma soggetta soltanto ad una legge repressiva in ciò che potrebbe offendere la religione, la morale, il Re, la Famiglia Reale, i Sovrani Esteri e le loro Famiglie, non che l'onore e gl'interessi dei particolari.

Pubblicavasi in un baleno la notizia delle attese concessioni, e tosto mutavasi l'aspetto della Città; e di sospettosa, minacciata, e taciturna addivenne festiva ilare, sicura. Un tripudio vi surse da non potersi con penna descrivere. La bella strada di Toledo, nella quale i napoletani son usi a darsi allo sfogo delle loro consolazioni, era mutala in una direi sala di allegrezza, in cui l'affollata moltitudine variamente esprimeva il suo giubilo, variamente agli altri lo comunicava. Traevavi a folla il popolo, uomini donne, giovani vecchi, plebei e signori, attori o spettatori della briosa scena affluivano in quella, e come onda la percorrevano, la ripercorrevano. Un'altra moltitudine era alle finestre, ai balconi, sui terrazzi degli edificii, immota osservatrice ed attrice. Correvano i cocchi ornati di verdi festoni, di bandiere tricolori, e brulicanti d'inebriate persone; camminavano i pedoni in due stivate righe laterali variamente adorni dei graditi nastri; stavano dalle ringhiere degli edifizii stivate le genti e i graditi segni nell'aere sventolavano; fazzoletti, coccarde, nastri, fasce, sciarpe, bandiere, bandierine nella tripudiante moltitudine si agitavano. Innumerevoli erano i segni, innumerevoli le voci, tutta Toledo andavano sossopra. Evviva al Re, al Papa, al nuovo regime, ai Capi de' liberali mandava la mobile moltitudine della strada, evviva rispondea la immota degli edifizii: un perenne, crescente, non interrotto gridio l'aere assordava, dal che il popolo napoletano sempre concettoso nelle sue parole, diede il nome di Vivò agli attori del nuovo dramma. I maestri delle rivoluzioni a questo non si ratteneano ma ad altre cose più significative, e più opportune per le loro idee andavano: ché coi popolani si tramescolavano;

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vedevi sui cocchi il galantuomo abbracciare il lazzarone, tenerselo a fianco, scambiare il di lui berretto col suo cappello, lo stesso per le strade; la ibrida scena per ogniddove ripetevasi, e sotto l'astuto nome di fratellanza tristi germi ascondeva.

Ma il popolo ignaro dei nomi che allora per la prima volta udiva, e che macchinalmente contorti ripetea, andava dimandando cosa significassero, e qui le più strane e ridicole risposte del mondo sorgevano; ma già una tanta cosa ai novatori non era sfuggita, ed ecco pei larghi gli Apostoli della Costituzione, i quali con eloquenza, e scienza varia, ma con pari ardore spiegavano, dilucidavano, cementavano al popolo udente le nuove cose, a ciclo laudandole. La concitata moltitudine con segni, gridi, e parole concitavano.

tripudio si accrebbe, si rendé impetuoso, e indicibile quando il Re uscito dalla Reggia a cavallo, varii quartieri percorreva. Accompagnavanlo gli Augusti Fratelli il Conte di Aquila, e di Trapani, e gli facevan corteggio molti Generali, lo Stato Maggiore, le Guardie del Corpo, quelle di Onore ed uno squadrone di Usseri Percorse in mezzo ai delirii di Toledo, i quali facevan molto contrasto con lo stato quieto e pacifico degli altri quartieri, in cui contrarie voci, sentimenti contrarii ritrovava, alle nuove cose onninamente avversi; infine il Re rientrava nella Reggia.

Fra smodati tripudii volgeva al suo termine il giorno, fra tripudii smodatissimi entrava la notte. Allo schiamazzo le luminarie si arrogevano. Fiaccole illuminavan le vie, e le carrozze, di lumi erano ornati gli edifizii, un oceano di luce vincea le tenebre nella ebbre Toledo. Andavano in giro gli uomini del novello conio, e con voci e con atti. obbligavano a metter fuori i lumi. Ogni edilizia spandea luce. Il massimo Teatro fu preparato a festa, una illumi

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Il chiasso, il tripudio durava fino a notte innoltrata, quando già stanchi gli attori, e affastiditi gli spettatori di quel dramma, tutto nel suo alto silenzio la tenebrosa notte involse.

Bandita la costituzione molti casi e mutamenti ricordevoli avvenivano, che è pregio dell'opera accennare. E dapprima era chiamato al Ministero in luogo di Cianciulli cesco Paolo Bozzelli, già chiaro nella repubblica letteraria e nel mondo politico, ed a lui fu commesso principalmente il pondo di stendere la costituzione.

La Guardia d'Interna Sicurezza, che da più anni era instituita in Napoli con utile divisamento, sbattezzata dell'antico nome, assumeva quello di Guardia Nazionale, ed apriva le sue file ad una genìa di uomini per nascita, età, e forme varia, per tendenze concitataci quasi simile o identica; per la qual cosa risultante da elementi perigliosi non più garanzia, e sicurtade, ma inciampo e pericolo formava.

Suspicando alcuni tra essi, che nella Città si albergasse un partito avverso al nuovo reggimento (e veramente era un partito generale) arrestavano i sospetti, li traducevano all'Autorità di polizia, premurando che l'imprigionamento fosse legittimato. Indarno faceasi riflettere, che era una enormità attentare alla individuale libertà per mera suspizione, massime in un governo libero, e segnatamente nel primo principio della novella era.

Rientravano in Napoli tutti coloro che abituati al ladroneggio con provvido consiglio, erano stati mandati all'isoletta di Tremiti, e rigorosamente sorvegliati, a varii lavori ed occupazioni intendevano, sì che un bene ad essi un bene al pubblico ne veniva; ma resi liberi negli antichi mali ritornavano. Ragione o prudenza voleva che fossero

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costituzionale tripudio nella Metropoli non si rattenne, ma in tutte le provincie si diffuse, dove la fama issofatto ne divulgò la notizia. Scene a quelle narrate somiglianti vi sorgevano; dappertutto si folleggiava.

Stavasi in aspettazione del promesso Statuto, né senza agitazione si viveva; imperciocché coloro i quali al di là della Costituzione miravano, spargevan semi di discordia, preparavano gli animi alle tristizie avvenire. Apparve intanto nel promesso tempo la promessa legge costituzionale, in cui erano ampiamente svolte le basi già date nell'Atto Sovrano dei 29 Gennajo. Fu immenso, alto inenarrabile il tripudio; la Città per ben tre giorni ed altrettante notti fu piena di gridi, di evviva, di congratulazioni, di lumi, di segni e parole costituzionali; tutto andava a vento dei novatori. Più che mai si affaccendavano gli Apostoli della Costituzione per trarre le plebi alle per esse inintelligibili cose.

I Larghi, e le piazze ripiene di trofei variamente fatti, e vagamente illuminati; l'aere risuonava di musicali concenti; i teatri anch'essi in festa; le volte de' templi echeggiarono dell'inno ambrosiano; le luminarie dappertutto spandevano vivida luce; la notte e il giorno era una continuata successione di tripudio.

In tanto moto formaronsi delle società, le quali andavano in giro, raggranellando somme dagli agiati, e poscia a conforto dei bisognosi le volgevano. Un grande atto di Clemenza emise il Re, pel quale tutti i condannati per cagioni politiche ripatriavano nel Regno, o rotti i ceppi, ritornavano in seno alle rispettive famiglie, accrescendone la gioja.

In sull'annottare del terzo giorno davasi fine al tripudio con un inno appositamente scritto per un omaggio al Re, e vestito di musicali note. Uno stuolo di Signore, e di Suonatori, convojato dalla Guardia Nazionale avviavasi pel

largo della Reggia, e sotto al massimo loggiato si sostava; donde il Re e la Real Famiglia onoravano l'uditorio.

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Centinaja di fiaccole illuminava la festante Comitiva; ed iti mezzo ad un alto e pieno silenzio echeggiava per ben due fiate il melodioso concento. Applausi, evviva, acclamazioni, grida ripetute salutarono il Re. La napolitana gioia in tutto il Regno si diffuse. Non v'era chi non ammattisse. Un tripudio universale, un fremito di gioja dal Tronto a Scilla echeggiò.

E perché di quanto operavasi non mancasse il suggello della retta intenzione giuravano lo Statuto tutti gl'impiegati, l'armata, ed il Re istesso in ricordevole giorno ed apparato nel Tempio di S. Francesco di Paola confirmava l'operato col giuramento. Mille congratulazioni, ed augurii, ed acclamazioni renderon solenne quel dì; la natura istessa a quel contento rispondea: con un limpido cielo, ed un aer tiepido aveva prodotto fra i geli e gli orrori del verno le bellezze della primavera.

Né col giorno (24 Febbrajo) andarono all'occaso le feste; ma più clamorose vivaci e briose addivennero. Brillavano le luci della natura in aer sereno; brillavan di fiaccole e di lumi gli edifizii, un oceano di luce sperdea la lieve oscurità della notte, allegorici ed allusivi trasparenti; festoni di verde mirto infiorati di vaghe rose, iscrizioni o versi, trofei svariati, bandiere tricolori erano per quel vario e intenso chiarore splendenti, ed alla universale luminaria accrescevan vaghezza e decoro. Risuonava la città di melodiosi concenti; le bande militari festevolmente allegravano gli spiriti. Genti di ogni condizione, o sesso, o età affluiva come placida onda per le strade e segnatamente per la brillante Toledo; altro non men numeroso stuolo dai vani degli edifizii si tenea; mille voci di giubilo e di evviva a vicenda si rimandava quella indicibile moltitudine spettatrice, e spettacolo di quella ricordevol sera. Grande fu la festa, grandissimo il moto, nullo il disordine.

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Il brioso ma quieto tripudio non finì che a notte alta, quando già stanchi i corpi di correre e schiamazzare nelle proprie case si ridussero; restavano per altro nelle allegre menti la grata impressione. Per tal guisa parcano indociliti gli animi, appagate le brame: il Re null'altro far potea per la pace del Reame. Fallaci apparenze! Il tempo ascondea sorti contrarie!


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CAPITOLO V.

INTEMPERANZE DEGL'INNOVATORI.

Sommario

Cagioni per le quali gl'Innovatori si abbandonano ad ogni maniera d'intemperanza. Strano pretensioni di riformare ed allargare lo Statuto. Incomportabile licenza della stampa. Dimostrazioni tumultuarie. Armamento generale. Sghembe mire intorno agl'Impiegati. Circoli. Comitati. Espulsione dei Gesuiti. Tentativi contro altri Ordini Religiosi, e pericoli che ne seguono. Perenne ed importuna opposizione. Gravi e minaccievoli fatti che tenner dietro alle idee comunistiche. Leale incesso del Governo nelle vie costituzionali. Il Ministero, modificato ed accresciuto, declina il periglio di cadere. Forti ma inutili ordini avverso le turbolenti petizioni. Provvedimenti governativi nel senso delle costituzionali promesse. Le intemperanze montano sempreppiù ai danni del Governo.

L'intemperante tripudio, era segno d'intemperanti idee; le quali, vagheggiate copertamente sino dalle prime ore costituzionali, si eran man mano palesate, ingrandite. Al che ebbero principal cagione i mutamenti politici che intervennero contemporaneamente in Italia e nell'Europa; poiché Torino, Firenze, Roma si ebbero la costituzione, Parigi la Repubblica; l'Alemagna intiera, larga e fiera sollevazione. Per la qual cosa i liberali menando i loro giudizii più volentieri pei falsi campi della fantasia che per quelli della posata e fredda ragione, portavano i pensieri al di là del costituzionale reggimento, o di qualunque altro governo, dove appunto si ritrova lo scioglimento di ogni civile consorzio fra gli orrori delle passioni e della forza brutale.

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Poiché ei par conviene che l'Uomo viva in Società, non o possibile rinvenire una forma governativa, che possa consentir pieno e compiuto l'esercizio della naturale libertà, la quale pur essa deve contenersi fra certi limiti, segnati appunto dal dovere di rispettare in altrui ciò che in se vuolsi rispettato. Ma questo dovere si deve necessariamente accrescere nelle civili comunanze; sì che la restrizione della individuale libertà è maggiore, e dev'esser tale massimamente in mezzo a Società o per passioni stemperate corrotta, o per marcia ignoranza balorda. Se gl'innovatori avesser posto mente a questi semplici principii, se avesser pria vagliato lo stato delle nostre plebi, se avesser dirò pure calcolato lo spirito delle Grandi Potenze, si sarebbero al certo tirati indietro dalle loro nojose e gravi sregolatezze le quali dischiusero un baratro in cui tutto sprofondarono.

Vero è che si poggiava sullo stato della Francia, sulla sollevazione di Alemagna, e sulla politica inglese; ma non sapevano, che riguardo alla Francia ed all'Alemanna punto non era lacerato il Trattato di Vienna, il quale forma col principio della politica indipendenza de' regni sotto i legittimi Sovrani, e con la garenzia delle grandi Potenze, la pace e l'ordine europeo; e che presto o tardi si sarebbero reintegrate le cose: non v'ha dubbio che quel Trattato era stato modificato nel Belgio, in Cracovia, ed in Polonia, ma sempre con lo assentimento delle Grandi Potenze, il quale certamente non era da sperarsi per una forma governativa che minava dalle fondamenta i Troni. E riguardo all'Inghilterra fa meraviglia come non pigliasser sospetto di lei; perché mentre si chiariva liberale in Italia, protestava contro l'invio delle truppe in Lombardia ed il passaggio dei napolitani pel romano: mandava un alto personaggio come messaggicro pacificatore, nell'atto stesso che le inglesi navi cariche di schioppi, cannoni, palle e polvere ed altri attrezzi da guerra, arrivavano nei siciliani porti:

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un poco che avessero consultato la storia non dirò antica, ma moderna avrebbero ritrovato di che sgannarsi; e, tacendo di altro cose, non si sapeva, che ancora era in piede il Colosso del Settentrione, il quale stringe in pugno le sorti del mondo?

Le passioni dominavano i novatori; e le sbrigliate passioni frutti conformi partorivano. Dei quali fu tanta la copia, che io dispererei di finirne l'elenco, se non mi facessi tutto raccolto a dire alcuna cosa dei principali.

Ed in primo luogo è da riporsi la pretenzione di allargare le regie concessioni, della quale risuonavano i Circoli, e i Giornali fino dai primordii del pubblicato Statuto. La Casta sovvertitrice parve che se ne fosse appagata dapprima, ma per verità grado grado le venne in uggia; sì che non trascurò mezzo che al preconcetto scopo la spingesse.

Ecco, andavan dicendo e scrivendo, ecco il Ministero Serracapriola prender la Costituzione francese, non senza averla prima mutilata e resa fraudolenta e capziosa, gittarla in ambo i regni come si gitta al famelico un tozzo ammuffito: lo Statuto essere stato festeggiato per la mercé dei demagoghi, già servi del Ministero, e dalla prezzolata o ignara popolaglia, non già dagli uomini di retto sentire: non poter mai accadere che si affacesse a noi uno Statuto che in Francia avea fruttato demoralizzazione, miseria, rivolta, e repubblica: averlo già rifiutato la forte e sennata Sicilia, mal potersi da Napoli accettare: esser conveniente, che un'assemblea fosso convocata, la quale rivedesse lo Statuto ed ai tempi presenti lo attagliasse. Di queste e di altrettali cose, delle quali mi taccio per non riuscire lungo e nojoso, menavasi continuo ed alto scalpore.

Ma di quanto peso fosse questa intemperanza fa luogo qui brevemente rilevare. La Costituzione non era per fermo una conquista della rivoluzione, che la rivoluzione non dà alcun dritto contro il potere legittimamente costituito; ma se anche per assurdo ciò si volesse ammettere,

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per fermo nessun fatto d'arme in Napoli fu combattuto, nessuna vittoria dai liberali riportata; che anzi quella trepidazione con cui si appalesava il rivolgimento, quei tentativi fuggevoli che i novatori si limitavano a fare, senza ardire di mostrarsi armata mano allo scoperto, indicavano pur troppo la debolezza della rivolta, la quale pertanto ratto si era dissipata nel 27 Gennajo quando il Governo avea assunto un'attitudine ostile, e nel dì vegnente nessun tentativo si fece, nessuna fazione si commise; ed ove pel seguito si fosse continuato in quel tenore certamente la rivoluzione non avrebbe osato di rialzare il capo.

Neppure puossi affermare, che la rivoluzione avesse indirettamente acquistato lo Statuto; imperciocché non era nel Real Governo cagione alcuna di temenza. I casi di Palermo erano piuttosto da deplorare che da temere, eziandio dopo la pretesa vittoria; poiché non era chi non vedesse, che niente di positivo erasi fatto per lo spegnimento di quella insurrezione, e che bastava volerlo per disperderla, sì come accadde in prosieguo. Molto meno eran da paventare le agitazioni del Cilento, e i rumori di Napoli, i quali agevolmente si potean vincere ed impedire, perché risultanti da clementi deboli o scarsi.

Né la tema potea venire di là dal Regno; imperciocché sebbene il politico cielo sembrasse nebuloso, pure il nostro Governo non aver a temere che incidentalmente o quasi direi per riverbero, ma non direttamente e tanto che fosse nella necessità di spingersi al di là degli altri stati d'Italia e di Europa, e piegare l'animo per forza ad una Costituzione. Se è vero che la rivoluzione mettea radici, e cercava di allignare, e ingigantirsi in ogni luogo, è vero pure, che i Potentati moltiplicavan gli eserciti e forbivano le armi. Daltronde il politico orizzonte era più fosco e minaccioso nel 1830 che nel 1848, e per noi fu narrato in principio di questa Storia di quante rivoltare non che Europa, il Mondo risuonasse.

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E se il Governo tennesi impavido allora, sarebbe venuto meno al presente?

Per la qual cosa la costituzione non fu, ne poteva essere una conquista diretta né indiretta della rivolta; ma sì bene una concessione una elargizione, che il Sovrano nella pienezza della sua potenza e del suo volere fece, probabilmente pel santo scopo di evitare il sangue, e le tristizie delle guerre civili, e dì abortire i semi posti a fecondare, facendo pago il desìo dei liberali.

Ora se lo Statuto era una spontanea concessione, il Re avea il dritto di conceder quello, quanto, e come al suo Augusto Animo meglio si addicesse, senza che i sudditi suoi avessero avuto il dritto di mettere un solo lamento; imperciocché per regola di Dritto il Donato mai non può rivolgersi al Donante, e chieder conto e ragione del perché non abbia largheggiato nella donazione. Quindi non ai avea dritto a chieder larghezze alla Costituzione, anzi correva il debito della gratitudine, che sta eterno nell'animo dei Buoni, la quale dovea muovere ad affettuosa divozione verso di un Principe, che spogliava di prerogative la sua Sovranità, e generosamente donavale.

Più strano poi il credere che la rivoluzione avesse dato dritto alle intemperanze de' liberali: imperciocché ogni atto non che sociale, umano, dev'esser conforme alle leggi eterne della ragione e del dritto; poiché in contrario si tratta di operazioni brutali, e di tirannide, non mai di operazioni sociali. Ora sendo così, non potea non intervenire, che la Costituzione, non conservasse negli elementi dai quali risulta quelle prerogative che sono di dritto a ciascuno.

I Principi in qualunque ipotesi di forma governativa, in cui figurano, debbono mai sempre avere singolari prerogative; e pretendere di adequarne i poteri a quelli delle Camere, o metterli al di sotto di queste, o in una posizione debole, è lo stesso che annientarli, e richiamare la potenza governatrice fuori del propio elemento, e dare un buon passo alla repubblica.

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Lo stesso Gioberti affermava, che il potere del Capo

L'altissimo Vico diceva «che ogni società ha bisogno di una mano robusta che dirigesse il freno degli appetiti dell'uomo, e questa mano è l'autorità, ossia la potestà civile, immagine di Dio nell'universo».

Il Giurista del Crati (1) scriveva, che il potere sovrano «dev'esser sempre munito di autorità assoluta per dirigere le comuni utilità, per infrenare le passioni individuali, per promuovere il benessere dell'intera associazione civile e dei membri che la compongono, proteggendo e favorendo lo sviluppo delle facoltà fisiche, intellettuali, e morali dell'uomo individuo e dell'uom collettizio, e diffondendo la giustizia in tutte le branche dell'ordine sociale».

Ora se così è, ne nasce, che il Re non potea non essere conservato nel suo elemento, e quindi le riforme intese allo abbassamento del Sovrano Potere, ed allo innalzamento del Potere Popolare erano perfettamente antisociali.

Né stranissima non era la idea di convocare un'Assemblea la quale avrebbe dovuto riformare ed allargare lo Statuto; poiché si sarebbe modificata o fatta una Legge da chi non avea potere né legittimità di farla, dandosi Io scandalo di un potere legislativo illegittimo, che minava ai danni del potere legittimo.

Infine non è mai comportabile, che il Capo di uno Stato possa esser tenuto a far quello, che, non che il popolo, una casta pretende; imperciocché dove il popolo è Re, ed il Re popolo, ivi non Monarchia ma repubblica è, e quando nella stessa repubblica non si tiene allo Leggi stabilite, non di Società, ma di abisso civile si tratta.

Or dunque per qualunque Iato si risguardi la cosa, egli è evidente, che la pretenzione di riformare lo sta

(1) Marini G. B. Vico al cospetto del secolo XIX. pag.108. Napoli 1852.

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Pertanto queste ed altrettali riflessioni, non erano conosciute o non si volean conoscere dalla turba concitatrice, e le di lei enormezze erano i forieri del regime repubblicano, al quale scopertamente si aspirava. Durissimi casi, però, sì come a suo luogo sarà narrato, da questo intemperanze derivarono.

Tra le smodatezze è da noverarsi in secondo luogo la sfrenata licenza della stampa. Un diluvio di libri, libercoli, memorie, giornali, carte volanti apparve, nei quali manifestavansi le più rotte passioni, le più matte idee, né si preteriva la improntitudine di parlar contra il Governo e le persone, pubblicando veri libelli.

Quella inferma Autorità di polizia, che allora esisteva, tentò di opporsi alla minaccevol piena, ma tosto aizzaronsi gli animi, si menò infinito scalpore, si gridò alla offesa libertà, e segnatamente si allegò non essere ancora pubblicata la legge sulla stampa, come se mancando questa, non esistessero gli articoli 344 e 365 delle leggi penali avverso cotanta intemperanza; o fosse distratto il Dritto di Natura che impone il dovere di rispettare l'altrui onore, e dignità, e di non fare ad altri ciò che per se non si vuoi fatto; o fossero spente le leggi amorevoli del Cristianesimo, e dirò pure le regole del Galateo, alle quali potea specchiarsi la ribaldaglia per non trasmodare in tanta eccedenza. Ma è inutile ricordar leggi e regole in un tempo in cui non regole né leggi, ma disordini si volevano.

Pertanto da quella tipografica tempesta gravi iatture provvenivano, e tristi semi si spargevano. I segnati o percossi in quelle truculenti pagine montavan nello sdegno, reagivano con le mani se potenti, e se deboli con parole o scritti contrarii. Per tal guisa gli animi cotidianamente si disponevano alla lotta, si radicavano gli odii, si aguzzavano le ire, si aizzavano le classi contro le classi, le cattive passioni si carezzavano, anziché fondare il novello

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Si arroge, che la faciltà della stampa, e l'esempio comunissimo e frequente ebbe desto nell'animo della piupparte desìo di scrivere, e di metter fuori per ambizione o interesse e far prevalere le propie idee. Quindi vedute politiche sghembe 5 ragionamenti da pazzi; consigli inetti; tendenze e progetti ridicoli o colpevoli.

Non havvi cosa più esiziale per l'uomo che darsi alla lettura o allo scrivere nei momenti in cui l'animo o preoccupato, poiché ottenebrato o spento qualunque lume di ragione, restano a guida dell'intelletto le passioni, che travolgendo le cose, più sovente tirano al male che al bene, più all'errore che alla verità. Molti vi erano i quali nati con felici disposizioni per le scienze le lettere e le arti belle sprecavano ogn'intellettuale energia in vano disputare in leggere e contentare scritti brulicanti di nullità, o di tristizie, o di menzogne. Per tal modo i campi assottigliavano le popolazioni, la immoralità impoveriva la religione, la stampa rapiva gl'intelletti. Tutto mettea a ruina la trista novità.

Maggiore intemperanza erano le illegali dimostrazioni. Invalse il tristo vezzo di raunate gridatori, menarli sotto agli edifizii dove le principali Autorità stanziavano, ed a furia di gridi e di minacce chiedere l'assunzione di alcuni alle cariche, la destituzione di altri, le leggi, le risoluzioni ed inchieste governative, ed ogni altra cosa che ai rei propositi andasse a verso. La stessa Magion Reale innanzi alle sue mura tal ribalderia vide.

