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IL CONTE DURANTE

RACCONTO DI AUSONIO VERO

PER IL SESTO CENTENARIO DI DANTE

SECONDA EDIZIONE

CORRETTA ED AUMENTATA DALL'AUTORE

ITALIA - MDCCCLXIV

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CAPITOLO VIII.

Come seppe il Monelli della cattura di quel borbonico, quale teneasi il Conte Durante, e lesse nel Pungolo e nella Patria essersi trovai lettere di Re Francesco, del Cardinal Antonelli, di Monsignor di Merode ecc. 0 le fila di una vasta congiurazione, nella quale erano intricate un ottanta e meglio di famiglie nobili e tutto il temere anche per sé. Perocché, avendo usato con esso e molto, dubitava trovarsi, lui invito, in qualche brutta faccenda. Ed a prima nicchiava. Pure, tenzonato alquanto tra il voler venire in aita del fiorentino ed il timore che non glie ne avesse a incogliere danno, senza neppure il meglio del povero prigioniero, l'animo generosissimamente naturato vinse questa trepidezza, e tennesi al primo partito. Sol che non sapea il come potere. Le rondini del passato reggimento avevano preso tutto a rondare per attorno al nuovo. Ma egli che non aveva piaggiato borbonici né bazzicava neppure per casa i piemontisti. Però sulla grande armata della rivoluzione, egli contava menoche mozzo. Ma, cercando alcun generoso, pensò egli potrebbe venir soccorrevole il Conte Giuseppe Ricciardi, carattere generosissimo Laonde, se per tempo in mezzo si condusse a Posilipo, dove in certa sua villetta, riposava da fatiche (che Dio e tutti i suoi Santi gli perdonino) quel singolare politico tra i politici della rivoluzione.

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Il quale, in quella che l'onesto Ricciardi giungeva ritenevasi con altro arcade suo compare, un maggiore di artiglieria per nome Nicola di Somma, uffiziale di ordinanza del Principe Umberto. E questo Somma era venuto a Napoli per accontarsi con esso Prefetto ed apprestarvi di conserva un bel ricevimento pel suo novello padrone, che doveva venire a rallegrare un poco di sua presenza il popolo napoletano... che tanto andava in ismanie di vederlo.

Diciamo novello padrone, poiché quel prode era napoletano, nobile, di famiglia per ogni modo beneficata dai Borboni, ed egli stesso creato a spese di Re Ferdinando. Soldato della impresa di Sicilia del 1818, un bel giorno, venia con crudel gioia mostrando ad alcuni suoi amici le mine che avea fatto con la sua batteria, in quella terribile fazione di Messina. Quel bel cavaliere poi, non si ricordò punto di essere italiano il 59 a tempo che le armi francesi vennero a sollevare Italia contro l'Austria, e non se ne ricordò neppure un mese prima della venuta del Garibaldi: perciocché di quei giorni domandasse di essere messo a servire in corte, come maggiordomo del Conte di Caserta. Ma via... se ne ricordò poi una volta... quando ebbe veduto compri i capitani che comandavan gli armati di Sicilia e quelli di Calabria, ed il Garibaldi passato sul continente ed il Re circondato da traditori... Oh! allora fu anch'egli italiano e, senza rischiar la pena dei disertori nel cospetto del nemico, disertò legalmente, domandando cioè la sua dimissione e passando a servire nell'esercito cui doveva combattere. Ed (intirizzisco a pensarvi) mosse a bombardare Gaeta, dove difendevasì il Re cui si era giurato, dove periva onoratamente il suo proprio zio, il Duca Riccardo di Sangro, che in lui maladiceva la vergogna del parentado! Ed ora questo Nunziantino, tronfio ed arzillo diceva;

Bisogna darsi da fare e molto. Bisogna che l'Europa

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creda che il paese ci voglia, che Casa Savoia sia amata dai napoletani più che Casa Borbone....

Eh! qui sta il busilli! Per il ricevimento del Re si spesero milioni e che tacemmo? Neppur tutti i pagati vennero a gridare...

Va bene. Questo per la piazza. Ma per la gente eletta bisogna pensare. Il mondo sa che il popolo non sta per noi e noi ce ne impipiamo, Ma bisogna che si creda ci sia qualcuno che ci ami. Perciò abboccatevi con quell'imbecille dell'Ottaiano e fate che alle veglie di palazzo non vengano i garzoni dei caffè e le pubbliche meretrici, come la sera che il Re ne invitò a ballare...

E chi ci verrà se non queste. Polcheremo insieme? Caro Signorino mio, voi di che paese siete? Persuadetevi, amico, questo è tempo di canaglia, non di cavalieri!

E mentre così ragionava, ecco interrompere gli alti discorsi il Ricciardi. Il quale, colmo di falsi complimenti e bugiarde carezze dall'Afflitto, prose a dire che egli non mai avrebbe messo piede in quelle stanze, dove non vi fosse tratto dal desiderio e dal dovere di farvi udii la voce della temperanza, virtù affatto sconosciuta dai piemontisti.

E già da sempre spiritoso il nostro caro, il nostro gran Ricciardi diceva il Prefetto, stringendo i denti e guardando a settentrione, mentre l'interlocutore sedeva a mezzogiorno. Ma costui avendo cominciato a narrare di questo e quell'orrore che si passava per Napoli, l'Afflitto scusavasi col solito tempi eccezionali! Eccezionali misure! Ma finiranno via, finiranno Ed allora il Ricciardi che no, che non finiranno, che vanno invece crescendo, che son quattr'anni e si va di male a peggio e per tal via si uscì finalmente all'argomento del Conte Durante. Allora divenendo sabatico l'antico birro di Bovino;

Ma come, cominciò a gridare, voi prendete a difendere nomini cosiffatti?

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Volete dunque i briganti a Napoli? Ma che. non siete italiano voi?

Auff! Afflitto! Afflitto! Io era italiano quando voi... quando voi... Basta, non ricordiamo il passato.... Siamo amici, liberatemi questo povero Durante, e mandatelo via.

Ma no! Ma questo non farò mai, e mi maraviglio che un liberale come voi possa sposare causa si brutta.. Non sapete eh! non sapete il colore di questo vostro fiorentino?

Sì Ma ora. io non veggo in lui che il colore della sventura, il quale è sacro per tutti e vuole essere veduto da qualunque cui si rivolga, qualunque massima professi o serva. Cosi intendo io l'esser liberale: non il sovrappesare prima per una idea e poi per altra. A lei dunque raccomando il Conte Durante. E poiché non vuole udir consiglio di clemenza, ascolti l'appello di giustizia. Faccia sia giudicato presto e non paghi una pena prima che i tribunali lo abbiano dichiarato reo, una pena forse più aspra di quella si avrebbe quando condannato. Io poi, Signor d'Afflitto, parto sempre più persuaso e convinto che non abbiamo cangiato tirannide ma tiranni, e (sia dettò qui nella stanza dell'amicizia) di gran lunga peggiori!...e di gran lunga lunghissima. E sì che creatori dei potenti di oggi non sono i Ricasoli ne i Rattazzi, ma i Peccheneda, i Murena, gli Ajossa che non li seppero prendere ai loro soldi o con servare.

E partì, lasciando nel riso quei due neoitalianissimi ma un riso brutto quanto la bestemmia era quello. E di vero, se riccamente pagati i sicofanti della setta de' piemontizzatori, sono anche più giustamente regalati di ogni fatta d'ingiurie da ogni gente. Delle quali non si rifanno altrimenti che su quei miseri che caggion loro fra le ugne. Però il Conte Durante più costava rovello all'Afflitto e maggiormente diveniva segno alle sue vendette: né certo potevasi per allora sperare di

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vederlo uscito di gabbia, o tradotto innanzi a tribunale? che quello non fosse di un caporale piemontese.

Fra le pene corporali la pena che le leggi degli uomini tengono minore, indubitatamente si è la prigionia. Pur dove ponghi mente che essa è la men naturale (poi ogni dolore e la morie istessa è condizione degli uomini e la immobilità no) dove ricordi la libertà essere all'anima ciò che il pane al corpo, che non dubbio sia men nobile dell'anima, la prigionia dovrebbe considorarsi il castigo maggiore della vita.

Ma dunque, ne risponderà taluno, sono più clementi i Piemontesi che come veggono o pigliano uomo, che tengono avverso, lo fucilano issofatto e non so no parla più?

E più umana, mi dirà tal'altro la legge Pica che caccia alla fame, alla malaria e ad ogni miseria, meglio che ventimila infelicissimi? Solo in Sardegna tredicimila?

Oiho! Non diciamo questo. Noi non filosofiamo con la dialettica della rivoluzione. E poi i piemontisti non fucilano solamente. Le carceri dello sole provincie napoletane nascondono meglio che quarantamila prigionieri politici, quasi tutti ingiudicati, e parte di essi innocenti più di quello amore di patria che i rivoltosi seduti tengono ora delitto di maestà. Nel parlamento stesso di Torino se ne confessano or ventimila or trentaseimila ecc. E la prigione nella quale venne cacciato il Conte Durante è il Caserta, il Versaglia delle carceri napoletane e piemontesi: poi lo antiche provincie di casa Savoia, tutta «l'Italia Prigionària», come la si è battezzata in Parlamento, non ne han neppur esse di migliori. E questa cosi detta «Italia prigionaria» è vergogna della umanità tutta quanta. Il Marchese Gustavo di Cavour diceva a proposito delle carceri della metropoli momentanea dell'Italia, queste proprio parole; «Chiamo l'attenzione dell'onorevole ministro dell'Interno sullo stato veramente doloroso, in che si trovano da tre mesi, lo prigioni di Torino.

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Questo stato è contrario all'umanità ed all'onore di una nazione civilizzata. Per una sordida economia, i nuovi detenuti sono gittati sulla stessa paglia che ha servito ai loro predecessori, che possono avervi lasciato infermità contagiose».

Il Bellazzi nella tornata medesima dichiarava che le carceri di Genova sono «una vergogna per Italia». Il de Boni comparava quelle di Napoli «a caverne antediluviane» e diceale «ingombre di miserrimi 1»

1 Leggi la Gazzetta Uffiziale del regno d'Italia, seduta del 25 Febbraio 1863 e vedi l'indegnazione, onde fu preso il deputato Crispi in visitando le carceri di Palermo, Noi potremmo ancora riportare qualche brano del discorso di Lord Arrigo Lennox, ma preferiamo la dichiarazione del Fornitore Uffiziale delle prigioni di Sicilia Michelangelo Cammineci «Io ho veduto a Palermo ventitré giovani condannati come disertori, quasi nudi giacere Sulla terra, coverti di piaghe e di pidocchi, mentre che seicento vestiti di lana, appartenenti al governo, sono divorati dalle tarle nei magazzini delle prigioni. In un'altra camera ferrata giacciono infiniti sventurati, metà od intieramente nudi, che non ne sono usciti da quattro mesi. Si vanta il sistema cellulare: ma non se ne praticano che i rigori. Mille e trecento altri prigionieri non son punto trattati meglio. Pochi giorni fa alle cancellate esteriori della prigione vedevasi sospendere una folla di donne portando fra le loro braccia i loro bambini, domandando notizie dei loro mariti, dei loro fratelli, dei loro padri, dei loro figli, non sapendosi se son morti o viventi. Il sottodirettore della prigione diceva ad una sentinella «allontanate queste donne a colpi di calcio di fucile». Allora è veduto il soldato passare il fucile ad uno dei suoi compagni: dicendo «Io non so servirmi di esso contro povere femmine, contro creature di latte». Io piansi abbracciando quel bravo giovane che piangeva anch'esso egualmente. Il detenuto che sospira è messo a pane ed acqua, lo sono pronto a provare ciò che ho detto innanzi a qualunque, Perché io appartengo al partito che solo dovrebbe esistere, quello dell'Unità d'Italia, certo aspetto pronta giustizia dall'intelligenza del Commissario del Re, e se il direttore deve soffrirne danno, in questa rivelazione, come egli è padre di sei figli, io mi offro d'indennizzarlo di ciò che egli perderà, sino a che egli sia impiegato con soldo corrispondente.


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E dicea bene miserrimi: poiché lo stesso Guardasigilli Pisanelli, non significava egli che conosceva quattro marinai, prigionieri da due anni, senza che ancorasi appuri per quai tribunali abbiano ad esser giudicati? 1

Il modo perché furono tenuti il Conte di Christen, un Caracciolo, un De Luca ecc. straziati, messi alla catena, vestiti dell'assisa dei galeotti, strascinati di bagno in bagno, sono sbregi che lasciano cicatrici vergognosissime sulla faccia di questo governo riparatore. «Il n'y a point de plus cruelle tyrannie de celle que l'on exerce a l'ombre don lois et avec les couleurs de la justice.» diceva quel liberalissimo del Montesquieu.

Ma noi, tornando a bomba, crediamola prigionia, giusta o no, esser sempre la più innaturale dello pene corporali. Ed invitiamo gli umanitari a studiar castigo più confecente all'uomo, a trovar modi di non farlo patire ai non ancor giudicati, o i condannati per altra via dividere dalla comunanza dogli uomini, ed impossibilitare a delitti novelli

Frattanto, minore o maggior pena che fosse la prigionia, non sarebbe stata essa durissima per cui non più tange miseria degli umani, siccome il Conte Durante, il quale si uscia di altro carcero, di altri tormenti e che aveva durato più secoli. Ma questo si han di più cocente le prigioni politiche delle Sicilie, che vi scorgi la fede tribolata dalla forza, l'innocenza oppressa dalla disonesta, l'infamia sublimata al grado del diritto. Porò più che Purgatorio sono esse, e sono peggio che Inferno. Conciossiaché in questo vedresti

» Dico altrettanto pel sottodirettore, ma non posso transigere con la umanità sofferente.»

I mille trecento prigionieri hanno essi pure parecchie migliaia di figli innocenti. Cola si muore tutti i giorni di privazione e di miserie. Sotto l'eroe Vittorio Emanuele, nel 1863, ciò non dovrebbe succedere nella libera Italia.» Questa lettera è stata riportata da quasi tutti i giornali italiani.

1 Seduta del Parlamento Italiano del 12 Dicembre 1863.

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tormentati gli scellerati, i nemici degli uomini e di Dio e trionfata la giustizia; in quelle proprio il contrario, e tremi per la umanità tutta quanta, temendo in futuro non abbia a prevaler stabilmente sulla terra la negazione dell'onestà. Laonde l'anima di Dante crucciavasi amarissimamente, benché creduto avesse a Dio sulla terra, e fuor della vita il sentisse.

Ma, dando tregua un poco al dolore, diremo come nel frattanto che il Conte gemeva nelle prigioni di S. Maria Apparento, gli fosse udito quel Tacchini, di cui suso narrammo, essersi uscito di vita per infermità che i medici non seppero definire. Egli è vero che taluno diceva lui esser morto di sfida rientrata, poiché lo spadaccino erasi cosifattamente accorato del non aver potuto, secondo esso, dare una lezione a quel fagiolino di fiorentino, che ne fu allo stremo. Ma noi che sappiamo come si muoia per duello combattuto, non possiamo comprendere come si potesse morire anche per duello fallito. Però passiamo oltre, e di quella perdita facciamo di consolare chi n'è mesto, con il racconto dei funerali.

I quali furono fuori modo sontuosi. Al mortorio tennero dietro tutti gli armieri, i mastri di scherma, gli assaltatori ecc. con trofei di maschere, fioretti e pettorali. Indi tutta la famiglia giornalistica con vessillo di quattordici colori, nel cui mezzo ora segnacolo una chimera con festa e coda di asino, ali di oca, corpo di maiale e grifi di avvoltoio. La divisa di quello stemma era Auri sacra fames, e la Croco dei SS, Maurizio o Lazzaro vi stava sotto, e sopra lo scudo una corona di alloro, ma intrecciata di salsicce. Dietro ai giornalisti e ad altra schiera di amici seguivano deputati e senatori, ma senza vessillo né divisa, e quindi i poveri dell'Ospizio di S. Gennaro ad corpus con quello loro solite bandieruole, unico monumento della, napoletana costanza.

Il cadavere del Tacchino fu portato alla sua cappella

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pentitizia al Ponte della Maddalena, Mala dimane quando si fu per celebrare i funerali, i preti passagliani (che solo potevano ciò far poiché il Conte era stato senatore o morto scommunioato per voler rimanere senatore anche di là dal mondo) i preti passagliani, diciamo, dichiararono non potervi intervenire,. Conciossiaché alcuni di essi dovessero assistere allo nozze di tra Giuseppe da Forio o della monaca Caracciolo, od altri avevan fermo di andare alla taverna del Carcioffo con certi membri del corpo di ballo, per convertirli alla loro ortodossia.

Come dunque fare? Ed allora, come pei funerali del Coputo si era provveduto che cioè vestironsi da sacerdoti alcuni temigli e facchini di Palazzo, il Pisanelli, per avventura giunto di Torino in quello stante, divisò abbigliare dei paramenti episcopali il Tupputi Generale della Guardia Nazionale. Questi, sollucherato dall'essere adibito anche a quest'altra mascherata, alla bella meglio pontificò e fece le absolutiones, assistito da altri generali e colonnelli della medesima arma cittadina, quale vestita da diacono, quale da suddiacono, quale da spegnimoccolo ecc. E cosi le gazzette ufficiose strombazzarono che «l'Arcivescovo di Babilonia con il suo clero aveva solennizzato i parentali di quel senatore», e il Pisanelli mostrò come bene si possa tenere la Chiesa ed anche chi apostatava da Essa.

E la messa solenne era stata musicata dall'italianissimo maestro Filippo Troise, che tramutò in sacri canti una serenata, un aveva composto per certa Noemi, amanza di un suo aulico padrone, che non occorre qui rammentare. Ma dirà taluno, che ci entra la serenata con la una messa? E sappiamo: ma per musici quali il Troise o per servigi ecclesiastici come quelli si celebrano per scomunicarli, non credete poi ci fosse molto che ire. Ma via, buona o mala che fosse la musica fu cantata, ed i nervi degli uditori sanno come, poiché in udirne l'autore,

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non vi ebbe che i coristi di San Carlino che vi si prestassero.

Fornite poi le absolutiones si venne a tenere, praesente cadavere ed il Tupputi in faldistorio, un'accademia più che mortuaria, mortifera, in onor «dell'uomo di stato che perì non disertando il campo dell'italianità.»

Perciocché molti e letterati e politici, ed anche illetterati, che erano convenuti, lessero loro prose e versi, quasi non bastasse un sol crepato. Il Barone Giuseppe Gallotti disse l'elogio funebre dell'estinto, opera che per verità egli solo potea fare, ed il Signor Saverio Baldacchini, sciolse una dozzina di sonetti, nove dei quali contro il Papa. E certo quel già cattolicissimo letterato con non migliore opportunità sciorinavali, che allorquando fattosi nominare Accademico Ercolanense, non sapendo di archeologia, in una tornata di suoi nuovi colleghi, prese a trattare del poter temporale, peggio che non avrebbe fatto di una epigrafe osca. Dietro il Baldacchini era il Quercia, e questi lesse una sua prosa in cui assai eruditamente si dilungò sulla estetica delle stoccate. Pochi e buoni versi, ma frigidi come quelli erano scritti per cortesia non per poesia, lessero il Signor Colucci ed il Marchese di Bella ed il Cavalloni Indelli. Quindi il Signor Alfonso della Valle applicò al defunto un sonetto del Filicaia, scritto in morte di Giovanni Sobieschi; e ciò faceva cangiando bellamente il nome dell'eroe polacco in quello del Tacchini: e dopo l'egregia fatica di quell'anima infiammata sempre e non cocente mai, un Signor Stanislao Gatti ed un Signor Turehiarulo presero a discettare di metempsicosi; ma non furono di accordo sull'animale o il vegetale, nel quale sarebbesi tramutato il nobile estinto.

Queste cerimonie, queste accademie sono pur gloriose: ma esse non si seppero in Santa Maria Apparente, perché il povero Durante se no potesse confortare. Conciossiaché un certo rimordimento martellassegli la coscienza. Temeva non la bella con cui egli aveva risposto

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alla sfida del Conte Tacchino fosse stata veramente causa della finita di quell'uomo, che aveva fatto del duello un elemento della propria esistenza, quel bene nel quale, a suo dire, e anima posa. Ma questo do loro non tardò ad essere superato da altri e più serii, per il che in profondissima melanconia ricadeva lo spirito del Poeta.

E nel mentre che più travagliavasi e rifuggiva nella preghiera, senti quasi scossa da terremoto la prigione, e l'aere fecesi corrusco, come quello che sovranza al Vesuvio, quando la faccia della terra innonda della fiamma intestina. Ed allora, apertasi la muda, affigurò novellamente lo apmto di quel Magno che trasselo della cerchia degli iracondi. Il quale, senza più metter parole, afferratolo per la destra, il trasse fuor di quella stipa incontanente. Quindi, lanciatolo sur una nuvoletta, non diversa da quella per erasi uscito dell'isola del Purgatorio, dissegli Piangi né più: e torcendo la faccia mestissimo dallo aspetto della patria sua, la luce di lui si perdeo in quella del Sud che sorgeva.

Il Conte Durante, come dimostrammo ramino, avevasi avuto grand'agio di correggere e quella sua prima opinione, che a Napoli cioè non fosse misvoluta la ruina che vi viene facendo la tirannide della setta unitaria. E, certo, sessantamila birri e spie ed accoltellatori della polizia mantenuti in quelle cosiddette provincie meridionali «convitate a goder le libertà dello statuto piemontese»; la dichiarazione che gli stessi spudorati giornali della prefettura di Napoli facevano dell'essersi ricevuto dalla loro questura cinquantamila denuncie, non pili che dal 1 gennaio 1863 al fìn di giugno del medesimo anno; la notizia cui ne diè il deputato Ricciardi, che il Galantuomo, nel suo soggiorno a Napoli, di soli venticinque giorni, vi ricovero meglio che ottantamila: supplicazioni 1; il veder nella sola metropoli della Sicilia

1 Seduta parlamentare del 22 Giugno 1863.

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peninsulare perpetrarsi un mille cinquecento undici visita domiciliari nel corso di non più che tre mesi 1; il sapersi come lo stesso console inglese residente a Napoli, scrivesse al Lord Palmerston «il malcontento e la gelosia continuano a Napoli contro gl'Italiani settentrionali e regna il terrore nelle provincie ed al postutto gli spessi stati d'assedio e 'l veder sostenuti gli stessi rappresentanti della nazione, avrebbeno potuto a dissuadere altri che l'Alighieri, a scuotere anche la coscienza di uno Sterbini o l'intelletto di... di un Carlo Poerio,

Parecchie volte così, come per maggior penitenza, aveva preso in mano la Gazzetta Ufficiale di Torino e l'aveva sempre trovata pinza e ripinza di decreti dissolventi guardie nazionali e magistrati municipali per reati di complicità con i briganti o di scarsezza di zelo per il governo. Aveavi letto il deputato Ferrari, dalla tribuna di Torino, dire «la repressione del brigantaggìo diventa un vero caos di guerra civile. Voi non mi volevate credere quando io vi diceva che avea visitato le provincie meridionali e che aveva veduto una città di cinque mila abitanti distrutta, e da chi?.... Forse dai briganti?... No!... Ora, Signori, sappiate che si fucila, che si imprigionano le famiglio, che s'imprigiona in massa. E una guerra da barbari! Una guerra senza quartiere!...... Io non so come spiegarmi, se il senso morale non vi dice che noi nuotiamo nel sangue 3.» Avea letto l'ordine del giorno del Gemelli prefetto della provincia di Otranto, per che vengono fucilati i congiunti degli insorti sino al terzo grado di parentado 4. Conosceva i bandi del

1. Vedi colpo d'occhio sulle condizioni pel Reame delle due Sicilie nel corso dell'anno 1862.

2 Dispaccio del 2 Aprile 1862.

3 Tornata della camera dei Deputati del 29 Nov. 1862.

4 Ordine del giorno di G. Gemelli Prefetto della provincia di Otranto Lecce 23 Ottobre 1862.

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Fumel (L'ENERGICO, come il cognominarono le livree della stampa!) quelli del Fantoni, del Galateri ecc. che ingiugne sia passato porlo armi qualunque si rinvenga portante un frustolo di pane quello del Prefetto di Foggia che irroga morte a chi ferra cavalli senza il permesso della prefettura od aveva lotto non mono la mozione d'inchiesta del deputato Proto, il Duca di Maddaloni.

Ed in quel poco di giorni, che a Napoli aveva fatto stanza, bene potè addarsi come non fosser punto accusazioni sfavate quelle del Duca. Aveva veduto come veramente la setta dei Piemontizzatori a Napoli «avesse infrante e sperperato le forze e le ricchezze da tanto secolo ammansate, annullata la pubblica istruzione, per corrottissimi tribunali lasciato cadere in discredito la giustizia, al reggimento dello provincie messo uomini di parte spesso sanguinosi ladroni, cacciato nelle prigioni, nella miseria, nello esiglio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi sieno o no, che anzi più facilmente se onesti), ma i loro più lontani congiunti, quelli che ne hanno appena il casato». Né men verace aveva trovato l'accusa che i sicofanti della rivoltura piemontese facessero i teatri scuola d'immoralità, di miscredenza, di ateismo, che cangiassero in postribolo tutto; e l'accusa della propaganda eterodossa manodotta e spallegiata dal governo per isbattere «l'unica e naturale unità della penisola, l'unità della sua fede, culla e palestra di ogni italiana grandezza.» Ed aveva appurato, anche prima, quella d'aver posto la menzogna in luogo di ogni verità e travolto il senso pubblico e le veraci

1 Ordine del giorno del Piemontese Fumel. Celico 1 Marzo 1862, e quello del piemontese Fantone Lucera 9 Febbraio 1862. Egli fu dopo dopo crudelissimi bandi che Napoleone III credette dover indirizzare al Generale Fleury il dispaccio ai Vichy 21 Luglio 1862, divenuto famoso pel gran conto che ne fecero i ministri della sua figliuola Italia.

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idee di virtù e di onoratezza; e quella che il governo di Piemonte «arma i cittadini contro ai cittadini e tutti in una vergogna conculca e servi e avversari» e fautori».

Di vista e di udito aveva potuto scorgere come, veramente «nel reggimento delle Sicilie non fosse unità di sistema né di massime, non mezzi, non fini determinati, non giustizia distributiva, ma invece espedienti di governo presi e dismessi secondo le esigenze dei casi, personali favori ed ire personali, sdegno della propria gente, non amore di patria, non il paese ma una setta 1» Ed ora la grande anima venia anche in grado di vedere per sé medesima fatti anche più atroci, che quelli che aveva udito a dire o letto,

Concioffossechè, non appena abbandonato dall'Aquinate, discernesse turba di uomini e di donne, e quali fanciulli, quai vecchi, laceri, grami, piangenti, a cento a cento legati, strascinarsi alla marina e colà, da soldati piemontesi, venire abbarcati sui piroscafi dello stato, che portavangli nelle isole di Sardegna o di Toscana, od alle gelide stanze delle Alpi. E quei miseri erano vittime della legge Pica, questa nuova infamia d'Italia, che danna al più feroce ostracismo i sospetti di favorire la guerra d'indipendenza, quelli con nuove parole diconsi manutengoli del brigantaggio. Ed essi erano parte di altri meglio che ventimila, tutti cosi deportati. E quale piangeva il povero campo abbandonato e però il pane della vita sua, quale la famigliuola innocente e i dolci amori e la terra che covre l'ossa dei parenti e il tiepido clima e il purissimo aere di sue Contrade, mutati per le maremme pestifere di Oristano o lo perpetue nevi di Fenestrelle. Ahi miseria! E fra essi erano venerandi sacerdoti, costretti a lasciare il gregge innocente

1 La Mozione d'inchiesta del Duca di Maddaloni deputato al Parlamento Italiano. Nizza Serietà Tipografica 1862.

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fra le più ferocissime belve e lo più dissolute. Erano povere madri che strappavansi alla cura dei figliuoli: erano spose che involavano ai mariti: erano figliuoli che rubavansi ai cadenti genitori: erano fanciulle che strascinavansi all'esilio non solo ma alla prostituzione.

Ed i più di quei miseri venian profondati in tanta miseria, qual perché un suo congiunto combattesse, e le armi della rivoluzione nol sapessero vincere ancora né prendere; qual perché inviso a taluno di quei despoti del paesello che si accomunano con vincitore qualunque quale perché accusato dal borghese usuraio che vuol frodarlo del censo; quale perché la sorella o la sposa destò le male voglie del ricco o dell'occupatore. Né tra essi vedevi pochi di coloro, che non dispettando la rivoluzione, ne schifavano poi il mal governo, o di quelli che non vollero spalleggiare la candidatura di questo di altro osceno proposto a deputato dal proietto. Vi aveva anche taluno che nei consigli comunali o fra le armi cittadine ricusava fare il piacere assoluto dei ministri o di chi per essi.

Ahi miseria! E lo spirito dell'Alighieri avrebbe voluto né più vedere, né udire ma

L'alto fato di Dio sarebbe rotto,

dove Lete potessesi passare senza alcuno scotto di penitenza. Però prendendo forza dal dolore medesimo contro al dolore, facevasi a vedere poco lungi di colà come venissero tratto a lavori forzati, per tutta la vita, madri infelicissime, e belle e vereconde fanciulle, quali di quattordici e quali di dieciotto anni, udia dannate a dodici di ferri, mentre il tribunale dichiaravate innocenti, sentenziava non esservi luogo a procedimento giudiziario 1. E che più vale la vita a quelle misere, poiché la giovinezza è per esse più dura che la vecchiaia,

1 Vedi i discorsi del deputato Luigi Minervini

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poiché il bel fiore dell'innocenza perdevi fra quei lupanari dello stato, ove sarebbe non più veduto prodigio il potersi serbar non vilissime, poiché né bacio di sposo le aspetta né gioia di madre, né dei figliuoli le cure, e non il conforto supremo del poter volgere in se medesime lo sguardo, senza arrossire?

