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Si ringrazia il Dott. Giuseppe Catenacci per averci fornito copia cartacea del testo.

In questo opuscolo non ci sono chissà quali rivelazioni o novità rispetto a ciò che già sappiamo ma in esso troviamo la descrizione di un mondo che si sgretola. Si respira il clima euforico del rivolgimento in nome di una presunta modernità. Nell'ubriacatura generale diverse voci si sollevano ed invitano a ponderare e a riflettere, come Cognetti, ma sono voci clamanti nel deserto.

Leggiamo le sue parole che meglio di altre descrivono il tutto:

“Dal Re di Sardegna la vostra confederazione sarà respinta: faremo di più — Ora l'unità italiana sarà in unità di nazione conversa, e la nazionalità d'Italia intera è in due corone impossibile: — una la nazione, unico il Sovrano, e lo sarà il Re di Sardegna. Napoletani, il Re Francesco II non è per voi — unitevi a noi, e miglior governo, ed incrollabili guarentigie otterrete!—

Così a noi dall'Italia centrale si grida, e se Francia si tace, ha l'Inghilterra per bocca di Palmerston gridato anch'essa!

E un baccano di scritti incendiari, da tutte parti in Napoli pervenuti; propri ad eccitare gli spiriti alla rivolta; nelle menti ogni lampo di ragione ad estinguere; a convincerci fino di vergogna, se di Garibaldi non invochiamo l'aiuto; se dal trono Francesco II, non discacciamo; ed a nostro Re Vittorio Emmanuele proclamando, a Dittatore il Farini non accettiamo.”

Parole profetiche. Buona lettura.

Zenone di Elea – 31 Marzo 2011

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NAPOLI E SICILIA
NEL 1860

PER
SALVATORE COGNETTI GIAMPAOLO
AVVOCATO

NAPOLI
1860



Il vero patriotta è colui, che la felicità la gloria e l'indipendenza del suo paese, nel perfezionamento della libera costituzione del medesimo, vuole e procura.

Là dove questo sentimento diventa nazionale, assurdo è il ritorno ai riprovati politici principi, che sinora nel solo Sovrano le sorti dello Stato centralizzando, un fine sempre opposto a quello d'un retto e leale governo han prodotto: imperocché gli organi del potere, ignoranti e corrotti, sotto il trovato di essere gl'interpetri più prossimi dei popoli, arbitri del Sovrano cenno diventarono.

Nel nostro regno, per sistema, il complotto ministeriale, di accordo con una conosciutissima Camarilla, non ha mirato ad altro, massime dal 1848 in poi, che ad ergere insormontabile tra Re e popolo una barriera; e ad impedire, che le nostre giuste querele una sol volta sugli errori del suo governo richiamato avessero il convincimento del Monarca.

 

4 —

I popoli oppressi, di pochi perversi al dispotismo lasciati, di ottener giustizia ovunque disperando, di affrancarsi da quelli oppressori fermamente deliberarono. E quando da tutte parti d'Europa eravamo commiserati, più compatto il nostro odio contro coloro massimamente si ridestava, che gli slanci generosi del cuore e della mente hanno in noi col terrore repressi.

Ma, nella rigenerazione della nostra vita politica, il nostro pensiero innanzi al lutto dei giorni passati non si arresti: — eromperanno gli sdegni, e, la rettitudine della ragione, tanto nelle crisi politiche necessaria, smarrita; l'energica missione di gettare eterne fondamenta alla costituzione liberale della patria dimenticheremo.

La fiaccola della storia, che luce vivissima su quei giorni di sventure tramanda, senza dubbio tutte le cagioni, che le produssero, ne rivela: e di leggieri i mezzi a distruggerle o a fuggirle ne apprende.

Adunque nel campo positivo della società scendiamo; affratelliamo gli agenti operosi della mente e del braccio: — e per tal modo all'Europa ed al mondo intero quanto falsamente ne hanno giudicato dimostreremo.

Quantunque dodici anni, or sono, dalle presenti molto diverse state fossero le condizioni d'Europa, pure saggi abbastanza non fummo per comprendere, che la moderazione dei popoli anche allora seriamente imposto avrebbe al governo, che nel disordine e nell'intemperanza delle pretensioni di quei liberali forza e diritto acquistava; massime quando l'anarchia, stanca di se stessa, si trascinava, come l'ebro, sull'orlo del precipizio sociale.

Nella storia del nostro paese occupa il lazzarismo una pagina abborrita. Questa cieca ignorante e brutale classe del nostro popolo ha sinora con un istinto di feroce religione al cenno di un'odiosa polizia obbeditola quale al mantenimento

4 —

dell'ordine, come giustizia pronta e preventiva, invece d'in- servire, , nulla ha tralasciato e carceri durissimi e verghe e torture e spesso le morti per costituire tra noi una schiavitù, che non ha riscontri nella storia.

E quando uno slogico dispotismo ministeriale all'ingiustizie poneva il colmo, la conseguenza della reazione era in tutto il regno inevitabile: e noi, al grido della libertà nelle contrade dell'Italia centrale risorta sulle rovine del dispotismo austriaco, deprecato abbiamo il giorno, che pur salutammo, ed in cui fu ricacciato nella sua tomba l'orrido cadavere degli agenti del passato regime.

Non è egli forse vero, che per dodici anni veduto abbiamo Re Ferdinando II. condannare se medesimo ad un esilio perenne: vivere vita di continui palpiti, ed i capelli a 49 anni imbiancando, scendere cosi prematuramente nel sepolcro?