Dissi ribalderia; perché siffatte cose non altro erano che aperta sedizione e grave irriverenza alle Autorità. Ciascuno dei componenti la società tien segnati i limiti entro i quali deve aggirarsi nella sua vita sociale, dai più infimi ai più alti gradi ciascuno ha una missione speciale a compiere; e questa destinazione tacita o prescritta è per lo appunto il cardine, e il fondamento dell'ordine e dell'armonia sociale; la quale in tanta varietà di tendenze e di entità sarebbe

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ad ogni piè sospinto disturbata, se ciascuno varcasse la propria e nell'altrui sfera si gittasse. Le risoluzioni governative si aspettavano alle Autorità, non mai al popolo, e molto meno agli attruppamenti di uomini perduti, o ignoranti, o libertini, o pazzi, o impudenti presi all'amo delle novità o dell'interesse, o di altre cagioni.

L'intemperanza creduta libertà, gli eccessi progresso, le villanie coraggio, le petulanze ardimenti, ogni più condannevole cosa mandavasi ad effetto. Una dimostrazione di stampatori al campo di Marte, un'altra degli artigiani per la via di Toledo, e mille altre di altro tenore metteano in ripentaglio la pubblica tranquillità. Importunati, insultati, e minacciati i Ministri; inondate le scale e le stanze dei pubblici ufficii; attentate onorevoli sussistenze, tenuta Napoli in paurosa sollecitudine, tutto ispirava orrore e spavento, come se la Costituzione avesse dato fondo ad ogni dettame di ragione, di morale, di legge, di religione, e dirò pure di Galateo.

Né solo nella Capitale il tristo andazzo si contenne, ma nelle provincie largamente si diffuse. Bastava una disposizione delle Autorità che non si attagliasse con gl'interessi particolari di una casta, o che oppugnasse il vizio o il delitto per metter su il grido abbasso, al suono del quale conveniva che quelle si ritirassero dagl'impieghi, o abbandonassero all'intutto i paesi per cessare l'ira furibonda dei partiti. Vide il tempo reo solenni Maestrati lasciare le scranne di Astrea, su cui per lunga stagione onorevolmente si erano assisi, non per altro che per aver condannato il ladroneggio, le ferite, o altre colpe: vide rispettabili Prelati, andare in bando dalla propria diocesi, perché propugnatori dei vizii dei sottostanti: vide infine Giudici integerrimi, ottimi Parrochi, eccellenti Impiegati amministrativi cessare dal proprio ufficio, o involarsi alle proprie dimore, ed alle proprie famiglie al solito

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Non è da porre in non cale fra le sregolatezze l'armamento di ogni maniera di persone. Una moltitudine di giovani, appena entrati in pubertà, facevan mostra e iattanza di armi, sia da pagani, sia intrusi nelle file della Guardia Nazionale; la quale pertanto non composta in tutto da uomini posati, e virtuosi, corrivi alla tranquillità, ma dai caldeggiatori delle nuove cose, che erano altresì ai gradi supremi, non di garenzia, ma di pericolo riusciva. Quindi questa forza che dovea essere il fulcro dell'ordine e della sociale tranquillità divenne strumento di rei disegni, e però fu vista por mano alle più rischievoli ed illegali imprese, che tanto scandalo e tutto cotanto arrecarono.

Gl'Impiegati ebbero anch'essi il loro urto dalla immoderatezza. Varie ne furono le cagioni. Affermavasi da taluni, che a solidare il nuovo reggimento convenisse spazzare gl'impieghi dagli uomini antichi, e soppiantarvi i nuovi; come se un impiegato che si è tenuto fedele ed onesto in una forma governativa non possa o non sappia esserlo parimente in un'altra. Chi rispetta le leggi, non se ne diparte mai. Daltronde la onestà e la virtù non così facilmente si barattano, siano qualunque gli eventi, da coloro nei quali una virtuosa abitudine i virtuosi sentimenti ha suggellato. Povertà, lusinghe, minacce, seduzioni non declinano giammai l'uomo retto e virtuoso.

Dicevasi da taluni altri, che gl'impiegati antichi a bastanza si erano pasciuti sull'erario pubblico, e che al presente convenisse, che gli altri parimente ne godessero; come se fosse giusto mandare all'accatterìa i già possidenti di una rendita, per metterne al godimento i miserabili o bisognevoli!...

Allegavano altri, che gl'impieghi dovevano esser volti a guiderdonare le fatiche durate, i perigli trascorsi, le persecuzioni sofferte, le pene avute, i palpiti, le lagrime, il sudore di quelli che avevano imbastita e messa ad effetto

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Il quale discorso rivelava pur troppo il fine de' Novatori, il quale punto non era il vantato filantropismo, ma più veramente un mero interesse particolare. Del che non si prenda meraviglia in tempi di ogni virtù privi. Apprenda pur finalmente la società a non aggiustar fede alle melate e fraudolenti parole di coloro che le prometton tempi migliori, poiché il proprio non il di lei interesse gli sospinge; e quando il politico temporale rimugghia forte e minaccioso, essi non tardano a svignarsela, lasciando lei grama, dilaniata, e dolente.

Queste e mille altre improntitudini di simil conio, montavano l'un dì più che l'altro ai danni di onorevoli impiegati; poiché giornalmente si accresceva il satellizio delle persone che, con grave iattura delle professioni e delle arti, correvano all'esca degl'impieghi. Quanti e quanti vi furono i quali, presi alla infingarda lusinga di tirare maggior profitto con minore o più lieve fatica, di ascendere alla nobiltà di un impiego dalla supposta viltà di un'arte, s'immergevano nel pelago dell'ambizione, e quindi nella irrequietezza, e nei tormenti che le tengon dietro? ponevano dall'un de' canti le onorate e pacifiche vie del lavoro e delle occupazioni, ed eran parati a conseguire i loro intendimenti con nuove rivoluzioni, ed eccessi di ogni maniera.

Al che si arrogo il triste effetto dell'esempio. In vero i personaggi di merito ben facilmente Sodo blanditi e favoriti dal nuovo potere, onde tenerli come altrettante colonne del nuovo edilìzio. Non tardano ad affluire da ogni punto, gli uomini che credono di agguagliarli; e d' appresso a questi l'innumerevole e confuso stuolo di coloro, che manchevoli d'ingegno e di virtù, mettono innanzi un fanatismo politico per le nuove cose. Dal che provveniva che sendo pochi gl'impieghi, senza novero gli aspiranti, dalle suppliche si passava alle lagnanze, e da queste alle minacce. Vide la nostra età le supplichevoli pagini convolate dai pu

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Altra enormità erano i Circoli, e i Comitati. Sino dalla prima aurora costituzionale i novatori curarono di porre in su i Circoli, i quali composti di uomini invasati dei nuovi principii, e saliti in fama ed in potenza, vacavano agli affari governativi, progettavano nuovi impieghi ed impiegati, stabilivano destituzioni, additavano Ministri, Intendenti, infine esercitavano nelle sue più essenziali parti il potere governativo. Quelli che dal grembo dei Circoli passavano nel campo dei pubblici ufficii, avean cura di promuovere o proporre i confratelli o per gratitudine, o più spesso per avere solido fondamento alla propria esistenza; dal che ingiustizie, ed altre eccedenze derivavano. Non senno, non virtù, non valore ma l'appartenere ai Circoli bisognava per esser ministro di Temi, o andare al governo delle provincie, od occupare altri posti sociali importevoli. Un governo dentro il governo era veramente cosa scandalosa, e incomportabile.

Gl'impeti sregolati si scaricarono più che mai contro i Gesuiti. Dire le cagioni per le quali si additavano all'ira pubblica i figli di Santo Ignazio, e poscia se gli bandiva la croce addosso, sarebbe veramente opera disutile, e soverchia; solo dirò, che grande sventura fu per quelli l'essere presi di mira dalla potentissima penna dell'Abbate Gioberti, il quale dalle melmose rive della Schelda soffiava contro di loro nella conflagrazione universale che di breve avrebbe travagliata Italia. Già in mezzo al diluvio della stampa licenziosa e sfrontata, che ogni classe o persona involvea nei suoi gori, non fu dimenticata la gesuitica famiglia. I cartelli, le parole, le grida ai suoi danni grado grado montavano, quando, pervenuta la notizia della cacciata dei Gesuiti da Genova, non vi fu più riguardo, né ritegno; le preparate materie divamparono.

Un centinaio di persone nell'annottare dei 9 marzo 48 si fece nella strada S. Sebastiano sotto alle Gesuitiche

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Le sediziose e minaccevoli voci pervennero, non senza grave perturbazione, a quei Religiosi, i quali, volto l'animo a Dio, si fecero ad aspettare i casi venturi. Sorse il nuovo dì, e già i forieri della tempesta sordamente rumoreggiavano; sì che addatisine i Superiori della Compagnia, mandarono due Padri pel Direttore di Polizia, i quali non trovatolo, si diressero da Bozzelli, Ministro dell'Intorno, ed a lui esposero i fatti passati, le perturbazioni presenti, e i pericoli avvenire, e chiesero guarentigia ed aiuto. Rispose il Ministro mettesser giù ogni apprensione; il gridìo, le minacce essere vezzo del tempo; ancor egli esserne stato assordato sotto le sue finestre; i Gesuiti, come ogni altro cittadino, aver dritto alla inviolabilità della persona e del domicilio; non temessero, di presente andrebbe al Ministero, ed opportuni ordini emetterebbe.

Consolatrici e giuste furon le parole del Ministro, ma i fatti contrarii. Ché, sì come erasi promesso nella sera innanti, intorno al mezzodì si fece una raunata di sediziosi, i quali a tutta gola, ed a riprese mettevan fuori i soliti gridi. Accorse la Guardia Nazionale, che non disperse la sfrenata moltitudine, ma si rattenne a impedirne l'entrata nel Cortile del Convitto; sì che stando immobile, e non controstante parca che desse pinta a quel baccano. Lo scandalo, le improntitudini montavano.

Frattanto, dietro minaccevole avviso, accorrevano i parenti dei giovanetti che nel gesuitico convitto si ammaestravano, e dal periglioso luogo non senza palpiti e consuolo li ritraevano.

Sgombrato l'edifizio dagl'innocenti fanciulli, parve più libero il campo. Non avuta risposta di un minaccioso foglio indiritto ai Superiori, cinque rappresentanti della ribollente moltitudine andarono per essi, ed esposero esser volontà del popolo, che i Gesuiti andasser via; il popolo fremere, minacciare esterminio se al suo volere non si sobbarcassero.

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Alle quali parole il Padre Provinciale dava sensate, giuste, e forti risposte; ma ben si avvide, che eran momenti di violenza non di ragioni; sì che promise che P indomani prima che il giorno arrivasse alla sua metà sgombrerebbero.

Intanto i Superiori ritornati fra la trepida Compagnia, si faceano a scrivere al Ministro dell'Interno i fatti occorsi, esortandolo che spedisse persone opportune allo quali potessero far la consegna di tutto in caso che convenisse partire. Mandato il foglio, il Provinciale riuniva i suoi contristati fratelli in un salone e dopo aver tutti alquanto orato si fece a dire: il benigno Iddio volerli disgregati; ognuno alla divina volontà compiutamente si rassegnasse; ciascuno a se medesimo provvedesse: degl'infermi, dei vecchi, de' forestieri prenderebbe cura la Provvidenza; e poscia, porgeva a ciascuno la patente dell'ordine; quando ecco uno sciame di Guardie Nazionali o di Ausiliarii irruppero dentro il convento: i corridoi, i saloni, le celle, i più remoti angoli dell'edifizio furono ingombrati.

I Ministri intanto si assembrarono in Consiglio per determinare l'occorrente; molto e forte si parlò; la ingiustizia del caso risaltava agli occhi eziandio dei preoccupati, e lo stesso Saliceti, il quale era il solo che instasse per Io esilio, non altre ragioni allegava, che o la cacciata dei Gesuiti, o una rivoluzione per conservarli.

Deciso che la Compagnia partisse, il Direttore di Polizia si portava da quei Religiosi, e loro disse: venire egli dal Consiglio di Stato riunito espressamente pei gravi casi che toccavano alla gesuitica famiglia, i quali di sommo rammarico riuscivano pel modo arbitrario, ed illegale; nessun gravame avere i Gesuiti appo il Governo, anzi tutti aveano di che laudarsine; neppure aver potestà di discioglierli senza il consentimento di Roma; ma cosa fare in momenti di tante avversità, e di eccedenze tante? ormai scorrazzare dappertutto minaccioso lo spirito maligno della ribellione;

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la navicella del Governo essere da tanti e sì

I quali sensi, abbenché fossero la espressione delle angustie in che trovavasi il Governo, e facessero trapelare giustizia, umanità, e riprovazione per tanta enormità; nondimeno non lasciavano veruna persuasione nell'animo, sì che uno de' Padri con franchezza pari alla gravità del caso, in tal maniera imprese a rispondere. Non la Giustizia né la Umanità consentire, che una famiglia di Religiosi gisse in bando senza colpa, né imputazione: se il Consiglio cedeva al volere di un pugno di agitatori, perché parlare di esigilo, quando questi pretendevano solamente lo sgombero dalla casa? perché incrudire sulla sorte di molti, i quali napolitani essendo, ben potean rientrare fra i domestici lari, in grembo alle proprie famiglie?... dall'altra banda non esser possibile, che in si breve ora una numerosa compagnia quasi nebbia si dileguasse, segnatamente perché non pochi vi erano, i quali per vecchiezza o gravi infermità mal potrebbero senza periglio di vita commettersi ad un viaggio: uscirebbero adunque, concludeva il Padre, ma ciascuno prendendo cura di se, per tal modo la rea volontà si farebbe.

Il Direttore ascoltate le giustissime ragioni, e riferitele in Consiglio, ritornava dicendo ai Religiosi: essere in balìa di ognuno di andare ove meglio credesse; purché con prudenza in tanto affare si procedesse, affin di causare i pericoli: gli archivii, i gabinetti, la biblioteca si sarebbero suggellati; rimarrebbero nella Casa gl'impotenti per vecchiaja o malattia, e tre o quattro padri alla custodia della

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ed all'amministrazione delle robe, le quali ponto non lasciavano di essere proprietà della Compagnia.

Nello stesso tempo il Direttore dava ordini affinché si togliesse l'ingombero di tante guardie dai corridoi e dalle stanze; restassero soltanto tre forti partite alle principali porte della Casa; e il Commissario, che era con lui cominciasse l'apposizione dei suggelli, e per ultimo si permettesse la entrata ai parenti, e si serbassero alcuni modi prudenziali per la uscita affin di schivare le improntitudini dei faziosi.

Nel mentre che tanto si operava, in mozzo all'andare ed al venire delle persone, alcuni padri, pressati ed aiutati dai loro parenti, sotto altre vesti uscirono dal minacciato luogo per la porta del Mercatello, e per un vicino giardino. Addatesene le scolte di tratto fu gridato l'allarme, si accesero le furie dei liberali, menarono molto rumore, tutti gli armati irruppero come turbine nel chiostro; dischiuse e scardinate le porte, ogni cella severamente invigilata; sequestrati i mobili, i Padri raggruppati a cinque o a sei nelle stanze e guardati a vista, non altro lasciando a ciascuno che le vesti e il breviario; gli rassembrarono in un salone e li numerarono, squadrandoli a dritta ed a manca e d' attorno, come dei più celebrati malfattori suolsi fare; e segnatine i nomi, li rimenarono scompartiti nelle celle, ove furono guardati per tutta la notte.

Intanto i Capi non avean pretermesso di portarsi issofatto dal Direttore che intrattenevasi nella porteria del Convitto, e di rappresentargli insolentemente, che tutti i Gesuiti indistintamente dovessero esulare. Indarno il Direttore mostrava non che la illegalità, la inumanità di quel procedere, il quale menava dritto all'anarchia; ché le voci della ragione eran soffocate dalle passioni ardenti e conculcatrici; sì ché il Direttore si ritirava da quell'inferno, e riunitosi altra rolla il Consiglio dei Ministri, fu

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Spuntava fra incerta luce il giorno 11 di quel Marzo, poiché un denso nugolato dal quale era venuta giù rotta e furiosa la pioggia, ammantava il Cielo. Si preparava la contristata Compagnia allo abbandono di quelle per lei gratissime dimore. Un Padre nel privato oratorio celebrava l'incruento sacrificio della messa per consumare gli azzimi consecrati.

Uscito di poco il mezzodì, giunse un Ufficiale Svizzero il quale direttosi al Provinciale disse: esser tutto all'ordine; le vetture pronte al trasporto; non paventassero, essersi pensato a tutto. Poco poscia arrivava il Ministro Bozzelli, e soggiungeva: il Governo non cacciare, né mandare in esigilo i Gesuiti; esser quelli momenti di transizione e circostanze dubbie; doversi sobbarcare alla necessità; i loro dritti sarebbero rispettati; ciò che facevasi essere per tutela e sicurezza delle loro persone; si avviassero di buon animo al porto, dove imbarcati sur un Legno a Vapore, sentirebbero altre disposizioni.

Battevano le ore ventuna quando gli sconsolati figli di Lojola a coppie uscivan dal grand'Uscio che mette al Largo del Mercatello, e nelle apprestate carrozze entravano, le quali fra mille armati accennavano al Molo. Muoveva il convoglio, come ne' funerali suolsi, a lento passo: il popolo accalcato e diviso in due ali con alto silenzio, e viso addolorato quella enormità riprovava, e dava l'addio ad una religiosa famiglia che tante cure avea largito per lo ammaestramento dei fanciulli, e fatiche tante in servigio della religione. Fu rotto il silenzio da sordo mormorto, e da un accennar con mani allorché apparve il P. Cappelloni al quale immenso amore i napolitani avean posto; e maggiore ma rimesso moto si destò quando fu scorto un Padre, a cui la rea fortuna avea serbato momenti di dolore in alta ed inferma canizie; egli non vivente, ma cadavere parea logoro ed instecchito, al quale ogni più cruda

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tutti della gesuitica catastrofe sentivano pietà; solo gli autori di enormità cotanta quella pietà sentivano, che l'assassino sente per l'agonia della vittima che immola al suo furore.

Prima a Baja navigarono i Gesuiti, donde i Napolitani rientrarono travestiti nella Capitale, e poscia a Malta. Così in Napoli fu dispersa la Compagnia di Gesù. Vedovi rimasero gli altari, vuoti i confessionili, non frequentata la chiesa, muto il pergamo, le scuole in abbandono, il nobile convitto chiuso: un silenzio come di tomba, che alto feriva il cuore, regnava nella gesuitica contrada. Si cercò di riparare in parte a tanto danno, sopperendo coi preti del clero secolare.

Della illegalità, della ingiustizia, commessa furono ripieni tutti i giornali, e tutte le bocche, e tranne poche eccezioni, non senza meraviglia e riprovazione. E veramente in un epoca in cui si bandiva civiltà, libertade, progresso erano avvenimenti incomportabili una condanna senza giudizio; una esecuzione senza ordine di chi avea la potestà di farlo; la libertà individuale che la legge garantiva (1) conculcata e manomessa; la inviolabilità del domicilio (2) violata; modi violenti e barbari nella esecuzione; niun riguardo alla canizie, niuno alla infermità, alla innocenza, al merito niuno, e di delitto cotanto non il gastigo, ma il trionfo!... Plaudirono i settarii, plaudirono i giornali sregolati, solo i buoni sommessamente riprovarono e maledissero, ma l'ira di Dio temperava i suoi fulmini.

Imbaldanziti i sediziosi per gli ottenuti successi, e per avere imposto al Governo la loro volontà, volgevano il pensiero ad altri Ordini Religiosi, poiché ritenevano che il nuovo regime mai non avrebbe potuto metter radici con le massime ed i principii di quelli; e veramente in ciò male non si apponevano;

(1) Articolo 24 dello Statuto.

(2) Art.28 dello Statuto.

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imperciocché se avean proponimento o precetto di scrollare il Trono, ed inabizzare la Società, questo era troppo contrario alle leggi di Cristo e sarebbe ito sotto la censura dei Padri, richiesti di consiglio nei confessionili o fuori. Accortamente adunque in taluni circoli erasi ordinato di spazzare a poco a poco, e quasi insensibilmente dallo Stato i Religiosi, e di già avevan portato i primi colpi sui Gesuiti, nei quali, a sentenza del Mazzini, la potenza chiericale è personificata. Similmente la Casa dei Padri del Redentore di Napoli era stata minacciata, e correva fama, che i chiostri l'un dopo l'altro sarebbero stati disertati.

Alquanti giorni dopo la gesuitica catastrofe si eran rivolti gli occhi sui Carmelitani, quando accortisine i popolani del Mercato, della Marinella e di Porto, si riunirono, e acciviti di pietre e di bastoni, portando innanzi una immagine della Vergine, e gridando viva la Madonna, si avviarono per alla Reggia. Giunti al largo del Castelnuovo s'imbatterono in un centinajo fra guardie nazionali, ausiliarii, e consorti, i quali con varie maniere di armi, accennavano ad oppugnare quella dimostrazione; ma i popolani incuorati dal sentimento religioso, sotto il riverito e confortevole vessillo della Madre di Dio, incominciarono a trarre un nugolo di sassate; reagivano gli armati, una zuffa si appiccò, la quale sarebbe riuscita universale, e pericolosa per la città, ove non fosse accorsa la truppa a spegnerla.

Quietossi in sul nascere quel turbine, ma ne rimasero tristi conseguenze negli animi. Napoli tutta funne conturbata; poiché vedeva in ripentaglio la religione; ed oggimai in mezzo a tanti disordini, si desiderava che il nuovo ordine delle cose cessasse. I settarii eran troppo balordi; non si accorgevano, che le credenze sono scogli in cui ogni potenza s'infrange, essi ad ogni piè sospinto non le fondamenta, ma il precipizio al loro sistema preparavano.

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Né fra le intemperanze sono a pretermettere le idee strane ed arrischiate che i novatori curavano d'involgare, le quali sebbene nate di là dai monti, dove si giace la culla di ogni politica enormità, pure si erano ardentemente ricevute e carezzate; poiché ai rei propositi mirabilmente si affacevano.

Molti della plebe, sì come fa per noi detto, corsero ad ingrossare le fila dei tumultuanti al suono del danajo; e perché il nuovo sistema prendesse consistenza facea mestieri che la piupparte fosse presa all'amo degl'interessi. Una molla è necessaria per sospingere la volontà, le molle morali muovono soltanto i virtuosi e i sapienti, e quella dell'interesse le plebi. Le voci di minoramento o abolizione di pesi, di accertamento del lavoro non bastavano al grand'uopo, qualche cosa di più positivo bisognava, e questa era per lo appunto il Comunismo, il quale muovendo da rei principii, tristi conseguenze arrecava. Gli artigiani col dritto al lavoro, i non possidenti con la idea di livellare le fortune, minacciavano di esterminio la cosa più sacra, la proprietà; ed al pericolo dié anche pinta una circolare del Ministro dell'Interno dei 22 Aprile con la quale, credendosi di mettere un baluardo alla piena, si ordinava la verifica delle usurpazioni, e la reintegra ad ogni comune.

Già le malnate idee di comunismo, di legge agraria, di eguaglianza lusingavan molto gli animi, ed aveano gittate pronte e ferme radici nel popolo, tristissimi frutti producevano. L'esempio degli Operai di Parigi, e il soffio della sedizione, andavano al verso della rea stagione. Apparve in Febbrajo. di quell'anno un' attruppamento ordinato di Artigiani, i quali con innanzi un cartellone in cui era scritto lavoro e pane procedevano per Toledo: la loro attitudine tranquilla niente produsse; ma la gente trepidò. Un' altra dimostrazione susseguì in Aprile per opera degli Stampatori e dei Torcolieri, i quali, menato scalpore per la pochezza dei salarii, si raunarono nel Campo di Marta

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Il Governo subodorati i disegni avea spedito in quel luogo uno squadrone di Lancieri e tre battaglioni di Guardia Nazionale comandati da Gabriele Pepe, il quale con maniere urbane curò di far disciogliere quell'ammutinamento, ed invitavane i componenti a sperperarsi, quando vennegli tirato un colpo di pistoletta che ferì la sua Ordinanza; a questo taluni dei Nazionali scaricarono le armi, e ratto quell'accozzaglia si dileguò.

Le quali intemperanze succedevano eziandio nelle provincie. Cosenza fu più volte inondata da numerosi stuoli di borghigiani armati in foggie strane, o inermi preceduti da bandiera, e tamburo battente, i quali schierati o raggruppati avanti al palazzo dell'Intendente, con minacciose ed alte grida chiedevano la revindica, e lo scompartimento delle terre, dette Comuni, e pretendevano i beni dell'Arcivescovo, dei Monasteri, dei Luoghi pii di beneficenza, ed anche i beni demaniali posseduti dai particolari. La Guardia Nazionale era fredda spettatrice di quell'ammutinamento, e l'Intendente appagava con parole le concitate rimostranze.