E quelle misere non eran ree che di esser moglie o figliuole a quelli cui forse fecero indarno di arrestar sulla soglia di loro abituri, il dì che mossero a combattere l'invasione del proprio paese. E la sentenza che irrogava loro l'infamia e la schiavitù non era già sentenza di magistrato ma di polizia! 1 Ahi! Ahi! ed il Poeta facevasi velo agli occhi con le mani. Ma, rimossele per affiggergli nel cielo, corsero invece sopra i campi cui discerneva bianchi di ossame, e vedea rosseggiar l'orizzonte per gl'incendiati boschi e le ville. E meglio che venticinque fra villaggi o città scorgeva invasi dalle arme piemontesi e date al sacco, e vedeavi stuprate le donne fin sopra i gradi dei sacri altari e dato alle fiamme ogni cosa, perché nell'incendio perisse pur la memoria dei delitti ivi perpetrati e dei sacrilegi.

Ed allora i fuggiti al carnaggio correvano tutti ad aggiugnersi ai miseri descritti a militar per un principe, che ruppe fede al loro monarca e ridusselo esulo e povero a Roma, per un popolo che opprime e froda di ogni ricchezza e soqquadra il natio loco, per un reggimento che move a guerra rotta contro alla religione dei padri, contro alla morale della società, contro tutto cui si avevan di caro e di sacro, E di costoro si facea grosso quel glorioso pugno di soldati che, renitenti i capitani, non vollero anche essi invilirsi, ed afforzavansi quello indomite schiere che per quattro anni di guerra sempre viva e crescente dichiararono ad Europa ed al mondo traditi essere stati ma non traditori tutti dell'esercito di Re Francesco, la nazione napoletana protestar con sanguinoso plebiscito

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contro al ridevole broglio del plebiscito delle sette.

E per ogni canto del regno vedevi guerra spicciolata, ed i pochi nostri vincere quasi sempre gl'invasori. I quali, quanto per agguato o per taglio si avean fra le unghie i fortissimi avversari, senza neppur forma di giudizio, gli passavan per le armi issofatto. E di questa morte cadevano meglio che ventimila napoletani dal cominciar della guerra; e tutti, come proclamava la stessa Commissione d'inchiesta del brigantaggi, animosi e lieti accoglievano nel petto i colpi de' loro assassini. Né pochi di que' miseri gridavano a quelli che fucilavangli:

Noi moriamo Ma voi non potrete fare che i nostri figliuoli non riveggano sul trono il Re nostro!

Ma non cosi i Piemontesi Un trenta di essi, fatti prigionieri da quel fortissimo Gaetano Fuoco, il quale campeggiava per l'erta del Vesuvio, pallidi e tremanti esclamavano Poi la Madonna! Grazia! ed il Fuoco:

Per la Madonna! rispondeva, Davvero?... Andate dunque o malann'aggia colui che non impietosisca a tal nome!

Ed i Piemontesi fur liberi. Ma indi a poco due di quella banda napoletana, fatti prigionieri, vennero cacciati nelle carceri di Caserta, dove tenevansi digiuni da due giorni E Pane! Pane! gridavano essi affamati. Ma niuno rispondeva loro, niuno!.... finché, schiusosi il doloroso carcere, si fecero alla porta, credendo ricevervi alimento... ed invece furono strascinati nella corte e fucilati. 1

Il Poeta aveva letto e quasi non creduto, come un contadino di Livardi per nome Francesco Russo, ferito nell'anca, vivesse da più dì in tranquillo presso la consorte e i figliuoli, sotto la fede di un indulto.

1 La Mozione d'inchiesta del Duca di Maddaloni. Nizza 1861.

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E benché gli amici di lui, dicessergli si celasse, non si credesse alla grida del Pinelli, egli, non tenendo possibile un soldato rompesse fede, taceva come a fidanza... Ed i piemontesi ruppero nella casa sua e il tradussero a Nola, ed il fucilarono Sapeva essersi bandito che risparmiavasi la vita a coloro abbandonassero gl'insorti e si presentassero agli imperanti militari, e che nel frattanto un contadino della Campania per nome Luigi Settembre, presentatosi a preghiera di suoi vecchi genitori, immediate venne fucilato, ned altrimenti che se fatto prigioniero nella pugna «Però i due genitori superstiti,, affermava il deputato Proto, uccisa dal rimorso la ragione, vagano dementi per la campagna» Era a Napoli il Conte Durante, quando uno scellerato di Somma, villa suburbana di Napoli, faceva che il capitano piemontese Conte del Bosco vi accorresse e prendesse sei cittadini pacifici, e senza forma di giudizio, senza conforto di religione, colà sulla pubblica piazza, facesse passar per le armi quegli innocenti. Tra questi era un giovane ventenne, uffiziale della Guardia Nazionale che giaceva presso a bella consorte cui erasi disposato da pochi dì.

Aveva letto come presso Lecce fossero sorpresi tredici antichi soldati napoletani, i quali non avevano che sette moschetti, e pur venissero tutti e tredici mesi a morte. Sapeva a Montegilfone, di quei giorni, essere stati sostenuti ottanta insorti, de' quali venivano fucilati quarantasette. Medesimamente non ignorava come, doma la insurrezione di Montefalcione, cinquanta due ribellati divisassero scampare alla strage, rifugiando nel tempio, ed i soldati piemontesi, abbattute lo porte, vi irrompessero, e quei miseri venissero scannati nella casa stessa del Signore, a più degli altri ai quali teneansi abbracciati. Il Bonelli stesso avevagli conto che su per l'erta del Gargano furono sostenuti assai carbonieri, e, benché presso alle loro fornaci, mispresi per briganti,


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venner pacati per le armi issofatto, nel cospetto medesimo delle loro spose, e dei figliuoli. E lo spirito del Poeta vedeva ora di per sé medesimo incendiare tutti gli abituri dei villici e le cascine e le grancie, per tema vi avessero a riparare gli insorti, e vedeva bersaglieri, e carabinieri trarre addosso a tutti che portavan farsetto di velluto (usata veste dei contadini del napoletano) sol per sospetto che fosser briganti.

Aveva letto le funeste descrizioni delle stragi e degli incendi di Pontelandolfo e di Casalduni, fatte dal deputato Proto e dal Ferrari, testimone oculare di quello rovine, ed aveva letto anche l'immanissimo telegramma del Cialdini

Ieri mattina, all'alba, giustizia fu fatta

contro Pontelandolfo e Casalduni.

telegramma che faceva esclamare al Duca di Maddaloni «No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portato la novella di questi orrori!». Pure, poiché il leggero e lo udire è sempre da men che il vedere, l'Alighieri era preso da maggior raccapriccio, anche per fatti men crudi. E frattanto dall'aerea mia navicella affigurava a Baiano un giovane contadino, il cui tempo non era più che di sedici anni, e, questo il vedea sostenere per aver fatto certo segno agl'insorti, dall'alto di un castagneto. Interrogato, gli udiva confessare buonamente Si, ho fatto questo perché fuggissero. Temeva un combattimento per cui mi sarei trovato fra due fuochi Ma, detto ciò, questi che avea nomo Antonio Colucci venia strascinato a morte. Però vedea giocarsi alla mora chi dovesse ferire: sicché il triste officio toccò ad otto guardie nazionali e, tra essi, a tale che che era padrino del povero garzone.

1 Dispaccio telegrafico da Fragneto Manforte 14 Agosto

ore 7 a. m. Giornale ufficiale di Napoli n. 194.

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Accorsi il padre di questo e la madre, eglino non potettero rattenere i cannibali! Il segnale fu dato. Ma gli otto colpi di moschetto scattarono senza uccidere il giovanetto. Ed allora si fecero innanzi quattro soldati piemontesi,.. e questi non fallivano colpo, o fornirono la scena di sangue, danzando una ridda attorno il morto, e racogliendone il cappello e mettendolo sul capo dell'infelice padre..... il quale danzava anch'esso e beveva e sghignazzava con gli assassini di sua povera prole... ché la luce di sua ragione era spenta!

Ma in quel mentre che dall'orrore di questa scena veniasi destando il magno spirito, altra non men lurida gli si parava d'inanzi. Un soldato piemontese (il capitano Bigotti del XVII di Linea) fatto sostener certo Vincenzo Miceli di Policastro, ricco agricoltore padre a dodici figliuoli, e con esso altri tre cittadini dabbene, accusatili di aver dato qualche frusto di pane ai reazionari, due ore dopo la cattura, gli faceva strascinar in piazza per fucilargli. Malgrado le grida di tutto un popolo, che gli diceva innocente, e le miserabili lagrime di loro congiunti, comandò il fuoco alla sua compagnia ed i quattro infelici caddero. Ma il Miceli non era ancor morto. Ed allora il Capitano Bigotti, guazzando nel sangue di quei miseri, accostossi al ferito e gli fondò con la propria sciabla il cranio, in cospetto di una plebe divenuta immobile per lo orrore.

Tutti i diari napoletani del 6 Xbre 1863, avevano narrato come certo uffiziale piemontese, ributtato da una giovinetta calabrese della cui persona era preso, divisasse menarne scelleratissima vendetta. Però, fatta sostenere la bella ed onesta donzella, una con il vecchio padre, e legarli e strascinare a pochi passi dell'abituro, fece passar per le armi tutti e due, dicendo l'immanissimo assassinamento, esecuzione per causa di complicità coi briganti. Ma il Conto Durante non aveva saputo persuadersi ad aggiustar fede a simili racconti

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nemmeno quando negli atti uffiziali del parlamento di Torino 1 leggeva, il Deputato Ricciardi dichiarare che il Fumel «si vanta ili aver fatto fucilare circa trecento tra briganti, e non briganti.» Non vi credeva nemmeno in leggendo come il Ricciardi medesimo avesse soggiunto «lo leggo in un giornale ministeriale che il numero dei briganti fucilati, cioè a dire di quelli solamente che sono stati presi con le armi alla mano, ascende a nulle trent'otto, senza contar quelli che sono stati uccisi in parecchi scontri, né quelli che sonosi presentati spontaneamente e che sono stati tenuti prigioni ed nuche fucilati. Il totale è di settemila cento cinquantuno». Aveva titubato anche quanto rinvenne nel giornale uffiziale di Napoli, la lista delle persone fucilate dal 6 settembre al 14 novembre 1862, e quando in questo stesso foglio 1 leggeva annunziato con gioia tiestea essersi «già cominciato a fucilare i ladri occulti e i corrispondenti dei briganti che è come dire i sospetti e le vittime degli odii privati e pubblici. Ed ora come più avrebbe potuto dubitare in udir nefandezza qualsiasi, ora che vedea cosi potersi malignare dall'uomo la grande opera del Signore Iddio.

Ma questo, che uno dei protoplasti della rivoluzione italiana il general Bixio, chiamava sistema di sangue, non cessava né cessa Secondo l'autore medesimo, nelle Sicilie chi porta divisa militare vuol fucilar chi non vestela 1 Pure ogni crudeltà, ogni fatica, i maneggi delle sette, la stampa di Europa quasi tutta confiscata alla rivoluzione e la quale vorrebbe fruttare infamia a coloro che vien dimandando briganti, non giunsero per anco a sbattere, né a scornare presso il giudizio del mondo questa infaticabile guerra d'indipendenza. Conciossiaché, chiaminsi pure che vogli, quale oggimai disconosce

1 Vedi gli atti uffiziali della Camera n. 1193 p. 4649.

2 Giornale di Napoli del 2 Novembre 1862.

3 Camera dei deputati. Seduta dell'8 maggio 1863.

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questi combattenti non esser diversi da quei partigiani della indipendenza spagnuola e tirolese e napoletana a tempo della tirannide napoleonica. Essi son della natura stessa che gli Outlaw della vecchia Inghilterra. Ned altrimenti i capi loro sono pur quelli furono i difensori tutti di una patria invasa dallo straniero, dal Cid Campeador all'Hòfer. I forestieri, che vi accorsero sul bel principio, non poterono mai attecchire. Essi, non avevano la confidenza delle plebi. Il Tristany dovette cedere il campo, ed il Borges, già pria di essere assassinato dai piemontesi, bene aveva compreso la guerra napoletana non si poter combattere che da napoletani: e però in quella appunto fu preso che si partiva.

Ma con quella gente cosi orribilmente osteggiata e diserta sulla terra per la uccisione e la deportazione di loro congiunti e lo sperpero del poco censo, non è a maravigliare fossero uomini diventati crudeli poiché a crudeltà gli licenziava l'immanità stessa di chi combatteli. E di vero, partiggiano non è poi stato mai sinonimo di giusto o di santo. Il novello spettatore di quei mali poteva men che altri adontarsene, egli che nel suo vivente aveva fatto non una volta querela del trascorrer della sua setta, egli che aveva dovuto pur scrivere:

Faccian gli Ghibellini faccian lor arte

Sotto altro segno, ché mal serve quello

Sempre chi la giustizia e lui diparte.

Ed, ahimè! quando averrà che uomo probo non abbia a vergognar di alcuni amici come di alcuni nemici? Medesimamente non tutti che guerreggiano quella guerra spicciolata sospingea lo amor della patria, o la fede del principe, o l'orror dei nemici di Santa Chiesa. Conciossiaché non poche bande vi avesse pure, le quali armava la mala vita, la rapina od ogni più oscena concupiscenza: E gente veramente distratta

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modesta dalle bandiere della rivoluzione. Ma di cosiffatte masnade vidersi anche nella guerra della indipendenza Americana, nelle fazioni di Spagna, ed anche in quelle di Francia, e veggonsi dovunque si pugna; e solo la mala fede più insigne, o la più crassa ignoranza può misprendere un vero cosi semplice o confonder chi combatte per fa più santa dello cause e chi per le passioni più turpi, Del rimanente cui frutterà infamia la guerra di queste masnade, se non a coloro che ne furon cagione, a coloro che accesero tanto incendio desolatore, dove era assai benefizio dì pace? Ma a queste parole dando fine, non vogliamo omettere di ricordare come non una volta i malviventi, che voglionsi confondere con i partigiani della indipendenza napoletana, venuti fra le unghia di questi, toccassero ivi il castigo, per che non seppe cessargli chi non capace neppure di tener la maltolta preda in securo.

CAPITOLO IX.

Tutto abbracciava dunque con il guardo il Poeta, e tutta, per maggior tormento, comprendeva la essenza di questa rivoluzione, che, nata dall'assurdo e nudrita di equivoci, deputata a morire di contraddizione e di disinganno. Però non maravigliava della guerra rotta alla verità, poi il fulgore dì essa sarebbe la finita del governo falso, non altrimenti fu sempre vita od incremento al buono stato. Ma di questo si egli stupiva ohe gli uomini pubblici del tempo nostro non posero mente, che per quanto la non si voglia o si osteggi, la verità incede secura od invitta, od essa farà chiaro non solo i mali che procedono dalle mutazioni dello stato o dallo prove del nuovo regno, ma quelli non meno che si originarono dalla disonestà dei risaliti.

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I quali a prima posta vollero fare col popolo, e poi se né spacciarono, non altrimenti lo stolido che voglia fabricare il secondo piano della sua casa, demolendone il primo. I popoli convitati al meglio, cui venia promettendo da tanti anni lo spirito;della rivoluzione, che cosa si ebbero essi, se non quadrupli balzelli e di pecunia e di sangue, per le sempre crescenti coscrizioni di soldati, ed oltracciò corruzione di costumi, oltraggi alla personalità di loro provincie, disfacimento di ogni antico bene, e di ogni antico male incremento, offesa del sentimento più geloso dell'anima, quello cioè della sua Fede. E della grandezza nazionale e della libertà qualche idea astratta, verbi sesquipedali, non altro sollazzo al postutto che le pasquinate di quell'orgoglio, o di quella dismisura che vengono, secondo l'Alighieri, generando la gente nuova e i subiti guadagni. Quindi nessuna libertà di associazione, né di individui: la santità del domicilio violata; ridicoloso il diritto di petizione, e scherno le franchigie tutte quante. Ed il paese diventato feudo di nuovi baronelli che, come coloro si escono di mal luogo, sono destituti di ogni senso generoso, o l'un l'altro succedendosi nel battibuglio dello stato, rubbacchiano e spogliano le pubbliche entrate, fanno mercanzia di ogni cosa e sin degli stessi suoi mali, manomettono la giustizia a prò del ricco e del partigiano, e quegli usi civici isteriliscono o vietano i quali furono sempre le naturali libertà degli italiani.

Mali orribili figliò la rivoluzione, ed essa gli modica con la Legge Pica, con le fucilazioni in massa ecc. Crede mantellar la sua infamia con le grandi frasi delle temporanee necessità, del servire alla sovranità dello scopo, del grande concetto dell'unità, il quale per tormento maggiore udiva l'Alighieri esser suo... e non sel sapeva.

Ed allora avrebbe voluto calarsi di quel loco superno. Venir fra le genti a scusarsi, ripetendo anche a ufo come altro,

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ben altro fosso la monarchia universale, la quale egli aveva sognato, od altro l'unità che vagheggiasi dai seguaci del Mazzini o da' valletti di Casa Savoia. Voleva spiegare, nel medio evo non esser per Italia né oltralpe idea di cosiffatte unità o centralita, e come colui che lo avesse pensato o detto, sarebbe stato tenuto perduelle, nimico allo libertà non solo della patria, ma della umanità tutta quanta. Lui non aver desiderato giammai cessasse la Repubblica Fiorentina o la Genovese o la Veneziana, e neppure quella di Lucca. Lui non aver voluto frodar né il catalano Federico del regno di Sicilia, né Roberto di Angiò di quel di Napoli, né Uguccipne della Faggiuola della signoria di Pisa, né i Malaspina della Lunigiana, né gli Scaligeri ed il loro Gran lombardo Bartolomeo 1 del Veronese, né i Potentani del principato di Ravenna, né dì quel di Forlì quello Scarpetta degli Ordelafli, del quale fu notaro, come dicevasi allora il ministro di un principe. Né Federico di Montefeltro voleva cacciare dagli stati suoi, né i Buonaccolsi da Mantova, né Giberto di Correggio da Parma, né manco di Ferrara quel Marchese Azzone VIII da Este, cui di molti vizi od accusava e derideva. Né manco forse avrebbe voluto metter fuori da Arimino quel crudele Malatestino dall'Occhio. E tanto voleva principi in Roma i Pontefici che ogli non avrebbe spoglio neppure dei feudi e della badia di S. Zeno quel mal monaco che era Giuseppe della Scala. Dante, via, voleva Italia come stava, partita in cento belle repubbliche e signorie, tutte autonome, tutto più o men libere e ricche, tutte fiorenti sotto le soprassovranità dell'Impero, ned altrimenti i Guelfi volevano lo cose stesse, ma sotto la soprassovranità della Chiesa.

1 È questo uno dei luoghi piii controversi dei commentatori. Ma noi, se ci è lecito emettere opinione, teniamo il Gran Lombardo essere Bartolomeo e non Cane, perocché secondo Messer Pietro figliuolo di Dante Alighieri, il grande ospite del padre di lui fu per appunto Messer Bartolomeo.

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Però vergognava forte dello errore onde appuntavano. Né vergognava solamente ma tremava che, trasentite le parole sue, non fosse egli fortuita cagione delle tante scelleratezze cui vedeva perpetrarsi io nome di questa unità tutta nuova. E domandavasi:

Ma quale, dove lo argomento che abbia potuto far credere mio questo concetto? Quale il fatto della mia vita che ne dia pretesto?

E così, ragumando versi e prose della sua opera maggiore e delle minori, le trovava tutte innocenti di tanta corbelleria. E pur non cessava di tormentarsi; poiché nuovi delitti e nuovi carnaggi venivangli facendo sempre più brutta la nota di rivoltuoso. Vedeva fucilato ad Avellino tal Cipriani innocente; e gli assassini di lui (non altrimenti faceva di lì a poco il Generale della Rovere in parlamento) udia scusarsi col dir, il meschino, forse, se non di quello per che venia passato per le armi, era reo di altro delitto... Ma di delitto, onde non fu manco accusato. E:

Ci vuol pazienza! sentiva soggiunger un orator da caffè. Non dobbiamo noi dar perfezione al gran concetto di Dante? E bene l'avremo noi data, dove non fosse questo brigantaggio che ci impedisce di costituirci e però ci distrae dalle vie della Laguna e del Campidoglio. Il brigantaggio è l'ultima guerra della sesta età contro la settima, pronunziata dall'Alighieri a salute di questa nostra Italia.

Ma il poeta dava in ismania: e torcendo altrove la faccia, mentre profondava gli occhi fra quei monti irpini, i cui dossi eran vestiti di fresca verzura, discerneva un fanciullo di non più che dodici anni, bionda e riccia la chioma e gli occhi bruni, come quegli degli angeli di Fra Bartolomeo. Ed il vedeva calarsi dal bosco vicino con addosso il fardellin delle legna, uopo ad apprestare il modico cibo della famigliuola. Ma in quella, che i passi ne segnava con là

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vista e udia la canzona, che venia cantarellando a Maria, videlo afferrare da bersaglieri che movevano alla caccia degl'insorti per la campagna. Indarno il meschinello diceva non appartenere a questi, rivelava il mio nome, quel dei parenti che addomàndavansi Carbonara, e mostrava l'abituro al quale faceva ritorno. Il Bardessoni Prefetto non voleva udire parole né ragione e, giurando il fanciullo dover esser figliuolo a qualche brigante, il condannò a morire issofatto.

Ed ecco il miserello tradotto in mezzo ai bersaglieri, fuori le mura delle città, e giunto al luogo del martirio, supplice, lagrimoso, a giunte mani accostarsi al capitano piemontese e dirgli....

Per la Madonna! Deh! Noi fate sapere a mia Madre!

Ma soldati, che fannosi vili a segno da' diventare ministri di supplizio, da trucidar donne e fanciulli, non sono diversi dal carnefice per ciò che vestono assisa, non viscere aver possono o senno per commoversi a vergogna o pietà. E però il burbero piemontese, datogli un calcio di risposta, il fanciullo cadde... Ma indi rizzossi e, volto al cielo Io sguardo ed asciugate le lagrime, andossi ad inginocchiare presto ed impavido nel mezzo del prato: e frattanto, comandatosi il fuoco dal capitano, i bersaglieri spararono... e la creatura innocente cadde da più colpi ferita, che non ne capisser lo membra tenerelle.

Ahi scellerati! Maledetta l'Italia, se Italiani sono essi!

esclamò lo spirito del Poeta a quella vista: e pregando al cielo che oltre il portasse da quel luogo di tanto dolore, vide di là dal Faro sospinta l'aerea navicella in che stava assiso,

Ma colà nuovi tot monti gli si offerivano al guardo e nuovi tormentati. Perocché i Siciliani che ribellarono a Casa di Borbone per quella bisogna di autonomia, che a paesi d'Italia si han più imperiosa dei tramontani,

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ed i popoli di Sicilia più che ogni altra gente d'Italia, vennero per questa rivoluzione novella aggiogati per appunto alla setta, che, mirando ad una riformazione della società, calpesta, le personalità di terra o di popolo. Però vedeva la nobilissima delle isole, la gran madre della antica sapienza italiana, la patria di Empedocle, di Archimede, di Gerone, la terra cui educarono quattro civiltà 1, la nazione che prima nel mondo stipulava per la umanità 2, la reggia in cui la stessa Roma apprese il vivere sontuosamente, la riva, per sua bellezza, cognominata del Sole, il giardino ove prima nobilitossi la nostra favella, 3 vedevalo tenuto in dispregio e calpesto dal meno italiano e più duro dei popoli della penisola. Perocché secondo lui Alighieri,

In sul paese che Adige e Po riga

Solea valore e cortesia trovarsi,

Prima che Federigo avesse briga:

ma non poi, non poi: e, di vero, troppo prevalso fra gli Insubri il sangue e il costume di oltralpe.

Ma già, se altro danno non avesse fatto questa rivoluzione italiana, basterebbe a fruttarle infamia assaissima lo aver risvegliato gli antichi odii tra i popoli del bel paese, lo aver distrutto per la unità l'unione né solamente fra le sue città e le provincie, ma sì fra le compagnie stesse degli amici e della famiglia. L'unificazione piemontese d'Italia persuade a meglio che dieci milioni degli annessi, che la indipendenza

1 La Greca, la Romana, l'Araba e la Cristiana.

2 Gelone Re di Siracusa che, disfatti in grande battaglia i Cartaginesi, fermando pace con essi non volle porre altro patto che quello che essi Cartaginesi non più sagriferebbero vittime umane ai loro Iddìi.

3 Federico II Imperatore, Re Manfredi, Re Enzo, Ciullo di Alcamo, Nina, e Pier di Altino erano tutti siciliani e coi napoletani Pier delle Vigne e Matteo Spinello furono i più antichi poeti e scrittori italiani.

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dell'Italia settentrionale suona la servitù dell'Italia meridionale. E bazza a chi tocca: chè fra le nazioni come fra gli uomini, obi la minoro altrui fa tale se stesso. Che maraviglia però delle ire e delle izze delle parti? I vituperi di che fur larghi ai popoli dello Sicilie i Piemontesi ed i sicofanti della rivoluziono cosmopolita sono l'inno più glorioso che possa cantarsi agli oppressi, Concioossiachè tanto sdegno degli occupatori non fosse solamente, come diceva quel robusto ingegno di Cesare Cantù, perciò che i popoli delle Sicilie avesser natura non altrimenti malvagia, che la bestia della favvola del La Fontaine, la quale quando morsa rimordeva. Non è perché il loro querelare sappia reo agli Insubri non altrimenti tornava fastidioso ai Romani quello dei gladiatori che non sapevan morir lietamente:

Iniuriam putant quod non libenter pereunt.

Ma si perché veggiono non morirsi la vittima, perché sentono averla potuta cogliere, soprapprendere, abbindolalo, frodare, ma non debellino, non spegnere Perché meglio che altri comprendono, in questa lotta di esterminio, essi i Piemontesi esser quelli cui incoglierà la ruina. Però non contro al popolo nostro dovrebbero essi inserpentirsi, ma a tutte forche appiccare i Mancini, i Poerio, i Vacca, i Lafarina, ecc. per il mal cappio in che trassergli. Ma nò... parlin di forche i birri... non gli uomini di onore... non noi. E lasciamogli vivere pure, poiché anche il patibolo rifiuta di scelerati sì vili: e già più vergognosa è lor vita che non l'amplesso del carnefice.

L'Isola di Sicilia, la quale non aveva patito la rivoluzione francese, non si aveva quel benefizio della coscrizione militare, che è la maggior servitù e la più immane che avesse potuto pensare tiranno, per essa vedi i padri frodati della più sacra loro proprietà, la loro carne; per essa vedi l'uomo costretto a perire per principe o reggimento che esecri;

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per essa vedi creatura naturalmente timida od abborrento dalle armi dover diventar pugnace o perire: per essa vedi uomini distratti da ogni altra vocazione onestissima; per essa condannato al celibato meglio che la ventesima parte del popolo, per essa sempre crescente il numero degli eserciti ed il mal costume e il malsangue ed aggravate di sempre crescenti balzelli le genti per essa tante braccia distratte e tanti ingegni dai commerci, dalla agricoltura, dalle industrie. E questa legge è creatura di una rivoluzione che gridava voler francare la terra! Però il civilissimo, l'arguto popolo siciliano si ricusava costante alla manomissione di tanti diritti, la quale si nasconde in quella legge: né maraviglia però se vedevi campi desolati e le città nella costernazione. I Romani tiranneggiavano Sicilia con le arti e lo armi di un Verro, ma i Piemontisti per sette di altrettali, succedentisi l'un dell'altro peggiore, credenti poter fare come gli Spagnuoli nella Colombia o come nelle Indie gl'Inglesi.

Laonde Io spirito dell'Alighieri vedeva, a notte ferma, soprapprese le più nobili città e circondate come per assedio e, tutte rovistarne le case, per istrappare alle madri i figliuoli sortiti alla servitù militare, per far che

... all'orbo padre non rimanga

Chi la cadente vita gli sostegna,

Chi sopra il desco gli divida il pane.

E l'Alighieri vedeva un General Govone porre assedio alla città di Licata, chiedendo gli consegnasse tre giovani, dannati all'onta ed alla miseria di un esercito che fecesi ministro della rivoluzione. E non potendogli avere, il furfante tagliava il corso dello acque a quella città, che dentro le cerchia dello mura, onde avevala cinta Re Tancredi, si stava in pure sobria e pudica, e proclamava non ne berrebbo più gocciola per sino a che non desse i coscritti.


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Ed allora, scorgeva a mezzo la state, sotto l'ardente solo della Sicilia, sul pendio dì una marina vulcanica, un popolo di meglio che ventimila uomini misvenir dalla sete e dalla arsura, e vedea accelerata la morte agli infermi e gli animali stessi cadenti. Ma i tre giovani, sortiti al servizio militare, non erano già nella città. Essi tenevano il campo. Ed allora furono strappati ad altre famiglie innocenti altri figliuoli: laonde, placata l'ira del Piemontese, tornò l'onda benigna, o tutti alle fontane accalcavansi, quali con secchia, quali senza, e gente di ogni età, di ogni grado, tutte levavano al Cielo lo mani, che m al loro diritto di vivere le vendicava.

L'odio dei dominatori avea tolto ogni forza alle leggi e, sciolti i freni della società, piemontesi e masnadieri solo correan da padroni quella terra. Stava, presso il borgo di Petralia, una povera ma graziosa cascina, cui abitava onorato contadino con una sua figliuola bellissima e due fanciulli che erano il tesoro della vita sua. E questi il venivano consolando dolcissimamente della consorte perduta di fresco, od egli per ogni gentile modo faceva che i suoi figliuoli infelici non si addassero che non avevan più madre. Però men miseri erano quei dolori che non lo gioie di tanti. Ma, la fortuna traditora invidiò anche a quei pianti. Ed a sera, una mano di scellerati, che scorrazzava per quella campagna, picchiò alla porta della cascina e, come le fu aperta, vi entrò ed ogni bene ne involava, e sin la santa innocenza e l'onore! Perocché quei perdutissimi, legato il misero padre e i figliuoli, stuprarono la vaga fanciulla, noi cospetto stesso di lui che vestite le avea quello carni.