E questo martirio, di cui è stato vittima, lo deve principalmente allo zelo iniquo della polizia, che la felicità del popolo mostravagli nella plebaglia, che spensierata ed avvinazzata correva alle feste di Montevergine e di Piedigrotta! —Ed i falsi e sleali consiglieri, nel permettere e garentire il monopolio, il furto e le angarie, in tutti indistintamente i rami delle Amministrazioni, liberi ed impuni intanto rimanevano.

Eppure Ferdinando li. nel 1830, quando l'Italia la sua corona gli offerse, diede a Melternich delle tristi insonnie, e tutta presso di lui attiva la politica dell'austriaco divenne!!

La morte di Cristina di Savoia non sarà mai da noi abbastanza rimpianta; comecché se vissuta ella fosse, conia dolcezza dei suoi consigli, con la santità della sua vita, e con la sua immensa e sincera popolarità legato lealmente avrebbe ai suoi popoli Ferdinando II; e la preponderanza della politica tedesca a dominare queste contrade venula non sarebbe.

Nel 1848 vacillante, ma non caduto era il patto dei Regi congregati nel 1815 per distruggere il liberalismo.

6 —

Stanca da più anni l'Inghilterra in quella quiete di morte politica, i popoli oppressi sordamente animando, fé' che la reazione, al suo colmo giunta, come un importuno cacciar dovea dalle Tuil- leries Luigi Filippo; affinché la Francia, ad una politica gloriosa e tradizionale devota, fal suo trono proclamato Luigi Napoleone avesse, col giuramento di essere il Rigeneratore della libertà dei popoli.

Non il tedesco temè tutto il pericolo, che con tale avvenimento politico della Francia correva.

Napoleone III. è stato sublime nell'addormenlare l'Austria! -— sino a che, il suo impero consolidato, vide frementi l'aquile imperiali a spiegare il volo glorioso da tanti anni tarpato!

Una temuta influenza in Europa esercitava per le sue poderose forze la Russia: e la forza fu vinta, e cadde in lei anche quel prestigio morale, che allaFrancia come unica ed eminente conquista politica rimase.

L'Austria, che nel 1848 della sua salute all'intervento della Russia fu debitrice, allor che costei contro le baionette francesi le domandò aiuto, le rispose, che l'ingratitudine valea un impero!

Sotto le rovine di Sebastopoli però fu sepolta la bruta schiavitù di quei popoli, che oggidì nel giovane e generoso loro Imperadore dello Czar Pietro il Grande ridestato ammirano il genio; egli stesso i suoi popoli dal sonno degli schiavi destando e per tutte le vie della perfezione sociale conducendoli.

Napoleone III. coi legami solenni ai destini della Francia quelli della Russia rigenerata avvincendo, il trionfo della libertà d'Italia assicurava.

L'indifferenza austriaca con la neutralità russa nella guerra d'Italia esser dovea ben punita; e l'Austria a sua volta sola rimase a fronte delle baionette francesi ed italiane, che Napoleone nella campagna di Russia avea avuto cura ad educare!

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Guerra sublime e gloriosa, nella quale sì forte l'ingegno ed il braccio si strinsero, che più rapida non è la potenza del fulmine del crollo, che l'Austria all'apparire soltanto degli orifìamma dei prodi Sovrani Napoleone III. e Vittorio Emmanuele, ha vergognosamente sofferto.

L'influenza, che su ¡ gabinetti europei la Francia esercitava, allarmò l'Inghilterra, che colta da un panico, (che dura tuttavia) si levò tutta in armi: e tornò volenterosa a Napoleone III., quando nel vederlo spontaneamente offerire la pace all'Imperadore d'Austria, lo trovò sufficientemente inglese.

Si gridò da tutti i lati al Congresso europeo — Folle chi supporre poté soltanto, che così ai polsi di Toscana, di Modena, di Parma e delle Romagne si sarebbero le frante catene dolcemente ricondotte.— Il patto oscuro del classico trattato di Zurigo era ben parlante per prevenire i popoli, col principio del non intervento di potenza straniera, di essere nel diritto di eligere un Sovrano della loro fede e della gloria nazionale degno.

Ed i popoli dell'Italia centrale proclamarono la loro annessione al Piemonte.

I fulmini del Vaticano furono prontamente lanciati! — ma la Croce della Redenzione sta sul libero vessillo degl'italiani: nei giorni della schiavitù abbracciata e stretta la tennero al cuore: confortatrice sublime delle loro lagrime; di loro speranze rifugio santissimo! — Rossa è quella croce, perché tinta dal sangue dell'Italia redenta: — ed in campo bianco risplende, perché simbolo è il bianco della fede degl'italiani.

Eppure Venezia è parte d'Italia nostra! Questa leonessa dei mari, questa bellissima sposa dell'Adriatico sotto le torture del Tedesco geme, ed i polsi ne mostra di quelle catene ancor carichi, che a noi furon tolte.

Oh! possibile esser puole, che i trattati di Campo-Formio e del 1815 toglieranno ancora nel 1860 al Leone di S. Marco la sua libertà di quattordici secoli?

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Napolitani! La libertà del proprio paese, che dai nostri fratelli del Po fu col sangue redenta, giunse tra noi tinta dal sangue dei nostri fratelli di Sicilia.

A renderci degni di tanta ventura, il completo sagrifizio delle passioni, degli odi, delle vendette un sacro dovere diventi: unico olocausto; che sull'altare della libertà cittadina offriamo.

Al pericolo del far troppo presto badiamo, perchè non faremo bene. — Saggi ed operosi, la nostra impresa più diffìcile si rende, perchè nella sua credula ignoranza ne circonda un volgo, che facilmente confonde libertà e demagogia. — Colpa sarebbe anche ad un'esultanza sfrenata eccitarlo: il tumulto ad un empito irresistibile pel sangue lo trascina, ed esso sospira sempre il sacco, che nel suo linguaggio chiama santa fede.