Nell'Irno e nella Cava gli Operai della filanda, si ebbero il proposito di obbligare i fabbricanti a varie cose, epperò arsero dei carri di cotone, e minacciarono di brugiare le macchine. In Venosa venne in sollevazione la popolaglia gridando morte alle giamberghe e divisione delle terre, né il gridio fu senza sangue. Le istesse scene si riprodussero in Ricovero, Santangelo dei Lombardi, ed oltre ad altri paesi, in Altamura dove furon partite le terre demaniali. Non si mancava in tutti i luoghi di cooperarsi al deviamento di quella catastrofe; ma poco frutto se ne cavava; perché dove si mostra l'interesse ogni voce di ragione, o ligame di affetto è muto. Gravi ed incalcolabili danni sarebbero avvenuti, se il benigno Iddio non avesse abbattuto in buon punto la minacciosa e rinascente idra.

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Porrò fine a questo capo con la più grave delle stemperatezze, ossia la Opposizione che ad ogni pie sospinto facevasi al Governo. Taluni per vezzo di singolarità, altri per vendetta, ed altri per odio, o spirito di parte, o sete di guadagno, o stimolo di ambizione, o desio d'ingraziarsi ai Circoli, o d'involgarsi fra le moltitudini, o tener dietro all'andazzo comune, o per altre turpitudini, alle operazioni governative più o meno sfrontatamente si attraversavano. Falsata la idea e lo scopo della Opposizione, in cambio di fortificare svigoriva, a parte di conservare demoliva, invece di rispettare i principii stabiliti vacava a distruggerli, e soppiantarne altri totalmente sovversivi, cosicché divenuta stucchevole, irritante, sovvertitrice, turpe, e contumace formava in verità una cangrena sociale profonda, che grave dissoluzione minacciava.

La storia costantemente ci mostra, che i Governi Popolari assai meno sanno profittare, che i Monarcati, poiché la moltitudine sempre rotta alle sfrenatezze si lascia tirare dalle passioni subitane, le quali frutti conformi partoriscono, mentre l'Uno, con animo riposato calcolando, indirizza a buon fine tutte le cose.

Impertanto il Governo in mezzo a tante perturbazioni ed avversità veniva man mano attuando lo Statuto.

Già avea chiamati al Ministero uomini che godevan fama colossale presso gl'Innovatori, perché intinti della stessa pece, e da essi formato lo Statuto; ora, giusta le promesse fatte, le quali portavano, che prima della convocazione delle Camere Legislative avrebbe pubblicata una Legge Elettorale provvisoria, che sarebbe per ricevere il suggello definitivo dalle Camere medesime nel primo periodo della loro legislatura, si faceva a render fuori la cennata Legge, passati appena diciannove giorni dal promulgato Statuto; e nello stesso giorno (29 Febbrajo) decretava la riunione delle Camere per le calende del sussecutivo Maggio, riserbandosi di nominare i Pari nel frattempo in cui procedevasi alla elezione dei deputati.

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Faceva le discussioni intorno alla legge provvisoria dirette alla or

Nominava inoltre Comandante della Guardia Nazionale di Napoli col grado di Tenente Generale, il Principe Pignatelli-Strongoli, e moltissimi Ispettori per organizzare le guardie nazionali di ciascuna provincia cisfarana: mandava al reggimento delle provincie e dei distretti, non che alla occupazione di altri impieghi, gli uomini del nuovo colore: sopportava con prudenza le accidiose intemperanze della setta, i circoli, lo schiamazzo dimostrativo, e curava di accondiscendere a tutto; affinché non si gridasse tosto alla offesa libertà, sperando, che un giorno la ragione e la moderatezza avesser tratti nella buona via gl'innovatori.

I quali pertanto a verun patto voleansi comporre in pace; epperciò ora incusavano il Governo di pigrizia, ora davano del traditore e del balordo al Ministero, non senza gridargli la croce addosso, la legge elettorale non gli era andata a sangue, ne menarono alte querele, aspettavano con ansia le calende di Maggio per accomodarla ai loro pensieri, o meglio alle loro passioni; avventavano i loro sdegni contro il Governo, che non curava, secondo essi, di spingere a composizione gli affari di Sicilia; tumultuavano perché non si era per anco messa in ordine la Guardia Cittadina, né spedite le armi nelle provincie; infine non eravi punto, che non prendessero di mira affin di spingere la loro caustica parola contro il Governo, o in altri termini, affin di sparger la zizzania e il malcontento contro il Governo, renderlo colpevole agli occhi del popolo, e quindi prepararne il crollo, onde dalle sue ruine, quasi novella Fenice, la combusta repubblica nascesse.

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Per le quali incomportabilità il Ministero, oggimai segno di tante ire, sarcasmi, contumelie, e minacce, nel primo di Marzo si facea a chieder la dimissione al Sovrano con una dichiarazione, che rimarrà documento solenne di quanto possono le ire dei partiti. Il Re, che impavido, e franco sentiva rimugghiar la tempesta sotto il suo Trono, non si perturbava; ma placido ed animoso a quelle strettezze andava riparando. Accettava la dimissione dei Ministri, ordinando, che sino alla formazione del Ministero fossero rimasti in ufficio, affinché il corso degli affari non si rammezzasse. Cinque giorni dipoi convocavali di nuovo, mostrando loro la necessità di riprender le cure del Ministero, e data più ampia ripartizione alle cose ministeriali affin di aumentare i Consiglieri della Corona, e quindi i lumi nelle solenni discussioni governative, ricomponea il Ministero nel seguente modo. Il Duca di Serracapriola alla Presidenza; il Barone Donarmi agli Affari Ecclesiastici; il Principe Dentice alle Finanze; il Principe di Torcila all'Agricoltura e Commercio; il Cavalier Bozzelli all'Interno; il Principe di Cariati agli Affari Esteri; il Colonnello degli Uberti alla Guerra e Marina; Il Consigliere di Stato D. Giacomo Savarese ai Lavori Pubblici; il Cavalier Poerio all'Istruzione Pubblica; D. Aurelio Saliceti al Dipartimento di Grazia e Giustizia. Ampliato in tal guisa il Ministero, e messivi altri uomini della nuova era, poteansi finalmente quietare le menti esaltate, ma la intemperante età altri urti, altre ruine preparava. La ministeriale navicella era spinta e forte tempellante fra gl'indomabili flutti delle passioni settane, le quali oggimai montavano al più alto colmo sì perché si eran divulgati i casi sinistri di Parigi, ossia i tumulti sanguinosi, il trono smantellato, Luigi Filippo in bando, un governo provvisorio instituito, foriero della repubblica e del socialismo; e sì perché della rivoluzione di Venezia e di Lombardia, e delle novità di Torino, di Roma, di Firenze tutta Italia risuonava. Dalle Alpi a Sciita, e dal Peloro al Lilibeo lo spirito maligno fremente scorrazzava.

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Intanto era ormai tempo, che la voce del Governo si facesse sentire imperiosa per infrenare i tumulti e le intemperanze che minacciavano cotidianamente la pubblica tranquillità; massime perché indarno si era gittata la parola di taluni giornali moderati, e dello stesso Prefetto di polizia, che in varii avvisi avea fatto appello all'onore, ed alla temperanza cittadina. Epperò addì 13 Marzo decretava il Re: esser vietata la petizione non esercitata nei modi legali; ove il modo illegale offrisse un reato previsto dalle leggi provvisoriamente in vigore, sarebbe punito ai termini delle medesime dal competente magistrato ordinario, in caso che si effettuisse un attruppamento criminoso, verrebbe dissipato con una triplice intimazione dalle autorità municipali, accompagnate da un uffiziale di Polizia ordinaria o Giudiziaria o di altra truppa, previo il tocco del tamburo, o del suono della tromba; ed ove non si obbedisse impiegherebbesi la forza pubblica.

Nello stesso tempo veniva a luce la legge sulla Guardia Nazionale; e tosto si pose mano ad eseguirla, e a mandare le armi per le provincie; e poco poscia decretavasi lo scioglimento della Gendarmeria Reale, la quale era sopperita da un novello Corpo col titolo di Guardia di Pubblica Sicurezza, composto d'individui distinti per buona condotta, disciplina, e attaccamento ai proprii doveri; furono benanche chiamati a far parte dell'armata quegli Uffiziali che per gli avvenimenti politici del 1820 n'erano stati esclusi.

Inoltre, progredendo sempre nel senso delle costituzionali promesse, il Governo instituiva in Napoli una Commissione intesa a portare esame sulla capacità e sul merito personale di tutt'i funzionarii dell'ordine giudiziario, dal lato scientifico e morale; discendeva a diffinire il termine utile per lo sperimento del ricorso innanzi ai tribunali civili di che parlava l'articolo 17 della Legge Elettorale, non che a stabilire un metodo eccezionale abbreviato per la discussione di tali affari di pubblico interesse;

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In mezzo a tal procedimento tranquillo e leale del Governo arrivavano in mal punto le notizie dell'Austriaco sovvertimento. La imperial Vienna da tumulti e sangue contaminata; l'austriaco impero ridotto in tritumi; l'ultimo spiro di quella gran mole parea giunto. I liberali del nostro regno ormai incuorati da tante e sì rilevanti novità, si abbandonavano a gravi smodatezze. Spargevano più che mai il veleno contra il Governo; moltiplicavano gl'impiegati del loro colore, ormai quasi tutta la potenza morale e materiale dello Stato era in loro pugno, si agitavano pel collegii elettorali, affinché gli uomini i più rischiosi risultassero Deputati; riducevano in frantumi lo stemma austriaco, azione più degna di pazzi o di fanciulli, che di uomini fatti; dirigevano i loro furori contro Bozzelli, prima idolo e poi ludibrio della setta, e avverso a tutto il Ministero, variamente tassandolo; correvano di qua e di là malgrado la legge contro gli attruppamenti, si raccolse una folla innanzi Palazzo gridando si vada in Lombardia, abbasso il Ministero, vogliamo armi e truppa; i quali sensi esposti in una supplica, furono dal Colonnello Pepe presentati al Sovrano, ed acconsentiti; lanciavan parole contro la Truppa e la Guardia Cittadina che si riunivano per impedire i disordini; ripetevano le rimostranze con maggior fervore, e sfrontatezza; una intemperanza partoriva l'altra; sugli eccessi passati gli attuali mirabilmente tallivano. Ahi! trista ed insensata genia, che non sai vivere altramenti fra gli nomini che sgomentandoli con incomportabili sfrenatezze se in libertà, contristandoli con vili lamenti se fra catene!

CAPITOLO VI.

IL COMITATO E 'L PARLAMENTO SICILIANO.

Sommario

Obbietti principali a cui volgon l'animo i Siciliani. Schizzo della Cittadella. Apparecchi degl'insorti. Il General Pronio alle redini di quella guerra, vantaggia le condizioni dei Regii. Combattimenti varii, e segnatamente quelli di Marzo. Il Re affin di cessare il sangue accelera la tregua. Concessioni fatte dal Re ai Siciliani, e portate da Lord Minto in Palermo. Ultimato del Comitato Palermitano al Real Governo. Solenne protesta del Sovrano. Sicilia tutta in delirio. Parlamento Siciliano. Detronizzazione. I Siciliani si adoprano con fervore ma indarno per far riconoscere il loro governo dai Potentati Stranieri.

Le intemperanze ed i furori tenevano nell'anzidetto modo esagitate le terre cisfarane, né quelle di là dal Faro punto risparmiavano, ma a maggiori, più stravolti, e ruinosi accidenti le balestravano: dei quali è ormai tempo, che io, ripigliando il filo delle siculo vicende, narri.

Tre cose principali stavano in cima dei siculi desiderii, cioè l'espugnazione della Cittadella, il riordinamento politico dell'isola, ed il fare riconoscere il loro governo dai Potentati Stranieri. Al conseguimento di tali e sì rilevanti obbietti con molto fervore si comportavano.

Volsero dapprima il pensiero e le forze alla difficile impresa della Cittadella, affine di scacciare da quel forte nido la regia guarnigione, e rendersene padroni; sì per dare alla fin fine ai loro animi la paghezza di non vedere

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ed opportuno a rendere scabroso e lungo il conquisto dell'Isola se in loro potestà fosse. Intorno alla Cittadella dunque i furori della guerra si agglomerarono.

Sorge la Cittadella forte per sito, fortissima per arte, in forma di pentagono regolare, sull'istmo che si protrae nell'interno del porto di Messina, congiungendo il piano di Terranova alla piccola penisola S. Raniera. Cinque bastioni la compongono, nomati S. Stefano, S. Carlo, Norimberga, S. e S. Diego, i quali hanno due cavalieri sormontati dal telegrafo, e dalla bandiera, e sono ricinti da una falsabranca, e quello di S. Carlo alla dritta del fronte di terra è ricoperto da una cotroguardia. Le fossate di questo, e del fronte verso la lanterna son sempre bagnate dal mare che percuote il piede dei rivestimenti. Innanzi al fronte di terra si parano il rivellino di S. Teresa, e le due lunette di S. Teresa e di S. alle quali si comunica mercé ponti di legno. A poca distanza dalla Cittadella si ergono i forti della Lanterna e di S. Salvatore quasi nel lembo dell'istmo mentovatole il bastione D. Blasco sull'estremità meridionale dell'antico muro di cinta della Città e dello spianato di Terranova.

Malgrado sì gagliarda posizione delle regie truppe, i Siciliani, anziché da consideratezza, spinti dalla faciltà con cui si guardano le cose che si vogliono, alla espugnazione della Cittadella cotidianamente, ed accesamente intendevano. Una maniera di semicorona formano le dolci colline cui cui dorso siede Messina le quali par che ricingono la Cittadella. Ora nei punti più culminanti e più opportuni di quelle e della Città ersero man mano fortini e batterie con molti cannoni tolti in parte dalle altre fortezze siciliane, in parte con estrema sagacia e periglio in luogo non molto discosto dalle batterie della stessa Cittadella, ed in parte dalle ubertose fucine di Brettagna. Dirigeva le operazioni espugnataci un Ignazio Ribotti piemontese.

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Ridotta la truppa, sì come si è più innanzi narrato, a poco decorose condizioni, e giuntane la notizia in Napoli, era spedito il prode General Pronio a prendere le redini di quella guerra. Il quale vi giunse ai 23 di febbraio in mezzo al rimbombo delle artiglierie. Rinforzava tosto il presidio con varie compagnie di pionieri zappatori, e di artiglieri; riforniva le provvisioni di guerra, facea che il 5.° reggimento di linea da Catanzaro e Cosenza togliesse i quartieri in Villa S. Giovanni ed in Reggio, e infine dirigeva amorevoli e decorose parole ai Messinesi, affine d'indocilirli, e trarli dalla smarrita via.

Tutto riusciva indarno, e ad altro non intendevano i Siciliani che a preparare e moltiplicare mezzi di offesa. Costruivano una batteria sotto all'antico forte Conzaga per colpire l'interno della Cittadella, e le navi che si avvicinassero; ed un'altra a stanca del Noviziato. Dall'altra parte i Regii occuparono il lazzaretto, e piantarono due batterie allo sbocco della Cittadella, e verso l'avanzata affin di percuotere la porta e il piano di Terranova, smantellarono il muro che era innanzi all'Arsenale di Marina, e dal forte S. Salvatore continuamente sfolgoravano contro le fortificazioni di Re. ai Alto già in potestà degl'insorti.

Intanto nel giorno 25 Febbrajo il Generale riconquistava l'abbandonato ed importante bastione D. Blasco, che giace all'estremo sinistro di Terranova, e per una lunga cortina si unisce alle opere esterne della Cittadella; e munito con cannoni di vario calibro, rafforzato con lavori accessorii sul fronte di attacco, e congiunto all'avanzata, della Piazza con una trincea a denti di sega, alla dritta della quale si elevarono altre due batterie occasionali, si pervenne al dominio dello spianato di Terranova, unico terreno sul quale il nemico potea procedere con linea di approccio ad un regolare investimento; nel tempo istesso si

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Si passava così il tempo fra continui apparecchi e tentativi dall'una e dall'altra parte, ma senza positivi risultamenti, poiché le posizioni della truppa erano per sito, per arte, per coraggio, e previggenza inespugnabili, e dall'altro lato il cannoneggiamento della Cittadella non ad altro era diretto che a impedire o smantellare i lavori di fortificazione, e pure in ciò si andava con poco frutto, perché si accendevano i cannoni soltanto allorché si avea provocazione, e daltronde vi eran molli punti al coperto di cui si piantavano batterie senza che i Regii punto se ne addassero.

Molti furono da ambo le parti gli attacchi, molto il furore, la infelice Messina ne andava tutta a socquadro, e per colmo di sventura era a considerare, che più dei presenti, i tempi avvenire sarebbero per lei funesti! Nello calende di Marzo mentre infieriva il combattimento, un vasto ed orribile incendio divorò i quartieri di Terranova, l'Arsenale e il Porto Franco. La fama, forse non bugiarda, riportava, che il ricco deposito di mercanzie fosse stata esca al disegno dell'arsione, affin di ricuoprire il furto. A noi, dopo occupata Messina, taluni mostravano mercanzie esposte a vendita che si dicevano arse nell'arsione di Porto Franco.

La notte, il tempo cattivo non tratteneva punto né poco le ire. Nella notte del 4 Marzo fra denso bujo, e impetuosa piova, furono assaltate da immensa e furiosa turba le batterie e la trincea di Terranova. Le vigili milizie furore per furore rendendo, frastornarono ogni sforzo.

Nella vegnente aurora si riaccese la guerra più accanita, e nel punto del maggiore impeto, si tentò un assalto del bastione D. Blasco dai giardini sottostanti. Ma alcuni tiri a scheggia distrassero, più che diradarono, la colonna assalitrice. Intanto il maggior furore fu diretto nel

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Il lungo casamento parallelo alla cortina fra S. Carlo e Norimberga, addetto alla dimora degli Uffiziali della Guarnigione, percosso da molte bombe, andava in rottami. Il forte S. Salvatore era grandemente lacerato pei tiri verticali, e pei diretti dalle casematte di Real Alto. Né il forte della Lanterna, separato dalla Cittadella, fu risparmiato. Il presidio combatté al solito da forte, ma ebbe a rimpiangere il Tenente la Bianca, involato da una scheggia mentre incuorava i suoi pionieri al lavoro dei scacchi a terra. Dodici soldati in mezzo a quella ferale tempesta furon morti, e trentadue feriti.

Nel mattino del giorno sette cominciarono a trarre tutte le batterie con indicibil furia, né si tardò a veder divampare la direzione di artiglieria, e poco poscia il padiglione rimpetto alla porta principale; né l'incendio fu ammorzato prima dell'occaso.

Il Re nello scopo di far tosto cessare lo spargimento del sangue facea partire per Messina il Capitano Gagliardi dello Stato Maggiore, ed un Incaricato di Lord Minto, affin di accelerare l'istante della tregua, che era per trattarsi in Palermo dal medesimo Lord. I siciliani man mano consentivano alla sospensione delle ostilità alle quale per altro essi rupper fede in mille modi con visibili e nascosti apparecchi e fortificazioni, che per la generosità dei regii non eran punto impedite. Questa era la tregua dei Vulcani, durante la quale si fa cumulo e lavorìo di novelle materie per risorger con più violenza ed impeto.

Mentre in Messina si passava fra tregue, armamenti, e guerresche fazioni, in Palermo si cozzava indarno con le pretensioni del Comitato. Già per noi fu detto, che la legge costituzionale, malgrado le riserve dell'articolo 87, fu tra le furie della rivoluzione respinta e lacerata; ora il Real Governo nel proponimento di spingere a composi

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Inviato Straordinario dell'Inghilterra per gli Affari d'Italia, che giunse in Palermo, una con il Conte Statella e Perez e Poletti, nella sera del 10 Marzo, latore delle regie concessioni, le quali fra le altre cose importanti portavano. Stanzierebbe in Napoli presso del Re un Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia, quando la real residenza non fosse in Sicilia.

Si convocherebbe il Siciliano Parlamento in Palermo pel 25 di quel Marzo, affin di attagliare ai tempi la costituzione del 12, e vacare a tutti i bisogni della Sicilia; ferma rimanendo la dipendenza di unico Re per la integrità della Monarchia.

Si procederebbe pei 15 alla elezione dei deputati, con norme indicate, non permettendo la urgenza della cosa che si fosse patito indugio.

Parimenti si convocherebbe la Camera dei Pari, determinando talune cose intorno al modo di supplire alle Parie temporali estinte, o spirituali vacanti.

I Parlamenti di Napoli e di Sicilia si porrebbero d'accordo per quel che potea riguardare affari comuni.

Starebbe in Sicilia un Luogotenente Generale scelto o nella Real Famiglia, o fra i personaggi più distinti dell'Isola. Egli per ora avrebbe presso di Lui tre Ministri, addetti ai Dicasteri di Grazia e Giustizia, e degli Affari Ecclesiastici, Interno, e Finanze.

I tre Ministri, riuniti sotto la presidenza del Luogotenente comporrebbero il Consiglio dei Ministri, il quale sarebbe assistito da un Segretario col grado di Direttore di Ministero di Stato, che ne terrebbe il protocollo.

Infine si dava la formula del giuramento, e veniva nominato a Luogotenente Generale D. Ruggiero Settimo, e conferito allo stesso la facoltà di aprire nel Real nome le Camere Legislative, ed erano anche designati i Ministri, ed il Segretario del Consiglio dei Ministri.

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Queste concessioni erano per certo tali che avrebbero dovuto appagare le siciliane brame, ove il fuoco delle passioni fosse ammorzato; ma disconcluso rimanea, o volle rimanere l'onorevole Lord, e dopo fermato un armistizio, in quella che navigava per Messina coll'Ammiraglio Parker, rimettea al napolitano Governo il seguente ultimato da parte del Comitato di Palermo.

Il Re doversi intitolare Re delle Due Sicilie; il Rappresentante del Re sia della Famiglia Reale sia un Siciliano dovere assumere il titolo di Vice-Re, ed esser munito di tutte le facoltà (Alter Ego) che la Costituzione annette al Potere Esecutivo, e legato coi vincoli da quella prescrittigli; doversi conservare gl'impieghi dati, e gli atti emessi da tutti i Comitati; e gli altri impieghi che dipoi accadesse dare dal potere esecutivo stanziante in Palermo, si dessero ai soli Siciliani; l'atto di convocazione del Parlamento reso pubblico dal Comitato, doversi ritenere come parte integrante della Costituzione infìno a che il potere legislativo non avesse adattato ai tempi la costituzione del 12; la istituzione della Guardia Nazionale ritenersi con le riforme che sarebbero per esser volute dal Parlamento; le fortezze fosser tutte sgomberate di Regii fra otto giorni dal concluso accordo, e smantellate in quei punti che si crederebbero; la Sicilia potesse coniar moneta a seconda delle determinazioni del Parlamento; doversi ritenere l'attuale bandiera, e rendere alla Sicilia la quarta parte della flotta, delle armi e degli attrezzi guerreschi esistenti, o l'equivalente in denajo; le spese della guerra fossero rispettivamente compensate, e a carico del napolitano tesoro tutti i danni del porto franco di Messina; i ministri per gli affari siciliani dover dimorare in Sicilia presso il Vice-Re, nessuno in Napoli ed essere responsabili ai termini della Costituzione; si restituisse a Messina il Portofranco, senza limitazione di quello che il Parlamento crederebbe risolvere per altri punti di Sicilia;

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i due parlamenti dover deffinire tutte le materie d'interesse comune ad amendue, le Sicilie; ove sì conchiudesse lega politica o commerciale col rimanente dell'Italia, Sicilia vi fosse rappresentata come ogni altro Stato da persone indicate dal Potere Esecutivo stanziante in Palermo; in fine, l'approvazione delle dette cose fosse data nelle debite forme al Comitato prima dell'apertura del Parlamento, in contrario ogni trattativa s' intendesse sciolta.

In tanto eccesso di pretenzioni il Ministero si mise nella scabrosa via di trovare un modo qualunque, che aprisse l'adito a consentire. senza offendere la unità e!a integrità della Monarchia; ma il Comitato facea sentire, che l'appartarsi d'una virgola dalle poste cose significasse rottura di ogni trattativa.

Per la qual cosa il Sovrano, dolente della mancata ricomposizione, rimetteala a tempi men crudeli, e pel momento si facea ad emanare un decreto col quale solennemente protestava contro ogni atto che si facesse in Sicilia, il quale non fosse pienamente in conformità ed esecuzione dei decreti portanti le ultime concessioni, e degli Statuti fondamentali, e della Costituzione della Monarchia, dichiarandolo mai sempre illegale, irrito e nullo.