Ed il misero piangeva o maladiceva agli scellerati, e a chi così mal protegge e l'onore e le coso dei popoli soggetti e talora alla stessa bellezza di sua prole maladiceva, più di non altro cibando lo vecchie membra che del dolore e dell'ira dello immano oltraggio patito

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E così, pochi giorni appresso, a notte ferma, mentreché indarno cercava di chiudere al sonno le palpebre, ode novello calpestio di genti; e nuovo suono di arme e di parole oscenissime e di bestemmie, e novellamente battere alla porta frettevole. Allibi il misero padre, tremò, corse al letto dei figliuoli, gli destò, gli abbracciò e baciò più e più volte, e fatto loro la croce sulla fronte, corse presto a nasconderli nel più segreto riposto della cascina, credendo altri assassini venissero a desolar la sua casa. Né male si appose del tutto. Conciossiaché fossero essi bersaglieri r carabinieri, i quali movevano alla caccia dei renitenti alla coscrizione militare, ned essi erano men scellerati per ciò che vestissero assisa di soldato. Il capitano dei quali picchiava sempre più forte. Ma il povero padre non voleva schiudere l'uscio, non volea credere alle parole di lui, che parevangli nuovo inganno. Laonde pregava venissero a dì chiaro, circondassero puree la casa ed il campo. Ma il piemontese non patia mora né ragioni udiva, e comandò si appiccasse il fuoco a quell'abituro... ed allora il misero padre vide perir fra le fiamme la prole sua, e vi si precipitò poscia egli stesso, gridando vendetta al Signore contro a questa belva dell'uomo.

E nel tempo medesimo, a Campobello? terra della provincia di Trapani, una povera madre, vedendo sostenuto il figliuolo da carabinieri piemontesi corse loro incontro e con lagrime e grida supplicava le rendessero il sangue suo. Ma quel pianto seppe oltraggio a quegli sgherri. Ed uno di essi, posto mano alla rivolta, tirò a bruciapelo sulla sventurata femmina, la quale cadea morta issofatto. Allora levatisi tutti del comune a tumulto, popolarmente cacciavano i carabinieri al grido di «Fuori i Piemontesi! Fuori gli assassini!» Però ed alla vista di fatti si immani Non più! Non più! esclamava lo spirito dell'Alighieri e, come dalla

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pietà stessa nasce alcune volte l'indignazione ed il dubbio, così novellamente venia dicendo l'Alighieri:

E se lecito m'è, o Sommo Giove,

Che fosti in terra per noi crocifisso,

Son gli giusti occhi tuoi rivolti altrove?

0 è preparazion, che nell'abbisso

Del tuo consiglio fai per alcun bene

In tutto dallo accorger nostro ascisso?

E mentre questi versi ripeteva, che sono la spiegazione filosofica di tutta la storia d'Italia, il vento pingeva la nuvoletta verso Palermo, la città che avevasi titolo di felicissima dai suoi antichi re e dai popoli. Ed ivi, furiando la rabbia medesima dello impoverire il paese e corromperlo, e dello oltraggiarne la coscienza e del manomettere ogni diritto e le costumanze più antiche, vedeva imprigionato perfino un poverello, unico figliuolo di povera vedova, e benché fosse sordo muto il garzone. Ma Giovanni Cappello, che tale esso addimandavosi, era sortito soldato. Ed i Piemontesi credendo fingesse quella tanto e si miserabile imperfezione per sottrarsi alla servitù militare, non volevano credere alle testimonianze dogli amici e dei vicini, e manco agli attestati del Curato della sua pieve e dei medici e degli uffiziali municipali.

Però il tradussero nello spedal delle carceri ed ivi presero a dargli ogni tortura per provar se gli uscisse dalle labbra parola, o so il loro comando ascoltasse. Ma il misero spasimava senza poter metter che disperato grida e lagrime recentissime, senza comprender neppure la ragione di tanto martirio. Ma i commessari piemontesi volevanlo per forza soldato, giuravano lui esser falso muto e pareva proprio di quel giovane avesser bisogno per conservarsi in potenza. Per la qual cosa, tratto ferri roventi, cominciarono con essi a tormentarlo e (vergognoso anche a dirlo!) nel termine di pochi giorni, fecero non men di

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centocinquantadue piaghe per quello infelicissimo corpo! E più avrebberlo straziato, dove avesser potuto davvero, e non fosse venuto in fin di vita il misero giovine. Ed allora gli fu dato vedere la madre. La quale, scorto qual feroce governo avesser fatto del figliuolo suo quei cannibali, misvenne a prima, e rinvenuta poscia in se stessa, parola non iscolpì né diè lagrima ma tinto un pannolino nel sangue di quel corpo tutto lacero, tutto una sola ulcera addiventato, usci furia tremenda dalla prigione.

E chiamava il popolo e mostrava il segno del martirio della sua prole innocente, ed afferrava i viatori e gli raunava e, le mani fra i capegli e gli occhi fuori quasi dalle loro orbite, correva e correva e, come al tempo dei vesperi, la femmina infelicissima veniva gridando Mora! Mora!

Ed allora, facendo eco a tanto dolore ed a tanta ira corrispondendo Mora! Mora! gridava anch'esso i! Poeta... Ma il popolo non era più in arme, non aveva più patroni sulla terra, e però non potò offrire che lagrime alla madre del povero muto, ned altro poteva contro i tiranni che imprecare alla mala signoria che accora la nobilissima isola.

Non erano più gli Alaimo da Lentini, non più 1 Ruggieri da Caltagirone, non più i Palmiere degli Abati non più i Bartolomeo Vescovo di Patti, non più potenti baroni, non più armati episcopii e badie. I popoli furono strappati a lor naturali tutori: la Chiesa ed il Patriziato. Essi non più tollerano primato di entità?... E s'abbiano la tirannia degli birri. Vogliono uguaglianza? E sia. Ma non altra si avranno giammai che quella della miseria e della impotenza!

Per questi atroci fatti, onde abbiamo veduto testimone ir Poeta, inorridiva Italia ed Europa. Ma che fecero gli sceleratissimi del Governo Piemontese, dopo aver tutto indarno tentato per negare o per minuirne l'orrore?

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Il cerusico manigoldo del Cappelli venne regalato della Croce Mauriziana! E noi tempo medesimo un coscritto del Principale Citeriore, per nome Carmine Marino, nato nel 1843 nella terra di S, Leonardo, sendo infermo di mal caduco, la sua sventura veniva più e più volte provata da medico piemontese con ferri roventi alle gambe, cosicché funno allo stremo 1.

Ed altro coscritto di Terra d'Otranto 2, inabile al militare servigio, come colui che era asmatico, non fu creduto avvegnacche parecchi medici testificassero. Però, messo alla prova da uffiziali piemontesi, fu carico d'armi e di bagaglio e tratto a cammin forzato di meglio che venticinque miglia 3. Il misero affannava, gemeva, misvenia; ed i soldati di scorta lo spronavano or percotendolo con il calcio di loro moschetti, or con la punta delle baionette ferendolo. Ma a mezzo il cammino cadde... ed allora ogni minaccia tornò indarno ed ogni ulterior crudeltà, poiché fu mestieri portarlo ad una cascina propinqua, dove nove ore dopo uscì di vita. 4

Onesti fatti non vedeva l'Alighieri. E chi sa quanti di altrettali vi si passano ogni giorno, i quali il mondo ignora ed ignorerà... E giù, ancoraché gli sapesse che montai Europa par abbia segnato alla rivoluzione italiana im brevetto di lascia fare.Non pertanto, piangendo ancora il misero modo per che veniva governata Sicilia, cui non altro rimaneva proteggitore che

1 Il 7 Aprile di questo anno 1864 giaceva ancora nello spedale; poiché per la tortura patita peggiorò il male e credesi rimarrà storpio tutta sua vita.

2 Antonio del Zio nato a Manduria l'anno 1844.

3 Da Lecce a Taranto.

4 Les Martirs Lettre d'un citoyen des deux Siciles au Parlement Anglais. Naples 1 Mai 1864.

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l'Ondes Reggio, colui che non soffre sin tolta via,

Colui che la difese a viso aperto 1.

piangeva la errore del popoli tutti della Penisola. E però:

Tregua, o Signore Iddio, esclamava, tregua a tanto spettacolo di sciagure.... Pietà, se non ho ancora tutto bevuto il calice di mia penitenza.,

E sì dicendo piangeva miserabilissime lagrime o torceva la faccia dalla terra inorridito; poiché, per quanto egli fosse tetragono ai colpi di ventura, non sapeva esserlo parimenti allo spettacolo di tanta miseria della penisola.

Ma in quella che così travagliavasi, asolò soave uno zeffiro e, l'aerea navicella volto cammino, lo spirito dei Poeta videsi in poco di ora trasportato sulla, riviera tranquilla del Tevere Era quello il di che risorgeva con il Cristo l'Umanità. E la nuvoletta calossi proprio nel mezzo di quella piazza Rusticucci che sta in cospetto del portico di S. Pietro e della sua Basilica. Però l'Alighieri, benché afferrasse alla terra novellamente, rimaneva quasi in estasi muto, dimandandosi se veramente terrena grandezza fosse quella, che veniasegli offerendo allo sguardo e come mai l'uomo, cui veduto aveva si fero, potesse esser poi così grande da pensar tanto nobile opra e compirla.

CAPITOLO X.

Mentre che fra questi pensieri venia ischermondo, l'anima travagliata incedea pur come dubbia. Ma quando

1 Questo libro è stato scritto prima che i popoli della Sicilia facessero batter medaglia in onore del loro oratore con il verso per cui Dante sublimò Farinata. Per la qual cosa l'autore di questo scritto si è incontrato bellamente d'idea con gli autori di quelle medaglie, ma non ha tolto (la essi l'applicazione di quel verso.

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fu a piedi dell'obelisco di Sesostri Nuncoreo, quello che fu tratto di Eliopoli, ed il quale Caio Caligola dedicava ad Augusto ed a Tiberio, e Sisto Papa V. rialzava in onor della Croce trionfante, l'Alighieri legger nella postavi dal Fontana, quelle paiolo terribili:

FUGITE PARTES ADVERSAE

VICIT LEO

DE TRIBÙ IUDA

E Fuggite! venia ripetendo, quasi macchinalmente, il Poeta: Fugite! ed il grande spirito rinfranca vasi, né più il vinceva temenza e niuno sospetto sfiancavalo. E nel mirabile monolito vedeva l'unità e la fortezza della Chiesa, che non crolla né per mover dì terra né per turbine, e ne' due fiumi che sgorgangli da canto in forma di fontane vaghissime, vedeva i lavacri della grazia e della penitenza, che tutte invitano le genti a mondarsi in quel loco felicissimo per entrare il terreno olimpo della Fede. Il quale guardando esso ammirato, domandavasi non fosse quell'opera Morella al poema sua, e Michelangelo, in pensandola, non fossesi ispirato alla magnitudine della sua Commedia. E chiedevasi in quel più che mortale architetto l'afflato di Dio non avesse spirato più forte, più dirotto, meno attraversato da umane passioni che in lui Alighieri ghibellino. Grandi Cattolici furono entrambi quei due nomini: e che di stupendo può farsi senza essere fortemente scaldato dalla fiamma del Cattolicismo?

Ma no, di oasi poi con certa compiacenza il Poeta, Michelangelo non fu che il manovale di Dio, e questa la santa cittadella, questa la terrena fortezza della Chiesa, innanzi allo mura della quale tutto spunterannosi le armi dei potenti del tempo e delle rivoluzioni. Chi si arrocca Ira questi formidabili bastioni non può temer cosa da uomo, la quale non permetta il Signore per il suo meglio.

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Ed entrò il pronao, entrò il tempio sempre più maravigliando e dicendo gloria ai celesti; poi le opere dei sommi solo la mente di altri sommi può comprendere a segno, E tutto che ivi riportava la mente di lui al Paradiso prendeva piacere grandissimo dei dipinti maravigliosi di Raffaello e di Domenichino e delle statue dei santi e delle rappresentazioni di loro miracoli; poiché l'Alighieri, che invocava mattino e sera in nome del Bel Fiore 1 bisognava scasarlo: via, non era cosi dotto e cosi magno spirito, come i moderni che sprezzano santi o fannosi beffe di miracoli. Era un debbenuomo che ci credeva ammenoché non fingesse di credere, siccome disse taluno, che non ne capia l'anima sdegnosa e non aveva letto o non sapeva leggerne le opere per poter pensare che uomo possa cosiffattamente scrivere senza amare, senza ardere, senza vivissimamente sentire.

Quindi corse a ribaciare e riporre la fronte ai piede dell'antichissima statuta, che rappresenta maestoso

... il gran viro

A cui Nostro Signor lasciò le chiavi.

Né poco compiacevasi in considerar quell'eneo piede più assai consumato che noi fosse già al tempo suo. E dal simulacro del Beato Pietro corse ad agginocchiarsi e pregare umilmente alla tomba degli Apostoli. Ritornava poi ambulando per la Basilica, tutta comprendendo la felicità di chi abita la casa dei Signore, che lo stesso tiepido aere di quella stanza, nel verno come nella state immutabile, faceagli pensare il clima del paradiso, che non soffre varietà di vento ne di stagione.

Frattanto veniasi popolando il gran vaso. Gente di ogni età vi accorrea e d'ogni paese, e niuno parea vi si vedesse straniero. Era quella Fumana famiglia che

1 Cioè di Maria Santissima, Paradiso Canto XXII.

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tornava alla tenda del suo Pastore, e quello il loco dove ogni odio di municipio e h nazione si ammorza. Pero colà dentro sentesi sicuro om spirito. Ma ecco: schiudesi la maggior porta, ed entrano arme ed armati, come in gran campo. Odi: i cori intonano con grandiosa melodia del Palestrino il cantico Ecce Sacerdos Magnus. Mira: tra il fumo di arabici profumi ed immenso stuolo di vescovi e di porporati, e gli agitati flabelli, e sotto baldacchino ricchissimo, incede in sedia gestatoria il Successore dal Maggior Piero, quegli cui addimandava egli l'Alighieri il vero clavigero del Cielo 1 ed ecco coverto è del gran manto il vecchio corpo, la fronte, dolce e serena, redimita della triplice corona della divinità,

A questa vista cadde genuflesso il poeta, né più levando la fronte dalla terra, adorò muto il Vicario di quello Amor che muove il Sole e l'altre Stelle, poiché la venerazione verace mal soffre il ministerio della parola In quello inceder del Papa l'Alighieri vedeva il trionfo della Chiesa. Pareagli il carro della fede procedente sugli abbattuti colossi del Gentilesimo e del Romano Imperio, sulle carogne degli eresiarchi, sui draghi e sui basilischi della rivoluzione.

Quella pompa sapevagli la dedicazione dell'uomo nel Cristo: e però come rivenne alquanto dal grande stupore, ed ebbe forza di levarsi, e vide seduto nella cattedra del Beato Pietro il Santo Pontefice:

Osanna in excelsis! prese a sclamare, Osanna! Benedictus qui venit in nomine domini.

E ruppe in un benefico pianto di pentimento e (il dobbiamo pur dire?) di vergogna di non aver saputo comprendere abbastanza tutta la grandezza e il beneficio di quella dupplice potestà; avvegnaché la comprendesse le mille volte meglio che non i filosofi della rivoluzione.

1 Dante de Monarchia Pag. LVI

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E corto lo spirito ghibellino condusse passo passo alla riformazione la Germania; come parecchi storici tedeschi affermano, e massimo tra questi lo Schlegel. Ma che Dante prevedesse o desiderasse o, senza pur prevedere o desiderare, fosse causa, di tanto danno, è falso, falsissimo! Ciò puossi provare con le parole stesse di lui le più contrarie ai pontefici. Ciò che egli desiderava, era una restaurazione della disciplina, pur troppo corrottasi ai tempi suoi. Ed egli desideravala con la stessa apostolica carità con cui la voleva San Pier Damiano nello XI secolo e S. Gregorio VII la forni, conio la desiderò S. Bernardo e quell'altro colosso del gonio italiano che fu S. Caterina da Siena e quel terribile Pontefice che fu poi Paolo IV che, per grande sventura d'Italia, la trapotenza austriaca non fece giungere al papato che all'età di anni ottanta. Dante voleva la riformazione che poi fece il concilio di Trento. Ed egli peccò in ciò che i voti suoi gli espresse in modo popolare o spesso irriverente, e si fece che ogni saccentuzzo se ne potesse valere a sputare contro la suprema delle potestà. Errò nel mezzo: cioè nel credere che la impotenza e la povertà potrebbero fare novellamente purissima la Chiesa; quasi fossero nuovi o pochi gli esempi di grandi e potenti santissimi e di poveri e vili perdutiissimi.

E di questo errore stringevasi forte nel cuore. Né peritavasi di dir parce egli che era grande, oè credoa disgradato la sua grandezza dallo errore, dappoi avea la potenza di confessarlo. Dante che non vergognò ma gloriossi cantare di se medesimo

io che dì mia natura

Tramutabile son per tutte guise,

e che ben mutò parte quando vide la giustizia non essere più nel campo della sua: Dante che anche nel libro de Monarchia diede l'esempio (seguito poi da tanti altri grandi)

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di quella finale protesta di aderenza alla Santa Romana Sedia Dante, anziché umiliato, sentiasi fiero e forte dello aver saputo vincere lo errore e se stesso e il brutto rispetto del vulgo, o sprezzar la tirannide delle fazioni, cento volle più fiero e tracotante, che quella dei principi quando tiranni.

li mentrechè sì nobili lagrime venia mietendo il pentimento, risonò per l'aero della basilica una voce dolcissima e grondo come di Paradiso: un suono cui mandavano trombe di oro temperate nella più soave melodia. Ed ecco il sommo pastore, sorgente nel mozzo del tempio come da novello Calvario, offerir la Vittima Divina per cui la umanità si rigenera. Il Cielo parve al poeta schiudessesi in quello istante, l'Ostia essere più raggiante che il sole; ed il suono degli oricalchi ed i canti e le preci dei sacerdoti udiva egli confondersi con i cori del Paradiso, egli che non più vedea ne sentia con gli occhi e le orecchie della carne.

Né di tanta gioia men santo fu il tremito che preselo in quella, che vedea, lento e raccolte in se medesimo, incedere il Diacono di santa Chiosa, portante le Divine Specie, nascoste sotto alla stola bianchissima onde ora coverto, E l' vedea solo avanzarsi in mezzo a silenzio profondo e lungo e largo sgombero della navata, fra le schiere ed i Principi della Chiesa genuflessi, od al Pontefice, anch'esso prostrato sul suo trono, offerir l'Alimento di quella vita, che ritorna in Dio suo principio. Ed:

Ah si! Tu sei il Cristo, sclamava l'anima penitente, Tu sei il l'orribile ed il clementissimo. Giungi deh! giungi a cui ti supplica e a cui t'impreca.

Ed esso fu porto al suo Vicario, che pieno della carità di lui e della confidenza nella divina Giustizia ascese alle sale maggiori della basilica. Di colà, venuto al grande balcone, apparve al popolo nella sua sedia gestatoria, in tutta la pompa di sua grandezza. E spiegato al cielo le braccia come Mosè, chiamava

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sull'Orbe terrestre e la sua Città la benedizione dell'Eterno, pregante con voce così sonora, che pareva dovesse empir l'universo, voce cosiffattamente dolce nel tempo stesso, che egli era impossibile dubitare della bontà di Dio nel darle orecchio.

Ed era laggiù nella piazza di S. Pietro l'Alighieri, tra il foltissimo popolo, come stivato. Però, quando il Pontefice ebbe pronunziato le parole di consolazione, e i cannoni della Mole Adriana cominciarono a tonare e tutti a squillare i sacri bronzi, anche egli, traboccante di gioia santissima, mischiò la sua voce al buon popolo, che rompeva in caldissimi evviva al grande Pontefice, al Sacerdote Sin, tutti sventolando segni e bandiere dipinti ai colori diversi, di santa Chiesa. Ed il Poeta, guardando ò'aspetto magnifico e sereno di Colui che non indarno prose il nome di Pio, vedendo quel volto che non perde neppur per lo sdegno il sorriso, gridògli:

Oh Padre! L'anima dell'Alighieri si prostra a Pietro ed a Te. Tu sei il Giosuè ed il (indenne di questa guerra della società cristiana, ed essa per Te trionferà, per Te che sapesti essere mansueto come Agnello e fortissimo come Leone. Il secolo che Te seguirà sarà dal nome tuo intitolato, non altrimenti che la seconda iliade del male si addimandrà questa guerra. No, le arti d'Inferno non potranno mai togliere sua robustezza al grande Albero della Chiesa, né ai popoli italiani la Fede. E però, anima mia, non tremare, ché nel suo patire ripiglierà valore questa Italia, e cui ricovera all'ombra del Gran Manto, le stesse saetta risparmiano.

Lieto così l'Alighieri ritraevasi per la contrada Alessandrina, cui dicesi impropriamente di Borgo, fra i mille cocchi dorati che nei dì solenni fannola spettacolo di magnificenza veramente unica, veramente italiana. E godea di mischiarsi fra quel popolo bello e spiritoso ed onesto, che indarno le sétte segrete fan di distrarre dalle vie dei bene.


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Abborrente sia ne' delitti da tutto che non sia nobile, quel popolo altero, curioso, sottile o semplice ad una, e insieme prudente e manesco, Dante, vedeva bene essere esso della natura medesima che il popolo che aveva veduto a Napoli testé e nelle altre provincie meridionali, poi che una medesima origine si ebbero entrambi ed uno stesso clima gli alimenta. E come la plebe napoletana già sapeva essere la romana facile a commoversi, difficile a persuadersi, più accessibile ai sentimenti che alle idee, sobria, sincera, compagnevole, spensierata, semplice e larga di cuore, non altrimenti terribile nell'ira, lenta nel disamorarsi e lesta a per giù ogni sdegno ed ogni odio, pietosa verso chi misero, non invidiosa degli uomini o delle fortune superiori siccome la plebe di Francia e le infranciosate plebi dell'alta Italia. Popolo siffatto le rivoluzioni possono bracarli un momento, ma non far venire in mattezza. Però le vicissitudini del tempo hanno lasciate nella Italia meridionale più impronta nello cose che negli uomini, non altrimenti che fecero più razza ne' con grassi che ne' poveri. Laonde fra questa gente arrotandosi:

Qui non è la rivoluziono, diceasi, né questa vi avrà Ingrano giammai,

Ed allietavamente: e venia considerando quanto profonda la filosofia di S. Agostino, che prima di lui aveva informate il maraviglioso suo libro De civiate Dei a quella sentenza che Roma fosse destinata ab aeterno a sedia del cristianesimo. Riconosceva come non meno nobilissimo scrittore fosse il Bossuet che nel suo discorso della Storia Universale aveva portato questa medesima opinione. Tutto, ogni più lieve accidente della storia di Roma gentile, serviva al nascimento ed all'imperio della Roma di Gesù Cristo, ed Italia, centro del mondo fisico dei popoli, fu fatata ad esserlo parimenti del mondo morale della civiltà, poi questo è il lido che accoglie il porto di salute e qui il faro, onde parte la luce non ingannevole della divina sapienza fra gii uomini.

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Mentre che lieto cosi scorreva l'Alighieri, cullato dalle speranze più belle, quasi dimenticava le pene che duravano ancora quei popoli meridionali, dei quali aveva veduto far tanto aspro governo la setta unitaria. E udì nuove grida e nuovi plausi, e molti del popolo vide stivarsi attorno e modesta carrozzaio cui era un giovane svelto della persona e sovranamente benigno nei volto, che, vestito di abiti militari, aveva accanto una donna bellissima e graziosa, che gli occhi e i capelli dipinti del nero più vivo e rosee le fini labbra e le guance ed il sopracciglio inarcato come a quello della Minerva Ostalmite, raccoglieva la testa ed il busto in un velo bruno, trapunto. Il quale essa portava con la grazia delle donne dell'Andalusia, con la maestà della Livia del Museo Chiaramonti. Quegli erano re, ed il Poeta, il sentì pria che distinguesse le parole dei plaudenti ed udisse, l'uno essere Francesco II di Borbone, l'altra Maria di Baviera, principi nobilissimi quanto sventurati: né credo possa nobiltà aversi maggior misura di questa. E tra i plaudenti era pure gran numero di quei popolani degli Abruzzi e della Campania, che, nei santi giorni della Passione, traggono a Roma pellegrini, li quali piangevano dalla sventura del loro re, né sapevano satollarsi di contemplarlo, movendo per attorno alla sua carrozza. E:

Quando verrai a cessare lo strazio del nostro paese? gridavangli con familiarità di figliuoli più che di sudditi, e pregavangli volesse fare orecchio alla preghiera che essi miseri villici porgevano al loro misero re, perché con la liberazione di Napoli fosse in pace la Chiesa e rimessa, in seggio la giustizia, e franca almeno gran parte di quella Italia, cui veggiam tutta serva di Francia, senza esser però libera dagli Alemanni. A sera, dalla corrente stessa di quel popolo tanto amico di spettacoli (e massime di quelli che congiungono le ricordanze religiose al diletto) l'anima del Poeta fu ricondotta a S. Pietro. E quando vide la basilica

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disegnarsi prima nelle tenebre col mezzo di infiniti lumi minori, e poi, al suono di una squilla, arder tutta di un tratto, scintillante di mille fiaccole e mille, le quali parca movessero da quella che ardeva al sommo della sua Croce:

Oh Michelangelo! gridò, battendosi al fronte, che non nascevi più presto?

Conoiossiachè quel sommo sentiva che dove avesse egli veduto cotale spettacolo nel suo vivente, sarebbesene bene valuto nella descrizione del Paradiso, e cosi il maestro tolto avrebbe in prestanza dallo alunno. E si, che quel torrente di luce che vince e ravviva nel tempo stesso tutte le altre già lucenti, parevagli la luce di Dio che tutti rinfiamma gli splendori del Paradiso, parevagli la discesa del Cristo che, dall'Empireo Cielo scendendo, fuga le tenebre del gentilesimo e sublima la fioca civiltà degli antichi.

E partiasi un pò dispettoso. E seguitava a dire Oh Michelangelo! come contro a chi gli avesse involato qual cosa. Ma il Buonarroti che tanto fu Dantesco nella Cappella Sistina, e negli scritti, nella invenzione della cupola e della basilica e nella sua luminaria aveva tratto direttamente da Dio.

Frattanto l'Alighieri, passato il Tevere, spèrdendosi per viottoli della eterna Città, giunse a Campo Vaccino, ve' la Luna, a quando a quando riapparendo fra nubi densissime e spesse, venia lumeggiando di una luce sinistra i ruderi della grandezza pagana. Però ora il vedevi per il Clivo Capitolino discender nel Foro di Cesare, ora inceder tra le ruine della Basilica Giulia, ora assiso ai gradi della colonna di Foca e fra mirabili avanzi della Grecostasi e della Curia Ostilia. E per la Via Sacra veniva, anzi il prostilo esastilo di S. Lorenzo in Miranda, dedicato già dal Senato Romano a Faustina e ad Antonino marito di lei, e la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, cui serve di vestibolo

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la colla del tempio di Romolo e Remo. Quindi, soffermatosi sotto ai grandi archi della basilica di Massenzio, cui il Senato dedicò poi al vincitore Costantino (e la quale nel suo vivente l'Alighieri, per i non appurati studii archeologici, teneva essere il tempio della Pace) stettevi non poca ora io meditazione. Poi si levò e mosse all'elegante arco trionfale, che il Senato ed il popolo Romano, regnante Domiziano, eressero alla memoria di Tito figliuolo di Vespasiano, per il Conquisto della Giudea e la distruzione di Gerusalemme. E quel monumento, che è il solo modesto fra ì monumenti romani, pareva fosse stato costrutto a posta così per significare l'impresa che con esso trionfavasi essere disegno ed opera di Dio più diretta che le altre opere tutte di che si fè bella la romana grandezza ed il valor degli umani.

Ma mentreché, a pie di esso soffermatosi, veniva considerando questo monumento terribile della veracità di nostra Fede, ed a quando a quando, al chiaror della Luna, notava le trombe di argento e la mensa aurea con i vasi sacri ed il candelabro di oro a sette rami, e le altre spoglie del tempio di Salomone, tutte portate a spalla dai soldati laureati, distrasselo un calpestio che sentiva per il viottolo sottoposto. Però guardò giù il Poeta, e vide quattro uomini venire lentamente a quella volta con il cappello assai calcato sulla fronte ed un mano lunghi pugnali. E, come questi appropinquavansi al loco onde allacciavasi l'Alighieri, sorsero altri tre che stavano acquattati dietro il fusto di una colonna abbattuta. I quali, evaginato anch'essi i loro coltelli, mossero incontro i vegnenti a capo basso e, detto sommessamente:

Maledetto?

Gli altri risposero:

Il Cristo!

E tosto rimisersi in seno i pugnali tutti o sette, e' senza cortesia si congiunsero e senza gioia; e già

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riunioni degli empii non è parola o senso che allieti. Ma:

Eh bene! cominciò l'uno ohe gorgheggiava come toscano, ci toccata altra disfatta stamane? Non ne vedremo mai una?

Non mai! Non mai! Rispose altro di quelli che stavano nascosti, e che non pareva certo romano all'accento. E seguitò: S, Pietro par non la voglia lasciare al Diavolo questa sua barcaccia sdrucita! Non ci è tempesta che la sommerga questa tartan a della mal'ora!

