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LA
CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO DECIMOQUARTO

VOLUME II.
DELLA SERIE QUARTA

ROMA
COI TIPI DELLA CIVILTÀ' CATTOLICA
1862.


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IL PARLAMENTO INGLESE
E L'ITALIA

Un nuovo saggio di cinismo parlamentare avemmo nella tornata lei giorni 11 e 12 di Aprile della Camera dei Comuni in Inghilterra; il quale desterebbe alla meraviglia e parrebbe forse incredibile, se il Progresso moderno non ci avesse oggimai assuefatti a simiglianti spettacoli.

Alcuni Deputati, desiderosi di scagionare la nobile nazione inglese dalla nota d'infamia, che in ordine ai fatti d'Italia giustamente pesa sopra di quel governo, si fecero ad esporre e detestare con eloquenti parole le turpitudini, le atrocità, le ingiustizie, i soprusi d'ogni genere, onde la Rivoluzione infierisce e fa sentire il suo giogo sopra la infelice Penisola.



 Essi descrissero segnatamente l'orrido stato, in che versa l'Italia meridionale: i feroci bandi di non pochi Ira i capitani dell'esercito occupatore; le fucilazioni in massa di cittadini, senza processo; gl'incendii di alcune città e borgate; le carcerazioni arbitrarie di più migliaia di persone; la mancanza di libertà e sicurezza pubblica; le rapine, i furti, gli omicidii che si commettono a man salva; e tutto ciò confermarono non pur colle relazioni private, ma colle testimonianze dei pubblici fogli e degli organi stessi della Rivoluzione dominante.

Strie V, vol. II, fase. 292. 1 Maggio 1862

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Ricordarono altresì le angherie e le violenze, a cui son soggette altre contrade italiane, invase a mano armata contro lo stesso principio, ipocritamente messo innanzi, del non intervento; e soprattutto esecrarono l'iniqua pretensione di spogliare il Papa della sua sovranità temporale, con inaudita violazione non pur dei più sacri diritti della giustizia, ma di quelli eziandio dell'intera Chiesa cattolica.

Come era naturale in un Parlamento, quasi tutto composto di protestanti, e devoto a un Ministero, il cui capo si dice essere gran Maestro di tutta la setta massonica: queste nobili proteste di animi bennati incontrarono aspre contraddizioni dalla parte di coloro, che non potevano lasciare indifesa una causa, tanto loro gradita. Sorse da prima il sig. Layard; il quale, da buon segretario di Lord Palmerston, rispose beffandosi delle convinzioni degli oratori cattolici; chiamò calunnie i fatti più accertati dell'epoca; magnificò tutte le opere della rivoluzione italiana; scagliò parole di alto vitupero sopra quei generosi che nel regno delle Due Sicilie difendono a prezzo del proprio sangue la patria indipendenza; e finalmente, per colmare il ridicolo di quella sua tiritera, affermò in tuono serio e grave che i Napoletani intanto sono scontenti e reagiscono colle armi, in quanto non veggono ancora adempito, ciò che essi credettero da principio, di dover far parte di un gran regno con Roma per capitale. Sicché, a senno dell'arguto opinante, dovremmo dire che i reazionarii nelle Due Sicilie combattono i Piemontesi per indurli ad occupar finalmente Roma, qual capitale del nuovo regno; i magistrati vengono destituiti e i cittadini imprigionali, perché nutriscono questo medesimo desiderio; i giornali conservatori vengono soppressi e le loro stamperie devastale, perché esprimono collo scritto la stessa idea; e questa altresì essere la ragione, por cui vennero dati alle fiamme Pontelandolfo e Casalduni, con altri paeselli e villaggi. Teste di questo conia non sono veramente degne di reggere i destini del mondo? Ma del discorso del Layard fece la meritata giustizia il Deputato Maguire con due sole parole, dicendo: «che esso contristerebbe quanti hanno a cuore l'onore della Gran Brettagna». Non accade dunque occuparcene di vantaggio.