Con la severità della moderazione imporre alle masse; al governo unirsi lealmente; affratellarsi all'armata, ecco il nostro primo compito.

Il rinnovamento, che -in tutte le cariche dello stato trae seco il cangiato governo, cura e fatica di sì lieve momento non è, che possa in pochi giorni andar compiuta; massimeperchè nel malcontento di coloro, che vittima dei fedeli loro servigi ingiustamente si reputeranno, contro il novello regime grideranno, ed in questi i principali nostri nemici temer dobbiamo.

Dodici anni di esperienza per giudicare i Deputati delle Camere del 1848 ad una giusta e savia scella ora ne guidino. — È a costoro la fede della nazione commessa, ed alla solennità del mandato il senno dell'elezione risponda: imperocché, se prospero il fine agogniamo, la bontà dei mezzi ora tra noi è a ricercare.

La Dio mercè, dalla nostra armata gli abborriti uniformi rossi disparvero:

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la nuova accozzaglia di recente venutaci in dono dal tedesco e dal bavarese, senza un formai« trattato internazionale, non può dalla nostra Costituzione esser tollerata più a lungo.—Ed allorché l'armata e la guardia nazionale le nostre istituzioni politiche garentiranno, chi fia che tema, che un'altra volta ¿il rovescio di queste si attenti?

Da lunghe e profonde sventure maturato il nostro senno, all'apparire dell'alba deprecata del 25 giugno 1860, a non abbandonarci troppo facilmente alla gioia ne impose.— Tranquillo, severo e quasi scontento il popolo alla proclamazione rimase dell'Atto Sovrano.

Donde mai tale contegno? — Immensa era la sfiducia nel governo — nessuno creder volle; e gli ammirai nuovi avvenimenti quantunque preparali, come da un incubo percossi rimasero.— Un triste convingimento, di essere un'altra volta traditi, da per tutto insinuandosi, al grido fatale di annessione al Piemonte, da Palermo a Napoli ha le menti sollevate!

Napolitani! A questo grido non sia chi tra noi risponda, se prima nel diritto a farlo non ci poniamo: se prima la ragione civile storica e politica del nostro paese nelle attuali condizioni non interroghiamo; e finché nel severo scrutinio di questi elementi ognuno di noi un vero indeclinabile non ravvisi in ciò, che il fatto dell'annessione, che per gli altri paesi del. l'Italia centrale fu necessità politico-civile, pel nostro paese è impolitico, e fomite di nuove sventure per l'Italia sarebbe.

E se il Piemonte, per suo o per altrui talento nella speranza di trascinarci all'annessione, i patti della lega da noi offertagli e la lega stessa rifiutasse, egli, per la conquista del nostro reame, avrà del sacro scopo dell'unità italiana fatto un impolitico pretesto.

Se ad occhio nudo il sole guardiamo, dai suoi raggi vivissimi percossi, diremo che è bello ed incomprensibile: ma a traverso d'un vetro opaco riguardandolo, più risplendenti quei raggi

 

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non saranno, e nel sole nerissime macchie scovriremo!

Forse io mi sbaglio: ma l'uno all'altro, senza prima esserci a vicenda convinti, non ci arrendiamo. — Potrà darsi, che, fatta emenda, io torni ad essere annessionista, e dissi torni, perché fino al 25 giugno 1860 coscienziosamente lo fui.

Lo scopo della libertà e dell'unità politica d'Italia è da me, al pari d'ogni leale patriotta, altamente proclamato, ed i principi che sinora a raggiungerlo mirarono, e che a sostenerlo stanno, furono da me, sin dai primi anni di mia giovinezza, caldamente professati, e non mi reputo ad altri secondo nel professarli.

Ebbene, o Napoletani, a così solenne principio io congiungo l'altro non men sacro e solenne dell'Indipendenza nazionale del nostro paese.

Credono gli annessionisti, che mancando la buona fede in Francesco II, giungere al fine dell'unità italiana non si possa, cosi sotto il riguardo delle politiche e libere istituzioni, che sotto l'aspetto della forza coalizzata; se non un trono ed una sola corona dando all'Italia: trono e corona, che al Re di Sar. degna destinano.

E però, secondo essi, l'unità d'Italia dalla confederazione dalle due corone di Napoli e Sicilia, e di Sardegna, non sarebbe compiuta.

Venga a voi, miei fratelli di Sicilia, a voi ardenti figli dell'Etna, cui la libertà dell'intero reame è dovuta, la voce franca e leale del compatriotta.

Siciliani: aspirando all'annessione, rinnegate un Sovrano, del quale contenti non foste; e cercate d'un Sovrano, nel quale fiducia e buon governo sperate. — Nel fuoco delle passioni e degli sdegni più bollenti, a me rispondete i cadaveri dei vostri fratelli additando! E l'armi fratricide su quei campi di maledizione s'incontrano ancora... — e la vendetta soltanto, dall'averno

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fomentata, al voto annessionista vi trascina!

Giù quell'armi caine!! — E dite, se, fieri sempre della vostra indipendenza, credete averla ora a prezzo di tanto sangue raggiunta.

Nell'Isola non si potrebbe con l'annessione, che temporaneamente assonnare l'eminente voto d'un Sovrano, d'un Ministero, d'un'Armata indipendente; imperocché dal Piemonte non si manderebbe in Sicilia, che un Governatore.

Durerebbe molto nell'Isola questo Governatore?

Quantunque italiano, sarà sempre l'inviato del Piemonte piemontese in Sicilia; e siccome incompossibile sarà l'indole del governatore e del governato: — e poiché, per l'unità del principio governativo, dalla Sardegna un'eccezione per la Sicilia non potrebbe farsi, a lei le vaste franchigie accordando della deprecata costituzione del 1812, che sente da mille miglia la costituzione inglese; — ne avverrà, che o per orgoglio di possedere in vernice il Re di Piemonte sarà meno Re in Sicilia; ed in ciò l'incompatibilità e l'anormalità politica di scindersi l'unità del principio governativo.