Maledetta! prese allora a dire un terzo che era indubitatamente lombardo. Sono più preti questi romani che non il sagrestano di S. Ambrogio. E si che gli macciuca un tanchero di vecchio senza neppur denti per masticare una offella.....

Accidenti! Ma che vuol che famo? rispóse alfine un quarto che era romano. Non avemo armi, non denaro, non uomini....

To! E che ha di tutto questo il vostro vecchiaccio? riprese allora il toscano. Crede che noi crediamo veramente a grandi quattrini dell'Obolo? Ne dà, si, ma non poi da far guerra a chi si ha un milione al giorno dì disavanzo? E stiamo a vedere mo' che il ricco o l'armato l'aggredito, ed il mendico e l'inerme si fa aggressore! Signorsi, questo sta contemplando l'Europa. Ma crepin gli Angeli, la rivoluzione non siamo che noi!

Ma scusi cominciò un quinto con accento piemontese, chiell mi parla sempre di denaro che manchi e di armi. E che ne avete fatto de duemila marenghi, recativi dal giudeo Rimini per parte del Banchiere 1, che dalle casse delle rivolte portate alla marina di Porto d'Anzo dall'inglese Stopfer nel suo iacht?

1 Con questo nome è dinotato Ubaldìno Peruzzi Ministro dell'Interno di Piemonte. Vedi d Processo Filibech.

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Che di tutto quello vi ha mandato il cassiere 1 per mezzo di Torquato 2?

E qui cominciò a snocciolare ori conio ben grosso di pecunia, cui sarebbe troppo lungo ripetere, Ma il mal romano ed il lombardo, che parca stanziasse a Roma pel ministero della, rivoluzione, cominciarono a parlare degli incendii, degli avvelenamenti dei feriti e degli infermi del napoletano, di questo e quell'altro assassinamento perpetrato, di proclamazioni, dì bombe sparate, delle carte rubate al Barone Cosenza, del giornale garibaldesco soppresso, di minacce a coloro vannosi a spassare, della diffusione dei bollettini delle sette, delle spie pagate per tutti i pubblici uffizi dove non son chierici, delle false nuove spacciate, di alcune prove di regicidio contro Francesco II, fallite non sapeva perché, e via via di tutti quei mezzi morali, con i quali il Governo della rivoluzione caldeggia l'incremento della civiltà ed il trionfo delle libertà.... a suo modo. Ma il fiorentino, volendo forse bestemmiare alla divinità dei ladroni, ad una Taverna novella, (poiché non vi ha di più ladro di un cucinato) usciva a dire:

Dio coco! queste bazzeccole non inducon persona a creder il governo del Papa sia misvoluto. Ci vuole qualche tumulto, qualche tafferuglio......

E come si fa?... rispose tosto il Romano, dove si va?... quando il popolo non è con la rivoluzione, ogni bricciola costa, tesoro!

Ma questo dovete voi fare, soggiunse il Piemontese, dovete voi rubare il popolo a questi pretacci. E spendete pure, che non noi impoveriremo. La bancarotta ci penserà!

E torsero il cammino dalla parte dell'Arco di Costantino. Il Conte Durante però rimase chiodato colà

1 Così nel medesimo processo rilevasi esser nominati fra congiurati Silvio spaventa Segretario del Ministro dall'interno. Id. id.

2 E' questo II nome che assumeva il romano filibech. Id. Id.

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o dalla maraviglia e dall'onoro di così scellerata congiurazione. A. prima non voleva credervi, pareagli ima visione d'inferno. Però, in questa, rimossosi di quel luogo, si avviò al Colosseo lentamente. Venuto su quel suolo bagnato del sangue di tanto migliaia di martiri, si prostrò o baciollo e sparse di lagrime molto. Ma stando così, fra il dolor combattuto e la speranza, vide a poco a poco tutta raggiar quella mole, e la udì risuonar della celeste armonia, cui aveva sentito in S. Pietro a mattina. Quindi scorgea quello maestose ruine popolarsi di giovani e vecchi e di fanciulli e di donne tutti nobilissamente loricati, tutti coronati la fronte di rose, e nelle mani lo palme della pace. Le quali verso il cielo innalzando, ad una voce tutti gridarono Nondum actum est! e sparirono, come portati dal vento, essi e la luce limpidissima che gli circondava. Ed allora;

Oh viva! Viva! oltra che il moto lontani, o magni eroi della carità! Voi vinceste senza congiurare, voi combatteste non con l'uccidere ma col perire, voi eravate mietuti e più rigogliosi e più spessi vi rifacevate. No, voi non indarno cadeste, né il campo che con lauto valore acquislavalo voi lascerete proda a' ladroni ed agli assassini di questi rivolgimenti.

E si dicendo movea altiero e securo per uscire: quando rioccorsegli alle orecchia le voci di quei sette, l'un dei quali venia dicendo:

Ci siamo dunque intesi perciò che riguarda il Re di Napoli e i suoi. Farete rapir lui come abbiamo avvisato. Ma se anche questa volta vi venisse fallito il colpo del prenderlo o dell'ucciderlo, vi ha un'altra cosa più necessaria a spegnere in costui: il prestigio di quelle che il vecchio mondo dice virtù, la fierezza la boria del suo casato, la nomea del valore di lui e di quello della sua consorte. Né ci è altro a fare, poi che l'Europa incoccia a chiamarli gli Eroi di Gaeta, a tener più calorosi i vinti che i vincitori in quella fazione.

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Non risparmiate ciarle ne calunnie, che i pochi nostri potranno dire, e tosto si affaccenderanno a spargerle i minchioni di ogni colore, che sono sempre il numero maggiore degli uomini. E... E mi dimenticavo il meglio. Fate che non si parli mai, che si dimentichi il Programma di Gaeta, quello perché il Borbone promise franchigie costituzionali alle due Sicilie, ed autonomia all'isola e federazione all'Italia. Ed in ciò troverete ausiliari tutti i ciuchi, tutti i birri, tutti i cretini. E non avrete a spender nemmeno un quattrino. Che anzi sarete plauditi, come proprii affigliati, da canosini e sanfedisti e canaglia di ogni casta e di ogni colore, poiché ogni fazione ed ogni casta ha la sua bruzzaglia.

Ed a proposito di canosini, badate, di non iscompagnar mai il nome dei Borboni da quei nomi che (a torto o a ragione sel sa il Diavolo) sono esecrati dai napoletani. Poiché questo è il nostro supremo argomento, e chiavatevelo ben nella testa: i Borboni non possono coesistere con le libertà, e la Chiesa è nemica di ogni lume Voi non potete far tumulto e sappiamo. Ma se non ci riesce di affrettar la fine del Papa con bombe Orsini, come abbiamo stabilito, fate che non scorra settimana senza qualche terribile uccisione o altro delitto. Che essi, se non indicano rivoluzione, danno bene a credere quella infermità dello stato che conduce poscia alla crisi. Avete per ciò arme, avete oro e avrete anche uomini se ve ne manchino. E poi qual maggiore ausilio che la bonarietà di questo governo dei preti, che certo non è più quello di Papa Sisto?

In quanto poi al come vi dovrete governare con questa cheresia, che osa viver pura e religiosa, con questa nobiltà che ardisce essere onesta e non grulla, or vi diremo qui dentro, come ci saremo un po riposati fra queste ruine.

E così dicendo venivano entrando l'arena. Ma, giunti all'arco di mezzo di quel Flavio Anfiteatro, l'ombra dell'Alighieri si parò loro d'innanzi terribile e:

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Qui per il Cristo si cade, non contro il Cristo congiura!

tuonò con isdegno profondo; sicché quegli scellerati allibirono, stettero alcuni istanti perplessi, immobili, quasi da fulmine colti. Ma primo fra essi il lombardo, rinvenuto dallo stupore, traendo dal seno il pugnale, disse:

Al traditore! ed Al traditore! gridarono incontanente gli altri sei, e di botto si avventarono a lui coi coltelli.... Ma l'ombra stette immota ed incolume e, vedutole mandar un pallido bagliore come di fosforo, uno degli assassini cadde morto dal terrore, gli altri fugironsi veloce, per diversi calli.

CAPITOLO XI.

Nurse il giorno indi a, poco, o l'Alighieri, pensando gli scellerati orditi della setta, e combattendo in sé tra la confidenza e il timore, divisò gridare una voce di all'arme,, perocché pensasse non senza un che, il Signore Iddio avergli permesso vedere ed udire quel sacrileghi. E prima si avviò al Palazzo Farnese. E, come fu sulla piazza, noi distrasse la magnificenza di quella molo, modello di regia maggione, alla costruzione della quale sudarono Antonio Sangallo e Michelangelo e Giacomo della Porta e il Vignola, i primi architetti dell'evo moderno.

Il poeta era troppo preso in quell'ora dal pensiero di frustrare la moderna iniquità italiana, per poter applicare anche un istante l'intelletto alla preterita magnificenza di nostra gente. E però, entrata la maggior porta, non guardata mai da soldati né da altra difesa, e passato il bellissimo vestibolo decorato dalle dodici colonne doriche di granito di Egitto,

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colà disposte da Michelangelo, non appena entrò la corte di tre ordini architettonici, che tra le opere dell'arte è meraviglia, vede venir dal giardino, cui rispondon gli archi di fondo, una donna bellissima. La quale vestita di bianchi veli sparsi di fior di aliso di oro e coronata di un diadema di croci e gigli di diamanti, ricordavagli la mistica Matilde cui già vide pel Terrestre Paradiso inceder

Cantando ed iscegliendo fior da fiore,

Onde era pinta tutta la sua via,

E quella venivale incontro benigna, e fermatolo disse:

Maestro! Conosci tu madre che sopra il figliuolo non vegli?

Ma il Poeta, il quale si tosto comprese la esser la luce di Cristiana di Savoia, colei che

… o trionfa lieta

Nell'alto Olimpo già di sua corona;

prese allora a dirle:

Oh Regina! il timore non pensa: ed io non sono ancor fra i beati per che possa dismantar la miseria della umana stirpe.

E tu saraivi presto, o generoso, poiché tanto dolore accogliesti dai travagli di queste contrade.

Quindi, vedendolo piangere, soggiungneva in tuono carezzevole:

Ma cesseranno anche questi, e virtù vincerà il furore, e la mano di Dio scenderà terribile e dolco. Ed anch'io piango e sovente. Né già per il mio popolo tradito, non per il nobile re, in cui m'incinsi, ma per il sangue onde uscii a cui poca terra rimarrà e molta infamia. Ma come tu cantasti, egli

... è formale ad esto beato esse

Tenersi dentro alla divina voglia,

Perch'una fansi nostre voglie istesse.

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E parve mesta a queste parole, e bussò la candida frolle, E l'Alighieri, ripreso amino, ricominciò,

Quasi com'uom cui troppa voglia smaga:

Oh Somma Sapienza! e poi ohe già decretasti la rotta di tanta guerra, che si tardi, che consenti nuovo pianto ogni giorno e nuove mine? Che?

Ma Poeta, interruppe tosto la santa anima, la legge sua Iddio ne diede a conoscere, ma non la sua economia, né ogni dolore è danno quaggiù, né benefizio ogni gioia. Va, segui il tuo fatale andare, o grand'anima, fornisci la penitenza irrogata, né tremar tu per il figliuolo mio glorioso, né per il forte mio popolo, però che la invincibile giustizia sta per essi, e la causa loro è quella della legge stessa di Dio, che tra le tempeste del mondo non naufraga. Va. Ti rinfranca.... e né per la Sedia di (Ionia li accorare, poiché gli angeli sono l'esercito del Cristo, o pel suo impero il Cristo medesimo pugna.

Disse la Inrino ufiMima anima e spin i, noi sembiante

... tanto lieta

Ch'arder parca d'amor nel primo foco.

E l'Alighieri che volea ancor dimandarle del modo, perché avrebbe a tener suo viaggio, se ritornare a Napoli ed a Sicilia, se movere novellamente per Toscana o per Insubria, rimase dubbio colà, e, pensoso, corse ad assidersi su certi ruderi di anticaglie romane, ivi raccolti ab antico.

Ed in quella postura il sorpresero alcuni gentiluomini napoletani, cortigiani della sventura, che traevano a visitare il loro principe. I quali, veduto mesta quella persona, e compreso la non vulgare natura di essa, per i nobili lineamenti della faccia e il con legno, fecersegli cortesemente di attorno, chiedendo

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se cosa fosse, cui eglino potessero fare per il suo piacere.

Ed il Conte riscossosi allora:

Oh nulla! Nulla! rispose. Era venuto io a voi soccorrevole.... Ma per voi sta una grande possanza... Per voi sta la Giustizia di Dio!...

È certo, poi che la non si vende, e però e la sola, cui siamo in potenza di comprare rimandògli il più canuto, se non il più vecchio di quella brigata, Pietro Ulloa dei Duchi di Lauria, statista e giureconsulto profondo e nel tempo stesso letterato amenissimo; il quale rinnovellava fra noi l'esempio del Sannazaro, seguente nella guerra e nell'esilio lo infelice suo re Federigo. Quindi, ringraziando il Conte Durante delle sue umano parole, chiesegli se fiorentino fosse veramente come sembrava, e gli si offerse di menarlo alle sale superiori del palazzo, per vedervi gli stupendi dipinti di Annibale Caracci e quelli di Domenichino, di Francesco Salviate di Taddeo Zuccari, di Giorgio Vasari, di Pierin del Vaga, e le statue della Carità e dell'Abbondanza, sudate da Guglielmo della Porta, e i soffitti rabescati ai disegni del Buonarroti. Il Conte Durante accettò di buon grado, ed accontandosi sempre più con quei generosi, venne parimente ad usare con non pochi di quegli illustri napoletani che, schifando lo spettacolo della manomissione della patria loro, abbandonavano case e censo, e vennero a respirare a Roma un aere più onorato (se poco men che malaria) e mossero a confortar dello loro euro la sventura di un re, che poco o non mai vedevano nella buona fortuna.

E tra costoro il Conte conobbe Francesco di Tocco Cantelmo Stuardo Principe dell'Acaia e di Monte indetto:, modello ancor vivo di cavaliere, soldato già valorosissimo e cui, fortissimamente combattendo e due volte ferito nella battaglia di Lipsia, il primo Napoleone fregiava del segno della sua Legione di Onore, su quel medesimo campo di sua giornata.


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Vide l'Ammiraglio Leopoldo del Re, marinaio assai addurato, antico commilitone del Gravina, di Ruggiero Settimo, dello Staiti dell'Imbert nella guerra combattuta contro all'impero francese,ultimo avanzo di quegli aiutanti reali di re Francesco, che furono Emmanuele Caracciolo Duca di S. Vito, ed il Duca Riccardo di Sangro, morti in Gaeta e il Conte Giuseppe Statella e Nicola Brancaccio Principe di Ruffano, mancanti in Roma ai viventi tutti nobilissimi caratteri quanto mai. E l'Ammiraglio, chi è quello dei vecchi servitori della monarchia, il quale meglio abbia compreso il campo della politica italiana dividersi oggi, non in liberali e ritrivi, masi in federali ed unitari, preferiva agli agi, si cari alla vecchiezza, la onestissima povertà e l'esilio, confortata dal pensiero di una fede intemerata e di una onestà non moderna,

Convitato un giorno da Carlo Capece Galeota Duca della Regina, gentiluomo di molte lettere, maravigliò non poco nel trovarvi tanti esuli napoletani. Tra i quali accontavasi con il Principe Vincenzo Pignatelli (non di Strongoli) uomo naturato ad ogni buon provvedimento di governo, e quell'ornatissimo che ora il Cavalier Ruiz, il solo della segreteria di re Francesco il quale seguitasse il suo povero Signore nella sventura. E con essi era il Generale Roberto Pasca, uno dei più bei caratteri del tempo nostro, il solo fra i capitani delle navi napoletane che non pati iscellerarsi di tradizione, il solo che forte od animoso, renitenti gli uffiziali tutti del suo vascello, questo condusse nelle acque di Gaeta per servire e difendere, alla bella meglio, dal canto del mare quella fortezza. E questi, che il governo della rivoluziono avrebbe dovuto prendere a suoi soldi per la capitolazione di Gaeta, e sarebbe stato ben lieto di farlo (poiché uomini di tanta fede ed un marinaio cosi valoroso come il Pasca si accoglie a grande onore da qualsiasi parte), preferiva

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povertà e il vivere in città mediterranea, durissima cosa agli uomini di mare, piuttosto che imbrancarsi fra ignominiosi italiani, e vedere da presso il disprezzo in che van tenuti per il loro tradimento i suoi compagni d'arme e di giovinezza. Ed il Pasca era in voce di liberale e di molto: non altrimenti fra i traditori della marineria napoletana sono quelli che furono i più ossequenti servitori del reggimento assoluto: i Roberti i Rodrigùez, gli Anguissola, i Longo, i d'Amico ecc. tutti quelli del particolar servigio di re Ferdinando.

Ed in quella dimentichezza non è adire come maravigliasse del numero grande dei tanti gentiluomini delle Sicilie, che in Roma migrarono con il loro Re. E vedevagli, qual più qual meno, tutti ornati di buoni studi, tutti amici di civiltà, che non sia straniera né atea, tutti contrari al novello padrone ed alla fortuna sua, tutti ligi alla sventura del vinto e consorti lieti di un principe poverissimo, cui ben sanno più al dolore esser nato che ad altra vicenda della vita. Medesimamente non vogliamo tacere, come il Conte, usando con questi onorati uomini, conoscesse quella Duchessa di S. Cesareo, eternamente memorabile per l'assedio di Gaeta, cui durò in compagnia della sua valorosa Regina, e la Contessa Laura Staglia, figliuola al dottissimo Marchese Berio, e la Angelica Carracciolo Marchesa di Rende, e la Contessa Eleonora Grifeo ed Elisabetta Ricciardi Principessa di Tricase, donne di animo e di erudizione più che femminea, spiriti italianissimi no, ma italiani. Le quali non sarebbero state indegne di quelle, cui levava a cielo l'Ariosto nel suo poema, e facevangli dire:

Le donne son venute in eccellenza

Di ciascun arte ov'hanno posto cura.

Laonde il Conte Durante, preso con esse piacevolissimamente a ritenersi, soleva dire

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Per verità le buone donne sono le donne di alti spiriti

Ma quantunque bene adunato fosse egli

In non curar di argento ne di affanni,

non poteva non maravigliare del gran numero di napoletani che seguitano la sventura ilei Principe. Ne sapeva altrettanti e forse più, né certo inferiori per alcuna virtù, essersi rifugiali a Parigi ed altrove, Però diceva esempio novello questo nella storia, Francesco II aver esultato dal regno una con il suo paese.

Usando egli con l'Ulloa, si accontò pure con il fratello di lui Gerolamo quel soldato valorosissimo, e certo il più dotto stratego ed il primo scrittore di storie militari della moderna Italia, quegli che dalle lagune della Venezia, a viso aperto combatté l'Austria, non con i tradimenti e con l'oro e con le armi straniere, come campeggia ai dì nostri il Piemonte. E con lui benignamente usando e diportandosi, visitava or questo or quello monumento della Roma estinta e della risorta poiché l'Ulloa non è soldato bruto ma, come diciamo, ornatissimo, né generale piemontese ma italiano. E però presero un giorno ad ascendere insieme al Campidoglio. E colà, presso alla fontana che, fregata di quella antica statua di porfido, rappresentante Roma trionfante, scorre sotto alla grande scala della sala sanatoria, rinvennervi seduto un gentiluomo di quarant'anni o circa, forte di colore nella carnagione, vasto della persona, superbo nell'aria non nelle parole. L'Ulloa salutatolo amicamente, prese a dirgli

Eh ho no che Ini, qui, quatti tutti i giorni seduto, tu di ordinario doni impaziente?

Aspetto che vengano...

Chi dunque?

I membri del Parlamento italiano!

Eh!... Buono che non vi stai a cavallo, che tu faresti il rimpettaio a Marc'Aurelio!

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Era questo gentiluomo che aspettava a Roma i Piemontesi, quel Duca di Maddaloni, quel Torinese di Napoli, come egli stesso dicevasi, gloriandosi al Parlamento Italiano del suo municipalismo. E sì che di questo lodava, né già blaterava la gente subalpina, come quegli che già conoscevala. E l'Ulloa, presentato quel suo cittadino al Conte Durante, presero tutti e tre a discendere il Clivo Argentario, ragionando. Ma come il Conte Durante non una volta aveva letto il nome del Duca di Maddaloni, onorato da ogni fotta di ingiurie dalia serva stampa della nuova Italia, credeva veramente in lui fosse qualche cosa di buono, o almeno di non mediocre. Però non si dispiacque della novella conoscenza di quel napoletanissimo. Al quale (trovatolo fiero di sua impopolarità più che non sei pensava) si avvisò domandare:

Di grazia! Eossivo stato un giorno popolare?

Altro!... Potreste consultar quei giornalacci del 1848!.... Oh! allora io era Marcello!

Ora comprendo. Voi avete conosciuta la, vanità del favor del vulgo, e come spesso costi l'abdicazione della propia volontà, il sacrificio della ragione e di ogni più nobile senso.

Ed allora il Duca, richiesto, prese a contargli dei fatti suoi, del come sorgendo Italia alla voce del gran Pio, egli italiano e cattolico e liberale, anch'egli si levasse a chiamar franchigie ed a desiderare una confederazione degli Stati italiani, per la quale fu poi deputato ministro plenipotenziario l'anno 1848, non ancora compiuto il quinto lustro. Questa tanto desiderata confederazione non essendosi allora potuta operare (né già per la opposizione del Papa, come osò affermare chi ingnorantissimo di ciò che allora si passò, ma per i brogli ed il capzioso rifiuto di Re Carlo Alberto) il Duca si ritrasse a Napoli e venne deputata al Parlamento. Esule poi il 1849, tuttoché affatto innocente del dibordare di quella rivoluzione ripatriava nel 1857 per grave infermità.

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Succeduta la iniqua soggezione del Napoletano l'anno 1860, venia mandato al parlamento di Torino da quel collegio medesimo che il 1848 avevalo deputato a quello di Napoli. Però vedendosi chiamalo alla difesa dei diritti di una nazione conculcata, e seguendo il costume dei Giacobiti in Inghilterra, dei Legittimisti e dei Repubblicani in Francia ecc. divisò andare a Torino. Ma, come vi fu, si accorse non esservi loco per esso, quella del palazzo Carignano essere loggia di settari, non assemblea popolare, nella quale tutte le opinioni possono combattere. E, non essendovi ancora gli sgannati di oggi e que' nobilissimi avversarii delle iniquità italianissime, i quali convenianvi in processo, vergognando della compagnia, deliberò abbandonar quel campo issofatto. Ma non volle uscirne silenzioso od inutile e però solennemente protestava contro alle infamie della rivoluzione per la sua famosa mozione d'inchiesta, onde fu minacciato nella vita e costretto ad esulare, segno alle maggiori ire della fazione. La quale, non trovando da appiccargli neppure una calunnia, veniva strombazandò disertore lui il Duca di Maddaloni, stato sempre cattolico e federalista. E cosi incocciava a dirlo un sodalizio famoso per lo accorrervi di ogni fatta di apostati e traditori, preti, laici, soldati, che ha minostri e caporioni uomini stati già servi ai Papi, ai duchi della Toscana e dell'Emilia, ai Reali di Napoli ed anche di Austria... E però:

In fè di Dio, prese a dirgli il Conte, nuovo disertare sarebbe quello di che vi appuntano, il passar dal campo dai vincitori alle trincee dei vinti, il lasciar la via della fortuna per entrare in quella della sventura! A quel ch'io odo, voi, senza negar massime, non voleste seguire gli errori della parte imperante. Voi vi soffermaste, non voltaste lo spalle! E s'anco aveste abbandonatoli campo, meglio è disertar quello in cui combattonsi così vili imprese,

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che il disertare il campo di Dio e dell'onore, onde necessariamente bisogna uscir fuori per seguitare i traviamenti della nuova Italia,

Spirito alquanto bizzarro e strano uomo politico era il Duca di Maddaloni, perché di que' che hanno il torto di politicar con il cuore e non con la mente, di quelli predominati fieramente dallo spirito di simpatia o di antipatia, carattere impossibile ad ogni carico, ad ogni ufficio di buon reggimento. Nondimanco il Conte Durante, per quella indulgenza la quale è connaturale agli spiriti sommi, prese ad usare con lui senza fastidio ed amichevolmente diremmo, se, come scrisse il medesimo Alighieri a Can Grande, non devesi incorrer nota di presunzione per questo nome di amico, dato dai minori ai maggiori. «Col sacro vincolo di amicizia» scriveva Dante, connettonsi non meno i disuguali che i pari, potendo tra quelli «vedersi dilettevoli ed utili commerci.» Però il magnanimo spirito fiorentino, le cui peccata non furono mai volgari né vili, e nel quale non videsi mai l'esagerazione in parte vincitrice e persecutrice, non il passar dalla vinta alla vincitrice, o l'avvilirsi innanzi a questa in alcuna maniera; ma sì lo error contrario si vide, lo error delle forti nature, lo esagerarsi nella resistenza ai vincitori, nella fratellanza ai vinti compativa a quell'uomo patrizio il poco amore od il grande disprezzo, in che si aveva la bordaglia della rivoluzione italiana. Il Conte Durante era sempre quell'onestissimo carattere, che, quando ghibelline e furiosamente ghibellino, maladiceva alle colpe della sua setta: pel che fu poi appuntato da taluno di esser tornato guelfo anzi di morire 1. Il Conte Durante era quegli che pur sendo dei bianchi,

1 Vedi in Dino Compagni come per la crudeltà dei Guelfi Neri, i Guelfi Bianchi, de' quali era Dante, diventassero Ghibellini Comp. Pag. 504.

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meglio aveva potuto vivere in corte al guelfo Torriano Patriarca di Aquilea ed al guelfo signor di Ravenna, umani gentiluomini, che non in quella del suo ghibellissimo Scaligero, che se era Can Grande e' non era certo buon cane 1.

Laonde non una fiata lugli soccorrevole di suoi conforti a sostener le pene dell'esilio, massimo quelle che vengono dalla famosa compagnia malvagia e scempia ecc. che sarà eternamente supplizio di ogni migrazione. La quale per verità è ben poco molesta, in quella di Roma; poiché non puoi dir tua compagnia la società di coloro non ti furon compagni nella patria, di coloro menarono la cosa pubblica a tale da far tornar lieve il gioco al nemico. Gente con cui si esce di casa, ma non vi si torna: uomini che vorrebbono non la ristaurazione del Principe, ma quella degli errori di che fecero già mercanzia: setta che altro stato non sogna che quello di un padrone con una sbirraglia a latere ed una plebaglia sotto. Ma questa, benché si arrabbatti e si dimeni, conoscesi pochissima e sola ed arrovellasi maladettamente nel vedere in Francesco II ben altro uomo che non farebbe a lei. Conciossiachè, se egli è vero che Vittorio Emmanuele sia il principe provvidenziale per la rivoluzione, non è meno verissimo che Francesco di Borbone sia il principe provvidenziale di una ristaurazione.

Pio come la Madre, cioè piissimo senza esser pinzochero, uomo di lettere e pur non pedante, come sogliono essere i re quanto uomini di lettere valoroso, ma, la Dio mercé, non soldatesco, oblioso di ogni altrui torto o nimistà;

1 Ciò mostra quanto sia falsa l'asserzione del Boccaccio che dice: «Publicissima cosa è in Romagna, lui (Dante) ogni fanciullo, ogni femminella., ragionando di parte e dannando la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gjttare le pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto; e con questa animosità si visse sino alla morte sua.» Boccac, Vita di Dante, pag. 80.

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studioso sempre di medela e di concordia; alacre ed infaticabile; presto e non inconsiderato, largo e non prodigo, clemente e non fiacco, forte e non duro, e da ogni consiglio abborrente e da ogni opera che sia o sembri soverchia; in lui la prudenza e la probità si cormestano e si sublimano. Senza essere sprezzatore delle antiche cose, egli amico è ai buoni progredimenti, ché nemico del correre non lo è però del procedere, quando che al meglio procedasi. La temperanza, la giustizia, più che massime, in lui son natura. La quale, perfettuata dalla esperienza degli uomini e delle cose e dalla santità dei martirio, fu indubitamente fatata a sanar le piaghe novelle e le antiche della patria nostra, od e cospirare ad un miglioro e più naturale stato della penisola; ché questa reliquia vivente di Luigi il Santo, non altrimenti quei gran suo antenato, potrebbe dire: «Pour l'empire du monde, je ne saurais manquer ni à ma foi de chrétien, ni à ma parole de gentilhomme!»

Ma, tornando al Duca di Maddaloni, diremo come egli, tuttoché di poche lettere dotato, né di ingegno profondo, comprendesse bene non poter esso ritenersi in così gravi colloqui, quanti voleva la dottrina che venia scorgendo nel Conte. E però fece si accontasse con il Padre Niccola Borrelli Scolopio, estetico non frigido (poiché non scrivea solamente il suo dotto libro dell'arte poetica, ma era pur gentilissimo poeta) e col P. Carlo Curci profondo filosofo e certo dei primi di questo tempo. Medesimamente fecegli conoscere quel grande teologo che è il Perrone e il Patrizi, principe romano nobilissimo ed uno dei più valorosi interpreti delta Scrittura che sia ai di nostri, ed il Secchi ed il Garrucci, l'uno il primo astronomo che abbia oggi Italia, l'altro il più valoroso archeologo. Per lo che il Conte seppegliene grado e grazie. Quinci si accontò con il P. Francesco Berardinellli che scriveva del Concetto della Divina Commedia, e prendeva un piacere grandissimo

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a ritenersi con osso loro, quando di lettere discorrendo e quando di filosofia, quando di politica e quando di teologia

Ma questi sono Gesuiti? no obbietteranno gliscioìi della setta cosmopolita. E noi risponderemo:

Benissimo! E credete voi che l'Alighieri, dove fossero stati i Gesuiti al tempo suo, avrebbe usato invece con i de Boni, i Bianchi Giovini, gli Sterbini, gli Ausonio Franco, i Bertrando Spaventa, od i traduttori e seguaci tutti del Sue e che so io?