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Seguirono altri discorsi, più o meno sullo stesso metro; ma, non  potendo dire di tutti in un breve articolo, ci restringeremo a due soli, a quelli cioè del sig. Gladstone e del sig. Palmerston, per essere ambidue costoro membri del Ministero inglese.

Il sig. Gladstone accetta l'imputazione data al Governo in ordine al concorso prestato alla rivoluzione italiana. «Un altro oratore, egli dice, ci accusò di essere stati gli autori della rivoluzione italiana. Fino a un certo segno, questo è vero. L'appoggio morale è ai nostri tempi una gran cosa». Lasciamo qui alla coscienza dignitosa e netta del sig. Gladstone il definire se sia onesto l'appoggiar anche sol moralmente la rivolta contra legittimi principi; e se sia conforme alle leggi dell'onore il far ciò a rispetto di Sovrani, presso cui in segno d'amicizia si tengono Ministri accreditati 1. Tuttavia, se l'egregio Cancelliere avesse più felice memoria, e ricordasse quanto occorse al Garibaldi dal suo libero viaggio a Marsala fino alla sua discesa in Calabria; potrebbe trovare qualche ragione di più, che non il semplice appoggio morale, al glorioso titolo, di cui si solluchera.

Il sig. Palmerston, come volpe più vecchia, vide lo sconcio di quella confessione del suo Collega; e si studiò d'attenuarne la portata dicendo: «Io ringrazio un'altra volta l'onorevole baronetto (cioè il deputato Bowver) a nome del Governo per averci addossata tanta parte di responsabilità nella emancipazione d'Italia. Noi non abbiamo fatto altro, senonchè osservare una stretta neutralità; ma questa non c'impedì dal manifestare la nostra simpatia e la nostra approvazione. Le accuse dell'onorevole baronetto non ci rammaricano, solo ci rincresce di non averle meritate.» Qui ci ha molta incoerenza e poca moralità. La taccia, data dal Bowver al Governo, era d'aver promossa la rivoluzione italiana contra i legittimi principi, coi quali la Gran Brettagna manteneva relazioni diplomatiche.

1. dispacci del sig. Elliot, ambasciatore in Napoli, che sembravano scritti piuttosto in un covo di cospiratori che non nel gabinetto di un diplomatico, e che tosto si divulgarono colla stampa dal Governo inglese, erano attissimi ad eccitare ed animare la ribellione; né si sapeva comprendere il mistero di un tal fatto, non certo il più usuale né il più onorevole nelle relazioni internazionali di Potenze amiche. Ma ora il sig. Gladstone ci da la chiave per deciferare il mistero: era uno degli appoggi morali che doveasi prestare alla rivoluzione, per meritare, almeno fino a un certo segno, il titolo di autori della medesima.

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Il Palmerston risponde che il Governo si crede onorato di questa taccia, e sol gli rincresce di non averla ben meritala. Dunque a pari del suo Collega egli crede onesto e decoroso il concorrere a ribellare i popoli da principi legittimi ed amici. Di più, afferma che il Governo in tale faccenda osservò una stretta neutralità. Ciò in prima smentisce il Collega; il quale poc'anzi avea confessalo che, fino a un certo segno, era vero di essere essi stati autori della rivoluzione italiana. Ora chi serba stretta neutralità intorno ad un fallo, non può dirsi in nessun modo autore del medesimo. In altra guisa dovremmo dire, che anche il Gran Turco e il Viceré d'Egitto furono fino a un certo segno autori della rivoluzione italiana, perché ancor essi serbarono una stretta neutralità. Vero è che l'accorto Ministro soggiunge subilo che questa non impedì che verso della rivoluzione italiana essi mostrassero simpatia ed approvazione. Dunque la neutralità non fu poi tanto stretta; giacché la simpatia e l'approvazione, massimamente d'una Potenza di prim'ordine, costituisce senza dubbio un appoggio morale; e l'appoggio morale, come ci accertava il signor Gladstone, è ai nostri giorni una gran cosa. Che razza dunque di neutralità è cotesta, in cui si dà ad una delle parti in litigio ciò che ai nostri giorni è una gran cosa! Del resto torna anche qui pel signor Palmerston l'osservazione, fatta più sopra, cioè che se ricercasse meglio la sua memoria, troverebbe qualche cosa di più che non la semplice simpatia ed approvazione a conforto dei tentativi rivoluzionarii in qualche parte almeno della Penisola.