O, per mantenere l'unità governativa, sarà forza imporla; ed allora la rivolta é sicura; avvegnacché con l'annessione i Siciliani quello, che con Re Francesco II guadagneranno, certamente avran perduto.

Fratelli Siciliani, se delle vostre sorti politiche innanzi ai cadaveri de' vostri fratelli ed innanzi alle città dal fuoco della mitraglia distrutte, giudici sarete, vano il mio dire tornerebbe: — ma se alla severa e duratura felicità de' popoli è il freddo calcolo della ragione necessità eminente, dall'odio, che giustamente vi domina, guidato il vostro avvenire non sia, e solo alla prosperità del vostro paese, col mezzo governativo, conciliandola, mirate.

Arbitri di voi stessi, se alle vostre crudeli ferite il balsamo

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si appresta della vendetta, la mano, che così vi avvelena e la bara vi apparecchia, diffidenti respingete.

De' tuoi futuri destini, o Sicilia, al vado vigilante sta la vecchia volpe del 1805; e perché tu non le scappi, sola, misera ed insanguinata ti vuole.

I popoli ora a buon prezzo all'asta dell'annessione si vendono! E vi chiamano liberi i bugiardi!

Siciliani, con la lealtà di lui, che a sua gloria ascrive chiamarsi vostro ccmpatriotta io vi parlo, e col cuore dal dubbio straziato, che dalla nostra storia staccandovi, formerete parte d'un altro paese, che se a noi è fratello, non è certo per noi il suolo fraterno dell'Etna e del Vesuvio!

E noi, Napolitani, che senza le luttuose giornate di Sicilia, spento il vecchio regime vedemmo, a consolidare il principio unitario italiano con l'annessione di Napoli al Piemonte giungeremmo; o noi eziandio lacerati e distrutti fraternamente ci saremo, perché in fatto nessun altro scopo raggiungessimo, che l'onta della perdila dell'indipendenza nazionale?

Conciossiachè, se la forza non fu del diritto mai la misura; e se l'annessione la volontà spontanea d'un popolo suppone, è logico, perché legittimo il suo voto sorgesse, che uno sguardo all'indole, ai costumi, alle tradizioni del nostro popolo si dasse, che all'annessione conviteremmo.

Sventuratamente, poi che ai principi liberali fummo ritornati, e dai fratelli dell'Italia centrale a confederarci loro fummo chiamati, ora al generoso appello volando... ne respingono.

Le voci dei nostri fratelli ascoltiamo — Napoletani, la sanguinosa giornata del 15 maggio 1848, e 12 anni che seguirono, a diffidare del governo dei Borboni non v'appresero? — Non sono ancora là, pronte a vomitare la distruzione e la morte le temute castella, sul Te mura della vostra città irte e minacciose?

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Fra le vostre file non è ancora il soldato tedesco? Diffidate! Dal Re di Sardegna la vostra confederazione sarà respinta: faremo di più — Ora l'unità italiana sarà in unità di nazione conversa, e la nazionalità d'Italia intera è in due corone impossibile: — una la nazione, unico il Sovrano, e lo sarà il Re di Sardegna. Napoletani, il Re Francesco II non è per voi — unitevi a noi, e miglior governo, ed incrollabili guarentigie otterrete!—

Così a noi dall'Italia centrale si grida, e se Francia si tace, ha l'Inghilterra per bocca di Palmerston gridato anch'essa!

E un baccano di scritti incendiari, da tutte parti in Napoli pervenuti; propri ad eccitare gli spiriti alla rivolta; nelle menti ogni lampo di ragione ad estinguere; a convincerci fino di vergogna, se di Garibaldi non invochiamo l'aiuto; se dal trono Francesco II, non discacciamo; ed a nostro Re Vittorio Emmanuele proclamando, a Dittatore il Farini non accettiamo.

Il dolcissimo Poerio ed il sobrio Mancini, nostri emeriti compatriotti, contrario alla confederazione di Napoli col Piemonte han dato il voto: ma le loro parole, per le sofferte sventure giustamente amare, di dignità non mancarono. Fu sempre un'opinione, cui è dovuto il rispetto.

Duolmi sinceramente, che altri, nel proclamare ciò che far dovrebbero i Napolitani, a tutti i principi, della moderazione non dico, ma della civiltà e del buon costume cosi ruppe il freno, che dalla sua bocca quelle basse contumelie ruttate ascoltando... in lui... risorto veggio un novello Marat, che all'orgie esecrande della Repubblica francese i Napolitani sollevi.

Pertanto senno e virtù cittadina, apro dell'immegliamento politico d'Italia, gran merce veramente! E se delle nostre sorti a capo siffatti uomini (e non ve ne ha penuria) si preponessero; lo dico freddamente....—alla repubblica correremmo.

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Nel funesto suo giro ha la pesante ruota sociale inesorabilmente schiacciato or l'anarchia, or la tirannide; ma nella pienezza dei nostri tempi con savie ed energiche norme il popolo si guidi, ed a lui in buona fede il Sovrano si congiunga, e questi solenni motori veloce e spedito alla ruota imprimeranno il moto; e sulla sua ferrea cerchia più anarchia e tirannide non staranno.

Se cosi parlo, non è perché agli altrui principi io muover guerra cercassi: nelle prossime sociali vicende essi la giusta loro valutazione troveranno.