Oibò! Chi quello credesse, non dovrebbe aver letto neppure il primo canto della prima cantica della sua Commedia. Egli è vero che il Gioberti, ricominciando la lotta della rivoluziono, si fe oso dire che Dante sturba i sonni dei reverendi Padri. Ma il filosofo piemontese dimenticava che Gesuiti erano pure il Bartoli ed il Bellarmino, gran difensori dell'Alighieri, il Bellarmino «quel celebre controversista, che al dire dell'Ozanam, portava il peso di tutte le quistioni religiose, che aveva il Papa per cliente e per avversarii, i re, come Giacomo I.»

Il Gioberti non ricordava forse le dottissime lezioni del Padre Manera su Dante nella sua Università di Torino, né crediamo ignorasse i nomi del Venturi, del d'Aquino, del Lanzi, del Mazzolari, tutti gesuiti, tutti dottissimi, tutti commentatori, propagatori, entusiasti della Divina Commedia. Ebbene il sint ut sunt aut non sint di Papa Clemente XIII la il Gesuita di oggi come il Gesuita antico, e però il Conte vi si accomodava a meraviglia. Del rimanente il bisogno primo degli uomini è quello di esser capiti e però l'Alighieri avrebbe cerco questi propugnatori della civiltà, non i scribacchiatori di gazzette a cinque centesimi la corbelleria, non quelli che, avvolgendosi nella nebulosa filosofia di Germania, dannosi a credere ai gonzi come gente saputa e valorosa. Dante non fu mai paziente ed ebbe in odio ogni canaglia, sia popolaresca, sia letterata, o che vogli.

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Frattanto quei dotti chierici, non usi a trovar laico cosi sapiente delle cose di nostra religione in un secolo ed in un paese, ove i barbari della rivoluzione difendono le cattedre delle sacre scienze nei pubblici studii, si affannavano a fare ogni onore al Conte Durante. E quel dotto napoletano che è il F. Carlo Piccirillo volle conoscesse anche non pochi tra gli illustri prelati banditi delle loro chiese, siccome gli avversatori maggiori della rivoluzione. E 'l Conte maravigliò forte in vedendone tanti. E forse non seppe come a Marsiglia altri Vescovi del Napoletano rifuggissero, ed altri fosservi sostenuti a Torino con il Cardinal de Angelis, e molti in Napoli tenuti, quali in carcere, quali a confine, come, verbigrazia, l'Arcivescovo di Rossano che, sin dal principio della rivoluzione fatto prigioniero in Calabria, vivo confinato a Napoli, tuttoché dichiarato innocente.

Per tanto numero di valorosi, per tanta e così varia resistenza agli invasori, il conte Durante venia prendendo sempre maggiore concetto della nazione napoletana, e diceva essa no, non poter perire perché noi vuole, né un solo momento si adagiò nella sua sventura. E certo dei napoletani non potrebbe dirsi, come scriveva dei suoi Polacchi il valoroso Adamo Gurowski, che essi non ebber manco l'istinto delle oche del Campidoglio a tempo della conquista dei Russi. Ma il Conte Durante, ritenendosi con parecchi degli esuli napoletani e confortandogli, esso che intendeva per prova qual pena fosse l'esilio, venne parimente ad accontarsi con non pochi illustri romani, tra quali con Pietro Ercole Visconti, dottissimo archeologo e però non degenere nepote del famoso Ennio Quirino. Il quale Pietro Ercole conducevalo a veder Ostia, per opera sua e per la munificenza di Papa Pio dissotterrata. Medesimamente conobbevi quel Giovan Battista dei Rossi per cui si grande cammino fece l'archeologia cristiana in tutta Earopa. E questi menavalo al museo cristiano

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di S. Giovanni di Laterano e per quelle altre catacombe da lui discoverte. Non è a dire quanto piacere prendesse l'Alighieri e quanto conforto in vagar per quegli ambulacri, in cui congiurossi contro il Romano Imperio senza delitto, e si combatteva, soffrendo e benedicendo. E certo se piacevole studio è l'archeologia profana, che viene dichiarando la storia e lo costumanze di una società perita, quanto maggiormente non è la cristiana, che ne appura gl'inizii della nostra propria e i vagiti ed i primi passi e la giovanezza di una vita non spenta, o la quale fu disputata ad essere eterna.

Medesimamente piacevasi ritenersi talvolta con quel dotto orientalista che è Michelangelo Calici e con il Masi, che veniagli leggendo un suo poema delle notti Vaticane, che di quel dì componeva, e col Duca Mario od il Principe Camillo dei Massimi, gentiluomini eruditissimi. Conobbe parimenti il Duca di Sermoneta dotto ed ingegnoso interprete della Divina Commedia, non che il fratello di lui Don Filippo Gaetano, assai spiritoso cavaliere ed ornata quant'altri mai (ma perito testè dalla vita) ed il Conte G0zzi, dottissimo patrizio ragusino, che fè di Roma la sua patria seconda... o Roma non è mai straniera terra a coloro che sortirono cuore o mente capace di comprender grandezza. E come quegli, che non fu men compiuto gentiluomo che valentuomo, ebbesi un piacer grande nel conoscere tanti cavalieri di vecchio stampo e caldeggiatoci di ogni studio onorato, quanti ne ha Roma; e tra le dame non credea sparnazzar tempo o parole ritenendosi con non poche di esse, se non pure con tutte; avvegnacchè pochissimo siano quelle della romana nobiltà, con lo quali non si potrebbe ragionar che di nastri.

E maraviglia, all'aristocratico Alighieri, di Roma venia piancendo anche quel che dicesi ceto medio. Lodavalo, malgrado non trovasse a dirne bene manco l'About, la più fastidiosa tromba di tutti gli elementi di dissoluzione sociale.

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Ben è vero però che il Conte Dorante il lodasse per appunto di quello onde il biasimava l'About. A tempi dell'Alighieri la società degli uomini partivasi in gentiluomini e plebei. Dove fessevi stata quella diciamo ora Borghesia, noi non crediamo Sa avrebbe tenuta la parte vitale della società, siccome vorrebbe taluno: ma, ormando la sua moderazione, crediamo pure non la avrebbe detta «il ceto dei più brutti», come dicevala quel feroce piemontese dell'Alfieri. E molto meno l'avrebbe poi reputata tutta ignorante, tutta presumente, tutta venale, tutta 'codarda, come diconla tali,

Che vorrebber per padre un altro Adamo,

Avrebbe battuto una via di mezzo. Avrebbe fatto di copiose eccezioni. Ma poca o nulla sarebbe stata a Roma la sua mutria aristocratica, in vedendo come la borghesia vi fosse dignitosa senza esser superba, operosa ma non brigante, proba, leale, cortese e maravigliosamente elegante. E ciò, che che se ne dica, vienele per appunto da questo che a Roma, per il più diretto imperio della legge cristiana, meglio che altrove ponesi mente

Al fondamento che natura pone,

seguendo il quale si ha buona la gente. E molta ne vide a Roma il Conte Durante; ma quella che non volle punto vedere si fu certa gente di Governo, poi diceva che la è dappertutto e in ogni età la medesima. E veramente l'anima sdegnosa non pativa quelle borie, che piccole nei grandi e grandi nei piccoli, non però sì scompagnano mai da coloro che sono in su gli uffizii. E soleva dire:

Chi regge Roma non è qui. Ed io spero vederlo presto altrove e rendergli grazie di tanto miracolo,


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Né mal si apponeva, di vero. Chè miracolo proclamerà la gente avvenire questo serbarsi incolume di Roma tra tanto incendio di rivoluzione, questo solvere il debito di grosso Stato, conservando parva parte delle sue province, ed intrattenerne gli uffiziali di tutto, e frattanto riparare i vecchi monumenti, ergerne di nuovi, abbellir di altri tesori i musei, sterrare le sepolte anticaglie profano e cristiane, tenero in armi piccolo esercito, diffondere per ogni via la civiltà e propagare il cristianesimo, e nel tempo medesimo servire ali incremento dei commerci con la costruzione di porti, di canali, di ferrovie. Miracolo tanta dignità e fortezza in faccia allo straniero, mentre sì vile e si cedevole si mostra a Francia la Italia dei suoi novelli filopatri. Miracolo tanta pace fra tante insidie, in quella che i ministri del Galantuomo (incredibile a dirsi) cacciavano sul territorio romano i galeotti de' loro bagni, licenziandoli ad ogni delitto, speranti potervi accender quel cosi detto brigantaggio, che gli divora nel Napoletano. Ma la scellerata opera andò frustrata, né la guerra spicciolala può attecchire là dove i popoli consentono india signoria.

Però prodigio di Paradiso, diretta opera dei celesti ned altro tutto che vedosi a Roma di buono, veniva dicendo il Gonio Durante a tale che su! cadere di un bel giorno, diportavasi secolui pel Trastevere, facendo di persuadergli non tutto esser di argento quid che vedesi luccicare fra quelle mura. E questi, di cui non curiamo conoscere il nome, par lavagli delle miserie di un popolo che paga il 15 ed il 16 per 100, mentre gl'italiani liberati solvono il (V (sino a domani) e discorreva di giustizia poca, di soprusi troppi, di angario, di oppressione, di fastidio... e quel figuro viveva dei soldi dell'oppressore.... ma scialava poi della pecunia del venturo liberatore. Ma mentre dicevagli del grande odio, in che si hanno i Romani una cheresia,

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che gli ha serbati in vita, e con la quale son vissuti pacifici tanto secolo, e discorreva del poco amore al Pontefice, di botto apparvero ceri e fiori e quadri e fiaccole e falò per tutti gli edifizi della Città. Vedea gli usci e le fenestre, sin dei più stretti vichi e degli abituri più miserie le contrade meno frequenti della città risplender di facelle dipinte dei colon pontificii o dello stemma di Papa Pio. Per tutto mirava discender festivo il popolo nelle vie e sollazzarsi, come in onesta brigata, e nobili e popolo formar tutti una sola famiglia. E vedeva parati di encarpi e ghirlando e vasi di fiori e stemmi e bandiere le piazze e In fontane, rifattovi il giorno per fuochi di Bengala. Gli obelischi diventavan colonne di luce: sorgevan nuovi templi di fiammelle di tutti colori: ed era musica per ogni canto della città, da Porta del Popolo a quella di S, Giovanni, da Piazza Barberini al Vaticano. Però, voltosi al mal compagno, per domandare il perché di tanta gala; questi dissegli del come si festeggiasse l'anniversario del ritorno da Gaeta del misvoluto Pontefice, e il miracolo per che fu salvo l'anno appresso, quando sprofondò la Sagrestia di S. Agnese. Ma tosto soggiunse, questa gioia essere tutta opera di una congiurazione, nella quale convengono tutti i nobili, tutti i preti, tutti i ricchi, tutti i timidi, tutti gl'ignoranti...

In somma tutta l'umanità, interruppe il conte, la quale a vostro dire congiura contro... contro il piccolo branco che vorrebbe asservirla? In fè di Dio che scellerata congiurazione!

A queste parole, l'osceno figuro svagellò: ed il conto Durante, vedendolo scornato e confuso, se ne accomiatò guatandolo a squarciasacco. E sempre di vantaggio piacendosi della onestà e della unanimità, che il popolo romano veniva dimostrando pertanto festa, e di quella cortesia per cui le genti italiane (massime quelle del mezzogiorno) ben danno a divedersi naturati alla civiltà: giunse in piazza della Minerva, mutata quella seta in una sala splendidissima.

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Ma mentre commendavano il bel disegno della luminaria e dilettatasi all'armonie della orchestra, fu distratto dal fortissimo bombo di una granala scoppiata io poca distanza da lui, e dal pianto di alcune donne e fanciulli feriti, e dalle bestemmie di tale, cui erano state mozze lo gambe dalle scheggio di quel proiettile.

Frutto era questo della nuova civiltà, onde vuolsi regalare il popolo italiano, ed il comitato romano non di Roma mandavalo a saggiare in quella festa. Inorridì il popolo, ma non homo, non fuggì. I cori ripresero gl'inni al gran Pontefice, e seppesi, indi a poco, la maggior vittima di quella scelleratezza essere stato per appunto un accoltellatore della mala setta, forse colui medesimo che aveva lanciato fra la calca la bomba mortifera. E:

Come agli sgherri avvenga ai padroni! Gridarono ad una voce parecchi avversatori di questi mezzi morali. Però:

Non accogliete dubbi, disse interloquendo il Conte Durante; poi l'opera degli scellerati altro non può costrurre il patibolo, ned altro vengon facendo costoro ohe dicon voler faro l'Italia.

CAPITOLO XII.

Roma è la pietra di paragono della gente civile. La bordaglia no fugge conio da trappola: gli nomini colti più vi fan stanza mono voglion partirsene. Più volte ho udito a contare come Papa Pio, che non è solo uomo grande, ma anche uomo facezioso, fosse uso dire addio e coloro che rimangono a Roma non più che due mesi ed «a rivedervi» a quelli che vi dimorano di vantaggio. Però il Conte Durante non tardò ad accorgersi lui non fornir penitenza a Roma, non essere questo

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il loco deputatogli alla purgazione delle peccata, a ber lo dolce assenzio dei martiri. laonde, preso commiato dai suoi, non diremo già amici ma devoti, si rimise in cammino per peragrar quella parte d'Italia che non aveva ancora riveduta. E pregò il Signore segnassegli a conto di pena anche quella che provava nel dipartirsi da tanta città. Ma come le penitenze che facciamo dirette a nostra eletta ben di rado son crude, così il Conte Durante, dovendo ripassare per la sua Firenze, fece come quell'altro nobilissimo ingegno del signor Torquato Tasso, che, esecrando la città dei Fiori e dovendo parlare al Buontalenti che metteva in iscena l'Aminta, entrò a cavallo per porta S. Gallo, non calando neppure di suo giumento fu in via dei Bardi a parlare con esso artista, e lesto sulla vettura medesima se ne uscì per di colà ond'era venuto.

Di quei giorni Firenze stessa (benché non tenera troppo di quella fede che fece tanto illustri i suoi maggiori) inorridiva del vedere il suo Arcivescovo oltraggiato nella santa processione del Corpus Domini con un bicchiere lanciatogli sul volto da alcuni vilissimi, che gavazzavano in certo caffè o lupanaio di Contrada della Paglia. E il Conte Durante, forse anche per ciò, prendendone più in uggia la dimora, se ne veniva lesto a Genova dove, e di quei giorni medesimi, un giovane di antica gentilezza di quella terra si pia, di quella città che onoravasi dire la Repubblica di Maria Santissima, militando sur una, pirofregata, sputò sul volto del sacerdote l'Ostia sacrosanta del Corpo di Gesù Signor Nostro, onde era cibato per la Pasqua! Pianse a tal nuova l'anima del Poeta e tutti facean penitenza i buoni abitatori della Liguria per l'immane sacrilegio perpetratosi. Ma udendo il Conte come i ministri della rivoluzione, per pudore od ipocrisia, cacciasser dall'armata il vilissimo giovane, esclamò: Non nella spiga ma nel seme si combutte la vegetazione di tai piante. Quello sciagurato giovane, certo,

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non sarebbe scorso a tanta scelleratezza, dove non fosse stato educato dalle massime o dagli esempii di un reggimento empio e tirannico.

E moveva oltre per quel Piemonte, che quindici anni di rivolture non han potuto affatto disonestare; poiché estremi nelle scelleragini tutti che pongono mano e servono al reggimento della rivoluzione, grandi e forti nella pietà vedi rigogliarvi gli spiriti indipendenti.

Giunto a Torino, in quella città onde né bellezze di natura né d'arte posson distrarre l'animo di uomo civile, a prima giunta, quello al Conto Durante, quello parve proprio il luogo fattogli a compiere sua purgazione A Roma avevasi avuto lettere di commendatizia per il conte della Motta, per il conte di Camburzano, per il conte della Margherita, per il Collegno, il Colobiano dotti o virtuosissimi gentiluomini, cavalieri da dovvero cristiani, e per quel grave e vivacissimo pubblicista dell'abbate Margotti, che più fece contro alla scellerata rivoluzione, che non avrebber saputo fare ddieci belli eserciti della Santa Alleanza. La più fruttuosa predica di oggiorno sono le gazzelle, i libercoli, i romanzi, i drammi; poichè per la stampa e il teatro ha fatto così grande empito lo spirito di rivolta, ed i malvagi non hanno più come in antico l'ora della resipiscenza, l'ora in cui entravano in un tempio, si soffermavano ad udire la voce di un sacro oratore. L'aulica scelleragine era colpa di natura, la moderna di false dottrine. E però apostolo, non meno di quello che andava a predicare nell'Areopago, può farsi colui che mandi un suo foglio nei caffè e nello bische, che sono i fori e gli areopaghi e i giardini di Academo e le terme di questo gran secolo. Il conte Durante il comprendeva bene, egli, che sapeva come per il mondo bisognasse inceder con l'abito del tempo. Però fu lietissimo di conoscere quel sapiente atleta che ad una tempera d'animo durissima

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congiunge poi la piacevolezza di uria conversazione gaia e spiritosa, come quella di un gentiluomo del miglior secolo delle corti italiane.

E il Margotti condusse il Conte Durante al palazzo Carignano a mostrargli il serraglio dei deputati della rivoluzione, che per appunto in quell'ora stava in grande rivolta, per lo aver scorto che vi aveva alcuni di essi, che divorarono di vantaggio o più spudoratamente. E quali si accaneggiavano contro il più grasso lupo, quale per difendere questo od il compagno di preda addentava i mastini, svelandone le magagne e la fame non ancor satolla, quale abbandonava gli antichi compagni di scorreria, quale da tanta rabbia sentiasi preso, che volgeva in sé stesso le sanne, per volerle immergere negli avversi. Ned altrimenti pel giudizio di Verre il Senato Romano corrottissimo, i nuovi padri della patria vedeva affrettarsi a condannare gli accusati per tema di venire accusati e dannati essi medesimi.... Stolti!.... quasi Italia aspettasse gli ordini del giorno di quel conciliabolo per concepire o pronunziare il suo verdetto!

Se il Conte Durante inorridisse più o più vergognasse a quella vista, noi non sapremmo dire a un puntino; poiché non potemmo discernere per la poca luce di quella stanza, india quale il Signore Iddio pare abborra d'intervenire anche pel mezzo delle opere sue. Ma questo si possiamo dire che il Poeta credea rientrare l'inferno e peggio. Né crediate cianciafruseole questo peggio; perché in Inferno vide con ordine e sapienza distribuiti i malvagi, o dove gli avari e dove i violenti, dove i barattieri, dove i ruffiani, dove i traditori ecc. Ma in quella sala stavan tutti baldi e confusi e tutti beccavano e si accapigliavano e bestemmiavano insieme; e se nel regno del dolore vi si veggion di grandi uomini molti, la pluralità dei dannati del palazzo Carignano è massa d'inetti, screziata di parecchie e sudicie birbe e di pochi ingegni e d'ingegni onesti pochissimi.

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Quella è tutta una borsa di Adinolfi, uno ergastolo di Gallenga, un casotto dove veggonsi gratis i burattini Pietro Leopardi Falconcini, Camerini, Salvagnolini, Cipolla, Palletta, Cucuzzelli, Poerio, Mandoi, Silvestrelli, Checchetnlli ecc. E' un bazar dovo compiansi i Chiapusso, i Conti, i Mancini, i Guerrieri, gli Allevi, i Bonghi ed altri rettili cosiffatti. Quanti vi ha di saputi come Giuseppe Ferrari, di dialettici come il Petruccelli, di eloquenti come il Brofferio, di matti come il Ricciard? Costoro son tutti singolarità, E singolarità condannate che è poggio;

Ed a ragion che tra li lazzi sorbi

Si disconvien fruttare il dolce fico.

Egli è però che si è veduto un parlamento, cui povero collegio elettorale voleva onorare del nome di così illustre scrittore quale il Cantù, romper la legge e la consuetudine parlamentare due volle per far getto di tanto decoro, per non aver nel suo seno altro deputato cattolico, un dei pochissimi probi e sapienti perché non può assolutamente addimandarsi canaglia tutta quella ragunata di bipedi. Però se non più giusta, indubitatamente più avveduta fu l'assemblea napoletana del 1848. La quale, venuta al bivio di scegliere tra un fautore svergognato ben eletto, ed un avversario onesto malamente eletto o meglio non eletto punto, accettò questo per deputato, poiché i voti si contano nella camera, ma fuori si pesano. Spesso il nome di un tristo è come quel granello di upas, che vale esso solo a cangiare in veleno tutta una fonte di onda purissima. Per contrario, nel parlamento subalpino vedi accalcati a bizzeffe truffatori e ladroni ed omicidiari e frodolenti. Ivi vedi far lo spavaldo un cotale, che venne liberale, perciocché cacciato di umile ufficio come ladro a tempo della signoria dei Borboni. Ivi odi parlar di onestà e di ogni più rara virtù un tutore che frodava del censo i miseri pupilli.

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Ivi trattar dell'erario dello stato mercanti frodolontemente falliti; ivi vedi ornato del cordone mauriziano tale che, sendo in esigilo, rubava le orerie dell'amanza: ivi levarsi insolente colui che venia ferito di coltello come ruffiano; ivi falsatori di testamenti; ivi tutte le spie riconosci dei vecchi governi, né pochi di quelli vi han da tornare; ivi il confesso regicida di re Carlo Alberto. E colà vedi perfino un prete che uccise il proprio padre. Ned altrimenti che nella Caina e nella Antenora e nella Tolommea e nellaGiudecca dell'Inferno di Dante, in quel parlamento puoi vedere i traditori de' proprii parenti e quelli della patria e quelli che hanno il privilegio (come detto fu dal Poeta) di saper già nello abisso tormentate le loro anime, mentre restano con il corpo sulla terra; il quale, animato da un demonio, pare ancor vivo, non altrimenti parevano Branca Boria ed Alberico da Faenza. Conciossiaché veggansi fra quei seduti uomini che rinnegarono la fede dei loro padri, sacerdoti che disertarono il campo di Santa Chiesa, ministri che tradirono s loro principi e benefattori, patrioti che venderono la loro patria per soldo o ciondolo, Colà vedonsi i Liborio Romano, i Boncompagni, i Passaglia, i Villamarina, i Liverani, ed ogni fatta dì antichi servitori e ministri dei Borboni e dei Papi e sin degli Austriaci: talché uno solo vi manca per fornire il museo degli svergognati, e questo solo è il Nunziante. Però il Conte maravigliava che non avesser pensato per anco a farselo venir deputato: e domandando:

E come? E perché?

Perché non ne hanno bisogno, rispondeva il Margotti, con quel suo riso di maliziosa semplicità, che è la fotografia di quel grande ingegno. E di vero chi avrebbono più a tradire i signori dell'Italia di Giuda? Non rimanea che sé stessi, e questo già da lunga pezza hanno fatto. Vi avrebbe forse in Europa taluno che più potrebbe misprendergli per onesti uomini?

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Però il Conte Durante non voleva più vedere né udire quella scena. La quale meglio ohe scandalizzarlo già il nauseava, il fastidiva, e il fastidio è quel che meno sanno durare gli spiriti elati, Ma il Margotti il ritenea pregandolo aspettasse, e:

Su questa ribalda, soggiungeva, ì più curiosi spettacoli sono sempre quelli ohe non stanno scritti nel programma Abbia dunque un po' di pazienza, e la scena potrebbe variar di coloro,.,

Ma oibò, interruppe il Conte, essa non potrebbe variar che di sudicio,

Ma facendo ressa l'Abate, il Conte, che sperava veder gente diversa, faceagli istanza perché il menasse al Senato. Ed allora:

Che mi canzona? rispose il Margotti. Non sa ella che Senatori altri non sono che gl'invalidi di questo esercito?

Misericordia! Sclamò allora l'Alighieri, e se è cosi andiamo via, andiamo dovunque,

Ma come il maglio spirito né la sua nobile guida potevano mai capire luogo poco men che preclaro, cosi mi avviarono di conserva per l'erta della Basilica di S. Maria di Superga. E colà, adorato al Signore, venivano pià commentando l'architettura del tempio, opera del siciliano architetto Iuvara.

Visitate le tombe dei Reali di Casa Savoia, il Margotti dicevagli come, se non fosse stato il testamento del Conte di Cavour, fra quello, avrebbe veduto anche il sepolcro di codini, di questo Cagliostro in folio, che, giuntato potere o ricchezze e fama di magno politico nella vita, usciane barando il Viatico del buon cristiano.

Ma guai per lui dovo giocasi con dadi non magagnati, prese a dire il Conte dolorosamente. Poi se ebbesi la ventura di non veder la ruina del brutto edificio che esso venne costruendo sulla lubrica via del sangue e dell'ingiustizia,

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non avrà avuto quella, certamente, di sfuggire al castigo di tanti misfatti nell'altra vita, ed alle maledizioni ed alla ignominia, cui sarà segno in questa ii suo nome.

Ed il Margotti, piangendo con il Conte Durante il traviar di un ingegno così fertile e piacevolissimo, siccome buon subalpino che egli è, travagliavasi del declinare che fa e di onore e di bene la terra sua. Ma studiandosi po' di ingannar conforto al suo spirito (egli che ben conosceva ed il suo paese e gli uomini che esso figliò) venia dicendo così, come fuor d'opera;

Basta. Che che sia stato il Conte Cammillo, nol prenda certo per un rivoltoso. Oibò. Egli era un servitore di Casa Savoia pur puro. Volea essa mangiasse da dovvero il carcioffo che, secondo Emmanuel Filiberto, è Italia. Solo sdimenticò che quel valoroso Duca avea prescritto si avesse e mangiar foglia a foglia, né già tutto di un boccone, per poter digerirlo sanamente. Ed oggi il torso l'affoga. Il Conte Camillo era famiglio di Casa Savoia né più né meno che il marchese Don Michele Giuseppe padre di lui. Il babbo la servi in polizia, poi il barometro del tempo segnava reazione: il bimbo fra le loggie dei massoni, poiché credeva potesse fruttarle incremento la rivoluzione.

Però Dio vi difenda dai servi più che dagli inimici, soggiunse il Conte Durante, e per verità io credo la disservissero entrambi.

Sì dicendo uscirono la cripta marmorea. E tornandosi a Torino veniano discettando, se la morte del Conte di Cavour fosse stata di più danno che bene ad Italia, perciocché esso che conosceva la rivoluzione avrebbe potuto trovar rimedio...

A medicarla, rimandogli il Conte Durante; ma colali infermità si spengono non si temperano. Il Signore Iddio rado concesse di poter distruggere l'opere scellerate a coloro stessi che perpetraronle, e spesso valsesi del più umile mezzo per abbattere le grandi moli della umana superbia.

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La rivoluzione italiana morrà, sì, ma morrà di ridicolo. Sarebbe troppo orrevol finita, il cessar per lenito di una schiera qualsiasi di valorosi.

Pochi giorni dopo questa ascensione al colle di Superga, le circostanze di Palazzo Carignano vedeansi frequenti di gente che accorreva all'aula parlamentare, perocché vi si annunziasse lo spettacolo di una, interpellanza sullo scellerato governo che la fazione unitaria vien facendo della parte meridionale della penisola. Però il Margotti, avvenutosi nel Conte Durante, lo inchinò e chiesegli:

Viene ella stamane alla Camera Bassa?

Ma quale è dessa? Quella dei Deputati o dei Senatori? rispose chiedendo a sua volta il magnanimo spirito, che non sapea cui si venisse meglio l'epiteto, e non era grandemente adusato al frasario del giorno. Ma il Margotti, spianato il suo dire e il perché, il Conte

Con l'animo che vince ogni battaglia,

consentì a gir di brigata a Palazzo Carignano con alti amici. Quinci, vinti i primi brividi, che gli venian dall'aspetto della ragunata e dal puzzo che ne esala, ebbe ben presto a cercar di sedarne altri né pochi per le sceleratezze di tirannia che venia svelando un di quei turpi, il quale per difetto di dialettica o per brutto appetito di popolarità, enumerando mille infamie del presente reggimento, ricordava e maladiceva un passato, che non venne appuntato neppur della centesima parte di esse da coloro che il volevan distrutto. La costui diceria, dettata in stil di bettola e ruttata coniar da carceriere, non venia afflata da carità di patria ma di tasca; che più della cessazione dei mali volea la mutazione dei malefici. Trattavasi di mutar un Minghetti per un Rattazzi, cancro per cancrena, e Dio sa, che altro.

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Non pertanto quella Camera, che pochi giorni dietro tanto aveva tempestato per gelosia dei milioni arrastrati dal Bastogi e dal Susani ed altri del brigantaggio parlamentare, questa volta non voleva si parlasse né si udisse: talché assai avvedutamente venia allora addimandato parlamento di sordomuti da quello arguissimo ingegno del Petruccelli. E se ne offesero. E fu peggio, poi ciascuno cominciò a dire la sua. E quale narrava un'infamia e quale altra, e quale minacciava di altre svelarne ove venisse confutato o costretto a tacere, e ciò, chiaro è, per far paura a chi spende, non per far bene al paese, ché nessuno gridando all'infamia gridava fuori gli infami. Ché anzi medela a que' mali, de' quai eglino medesimi erano autori, proponevano, come per consueto, le proscrizioni e le fucilazioni e la prolungazione della legge Pica, di questa anche più scellerata della legge dei sospetti a tempi della madre rivoluzione francese. Nò maraviglia: poiché più codarda e più ipocrita è la rivoluzione figliuola. Ma surto alcuno, a maledire non già quella legge draconiana, ma a svelare come per essa la piaga della guerra napoletana, anziché guarire, infistolisse: lesto levossi a difenderla tale elio, tozzo e grosso della persona e calvo il capo e la faccia gialla e schiacciata, con occhi poco mono che spenti, pareva e per lo suo aspetto e per la parola agghiadasse le membra di ognuno Ed agghiadò anche lo spirito del l'Alighieri, che più smorto nella sua parvenza di quello che fosse per consueto, preso ad esclamare;

Domine! E come si addimanda colui?