Né solo l'imputazione di autori (pel solo appoggio morale s'intende), ma ancora la responsabilità pei fatti, che la rivoluzione sta operando in Italia, viene accettata dai due onorevoli Oratori. Il sig. Palmerston assicura «essere evidente che l'Italia ebbe gran benefizi dagli ultimi rivolgimenti.» Più esplicito è il sig. Gladstone. «In quanto alla responsabilità del Governo della regina, egli dice, dichiara che per quanto io possa avervi parte, vorrei vederla aumentata piuttosto che diminuita in questo argomento. Ammetto che essendo animato da tali sentimenti, si possa dire che ho un motivo di sostenere che le cose d'Italia vanno bene.» Le cose d'Italia vanno bene!

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Ma quale è, sig. Cancelliere, il fondamento, sopra cui appoggiate questa singolare asserzione? Voi altra volta, per iscreditare il Governo borbonico di Napoli, vi deste la pena di recarvi in quel regno, di visitare le carceri della capitale, e poi ne faceste una nerissima dipintura in un vostro scritto. Egli è vero che quelle tinte fecero increscere bellamente di voi a quanti avevano esperienza personale del fatto, e una vittoriosa risposta smentì come manifestamente calunniose le vostre imputazioni. Tuttavia l'incomodo presovi del viaggio e della visita mostrò che volevate pigliare la cosa sul serio. Ma ora vi siete data almeno la cura di prendere qualche informazione dei fatti, sopra cui ve la passate sì leggermente? Tutto il contesto prova che no. Voi irridete le relazioni dei Deputati conservatori inglesi; ma non irriderete per fermo i Deputati torinesi, i quali benché annessionisti, benché rivoluzionarli, e però impegnati a sostenere il presente stato delle cose, pure non ebbero l'animo di nascondere del tutto la verità. Ora avete voi posto l'animo a leggere almeno ciò che questi testificarono in pubblico Parlamento, non ostante le grida di quelli che volevano soffocarne le voci per non far propalare tanto vituperio? Per citarne qualcuno, il deputalo Brofferio tra le altre cose disse così: «Il Governo non s'accorge che la sua polizia è composta d'uomini, i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi truffatori. Sì, Signori, coi ladri e coi truffatori; i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l'impunità dividendo colla polizia l'infame bottino 1.» Che rispondete a questo, sig. Cancelliere? — Le cose d'Italia vanno bene. — 11 medesimo Brofferio soggiunge che dappertutto i ladroneggi e gli omicidii inondano e i tribunali mancano al loro dovere; che nelle università non si veggono che decreti da caricarne cento camelli, e sommosse di studenti da Torino a Palermo; che quanto alle finanze havvi tal piaga, che non potrebbe svelarsi senza troppa vergogna 2. Che rispondete a ciò, sig. Cancelliere? — Le cose d'Italia vanno bene. — Il deputalo Crispi descrisse lungamente le miserevoli condizioni della Sicilia.