Nell'oscura e privata mia vita, in segreto sulle sventure della mia patria piansi e sperai: ma ora! in tante ambagi commiserandola, libera è la mia voce, e parlo. Se alla tirannide maledissi; all'anarchia maledico: e fra queste ponendomi, ai miei fratelli d'Italia dimando, se separare siffatti vicendevoli distruttori è d'uopo, perché questa terra di grandi sventure e di grandissime glorie, «ma volta e sempre, la sua pace e la sua vita secolare assicurare si possa!

Ecco il mio volo unico, leale, franco, imparziale, e senza pretensione alcuna.

Fratelli; grandi pensatori ebbero il comunismo ed il socialismo, i quali nel trascendentale desiderio di rifondere il creato e la creatura, si avvidero che tra le nubi nuotavano.

Facile è il volere, e mezzi al compimento della volontà ideare: ma non sono, che i soli progetti possibili e le giuste volontà, che a riescire, massime in fatto di politica, facili addiventano.

Tremendo è il giudizio dei popoli!A Napoleone I quanto non ha imprecato Italia, che in cosi forte sostegno confidente, il ghigno infame non vide di Metternich, che coi mentili imperiali amplessi della figlia di Casa d'Austria il temuto Corso domando, patria e giuramento cancellarono dal di lui cuore? E sotto le torture del tedesco più oppressala ricadde Italia,

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mentre Napoleone I sotto i piedi crollante sentì il Trono del più grande e glorioso impero.

Perché imprecò, non guari dopo, Italia a Carignano divenuto Re di Sardegna?

Ma i grandi errori, le grandi colpe, se dalla storia così severamente si giudicano, le grandi riparazioni a cancellarle giungono ancora.

Napoleone III, gli errori della politica dello Zio riparando, dalla loro schiavitù Francia ed Italia redense: ed il tradimento di Waterloo, e l'infame scoglio di S. Elena gridano ancora, con la voce potentissima del diritto delle genti, la più meritata vendetta.

In pugno del prode e valoroso Vittorio Emmanuele sventola temuto innanzi agli occhi del fremente tedesco il vessillo dell'italiana redenzione, che sul letto di morte gli affidava l'eroe del Trocadero.

Perché mai, o fratelli, sull'alba appena del nostro risorgimento politico, dispereremo, che Francesco II, sinora alle tedesche dottrine educato, or che nella giovinezza e nella vivacità degli anni, tutti i Sovrani mira d'Europa nella rigenerazione dei loro popoli lieti leali e benedetti: or che spenta nell'irto tedesco è sinanche la speranza di adunchiare l'Italia; perché diremo, che in lui il sangue generoso dei Savoia non si ridesti, e sacra innanzi al Trono di DIO, la fede ai suoi popoli giurata, non rimanga?

Dai suoi fianchi la perfidia dei maledetti consigli distolta: dall'incubo tedesco liberato: e convinto che suoi nemici e traditori eran coloro, che a se devoti reputando, tanto dilesse... Francesco II non potrà che lealmente al suo popolo stendere la mano: e nella pubblica fede rigenerato, al velenoso e fatale insulto, che viene d'oltralpi, darà solenne mentita.

Napoletani, sovra di noi tutta Europa ora intende i suoi sguardi, comecché il più gran quesito nella politica novella

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dei gabinetti europei da noi sciolto si aspetti, e stassero in ansiosa perplessità le altrui politiche speranze sospese.

Invidia e sospiro delle grandi potenze fu in ogni tempo, e Io sarà sempre, questo benedetto paese, che alla fertilità prodigiosa del suo suolo, alla voluttà del suo cielo, l'importanza unisce della sua situazione sull'acque dell'Adriatico, del Mediterraneo e del Tirreno.

Al tocco della magica verga turbate le nostre menti, all'annessione di questo reame al Piemonte violentemente sperano sospingerci; e nel loro intento a riesci re, altrimenti che con le impressioni seducendoci della nazionalità italiana, non potrebbero.

Concittadini, miseri ed oppressi, quali fummo sinora, pure al grado di potenza indipendente tra l'altre potenze d'Europa fu questo reame alzato, che con tale sua indipendenza ai destini europei e nei consigli delle nazioni dominanti non poche volte impose.

Come mai tanta gelosa opra secolare, sui ruderi d'un'ab- borrita tirannide viceregnale costrutta, e che della nostra storia nei fasti ha il senno di Carlo III. reso immortale; questa gloria, di cui tanto inorgoglire dovremmo; ora, e tra tanto incivilimento sociale, e mentre di libertà superbi ci vantiamo, vuoisi da noi stessi in un lampo dispersa?

Napolitani, con l'annessione del nostro paese al Piemonte la nostra indipendenza nazionale è perduta, ed alla condizione di lontana ed abbandonala provincia del Piemonte ridotti saremo.

È forse perchè liberi diventammo, che in compenso alla viltà di cedere l'indipendenza del nostro paese discenderemo, per dimostrare al mondo, che l'anima abbiamo sempre di schiavi?

Della libertà cittadina caldissimi, severi custodi e sostenitori della stessa, tanto delirio non ne colga. Uno il patio e la fede

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sia per Italia tutta; ma non cediamo, per carità, il nostro paese!

Da severo consiglio guidati, al libero dire, che a noi viene d'oltremonte, liberamente si risponda: e se un freno su i nostri casi l'altrui opinione non trova, codardi e tapini nel silenzio non sia chi più debba e possa giudicarne.

In un artistico pensiero rapiti, potremo in noi la più grande ispirazione del genio a creare una seconda statua del Mose sentire, e di dar vita al marmo di Carrara agogneremmo. Ma cadrà in pezzi il marmo, se nelle nostre mani non è lo scalpello di Buonarroti, e la statua non verrà mai.