Ma, udito quegli essere il Pica, tremarongli le vene ed il polsi. E volea partirsi temendo la meledizione dei morti, il pianto e le imprecazioni dei miseri che lentamente venian morendo dalla fame e dalla mal aria per i campi di Oristano e di Cagliari, avessero a movere la folgore di Dio, giusto in quella ora, e con lo sprofondare del malvagio dovesse inabissarsi tutto che il circondasse e gli uomini e la terra e ogni cosa.


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E come era per uscire, fu soffermato da tale dissegli:

Ma ella inorridisco tonfo alla vista del Pica ha durato poi quello del Parlamento? drudo questo sia diverso o men scellerato o men vile? La leggo Pica non è che la espressione della maggiorità che la volava. E le fu dato titolo di legge Pica per maggior oltraggio del Napoletano; poiché, macellandosene la carne, vienseno pei quello editto anche a svergognare il nome. E si, che il Pica è deputato napoletano. E notato che di tutte le leggi mille, cui promulgava alla brava il governo della rivoluziono, questa solamente porto nome di membro del Parlamento.

Ed egli che dice? Egli se ne fa bello?

Dimandava con terribile ansia il Poeta. E:

Certo, rispondevagli l'altro, che era un napoletano colà confinato. E gli è di ragione, perciocché il Pica esce di quello sentina di ogni delitto che dicesi il Foro Napoletano. Non è curiale di colà il quale non ispasimasse di fare di fare il Tanucci in pacifico reggimento e, scoppiata la rivoluzione, scimmiare il Robespierre... ma un Robespierre Robespierre che sapesse accantucciar anche i quattrini.

E cotal mostro era uno di quelle agnelle cui re Ferdinando teneva in gabbia, che il Gladstone levava a cielo quai nuovi fabii, quali redivivi Valerii o Cammilli, che Europa e noi stessi, che così ora scriviamo, piangevamo allora miserrime, innocue, divorate vive da un monarca, cui il popolo doveva poi altrimenti condannare, cui doveva maladire come fiacco, come mal custode dello terra commessa alla sua tutela dal Signore Iddio 1.

1 Un colto ed onorato gentiluomo napoletano il B. A. P. nella estate dell'anno 1861, avvenutosi per il giardino della Villa Reale nel signor Pica, che egli conosceva, prese a rimproverarlo del mal governo ed a querelare delle crudeltà di questo.

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Ma il napoletano avevano bel dire, che il Conte Durante non poteva vincere se stesso. Fosse Pica tutto il Parlamento od un sol coso di esso, quel nome non suonava meno osceno però alle orecchie dello sdegnoso spirito fiorentino. Il quale, udito in quel frattanto il voto di prolungazione della immanissima legge, vide lesto svingnarsela quei gloriosi padri della nuova Italia. E quali correano a sfamarsi di un desinare che costa va il digiuno di tanti, quali volavano in braccio a brutti amorazzi, quali a giucar in sordide bische il prezzo di lor suffragio. Gli vedea tutti lieti e sgaggiali, quasi avessero sentenziata la felicità della umana famiglia, la cessazione di ogni miseria; quasi il sangue che vienesi con tal ribocco spargendo lordi il carnefice solamente, né già chi comanda si versi. Quale il nome del manigoldo che recise il capo di Carlo I, quale quello di lui che spense Luigi XVI? La storia non gli ricorda. Ma i popoli e la storia dicono ancor regicidi il Cromwel e i membri della Convenzione Francese.

Uscito il palazzo Carignano, nell'ora stessa che svignavaosela quelle iene accademiche (vergogna oggimai dell'umanità tutta quanta) non poco ebbe a piacersi l'Alighieri dello spregio in che vedeva aversi dal popolo quei messeri. E quale udiva celiar del quanto avesse fruttato la diceria o la bulla bianca di quel giorno a tal Catone: quale dir della vendita di non so qual carico di prefetto o di magistrato, pattuito da un Cassio del nuovo regno: quale delle grazie che vendeva una Porzia novella, amanza di non so quanti tribuni e consolari: quale dell'abbandono di questo o quel cespite demaniale: quale della invasione permessa di alcuni boni ecclesiastici ecc. Nè ciò crediate romanzo,

Il B. P. è liberale e diceva al Pica Ma i Borboni cui gridavate tirarmi, quando mai hanno fatto cose simili? ed il Pica rispondeva I Borboni erano minchioni o noi nol siam punto.

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poiché l'onesta eloquenza del Brofferio non peritossi di dire nella regia istessa di tai potenti «si svegliò nel paese una voce, dapprima lieve, poi incalzante, poi gigante che qui si facesse traffico dei voti dell'Assemblea Nazionale». Ed il Guerrazzi torna a dire «che il denso aere della lunga od impunita ladronaia ci affoga» e che il secolo nostro si addimanderà il secolo dei ladri, e ne fa certi che «i Giuda son venuti in ribasso.» Laonde, queste parole ascoltando, il Poeta usci nel dire:

Fortuna che non si andranno a Roma costoro, ché essi farebbero Campo di Fiore 1 il Campidoglio!

E passava oltre. Né abbiate a credere che gente così diffamata si tenesse in ombra, incedesse umile e nascosta. Oibò! Essa andava tronfia come otre, procedeva spavalda come Capitan Fracasso: e fu veduto un mercante romano, venuto deputato a Torino, far sostenere a Livorno un suo fratello di esilio, perocché si facesse osò non inchinarlo per via Non è grande di Spagna, non celebrità francese, non dottore di Heidelberga o di Lipsia, il quale incedesse con tanta sicumera con quanta incede tra lo sprezzo dei popoli della penisola il più di quei truffatori del suffragio popolare. E sì che neppure il guasto della nazione essi rappresentano. In quaranta colleggi elettorali, rappresentanti meglio che due milioni di cittadini, non vi ha che trentanove mila seicento novantasene elettori inscritti. Meno di due cittadini per cento sono dunque deputati ad eleggere i legislatori di tutto un popolo. Vi ha in Parlamento rappresentanti di cinquantamila italiani eletti da men che cento, da meno cioè che non sian coloro i quali mestano nella pentola governativa tra quei cinquantamila. A Napoli, nel rione del Mercato, abitato da meglio che centomila anime, fu deputato al Parlamento italiano un Paolo Cortese per non più che voti quarantatré, il voto di non pur tutti, forse, i suoi congiunti ed i servitori.

1 Campo di Fiore h luogo di mercato in Roma.

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Però, non che di proprio valore, essi non si hanno neppure l'autorità del numero.

Laonde non è maraviglia che, come fu proposto al Conte Durante di accontarsi con alquanti di essi, di ridergli a ragione o ad onestà con le arme della sua dialettica:

Bubole! rispondesse con aria di schifo. E perché?... Fatica perduta!... Già costoro sono troppo ciuchi per sospettarsi somieri e troppo vili per accorarsi del pubblico disprezzo. E poi, e poi a quali o quanti si gioverebbe? E dove e quando vorreste voi che io andassi a pescargli?

Nel decimo uffizio.... a sera.

Soggiunse incontanente un bel cavaliere, che non sapeva il Conte ignorasse la massa de deputati partirsi in nove uffizi, ed i deputati medesimi addimandar decima la casa di certa madama Adele: casa cosi detta di tolleranza. Perciocché egli è in questa, che come gioiello nella propria busta, sogliono a sera raggiarsi il più dei membri del così detto Parlamento Italiano. Ma come seppe il Conte che cosa fosse davvero codesto decimo uffizio, incocciava nel non voler credere a così brutta verità, e soprattutto che i deputati medesimi dessergli tal nome. Però con aria di dubbio domandava:

Ma davvero? Ma voi non celiate? Ma è proprio?....

E sì! Che maraviglia? Vedrete che robba! Tutta di Francia!.... E potete intrattenervi in un bel addobbato e ben riscaldato salotto, dove discettasi delle più rilevanti cose d'Italia.

Ma come? Il decimo uffizio è un....

Tornava a dire il Conte accigliato, con mutria di offeso. E ciò non solo per la disonestà della cosa (poiché in fin delle fini era stato uomo di mondo il Conte) ma perché temeva non si facesser beffe di lui. Quindi, crollando il capo, chiedeva:

Sarebbe di grazia quello, il cui padrone è stato decorato della Croce Mauriziana?

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No, non è quello rispondeva un altro che faceva il dotto nella topografia venerea. Non è quello, perché in codesta casa si pagano soli cinque franchi e però ci va ogni fatta di gente. Quello della signora Adele è un sito aristocratico, e l'altro di che la mi parla è democratico. Ed oggi veramente è preseduto dalla moglie o sorella del Cavaliere, perché egli è stato fatto capitano ed è andato col suo reggimento nelle Provincie meridionali.

Capisco: a moralizzarle!

Disse un napoletano che era li. Ma il Conte Durante già non più vedeva né udiva; così era egli confuso dalla vergogna. E maravigliando di tanta corruzione ed abbiettezza, si ritrasse tosto in disparte, ché gli parca delle vergogne narrate toccasse anche a lui una parte, come quello che pure era spirito di uomo e d'italiano. Ed egli non aveva saputo come il reggimento che balestra le monache, stabilisse premio per la prostituzione!

Partitosi da que bellimbusti, mosse verso il Duomo. E vedendo così gran folla ivi accorrere, che non avrebbe creduto ne accogliesse tanta quella piccola città, disse:

Benedetta nel Signore Iddio! La rivoluzione qui è veste non corpo.

Però, mischiandosi fra quella gente da bene, teneva dietro ad una processione, che portava il simulacro di Maria Consolata, dal vecchio suo santuario alla Cattedrale, che ne celebrava la festa. Era questa una antica statua della Vergine, che vuolsi sia la stessa che si ebbe S Massimo da Eusebio reduce di Oriente, dove quella non sia stata distrutta da Claudio Iconoclasta Vescovo di Torino. Ad ogni modo essa immagine è avuta da ben otto secoli in grande venerazione da' principi e dai popoli di quella terra. E però non è a dire come arrovellassero i settari del vederne ancor vivacissimo il culto, del non aver potuto ancora sbatter la fede di quegli alpigiani, dopo quindici anni d'imperio.

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Quella processione era un corteo trionfale che diceva loro: Non farete cosa neppure nel mezzodì.

E sia che veramente comprendesse ciò un massone che procedea per quella via, sia che fossevi mandato a posta dalla Loggia o (secondo che ancora si buccina) dagli stessi ministri del regno; l'empio, mischiatosi anche esso fra il buon gregge, entrò il tempio. Posta che fu sull'altare la sacra immagine, ascesene lesto come colubro i gradini e, tratto dalla cintura un coltello, fendè il capo della Vergine e quello dell'Infante Gesù per due colpi Grido di orrore rimbombò come scroscio di fulmine per quella volta. I fedeli, afferrato pei capegli il sacrilego, il trascinavan fuori del tempio per farne scempio... Ma colà lesto fu buon nerbo di provvidi carabinieri, che issofatto strapparono lo scellerato al suo castigo, dicendo:

Poveraccio! Gli è un mattarello!

Ed il condussero al morotrofìo, dove nudrito a spese del Governo alquanti giorni, fu presto fuori di ospizio e sano da poter venire... anche ministro Ed il medesimo giorno, e forse nell'ora medesima che salvavasi dalle mani de' fedeli quel sacrilego oltraggiatore di tutto un popolo, altri delitti si perpetravano sulla terra del regno e fra gli spaldi di quella allor provvisoria Capitale d Italia. Ma (vedi capriccio degli umani eventi!) alla benemerita arma non toccò la ventura di trovarsi presente anche colà. Pure... basta... i carabinieri furono presti ad impedir la occisione di quel... matto, e pur fu un tantin di sangue risparmiato... E dite poi che non sia longamine il reggimento di oggiorno!

Ma non così tosto che guariva ii matto della Consolata, guarivan dalla mestizia i fedeli che fumo spettatori di scena sì orribile. Ne men fra questi struggevasi lo spirito del Poeta Cristiano, che quasi credeva ottica illusione ciò che eragli occorso allo sguardo.

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E correva col popolo alle pubbliche penitenze, irrogate per mondar la patria dall'infamia di tanto sacrilegio. Confortava quei miseri i quali vergognavano che fosse cittadino loro quell'empio, dicendo non piemontese ma uomo di setta esser colui, e così fatti settatori non aver patria né Dio. Ma esso che consolava non era pero men misero, Dante si infiammato adoratore della Vergine, tra quei dottissimi filosofi che furono S. Bernardo e S. Alfonso di Lgorio, Dante che quaranta volte nel suo poema dice dolcissimamente di Maria 1, Dante che sceglievasi dimostratore della gloria di Lei il santo Abate di Chiaravalle che gliela facea mirar circondata in forma di roso dagli angeli e dai santi più sublimi, Dante che mette sulle labbra di sua guida quei celestiali versi

Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio,

Umile ed alta più che creatura.

Termine fisso d'eterno consiglio,

Tu sei colei che l'umana natura

Nobilitasti sì che il suo Fattore

Non isdegnò di farsi sua Fattura.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,

Per lo cui caldo nell'eterna pace

Così è germinato questo fiore.

Qui sei a noi meridiana face

Di caritade, e giuso intra mortali

Sei di speranza fontana vivace.

Donna, se' tanto grande e tanto vali,

Che qual vuol grazia e a te non ricorre,

Sua disianza vuol volar senz'ali.

1 Inferno, II, 97, 124. Purgatorio III, 39, V, 101, VIII, 37, X, 41, 50, XIII, 30, XV, 88, XVIII, 100, XX, 19, 97, XXII, 142, XXX, 6, Paradiso, III, 122, IV, 30, XI, 71, XIII, 84, XIV, 36, XV, 133, XVI, 35, XXIII, 88. XXlV, 120, 137, XXV, 128, XXXI, 100, 116, 127, XXXII, 29, 85, D5, 104, 107, 113, 119, 134, XXXIII. I, 34.

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La tua benignità non pur soccorre

A chi dimanda, ma molte fiate

Liberamente al dimandar precore.

In te misericordia, in te pietate,

In te magnificenza, in te s'aduna

Quantunque in creatura è di bontade.

Ma mentre che piangeva sulla presente sventura e la futura di questa miserissima Italia, venne a rivederlo il Margotti, e:

Su, prese a dirgli, non si accori. Non dubiti, che il Catechismo ha trovato chi il vendicherà.

E questi?ché dimandava ansio il Conte.

Sarà l'Abbaco! rispose di botto il Margotti, il quale prese a persuaderlo a venir seco alla Camera Bassa, poi vi si discetterebbe della infermità di quel morituro dello erario. Il Conte gli tenne dietro come chi mova all'eculeo. Pur non fu la più dolorosa scena che egli vedesse, avvegnaché non men disonesta della altre. E questi signori, che il Marchese dell'Isle con fine cortesia diceva di une probitè pour le moins douteuse, questo parlamento che non può aversi altro comsagno che il moderno ellenico, quel giorno venian discovrendo le piaghe di un disavanzo di meglio che un milione al giorno. Il disavanzo per il quale scialacquansi la repubblica, e smagrano chi avragli a pagare in futuro o chi non sarà punto pagato poiché la diabolica bancarotta non è men paurosa versiera per la novella Italia, di quello che siale la Santa Alleanza. E questo erario, che il Conte di S. Martino, in Senato, definiva un precipizio, e l'avvocato Siotto Pintor la prolungazione del cono, ed il Signor di Revel un avviamento alla ruina, non veniva con più dolci parole salutato nella camera elettiva. Poi certo Mandoi Albanese dicevalo un voragine, volendo di l'orse una voragine, ed un Audifredi un pascolo di parassiti ed il Musolino, leale ma avventato spirito calabrese, comparavalo ad un ragnatelo, entro al quale dibattesi una mosca che si chiama Italia.

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Né meno avvedutamente il Saracco il diceva la botta delle danaidi. Inoltre il Conte udiva il deputato Mordini querelar che la pubblica azienda fosse una rete di ferro, ed il Petruccelli dir che gli uomini del novello reggimento si mangiassero in erba questa Italia rigenerata. I,aonde riserne il Margotti ed il Conte, che venia riesclamando:

O gloria dei Latin...... per cui

Mostrò ciò che potea la lingua nostra!

E frattanto certo deputato Zanardelli chiamava specie di comunismo il nuovo reggimento, e il loico Boggio diceva la Finanza italiana una vecchia che cerca le tenebre per nascondere le sue grinze. Ma tuttoché anche il consortiere Michelini dicesse un mito l'equilibrio finanziario, promesso già da Messer Marco Minghetti Presidente del Consiglio, e 'l consortiere Ballanti dimandasselo la quadratura del circolo, e l' Minghetti medesimo confessasse essere Italia in una situazione spaventosa, egli ed il suo ministero si ebbero il voto di fiducia... idest, furono licenziati a poter scorticare per altra pezza la penisola.

Onesto fatto rassembrò al Conte il giudizio di ladrone che convinto e confesso e stigmatizzato da tutti i giudici in particolare, venga poi dalla generalità di essi assoluto. Vi aveva di che pensar male un pochino. Però non vi sappia reo se anche un'anima purgantesi facesse qualche giudizio temerario. Ma ciò che parrà inverosimile si è che i giudici si ritiravano gai e l'assoluto scendeva mosto. Forse dubitava nol sarebbe del pari dai deputanti. Forse vedeva inutil vittoria la sua; poiché i ministeri del regno d'Italia non caggiono né salgono per maggiorità o minorità di voti, come quelli degli altri paesi cosiddetti costituzionali, ma sì per telegramma di Parigi o per briga di cameriglia o di loggia. Ed allora la stessa maggiorità che ha servito l'uno passa ai soldi dell'altro.

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Per la qual cosa l'assemblea del Palazzo Carignano potrebbesi dire risorgimento delle compagnie di ventura. Potrebbesi ridomandare condotta; ché gli onorevoli suoi fanno non altrimenti che i soldati di Braccio, i quali vincendo Sforza diventavano sforzeschi, e vincendo Braccio tornavano bracceschi.

Pure (vedi incredulità degli uomini) questa volta il ministero, come accennammo, tremava. Temeva aver a chiuder bottega per maggiore offerta di altrui. Però, tra per tenersi in arcione e veder che vento spirasse, il Minghetti divisò rimettere in campo la questione romana, o almeno la cacciata di Francesco II da Roma, la cui vicinanza è proprio un prun negli occhi degli italianissimi. Laonde, mandato per il suo fattorino Venosti, Marco prese a dirgli:

Qui si parrà la tua nobilitale.

Io sto numerando i milioni che deve portarmi in dote la mia futura Principessa, e però non posso andare io dal Ministro di Francia. Vacci tu. E poiché bisogna che l'Europa cominci ad accorgersi da altro che dal prestito italiano, che siamo finalmente una potenza, un po' con le buone, un po' con le brusche fargli comprendere, che con le carte che il suo padrone ci ha messo in mano non si giuoca a lungo.... Bisogna far qualche cosa per noi, e noi per la rivoluzione; altrimenti saremo costretti a cercar altri magnanimi. E qui gli farai un poco comprendere che non siamo poi tanto a disprezzare. Danaro è vero non ce n'è. Ma che importa? Per ora si spende ed è tutt'uno come se ce ne fosse...

E se non danaro ci abbiamo picche; ci abbiamo l'esercito....

E che esercito mi vai contando? Come lo si può avere in un paese dove i renitenti ascendono al 57 per 100? ed i disertori dello scorso anno a 16223?

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E cresceranno, non dubitare. Già, il sai che al postutto questo grande esercito è di 273,044 uomini in armi, ohe tolti i non combattenti, sono davvero 223,668. E circa il terzo di essi nuovi soldati e, come è noto purtroppo, scompagnati di animo, di massone, di costumi. Vedi: nelle stesse loro caserme si dividono per nazioni tante quanto sono le province o le razze della penisola. Si esecrano peggio che cani.

E so... ma via, in tempo di pace fan numero e si può credere valgano come esercito.

E poi quel guasta mestiere del General Bixio ci va scrivendo della misera condizione delle fortezze, degli arsenali, dei cantieri che mette in pubblico il suo sgomento ed i suoi sinistri presagi 1? Ma basta... Bisogna far mercanzia di tutto e facciamola anche di queste lustre di forza, contandole pur come forza vera. E poiché io vado a nozze, fagli vedere anche in queste una minaccia. Fagli intendere che se il Rattazzi menò sposa gallica, io vado ad impalmare una simile anglica, ed una nepote proprio di quell'avventuriero brittanno che a Napoli fu autore delle impiccagioni de' giacobini e bonapartisti, che poi ci tornò così acconcio in mettere a conto dei Borboni. Ci pensi bene la Francia: questo mio matrimonio le potrebbe far del dannaggio.

Intendo, intendo rispose subito il buon discepolo, e lasci fare a me... che saprò io condurlo...

1 Sunto della relazione sulla leva. Documenti XX e XVIII.

2 Lettera del General Nino Bixio al deputato Lanza inserita nell'Opinione e nel Giornale Ufficiale di Napoli del 13 Dicembre 1864. Vedi pure la lettera del General Antonio Ulloa, uomo peritissimo delle cose militari, che scriveva a Lord Rokely tenente generale degli eserciti brittanici nel 23 Agosto 1863 e che tanto seppe amara ai signori dell'esercito piemontese, che risposero nella Gazzetta militare di Torino, largheggiando, come per consueto, dì ingiurie, poiché non si poteva rispondere con fatti né con ragioni.

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saprò io fargli intravvedere..... saprò io inculcargli.... saprò io...

Voi non sapete nulla, credete a me, altrimenti non vi avrei preso al mio servizio: corbezzoli!

risposegli il Minghetti, fastidito di tutti quei saprò io. Quindi, imboccatogli motto a motto tutto quello voleva sciorinasse, lo accomiatò, promettendogli che dove fossesi condotto bene l'avrebbe regalato di un pappagallo di onore. Ed il Venosti andò via tutto arzillo e tronfio. Ma come si fu uscito dalla stanza, Marco diè di piglio al campanello e cominciò a suonare e suonare e, comparso un usciere, gridogli:

Subito, subito, richiamate quel giovane...

Quale, signor Ministro?

Bestia! Quello che fa da ministro degli affari esteri.

L'usciere andò lesto e, ritornato il Venosti indi a poco, Marco ricominciò:

Mi dimenticavo il meglio. Metti una cravatta nuova, una cravatta rossa o cilestre, che spicchi molto, sai. E molto oro. Ed i calzoni siano quelli dì color di Avana, che questi Francesi bisogna prendergli con gli specchietti come le lodole. La prima dottrina di un diplomatico è quella di presentarsi bene e a seconda, cioè di sentir di stok all'Aia e di pachouli a Parigi. Vedi il D'Azeglio. Quale degli Inglesi porta gli stivali più lucidi di lui? E dicasi poi che egli non sia l'ambasciatore dello Stivale, che non faccia onore all'Italia! E il Nigra? Ha inventato qua nuova camicia. Il Thiers, il Guizot ne crepano d'invidia, e sua mercé, non ci si potrà dire che spogliamo l'Europa quando si vendono le polizze dei nostri debiti. Fine accorgimento del Cavour fu quello di mandare all'alta Zingaraia un così bel zingaro per ambasciatore! L'accordo ne deriva come di natura.

E cosi sollucherandosi il maestro e il discepolo, non stettero molto e tornaronsi a dividere.


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Il Venosti, corso a casa, fecevi una toilette di due ore e tre quarti e, messo cartoni nelle brache, acciò non facesser pieghe e, fatto colar gocciola di acqua nei rotoli delle basette, per veder se tirati ben dritti, e mutati più e più colli, per trovare il più inflessibile, e messo calzari nuovi di cuoio verniciato, ed un kraus cilestro, che faceva una guerra d'inferno ai suoi capelli rossi, si condusse pur finalmente a casa il Ministro di Francia.

Di quei giorni, è ben ricordare, come sulla ribalda della politica francese si rappresentasse la commedia dell'Inertia Sapientia. Non si era ancora venuto nel divisamente di fermar quel patto che dicesi la Convenzione Franco-italiana del 15 settembre, quella trattazione che noi potremmo dir polisensa, non altrimenti che la Commedia del nostro Poeta. Ma polisensa del brutto: perocché quella convenzione di servaggio la abbiamo veduta plaudire dal già federalista Ferrari perché ne conduce all'unità, condannare dall'unitario Petruccelli perché mena alla federazione, ned altrimenti accettare dall'ateo Sineo, per ciò che fatta a distruggere il Papato, o dal cattolico Ondes, perocché ne riconosce la temporal potestà e mira a farla rispettare. Ma, checché sia di essa, indubitata cosa è che nel palazzo delle Tuileries non ancora pensavasi di irrogare la legge Pica anche alla Casa di Savoia, di mandar questa per domicilio coatto a Firenze, di cacciarla pur dalla propria reggia, dopo averle arraffato la culla e le chiavi di casa, di togliere ad essa, al Piemonte, ad Italia.... il tempo svelerà che altro.

E benché non ne fosse più amico né più nemico di quello ne fu prima e ne è dopo cotali fatti, pure il gabinetto di colà ne teneva più il broncio che ora. Però, come è costume tra i bonapartisti, che quando l'Imperatore starnuta, starnutano tutti, cosi a seconda della mutria di S. M. I. componevasi quella del suo proconsole, del suo messo dominico in Italia.

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Di costui, cioè del Ministo di Francia che risiedeva a Torino, per verità non ricordiamo il nome: né è poi gran danno, che sendo uomo del Buonaparte, si chiami Appio o Virginio, è sempre il personaggio medesimo, e sempre il Buonaparte. Ma il fatto è che questo Ministro di Francia, uditosi annunziare la visita del Venosta, ricevevate poco meglio che non avrebbe fatto per uno staffiere di buona casa.

In vesti da camera, accanto al caminetto, fumando un cibuc, e mettendo a quando a quando i piedi alla vampa, come l'italiano fu messo dentro, uscì nel dirgli:

Eh, bon jour! Avancez. Prenez une chaise, Asseyez vous. Sans compliments. Eh bien, qu'avez vous de nouveau?

Ed il Venosta sedutosi, dopo aver bene alzato i pandel kraus, prese a parlargli della mostra dei cannoni che il Galantuomo aveva fatto a Milano poco innanzi e del come la riuscisse a maraviglia. Ma:

Hèlas! rimandogli di ripicco il francese, il en a été bien autrement de la revue des caisses que ses ministres viennent de faire.

E che monta, rispose allora il buon giovane, si riempiranno, non dubitate. La parola del Minghetti, i beni dei monaci, quei delle monache, le ferrovie...

Mais comment? Ne les avez vous pas encore digérés ces chemins de fer?

Interrompeva il Ministro del Buonaparte: e quel del Minghetti, che non pativa incagli alla sua lezione, continuava:

Le terre del demanio non ancor tutte vendute e poi... e poi... Roma....

Ah! Oui! Rome! J'avais oublié celle-là.

Quando si sarà a Rama, credete a me tutte le difficoltà cesseranno....

Ed allora.

Eh bien! Allez y seguitava interrompendo come spensierato il diplomatico,

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cacciandogli sol volto una grossa boccata di fumo. Il povero giovane, che l'ingoiò tutta, fu preso da una tosse a creparne. Ed a tale egli fu, che dovette domandare un bicchier di acqua egli stesso, poiché il crudel messo dominico non si dié la minor pena del soffrire di quel diplomatico di risotto. Il quale, l'istaurate le canne, ricominciò pazientissimamente:

A Roma, creda a me, tutte le difficoltà cesseranno. Bisogna far qualcosa, è vero, per la rivoluzione, la quale quando si ferma muore.

Tout beau! disse allora il francese, si elle meur, enterrez-la tout de suite, car ca pue.

Ma il Venosta non poneva mente agli insolenti sarcasmi e continuava:

Quando si ferma muore. E sarebbe danno per noi, ma non minor per altrui. Uno stato di ventidue milioni, tutti felici e concordi, ricco, ricchissimo, valorosissimamente armato, industriale, agricolo, commerciante, feracissimo sempre di ogni legume e dì ogni ingegno, malgrado quello possasi rilevare dal suo parlamento, ben difeso dalla natura e dall'arte, posto a cavallo di tre mari ed imbarcato su tutte le rivoluzioni del mondo, è un grande alleato oggimai per.... per ogni grande alleato. Laonde noi oggi siamo un pegno di pace od una minaccia.

Fidonc, Monsieur, fidonc! sclamò allora il francese ridendo e gettando via il cibuc; poiché il fumo cominciava a molestare lui stesso. E dimandato, minaccia per chi mai? il Venosta rispose a mezza bocca:

Per i principi che volesser far passo contro la penisola ed anche.... anche per chi abbandonasse questa alla ventura... od in un cimento... non accorresse. L'Italia è grande per s stessa, e potrebbe essere anche grandissima dove.... ciò che non farà mai... si colle gasso a... a meri simpatica ma più naturale amica... qualche potenza che... che più forte in mare.... il quale ò il maggior campo d'Italia...

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Seguitava ingarbugliandosi il Venosta per il modo con cui tra riso e sprezzo il guardava ed ascoltava il Proconsolo di Francia. E questi disse allora:

Continuez! Faites à votre aise!

Ma il Venosta più arruffandosegli la memoria:

Oibò! Diceva. Ma questo non sarà mai... Ma questo sarebbe solo.... Ma già sono ipotesi di prevalenza,... E questo diciamo noi perché..... perché.... perché noi abbiamo... 300 mila uomini... pronti già a... a... a... marciare contro l'Austria...