1 Vedi Atti ufficiali n. 340.

2 Luogo citato.

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Ne citeremo questo sol pezzo: «Credete, o Signori, che la Sicilia si eseguano lo Statuto, le leggi nuove e gli stessi Codici del cessato governo? Niente affatto». Viene poi a una minuta narrazione di cose, di cui egli stesso è stato testimonio oculare, riportando i nomi delle persone e dei paesi e le date del tempo, raccontando soprusi orribili contro la vita e la proprietà de' cittadini: e conchiode: «Non so se conoscete la celebre lettera del Prefetto di Catania sig. Tolosano al Commendatore Miglietti, che tutti i giornalisti han pubblicala. In questa lettera si accusava lo stato infelicissimo di quella provincia, nella quale peraltro si commettono mono reali che in tutte le altre della Sicilia. Ebbene il Tolosano accusa d'insipienza e di poca moralità gì' impiegati di sicurezza pubblica e la magistratura; ed aggiunge che i testimonii non osano deporre per paura dei facinorosi.» Quanto alle parti del regno di qua dal Faro, «insultate se non altro la celebre mozione del Duca Proto, messa a stampa e nota in tutta Europa l. E acciocché non si creda che a tali enormezze siasi messo qualche rimedio, ecco quello che scrive in questi medesimi giorni il Deputato Ricciardi al nuovo Ministro Rattazzi: «Le dirò innanzi tratto, le cose esser venute a tale in quella parie l'Italia, che i più non hanno gran fede nella durata del nuovo Governo, il quale, non temerò di affermarlo, è oggetto quivi di generale disamore. V'aggiungo, la giustizia e la legge essere nomi vani, la magistratura non facendo il proprio dovere che imperfettissimamente, e la vita dei cittadini essendo, nei luoghi tutti infestati dal brigantaggio, in balla dell'autorità militare, i cui soprusi sono tali da fare rabbrividire. Migliaia di persone, da un anno a questa parte, furono passate per le armi, senza giudizio di sorta alcuna, e per comando di un semplice capitano o luogotenente, sicché non pochi innocenti miseramente perirono! Orribili esempii potrei citarle a tale proposito ricordando le date, i nomi ed i luoghi ecc. ecc. 2

1 Delle testimonianze dei Deputati di Napoli e di Sicilia si è potuto formare un giusto volume, dato alle stampe col titolo: Le condizioni del regno delle Due Sicilie considerale nel Parlamento di Torino dai Deputali delle province meridionali.

2 Questa lettera è stata pubblicata nel diario: La nuora Europa.

 

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Che rispondete, sig. Cancelliere, a testimonianze sì irrepudiabili? — Le cose d'Italia vanno bene. — E questa risposta voi date in un Parlamento, in cui altra volta, trattandosi del Governo dei Borboni, si faceva il finimondo, se un liberale veniva incarcerato per poche ore dalla Polizia! Dopo il fedele racconto d'italiani, di Deputati, di testimoni, di veduto, oserete persistere ad accusare il sig. Bowyer di paradosso e di credulità intorno ai fatti della Penisola, e a mettere in canzone le cifre dei fucilati, recate dal sig. Hennessy? Non istaremo poi a richiamare la vostra attenzione sopra l'immoralità, a cui si è abbandonata del tutto le briglia sul collo; sopra le condanne e gl'imprigionamenti di parrochi, di Vicarii Generali e perfino di Vescovi, non per altra colpa che di aver fatto il loro boere nell'esercizio dell'autorità spirituale; sopra l'usurpazione ilei beni ecclesiastici; sopra la soppressione violenta degli Ordini regolari e lo scacciamento dai loro conventi di tante migliaia di religiosi; sopra la sozzissima crudeltà, usata massimamente colle Vergini a Dio sacre, alle quali, dopo rapiti i redditi formati colle proprie doti, non si somministra neppure il necessario per solamente assicurarle dal perire di lame. Sicché le misere sono costretto ad invocare la pietà de' fedeli per avere un tozzo da alimentare la vita 1. Queste e simili nefandità noi non istaremo a ricordarvi; voi più che mai ci ripetereste: — Le cose d'Italia vanno bene. — Ma basti di questo argomento: tocchiamo un poco delle cose, che dissero i due Onorevoli intorno a Roma.

I. Il sig. Gladstone afferma che se il Pontefice pensasse domani ad istituire una guardia nazionale, ne seguirebbe tosto un conflitto col presidio francese, e il Pontefice sarebbe costretto ad abbandonare Roma. Qui il buon Cancelliere si mostra niente meglio inteso dello cose di Roma di quello che erasi innanzi mostrato delle cose d'Italia in generale.

1 Cavano dagli occhi le lagrime le lamentevoli lettere delle Superiori di queste spose del Signore, pubblicate dall'Osservatore romano; dalle quali si ricava che Comunità di 30 e 40 persone sono abbandonate dal Governo, rapitore dei loro beni, senza un obolo e senza dar loro neppure quel tenue assegnamento ebe erasi loro promesso. Onde quelle sante Vergini, risolute a non abbandonare per qualunque sciagura i loro chiostri, vi morrebbero di pura inedia, se l'implorato soccorso delle anime pie non accorresse a sovvenirle di qualche limosina.