I Ducali e le Legazioni già i costumi, l'indole, il pensiero, la vita hanno da secoli tra loro unificato. Dai loro Sovrani disertali, bene a dichiararli decaduti dal Trono si avvisarono i popoli; avvegnacchè un Re, che il suo popolo abbandona, lo disama, ed in preda all'anarchia, per riedere più tiranno, lo vuole. Vittorio Emmanuele il Sovrano, dirò quasi, naturale legittimo per tutte quelle popolazioni diventava, che a fiaccare l'orgoglio e la tedesca tirannide sotto le piemontesi bandiere volenterose accorsero.

Ma di questi stati d'Italia per adottare il destino, nelle stesse politiche condizioni forse Napoli si trova?

Francamente ed altamente dichiaro, che in fatto di politica, e quando le sorti di un popolo vagliar si debbono, i ferventi declamatori e le tirate dei poeti, fosse anche V. Hugo, non meritano, che l'encomio dovuto all'energia del dire e null'altro. Oggidì Napoli è pur troppo alle aspirazioni ed ispirazioni poetiche commesso, che la caduta del Trono di Francesco II. nella nazionalità italiana sovra Napoli estesa profetizzano!

Nel suo vivace genio francese V. Hugo tutte della nostra spenta polizia le torture narrando, fu impareggiabile, e benedetta sia la sua penna. Egli ha preso ed ha lanciato la sua pietra, come a quelli esecrandi il dovuto ricambio

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del fuoco e del ferro si è da noi dato. — Poi lessi.

«Francesco II. a quest'ora crede ancora di esistere; egli s'inganna: io glielo dichiaro altamente: egli non è che una ombra» — e parla dei negri cavalli dell'esilio attaccati alla sua porta, e chiama tutto ciò un piccolo interesse politico!

Decisamente V. Hugo è un grande poeta, ma non un gran politico: e s'egli ha potuto la sua opinione altamente dichiarare ad un Sovrano, mi permetterà, lo spero, ch'io la dichiari nello stesso modo a lui.

Se agli scrittori drammatici, che vivono di fantasia, spesso anormale: se ai mercanti, che vivono d'interesse: se ai trascendentali, che rimasero sempre utopisti: e se ai violenti le sorti delle nazioni si confidassero: ad un corso di commercio di estetica e di filosofia esse si ridurrebbero, © si governerebbero col ferro del repubblicano. Il quesito, che a fronte di tutte le potenze della terra, nell'interesse di questo Regno, la Francia l'Inghilterra ed il Piemonte s'impegnano a risolvere, è il seguente.

Se per raggiungere la vasta idea di costituire l'unità-nazionale italiana, si possa permettere al Generale Garibaldi, che invada il Regno di Napoli, e che detronizzi Francesco II.

Riduciamo le cose ai loro stretti termini, e senza neppur cercare di manierarle.

Se questo spoglio violento sta nel diritto delle genti e nei trattali internazionali del 1860: se quelle Potenze europee nel diritto si reputano di permettere, ed in tutti i modi avvalorare questo detronizzare ad libitum anche i Sovrani, che non ebbero la viltà di disertare il trono: meglio sarebbe, che Francia Inghilterra e Piemonte, senza simulare, per politico sistema, un'indifferenza di calcolo, al mondo proclamino, che arbitri dei troni, essi hanno pel Re di Sardegna quello di Francesco II. eziandio destinato, nel fine di consolidare la nazionalità italiana. — A tale arbitrio se tutte l'altre Potenze plaudiranno, Francesco II.

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andrà dove i negri cavalli del signor V. Hugo saranno da un'altra poesia del medesimo guidati!

Ma con la tromba della politica non si annunzi, che i popoli del nostro reame lo spoglio votarono, perché dessi saranno eminentemente calunniati.

Con tal sistema a tremare per i loro troni cominceranno i Sovrani: e chi sa, quali funeste guerre non si riaccenderebbero per interdire, ai popoli non già, ma ai più forti il vantaggio di detronizzare:—le necessità di un popolo improntando?

Gli estremi si toccano e furon sempre difettosi — Credete, che le Potenze, ora al silenzio ridotte, e della gloria di Francia stessa gelose, non pensino fervidamente ad un secondo 1815?

La gran massima, che nelle quistioni tra popolo e Sovrano non debbano le altre potenze intervenire, direbbe più in politica qualche cosa?

Intervenire palesemente, no — perché è vietato — Occultamente, e vale lo stesso, si: perché non è vietato. Così l'ha pensato il parlamento inglese, che pensa sempre benissimo, quando ci trova il suo conto.

Che poi tra popolo e Sovrano siano le quistioni scomparse, poco monterebbe del pari — perché i rancori del passato vi supplirebbero!!

Adunque a non bruttarci di stragi e di fratricidio, se lo puote, disponga di noi, chi altro diritto, che la forza e la violenza non avrebbe.

Il voto dei popoli!

Altra polvere politica agli occhi dei creduli: il voto si deve presumere, ed è quello da Dante cantato,

«Vuoisi così colà, dove si puote

«Ciò che si vuole, e più non dimandare!»

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Napolitani, che ci fosse da quest'altro lato sospiratissimo d'Italia qualche cosa a sagrificare alla nazionalità italiana?

Con tale paura, che dominare ci deve, in caso di disgrazia, confesso, che amerei trovarmi cittadino Francese, anzi che inglese: purché però non mi dicano, ch'io l'ho voluto.

Certa cosa è, che Napoleone III, il quale per sua indole parla poco, si è spiegato.

L'Italia deve essere sua propria padrona!

Se il grande Imperadore la felicità e la grandezza d'Italia vuole coscienziosamente: se grata ed alleata a se la vuole: se nell'alta missione, che si è imposta, egli ha prescritto, che al diritto delle nazioni non sia chi attenti: se perciò sacro è per lui un trono, che Garibaldi con la rivolta tenterebbe di rovesciare... —egli ora a noi pruovi col fatto la lealtà della sua parola.