Pubblicato questo atto fra i Siciliani, proruppero al più alto segno le passioni municipali e di giorno in giorno dalla unione delle continentali provincie emancipavano gli animi.1 capi della rivolta ad incuorare i pigri, ed a fermare i volontierosi facevan risuonare l'isola della grandezza dei tempi che furono, degli antichi privilegii, del favore inglese, della simpatia francese, delle rivoluzioni che in tante parti del mondo, e di altre cose ribollivano di simil conio, le quali, pari a tizzi caduti fra infiammabili materie, accrebbero d'un tratto, e largamente il furore. Dovunque si fosse volto il passo, non altro si sarebbe veduto ed udito che sfrenatezze ed improntitudini d' ogni guisa. Alcuni sgozzati perché creduti realisti; altri in punta degli odii perché moderati; in allo chi più d'insano furore le parole e le azioni infiammasse;

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tutti in armi, dalle terre che fiancheggiano la manica ogni maniera di guerriero arnese veniva; statue mutilate o distrutte, la gradita aura d'indipendenza cominciava a ventare gagliardamente; già il Comitato nominava maestrati, spediva ministri ed ambasciadori appo le nazioni straniere, batteva moneta, imponeva balzelli, levava cerne, ogni altro atto che al Sovrano pertiensi eseguiva; la popolaglia in su; le masse ribollenti, epperò stranezze, contumacia, risse, rapine, uccisioni (1). In un vulcano politico sterminato parea che Sicilia tutta fosse conversa!

In mezzo a tante incomportabilità ed enormezze si avvicinava l'apertura del Siciliano Parlamento. Due grandi sale del Convento di S. di Assisi erano state preparate a tal uopo, compiate le elezioni addì 25 Marzo solenne funzione si eseguiva. Tuonavano le castella, salutando l'alba di quel giorno; un brulicame di popolo inebbriato si agglomerava per le vie principali di Palermo; le logge, i balconi, le finestre gremite tutte di gente, e adorne di arazzi; migliaja e migliaja di bandiere si agitavano per l'aere assordato da grida entusiaste; tutti gli armati schierati lunghesso Toledo dal Palazzo dei Ministri fino al piano di S. Domenico. Un'ora prima del mezzodì il Senato in tutta pompa si recava al tempio di Domenico il Santo, ove già eran convenuti i Pari, i Rappresentanti dei Comuni, il Corpo Consolare, tutti i Forastieri; alle 11 e mezzo cominciò a squillare a distesa il campanile di S. Antonio, ed allora appunto il Comitato si mosse a

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tutto il paese ne andava a rumore. Nella Chiesa stirata d'immensa calca di popolo, dopo celebrata la messa, e data la benedizione, si levò in piedi Ruggiero Settimo, e prese a dire delle passate cose, delle vittorie, della condotta del Comitato, e finiva con proclamare aperto il Siciliano Parlamento. Grandi furono gli evviva, grandissime le feste, estesa la illuminazione, infinite le speranze, tutta Palermo per più giorni ne andò sossopra. Il Duca di Serradifalco fa scelto a Presidente della Camera dei Pari ed il Marchese della Cerda a Vicepresidente; ed in quella de' Comuni il Marchese di Torrearsa ebbe il primo posto, ed Emerigo Amari il secondo. Inoltre fu messo nelle mani di D. Ruggiero Settimo, già Retro-Ammiraglio, il Potere Esecutivo, sotto il titolo di Presidente; o furono designati a Ministri Mariano Stabile degli Affari Esteri e del Commercio, il Barone Pietro Riso della Guerra e Marina, Michele Amari delle Finanze, Gaetano Pisani del Culto o della Giustizia, Pasquale Calvi dell'Interno e Sicurezza Pubblica, il Principe di Scordia della Istruzione Pubblica e dei Lavori Pubblici.

Sarebbe al certo opera inutile e lunga toccare delle cose fatte dal Siciliano Parlamento, le quali tutte erano conformi alla sbrigliata età. Il suono della indipendenza, gratissimo abantico in quell'isola, cominciava ad echeggiare, tutti i desiderii carezzando, e ad esso aggiungevasene un altro ancor più frenetico, che veniva all'udito dei Siciliani dalla bocca di coloro, che per satisfare alla ruggine forastiera, non ripugnavano di metter mano ad ogni. più scelerata opera. Io intendo parlare della detronizzazione della Borbonica Dinastia dalla Sicilia. Il 15 di Aprile fu lo scandaloso giorno; il Marchese di Torrearsa il primo banditore del decreto; il Ministro Amari il primo a contaminare con tanta eccedenza il giuramento. Corsene la notizia con la rapidità del baleno nella Camera dei Pari, dove la scena fu appuntino ripetuta. Acclamazioni frenetiche, plausi ed altre intemperanze, di quegli uomini e di quei tempi degne, il 13 Aprile vide.

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A tal guisa comportavansi verso Ferdinando II quegli stessi ai quali Egli avea largito ampiamente il beneficio; in grembo a quella medesima città che avea avuto la sorte di vederlo nascere; ed in quella stessa Sicilia, dove non esisteva, dirò zolla che un documento della Ferdinandea munificenza non ricordasse. Non eran forse opera di Ferdinando le vite risparmiate dai meritati patiboli; le pene rattemperate nel rigore della giustizia; le grazie a larga mano concesse, gl'impieghi fra i Siciliani moltiplicati, le scuole nautiche instituite, la marina mercantile promossa e premiata, il commercio favorito, i porti migliorati, i tribunali accresciuti, molte strade aperte o istaurate, o prolungate, gli Ospedali dischiusi, gli Orfanotrofi e gli Ospizii di pietà ampliati o fondati, le vaccinazioni riordinate, i Campisanti fatti, le grandi largizioni dietro le percosse del colera o i danni dei Vulcani e dei tremuoti, l'agricoltura immegliata, le industrie estese, l'incontro di una guerra per sollevare il prezzo del zolfo, le manifatture migliorate, le belle arti progredite, le lettere protette, le università i collegii le scuole perfezionate, le altre innumerevoli migliorie civili delle quali sparsamente si è per noi detto nel precedente libro?... Ma si potean forse ricordare sentimenti di gratitudine fra nomini appo i quali ogni buon sentimento era, non che sopito, spento?...

Intanto i Siciliani volsero tutto il pensiero a fermare le nuove cose, ed a far riconoscere la loro forma governativa dai Potentati Stranieri; e questo intendimento più che gli altri i loro animi tormentava, epperò ninna via pretermisero per conseguire sì rilevante scopo; i funesti Inglesi avean fatto schiudere i loro animi a speranze grandissime, sì con le parole, che coi fatti; ed un argomento lusinghevole se n'ebbero, allorquando l'inglese cannone salutava, sì come a suo luogo sarà detto, con

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Si erano anche i Siciliani accomodati nel pensiero, che le piemontesi falangi si sarebbero calate nei siculi campi per difendere e garentire il Principe che secondo essi, dalla sabauda casa sarebbe venuto a trapiantare una stirpe sulle sponde dell'Orete, né male si sarebbero apposti ove, sì come sarà detto in altra pagina, la Giustizia di quel Trono, e quella delle altre Potenze, non si fossero opposte.

Non si trasandò di spedire Ministri plenipotenziarii; e Agenti diplomatici appo le altre Potenze, e presso lo stesso Congresso per la Lega Italiana; né la temerità di patrocinarsene la causa da uno dei plenipotenziarii della Lega, un de Lieto, innanzi allo stesso Supremo Pontefice il quale per altro non si rattenne dal dannarla, sì prima che dopo le vibrate riflessioni del Principe di Colobrano Ministro Plenipotenziario presso la S. Sede, avverso l'atto siciliano del 13 Aprile il quale interrompeva la parola, e reprimea l'arroganza dell'Oratore che si era traportato fuori dei doveri di Legazione.

Inoltre per trarre nella rete il Romano Gabinetto, intorno al riconoscimento di Sicilia, erasi accortamente ordita una trama nella posta, schiudendo le valigie; e nel tempo stesso il P. Venturi si dava pressa a spedire passaporti, onde esercitando nel fatto il dritto di siculo Plenipotenziario, fosse riconosciuta la sua diplomatica qualità! Ma all'uno ed all'altro scaltrimento dava pronto rimedio il sullodato Principe di Colobrano, il quale aveva avuto l'accorgimento di farsi una particolar polizia, che lo mettea a giorno di ogni cosa.

Nondimeno il P. Venturi non si rimanea dal fare molta calca presso l'Eminentissimo Antonelli, per regolare varii obbietti riguardanti la S. Sede; ma disconcluso restava; perché riguardo alle relazioni religiose venivagli risposto rinvenirsi in Sicilia tutti gli ecclesiastici con mezzi proprii,

non essendovi interdetto;

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rispetto alla vacanza dei Vescovi si procederebbe in appresso, ed in qualunque caso potrebbesi dare l'amministrazione di taluni Sacramenti ai Vescovi in partibus; riguardo alla legazione ecclesiastica, esser questa una prerogativa personale accordata ai Re, e serbarsi Sua Santità di decidere quando ne sarebbe tempo. Non si ebbero miglior fortuna presso le altre Potenze le siciliane pratiche, imperciocché di rilevantissima novità si trattava alla quale non sì facilmente poteasi piegar l'animo senza grave scandalo e gravi mutamenti. Per tal modo rimanean privi di conclusione i Siciliani, ma non di speranze, le quali a lacrimevoli casi gli trassero.


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CAPITOLO VII.

IL MINISTERO DEL 3 APRILE.

Sommario

Mirabile successione degli avvenimenti iu Europa, pel quali le prétenzioni montano. Ottimi e sterili consigli dei Moderati. Mire vituperevoli di parecchi novatori. Caduta del Ministero Serracapriola. Programma fraudolento rifiutato dal Re. Agitazioni. Il Ministero Troja alle redini degli affari emette un programma accomodato ai tempi. Sembrano chetati gli animi. Spedizione di un Esercito e di una Flotta per la guerra di Lombardia. Il Pontificio governo repugnante al passaggio delle napolitano truppe pei suoi Stati, infine con riserva lo consente. Partenza dell'armata. Lega Italiana, accesamente voluta e cominciata, rimasta disconclusa per le sbrigliate passioni, e pei tumulti di Roma seguiti ad un memorando decorso del Pontefice. Diverse disposizioni del Ministero.

Mentre in Sicilia cotanto gravi fatti accadevano le altre regioni d'Italia e di Europa non quietavano, ma quasi scommosse da comune potenza tutte andavano in rumore ed a socquadro: assai fére voglie, assai dolori, assai lacerazioni in ogni parte accadevano; e sì come da contagio nasce contagio, e da putridume putridume, così la rivoluzione di un regno in un' altro ripercuotevasi, talliva, si rendea gigante, e da questo in altri ed altri la pestifera contaminazione avventava. A malo stento si possono misurar col pensiero la celerità e la gagliardia coi quali in quell'anno il rivolgimento corse e radicò.

La Francia traboccata nel baratro della repubblica, violentemente si dimenava nella infame moda delle passioni e delle furie settarie, per le quali fu inondata di cittadino sangue,

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e preparata la tomba là medesimo dove la culla si era preparata alla repubblica, e per quelle stesse mani che a crearla e innalzarla si erano adoperate.

L'imperio Austriaco scosso dalle fondamenta, parca vicino all'ultima ruina. Vienna fra rumori e sangue, l'Ungheria in armi si apparecchiava a battaglie memorande; Polonia fra gravi tumulti rialzava l'antico capo; la Prussia tutta scommossa, Berlino istessa in socquadro; l'Italia intiera dall'Alpi all'estremo Lilibeo sovvertita; non una delle sue cento e venerande città in calma: Roma dalle riforme, alla costituzione, e da questa alla repubblica sospinta, e contro di quel medesimo levata, che di benefiche largizioni aveala colmata. La Lombardia armata mano insorge, combatte, si emancipa dall'Austria, ed un esercito piemontese calato nei suoi campi, ed altri armati che da ogni parte si muovono, mirano a sostenerla e francarla. Venezia dopo breve pugna inaugura il temuto ed antico Leone; il Piemonte agitato gagliardamente aspira all'onore di vedere il suo Re ricinto della corona di ferro; la Toscana rivoltata anch'essa vide il buon Leopoldo, Principe Umanissimo, esulare; Parma, Lucca, Modena nell'orrendo girone travolti.

Per tali novità intervenne appunto, che appo noi gli animi dei liberali si aprissero a nuovi desiderii; cosicché maggiori larghezze si vennero man mano chiedendo alla costituzione che in mezzo a vibrati e fragorosi applausi, ed a feste ricordevoli era stata ricevuta; e segnatamente si pretendeva che la sola Camera dei Deputati dovesse esistere, che il censo elettorale dovesse esser minorato, che lo Statuto fosse riformato dalla medesima, ed altre cose di simil conio le quali addentavano sostanzialmente lo Statuto, ed erano in aperta opposizione alle sovrane prerogative.

Siffatto intemperanze per altro eran venute in uggia ai Moderati, i quali meno abbacinati dalle passioni, e schivi delle sregolate libertà, bandivano moderatezza temperanza concordia, ubbidienza alle leggi; ed in esse additavano il vero tramite del nostro progresso.

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Ma queste voci eran gittate al vento poiché male si ascoltan le parole che propugnan le passioni.

Pertanto doleva il vedere, che fra i sinceri amatori della libertà si tramescolasse una genia di falsi passionati, i quali rotti ad ogni vizio, careggiavano la libertà per farne puntello di mire interessate, affaccendavansi nei circoli per conseguire avanzamenti o impieghi, assordavano i crocchi con garrule ciance per mero egoismo, mettevano a rumore i trivii per motivi indiretti o colpevoli, molte altre cose facevano con le quali in cambio di costruire e consolidare demolivano la patria. E ad accrescere le comuni ansietà non mancava il soffio repubblicano, che andava sordamente, ma con gagliardia spirando di qua e di là. In mezzo a tale e tanto contrasto di opinioni e di cose gl'impiegati erano spinti o divelti dai loro posti, secondo che alle passioni garbava, si metteano innanzi le più strane pretenzioni, e i ministeri naufragavano.

Già il Ministero Serracapriola, che a malo stento altra volta aveva cessato le ire dei partiti, oggimai furiosamente urtato e riurtato, affin cadde. Innumerevoli furon le accuse che esistendo gli avventarono, innumerevoli quelle che caduto si ebbe. Ned eravene penuria contro di un Consesso che tenendosi al prescritto della Costituzione non potea andare a sangue di coloro, che avean rivolte le mire al reggimento repubblicano; i quali pertanto designavano un programma del seguente tenore come norma di determinati Ministri.

«1.° Pieni e sovrani poteri alla Camera dei Deputati per riformare lo Statuto sopra più larghe basi. Quindi sospensione della Camera dei Pari».

«.2.° Riforma della legge elettorale. I Deputati saranno nominati dagli elettori, e gli elettori dai Cittadini. Chiunque godesse dei dritti civili, potrebbe essere elettore ed eligibile».

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«3.° Si spedissero Commissarii Ordinatori per le provincie con incarico speciale di sciogliere lo attuali amministrazioni comunali, distrettuali, provinciali, facendo procedere a nuove nomine dalle assemblee popolari, che sotto l'antica monarchia si chiamavano parlamenti».

«4.° Si spedissero tre incaricati per la confederazione italiana».

«5.° Riforma del personale civile, giudiziario, e militare».

«6.° Pronta partenza delle truppe di linea per la Lombardia».

«7.° I Forti in mano della Guardia Nazionale».

Erano designati Ministri, Guglielmo Pepe Presidenza e Guerra, Saliceti Interno, Conforti Grazia e Giustizia ed Ecclesiastico, Dragonetti Agricoltura e Commercio, Poerio Istruzione Pubblica, Uberti Lavori Pubblici, Savarese Finanze, Cariati Affari Esteri, Lieto Direzione di Polizia.

Questo programma e questi Ministri, eccettuato qualcuno, non poteano non indurre nell'animo del Re grandi sospetti e grandissimi timori al pubblico i imperciocché rinchiudeva elementi di rivoltare. Qualunque programma non avrebbe dovuto giammai inchiuder condizioni avverse alla Legge Costituzionale stabilita e riconosciuta; né offendere menomamente le prerogative del Sovrano. Per la qual cosa bene e sapientemente comportandosi il Re, non ritardava un solo istante, e rifiutava programma e ministri.

Il quale rifiutò mise in orgasmo il partito che già avea fatto fondamento sul nuovo ministero e la sua fede politica: folti assembramenti qui e colà per le strade si agglomeravano; voci strane, minacce, apparecchi a tumulti.. Pertanto riuscì a Carlo Troja di formare un Ministero ed un programma accomodato al tempo, il quale a vero dire si scostava moltissimo dalle linee stabilite nella costituzione, ciò nulla ostante il Re stretto da necessità si fece ad accettarlo. Quest'esso era il programma.

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«1. Determinare il giorno della elezione dei Deputati al più presto possibile secondo la presente legge elettorale provvisoria, ma con l'allargamento, che si possono eleggere Deputati gli uomini forniti di capacità, e ciò indipendentemente dal censo che ogni altro Deputato deve provare, rimanendo ribassato il censo dei Deputati, ed eguagliato a quello degli eiettori».

«2. Elezioni circondariali dirette dei Deputati pel mi mero totale di ciascuna provincia, e spoglio dei voti presso la commissione centrale di scrutinio nel capoluogo della provincia. Il censo degli eligibili, verrà ridotto a quello degli elettori, dichiarandosi dippiù elettori ed eligibili tutte le capacità».

«3. Per capacità s'intende l'esercizio lodevole ed attuale delle professioni facoltative, del commercio, delle scienze, lettere, e belle arti, e della industria».

«4. Per questa prima volta, volendo il Re raccogliere dal voto pubblico i nomi di coloro che si stimeranno più degni di far parte della Camera dei Pari, commetto a ciascuno collegio elettorale di presentare un notamento di quelli che si stimeranno tali nelle categorie indicate nello Statuto, e ciò ad oggetto di scegliere per ora sulle dette note il numero di 50 Pari».

«5. Aperto che sarà il parlamento, le due camere di accordo col Re avranno facoltà di svolgere lo statuto, massimamente in ciò che riguarda la Camera dei Pari».

«6. Istantanea spedizione di Agenti diplomatici per stringersi francamente in lega con gli altri Stati d'Italia».

«7. Mettere a disposizione della lega italiana un grosso contingente di truppe, che tostamente parta dalla nostra frontiera, ed intanto far partire subito un reggimento per la via di mare».

«8. Le bandiere reali verranno circondate dai colori italiani, sì che formino un sol corpo di bandiere».

«9. Continuare con premura l'Armamento delle Guardie Nazionali di tutto il Regno».

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«10. Invio di Legati organizzatori nelle provincie, muniti d'istruzioni che verranno fornite dal Ministero dello Interno, ovvero collazione di simili poteri agl'Intendenti delle provincie».

Erano nominati Ministri Carlo Troja alla Presidenza, e provvisoriamente alla Pubblica Istruzione; il Colonnello del Genio degli Uberti ai Lavori Pubblici; il Marchese Dragonetti agli Affari Ecclesiastici; Giovanni Vignale al Ministero di Grazia e Giustizia; e interinamente all'Interno; il Conte Ferretti alle Finanze, e temporaneamente all'Agricoltura e Commercio; il Brigadiere del Giudice alla Guerra e Marina.

Dopo pochi giorni si compiva il Ministero con l'avvocato Avossa, al quale di breve successe l'avvocato Conforti all'Interno; il prof. Scialoia all'Agricoltura e Commercio; Paolo Ruggiero agli Affari Ecclesiastici; o Paolo Emilio Imbriani al Ministero della Pubblica Istruzione.

Un solo istante non pretermettea il novello Ministero, e le cose statuite nel programma mandava ad effetto. Primieramente facea gran calca per la spedizione delle truppe sui campi lombardi, dove si dovean decidere con le armi le austriache o le italiane sorti; massime perché parea indecoroso per Napoli stare impigrita in un momento in cui Torino, Roma, Firenze e le altre italiche città aveano già spinte le proprie legioni in aiuto dei Lombardi.

In Napoli come si è cennato più innanzi, dietro parecchie rimostranze e tumulti, si erano cominciati a muovere per quel fine; e già sin dal Marzo una schiera di giovani che avean mostrato desio di correre in Lombardia, erano stati provveduti di armi, e mandati a Livorno, guidati da un Bellini, e rinfocolati dalla Principessa Belgiojosa, milanese, caldissima nemica della occupazione austriaca. Si era eziandio instituita una commissione volta a

Partiva pure per Livorno il 2.° battaglione del 10.° di Linea, una con molti volontarii,

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soprannomati crociati, per una croce di panno rosso cucita sul petto sinistro del loro abito.

Però queste partite eran troppo scarse ai concetti, ed allo scopo; sì che il Ministero avea volto il pensiero alla spedizione di un gagliardo Corpo d'Armata che dovrebbe operare sul teatro della guerra, e di un fiorito naviglio che terrebbe in rispetto le adriatiche sponde. Or mentre si apparecchiavano le napoletane armi s'intavolarono le trattative col pontificio Governo per lo passaggio di esse, le quali, repugnante il Papa, andavan con molta lentezza.

Il governo romano desiderava, che le napolitane truppe dai suoi Stati non si dirigessero spiccatamente in Lombardia, ma sì vero altra via prendessero; poiché cuocevagli di non chiarirsi apertamente ostile all'Austria, ponendo sugli Stati di questa un'armata nemica. Vero è che un nervo di pontificie truppe aveva oltrepassato il Po, ma esso tollerava la guerra perché non potea impedirla, ed era alieno dal manifestare con atti pubblici che l'avesse voluta; e ritenea le mosse delle sue truppe come una violenza recata alla sua volontà.

Oltredicché, il pontificio governo si teneva tentennante, perché si era susurrato, o sospettato, che il napolitano esercito facesse base di operazioni Ancona, e ne andasse per lo mezzo la occupazione di questa Città.

Ed il S. Padre inoltre nutriva il giusto pensiero, che come Vicario di G. C. e come Padre dei Fedeli, dovea essere alieno da qualunque dichiarazione di guerra all'Austria, e disapprovava la condotta del Generale Durando, che avea spinto le sue truppe sugli austriaci domini; né egli non vedeva il pericolo di uno scisma austriaco dalla S. Sede, la propagatesi eresia protestante nella Italia, le quali cose non eran certo da pretermettere innanzi al conquisto del Lombardo-Veneto; perché le cose spirituali

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Intanto nel mattino del 27 Aprile si tenne Consiglio in Napoli con l'intervento di molti generali, in casa dei Tenenti Generali Pepe, e lungamente si ventilò, se il nostro corpo di spedizione potesse schivare il pontificio passaggio, diriggendosi a Venezia per via di mare; ma si riconobbe impraticabile, si perché era impossibile, che i Legni potessero portare tanta cavalleria ed artiglieria; sì perché lo sbarco non poteasi fare che nei luoghi in cui già dicevasi giunto il Corpo d'Armata del generale Nugent, il quale per fermo lo avrebbe impedito, o reso malagevole con ogni maniera di sforzo. Pensava adunque il Consiglio, che messa dall'un de' lati Venezia, il nostro esercito dovesse per al momento spingersi per terra fino alle rive del Po, fermarsi a Bologna, e Ferrara per impedire la invasione dello Stato Pontificio e di Toscana. Infine acconsentiva il pontificio governo al transito delle truppe napolitane, salvando sempre i dritti della Chiesa, e il decoro del Sommo Pontefice e intendeva però di rimanere del tutto passivo, non dubitando che la sua perfetta neutralità riconosciuta da tutte le Potenze, venisse anche in questa circostanza religiosamente rispettata.

Appunto fra quei preparativi era giunto da Milano un Toffetti, mandato da quel governo provvisorio affin di sollecitare l'invio di una flotta nell'Adriatico, diretta ad impedire qualunque tentativo di sbarco di milizie austriache sulla costa orientale d'Italia; e questa premura fa anche convalidata dal Conte di Rignon, inviato straordinario di re Carlo Alberto appo il nostro Governo.

In frattanto si muovevano pel designato luogo le milizie ai 27 Aprile, composte da due divisioni, delle quali la prima ai cenni del generale Conte Statella risultava da otto battaglioni di fanteria, una batteria di campagna, due compagnie di zappatori, e le corrispondenti ambulanze; la seconda capitanata dal brigadiere Nicoletti, si componeva

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La cavalleria sotto gli ordini del Colonnello Marcantonio Colonna, risultante da due reggimenti di Dragoni, ed uno di Lancieri, era come riserva. La flotta nella quale si noveravano cinque fregate a vapore, due a vela, ed una corvetta, era pronta a salpare sotto il Comando del RetroAmmiraglio Barone de Cosa. Tutte queste genti di mare e di terra obbedivano al Tenente Generale D. Guglielmo Pepe, il quale dopo ben 27 anni di esilio, ritornava nella politica scena, e serbavanlo gli eventi ad uscire in campo contro di quell'oste istessa per la quale avea toccata memoranda sconfitta in Rieti.