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Se egli non bada al vocabolo ma alla cosa, la guardia nazionale in Roma ci è, benché sotto il nome di guardia palatina. Essa è composta di giovani volontarii della classe agiata tra i cittadini; e per ora non se ne vollero che due soli battaglioni, perché la sicurezza della città è presentemente affidata alla truppa francese. Lungi poi dal venire con questa a conflitto per l'aiuto che ne riceve il Papa, di spontaneo moto si è offerta a concorrere ogni dì al corteggio del palazzo pontificio; e con indirizzi e con offerte ha espresso i suoi sensi di fedeltà al Pontefice Sovrano. Più, nell'invasione piemontese del 60 essa chiese ed ottenne di associarsi alla truppa di Linea per la ripresa di Pontecorvoe per la tutela del confine verso Napoli, d' onde i garibaldini minacciavano un' invasione. Lo zelo poi di questa guardia pel servizio del Pontefice, è sì accetto al popolo romano che ella non può mai mostrarsi in pubblico in solenne parata, senza ricevere festive acclamazioni, e vedersi circondata da numerosa folla accorsa a compiacersene. Ma forse l'egregio Oratore intende per guardia nazionale non una milizia di onesti cittadini che difenda principe e popolo, ma una milizia di sfaccendati o sellarli, che sostenga la ribellione d'una parte del popolo contra del principe. In tal senso concediamo non esserci in Roma guardia nazionale; ma ciò sarà una sventura per le aspirazioni del buon Diplomatico, non già pel popolo romano.

II. Il sig. Gladstone afferma che «il Papa è responsabile delle reazioni del regno di Napoli;» e lo stesso in altri termini asserisce il Palmerston, dicendo «che i reazionarii partono da Roma colla benedizione del Capo della Chiesa cattolica.»

Cotesti messeri non s'avveggono che l'odio verso il romano Pontefice li accieca per guisa, che li rende ridicoli presso chiunque ha un fiorellino di senno. I reazionarii non sono in quella sola parte del regno, che confina colla piccola frontiera dello Stato Pontificio (ivi anzi son poca cosa); ma sono in tutte le province e specialmente le più limole: Calabria, Puglia, Terra d'Otranto, Basilicata ecc. Come dunque fanno ossi a passare impunemente da un capo all'altro del regno, sotto gli occhi dell'esercito invasore?

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Più, quella stessa piccola frontiera è vigilata dalle truppe francesi; le quali hanno inoltre guarnigione in Roma col comando della piazza e polizia propria. Come dunque sotto tale custodia possono i reazionari! riunirsi, organizzarsi, fornirsi d'armi, di munizioni, ed evadere liberamente il confine? Han forse connivente lo stesso Governo francese? In terzo luogo, i reazionari non sono alcune diecine ma più migliaia; sicché possono sostenere scontri sanguinosi con truppe regolari riportandone soventi volte vantaggio, e benché decimali del continuo da fucilazioni e combattimenti crescono ognidì in maggior numero. Come dunque possono spedirsi da Roma, senza supporre esserci in Roma qualche piantinaio di Napoletani, dove questi pullulino come sterpi? coteste babbuaggini non possono fiorire in tesla se non di persone, nelle quali l'odio alla Chiesa cattolica fa vacillare perfino il senso comune. Ma quello che è più singolare si è che Ministri di una grande Corona non si peritano di scagliare in pubblico contro il più venerando Principe del mondo, qual certamente è il romano Pontefice, una sì grave accusa, senza avere alcun documento ufficiale per comprovarla. Singolarissimo poi si è che ciò essi facciano nel tempo stesso, che ricusano di accettar come vero il feroce bando del colonnello Fantoni, sotto il pretesto di non avere intorno ad esso documenti ufficiali. Vedete fiore di onestà diplomatica! Quel bando, degno più di un carnefice che di un soldato, era accertalo dalla pubblica fama, era riportato a verbo dagli stessi fogli liberali, senza che nessuno osasse smentirlo; e nondimeno il delicatissimo sig. Palmerston, interpellalo sopra di esso risponde che non può accettarne la discussione per mancanza di documenti officiali. Per contrario, si accusa vagamente, non un miserabile colonnello, ma il Capo augusto di tutta la Cristianità, di fomentare una guerra civile. L'accusa viene da chi è interessato a farla credere, non si ha di un tal fatto alcun' autentica prova, si ha anzi in contrario la guarentigia dell'esercito francese; ed il medesimo delicatissimo Palmerston col suo non men delicato collega non dubita di ammettere l'accusa come vera, ed insultare villanamente l'augusto accusato!