Se padroni di loro furono i Ducati e le Legazioni: perché tal diritto sarà tolto a noi?

Il sublime mandato di affrancare i popoli dalla schiavitù e dalla tirannide ha Giuseppe Garibaldi dall'Italia ricevuto?— Ben venga, anche dalle grandi potenze sostenuto, ovunque la tirannide impera. Ma dove è spenta, a porre il suo piede gli manca il diritto. Imperocché in tal caso il sacro mandalo in altro si tramuterebbe, che accettato da quell'anima onorata e generosa non sarebbe.

E dove più la garentia dell'indipendenza dei popoli starebbe, se a Garibaldi d'invadere il nostro reame si permettesse: quando ciò che per lui in altro tempo un diritto stato sarebbe, ora non l'è certamente?

Invaderebbe il reame, perché la perfettibilità della libertà dell'Italia centrale non esiste in esso? E questo pensiero umanitario in legittima causa dello spoglio d'un trono chi potrebbe travolgere?

S'anco Garibaldi la potenza divina aver potesse, far non

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potrebbe, ciò che Dio stesso nella nascente e nelle future generazioni delle nostre popolazioni soltanto può eseguire. Non le bajonette di Garibaldi, ma la pazienza e la fatica di molli anni di solerte volontà a convertire sarà necessaria l'ignoranza e la ferocia, quasi vergine, di non poche contrade del nostro regno.

Si dirà, che parlandosi d'unità nazionale italiana, di Regno Italico, non potendo esservi, che un solo Sovrano, bisogna che quelli, che vi stanno se ne vadano e ne rimanga uno solo!

Napoleone III — a tanta bestemmia, che non avrebbe, che la scusa d'un progetto politico, che cosa risponderà la tua mente e la tua coscienza?

Napoleone I. ne ha detronizzati molti: ma la ha fallo con la guerra leale, con la conquista, spargendo il sangue della Francia.

Abbiamo, mi si permetta il dirlo, la certezza, che la politica del grande Imperadore non cangerà ciò che nel fatidico opuscolo Napoleone III e l'Italia egli delle due corone d'Italia proclamava; e vorrà, che all'arbitrio ed alla violenza abbandonati fossero i destini del nostro regno. Egli scrisse, vite, beaucoup, et bonne foi: e fu obbedito.

Quando Francesco II. con Vittorio Emmanuele avrà giurato un patto, che fermamente unisca l'Italia: e quando con tutti i mezzi, che nell'altezza della sua missione la Francia possiede, avrà di tali garentie questo patto circondato, si che immutabile diventi: l'unità d'Italia di dritto e di fatto sarà consolidata, e guai a chi attentare alla stessa sperasse ancora!

E se cordialmente innanzi agli occhi alcune parole ascritto a Palmerston, come importune scintille, non mi balenassero, più non avrei detto.

Questo grande uomo di Stato sul governo di Napoli dicesi aver pronunziato una funebre orazione.

«Quel che DEVE seguire, egli opina, NON È MISTERO:

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qualunque siano gli avvenimenti, l'Inghilterra è per stabilire la nazionalità Italiana. E qui l'eloquente ministro è di parere, che a Francesco II. si sarebbe rimasto il regno, se l'insurrezione di Sicilia avvenuta non fosse: ma che dopo la stessa aderire il Piemonte non potea ad un'alleanza con Napoli. Crede, che le concessioni fossero quivi giunte tardi: che ad accettarle non sia disposto il popolo, e che il Piemonte non può violentare la volontà del popolo!

Se tale opinione dai giornali inglesi a Palmerston attribuita una sentenza esser potesse definitiva, per la prima volta avrebbe la politica lo spoglio violento d'un trono sanzionato, con quello stesso diritto, che sfa nelle brevi parole, o la borsa o la vita; né più né meno.

Imperocché la voce del governo inglese, di ciò che veramente sin'oggi non è che una sua volizione, non fa un mistero. Sappiamo benissimo, che anche da esso provocati, gli avvenimenti qualunque non l'arresterebbero nel suo cammino. Le rivoluzioni sempre e poi sempre furono della vita finanziera di quel governo il principale termometro: ed ora che dalla politica di Napoleone III. è a sufficienza infrenata quella sua smania a sospirare le altrui rivolture, l'Inghilterra si trova al ribasso. E poiché un fantolino di paura per se stessa la domina, ad aizzare i popoli sollevati, sforzando anche gli avvenimenti, ben le torna doppiamente vantaggioso: ella ci guadagnerà, e la Francia non penserà a lei!

È forse dal gabinetto di S. James alla Francia consentita l'annessione di Nizza e della Savoja?

E per contrario tuttora riprovata acremente, se sono accusati il Re di Sardegna per avere con un'impolitica obbedienza la sua patria stessa all'Imperadore dei francesi venduta, e Garibaldi per non aver spezzata la spada nel vedere il suo paese natale, per cui anche ha il suo sangue versato, dall'Italia eternamente diviso.

All'inglese occupare da quel lato la Francia, anche

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sollevando la Svizzera, ora importa moltissimo.

E comprometterla per il Reame di Napoli e Sicilia importerebbe ancora più; avvegnacchè il fuoco delle intestine discordie divampando, chi sa che all'Italia novellamente non s'appicchi, ed aver agio a spiegar con noi, o con chi più giova, lo stesso protettorato che elargì alla Grecia? Una conferenza, pei giornali annunziata, tra l'Inghilterra Austria e Prussia la caduta del Ministero Palmerston Russel vaticina...All'erta Italia!!