Preparati i combattenti, preparavasi ancora un piano di guerra; cosicché una giunta di Generali composta dal Ministro della Guerra, dal Comandante Supremo di quell'armata, dal Maresciallo Labrano, e dai Brigadieri Scala e Zizzi si riuniva per discutere e preparare un piano di operazioni militari.

Partivano ormai pel designato luogo gli Armati, per le vie degli Abruzzi, dirigendosi alle Marche, ed a battaglioni si muovevano poiché così era stato consentito il passaggio dal Governo Pontificio. Scioglieva eziandio dal nostro porto il preparato naviglio portando la divisione Nicoletti volgendo le prue per l'Adriatico. Ma si dovea dare anche adesso un argomento della Sicula frenesia; imperciocché imboccate appena nel Faro le prime navi, cominciossi dai forti siciliani un furioso cannoneggiamento, al quale gagliardamente rispose la passante flotta. Or chi non vede in questo atto passioni frenetiche degne di folli o di barbari? Una flotta che correva in soccorso di coloro coi quali prostendevano aver causa comune, e che si addentrava nell'Adriatico per opporsi a qualche tentativo da parte della minaccevole Austria, e che passava pel Faro amichevolmente dovea essere salutata con gli evviva non mai con le palle.

Ma tale e tanta era la eccedenza di quell'età, che mal vi si potrebbe portare il pensiero senza grave conturbamento, e maraviglia!...

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Mandata a fine questa importante parte del ministeriale programma, rimanea in punta dei desiderii la italica lega; epperò il Ministero Troja si facea a metterla ad effetto. Gioberti avea messo innanzi il concetto federale, Mazzini e i suoi affiliati spingevano lo sguardo al pensiero unitario, il quale abbatterebbe il Principato e sulle sue ruine innalzerebbe la repubblica. Pertanto queste ed altrettali vedute non erano altro che utopie, le quali potevano allignare soltanto nelle menti di coloro, che ragguardavano le cose nella felice solitudine del letterario gabinetto, e fra i lusinghieri campi della immaginazione, non mai nelle menti di quegli altri, che calcolando le cose nel concreto e nei fatti, vedevano mille difficoltà intrinseche ed estrinseche per le quali la lega mai non avrebbe potuto essere attuata.

E primamente (volendo toccare questo argomento di sfuggita) non era chi non vedesse, che non Milano, non Venezia, non Parma, né Modena potevano accedere al Congresso, perché non legalmente costituite; né potea aver dritto di associazione politica un governo che non possedeva la esistenza politica; poiché ogni dritto è sempre posteriore alla esistenza, e se il dritto di associazione era l'esercizio di una facoltà, questo esercizio non poteva essere dove la esistenza mancava, e cheche si fosse detto intorno alla legalità dei fatti eseguiti a nome del così detto popolo, egli era certo, che secondo il Dritto Politico Universale vigente abbisognava che le nuove esistenze politiche, per avere legalità e potere dovessero essere riconosciute dai principali Potentati, i quali giammai si sarebbero calati a tal riconoscimento per non far prevalere il principio di approvare la separazione di una parte di uno Stato, sol perché il popolo o una quota di esso il volesse. E ciò sarebbe valso a Napoli per l'avversa Sicilia, e tacendo di altre nazioni, all'Austria che era minacciata

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In secondo luogo era a considerare che Carlo Alberto Re, non così tosto, né cosi agevolmente si sarebbe accostato alla Lega prima degli eventi diflìnitivi della guerra che andavansi a decidere nei campi lombardi; imperciocché non potea non considerare Egli, che se essi riuscissero avversi alle sue armi, gli Alemanni avrebber dato fondo alla Lega, come ad ogni altro italico progetto, e se favorevoli non avrebbe potuto fare tutto il suo volere, ma dovuto pendere dalla Lega, non solo per trattati che sarebbersi fermati, ma eziandio perché tutta la Italia cispadana avrebbe potuto tenerlo in freno.

Forse anche alienarono l'animo del Sabaudo Re, i settarii che vagheggiavano la utopia di spazzare l'Italia di tutti i troni, e darne a Lui solo il possesso, per indi traboccare anche Lui nel precipizio, ed innalzare il berretto della Cisalpina. E forse a questo scopo si era nominato al trono di Sicilia un Principe di quella Casa Regnante.

Inoltre non si era forse posto mente, che una Italica Unione non avrebbe potuto si facilmente garbare a tutte, o a molte delle principali nazioni, e segnatamente all'Inghilterra, i cui interessi commerciali ne sarebbero andati per lo mezzo. Epperò costei mentre faceva le viste di liberalismo, e dava favore a varii popoli per iscuotere il freno dei Re, protestava, come si è altrove notato, contro l'invio degli armati in Lombardia, ed il passaggio delle truppe per lo Stato Pontificio.

Senza di che non si era molto vagliato, e dirò anche ricordato il municipalismo gigante in Italia, eredato dal funesto trecento, che tennela in brani fra ire cittadine, e straniere avidità; il quale per fermo avrebbe intorbidato il cammino alla trattazione della Lega; e già bene si era affrettata a darne l'esempio la irrequieta Sicilia.

Una grave difficoltà in fine era da ricercare nella stessa sostanza che gl'Innovatori pretendeano dare alla Lega; e dirò come. Tre maniere di federazioni presenta la Storia.

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L'una è quella dei Principi, com'è la Germanica, la quale bene era in uggia ai Novatori, poiché supponea la riunione di tutti i poteri governativi nella persona del Principe, e nata dal rimpasto di un antico Impero feudale, smantellato in tempo delle napoleoniche guerre, sentiva dei principii monarcali, e mal potea servire di norma ad una Lega di popoli liberi del 1848.

La seconda è quella dei Governi, simile alla confederazione Elvetica, ed affermavasi non essere completa, ed offrire moltissime difficoltà nella pratica. I deputati della elvetica Dieta votano in virtù d'istruzioni avute dal Gran Consiglio del Cantone, depositario della piupparte delle attribuzioni governative. Nasce da ciò, che quantunque essi non fossero mandati del solo potere esecutivo, pure non hanno nulla di proprio, e sono obbligati ad ogni nuova quistione chiedere istruzioni ai loro mandatarii. Il che non andava al verso delle innovatici mire.

La terza è la Confederazione degli Stati, il cui esempio è nella Unione Americana; esser questa, dicevasi, la sola che si attagliasse ai presenti italiani.

In queste utopie andavano felicemente delirando i Platonici dei tempi moderni senza considerare punto né poco il Principato Italiano, il quale mai non si sarebbe piegato a cedere una quota del potereesecutivo per le cose riguardanti le materie comuni nella persona di quel Principe che sarebbe prescelto a Capo della Federazione.

Tutte le mentovate difficoltà avrebbero dovuto svagare gli animi dalle trattative di una Lega, la quale inattuabile essendo, sarebbe tornata di sommo disdoro ai Governi Italiani; nondimeno i tempi richiedevano che si fosse condisceso ai nuovi voleri, e si condiscese.

Furono nominati plenipotenziarii al Congresso della Lega Italiana i Signori Gamboa, de Lieto, e Luperano, e a Presidente il Principe di Colobrano. Personaggio, che per gentili virtù, e studii severi e mente versatile, forma onore, e decoro del nostro paese; per la qual cosa bene a ra

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indipendentemente dai suoi Colleghi, e si affidavano a Lui solo la cifra e la corrispondenza.

Nel tempo medesimo il Ministero dava le sue Istruzioni ai Plenipotenziarii, una copia della Convenzione preliminare fatta dai Governi dello Stato Pontificio, di Toscana e Sardegna per la Lega Doganale, ed i pienipoteri per lo Congresso.

Partirono i Plenipotenziarii per a Roma il 17, e vi giunsero il 18 di quell'Aprile. Buccinatosene l'arrivo tutta Roma ne andò a rumore, l'entusiasmo fu grande. Il Governo Pontificio era corrivo alla sollecita riunione del Congresso unicamente per sedare quelle rivolture, apportare dei vantaggi ma senza ledere menomamente i dritti dell'Italiano Principato; la Toscana consentiva; l'astuto Piemonte tergiversava, asserendo non parergli ancora tempo propizio, malgrado la pressa fattagli dal Pontificio Governo mercé l'opera di Monsignor Corboli Bussi, Inviato presso Re Carlo Alberto per queste, ed altre negoziazioni. Il Circolo Romano pertanto voleva, repugnante un solo, che pel momento si stringesse la federazione fra Napoli, Toscana, e Roma, alla quale si accosterebbe in ultimo il Piemonte, affin di gittare il fondamento del grandissimo edifizio, formare i patti che l'Italia Cispadana dovrebbe servare negli affari della Italia superiore, e stabilire un esercito imponente per non essere nella discrezione di Re Carlo Alberto, le intenzioni del quale eran dubbie ed ambiziose. Pertanto questo proponimento non ebbe veruno effetto per molte circostanze, e segnatamente per la scaltra ostinazione del piemontese governo non declinata punto dalla ressa di moltissime premure fatte dai Ministri Piemontesi di Roma, e di Napoli, e dallo stesso S. Padre.

Né mancò la Sicilia d'intorbidare il corso della Lega Italiana; imperciocché mandava anch'essa i suoi Plenipotenziarii, e nominava il P. Ventura a suo Rappresentante presso la S. Sede.

E sebbene dal pontificio governo mai non

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che la legittimità di mandar plenipotenziarii per una Lega possa soltanto venire dal popolo, non già dai Principi. Bene ed a tempo l'esperto Principe di Colobrano protestò contro i Siculi Inviati; poiché non avean dritto di presentarsi come Rappresentanti di una parte di quel Regno, che Egli e i suoi Colleghi legittimamente rappresentavano; né il governo della ribellata Trinacria poteva esercitare il dritto di legazione quando di ogni altro dritto, e precise di quello dell'esistenza politica era nudato.

Ma il rovescio della Lega venne principalmente da quel Piemonte istesso, il quale volea servirsi di tutto e di tutti per magnificare la propria grandezza. Imperciocché instava per mezzo del Marchese Pareto suo Ministro di Roma, affinché il Pontefice Massimo dichiarasse alla pur fine la guerra all'Austria; ed a tali istanze si univa la rinfocolata voglia de' Novatori, i quali a tal fine in ogni momento e in ogni verso si agitavano.

In mezzo a tante e sì gravi tentazioni saldo rimaneasi il Santo Padre, e nel solenne Concistoro dei 29 Aprile facea aperto l'animo suo. Ecco le memorabili parole.

«Non è la prima volta, venerabili fratelli, che nel vostro consesso abbiamo detestata l'audacia di taluni, che a Noi ed a questa apostolica sede non dubitarono di gettare tale ingiuria, da sostenere che Noi avevamo deviato dalle santissime istituzioni de' predecessori Nostri, e della stessa dottrina della chiesa. Però neanche oggi mancano di coloro che di Noi così parlano, quasi fossimo gli autori precipui delle pubbliche commozioni che negli ultimi tempi, non solo negli altri luoghi di Europa, ma ancora in Italia avvennero. Abbiamo saputo sopratutto dalle austriache regioni della Germania, spargersi colà fra il volgo, che il romano Pontefice, e con esploratori inviati, e con altre arti adoperate, abbia eccitati i popoli italiani ad indurre novelli cangiamenti nelle cose pubbliche. Abbiamo saputo del pari, che alcuni nemici della cattolica religione prendono quindi occasione ad infiammare gli animi de' germani col bollore

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della vendetta, ed alienarli dalla unità di questa santa sede. Ma sebbene non abbiamo al tutto alcun dubbio che le genti cattoliche della Germania e gli spettabili pastori che ad esse presedono siino abborrenti affatto dalla costoro malvagità, pure sappiamo essere Nostro oficio riparare allo scandalo che alquanti incauti e semplici uomini ne possono ricevere, e ribattere la calunnia, che non solo ridonda in contumelia della Nostra umile persona, ma ancora del supremo apostolato di cui siamo investiti, e di questa santa sede. E poiché questi stessi nostri detrattori non potendo produrre alcun documento delle macchinazioni che Ci appongono, si sforzano d'indurre in sospezione le cose che da Noi furono operate nell'imprendere il governo temporale dello stato pontificio, perciò onde togliere ad essi questo pretesto di calunnia, Ci è venuto in pensiero di spiegare oggi nel vostro consesso chiaro ed apertamente tutta la ragione di queste cose.»

«A voi non è ignoto, venerabili fratelli, che già fin dagli ultimi tempi di Pio VII, Nostro predecessore, i principali principi di Europa aveano curato d'insinuare alla sede apostolica che adoperasse alcun modo più facile e rispondente a' desideri di lei nell'amministrazione delle cose civili. Di poi nell'anno 1831 questi loro consigli e voti più solennemente spiccarono per quel celebre memorandum, che gli imperatori di Austria e di Russia, e i re de' Francesi, d'Inghilterra e di Prussia stimarono di mandare a Roma per mezzo de' loro legati. In questo scritto tra le altre cose si trattò del consiglio di consultori da convocarsi in Roma da tutto lo stato pontificio, del ristaurare o ampliare la costituzione de' municipi, dell'istituire consigli provinciali, dell'introdurre queste stesse ad altre istituzioni in tutte le provincie per comune utilità, e del darsi adito a' laici a tutti gli ofici che riguardassero tanto la pubblica amministrazione, quanto l'ordine giudiziale.»

«E specialmente questi due ultimi capi si proponevano come principi vitali di governare.

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Negli altri scritti ancora si trattò di un più ampio perdono da accordarsi a tutti, o quasi tutti coloro i quali aveano mancato di fedeltà verso il principe nel dominio pontificio.»

«Niuno quindi ignora che alcune di queste cose sono state condotte a fine da Gregorio XVI Nostro antecessore, ed alcune altre inoltre promesse negli editti promulgati nell'istesso anno 1831 per di lui ordine. Ma questi benefici del Nostro predecessore eran sembrati non corrispondere a' voti de' principi, né esser bastanti a confermare la tranquillità ed il benessere in tutto lo stato temporale della santa sede.»

«Laonde Noi, appena per imprescrutabile giudizio di Dio fummo surrogati in sua vece, sulle prime non eccitati al certo dall'esortanza o dal consiglio di veruno, ma commossi dal Nostro singolare amore verso il popolo sottomesso al Nostro temporale ecclesiastico dominio, impartimmo venia più ampia a coloro i quali aveano aberrato dalla fedeltà dovuta al governo pontificio, e quindi ci affrettammo a stabilire alcune norme, le quali avevamo giudicato essere per giovare alla prosperità dello stesso popolo. E tutte quelle cose che operammo nell'esordire istesso del Nostro pontificato, interamente son congruenti con quelle che grandemente i principi di Europa bramavano.»

«Ma dopo che i Nostri consigli coll'aiuto di Dio furon condotti a fine, sì i Nostri, che i limitrofi popoli fur visti per letizia esultare e con pubblici attestati di congratulazione e di ossequio talmente a Noi rivolgersi, che ci fu necessario sforzarci in questa stessa alma città di chiamare alla norma del dovere i popolari clamori, plausi, radunamenti con soverchio impeto prorompenti.»

«Sono inoltre a tutti note, venerabili fratelli, le parole dell'allocuzione Nostra a voi fatta nel concistoro tenuto il dì 4 ottobre dello scorso anno parole colle quali commendammo la paterna benignità ed un amore più efficace dei principi verso i popoli loro soggetti, ed esortammo di nuovo i popoli stessi

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alla fede ed obbedienza da loro a' principi dovuta. Né poscia intralasciammo di ammonire ed esortare tutti a nostro potere, che aderendo forte alla cattolica dottrina ed osservando i precetti di Dio e della chiesa, intendessero alla scambievole concordia, alla tranquillità ed alla carità verso tutti.»

«Ed oh alle paterne Nostre voci ed esortazioni avesse corrisposto l'effetto bramato! Ma sono a tutti note le pubbliche sovraccennate commozioni de' popoli italiani, non men che gli altri avvenimenti che fuori e dentro Italia accaddero poscia, ed eran prima accaduti. Se alcuno poi sostener voglia che ad eventi di tal fatta avesse aperta qualche via ciò che ne' primordi del nostro sacro principato da Noi benevolmente fu fatto, costui certamente in niun conto potrà ciò ascrivere all'opera Nostra, non avendo Noi fatto altro, se non quel che, per la prosperità del Nostro stato, non pure a Noi, ma ancora ai principi mentovati parve opportuno. Del resto, per ciò che concerne a coloro che in questa Nostra signoria abusato ànno de' Nostri benefici stessi, Noi imitando l'esempio del divino Principe dei pastori, loro perdoniamo di cuore ed amorevolmente li richiamiamo a più saggi consigli, chiedendo umilmente a Dio padre delle misericordie, che per sua clemenza allontani dal loro capo i castighi che toccano agli uomini ingrati.»

«Oltre a ciò non possono essere con Noi irati i popoli mentovati della Germania, se non fu a Noi possibile raffrenar l'ardore di coloro che dalla Nostra temporale signoria applaudir vollero a' fatti contro di essi intrapresi nell'Italia superiore, e come altri infiammati di amore verso la propria nazione accomunarono la loro opera co' rimanenti popoli d' Italia. Imperciocché molli altri principi di Europa, avendo eserciti di gran lunga più numerosi che Noi, non poterono del pari resistere a' commovimenti de' loro popoli in questo tempo stesso.»

«Nel quale stato di cose Noi per altro non volemmo che i soldati spediti a' confini dello stato pontificio

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avessero altro mandato, tranne quello di tutelarne la integrità e la sicurezza.»

«Ma desiderando ora alcuni, che Noi pure intraprendessimo la guerra contro i tedeschi con gli altri popoli e principi italiani, credemmo essere finalmente Nostro dovere dichiarare apertamente in questo vostro consesso, essere ciò alienissimo da' Nostri consigli, perciocché Noi quantunque indegno, in terra teniamo le veci di Colui che è autor della pace ed amator della carità, e secondo l'ufìcio del Nostro apostolato, abbracciamo con pari amor paterno tutte le genti e tutt'i popoli, e le nazioni. Che se ciò non ostante taluni de' Nostri soggetti sono rapiti dall'esempio degli altri italiani, come potrem Noi infrenare il loro ardore?»

«Ma qui non possiamo noi ripudiare nel cospetto di tutte le nazioni i fraudolenti consigli manifestati per mezzo de' pubblici giornali e di vari opuscoli da coloro che vorrebbero che il romano Pontefice fosse capo di non sappiamo qual novella repubblica da costituirsi da tutt'i popoli italiani. Anzi in questa occasione sommamente ammoniamo ed esortiamo gli stessi popoli d' Italia, per la carità che abbiam per essi, che con ogni cura si guardino da consigli sì astuti, ed all'Italia stessa dannosi, e che si tengano forte stretti a' proprii principi, de' quali àn pure sperimentato la benevolenza, né soffrano essere mai strappati all'ossequio loro dovuto. Perciocché altrimenti comportandosi, non solo mancherebbero al proprio dovere, ma soggiacerebbero al pericolo che l'Italia si scindesse in parti per effetto di sempre crescenti discordie ed interne fazioni.»

«Quando a Noi dichiariamo di nuovo, che il romano Pontefice rivolge tutt'i suoi pensieri, le cure, lo zelo al quotidiano incremento del regno di Cristo, cioè della chiesa, non perché si allarghino i principi di quel principato civile cui la Divina provvidenza donar volle a questa santa chiesa a tutela della sua dignità, ed al libero esercizio del

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Sono adunque in grande errore coloro che credono poter l'animo Nostro essere adescato da ambizione di più ampio dominio temporale, in guisa da gittar Noi stessi in mezzo a' tumulti delle armi. Sarebbe invece giocondissimo al Nostro cuore paterno, se con l'opera, con le cure e con lo zelo Nostro ci fosse dato estinguere il fomite delle discordie, conciliare fra loro gli animi de' belligeranti e rimenare tra loro la pace.»

Effetti varii secondo le varie passioni il pontificio discorso suscitava. Fu alba di pace per coloro i quali non certi ancora delle benigne idee del S. Padre, vedevano apertamente in quello, quanto male si fosse apposta la Setta nel far credere un Papa, sostegno delle loro mire, e veramente il Cardinal Mastai non era stato assunto al Pontificato per dislegare e rompere l'armonia politica prestabilita, e molto meno per minare a danno del Principato, e gittare l'Italia fra i tumulti e le guerre; e le migliorie civili di ché Egli erasi fatto iniziatore, s'intendevan mai sempre in concordia ed in armonia del dritto politico vigente, e d'altronde era una pazza utopia quella di asserire e credere, che i vantaggi dei popoli non potessero tallire all'ombra dei Troni.

L'Austria soprattutti restavane paga, imperciocché in mezzo a quel socquadro che agitavala in quasi tutte le membra del suo gran corpo, calevale di declinare il pondo di una ostile dichiarazione del Pontefice, la quale senza dubbio avrebbele accresciute le nemiche legioni, e quindi le difficoltà del riacquisto, e forse anche balestrata nel baratro di una emancipazione dalla cattolica fede.

Tutte le altre Potenze, che avean ceduto all'imperio delle circostanze, vedevano anch'esse che distrutto ormai il prestigio del pontificio fiato alle innovatrici mire, la rivoluzione non si potesse più sostenere, e veramente puossi affermare, che il 29 Aprile, in cui fu divulgato l'accennato discorso, l'agonia di quella cominciasse. All'opposto gravi rancori alla casta sovvertitrice la papale allocuzione recava. In Roma l'agitazione al colmo.

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I Circoli nella flotte stessa si radunarono; si volse il pensiero ad occupare Castello S. Angelo, ad impadronirsi del Santo Padre, e creare un governo provvisorio; né si mancò di minacciare la vita del Principe di Colobrano (1), Ministro di Napoli, il quale era additato al pubblico sdegno come uno dei dissuasori del Papa per la guerra: si strappavano dalle cantonate gli affissi del Pontefice, ed al suo nome, prima idolatrato, ora sceleratamente si malediva: si mettean guardie agli usci dei Cardinali, recando violenza ed ingiuria alla inviolabilità del domestico asilo: inibito l'uscire a chicchessia dalle porte della Città; il palazzo del Quirinale custodito da un battaglione di Guardia Cittadina.

Frattanto in mezzo a si grande tramestìo non mancarono i Moderati, i quali attesero a frastornare quel furore stabilendo, che il Ministero farebbe una dimanda per la guerra, e tosto si dimetterebbe ove nessuno effetto sortisse; che si chiedesse una leva di truppa straordinaria per inviarsi in sostegno della già partita, e così implicitamente metter Sua Santità in opposizione con se stesso. Nel medesimo tempo il Marchese Pareto distese una nota contro la pontificia dichiarazione; il Ministero si dimetteva, perché dissuggellati i plichi e i dispacci; e il S. Padre fatto a se venire il Conte Mamiani, sceglieva un Ministero tutto laicale, che represse la rivoluzione, emettendo un programma il quale segnatamente trattava della guerra contro l'Austria. Abbonivasi alquanto il romano temporale, ma tristi orme nel cuore del Sommo Pio stampava, il quale nelle presenti condizioni non altro era che il Martire di coloro a cui avea largito pietosamente il beneficio. Cotanto amari frutti le passioni non secondate producono; i quali se sono della libertà, non saprei quali fosser quelli della tirannide!

(1) Un P. Strina si portò dal Principe ad offrirgli asilo nella sua casa; egli si rifiutò dicendo, che ove si volesse commettere un attentato contro il dritto delle Genti, era contento di morire per l'adempimento dei suoi doveri.

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Tratte le menti a più gravi obbietti, si mise fondo alla Lega, e disconclusi rimaneano gl'Inviati. Dei nostri Plenipotenziarii, quelli che si erano accodati all'andazzo comune, si dimisero in Roma stessa, gli altri, e particolarmente il Principe di Colobrano, il quale con dignità e sapienza comportossi in quella diplomatica trattazione, rimpatriarono verso il 7 Maggio, lasciando il Vaticano ostello dei tumulti e delle settarie mulinazioni, le quali a più solenni e gravi casi e cangiamenti voltarono gli animi.

Intanto il Ministero, non riuscita la Lega, non si rimanea dal dare opera a tutte le faccende che riguardavano i suoi diversi rami.