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III. Non meno meravigliose sono le seguenti asserzioni. Ecco quelle del Gladstone: «Il sig. Bowver parla dell'affetto dei romani pel Pontefice, come se a Roma quei 20, 000 francesi ci fosser per niente. Una volta egli parlava della devozione al Pontefice delle popolazioni d'altre province; ma avvenne che un bel giorno gli austriaci si ritirarono, e 24 ore dopo il Governo pontificio era caduto, lo favore del dominio del Papa stanno soltanto quelli, che da quel sistema ritraggono i loro guadagni.» Il sig. Palmerston poi aggiunge : «Si disse essere necessario che il Papa sia sovrano indipendente. Ma dove può trovarsi minore indipendenza di quella di un sovrano, che ha bisogno di ventimila stranieri per difenderlo contro i suoi sudditi?»

Gli strafalcioni qui riboccano d'ogni parte. Cominciamo dall'ultimo. F ventimila francesi non istanno in Roma per difendere il Parvi contro i suoi sudditi; ma per difenderlo dall'aggressione delle armi piemontesi, che assiepano d'ogni parte le frontiere a poche miglia da Roma ed anelano d'invadere questa capitale. Quanto ai sudditi del Pontefice, essi non sanno oggimai più che cosa fare, per testimoniare in faccia al mondo e far capire, se è possibile, anche ai Gladstone ed ai Palmerston, la loro devozione al proprio Sovrano.

1 L' apatia del sig. Palmerston forse ci darà biasimo di acerbezza nei modi. Imperocché rimproverando il medesimo ai Deputati cattolici, porta l'autorità di un selvaggio di America, il quale vedendo che di due contendenti l'uno mostravasi tranquillo e l'altro sdegnato, definì, senza intendere altro, che il primo avesse ragione, e torto il secondo. Noi in contrario abbiamo l'autorità di Dante, il quale avendo detto acerbamente contro un empio orgoglioso, che stava nell'inferno: con piangere e con tutto, spirito maledetto, ti rimani; rappresenta che Virgilio, in cui simboleggia la verace filosofia, usci in atti e in parole di alla approvazione:

Lo collo poi colle braccia mi cinse,

Baciommi 'l volto e disse: alma sdegnosa,

Benedetta colei che 'n te s'incinse. (Inf. c.VIII.)

Noi non sappiamo se presso il sig. Palmerston l'autorità di Dante abbia più peso che quella del selvaggio dì America. Ma ad ogni modo, noi non iscriviamo per lui, bensì pe' nostri lettori.

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Non debbono certamente essere ignote ai due soprallodati Ministri le solenni acclamazioni che il Pontefice Re riceve dal suo popolo, ogniqualvolta si mostra in pubblico. La lealtà alme» diplomatica non avrebbe richiesto che essi ne tenessero conto o almeno che se ne mostrassero intesi nelle loro parlamentari discussioni? Si facciano riferire dai loro agenti, che certamente non debbono mancare in Roma, quel che avvenne in questa città il giorno 12 Aprile e il dì solenne di Pasqua. Nel primo, anniversario del ristabilimento del Papa nell'intero possesso dei suoi stati, dopo la catastrofe del 48, e della sua preservazione da un periglioso incidente, essendosi esso Papa recato in S. Agnese fuor delle mura, ben si può dire che tutta Roma gli tenne dietro per acclamarlo. I soli cocchi furono in numero cosi sterminato, che la lunga via di più miglia n'era tutta ingombra, e difficultava di mollo il passo all'immensa moltitudine, che con bandiere ili entusiastiche grida manifestava l'interna gioia di avere a Re il Capo della Chiesa cattolica. La sera poi tutta la città si vide illuminala, con trasparenti e iscrizioni die esprimevano i voli del popolo; e le poche case d'alcuni liberali, rimase oscure, servirono a far palese la piena libertà che regnava in quell'alto; tutto al contrario delle violentale dimostrazioni dei liberali, nelle città soggette alla loro tirannide.