Ed allora levandosi ritto il francese e facendosi assai serio nei volto:

Dites donc, Monsieur, prese a dire, croyez-vous être dans votre classe de rhétorique, ou parler encore à votre parlement ? Est ce que vous vous prendriez au sérieux, Messieurs du Gouvernement de Turin? Vous oubliez que dans notre troupe nouvelle vous n'êtes pas même des locrisses: vous êtes de méchantes utilités! C'est nous qui vous avons faits, et nous vous avons faits, parce qu'il nous convenait de vous faire; nous vous soutenons par ce qu'il nous convient aujourd'hui que vous viviez: et lorsque vous ne nous servirez plus, nous vous chasserons.... ou... mieux encore... nous vous ferons chasser, ce qui ne salira pas nds bottes!... Allez, allez au diable, vous, votre Minghetti et tonte votre sacrée canaille de la régénération. Vous vous vendez corps et âme aux jouifs pour vivre au jour le jour, vous présentez la dissolution de votre armée à l'approche d'un régiment autrichien, et l'insurrection générale de vos provinces méridionales; vous avez un état sans frontières et un peuple sans amour (là où il ne vous combat, et ne vous exècre pas), vous n'avez pas encore soumis les Deux Sicilies, vous avez besoin de nous pour ne pas déclarer la banqueroute, pour arrêter même quelque brigant, et vous osez penser ? vous osez parler? vous osez menacer? Le monde ne veut pas croire,

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ne veut pas admettre méme comme bâtard ce nouvel état, et vous voudriez déjà descendre dans le tournois, et vous présenter en chevalier? Sortez, Monsieur, sortez! Vous ne valez pas la peine qu'on dérange un laquais pour vous flanquer à la porte.

E sì dicendo, accompagnava con certo moto di gamba, brusco anzi che no, la parola; onde il povero Venosta sbattuto, confuso, non sapeva trovar più neppur l'uscio di quelle sale. Ma in quel mentre che dava di naso nell'imposta di una porta, si aprì questa di un subito, e fu annunziato ed entrò il Ministro Plenipotenziario di Russia. Ed allora:

Adieu, mon cher Venosti! Au revoir! prese a dirgli il diplomatico francese, affabbilissimamente stringendogli le mani, e Vous n'oublierez pas de féliciter de man part Monsieur Minghetti de son grand succès d'hier (dont on ne pouvait d'ailleurs pas douter) ainsi ne de me mettre aux pieds de sa charmante future.

E, fattogli gran riverenza, corse poi a salutare il nuovo venuto cui disse;

C'est un jeune homme qui promet beaucoup, ce Monsieur Venosti. Oh! tenez... Il fora son chemin.

Eh oui! Ces Messieurs ont le vol très facile!

rispose il Russo. Ma il Francese spiegando come altro fosse lo ascendere ai carichi, altro ai meriti che loro farebbe mestieri, passò a dire della versatilità dell'ingegno del Minghetti, dei grandi mezzi di lui e delle inesauribili forze, che possono trarsi da questa Italia rigenerata, e del gran poso, che essa dovrebbe aversi nella bilancia dello alleanze europee. Perla quai cosa il lino diplomatico pel napolitano, avendo sbirciato di un subito la confusione dell'italiano, che non pensò neppure ad inchinarlo, tenendosi una mano alle terga, e pensando po' le lodi del francese, scrisse al Principe Gortchakoff come il ministero Minghetti fosse per es n fulminato da qualche telegramma di Parigi,

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come non fosser lontane novelle novità nella penisola, come tutto falso fosse di qua dalle Alpi, tutto, ed anche la vita galvanica, che infonde al suo feudo d'Italia il Magnanimo.

CAPITOLO XIII.

Mentreché que' discorsi correvano tra il legato dello Czar dei Francesi e quello dello Imperatore delle Russie, il meschino Visconti si ritraeva piangendo il perduto pappagallo. E contato al Minghetti le brutte parole ed il modo del ministro di Francia, quegli diede in ismanie e minaccio. E:

Dite tutto, particolareggiato bene, gridava al Venosta, perché bisogna avvisare, e la faccenda è seria e seria assai e non può passarsi cosi. V'ha delle circostanze aggravanti che voglionsi ben chiarire, prima di procedere alla vendetta od alla riparazione di esse. Rispondete dunque a me. Per ciò che ha detto dell'Italia, grazie mille, sapevamo e sta bene. Ma per ciò che vi ha fatto.... dite.... il piede suo ha toccato veramente, veramente?....

Signorsi. Ha toccato:

rispose il povero giovane di Valtellina, bassando la fronte ed addrizzando il cocodes de Sa sua cravatta. Ed allora:

Quando è così, soggiunse Marco, in tuono molto aspro e risoluto, la cosa cangia di aspetto, e... e.... bisogna assolutamente... sopportarla... tanto più che quell'atto non era che per voi.

Signornò lo era diretto a lei: prese a dire in collora il Venosta. Quindi succedutone un battibecchi e, disputandosi a quale dei due intendessesi dato il calcio, se al mandante od al mandatario, si quetarono pur finalmente in questa sentenza, cioè che l'oltraggio era fatto all'Italia,

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la quale, sendo troppo grande e la nobilissima delle nazioni, può ben ridersi di queste facezie, ed in tai casi virtù è «chiudersi in un dignitoso silenzio.»

Di vero questo oltraggio non parrà più il gravissimo, ove sì compari al novello del dar del bugiardo, a quel modo che fu fatto tostò dai ministri di Napoleone ai ministri italiani, od a quello del vedere il Nigra costretto a scrivere il suo dispaccio sotto la dettatura del Drouyn de Lhuys e dell'Imperatore. Pure, per quanto fosse duro, il Minghetti, ingozzata meglio che diplomaticamente l'insolenza del Legato Francese, cominciò a dire:

Via per la Francia a abbiamo aggiustata. Ma come faremo ora a tenere in buona, a cullare ancor qualche poco questa canaglia dei partito di azione!

Né maravigliate che il Minghetti parlasse così; poiché fra i rigenerati la fazione malva sdimentica i benefizii ricevuti dalla fazione attiva, non vuol sentire neppure le sue massime essere quelle del Mazzini e di lui l'opera prima. E guai a chi le parlasse del valore o del disinteresse del Garibaldi. La si vedrebbe andare in bestia, ove le si provasse che essa non stia in sella che per i fatti dell'Eroe di Caprera e del così detto Profeta della Idea. Però i Malvoni chiamano canaglia Mazziniani e Garibaldeschi; i Garibaldeschi ed i Mazziniani addiinandano canaglia i Malvoni; e canaglia chiama il retrivo tutti quanti e mazziniani e malvoni e garibaldeschi e... viva l'Italia... addiventata sì concorde e si nobile!

Ma, tornando al povero Marco, seguiteremo adire come non sapesse dove dar di cozzo per far sbollire un poco la bruzzaglia, per tenero alquanto sospesa la ruina, per conservare in fede le groppe del parlamento groppone. Pure, mandato a spogliarsi il Venosta, sprizzandosi più che più il cervello, stette alquanto sopra sé, e quindi mandò per il giudeo Jacob, direttore del giornale l'Opinione,

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e pel mal cristiano Ronchi, direttore del giornale la Stampa, quel veruno venuto oggimai famoso in Italia pel titolo o il carico di Lustrascarpe del Ministero. E giunti, spose loro il divisamento, di sciogliere la camera elettiva e di riconvocare i collegi elettorali per nuova legislatura, e comandò che cominciassero a diffondere e commendare questa sua deliberazione. Piacque il partito al Giudeo che si estasiava in levare a cielo la sentenza del Minghetti, e come Shylock ne! Mercante di Venezia dello Shakespeare pareva veramente gridasse:

A Daniel! come to judgment! yea, a Daniel!

Ma non così piacque al Lustrascarpe, deputato intruso o veramente deputato per grazia del Ricciardi.

Conciossiaché bisognasse sapere che quando si presentò al Parlamento questo Ronchi, come deputato di Manfredonia, vi giungeva parimenti il Ricciardi deputato della medesima provincia, e portante la protesta, degli elettori di Manfredonia ed i documenti de' brogli e della corruzione del Ministero e del suo candidato Ronchi, perché questi venisse eletto e non altro. Andava dunque ad esser casso il Lustrascarpe. Ma, appena sceso all'albergo il Ricciardi, vennelo a visitare e colmar di carezze il Massari segretario della Camera Elettiva, e premendo a costui che il ministero si avesse una grande maggiorità di adepti, presentò al Ricciardi alcuni articolacci del Nazionale e di altre gazzettacce, dettati contro di lui e che colmavanto di ogni generazione di vituperi!

Ah! Ah! Davvero? E chi ha scritto queste porcherie?

Chiedeva il Deputato di Foggia. Ed allora il Massari:

E che, non Io sai? Non te ne accorgi allo stile scialbo come la faccia dell'autore, non al vanume, al pettegolume, alla rabbia invidiosa dell'evirato? Tutto il mondo sa che gli ha scritti Bonghi e tu solamente l'ignori? Signorsi.

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Gli ha scritti quegli che vieni a cacciar dalla Camera dei Deputati.... Evviva!.... Oggi ti avrai una bella vendetta!

Una bella vendetta!... Io?... Sì, mi voglio avere una bella vendetta! E questa e la sola che possa convenirsi al Ricciardi...

E sì dicendo lacerò il ricorso degli elettori di Manfredonia e le pruove del broglio e della corruzione, e si avviarono lieti al Palazzo Carignano, l'uno di aver ben servito la fazione sua, l'altro se stesso.

Figuratevi mo se il Bonghi, che aveva tutto questo in corpo, potevo sentir con piacere il novello partito del Minghetti, e per giunta, udirsi a comandar di strozzarsi da sé medesimo! Il cordone è stato abolito in Turchia ed il Minghetti voleva introdurlo in Italia? Però il Lustrascarpe si provava a balbettare qualche avvertenza in proposito, facea spallucce, masticava mah! e seh! quanti poteva Ma il Minghetti:

Non ci è ma, né se che tenga. Voi non siete pagato per avvisare, ma per servire. Voi volete far sempre il capoccio e non siete che sempre la coda, cioè segretario che l'uno come l'altra ad altro non servono che a covrire ciò che non si può mostrare. Avete capito? Voi siete la claque della rivoluzione, non la rivoluzione. Andate dunque ad applaudire ed a pranzare, andate a... andate... Ma no!... Ma no!... Andate pure... andate a scrivere contro questa mia deliberazione e mi servirete meglio... Si sa, i pari vostri servono di vantaggio facondo opposizione: e... se la farete bene, cioè se la farete più che più fastidiosa ai lettori... stato allegro, che comanderemo vi diano cinque franchi di più.

E sì andarono a Diavolo tutti e due quei famuli della cucina ministeriale.

Pochi giorni dopo, il Minghetti ebbe agio di vedere come la nuova della dissoluzione o della conservazione

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della Camera non facesse più nero né bianco nel brutto quadro della politica italiana. Conciossiaché la prevalente corruzione abbia mortificato ogni opinione e spenta ogni confidenza o speranza di meglio, e tutti sappiano che eletti altri, o rimasi gli stessi ad avvocare la cosa pubblica, questa sarà sempre per loro la cosa privata. Laonde camminava per lungo e per largo la sala, arcando gli occhi, fregandosi le mani, sbuffando e soliloquendo:

Già di rivoluzione non si può parlare, che essa è così venuta in ignominia, che i rivoltuosi son co stretti a dirla ordine, riparazione ecc. a torre io prestanza il frasario dei fucilati, degli esuli. Bisognerebbe inventar nuove cose o almeno nuove parole, per abbindolar gli allocchi delle due parti. Ed, oh! che non ho io l'ingegno inventivo di Luigi Napoleone, egli che ha trovato quella felice parola dell'annessione, per che si mantella cosi innocentemente lo spolio e la conquista, egli che viene ora fabbricando l'altra di rettificazione delle frontiere.... Bella! Bella veramente! Che peccato che la potenza di questi Buonaparte sia meteora e non costellazione! Se egli durassero non più che una trentina d'armi, ci avremo un dizionario bello e nuovo e presto; quando que' letteratoni della Crusca si arrubbattono da cencinquant'anni senza poter ancora compilare il loro. E vero che il calepino napoleonico non sarebbe cosi puro... Ma via frutterebbe e quadrerebbe meglio al secolo. Non sarebbe dantesco...

E qui, datosi uno scappelloto alla fronte, seguitò:

Bravo! Inveni hominem! Quando le società naufragano bisogna tirarle al porto del loro principio, come disse papà Machiavelli. E quanto le massime fanno diffatta bisogna iscusarsene, col gettarne la responsabilità addosso ai grandi tesmofori del sapere umano. E via accettiamo anche noi questa corbelleria dei saccentuzzi, che l'unità d'Italia sia stato voto dell'Alighieri. Facciamo che sempre meglio attecchisca, e gittiamola al collo di lui... ché per verità, via, non voleva questo, voleva la monarchia universale.

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Non siam cosi sori noi. Messer Dante era un brutto austriacante, come si direbbe oggi. Ma basta, quella sua monarchia universale, traduciamola per monarchia italiana: e sa? quanti grulli di più saranno presi a questa pania, poiché la facciamo dottrina ministeriale! Ma voi non lasciate in pace manco i morti? ci diranno i filosofanti, i dottrinarii... E chi più volete che, molestassimo, chi senza pericolo che pigli il fucile oche ci faccia un giudizio di recrimina?... Sta bene. Dante, Dante è il capo ed il capro espiatorio della rivoluzione italiana! E noi?.... Noi non siamo più rivoltosi: noi siamo dantisti!

E detto fatto, convocò il consiglio. Quinci significò ai suoi ufficiali, come fornendo l'anno 1865, il sesto secolo dalla nascita dell'Alighieri, bisognasse far grandi feste per tutta Italia, ed invitar tutti gl'ingegni della penisola ad inneggiare al protoplasta della rivoluzione italiana il partito fu accettato con quasi tutte lo fave. Molto lo spalleggiò il Peruzzi, che vedeva in ciò nuovo trionfo e nuovi lucri per Toscana, stata testé troppo svergognata dalle accuse e giudicati di broglio e di peculato, onde son tartassati non pochi di suoi uomini politici. Solo vi si opponeva il paglietta Pisanelli, preferendo nuova strappata di corda alla Chiesa o qualche nuova legge che sbattesse nobili e ricchi, poiché l'Italia, secondo gli avvocatuzzi napoletani, non potrebbe farsi altrimenti che sulla ruina dei grossi e dei preti. Ma il Minghetti mandollo a ristudiar l'indice del codice di procedura, che è la somma del sampere di cotali azzeccagarbugli, ned altrimenti, come dicemmo, fu accetto e fermo, che l'anno di grazia 1865 si farebbero le solenni feste in Fiorenza pel secentesimo anniversario della nascita del poeta divino.


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Strombazzatosi dai sicofanti del ministero la novella deliberazione del Minghetti, ecco tutte le livree della stampa a salutarla con più o meno scipiti ed infranciosati articoli. Ecco i circoli e le logge stabilir meetings e congressi in onor del papà, che si avean trovato, e scrivere inviti a tutti gli italiani ingegni (veri o falsi che fosser, che monta, purché facciano folla), e pregargli che volessero tutti concorrere a celebrare con loro scritture lo schiudersi di questo novello secolo. Il quale, secondo esse, sarebbe veramente la settima età profetata dal gran padre dell'italiana favella alla salute della penisola ed alla venuta del Veltro, che ora è il Galantuomo, non altrimenti che alla finita della Lupa (Roma), che.... in tal caso sarebbe una lupa divorata.

Tra i congressi stabiliti a ciò, ve ne aveva uno, dove furono convitati molti deputati e giornalisti ed era presieduto da certo Mandoi Albanese, venuto famoso per asinità, anche fra i suoi colleghi del Parlamento. Ed era eletto egli presidente, poiché da' signori della rivoluzione italiana si dà la presidenza non per merito, e forse neppur per briga, ma perché non si tiene abbia a sapere chi deve condurre. È titolo canonicale, è officio di recesso. Che, verbigrazia, non per altro vedi vicepresidente della Camera Bassa un Poerio, la cui già arcana buaggine oggi è per tutto riconosciuta, e vedevi presiedere al Senato un paglietta per nome Vacca, e che per verità potrebbe addimandarsi anche bue, dove alla ignoranza ed alla boria non accoppiasse tutta la vile malizia dei servi.

Conciossiaché magistrato borbonico l'anno 1842 in Aquila, scoppiato ivi tumulto mazziniano, non chiamato a giudicare in tal facenda, brigasse egli la nomina di uomo di legge presso il tribunale militare. Di ciò può leggersi documento negli archivii del ministero di giustizia napolitano, dove non l'abbia egli sottratto ora o l'anno 1848 quando, voltato casacca e camuffatosi da liberale, venne direttore di quel dicastero.

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Sostenuto dopo il 15 Maggio per delitto di maestà, mercé le istanze di un suo fratello (che serviva sull'armata e fu poi uno dei principali attori nella tradigione della marineria napoletana) fu graziato da re Ferdinando e mandato a Siena con elemosina di ducati seicento. E due mesi dopo quel mostro di Re gliene mandò altrettanti per farlo ripatriare. Ed il Vacca, tornato a Napoli, così e tanto strisciossi per le anticamere dei ministri e dei servitori più bassi della Corte, che ottenne un sussidio mensile; con il quale e con qualche ducato che facevagli buscare Liborio Romano suo patrono, adoprandolo nelle più povero faccende, il povero Vacca campava per benino la vita, e congiurava al risorgimento a grand'agio.

E questo vilissimo figuro oggi fa da Guarda Sigilli del così detto Regno d'Italia. Per verità le rivoluzioni uccidono l'ambizione. La Chiesa per questo si potrebbe ammetterle, come disciplina, come cilizio contro il peccato di vanità, di cupidigia, di mondanità. Del rimanente il Vacca succede al Pisanelli e questi succedeva al Conforti: e chi volete turbasse la leggittimità di questa curial dinastia?

Perocché colui il quale deve perseguitare la Chiesa è stabilito dover essere un curiale napoletano, uno spazzino della scuola del Giannone e del Tanucci, ed in ciò mostra accorgimento la setta imperante.

Ma che che ne sia delle presidenze italiane, e di chi vi si insedi, e di questo abiettissimo parolaio, che sottocapitanava il Senato ed oggi fu dato successore al paglietta Pisanelli nel Ministero dei Culti, noi tornando al Mandoì Albanese, presidente del Congresso Dantesco, diremo come, egli mandasse subito fuori la sua grida e polizze d'invito per una gran tornata serale, nella quale avrebbesi a fermare il come e il quando di quelle feste, e il modo di laureare l'altissimo poeta del titolo di Patriarca della Rivoluzione Italiana.

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A cotal ragunata erano convitati alcuni amici del Conte Durante, e questi, pregato da loro a venir seco, non sei fece ripeter due volte, ché forte il pungea desiderio di saper che diacine dicessero sul conto suo.

Di quei giorni il Poeta non poco aveva riso di un diario novello di Firenze, che eragli capitato tra le mani, ed aveva titolo Giornale del Centenario di Dante. Aveva celiato delle chiacchiere stampate in esso da tal Zauli Saianì intorno al concetto ed alle allegorie della divina Commedia ma non poi aveva potuto infrenar l'ira in leggendo come un signor Orlandini di Firenze divisasse travolgere il senso del suo Roma e il suo impero con il scrivere che dopo il verso

U'siede il Successor del Maggior Piero,

si dovesse porre un punto interrogativo.

E per cosi fatto modo, detto avea egli, non è parola, non sentenza, non assioma che possa più scrivere o pronunziare filosofo. E che direbbe questo Orlandini se io scrivessi l'Orlandini è uomo, ed altrui giacesse affibiarvi un interrogativo? E si che ne avrebbe almanco altrettale diritto, massime dopo cosiffatte: profondissima speculazione.

E (vedi stranezza dei magni spiriti) Durante non sapeva darsene pace, benché a placarne gli sdegni, il Conte della Motta il presentasse delle dotte e serie disquisizioni che vien dettando intorno all'Altissimo Poeta od alle sue opere quel grave scrittore che è Filippo Scolari. Ma cosi va il mondo, che dieci belle cose non ne compensan di una malvagia, e basta una dape non buona per far tornar disgustevole tutto un desinare. Il Conte Durante credevasi oltraggiato proprio dell'onore per le pappolate di questi torturatori del suo poema. Ma il Margotti gli diceva:

E ora non si crucci per Dante. V'ha chi è maggiore di lui, anzi chi fece lui e rischiarollo di sua santa luce, ed oggi non vien meglio trattato dai nuovi scribi della rivoluzione.

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Possibile che ella non conosca quella oscena e stupida scrittura di Francia, quel tessuto di dubbii senza ragione, e di asserzioni senza pruova, che s'intitola vita di Gesù Cristo di Ernesto Renan? Ha veduto te altre scritture che a quella porcheria fan codazzo?

E sì glie le diede egli in prestanza. Ma il giorno posto al congresso, Dantesco no, ma Mandoico, aveva saputo ed avuto pruova, come il ministero della rivoluzione spedisse infinite copie di quei libelli per tutte le piccole comuni della penisola; certo che nelle città, in quei luoghi dove è gente colta ed esperta delle cose del mondo, essi non potrebber servir che di emetico. Però quello spirito cattolico non poco tra vagliavasi di questa caccia che venia battendo il demonio per gl'inesperti paeselli. Adunque non è a dire con che ilare apprestamento di animo entrasse la sala della ragunata. La quale, come fu piena, tutta echeggiò di evviva all'Alighieri ed al Garibaldi (messi assieme non sappiamo perché) ed al Galani uomo ed al Mazzini ecc. Asceso in cattedra, il Presidente prese a ringraziare l'assemblea dello averlo accettato capo, quantunque, diceva esso, non così famigerato da poter soprastare ad una così prostrante seduta. Indi soggiunse che le lodi più impossibili bisognava tribuire all'onorevole Presidente del Consiglio, che aveva voluto illustrare Dante con queste feste che diceva plebiscito della sapienza italiana. Quindi volendo dire con parole dantesche, come il nostro popolo fosse venuto al punto dove la via si biforcae per andare a Dante od al Papa, cioè alla civiltà od alle tenebre, disse che l'Italia era giunto al punto dove la via si forbisce ecc. Spropositato cosi per meglio che tre quarti d'ora del trionfo della libertà, della benemerita arma dei carabinieri, delle matematiche, del conguaglio delle imposte, dei prodigi che fece Archimede all'assedio di Corinto,

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e il General d'Ayala a quello di Vicariello, parlato dei Cardinali, della Fata Morgana e delle nozze di Madama di Solms col Rattazzi, e fuor che; del soggetto, di tutto, finì esclamando anch'esso evviva al Garibaldi ed all'Alighieri.

Plaudìrono i più, parte perché non più dotti di lui, parte perché pur finalmente tacesse. Quindi, levatisi a dimandar la parola il ("onte Durante ed il Cav. Pietro Leopardi, l'ebbe prima questi come deputato e pensionato del governo. Ed allora, costui, sbadigliando non minor copia di corbellerie che il Mandoi, gli uditori quasi tutti si addormentarono. Conciossiaché quel vecchio membro della rivoluzione italiana avesse virtù di addormentare sendo sveglio, e di svegliare quando si addormenta, ché la Dio mercé, ha più forte il russo che la voce. Ma pur finalmente cessato anche questo discorso (con altrettanti Aah! ed Ooh; ed altrettale soddisfazione dell'uditorio che quella si ebbe testò il Senato per la concione del Principe di Moliterno) surse il Conte Durante e con piglio più di soldato che di oratore cominciò a chiedere agli astanti chi gli licenziasse allo appuntar l'Alighieri di unitario, di acattolico. di democratico ecc.? E sì cominciò a favellare della vita e degli scritti di Dante, e della Vita Nuova, e della Monarchia, e del Convito, e del trattato del Vulgare Eloquio. E non altrimenti venia spiegando il senso di essi e diceva come, la Commedia non solo, ma tutte le opere di Dante fossero informate da quella massima, che la grandezza d'Italia e la storia antica di Roma non fosser che preparazione al trionfo ed al dominio di Roma cristiana. Ed asseriva, l'Alighieri essere stato in ciò né men chiaro né men copioso di S. Agostino, altro filosofo che filosofasse con la dialettica della storia. Medesimamente venia ridicendo come altro fosse monarchia universale, altro unità d'Italia. Come Dante non intendesse punto mortificare né una sola delle autonomie italiane, e voler tutti gli Stati di essa sottoporre

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ad una sòprassovranità degli Imperatori: che è quanto dire voler una confederazione con un capo che potrebbe esser Cesare per chi Ghibellino, Pietro per chi Guelfo....

Ma alle parole del Conte Durante insollirono ed il presidente e l'uditorio. E quale zufolava, quale rideva, e quale gridava giù, quale ingiuriavalo con ogni oscena parola e bestemmiava: talché quell'assemblea era un patassio, un turbinio, un cà del diascolo che pareva il Parlamento. Ma Pur sursero in difesa del Conte il Ferrari, l'Ondes Reggio, il Cantù, il Brofferio e finalmente anche il Petruccelli, il quale veniva dicendo come da dovvero nuova cosa fosse questa rivoluzione italiana, che vuol vivere e procedere e tutto essere fuor quello che è veramente.

E sì, soggiungeva, ché democratica e sociale vuole incedere contagiata come una marchesa del tempo di Luigi XV: atea o panteista mendica arzigogoli teologici per star tranquilla in coscienza: e nata da' sanculotti dell'89 cerca antenati fra le repubbliche e lo rocche del medio evo o le corti della rinascenza. I nostri nemici gridano «vergogna alla rivoluzione»; ma questo si dico io «vergogna a chi si vergogna». La rivoluzione ha la sua ragione nella rivoluzione medesima, e ciò deve bastarle. Come Napoleone diceva la mia nobiltà comincia da Millesimo, io dico la nostra principia dalla Bastiglia. Che ci importa di Dante, di Fra Iacopone o del Canonico Petrarca? Noi abbiamo bisogno di quattrini, di cannoni; e voi cercate dottrinarii? Credete voi che il Rostchild e gli altri giudei che serviamo, invece di comprarci l'anima al 50 ce la compreranno al 50 e 5 centesimi, per ciò che Dante era unitario? Sperate che quei balordi di potentati convenuti ora a Kissingen, meglio che da' loro pettegolezzi, siano dissuasi dal collegarsi per la considerazione che questa rivoluzione sia antico voto dei filosofi italiani? 0 vi aspettate che i briganti si presenteranno a farsi fucilare perché la fusione fu concetto di Dante?

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Bravo! E chi è questo Dante? Diranno essi Qualche altro Pinelli, qualche altro Fumel 9 qualche altro Pica? E noi ce ne impipiamo come di quelli. E poi e poi, gloriatevene pure di questo babbo che, dovendo mettere in Inferno Ezzelino da Romano, vel mette sì, ma senza altrimenti morderlo che con queste parole:

E quella fronte che ha 'l pel così nero

È Azzolino.

Vorrei vedere se questo bambino di Azzolino, invece di potente vicario dell'impero, come era, fosse stato accusato di crimenlese! Te lo avrebbe fatto altro che maciullare da Belzebù, cui mette nelle bocche Giuda e Bruto e Cassio: i maggior traditori dell'Impero e della Chiesa. Consolatovi di questo legislatore del non intervento, che rammenta il regicidio di Alberto d'Austria chiamandolo giusto giudizio, via, quasi rallegrandosene. E ciò perché? Pel non saper perdonare ai due primi Imperatori Asburghesi il non esser calati ad Italia. Egli è però che Dante pone Rodolfo Cesare nella valle dei Re in Purgatorio additandolo:

Colui che più sied'alto, ed ha sembianti

D'aver negletto ciò che far dovea,

E che non muove bocca agli altrui canti,

Ridolfo imperador fu, che potea

Sanar le piaghe ch'hanno Italia morta,

Sì che tardi per altri si ricrea.

E questo è nulla a petto di ciò che nel canto antecedente ragiona di lui insieme e di Alberto con Sordello, quando cominciando quella terribile apostrofe

Ahi serva Italia di dolore ostello,

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cui sapete meglio di me, dice che pel non esservi tedeschi qui

..... l'un l'altro si rode

Di que' che un muro ed una fossa serra.

Ed egli è però che gridava al caro imperatore di allora:

Vieni crudel, vieni, e vedi la pressura

Dei tuoi gentili e cura lor magagna;

…....................................................

Vieni a veder la gente quanto s'ama;

E se nulla di noi pietà ti muove

A vergognar ti vien della tua fama.

Dimenticaste la famosa lettera che il Divino Poeta scriveva ai Principi e stati italiani, congratulandosi della prossima discesa di Arrigo?

Ma che chiacchiere sono queste? Che lettere ci andate contando? gridarono taluni. Ed il Petruccelli: Adagio! Adagio! lo discuto sempre co' documenti fra le mani....

E qui, traendo di tasca un volumetto, ricominciò:

Ecco: quella ohe comincia cosi: «A tutti et ad ciascuno re d'Italia, et a' senatori di Roma et duchi, marchesi, conti et a tutti i popoli, lo umile italiano Dante Allighieri di Firenze et confinato non meritevolmente priega pace 1?»

Per quella venuta dei Tedeschi Dante credeva che Italia sarebbe stata «invidiata eziandio dai Saracini»; perciocché liberata «dalla carcero dei malvagi, e verrebbe colui che la vigna sua allogherà ad altri lavoratori, i quali venderanno il frutto della giustizia nel tempo che si miete.»

Witte Epistole di Dante, Lettera V.