Per il gabinetto di Londra è Enrico Maria Martin lo spettro, che col Napoleone III. e l'Italia all'Austria la sua caduta predisse. Perciò se in fatto di civiltà è tanto innanzi quel gabinetto; ora che l'Italia, per la gran mercé di Dio, vede a felice compimento i suoi destini quasi condotti, ben farebbe, se alla povera ed oppressata Irlanda le dottrine della rigenerazione applicasse.

Rispetto, venero ed ammiro il tessuto della gran macchina politica del gabinetto inglese; ma ai popoli grido di non prestarci un briciolo di fede e di credito.

La storia sta per tutti e non per noi soltanto.

Il popolo, dice il giornale inglese, il popolo napolitano ad accettare le ricevute concessioni non è disposto, e la sua volontà non può dal Piemonte violentarsi.

Il popolo! La gran parola magnetizzatrice della presente politica.

Povero popolo: in fondo quello che fosti, (in fatto di politica, badiamo bene ) sei tuttavia, col vantaggio di diventare, senza saperlo, francese inglese o cinese. Eppure ti diranno sul volto, che sei stato tu, che ami a fare il nomade!

Tanti zeri sulla carta politica, ed ecco il popolo da se; e diventeranno numero, se a capo chi lo muove e lo domina alcuni premettete, che a loro volta dal genio eminente d'un solo l'impulso potente ricevono.

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Questo genio, che storico eminentemente e grande renderà il secolo decimonono, é Napoleone III. ed egli è il popolo dovunque!

Sarei quasi curioso di ascoltare Palmerston, se dal giogo Inglese cominciasse a volere Irlanda sottrarsi — Che lasci fare un poco agl'Irlandesi, che ne hanno ragione, quello che vogliono... con l'aiuto di Garibaldi!

L'Inghilterra, che saggia è per comprendere il pericolo della maschera per lei ancora, griderebbe, che nei fatti degli altrui Stati non è lecito intervenire; che inattendibili e sacri siano il diritto delle genti, e le leggi ed i trattati per rispettarsi l'indipendenza reciproca degli Stati —e ne pregherebbe, (chi sa, che non preghi l'Italia! ) a lasciarla quietamente e nelle circostanze bombardare le insorte città d'Irlanda per ridurle al paterno suo regime.

Se cosi è: ne lasci essa una volta in buona pace coscienziosamente e seriamente conciliare i nostri gravi interessi politici in Italia!

Il popolo d'Italia ha voluto esser libero, e lo è — ma la nazionalità italiana costituita su d'un impolitico atto di aggressione e di spoglio al Trono di Francesco II. Re costituzionale in Italia.... non lo vuole il nostro popolo; non possono permetterlo le altre Potenze; imperocché sotto il fascino d'una questione di sfiducia, che potrebbe in un Sovrano essere politicamente costituita, all'inviolabilità dei troni si attenderebbe, e così facilmente il fatto individuale sul diritto della nazionalità assurdamente prevarrebbe.

Vittorio Emmanuele, prode e valoroso italiano, riceveresti tu dalla rivolta: ti assideresti tu felice su quel trono, da cui la rivolta, dalla tua mano provocata, proscriverebbe Francesco IL, nelle cui vene il generoso e pio sangue della TUA Real Casa di Savoia discorre?

Al tuo giovane e reale congiunto guida sublime,

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sostegno solenne, stendi la mano, o Vittorio Emmanuele: e l'unità politica d'Italia nella confederazione delle due corone sarà proclamala! Sarai cosi più grande, e salverai l'Italia!

Fratelli: in cosi difficili momenti un dello del sommo Gioberti ricordiamo; cioè che noi italiani per voler raggiungere l'ottimismo, non ci contentiamo del buono.

L'orgoglio e le gare cittadine alle catene del tedesco portarono l'Italia: e se all'indole d'un popolo l'omogeneità d'un governo è necessità suprema: cangiarne l'indole o sperare d'uniformatisi è un assurdo.

L'Italia ha due popoli, che nell'unità del principio politico fraternizzeranno lealmente, ed ovunque il loro sangue uniti spargeranno, nella reciproca fede saldi a sostenere quel principio: e tanto più questi due popoli, il nostro e quello dell'Italia centrale, si ameranno, quanto più a vicenda l'indipendenza nazionale ed il privato loro vivere civile rispetteranno.

Provvediamo piuttosto a talmente consolidarci, da sottrarci a qualunque dipendenza o influenza straniera, che ai suoi destini legare ne possa.

Noi altri italiani, tulio cuore, tutta lealtà nella buona ventura, accessibili alle passioni, corrivi allo sdegno, di chi ha saputo dominare la nostra mente fummo ognora preda facilissima: ed è pur vero, che un grande errore in politica fosse la gran buona fede.

In una parola: Italiani la VERA FEDE STA IN NOI?—Se cosi è, ogni altra quistione di facile momento diventa — e Dio e la buona causa sarà sempre per i popoli d'Italia!

Salute a te, primogenita del pensiero di Dio, libertà della mente, libertà della vita; sovrana animatrice della gloria dei popoli; ispiratrice e madre del genio italiano; sospiro cocente dei figli d'Italia.... salute a te, e per sempre!

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E tu, Italia, che la bellissima fronte coronala di torri alzi ora superba ed invitta: se nella lutta disperata e perenne contro la tirannide, temuta sempre, con le tue gloriose memorie e col sangue dei tuoi martiri la fede di riscattarti sostenesti: ora che sulle rovine del dispotismo vittoriosa ti assidi.... — gitta, novella Zorcbabeli, la pietra eterna del tuo Tempio di Sennar nel patto solenne dell'unità politica dei tuoi popoli — ed al gran convito delle nazioni tutte della terra venerata e temuta ti assiderai.

 





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