Una paralisi finanziera travagliava il nostro, come ogni altro Reame, in mezzo a quei ribollimenti politici universali. La minorazione delle entrate e l'aumento delle spese ne formavano le cause; ed in vero quanto alle prime scemato era il prodotto daziario, e doganale, ridotta di meglio della terza parte il balzello del sale, abolito il macino, non esatti i crediti verso Sicilia notati nello Stato discusso, impigriti i traffichi e quindi manchevoli o scemate le importazioni e le esportazioni, nascosti o non circolanti i capitali, reso audace e largo il controbbando per lo minorato vigore della forza pubblica, e la faciltà della violazione delle interne barriere, tarde o incomplete le esazioni.

Dall'altra banda erano aumentate a dismisura le pubbliche spese; poiché grandi somme si richiedevano per tanti armati che erano in piedi: una flotta correva l'Adriatico; altro naviglio pei bisogni della Cittadella; un corpo di armata era uscito in campagna, altro disperso pel Reame di qua dal Faro; la Guardia Nazionale provveduta di armi; inoltre moltissimi impiegati i cui servigi erano creduti vani soperchi o dannosi, messi al ritiro, moltissimi altri sorti a sopperirli; gl'impieghi, gli ufficii, le pensioni, i salarii si erano moltiplicati per favorire l'interminabile satellizio degli uomini della nuova era.

Il Ministro per apportare un tostano riparo a cotanto dan

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Instituiva una commissione intesa a prestargli aiuto è lumi nel difficile aringo; si facea a indrizzare opportune parole agl'Intendenti ed alle Commissioni, affinché ponesser mente allo esatto andamento della riscossione delle imposte; invitava i proprietarii ad anticipare le rate delle contribuzioni, non senza destar gara di emulazione, anche con l'esca del beneficio del 5 per 100 annuo sui bimestri anticipati; emetteva gagliarde disposizioni per lo spegnimento del controbbando; impegnava tutti, impiegati e non impiegati, a largizioni volontarie, stabilendole per quelli proporzionate ai soldi che percepivano; per ultimo facea decretare un prestito di tre milioni di ducati alla Tesoreria Generale, il quale era forzoso per due milioni, e volontario per l'altro, e stabilivansi le condizioni opportune a tale oggetto, e con un regolamento la partizione della contribuzione, ed i titoli di sicurtà del rimborso.

Il Ministro degli Affari Ecclesiastici si facea ad instituire una Commissione per la compilazione di un Codice Ecclesiastico, della quale però acramente si dolse S. E. il Cardinale Arcivescovo di Napoli.

Ministro dell'Interno curava di portare al suo termine la organizzazione della Guardia Nazionale sì nella Capitale che nelle provincie, emettendo un regolamento pel vestiario, facendo distribuire molte migliaja di fucili nella Capitale, ordinandone l'acquisto di molte altre migliaja per mandarsi alle provincie, pubblicando, sanzionato dal Re, un regolamento disciplinare; emetteva, consentite dal Consiglio dei Ministri, delle Istruzioni pei delegati Regii, i quali avevano estese ed importanti facoltà.

Il Ministro di Agricoltura e Commercio intendea l'animo all'ordinamento delle materie e delle attribuzioni del Ministero, ed alla miglior riuscita della cosa nominava una Commissione; e infatti vennero diffidite le attribuzioni e l'organamento di esso; inoltre instituiva un' altra Commissione intesa a rivedere le leggi e i regolamenti sanitarii per apportarvi delle opportune innovazioni;

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segnatamente per ciò

Parimente una riforma avveniva nel Ministero della Pubblica Istruzione, determinandosene le attribuzioni.

Nel Ministero degli Affari Esteri s'instituiva una classe di Alunni Diplomatici addetti al Ripartimento delle Relazioni Politiche, affine di ammaestrarsi nelle materie che formano le attribuzioni del medesimo, e stabilivasi in un regolamento opportuno ciò che per l'ammissione convenisse fare.

Il Ministro di Grazia e Giustizia formava una Commissione per la revisione di tutte le parti del Codice delle Due Sicilie, e di quanto risguardava l'ordinamento dell'Amministrazione della giustizia nel fine di renderla più opportuna al pubblico bisogno, e designava parecchi obbietti sui quali voleva che si concentrasse l'attenzione di quella.

Il Ministero volse anche uno sguardo sulla contumace Sicilia, ed aspettando tempi men crudeli, in cui le armi avrebber conseguito quello che la ragione oggimai più non potea, restringevasi a pubblicare una protesta formale del Re contro l'atto deliberativo della decadenza emanato dal siciliano Parlamento il dì 13 Aprile, siccome quello che era a danno dei sacri dritti del Re e della Sua Dinastia, e della integrità della Monarchia. Nel tempo istesso perveniva alla conclusione di un armistizio fra i combattenti di Messina, e non si rimanea dal tentare l'animo dei Siciliani onde si calassero a qualche buon termine, e dalle loro forti eccedenze cessassero. A tal proposito fu scelto Andrea Romeo, il quale non potea non essere accetto ai Siciliani. Infatti si portò nella conturbata Messina il nuovo Inviato, ma nulla concluse, o nulla volle concludere, se pure non vogliasi affermare, che confortasse i ribelli a non recedere dalla intrapresa via; poiché egli era tale che careggiava le idee della indipendenza in Sicilia e della Repubblica in Napoli.

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Troppo funesta era la posizione del napolitano Governo, poiché dovunque e comunque volgesse i passi e i pensieri mai sempre in gravi ostacoli s'imbatteva, e quegl'istessi dai quali potea sperar salute continuatamente ai suoi danni vacavano.


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CAPITOLO VIII.

I DEPUTATI.

Sommario

Il rivolgimento progredisce. Macchinazioni nella nomina dei Deputati. L'apertura del Parlamento è differita dal 1.° al 15 Maggio, e perché. Trame e fraudi rivoluzionarie. La nomina dei Pari addentellato alla rivolta. Taluni Deputati subodorato il programma del giuramento, si portano nel Ministero, e protestano: riuniti più tardi discutono intorno ai Pari. Seduta preparatoria del 14 Maggio. Distesa la formola del giuramento è inviata al Ministero, e dal Ministero al Re. Si riprende fra contrarie sentenze la quistione dei Pari. Divulgate le vertenze dei Deputati si fa una moltitudine ribollente che ne patrocina i desiderii. Il Re non approva la formola; i Ministri si dimettono. Si accresce il tumulto. Il Deputato Cacace si porta nella Regia chiamatovi dal Re: frutti del suo colloquio. Sennate riflessioni del Deputato Abatemarco. Pratiche, parole, e grida tumultuose di taluni Deputati. Formazione delle barricate. Messaggio dei Pari. Il Re per evitare la guerra civile condiscende a tutto. La seduta preparatoria si scioglie.

Il Ministero ferventemente ai suoi disegni andava; la tramata insurrezione lontana non era, e davanle ardimento i progressi della demagogia, la contaminazione del comunismo, gradito suono alla piupparte del popolo, la corruttela universale, la lontananza delle milizie dal Regno, la Guardia Nazionale in gran parte armata, una flotta francese surta nella nostra rada, ed opportuna alle speranze dei turbatori. Un nugolo di quistioni, e di parole, e di stranissime voglie precorreva la tempesta dei fatti che fra breve sarebbero accaduti. In grave pericolo il Trono versava.

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Determinato il dì della elezione dei Deputati, ampliate le liste elettorali, minorato il censo, si era proceduto alla elezione dei Deputati, non senza grandissime macchinazioni, la opinione dovrebbe esser tutta indipendente allorché si tratta di elezione di deputati, più che in altra circostanza; ma gli elettori eran quasi che tutti compri, ingannati, o ingannatori, e lusingati. Quando si fosse preteso, che le elezioni fossero una espressione indipendente conveniva, che non venissero appostajate le opinioni; per tali trame avvenne, che i nomi dei più noti Liberali si leggevano; nel tempo medesimo si erano distese le note dei Candidati, e pervenute in Napoli perché il Re scegliesse fra quelli i 50 Pari. Si era designata la Chiesa amplissima di S. Lorenzo per la inaugurazione del Parlamento, e preparate eziandio nell'Edilìzio della Regia Università degli Studii due magnifiche sale, l'una pei Deputati e l'altra pei Pari; intanto per la tardità con la quale si era proceduto alla nomina dei Deputati in parecchi Collegii Elettorali, l'apertura del parlamento fu differita dal 1.° ai 15 Maggio.

Frattanto eran convenuti nella Metropoli moltissimi Rappresentanti della Nazione, e la piùpparte convojata, da un incomposto satellizio di armati, i quali minacciosi e torbidi non senza universal timore si aggiravan per la città. Le politiche consorterie più che mai nelle loro mude si agitavano; il Ministero che aveva manifestato di tener fermo al pubblicato programma era minacciato e tempellante, e parecchi Ministri si eran dimessi; un sedizioso proclama della Suprema magistratura centrale del Regno; faceasi diramare, col quale i sedicenti amici della umanità attizzavano le furie civili, e cercavano di precipitare il paese in mezzo al sangue, al lutto, alle crudeltà, dicendo fra le altre cose.

«Cittadini. La libertà è un frutto squisito che non si coglie fra le spine che l'accerchiano, senza far sacrificio, e cruente sacrificio, Approntatevi armati ed unitevi immediatamente alla sacra legione del riscatto appena comparirà

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«Le nostre fila sono rannodate per tutto il regno, la nostra corrispondenza con tutti i patriotti d'Italia, di Spagna, d'Inghilterra ed altri luoghi si è ricambiata, ed è in accordo universale: noi a momenti ci solleveremo, e col ferro vendicatore sguainato atterreremo per sempre il dispotismo.»

«E perché ogni governo provvisorio di ciascun luogo possa comportarsi con norma generale e comune di giustizia per tutto il regno, finché il parlamento nazionale costituente non avrà emesso le sanzioni opportune, ecco le norme che sono state accettate e sanzionate universalmente».

Fra le norme sono da ricordare le seguenti:

«2.° Sarà dichiarato pubblico nemico, e come tale fucilato qualunque ecclesiastico che abusando del suo sacro ministero eccitasse i popoli al servaggio in qualunque modo dissuadendoli dal prendere le armi.»

«3.° Parimenti sarà dichiarato pubblico nemico, e come tale fucilato ogni capitano, ufficiale subalterno, sotto ufficiale e qualunque persona tiene comando di armi, che non si rivolga a sostenere la sacra legione e non evita lo spargimento del sangue cittadino».

«7.° Tutti i militari e tutti gl'impiegati che per la causa del 1820 sono stati destituiti, imprigionati, esiliati, se prontamente si cooperino alla rivindica di quella giurata costituzione, saranno reintigrati e promossi ne' loro impieghi,

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convenientemente

«8.° Tutti gl'impieghi, civili, militari, amministratii, giudiziarii, ed i benefici ecclesiastici saranno dati esclusivamente a coloro che concorrono co' loro mezzi alla sacra revindica della nostra perturbata costituzione del 1820, proporzionatamente alla loro capacità».

«9.° La guardia nazionale è sacra, perché rappresenta la sovranità del popolo, ma perché gl'intrighi del governo vi àn fatto intrudere parecchi birbanti, cosi tutti i buoni e veri guardie nazionali vestiti della loro sacra divisa si faranno il dovere di pronunziarsi coraggiosamente per la sacra legione come parte integrale della stessa, ed i profani qualora non deponessero le armi immediatamente saranno fucilati.»

«10.° La sacra legione non è che una colonna mobile della guardia nazionale, che ristabilita la memorabile costituzione ritornerà al suo posto».

«Fratelli scuotetevi e mantenete il nostro sacro giuramento! cittadini all'armi, disperdiamo i nostri nemici, ed una volta per sempre sorgiamo liberi».

«Dato dalla suprema magistratura centrale del regno il 1.° Maggio 1847.»

Si curava eziandio ferventemente di trarre in inganni le milizie stanzianti in città, e spingerle nella scambievole diffidenza con la stampa menzogniera: in un avviso importante dicevano i perturbatori: essere stati accertati che gli Uffiziali del Reggimento Re Artiglieria e brigata Pontonieri avean protestato di non far fuoco giammai contro del popolo, di avere in animo di seguire in tutto e per tutto, e coadiuvare la Guardia Nazionale.

Però la impressione dell'imprudente avviso fu breve perché nella dimane (1 Aprile) apparve una contro protesta, nella quale i calunniati Ufficiali;

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andavan dicendo: avere con grave rammarico veduto affisso per le cantonate di

In frattanto i caffè ed i circoli via maggiormente brulicavano di sediziosi, facevan correre le voci più strane del mondo; né mancò l'audacia di fare e portare un indirizzo all'Ammiraglio Baudin, col quale s'industriavano di accattivarsi l'animo del francese Duce, e di far credere, che i francesi avrebbero postomano all'edifizio che si stava costruendo; inoltre si dava ad intendere che senza molta perdita di tempo sarebbero giunte in Napoli numerose turbe di provinciali, le quali già nelle Calabrie, nel Salernitano, e nelle Puglie,, ed in altre provincie, in cui gli agitatori molto si esagitavano, sì erano organizzate, la stampa più che mai bugiarda e furente, concorreva dal suo lato; adunque la insurrezione in tutt'i conti si voleva, e per tutti i versi si mulinava; né tardò a scaderne. la occasione.

La Camera dei Pari servì da pretesto. Secondo lo Statuto ossa formava uno degli elementi governativi; né si aveva. ragione di escluderla, sì perché giova al retto andamento del giudizio un doppio esame, una duplice magistratura, o un lasso di tempo che valga a smorzare il primo impeto delle. passioni, e ricondurre gli animi a più maturo consiglio; e sì perché i Personaggi che aveva scelto il Re, non presentavano appicchi di sorta, essendo tutti degni di commendazione, ed all'altissimo ufficio accomodati; ed oltracciò, erano una emanazione del popolo, poiché il Re non aveva fatto altro che scegliere fra i proposti dalla nazione.

Per la qual cosa il Governo consentaneo alla nuova legge Sociale, avvicinandosi la solenne apertura del parlamento, avea emesso un programma, regolare di giuramento, nel quale era fermato

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che ciascuno seguirebbe il suo debito giusta il prescritto dallo Statuto del 10 Febbrajo. Vero, è che il Ministero del 3 Aprile affin di evitare il preparato socquadro, avea notato nel suo programma, che il Parlamento di accordo col Re potrebbe svolgere lo Statuto, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari; ma ponendo da parte, che questo articolo fu strappato dalla imperiosità delle minaccevoli circostanze, è a riflettere, che non mai alcuno potea arrogarsi il dritto di parlare su di argomenti governativi se innanzi tratto non ne avesse avuto la facoltà. Quindi in prima avrebbero dovuto i Deputati essere legalmente investili dal Re del potere legislativo, congregarsi in conveniente numero, discutere regolarmente, averne l'assenso degli altri poteri, e da ultimo uscire nelle opportune decisioni.

Intanto la via legale non si volle, perché non era opportuna ai preconcetti disegni, ed in quella vece si ebbe scelto la via delle sedizioni, delle improntitudini, delle enormità. Ed ecco in sull'una pomeridiana del 13 Maggio meglio che 20 Deputati portarsi dal Sig. Trova Presidente dei Ministri, che ritrovarono unito con tutti gli altri Membri del Ministero, ed esporre, che essi erano informati appieno dei sensi del programma che stavasi pubblicando; e che non era possibile inclinarvi i loro animi. I Ministri promisero di ritirare il programma, e di toglierne la parte che riguardava il giuramento, il quale si sarebbe prestato dopo svolto lo Statuto.

Nella sera dello stesso giorno si fece un'altra riunione di circa 60 Deputati, e toccando delle cose dette coi Ministri, si venne alla discussione dei Pari ed alle modifiche dello Statuto. Alcuni sostenevano, i Pari non poter essere ammessi nella maniera dello Statuto di Febbrajo, epperò non potere intervenire nello svolgimento del medesimo; spettare ciò soltanto alla Rappresentanza Nazionale. La maggioranza al contrario opinava, che i Pari attuali erano una perfetta emanazione del popolo;

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perché il Re non avea fatto altro che nominar Pari quelli che avean conseguito maggior novero di voti. Però si sospesero le quistioni colla speranza di riprenderle nel vegnente giorno, e rimetterle al

Pertanto del giorno 13 era stato dispensato un viglietto a stampa, col quale s'invitavano tutti i Deputati a rassembrarsi nel mattino del 14 Maggio verso le 10 antimeridiane in seduta preparatoria nelle sale municipali di Montoliveto, affin di statuire le ritualità del primordiale procedimento. Infatti nel tempo prefisso meglio che cento Deputati si renderono al prefisso luogo, e dopo avere eletti a presidente il più vecchio fra loro, l'Arcidiacono Cagnazzi, ed a segretarii quattro dei più giovani, volsero il pensiero al regolamento provvisorio; e poscia si fecero a ventilare la quistione del giuramento, ed osservarono, che non essendosi avverata la promessa del Ministero di prestarsi il giuramento dopo lo svolgimento dello Statuto; né convenendo in mezzo ad un popolo religioso d'insistere ond'essere esentati dal dovere di chiamare Iddio in testimone e garante delle proprie intenzioni, era indispensabile distendere una formula di giuramento, che non gli allontanasse dal programma del Ministero dei 3 Aprile. Altri erano di credere, che non si dovesse affatto giurare pria di avere svolto lo Statuto; il che valea per essi riforme e modifiche.

In questo il Deputato Pica distese, plaudente la piupparte dei suoi colleghi, la formola del giuramento nel seguente modo.

«Giuro di professare la religione cattolica, apostolica, romana. Giuro di osservare e mantenere lo Statuto politico della Nazione con tutte le riforme, e le modificazioni che verranno stabilite dalla rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguarda la Paria.

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Giuro di adempire al mandato ricevuto dalla Nazione, e con tutte le mie forze di procurare la sua grandezza ed il suo ben essere. Così facendo, Iddio mi premii, altrimenti me lo imputi».

La qual formola chiaramente mostrava le tendenze dei tempi crudeli che correvano; imperciocché non è chi non vegga, quanto si dipartisse dal giusto e dalla legalità, e segnatamente in quelle frasi di riforme e modifiche da stabilirsi dalla rappresentanza nazionale; dappoiché lasciando stare dall'un de' lati il significato della parola svolgere, la quale in qualunque modo giammai potea denotare mutamento sostanziale dello Statuto, egli era evidente, che si mettea unicamente innanzi la rappresentanza nazionale, quando che lo svolgimento, secondo il programma dei 3 Aprile, era confidato a tutti e tre i Poteri Legislativi. Dal che si pare che ree intenzioni voleansi ricuoprire sotto la santità dei giuramenti, e che il suono della Costituente ormai gagliardo si ripercuoteva dappertutto.

Una Deputazione composta dai sig. Capitelli, Pica, Baldacchini, e Masa, si portò, mossaggicra della citata formola, nel Ministero per farla approvare dal Potere esecutivo. In questo il Presidente Arcidiacono Cagnazzi chiese ai Deputati l'ajuto di un Vicepresidente; perché la sua grave età, e la sua fioca voce non gli avrebbero permesso di moderare le discussioni. Acconsentissi alla domanda, e fu nominato a quel posto il Prof. Lanza.

Ritornati i quattro Deputati a Montoliveto riferirono, che i Ministri, trovata accettabile la formola del giuramento, al momento sarebbersi portati dal Re, e patrocinarne l'approvazione, e che terminato il Consiglio, uno di essi avrebbe portata la risposta.

Mentre che i Deputati si tenevano in aspettazione di tal riscontro, seguitarono ad occuparsi del regolamento preparatorio, delle quistioni che poteano insorgere intorno alla verifica dei poteri, e ritoccarono la discussione dei Pari, sulla quale taluni impresero ad osservare: non essere di veruna utilità quello a cui si mirava; un mutamento qualunque potere

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inabissare gli eventi della Italia Superiore; non esser prudenza dilungarsi dallo esempio dei Fratelli di Toscana, di Piemonte, e dello Stato Fon

Intanto si era pervenuto alle 5 pomeridiane, e la sessione preparatoria incominciata alle 10 antimeridiane tuttavia si protraeva. La fama avea divulgate le vertenze dei Deputati, ed una moltitudine ribollente di guardie nazionali e di liberali si andava agglomerando in varii punti dal largo della Carità insino al luogo dove la rappresentanza nazionale era riunita. La folla ognora crescente, e più che mai spessa, e gonfia di furore si diresse sotto al palazzo municipale di Montoliveto gridando Viva i Deputati: abbasso i Pari, abbasso i Pari. In questo taluni moderati ripresero siffatto concitamento, ed esortarono si contenessero da ogni molo disorbitante, né si allontanassero da quanto la moderazione suggeriva. Inutili parole fra tempestose voglie!...

Erano i Deputati in aspettazione di risposte, quando verso la cennata ora presentossi un Inviato del Presidente dei Ministri, riferendo, che ragioni positive e legali non permettevano l'accettazione di quella formola. Al momento fu mandata di nuovo la suddetta Deputazione al Ministero, per esporre, che la Camera tenace nel suo proposito o non giurerebbe affatto, o giurerebbe nel modo stabilito nella formola.

Dilungatasi appena la Deputazione, apparve per la prima volta verso le 6 p. m. il Deputato Conforti, Ministro dell'Interno, il quale confirmò la notizia della ripulsa della formola, ed arrese, che egli erasi dimesso, e che gli altri Ministri erano per dimettersi.

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Ritornò poco stante la Deputazione apportatrice della medesima nuova, e dell'al

Frattanto erano le 9 della sera, e lo sregolato tumulto non cedeva, ma si andava man mano rigonfiando; un brulicame di liberali si aggirava fremente innanzi alla Reggia ed in altri luoghi; voci allarmanti si divulgavano per la città, i demolitori della Società a piene gote soffiavano in quell'incendio; sinistri presentimenti correvano; vi era una calma minaccevole; gli animi stizziti e pronti a irrompere.

Il Re informato di quel tristo baccano, curava di trovar modo di cessare le ruine che minacciavano il paese. Felice l'età se le benefiche mire di Lui si fossero avute in cale! A quel fine facea a se venire il Deputato Cacace, nel quale non mancavan pregi di moderazione e di saggezza, ed a lui sponeva le amarezze provate per la ingratitudine con cui le suo generosità si retribuivano, per le calunnie, le ire, e le intemperanze di cui era segno; e nel tempo stesso il desio di comporre quelle vertenze, e portare a concordia gli animi, mostrando la ragionevolezza di una formola in cui, riguardo alle voglie dei deputati, si diceva: volersi osservare lo statuto del 10 Febbrajo, salvo lo svolgimento che ne avrebbero fatto di accordo i tre poteri, specialmente in ordine alla paria.

Elasse due ore circa, ritornò il Deputato in grembo all'assemblea, manifestando la giunta delle segnate parole. Nuove discussioni al nuovo annunzio succedevano, e per metter fine all'agitazione si venne ai voti se si dovesse esser fermi nel non prestare alcun giuramento, ovvero giurare la formola di Pica, o quella del Re. Di 98 votanti soli 9 furono dell'ultimo avviso.

Intanto in mezzo all'esagitamento, giungeva il Deputato Abatemarco, Direttore della Polizia, mandato dal Sovrano onde condurre gli animi nella via regolare;

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e i seguenti sensi ai suoi Colleghi con franco animo veniva sponendo. Esser ben diverso il significato delle parole modificare e riformare, da quello di svolgere; il programma del 3 Aprile comprendere il vocabolo svolgere, e non riformare, e quindi nessuno aver dritto di allontanarsi da ciò che era stato scritto e sanzionato; daltronde so le parole modificare e riformare, eran sinonimi di svolgere, essere inopportune per lo stile severo delle leggi, se rendevano altre idee, alterarsi evidentemente il senso della concessione; meravigliarsi, che ora stimavasi insufficiente, e riprovevole quel programma istesso, che fu con paghezza indicibile ricevuto; ne saper comprendere, come non valeva pel giuramento quel medesimo dettame che era stato opportuno per la convocazione dei collegi elettorali, e per la elezione dei Deputati; immutarne la forma o la sostanza tornerebbe lo stesso che macchiare la origine e la esistenza politica dei rappresentanti; la riunione fatta in Montoliveto non esser legale, poiché punto non erano verificati i poteri di alcuno dei deputati, né riconosciuti; il programma dei 3 Aprile dar la facoltà dello svolgimento ai tre poteri, non ad un solo di essi, e molto meno ad una Camera non legalmente costituita; essere veramente indecoroso, e sconvenevole in un momento cotanto solenne gittar le faci della discordia civile in mezzo ad un popolo benigno e tranquillo, che aspettava dai suoi rappresentanti pace ed ordine, non mai guerra né socquadro; e finiva con esortare rattemprassero per carità di patria, e decoro di un'assemblea, anzi ammorzassero le ire e le scintille, in cambio di concitarle ed attizzarle.