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Che ve ne pare eh? E pregava gl'Italiani che considerassero che «chi resiste alla potestà, resiste all'ordinamento di Dio, e chi al divino ordinamento repugna, è eguale allo impotente che ricalcitra e duro e contro allo stimolo calcitrare.» E poi scriveva che «da Iddio sì, come da un punto si biforca la podestà di Pietro e di Cesare. Vaghiate adunque tutti e levatevi incontro al vostro re,o abitatori d'Italia: non solamente serbate a lui obbedienza, ma come liberi il reggimento. Né solamente vi conforto acciocché vi leviate incontro, «ma altresì che il suo aspetto abbiate in riverenza.» E sentite, sentite: «Voi che' bevete nelle sue fonti e per li suoi mari navigate e che calcate le reni delle isole e le sommità delle Alpi, le quali sono sue, e che ciascune cose pubbliche godete e che le cose private non altrimenti che con legame della sua legge possedete, non vogliate siccome ignari ingannare voi stessi.... Non riluce in maravigliasi effecti Iddio avere predestinato il romano principe?E non confessa la Chiesa con le parole di Cristo essere poscia confermato in veritade?.... Costui è colui al quale Pietro di Dio Vicario onorare ci ammonisce, il quale Clemente ora successore di Pietro,per luce di apostolica benedizione allumina, acciocché ove il raggio spirituale non basta, quivi lo splendore del minor lume allumini?»

Bella! Bella! Questa lettera avrebbe fatto invidia al Canosa! Anche l'acqua di queste fonti è degli Austriaci? Innanzi a questa epistola il trattato di Vienna pare la dichiarazione dei principia dell'89. Radetzky diventa Garibaldi, il Cardinal Bernetti Don Passaglia e Monsieur de Bismark il Conte di Cavour. E poi notate: si ha da onorare l'Imperatore per obbedire al Papa Bravo! Ma è proprio questo il precetto del vostro babbo. E chi ci farà onorare il Papa?

E non lasciamo cader quella perla del serbare obbedienza a Cesare e nel tempo stesso come liberi il reggimento!

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Noi riggettammo la legge regionaria del Minghetti, perché non abbastanza concentrica: ed ora vogliamo insediar come, maestro cosi gran fautore delle autonomie italiane? lo (voi il sapete) non sono di quelli che tengono l'unità d'Italia bella nella speculazione, nei voti ecc. ma impossibile per ciò che il fatto di otto secoli, contando non più che da Corrado il Salico, non permise la conseguissimo. Oibò. Ma questo si vi dico, che siamo fuor di strada, e non sappiamo neppur cercare una guida. E ci rivolgiamo a tale che veniva inneggiando ed izzando un imperadore germanico, che entrava in Italia, seguitato da tre cardinali... quasi non bastasse un esercito di Tedeschi.

Queste sono calunnie della Civiltà Cattolica! uscì nel dire un ex-clericale. E l'oratore:

Della Civiltà Cattolica?... Leggete, leggete: «Al gloriosissimo e felicissimo trionfatore e singolar signore Messer Arrigo, per la divina provvidenza re dei Romani e sempre accrescile, i suoi devotissimi Dante Allighieri Fiorentino e non meritamente sbandito, e tutti i Toscani universalmente, che pace desiderano, mandano baci alla terra dinnanzi ai vostri piedi.» Dite un po', che fareste ad un italiano di oggi che scrivesse così all'Imperatore d'Austria? Che decessogli le parole che tenne Curione a Cesare persuaderlo a passare il Rubicone? E Dante queste scriveva a quell'Arrigo, cui preparava il seggio in Paradiso 6, dimenticando lui per le medesime parole aver messo il medesimo Curione in Inferno

Che fareste ad un cittadino, che scrivesse della sua patria «questa e la vipera volta nel ventre della madre, questa è la pecora inferma, la quale col suo appressamento contamina la gregge del suo signore; questa è Mirra scellerata ed empia la quale s'infiamma

1 Witt. Dant. Epìst. VI. Paradiso, canto XXX.

2 Inferno, Canto XXVIII 91-103.

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nel fuoco degli abbracciamenti del padre; questa è quella Amata impaziente, la quale, rifiutato il fatato matrimonio, non teme di prendere quello genero il quale i fati negavano... Veramente contraddice all'ordinamento di Dio adorando l'idolo della sua propria volontade, infino ch'ella avendo spregiato il suo Re leggittimo, la pazza non si vergogna a pattovire con non suo re ragioni non sue... Adunque rompi la dimoranza alta schiatta d'Isaia... fuggiranno i Filistei e sarà libero Israele. Allora la eredità nostra, la quale senza intervallo piangiamo esserci tolta, incontanente ci sarà restituita. Siccome noi ora ricordandoci che siamo di Gerusalem Santa in esilio in Babilonia piangiamo, cosi allora, cittadini e respiranti in pace ed in allegrezza, le miserie delle confusioni rivolgeremo. Scritto in Toscana sotto lo fonti d'Arno a di XVI del mese di Aprile MCCCXI, nell'anno primo del commento ad Italia del divino e felicissimo Arrigo 1.»

Basta! basta!

Ma la venuta dei Tedeschi era allora il voto della nazione, gridò l'interruttore Boggio.

Ma niente affatto, soggiugnea l'oratore, che allora gl'Italiani esecravano i Tedeschi più che non gli odiino adesso. Adesso (sia detto fra noi) vediamo il popolo indifferente ed amator soltanto di pace, e noi soli capiamo l'Italia, e che sia e che abbia a fare. Dante, appunto per questo schifo che si avevano dei Tedeschi, era costretto a cantare agli Italiani suoi quella terzina:

La cieca cupidigia che vi ammalia

Simili fatti v'ha al fantolino,

Che muor di fame e caccia via la balia.

1 Witt. Dantis Epistolae, lettera VI, p. 27 e seguenti.

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Ora la balia! Questa balia co' baffi impeciati: questa che, a dir del Poeta,

...sotto l'ombra delle sacre penne,

Governò il inondo lì di mano in mano.

Via sentite a me, non vi ci affiliate a tal grande, per tema che non abiate un giorno a fucilare anche il babbo!... E sì, anche il babbo: a meno che non trovaste modo di cangiare in inni a Casa Savoia tutti quelli che canta all'Aquila, al Santo Augello, al Sacrosanto Segno dell'Impero ecc. E sapete perché non possiamo dir l'Alighieri austriacante,come con moderna parola? Perché esso non fu tenero né di Rodolfo Cesare né del figliuolo di lui Alberto di Austria. E ciò, per quel che dissi, del non essersi voluto essi impacciare nelle faccende d'Italia. Ma non però puoi credere lui non essere tedescante. Egli non vedeva nell'Italia che una parte, una provincia di quel Sacro Romano Impero cui papà Voltaire diceva non Santo, non Romano, né Impero. Non chiamò Dante l'Italia il giardin dell'imperio? Ora il giardino è parte del dominio. Esso è quel luogo dovo il padrone può venire ad oziare e coglier frutti, quando gli piaccia calarsi dalla casa. Non possiamo supporre Dante, l'autor della monarchia universale, volesse poi che il suo Cesare non possedesse che un giardino!... proprio come noi, che non vorremmo il Papa altro si avesse che la sua chiesa di San Pietro ed il suo giardino del Vaticano E pure gli dovremmo lasciare il palazzo, che in fin delle fini desso è Tettava maraviglia del mondo Ed, assolvendolo del suo peccato di Tedesco, come ci governeremo noi per quell'altro di Clericale, che è peggiore? E Dante oggi sarebbe detto pinzochero. Via, dimenticheremo noi, che egli era francescano, era terziario o minore 1?

1 Il Buti lettore in Pisa e poi commentatore della Divina Commedia sessanta anni dopo la morte del sommo Poeta, narra come di cosa nota,


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Dante è quegli che voleva vincere il mal costume degli italiani col cordon di S. Francesco ond'era stretto.

Io aveva una corda intorno cinta,

E con essa pensai alcuna volta

Prender la lonza alla pelle dipinta.

Noi non diremo come il Voltaire che Dante «était un fou et son ouvrage un monstre». Dininguardi! Ma Dante è quello, che in Paradiso facevasi incoronare da S. Pietro, dopoché da lui e da S. Iacopo e da S. Giovanni si era fatto esaminare in divinità E, che diacine, cercando padri, il volete trovare proprio in sacrestia? Dante, non vi tormentate, (checché né abbiano detto e scritto il Rossetti, il Foscolo, il Graul, l'Aromi) era papista. E se disse male di Bonifacio o di altro prete, gli era perché stava in collora con questo, non altrimenti possiamo esser noi col Minghetti o col Ricasoli, o con un Rattazzi qualunque. E ne volete una prova?

Si, sì. Le prove! Le prove!

Eccovene. I preti, appena morto Dante, ne commentavano in chiesa il divino poema. La sua immagine la facevano dipingere a Firenze in S. Maria del Fiore,

che Dante nella sua prima età «si fece frate dell'Ordine di S. Francesco, del quale uscette nanzi che facesse professione.» Uno scrittore del secolo XVI narra poi che Dante vestì in Ravenna l'abito di terziario di detto Ordine, ed in esso morì. Indubitato è, che in un luogo di essi frati fu sepolto il suo corpo ed in un elenco degli scrittori francescani trovasi novarato esso Dante. Né maraviglia che di quei suoi tempi, tanto pieni di civiltà e di fede, al terz'ordine del nostro carissimo S. Francesco scrivevansi i più alti personaggi. In questa devozione vissero e morirono non solamente regi come Elisabetta di Ungheria e Luigi IX di Francia e Roberto di Napoli, ma pure un Guido di Montefeltro ed altri principi feroci di quei tempo? se non mutati, certamente temperati da quella pietà. Ma chi voglia sapere i particolari di questa erudizione può consultare il Pelli a p 79, 80 e 140.

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non altrimenti avrebbon fatto di quella di un santo. I Canonaci di Orvieto facevano dipingere il viaggio di Dante nella loro magnifica cattedrale, ed Ugone Arcivescovo di Pisa commetteva all'Orcagna le pitture dantesche, che vegliamo nel celebre camposanto di quella città. I preti se l'hanno fatto pitturare da Raffaello nella disputa del Sacramento, là nelle stanze del Vaticano. Ne leggevano il poema nel Concilio di Costanza. Via, quasi gli hanno dato posto fra i dottori di Santa Chiesa: omo Io vorreste insediare in Palazzo Carignano o in Palazzo Madama? E via smettete.

Sta a vedere che sarà stato pure Borbonico e Gesuita!

Non dico questo. Ma sapete voi perché non era né gesuita né borbonico? Perché S. Ignazio non era ancora nato, o non si era ancora seccato di fare il Conte di Almaviva: e i Borboni, ossia Angioini (come si chiamavano allora quegli antenati loro) erano capi di parte guelfa, cioè di parte democratica. Erano, come poi (bisogna pur confessarci sono stati tuffi e sempre di casa Capoto, democratici e domocratizzatori. Dante sarebbe troppo codino per essi.

Uh! Uh! Uh!

Silenzio!

Che abbiamo a far noi di un Poeta, che canta dei quarti suoi e di tutti quelli che incontra per l'altro mondo, quasi avessero a far le prove di Malta? Che un Paradiso ci fa la rassegna delle famiglie fiorentine, con più schifiltà che non la ci farebbe il Conte Litta, il Duca Proto od il nostro deputato Passerini. E vien discutendo di chi la fascia col fregio la sua insegna e di chi no? Zittito dunque. Che se noi ci fossimo presentati a colui, prima del sentir delle opere nostre e delle nostre massime, ci avrebbe egli già fradici con quel suo solito:

Quai fur li maggior tuoi?

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Per amor d'Italia dunque, continuate pure a scorticare, a deportare, a fucilare, se credete vi giovi, ma non late ridere, ma non fate ridere.... se pur non volete abdicare!

A queste parole' gridarono bravo e plaudivano forte il Ferrari, il Margotti che era anch'esso venuto, l'Ondes Reggio, il Brofferio, il Linati e, via, tutti gli uomini. Ma i bipedi chiassavano tutti e perfidiavano essere un altro Dante questo che aveva studiato il Petruccelli.

Il deputato Lazaro (antico staffiere dei Borboni, ed oggi gran personaggio) gridava apocrifa la lettera addotta in mezzo del Petruccelli, lui conoscere il notaio che l'aveva falsificata (nel secolo XIV) ed il signor Allevi, sorgendo a dire il Dante del Petruccelli non essere l'Alighieri, ma sibbene Dante di Maiano:

Maiale! Maiale! gridò tutto in gioia il Mandoy: Dante di Maiale! Questi è desso; e le lettere sono ippogrife.

A queste parole fu un grande scroscio, dove di risa, dove di plausi. Ma surto il Conte Durante, forse per avvalorare le parole del Petruccelli:

Abbasso! Abbasso i codini! gli gridò la pluralità, ed il Mandoy prese a dirgli solenne:

Silenzio a lei! Silenzio! Anzi tacete. Voi non potete parlare di Dante, perché voi non lo conoscete. E se lo conosceste noi comprendereste. I classici, Signor mio, i classici bisogna leggerli per capirli!

Ma, dopo tale apostrofe, provatosi a riaprir bocca il Conte:

Tacete! gli ripeté il Presidente, che altrimenti sarò costretto a farvi mettere alla porta. Voi siete un ignorante! Voi siete un impostore! Voi siete un alfabeta! Ed alloca:

Alla porta! alla porta! ragliarono gli asini più calcitranti e, volendolo afferrare per il braccio e Dio sa che fargli, il Conte alzò la sua seggiola e lanciolla a quegli arrabbiati.

223

E qui avreste veduto come l'assalto di una fortezza; tutti volendo aggredire il fiorentino e tutti cadendo pesti e malconci; poi altro che gli eroi dell'Ariosto o del Tassoni, non era colpo cui l'invitto spirito non ferisse, ne capo cui non convincesse a furia di queile sue santissime seggiate. Tutti allora svignandosela, qual per una via 5 qual per altra, il Conte Durante rimase assemblea e presidente: esempio perpetuo di persuasione per chi tenace nel falso.

CAPITOLO XIV.

Dopo vittoria siffatta e così romorosa confutazione di coloro, cui, al dire del Conte Cesare Balbo, «giova far di Dante un letterato del secolo XIX, invece di quell'anima innamorata che fu del XIII, or devota, or peccatrice, ora irosa, ora dolcissima, e in varii modi sempre attiva, concitata ed appassionata 1», il Conte Durante non cantò punto teddeo. E ciò, tra perché vergognoso del nemico e del modo cosi poco degno di filosofo per che aveva dovuto sbatterlo, e perché comprendeva come simil gonio pigiar si possa ma non mutui la, ché sempre zucche Bono lo zucche, ancoraché candii e in giulebbe. E sapeva come fosse costumo di questa mentire e mentire e incocciare nella menzogna allora più che più chiaro e più confutato è il suo mentire. Laonde, sedata la commozione della lotta, senza più laro, cadde ginocchioni nel bel mezzo della sala, sciogliendo questa preghiera:

Signore,

Aggi pietade dei miei gravi errori,

Però che io sono debole ed infermo

Ed ho perduto tutti i miei vigori 2.

1 Dante, Traduzione dei Sette Salmi Penitenziali.

2 Balbo Vita di Dante, Lib. II.

224

E tu conosci i bisogni della terra e, secondo essi, mandi la pioggia o spargi l'arsura. E tu parimenti conosci gli uomini eie loro forze, né mai penitenza irrogasti, la quale non possa portare la fralezza di nostra natura. Tu dunque

Difendimi, Signor, dallo gran vermo:

Non consentir, Signor, che la potenza

Degli avversari miei più mi consumi.

Toglimi al supplizio di questo tempo e di questa terra troppo ribelle a Te non solamente, ma alla ragione, ma alla natura, ma allo uman senno medesimo.

E se, come purtroppo è vero, non ancor monda è quest'anima, né così nobile addivenuta da poter entrar le porte sideree, da poter schiudere il guardo innanzi al Sole della tua Sapienza, da poter sovranamente accendersi alle fiamme del Primo Amore... miserere di me, Signore... e Te

... che il cielo e il mondo puoi comprendere,

Io prego che non voglia con furore

Ovver con ira il tuo servo riprendere.

Ricacciami, deh! fra il fumo della terza cerchia de! Purgatorio, dal quale ti piacque rimuovermi. Affliggimi pur con ogni altra purgazione: ritienmi fuor della terra più lungo secolo, ma ritirami, deh! da questo stanza, causami dalla tribolazione di cotanto spettacolo di viltà.... Deh! che non sia quest'anima la prima che di Purgatorio abbia a passare, anziché al Paradiso, all'Inferno. Che non abbia dal fummo ove purgatisi gl'iracondi, cader anche più giù, nel fango della Palude Stigia, in cui gl'irosi dibattonsi, e dove con si poca carità io cacciai quel Filippo Argenti mio nimico, per l'odio che portai a' suoi Adimari.

225

E mentre che questa preghiera forniva il nobilissimo spirito, non fu più notte lui intorno. Conciossiaché, involto in lucidissima spera, si udì picchiar sulle spalle ed all'errar dolcemente per mano dall'amica luce dell'Aquinate, che, senza parola parlargli, il ricondusse rapidissimamente nell'isola del Purgatorio. Quinci, fatto ritorno alla terza cerchia, vi apprese come, per la lunga pazienza non solo, ma per il santo sdegno di questo ultimo armo, venissegli pur finalmente cancellato il P degli iracondi, e mandato al settimo giorno, per piangervi il peccato della lussuria.

E colà stette poco men che due ore: o dadovvero non fe che passare le cocenti fiamme onde si appurano gli amori della terra. Né già perché il nostro poeta ne avesse fatto poche delle sue, quando non ancora abbandonato il mortale involucro; ma perché se aveva peccato, peccato aveva, come dicemmo, da gentiluomo, cioè con certa delicatezza e decenza: e questa è pure una circostanza attenuante per il tribunale di Dio. Oltraché i suoi amori, ripetiamo, non ebbero mai nulla di crapuloso. Vi ebbe quasi sempre per tre quarti la ridolente essenza della poesia. L'amore per Beatrice (e quando fanciulla e guardata dalla buona mamma Donna Bella de Caponsacchi, e quando moglie a Messer Simone dei Bardi cavaliere) fu sempre cosi purissimo che anche la sullodata mala lingua del Boccaccio afferma che «onestissimo fu questo suo amore, né mai apparve o per isguardo o per parola o per atto alcuno libidinoso appetito né nello amante né nella cosa amala, non piccola maraviglia al mondo presegènte nel quale è si fuggito ogni onesto piacere 1.»

E veramente, se non purissimo fosse stato, esso non avrebbe potuto ispirargli verso né della Commedia né della Vita Nuova. Che non solo Io ardore politico, ma anche il grande alletto di amore fu motore dello ingegno e dell'attività di lui, che credea di Bice potessesi dire con Omero:

1 Boccaccio, vita di Dante p. 49.

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«ella non parea fatta d'uomo mortale ma da Dio 1.» Dante, doveva ben puramente amare: egli che, quando salutato da quella figura gentilissima di Beatrice «parevagli vedere tutti i termini della beatitudine 2» E di vero che verso gli dettò quello amore, forse non puro, per quella Gentucca di cui gli parlava Buonaggiunta? Via, quale se non siano le parole di pentimento e di dolore che egli,

Dopo la tratta di un sospiro amaro,

venia rispondendo a Beatrice per i giardini del Paradiso Terrestre?

Chi studiò sapere di quella lucchese, che non portatoci ancor benda e fece piacer Lucca al poeta? Cognominavasi forse degli Antelminelli Allucinghi... e poi?.... Neppure l'amante vi si ferma più. E non vi ci fermeremo neppur noi; e cosi, siamo certi, non ci si fermò neppur troppo la giustizia di Dio Né poco poi gli fu tenuto conto dello schifo, in che avevasi avuto la corruzione del costume del presente secolo. Ed in ciò ebbe fortuna propizia; poiché gli amori in che veggoosi oggi invòlti gli uomini, e il modo che tengono in amando, sono di natura da far seguitare per gusto la castità. Ma fortuna ci vuol pure all'altro mondo; e non è male che quella povera anima ne avesse almeno una volta; e tanto meglio in quel luogo.

Però uscito dalla fiamma e cancellatigli dalla fronte il terzo della sua umanità, fu di botto pei viali del Paradiso Terrestre, e venuto al fiume Lete vi si cacciò dentro, ed indi corse a bagnarsi in Eunoè, Rifatto così novellamente,

come pianta novella

Rinnovellati di novella fronda

Puro e disposto a salire alle stelle,

1 Dante, vita Nuova. Pesaro 1829, p. 4.

2 Dante? Vita Nuova p, 5.

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preserlo per le braccia due angeli che, vestito del suo abito di terziario, con il quale era stato sepolto, condussero alla porta del Paradiso, La quale quasi magicamente dischiusasi, entro Dante e tosto vennergli incontro S. Francesco e S" Chiara di Assisi, ai quali portò tanta devozione e 'l Carlo Martello suo amicissimo e S. Tommaso o S. Bonaventura e S. Ambrogio e S. Girolamo e S. Gregorio Magno e S. Agostino e Boezio e quel fra Pacifico compagno a S. Francesco per santità come per poesia, ed Origene, e il poeta Prudenzio e Clemente da Alessandria e quel re Roberto dottissimo (benché da lui bollato con nota di Re da Sermone) e la luce di quel Sigieri che sillogizzò invidiosi veri, e tanti altri filosofi con questi. E corsero anche la sua Beatrice e Suor Piccarda ed i suoi antenati Cacciaguida ed Alighieri e parecchi dei suoi discendenti ed il figliuolo stesso di lui Messer Piero.

Gli angeli poi, mentre appresentato era egli al trono di Dio, cantavano quel Minuisti eum paulo minus ab angelis, gloria et honore coronasti eum, rendendo

… voce a voce in tempra

Ed in dolcezza ch'esser non può nota,

Se non colà dove il gioir s'insempra.

Ma so egli stesso, l'altissimo poeta, appropinquandosi al trono di Dio, diceva

All'alta fantasia qui mancò possa;

che diremo noi, non altro che povero discepolo delle muse? 0 che farà il nostro gramo ingegno, le cui ali sono troppo tarpate dalle passioni del mondo per e lèvarsi a tanta altezza o profondare il guardo nella regia divina e nelle sue gioie? Forza è dunque dismettere di raccontar quella apoteosi del poeta cattolico.

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Solo diciamo che questo si sapemmo bene, cioè che la luce di lui, venuta anzi al trono dell'Increato, fu condotta poi alla sfera stellata, in quel segno dei Gemelli, nel quale già era stata incoronata da S. Pietro.

Ma mentre cosi, nella superna sfera, egli riprendeva a cantare cogli angeli

La gloria di colui che tutto muove,

ben ridicola scena si passava a Torino. Conciossiacché la polizia fosse lesto avvisata dagli italianissimi delle busse ricevute da quel gran codino del Conte Durante, il quale secondo essi, era convenuto a posta in quell'assemblea per farsi beffe della parte generosa della nazione e dei suggerimenti del ministero. E però corse alla casa di lui per sostenerlo, E noi vi trovando, il Chiapussi Questore fece cercarlo per tutta Torino e le circostanze di essa. Laonde arrovellando, cominciò a travagliar coloro,che aveva saputo diportarsi talora con quel signor fiorentino, e massime il povero abbate Margotti, da cui volea per forza sapere che cosa si passasse fra loro. Ed il dotto pubblicista aveva un bel dire e un bellissimo ripetere:

Null'altro che la comunanza delle idee e degli studii.

Ché il birro massimo non sapendo di altra idea che quella dell'annessione io generale, né di altro studio che quello delle annessioni particolari, voleva per forza vedere il principio di una novella congiura in questo fatto.

E frattanto il lustrino Bonghi, il giorno appresso, scriveva in quel suo indipendente foglio, la Stampa:

«Iersera un certo Conte Durante, che dicevasi italiano, interveniva nella riunione stabilita per far onore alla memoria di Dante Alighieri per il seicentesimo anniversario della nascita di questo gran capo della nostra grande idea. Non era certamente invitato.

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Con tutto ciò egli si provò di disturbare radunanza con il debitare ogni sorta di spropositi e di ingiurie contro la memoria del nostro più gran Poeta ed alla nostra Italia. Ma come volle sventura non era presente l'onorevole signor cavaliere, commendatore, professore deputato Ruggiero Bonghi, il quale, con la sua profonda dottrina, e con la eloquenza della sua parola e quella influenza di una vita stata, sempre dignitosa» e già, come potete comprendere era il Bonghi stesso che scriveva «avrebbe spolverizzato il sedicente letterato e costretto a fuggir dalla capitale del regno. Ma ciò che non potette fare la vasta erudizione del Bonghi e la stringata dialettica di questo insigne filosofo, lo fecero gli astanti, i quali, se non provveduti della stessa dose di scienza del Bonghi o del Deputato e Commendator Saverio Baldacchini» padrigno del Bonghi «o del signor Commendator professore Gallego» cugino del Bonghi «o del signor avvocato Commendator de Masca» cognato del Bonghi «non erano però sprovveduti di mani e di piedi. Onde il presero, e cacciarono a busse e calci dalla sala e quindi andarono a ragunarsi nel Caffè S. Carlo. Speriamo che la vigile questura non lascerà impunito questo sciagurato e saprà indagare cosa voglia e cosa sia venuto a fare tra noi. Ciò non può passar cosi liscio. Si è veduto più volte venire al parlamento in compagnia di alcuni stolti pubblicisti, che agognano al ritorno di un passato impossibile ed alla estinzione di quelle libertà, che, mercé il saggio governo che sa cosi ben temperarle, ci fanno così gloriosi per Europa, così ricchi e felici nella casa. Non vi è oculatezza che basti, né forza che sia troppa a reprimere le mene di questi scellerati; e se il brigantaggio si estende sino a Torino, sino a Torino si estendano le fucilazioni e la benefica legge Pica».

Il giorno dopo leggevasi nell'Opinione.

«Si è pur finalmente, consciuto il vero essere di tale che dicevasi Conte Durante, e che intromessosi nel meeting Dantesco di ier l'altro ne fa cacciato pesto e malconcio.

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È desso un agente del Borbone e dei Preti; che mandato a Napoli a portar denaro ed ordini ai briganti, fu scoverto dal non mai abbastanza lodato prefetto di quella provincia signor d'Afflitto. Il quale fecelo all'istante trascinare in quelle benemerite carceri, per poscia rimetterlo ai consigli di guerra di. quella provincia, coi di cui briganti doveva entrare in comunicazione, Aspettavasi dunque un giorno o l'altro veder vendicato il diritto con la fucilazione o il domicilio coatto del medesimo. Mala iniqua fazione che desola quelle felici contrade non mancò di strapparlo alle mani dell'energico prefetto, ed il vile Durante, fuggito dalle carceri, osò venire in questa medesima nostra città, trono e tempio di tutte le idee generose della rivoluzione, per sfidare qui stesso i di lei fulmini. Ma la vigile questura è già sulle peste di lui e scommette impadronirsene presto presto, quando già non se ne sia impadronita a quest'ora. La conoscenza del vero essere di lui la dobbiamo ad un egregio nostro confratello redattore della Patria di Napoli, venuto in questa dominante per faccende del suo indipendente giornale con il ministero delle finanze. Intanto ci facciamo solleciti di far conoscere al pubblico, che la frattura del capo, toccata l'altra sera all'Onorevole Mandoj Albanese è cosa non di grave conseguenze, e fra giorni potrà riprendere la presidenza del Meeting. Ben inteso pero che questo succederà quando si sarà certi che il sedicente conte Durante e imprigionato e chiuso ben bene a Fenestrelle.»

Il giorno medesimo la Gazzetta del Popolo scrivea nelle sue colonne:

«Il così detto conte Durante, che fu bastonato ier l'altro, non è che un uffiziale del Duca di Modena, preso al servizio dell'Austria e venuto qui a scandagliare il terreno. Se egli riuscirà a raggiungere l'I. e R. Governo, potrà mostrare a Cecco Peppe un campione di quelle busse e corna

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che gl'Italiani barino preparato per la santa alleanza, quando questa si decidere finalmente a venire innanzi.» E l'Italia francese di Torino scriveva «Cet homme qui osa troubler la savante et pacifique réunion présidée par l'honorable Mr. Mandoy Albanese, n'etait pas plus italien de naissance que d'opinions. Nous avons été bien renseignés sur son compte. Il s'appelle Frusteufels et n'occupe qu'une petite place dans les bureaux de la police de Verone. Nous prions donc ces Messieurs de la Questure de tenir leurs veux mieux ouverts du côte de la frontière, car du pas que nous marchons nous pourrions être surpris par une armée de croates déguisés en travellors pacifiques». Indi a poco la Perseveranza scriveva: «L'agente austriaco Frustenfels, che col nome di Conte Durante fu inviato a Torino per abboccarsi con il comitato Austro Clericale Borbonico ivi organizzatosi, ier notte passò da Milano travestito da prete, con una zimarra che diedegli, secondo alcuni, l'abate Margotti, secondo altri un canonico della cattedrale. Quivi, disceso in casa di monsignor Caccia, dimorovvi tutta la giornata di ieri, abboccandosi con gli austroclericali di qui, ed a notte ripartì per la ferrovia di Brescia, onde poi a cavallo si è restituito a Peschiera. Preghiamo il signor Prefetto Villamarina a voler seguire a Milano la stessa energia che spiegò a Napoli, quando provvide alla felicità di quel paese, travagliando alla sua annessione. Non basta il fare, bisogna saper conservare, che ladro è quegli che fassi pigliare, e quegli che no, è galantuomo.»

E così via via del tenore medesimo, come da fiumi le irrigazioni, venia scribacchiando quella stampa italiana, alla cui libertà ed indipendenza sospirammo quindici anni, incanagliandoci con queste maschere di filopatri, i quali chiarironsi birri da allogare ned altro, quando fu stagione di toglier la buffa.

FINE




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