Questi sensi giustissimi e vigorosi, attutirono per un momento, non spensero i sediziosi cavilli. Dei Deputati undici soltanto c, on franco labbro, pochi altri con la eloquenza del silenzio li approvarono; tutti gli altri stetter contumaci, e fatto allontanare Abatemarco, tolsero a deliberare.

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In frattanto un'agitazione indescrivibile regnava fra la raccolta rappresentanza. I sovvertitori, tra quali un Romeo ed un Mileto, notissimi per la reggiana ribellione, entravano ed uscivano dalla sala, si rannodano in crocchi; e taluni Deputati discendevano nella strada fra la innacerbita moltitudine, e tornavano nella sovvertita sala, trasportandovi 1 intemperanze e le passioni di che ribolliva la folla della strada; cosicché gli animi innaspriti innasprivano. In mezzo al socquadro in che la Camera era immersa, entrarono di tutta fretta, schiudendo l'uscio senza verun permesso, La Cecilia e Mileto, e dissero, che le reali milizie eran già sortite dai quartieri, e miravano a disperdere la Camera e con essa la libertà. Il Direttore di Polizia, che stava in aspettazione della risposta dell'assemblea, intese le bugiarde assertive, subitamente entrò nella concitata sala, e francamente disse: il Governo essere calunniato; egli quivi rappresentarlo, asserendo rispondere per esso; aver egli partecipati gli ordini al Generale Labrano, Comandante della Piazza, portanti la proibizione della uscita dei soldati dalle Caserme, affin di evitare qualunque appicco di conflitto. Opposegli La Cecilia, dicendo esser egli illuso. Riprese il Direttore: esser pronto a mostrare coi fatti, che egli non aveva illusione né d'intelletto né di sensi. Ed infatti lasciata persona di sua dipendenza nell'Assemblea, pertossi per le strade principali, e dal Generale Labrano, e verificò che gli ordini comunicati non erano stati punto né poco trasgrediti; poiché nessun soldato per nessuna cagione era uscito.

Frattanto in quei momenti supremi l'agitazione era nel suo più alto segno, i Deputati si rannodavano in circoli si scioglievano, si rinfuocolavano a vicenda, e le passioni nelle ferventi torme delle strade ripercuotevano. Gridavasi per le vie Viva la Camera dei Deputati; abbasso i Pari. Dicevasi nella sala da parecchi Deputati: profittisi della opportunità; è ormai tempo di costituente e di repubblica; e tre di essi ubbriachi di furore, ed avidi di sangue,

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Le quali parole furono scintille cadute fra infiammabili materie. Tosto fu dato nei tamburi, malgrado la inibizione del Brigadiere Pepe, Comandante della Guardia Nazionale; e per tutte le vie della Città si andava battendo la generale, e gridando all'armi; la patria è in pericolo; tradimento; alle barricate. Incontanente si accorre alla chiamata, e si fa un brulicame di Guardie Nazionali, di borghesi, di lazzari e di operai, frementi operosi volli con tutte le forze alla costruzione delle barricate.

Avresti veduto quella folla disgregarsi in drappelli, andare in cerca di materiali, e issofatto riunirsi portandone in gran quantità e di vario genere dove meglio il bisogno ne scadesse. Carrozze grandi e piccole, patronali e da nolo, carrette, panche di acquajuoli, di macellai, e di falegname, scanni e predelle di chiesa, insegne di legno da botteghe, scale, travi, botti, stipi, sedie, casse, cassoni, pietre, porte ed altri materiali furono qui e colà ammassati ed ordinati in barriere.

Nel tempo istesso gli agitatori non si rimasero dal mandare una Deputazione presso l'Ammiraglio della flotta francese per chiedere aiuto e protezione per la repubblica che intendevano inaugurare. Il Re informato di tutto, immobile in mezzo a tanto moto, confortato dal suo dritto, e dalla giustizi» delle sue azioni, con fermo animo e dignitoso andava dicendo: non volersi rimuovere dalla, via legale, esser pronto ad affrontare qualunque difficoltà, qualunque pericolo colla lealtà del cittadino, e col coraggio del soldato.

Intanto in mezzo agl'impeti sregolati conveniva mettere io difesa la Reggia; epperò ordinava il Re che un reggimento di cavalleria occupasse lo spianato di Palazzo e intendesse a difender quella da ogni audacia;

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e che intanto il

Nel tempo medesimo giungeva al Largo di Palazzo il Direttore di Polizia, il quale si fece a dire ai Comandanti Superiori della cavalleria, che si guardassero dallo entrare in via Toledo, dove già ribollivano le passioni, affin di evitare qualunque occasione di guerra civile.

Intanto al primo tumulto due Ajutanti di Campo, e 'l Deputato de Piccolellis, Colonnello della Guardia Nazionale, erano entrati nella Camera dicendo da parte del Re. Perché questo allarme? Nessun corpo di cavalleria essersi avanzato verso la Camera; neppur mosso, ma solamente schierato innanzi la Reggia uno squadrone per difenderla da qualunque invasione; perché molta gente si era colà agglomerata. I Deputati risposero: che tutto quello che avveniva non doveva imputarsi ad altri che ai Consiglieri della Corona, i quali per tanto tempo trascuravano i voti della, nazione: e che essi erano estranei a quanto avveniva fuori!!

Erano così le cose quando un Ajutante Maggiore andò a chiedere del medesimo Sig. de Piccolellis, soggiungendo che era desiderato dal Re; al quale annunzio lieto e frettoloso il Colonnello si partì.

In questo mentre giunse fra i Deputati il Principe Pignatelli-Strongoli latore di una bozza di giuramento fatta dai Pari, i quali si erano radunati sino dalle otto della sera a casa il Principe di Cariati per tale oggetto. Siffatta bozza fu letta e plaudita da molli Deputati, ma non preferita a quella già distesa da Pica. Il Messaggio dei Pari si ritirò.

Intanto pervenuto al cospetto del Re il Colonnello de Piccolellis, cosi in dignitoso modo gli disse il Sovrano: a forza dunque i sediziosi vogliono pascersi nel sangue civile? Ma che altro si chiede, che altro si pretende?

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La formala del giuramento è stata già tolta, il Ministero si sta occupando del decreto;perché le barricate sono ancora in piedi anzi

La notizia della Regia condiscendenza di tratto si diffuse non senza molta letizia da Montoliveto a tutti i Quartieri delle Guardie Nazionali, che vegliavano in armi, ed al popolo che era desto in via Toledo; e i Deputati dopo stabilito, che si attendesse a restituir l'ordine e la calma, togliendo le barricate, e che alle 9 a. m. del giorno appresso si sarebbero novellamente riuniti nel medesimo luogo affine di recarsi nella Chiesa di S. Lorenzo si sciolsero, passata di 3 ore la mezzanotte.

In quell'Assemblea non mancavano i buoni, i quali, sebben rimessamente e senza alcun pro, avevan tentato di opporsi alle immoderate pretenzioni, ed a richiamare il senno dei passionati in una via equa e legale; si che in quella congiuntura istessa non pretermisero il loro debito, e infatti benché affraliti dalla mancanza del sonno e del cibo, sospinti da patria carità, si portarono in piena notte dalle stanze di Montoliveto alle barricate, percorrendole ad una ad una, ed esortando si distruggessero: ma sebbene in taluni luoghi e da talune persone fossero ascoltati, nel generale furon derisi o non intesi; e le barricate punto non furono scommesse. La malnata genia dei perturbatori con maligno soffio aizzava le passioni, ogni via di conciliazione rifiutava, andava insinuando idee dubbie, gittava i semi della discordia, finiva manifestando voglie disordinate.

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Si dessero, dicevano, i Castelli alla Guardia Cittadina; si allontanassero le truppe 40 miglia fuori della Città nel corso della giornata se ne spedisse una mettà in Lombardia; la Camera dei Pari non si convocasse.

Cadeva la notte del 14 Maggio fra cotanta tenzone di sbalestrate passioni, e un grave ed imminente periglio di guerra civile nella spaventata Napoli lasciava.


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CAPITOLO IX.

GIORNATA DEL 15 MAGGIO 1848.

Sommario

Aspetto deplorevole e minaccioso di Napoli. Parecchi Deputati curano di evitare la guerra civile, ed il Re per l'istesso fine condiscende a tutto e decreta l'apertura delle Camere. I ribelli frastornano le benigne mire. Ulteriori tentativi di pace da ulteriori smodatezze sventate. A rassicurare gli animi il Sovrano fa ritirare le truppe; ma le barriere per inetto consiglio non sono disfatte. Le milizie riprendono le abbandonate posizioni. Preparativi ed attitudine minaccevoli. Speranze dei liberali mal fondate, e perché. Le pacifiche trattative continuavano, allorché una moschettata ruppe gl'indugi; la pugna furiosamente divampa. Le barriere di S. Ferdinando, di S. Brigida, di Montoliveto, dopo furioso assalto e furiosa difesa espugnate. Orribile incendio del palazzo Gravina. Fieri combattimenti in altre barricate, pei liberali perduti. Tattica delle milizie e dei ribelli. Memorabili parole del Re. Tumulti, progetti sregolati, deliberazioni, protesta e sgombero dei Deputati. Vittoria universale delle milizie. Destino dei captivi. Feriti e morti. Il nuovo sole discuopre le vestigia orrende della pugna.

alba del 15 Maggio fu alba di sangue per la contristata Metropoli, e fra terribili e funesti segni si dischiuse: l'ecatombe del rivolgimento ormai a grandi passi si avvicinava. Insolito e terribile spettacolo nel romper della prima luce agli occhi dei riguardanti si offriva. Toledo e le strade che vi sboccano intersecate o chiuse da innumerevoli barriere, disselciate, o altrimenti guaste; quasi tutta la Guardia Nazionale, e molta gente in armi a guardia di quei segni e mezzi di ribellione; un andare ed un venire

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i portoni, e le botteghe socchiuse; i balconi gremiti di materassi; talune case abbandonate; i domicilii violati., la proprietà qui e colà guasta; l'aere di minacce e di grida sediziose assordato; la real Toledo, in cui i Napolitani sogliono abbandonarsi ad ogni giuliva manifestazione ora ridotta a campo di guerra; le vie della città deserte; le pubbliche faccende sospese; la piupparte della popolazione trepida rimaneasi fra le domestiche mura; perché la voce corsa della composizione delle vertenze era smentita dai fatti dell'affortificamento delle barriere, dei corrieri spediti durante la notte nei paesi prossimani per avere aiuto di armati, e delle milizie che teneano posizioni strategiche, e che immobili e silenziose guardavano.

Il descritto stato delle cose affrettò la riunione di parecchi Deputati, i quali tosto si posero a scrutinare il modo come fare scommettere gli asserragliamenli, e cessare la sciagura di un conflitto. Assai meglio si sarebbero comportati se non avesser data causa a quel tremendo precipizio; poiché non ismuovere le passioni è nella facoltà degli uomini, ma infrenarle dopo smosse è opera sovrumana l - Ad ogni modo si fece affigger per le cantonate il seguente manifesto.

«La Camera dei Deputati, provvisoriamente riunita, reputa suo debito di rendere quelle grazie, che può maggiori, alla gloriosa ed intrepida Guardia Nazionale di questa città, ed a questo generoso popolo per la dignitosa e virile attitudine che han preso per tutelare e guarentire la Nazionale Rappresentanza. Ma essendo l'intento della Camera, che tendeva al maggior benessere della Nazione, stato pienamente conseguito, essa crede dover invitare la Guardia Nazionale a fare scomparire dalla città ogni aspetto di ostilità col disfarne le barricate, acciò si possa inaugurare l'atto solennissimo dell'apertura del Parlamento, senza alcuna sebben gloriosa, pur dispiacevole ricordanza. Di Montoliveto il mattino del 15 Maggio 1848. Il Vicepresidente Provvisorio - V. LANZA.

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Nel tempo stesso furono inviati al Ministero alcuni Deputati affin di far richiamare l'attenzione del Re sul minaccevole aspetto delle cose, e supplicarlo di convocar subito le Camere indipendentemente dal programma.

Il Monarca pel bene del suo popolo faceva il desiderio dei Deputati, emanando in un decreto i seguenti articoli.

«1.° L'apertura delle Camere riunite, e 1'apertura del discorso della Corona avranno luogo in questo giorno alle ore due p. m. di Francia nella sala destinata a' Deputati nel locale della Regia Università degli Studii».

«2.° Il giuramento prescritto cogli articoli 12 e 13 del Programma del 13 Maggio corrente non avrà luogo».

«3.° Le Camere cominceranno a procedere alla verificazione dei poteri, dopo la quale i Deputati ed i Pari daranno il giuramento secondo la formola seguente».

«Io NN. prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al Re Costituzionale Ferdinando Secondo».

«Prometto e giuro di compiere con massimo zelo, colla massima probità ed onoratezza la funzione del mio mandato».

«Prometto e giuro di essere fedele alla Costituzione, quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d' accordo col Re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, com'è detto nell'art. 5 del Programa del 3 Aprile».

«Così giuro ed Iddio mi ajuti». «Napoli il di 5 Maggio 1848».

Questo decreto avrebbe dovuto ormai calmare il baccano delle intemperanti voglie; sì perché empieva il desiderio dei Deputati medesimi; e si perché mostrava nel Principe una pieghevolezza senza pari in tutto ciò che al bene del popolo conferisse; ed in quei supremi momenti non vi era altro a pensare che all'allontanamento della guerra civile.

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Assai bene sì sarebbe giunto al santo scopo, se uomini prudenti, non belve furibonde, avessero tenuto le redini di quello scompiglio.

Nessun frutto adunque si era ancora ricavato, e nessuno parea doversene ricavare dalle imprese trattative; perché si ripetevano le strane domande; gli uomini erano in maggior fermento; pressavano vieppiù i momenti; stranissime notizie si divulgavano dalla infernal Toledo per innalzare l'arditezza e le opere dei malvagi, ed avvolpinare i balordi; si pubblicava un' avventata scritta, nella quale il Deputato Ricciardi, compendiando i turbolenti sensi dei suoi confratelli, a tal modo si esprimeva:

«La situazione è aumentata di molto da ieri in poi: il perché diverso esser debba il nostro linguaggio colla corona. La diffidenza della nazione, ed in ispecie delle milizie civili, è cresciuta a mille doppii: unico mezzo a farla cessare sarà l'ottenere dal governo garentie positive: io propongo che gli sieno indirizzate il più presto possibile le due seguenti. dimande moderatissime, moderatissime, io dico, in ragione dei miei principii e desiderii ben noti: la consegna delle castella in mano della guardia nazionale: lo scioglimento, ovvero l'invio della guardia reale in Lombardia. Che se il governo sarà per opponi il pessimo stato delle finanze; e noi diamo al paese l'esempio del sacrificio, soscrivendo ciascuno secondo le proprie facoltà. Ed io primo nella opposizione mi segno fra i primi per la somma di docati 400.

E ad infiammare gli animi non mancava l'avversa fortuna di fare accadere in quell'istante Io sbarco di 300 Siciliani, ai quali, carpendo la occasione propizia, calse di recarsi per la città, precise nei focolai della rivolta, ed aizzare gli esagitati spiriti, e spingerli al truculento fine.

Intanto il Brigadiere Pepe, ed altri Ufficiali Maggiori della Guardia Nazionale si menarono dal Re, sponendo, che a rassicurare la milizia cittadina convenisse far ritirare le milizie, le quali al rumore

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della rivolta erano uscite dalle Caserme, e stavano indrappellate nei larghi, di Palazzo, del Castello, e del Mercatello; e che si benignasse ordinare la Maestà Sua, che un competente numero di soldati inermi dessero opera al disfacimento delle barricate, mentre la Guardia Nazionale non era a ciò valevole in tatto.

Il buon Ferdinando, al quale godeva l'animo di allontanare dalla Città quel nembo, che le pazze ire aveano addensato, condiscendeva a tutto; sì che ordinò la ritirata, delle truppe, la quale di breve fu eseguita; ma le barriere in alcuni punti furono scommesse, in altri rafforzate: quella del Gesù Nuovo fu intieramente disfatta, ma in modo che in un istante si potesse ricomporre; l'altra di Montoliveto fu diradata nelle sue estremità in guisa che potessero, sebbene un po' scomodamente passare le persone; tutte le altre furono via maggiormente guarnite e consolidate; perché, dicevano i maligni, che le truppe anche ritirate potrebbero irrompere in un momento; ma ricostruire le barricate sarebbe opera lunga, malagevole, e faticosa. Inettissimo consiglio, perché alla fin fine queste celebri barriere non eran bastioni o castella inespugnabili, che avrebber potuto resistere all'arte ed ai mezzi guerrieri di che le milizie abbondavano.

Dall'altra parte il Generale Garofalo, Capo dello Stato Maggiore, il Brigadiere Pepe, ed altri uffiziali si portavano con mezzo centinajo di granatieri inermi per aiutare il disfacimento delle barriere, ma alle prime parole ed alle prime mosse i rivoltosi spianarono i fucili, irruppero con voci minacciose, e vennero al punto dei fatti; sì che fu mestieri, che la pacifica missione andasse a vuoto. Più tardi ritornava alle esortazioni, ed alle istanze il Brigadiere Pepe, ma i suoi medesimi subordinali di lui punto non si calsero; anzi di traditore lo notarono. La quale. contumacia nasceva in gran parte da un erroneo concetto, che cioè la condiscendenza del Re fosse indizio di debolezza, e di timore, e chepperò conveniva stare in sul fermo.

Mileto e Romeo, i quali eran debitori della vita alla clemenza di Ferdinando, ora retribuivano

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tanto benefìzio con aizzare la ribellione ai danni del Trono, e andavan dicendo: Perché oggi si è veduto chiaramente che a farsi sentire si ottiene qualche cosa, bisogna andare innanzi a questa

In mezzo a tanta accidia intemperanza, e vicino perìglio d'insurrezione fu d'uopo che le truppe riprendessero le abbandonate posizioni. Due reggimenti svizzeri, altrettanti squadroni di cavalleria e due compagnie di pontonieri si attelarono nel largo del castello; ed in quello del mercatello un altro reggimento svizzero, una mezza batteria di artiglieria, ed uno squadrone di lancieri: il rimanente reggimento svizzero, ed una sezione di artiglieria occupò it quatrivio che guarda la calata di S. Teresa, il Largo delle Pigne, le fosse del grano ecc.: una sezione di artiglieria, ed uno squadrone di lancieri si postarono nei dintorni della Vicaria: il 2.° reggimento di Usseri nel largo del mercato: nello spianato della Reggia si erano indrappellati un battaglione del 2.° Granatieri, due dei cacciatori della Guardia, un battaglione del Reggimento Real Marina, una batteria di artiglieria a cavallo, un reggimento degli Usseri, ed un battaglione di zappatori: infine nei Granili rimanea in serbo il 1.° Reggimento Granatieri.

Dall'altro lato si sollecitava la fortificazione delle barricate, guernivansi di materassi i balconi, accorrevano gli armati, segnatamente provinciali, facevansi molti provvedimenti, montava l'audacia, si aspettava con ansia il primo segno della pugna.

L'attitudine era minaccevole da ambo le parti, ma recava sorpresa in tutti il considerare, come il partito liberale potesse provarsi in un cimento con mezzi disuguali: munizione scarsa, gente raccogliticcia senza capi, senza ordini, senza disciplina, poca di numero, asserragliamenti fragilissimi, non piano di attacco, non ligami di operazioni, non punto di ritirata, non verun'altro provvedimento indispensabile

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alla retta riuscita di una fazione; mentre dal!'altra parte stava milizia istruita, sufficiente,

Vero è che non si dovea combattere in guerra giusta, ma ad ogni modo la sproporzione era significante, e tanto meravigliosa, che avea fatto aggiustar fede a varie dicerie che eran corse e correvano di labbro in labbro.

Queste erano 1.° che gli svizzeri, come pertinenti ad una Nazione liberale, mai non avrebbero impugnate le armi contro i liberali, né contro la Guardia Nazionale con cui si erano affratellati nelle diverse operazioni fatte insieme nella occasione del nostro politico rivolgimento; che anzi affermavasi essersene avute delle assicurazioni da parecchi Uffiziali. 2.° Che le patrie milizie non avrebbero osato combattere contro i proprii fratelli, ed a fare involgare questa credenza avevan pubblicato quel falso avviso di che si è cennato più innanzi. 3.° Che per fermo sarebbesi avuto qualche soccorso, se non materiale, almeno morale dai Vascelli francesi ancorati nella rada; massime perché taluni Uffiziali francesi, per quanto dicevano, nel corso della notte avevan data mano alla costruzione delle barriere. 4.° Che dai palazzi si sarebbero gittati mobili, pietre ed altre cose a gran copia, le quali avrebbero schiacciato il nemico, ingombrate le vie, ingrossate le barricate.5.° In fine, che il popolo caldeggerebbe la causa dei liberali, ed al combattimento sarebbe a strade calcate accorso. Ma tante speranze malaugurate, e malfondate di breve vennero frustrate dalla trista realtà del cannone. Guai a chi in guerra fonda sulle speranze, e non. su dati positivi!...

Dissi malfondate, e non a torto; perché la mente di coloro che si pascevano di tante lusinghe non dovea essere ottenebrata al segno da non dar luogo a facili riflessioni nascenti da freschi e notissimi ricordi.

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Doveasi rimembrare, che la Storia di tutti i tempi mostra negli Sviz

Se queste ed altrettanti riflessioni si fossero fatte, io mi affido, chi i promotori di quelle gravi sciagure mai non avrebbero nutrita veruna speme, si sarebbero ritratti dal reo proponimento, ed ora il 15 Maggio del 1848 non si tramandarebbe alla posterità in pagini luttuose! Era destino pertanto, che questa invidiata e dolce patria minasse in grembo alle furie civili, e vi ruinò; le umane tigri vollero il sangue dei pacifici fratelli, e se l'ebbero!...

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Intanto non si trasandava una corrispondenza attiva, né si preterivano i modi onde sviare dal nostro cielo il minaccevol nembo. Il Sovrano mandava il Brigadiere Carrascosa in casa Troja, ove erano congregati i Ministri, esortando si muovessero a dar pronti e vigorosi ordini. I messaggi si affrequentavano; il popolo accorreva, tiratovi da vituperevole curiosità, per molti fatale, affine di osservare l'insolito Spettacolo; i liberali si affaccendavano intorno alle barriere, le milizie rimaneansi tacite ma frementi, si tentennava fra timori e speranze, quando un' ora prima di mezzodì udissi una fucilata vicino all'angolo di S. Brigida, la quale ruppe le more, e seguita da clamorosi applausi, chiamò all'armi i difensori tutti delle barricate. Ed ecco due altri colpi di fucile tirati dalla barriera che occupava l'entrata di Toledo rimpetto al Largo di palazzo, pei quali fu morto un granatiere della Guardia e ferito un Uffiziale. A questo non ebbe più limite la lunga pazienza dei soldati, epperò senza attendere alcun comando quasi istintivamente si spingono alla provocata pugna: indarno gli Uffiziali cercano d'infrenare quell'impeto, indarno adoperano la persuasiva, il comando, le minacce, indarno si fa battere il rullo dei tamburi a segnale di cessazione del fuoco; poiché tutto fu impossibile, segnatamente perché i ribelli in cambio di sostarsi, con maggior furore e numero al cimento si slanciarono. Allora fu mestieri regolar quell'impeto, ed opporlo alle micidiali offese: ed ecco uno scoppiettio continuo, fitto, crescente di moschetteria, reso orrendo a brevi intervalli dal rimbombo delle artiglierie portatili: tuonarono per tre volte a segnale di guerra i Forti di S. Elmo, dell'Ovo, del Carmine, e del Castel Nuovo, innalberando bandiera rossa; ma non tirarono sulla Città, tranne l'ultimo che facea scoppiare i cannoni dal bastione che prospetta palazzo reale, e dalla linea che fronteggia il largo della Posta, e Fontana Medina. Impegnossi a tal modo in tutti i punti una lotta orrenda, accanita, esiziale!...

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Combattevasi aspramente nella barricata di S. Ferdinando, che era la più salda. Un battaglione dei Granatieri dapprima, al quale poco poscia si unì il 1.° Reggimento Svizzero, e l'Artiglieria a cavallo, ai cenni del Brigadiere Carascosa furiosamente la tempestavano, mentre vivamente era difesa dalla strada, e dai vicini palazzi, da cui una mortifera gragnuola di palle imperversava. Intanto una Compagnia del Reggimento Real Marina prende posizione sui balconi e terrazzi del palagio Zabbatta, ed un plutone dei Granatieri va a postarsi sulla terrazza della Foresteria; a tal modo dominate le micidiale case scemarono i difensori, colpiti dall'inatteso combattimento aereo. Un battaglione dei Cacciatori, va a supplire quello dei Granatieri, ed una con gli Svizzeri procede innanzi. Guari non passa e la barricata di S. Ferdinando, creduta il baluardo della rivoluzione, pel valore e T arte militare è abbattuta o va in rottami.

Simile furore di guerra infieriva nella barriera di S. Brigìda, la quale era anch'essa ben solida, e difesa dall'intiero 1.° battaglione della Guardia Nazionale. Il 2.° e 4.° Reggimento Svizzero, ed una mezza batteria attelati nel largo del castello, eran pronti ad entrare in azione, ma spinti dal lodevole scopo di schivare il sangue, spedivano due Compagnie, onde pacificamente scommetterla, le quali salutate prima con grida di evviva gli Svizzeri, ebber poscia un nembo di fucilate non appena la pacifica opera incominciavano.

Immantinenti accorse la riserva. Furioso fu l'assalto, furiosa la difesa. Stette per lunga pezza in dubbio la pugna, ed ancora vi sarebbe stata, ove non si fosse mutata tattica; imperciocché dapprima irrompevasi in colonna per divisione, e poscia con utile consiglio s'irruppe per file sui lati della strada con l'artiglieria nel mezzo. Per tal guisa la barricata fu di breve sfasciata e distrutta, e le attigue case occupate. Il palazzo Cacace divampò.

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Pari impeto ardeva intorno alla barricata di Montoliveto, la quale era ben costruita, e meglio difesa da moltissimi armati che brulicavano nei palazzi vicini, e precisamente in quello di Ricciardi, il quale parea una fortezza. Appressatisi i Granatieri del 1.°, prese ad imperversare un impetuoso fuoco di moschetteria, al quale impetuosamente quei prodi rispondevano. Guari non passa e i Guastatori atterrano il portone, due compagnie vi penetrano, ed ecco nel più forte impeto della orribil pugna incominciaronsi a vedere le stanze del secondo e terzo piano di quel palagio illuminate, e poscia le fiamme serpeggiare per la secca mobilia, comunicarsi alle porte alle finestre, insinuarsi dovunque, accrescersi, ingrandirsi a dismisura. Quante erano le aperture di quel grande edilìzio, tante le spaventevoli bocche per le quali ora si spingevan fuori, ed ora rientravano gli ammassi delle scoppiettanti fiamme, lampendo l'esterno delle mura: le travi divorato dal fuoco crepolavansi, scricchiavano, quando s'inabissarono con rombo cupo e spaventevole una col tetto e coi pavimenti, ed ecco formarsi una vulcanica voragine, e dal suo grembo uscire globi nerissimi di fumo illuminati dalle incerte e guizzanti fiamme, i quali agglomerandosi per l'aere, andavano in dileguo.

Rimasero attoniti i circostanti. Finì il combattere; poiché nessun riparo avevano i sollevati contro dell'incendio, nuovo ed orrendo nemico. Si salvò chi poté. Il primo piano fu preservato dalle fiamme per una poderosa volta che Io copriva. Accorsero i pompieri, ma l'incendio per lunga ora durò. Miserabile avvenimento, se fu casuale opera dello scoppio dei moschetti; condannabile, se nacque dall'apposita accensione di colpevoli carte, affine di disperder le tracce delle innumerevoli nequizie tramescolate in quell'infame muda.

Il 2.° Reggimento Svizzero proruppe sulla barriera distesa vicino all'edificio degli Studii, e combatté per circa un'ora; dopo della quale d'un tratto cessarono i fuochi nemici, perché i liberali,

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avuta appena la falsa novella

Tatto le altre barricate furono man nano dalle milizie espugnate, e conquise, dopo valorose ed ononorate fazioni, delle quali per amor di brevità non parlo, accontentandomi di dire in generale, che in talune barricate furon poche o mille le resistenze, in molte esiziali e tempestose, e quando l'impeto delle artiglierie ne sgombrava i difensori, facendole sbalzar per aria, questi ricoveravansi nei vicini palagi, e facevan fuoco sui soldati, i quali alla lor volta si spingevano innanzi in due file opposte, rasentando le mura, e incrociando i fuochi contro le finestre e i balconi: progredendo, forzavano i portoni, li scardinavano con le accette i Guastatori, e dove non «i poteva li schiantavano col cannone: salivano sugli appartamenti, e bistrattavano, o percuotevano, o ferivano quelli che ostilmente agivano, e li mandavan captivi, rispettavano quegli altri che nimichevoli segni punto non mostravano. Assicuratisi delle stanze, si postavano dalle finestre dai balconi e dai terrazzi, dirigendo fucilate là donde gliene venivan dirette. Conquiso un palazzo vi lasciavan presidio, ed a segnale di sicurtà un lenzuolo, o coverta, 0 tovaglia o altro lino bianco sciorinato; indi passavano in altro palagio, e poscia in altri ed altri, fino a che non si recarono al possesso di tutti i palazzi che fiancheggiavano i luoghi del conflitto.

In frattanto il Brigadiere Carrascosa, essendo ormai nell'ultima agonia la fortuna degl'insorti, cavalcava pei rimanenti quartieri della Città, ed era lieto di ritrovare quella tranquillità, che era il più chiaro argomento della riprovazione di ciò che facevasi da una casta sovvertitrice, sotto il mentito nome di popolo, nella scompigliata ed insanguinata Toledo.

Mentre nell'accennato modo la guerra civile ardeva, cose degne di memoria susseguivano da parte del Re, dei Ministri, e dei Deputati, che fa luogo qui raccoltam

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I Ministri, udito il primo scoppio dei fuochi, andarono alla Reggia per informavo il Monarca oralmente di ciò che pur troppo il guerresco rumore ormai divulgava. Re Ferdinando II ricevé alla sua presenza, ed al Ministro Scialoja, che andava in parole per lo ardore delle milizie, così prese a dirgli con severo piglio siete or contenti di aver gittata per le vostre opere il paese nella guerra civile? ed egli si mise a rispondere, che sarebbesi a tempo di riparare ove la Maestà Sua, ordinasse che il fuoco cessasse. Si cesserà dal fuoco, ripigliò il Re, ma come trattenere l'impeto dei soldati già troppo irritati, se voi non vi date la cura d'inculcare a' vostri perversi satelliti di cessare dall'offendergli ulteriormente? Così soltanto può sperarsi che il fuoco si smorzi, e l'ira si reprima. Al suono delle regie parole frustrati ed avviliti partivano. i Ministri, portando il rimorso del sanguinosa cataclisma.

In frattanto i Deputati, i quali, come si è cennato, erano, in trattative e fra varie speranze, al primo rimbombo del cannone, si ebbero la certezza, fatale per taluni, lusinghiera per altri, della incominciata pugna: rimanean taciti e confusi fra varii pensieri, secondo che le varie passioni portavano; quando alcuni frenetici col fine di aizzare gli sdegni entrarono frettolosi nella Camera presentando, le palle ancor calde di cannone, ed esclamando: Ecco i regali che si fanno dal Re alle Camere. Montò a tali detti la costernazione nei buoni, lo sdegno nei malvagi, i quali non si rattennero dal proporre consigli estremi,

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cioè un

Frattanto consideratosi, che l'ultimo Messaggio inviato a Sua Maestà non avrebbe più potuto ritornare, che non era conveniente allontanarsi da quel posto mentre ardea la guerra civile, fu fermato dai Deputati di tenersi in seduta permanente. Furon presentate altre palle per eccitare e commuovere, alcuni Deputati rendean tumultuosa la Camera con progetti e clamori stranissimi; e si venne alla seguente deliberazione.

«La Camera dei Deputati unanimamente ha deliberato di creare un Comitato di sicurezza pubblica con potere assoluto di tutelare l'ordine pubblico, e provvedere all'urgenza del momento».

«Che la Camera si dichiari in seduta permanente, e che chi dal suo seno si allontana sia dichiarato di poca fiducia della nazione».

«Che la guardia nazionale sia di assoluta dipendenza del Comitato della pubblica sicurezza».

«Che il Comitato riferisca alla Camera continuamente il processo delle operazioni incoate, e decreterà le ulteriori sue disposizioni, e che questo regolamento si pubblichi al momento».... '

«Da Montoliveto li 15 Maggio 1848».

Il Comitato composto da 5 Deputati diede cominciamelo al suo ufficio dallo spedire una deputazione al Ministero per informarlo delle prese risoluzioni; un'altra sui Vascelli francesi per impegnare l'Ammiraglio Boudin ad una mediazione, il quale, assicurante l'Arlincourt (1), era stato premurato da Leyraud, rappresentante della Repubblica Francese, a dare appoggio morale e materiale ai ribelli, ma l'Ammiraglio vi si negò.

Il Comitato facevasi ad inviare un messo al Generale Labrano; Comandante la piazza di Napoli, con una lettera del seguente tenore.

(1) Opera Citata pag.227.

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«Sig. Generale. La Camera dei Deputati, unica rappresentante della Nazione, è in permanenza, ed ha destinato un Comitato di pubblica sicurezza. Con questa qualità, di cui si è data partecipazione al ministero, il Comitato le domanda perché il conflitto tra la truppa e i cittadini sia nato, ed insiste perché cessi sul momento ogni violenza».

Il Generale in un viglietto mandato per mezzo di un Uffiziale dello Stato Maggiore, si facea a rispondere: avere inteso, che il conflitto era nato dalla parte dei cittadini, e che le truppe avevano ingaggiata la pugna dopo serie provocazioni; esser suo vivo desiderio di mettersi d'accordo con la Camera per far terminare quell'orrenda tragedia. Il Comitato mandò sollecitamente dal Generale i Deputati Pepe ed Avossa per trattare una sospensione di armi.

Pertanto le inviate Deputazioni non facean ritorno né dal Ministero, né dalla squadra francese, né dalla Piazza; poiché l'infuriare della battaglia rendea pericolose e impraticabili le vie, e spaventevole la stessa dimora di Montoliveto per l'infernale attacco del vicino palazzo di Gravina. Cosicché resi certi i Deputati del progresso delle regie armi stavansi disconclusi e contristati intorno all'ottuagenario Presidente Arcidiacono Cagnazzi, il quale chiamato a se La Cecilia, capitano della Guardia Nazionale, che rimanea a tutela della Camera, gli ordinò, accomiatasse tutti, non altri ritenesse che una sola Guardia di onore di dodici individui; venendo militari si aprisse la porta senza contrasto; richiedendosi le armi subitamente si rendessero.

Infrattanto avvicinandosi a gran fretta lo scioglimento del dramma, curarono gli Assembrati di stendere la seguente protesta. La Camera dei Deputati riunita in Montoliveto nelle sue sedute preparatorie, mentre era intenta ai suoi lavori, ed allo adempimento del sito sacro mandato vedendosi aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nel

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Elassi alquanti momenti entrarono nella sala di Montoliveto un Capitano Svizzero ed un altro della Guardia di Sicurezza, portando ordini, che l'Assemblea si sciogliesse; così che molti Deputati fecero ritorno nelle proprie case, altri fuggirono nelle provincie, ed altri si ricoverarono sui Vascelli francesi, donde, dopo qualche giorno, si mossero per a Civitavecchia ed a Marsiglia.

Per tal guisa la Camera fondamento delle nuore speranze fu disciolta e finì; ma l'orrenda conflagrazione divampava tuttavia, e si protrasse fino a sera innoltrata, durando per circa 8 ore, quando le truppe vincitrici ristettero dal trarre, e dichiarata la città nello stato di assedio, serenarono nei larghi e nelle principali strade.

I prigionieri furono menati alla spicciolata nel quartiere del Reggimento Real Marina, luogo fortunato e sicuro, fra Io scherno della popolaglia, la quale al primo segnale di guerra si era scatenata contro i liberali, indi passarono in numero di circa 600 a riempire la fregata Amalia, e i Brigantini l'Intrepido, e il Valoroso, i quali erano disarmati ed ancorati nella Darsena.

Molti furono i feriti ed i morti; perché oltre ai combattenti, molta gente si trovava

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per maledetta curiosità vicino

I modi delle ferite innumerevoli e strani, per quanto il modo del ferire svariato. Non mancò il caso di chi gittatosi o gittato dai balconi venne giù pesto e sfracellato, di altri che fra gli orrori dell'incendio, arrandellati da disperazione, precipitaronsi nei pozzi, pria morti che annegati, e di altri che svenuti per timore o per aria rarefatta, furono arsi dalle fiamme dei divampanti edifizii, o schiacciati dalle cadenti ruine.

numero dei morti non si sa di preciso. Affermossi, che furono trasportati nei Campisanti circa 1200 cadaveri, ma facilmente vi compresero gli spenti da morbi comuni (1).

Così fu mesto e procelloso il 15 Maggio!. Chi lo avrebbe mai detto, che un giorno destinato alla più ricordevole delle feste, l'apertura delle Camere, sarebbe stato giorno di guerra, di miseria, e di tutto! Eppure tanto è delle umane cose, le quali dal gaudio al duolo han breve il passo!

La notte del 15 si passò in calma; ma dileguata appena, e surto il nuovo sole, una scena commiserevole si offriva nei luoghi del conflitto. Le mura tempestate di buchi, e di sgretolature, segnatamente là dove più fitta era stata la gragnuola delle palle, e delle schegge; le cantonate qua e là rotte;

(1) Molti Svizzeri perirono sul campo, e fra essi il Maggiore de Salis, il Capitano de Murali, e gli Uffiziali Eyemann, de Stiirler, de Goumeaus, de Striger, uomini di fama onorata. Delle Guardie Nazionali scarsa fu la perdita, perché garantite dagli edifizii. Fra gli spenti noveravansi benanche 15 donne,3 ragazzi, un Laico di S. Teresa, ed un Sacerdote (Giornale Ufficiale). E monta qui riferire, che si trovò sotto la tunica di un guardia nazionale estinto una bandiera con sopravi questa leggenda in grandi lettere rosse. Repubblica, Napolitano,13 Maggio,

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le porte crivellate; i portoni scardinati, le finestre fracassate, le invetriate infrante; le strade disselciate, e ingombre dagli avanzi delle barriere, taluni balconi sterpati dalle mura, altri piegati o spezzati, e gli arsi palagi ridotti in neri e deplorabili abituri.

I napolitani erano in paurosa sollecitudine, le botteghe chiuse, i pizzicagnoli con le porte socchiuse, i cibi incanti, le rie maggiori presidiate dalle truppe, i pubblici uffizi sospesi, la città delle Sirene tramutata in campo lugubre e deserto. Accrescevano mestizia i cadaveri che si andavan togliendo per la sepoltura, e le novelle di casi miserandi, di ruberie, di eccidii, e di enormità commesse, le quali, per la Dio mercé, non furon punto cosi come la fama divulgava.

Questa fu la prima ecatombe che immolavasi al maligno genio della ribellione! Eppure felice sarebbe stata l'età se qui si fosse fatto sosta!


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INDICE

DEI SOMMARI

DEL LIBRO

CAP.1. - INSURREZIONE DI PALERMO.

SOMMARIO dell'anno 1848 foriero di calamità. I siciliani tramata ed annunziata in varie guise la rivolta, non si tirano indietro dal loro proposito a vista degli scarsi apparecchi dei Regii. L'alba del 12 Gennajo sorge sanguinosa e trista in Palermo. Manifestazioni amiche dapprima, ostili dipoi. Primi conflitti ed assalti. Forte ribollimento degli animi. Apparisce un Comitato che le ordite fila dirige. Il Luogotenente Duca de Majo spicca pei telegrafi la notizia a Napoli, e dispone variamente le sue truppe. La sollevazione progredisce. Si pubblica il Cittadino, prepotente mezzo di concitazioni. Infelice caso di militari famiglie. Cominciato il bombardamento se ne intimidisco!! molti, sospeso poscia si rimette l'ardimento, ed a rischievoli imprese si spingono, in talune delle quali vincono, in altre son vinti. Giunge a Palermo una flotta portante un gagliardo Corpo di Armata, gl'insorti ne rimangono sgomentati..................................................pag. 1

CAP. - L'ARMATA IN PALERMO.

SOMMARIO-Desauget mette in comunicazione il suoQuartier Generale con le preesistenti truppe; indi nulla di positivo fa. Addatisine i sollevati, riprendono animo ed armi. Assalto delle Finanze, del Convento dei Benedettini, e del Quartiere di S. Zita. Le comunicazioni tra i Regi di nuovo interrotte. Progetto del Luogotenente, e sue trattative col Pretore, le quali punto non rattengono la ribellione. Il Monastero di S. Elisabetta. Il Re affine di cessare la guerra manda opportune concessioni, le quali per turbolenti consigli sono respinte. Indarno si adopera per la pace Desauget. Strane pretensioni del Comitato. D Quartiere del Noviziato, e della Gendarmeria. Assalto dell'Ospedale Civile; sciagura miseranda degl'mfermi raccoltivi. Abban

dono del Regio Palazzo. Orrenda catastrofe dell'Olivuzza. Vandalismo della Magion Reale.

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Le Finanze ingannevolmente strappate ai Regii. Desauget volge L' animo al ritirarsi. Incomportabili pretese del Comitato. Disastrosa ritirata dell'Esercito..........................................pag.11

CAP. III. - CATANIA, MESSINA ED ALTRE CITTÀ.

SOMMARIO-Quasi tutta Sicilia imita l'esempio di Palermo. Insurrezione di Catania resa sanguinosa dalle poche milizie stanziantevi. Rivoluzione di Messina. Provvedimenti del Generale Cardamone. I Messinesi gagliardamente si fortificano e combattono. Le truppe ogni furore propugnano. Inutili trattative di pace. Sicilia tutta sollevata. Vigoroso combattimento del Forte di Castellammare contro le palermitane batterie. Cessione del medesimo. Decorosa partenza della Guarnigione......pag.27

CAP. IV. - COSTITUZIONE IN NAPOLI.

SOMMARIO -In Napoli ribollono gli animi. Il Re per ammorzare le minaccevoli faville largisce molte concessioni, e segnatamente accresce i membri e i poteri delle Consulte. Rumori nella Capitale. Moti, uccisioni e ruine nel Cilento. Il 27 Gennajo in Napoli. Ricomposizione del Ministero. Si pubblicano addi 29 Gennajo le basi della Costituzione. Feste e tripudio incredibili, e ripetuti. Apostoli Costituzionali. Il Re percorre la città. Disposizioni varie. Pubblicazione del promesso Statuto. Nuove ed iterate feste. Giuramento............................................pag.48

CAP. V. - INTEMPERANZE DEGL'INNOVATORI.

SOMMARIO-Cagioni per le quali gl'Innovatori si abbandonano ad ogni maniera d'intemperanza. Strane pretensioni di riformare ed allargare lo Statuto. Incomportabile licenza della Stampa. Dimostrazioni tumultuarie. Armamento generale. Sghembe mire intorno agl'impiegati. Circoli. Comitati. Espulsione dei Gesuiti. Tentativi contro altri Ordini Religiosi, e pericoli che ne seguono. Perenne ed importuna opposizione. Gravi e minaccevoli fatti che tenner dietro alle idee comunistiche. Leale incesso del Governo nelle vie costituzionali. Il Ministero, modificato ed accresciuto, declina il periglio di cadere. Forti ma inutili ordini avverso le turbolenti petizioni. Provvedimenti governativi nel senso delle costituzionali promesse. Le intemperanze montano sempreppiù ai danni del Governo.............................pag.48

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CAP. VI.

- IL COMITATO E 'L PARLAMENTO SICILIANO.

SOMMARIO-Obbietti principali a cui volgon l'animo i Siciliani. Schizzo della Cittadella. Apparecchi degl'insorti. Il General Pronio alle redini di quella guerra, vantaggia le condizioni dei Regii. Combattimenti varii, e segnatamente quelli di Marzo. Il Re affin di cessare il sangue accelera la tregua. Concessioni fatte dal Re ai Siciliani, e portate da Lord Minto in Palermo. Ultimato del Comitato Palermitano al Real Governo. Solenne protesta del Sovrano. Sicilia tutta in delirio. Parlamento Siciliano. Detronizzazione. I Siciliani si adoperano con fervore ma indarno per far riconoscere il loro governo dai Potentati Stranieri......................................................................pag.74

CAP. VII. - IL MINISTERO DEI 3 APRILE.

SOMMARIO-Mirabile successione degli avvenimenti in Europa, pei quali le pretensioni montano. Ottimi e sterili consigli dei Moderati. Mire vituperevoli di parecchi novatori. Caduta del Ministero Serracapriola. Programma fraudolento rifiutato dal Re. Agitazioni. Il Ministero Troja alle redini degli affari emette un programma accomodato ai tempi. Sembrano chetati gli animi. Spedizione di un Esercito e di una Flotta per la guerra di Lombardia. It Pontificio governo repugnante al passaggio delle napolitano truppe pei suoi Stati, infine con riserva lo consente. Partenza dell'Armata. Lega Italiana accesamente voluta e cominciata, rimasta disconclusa per le sbrigliate passioni, e pei tumulti di Roma seguiti ad un memorando discorso del Pontefice. Diverse disposizioni del Ministero.................................................................... pag.87

CAP. VIII. - I DEPUTATI.

SOMMARIO-II rivolgimento progredisce. Macchinazioni nella nomina dei Deputati. L'apertura del Parlamento è differita dal 1.° al 45 Maggio, e perché. Trame e fraudi rivoluzionarie. La nomina dei Pari addentellato alla rivolta. Taluni Deputati subodorato il programma del giuramento, si portano nel Ministero, e protestano: riuniti più tardi discutono intorno ai Pari. Seduta preparatoria del 14 Maggio. Distesa la formola del giuramento è inviata al Ministero, e dal Ministero al Re. 'Si riprende fra contrarie semenze la quistione dei Pari. Divulgate le vertenze dei Deputati si fa una moltitudine ribollente che ne patrocina i desiderii.

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Il Re non approva la formola; i Ministri si dimettono. Si accresce il tumulto, lì Deputato Cacace si porta nella Regia chiamatovi dal Re: frutti del suo colloquio. Sennate riflessioni del Deputato Abatemarco. Pratiche, parole, e grida tumultuose di taluni Deputati. Formazione delle barricate. Messaggio dei Pari. Il Re per evitare la guerra civile condiscende a tutto. La seduta preparatoria si scioglie........................................................................pag. 111

CAP. IX. - GIORNATA DEL 15 MAGGIO 1848.

SOMMARIO - Aspetto deplorevole e minaccioso di Napoli. Parecchi Deputati curano di evitare la guerra civile, ed il Re per l'istesso fine condiscende a tutto e decreta l'apertura delle Camere. I ribelli frastornano le benigne mire. Ulteriori tentativi di pace da ulteriori smoda te x.. e sventate. A rassicurare gli animi il Sovrano fa ritirare le truppe; ma le barriere per inetto consiglio non sono disfatte. Le milizie riprendono le abbandonate posizioni. Preparativi ed attitudine minaccevoli. Speranze dei liberali mal fondate, e perché. Le pacifiche trattative continuavano, allorché una moschettata ruppe gl'indugi; la pugna furiosamente divampa. Le barriere di S. Ferdinando, di S. Brigida, di Montoliveto, dopo furioso assalto e furiosa difesa espugnate. Orribile incendio del palazzo Gravina. Fieri combattimenti in altre barricate, pei liberali perduti. Tattica delle milizie e dei ribelli. Memorabili parole del Re. Tumulti, progetti sregolati, deliberazioni, protesta e sgombero dei Deputati. Vittoria universale delle milizie. Destino dei captivi. Feriti e morti. Il nuovo sole discuopre le vestigia orrende della pugna.................................pag.127

Pagina Verso ERRORI CORREZIONI

3 7 parlemitane palermitane

8 26 scovolta sconvolta

81 13 mattevasi mettevasi

43 35 ebbre ebbra

44 i puto punto

46 29 Genti Gente

55 34 pretenzione pretensione

66 4 inabizzare inabissare

84 44 istaurate instaurate

112 29 sedicenti seducenti

N. B. Le altre mende tipografiche sì rimettono alla benignità del lettore.

CONSIGLIO GENERALE

DI

PUBBLICA ISTRUZIONE

RIP. CAR.

N. 65.

OGGETTO

Napoli 21 Febbraio .

Vista la domanda del Tipografo Raffaele Cannavacciuoli, con che ha chiesto di porre a stampa l'opera del Sig. Giovanni Pagano intitolata - Storia di Ferdinando 11. Re del Regno delle Due Sir dite dal al .

Visto il parere del Regio Revisore R. Sig. D. Carlo Viola.

Si permette che la sudetta opera si stampi; però non si pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo stesso Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto esser l'impressione uniforme all'originale approvato.

Il Presidente

FRANCESCO SAVERIO APUZZO.

Il Segretario,

Giuseppe Pietrocola.







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