Ma più solenne e magnifico fu l'avvenuto il giorno di Pasqua. Nella sconfinata piazza, che si apre dinanzi al Vaticano, era convenuta più del solito la maggiore e più eletta parte della popolazione romana. Comparso sulla soprastante loggia il Pontefice ed impartita, giusta il costume, l'apostolica benedizione; tutt'ad un (ratto si vide quella sterminata moltitudine agitar d'ogni parte candidi fazzoletti, e prorompere in un gioioso ed universal grido di Viva il Papa-Re. Lo  spettacolo fu sì commovente, che strappò lagrime di contentezza alla più parte dei forestieri cattolici, che vi si trovavano presenti. Questo fatto avvenne al sospetto di gran parie della truppa francese, ivi schierata; al cospetto dei diplomatici delle corti, che vi assistevano; al cospetto di moltissimi stranieri d'ogni nazione, tra i quali non pochi inglesi; da cui almeno potrebbero pigliarne contezza i due egregii Ministri del Governo britannico.

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Questa solenne ed universale dimostrazione, avverala col fallo dal popolo romano, in favore della sovranità del Pontefice, dovrebbe certamente sull'animo leale dei Palmerston e dei Gladstone valere qualche cosa di più, che a futuribile dimostrazione, vaticinata, sub conditione non avvenuta, dal sig. Layard, quando disse che in un giorno del passato carnevale la truppa francese dovette occupare le strade principali della città per impedire che la polizia romana facesse strage dei cittadini. Risum teneatis, amici?

Il sig. Gladstone obbietta, ciò a cui è stato risposto cento volte, la defezione cioè delle Romagne dopo la improvvisa partenza degli austriaci. Per altro non ricorda che le Marche e l'Umbria, non ostante le mene, il denaro ed ogni altro sforzo del Piemonte, non poterono indursi a ribellare, e fu necessario invaderle a tradimento colla viva forza dei battaglioni e dei cannoni. Almen queste province, giusta il suo modo di argomentare, mostrarono d'esser contente della sovranità del Pontefice. Perché dunque ne tace? Ma per tornare alle Romagne. qual meraviglia che un paese, da cui si sottrae repentinamente e all'impensata la tutela armata delle milizie, cada tra le unghie di cospiratori, che già stanno in agguato per impadronirsene, e contro i quali nella inopinata congiuntura non si trova nulla di organizzato1. Il sig. Gladstone, che crede potersi da ciò pigliare argomento di malcontento nel popolo, perché non consiglia al Piemonte di ritirare anch'esso all'impensata le numerose truppe regolari ed irregolari, che tiene a guardia delle usurpate province? Soprattutto perché non le consiglia a ritirarle dal regno di Napoli; il quale, essendosi, come tutti sanno, spontaneamente annesso, non dovrebbe aver bisogno di sessantamila baionette, oltre ai corpi di avventurieri, per mantenersi nella tanto ambita annessione? Perché dunque il Piemonte, invece di richiamare di colà i suoi battaglioni, ve ne spedisce sempre dei nuovi? Sarà forse per combattere i reazionarii? Ma questi ci fa sapere’ il sig. Palmerston, che non sono se non emissarii, rifiuto della società, spediti ad assassinare ed incendiare. Or contra costoro non ci è bisogno d'un esercito sì poderoso, ma bastano le milizie urbane; essendo interesse d'ogni città il tenersene affrancala.

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Consigli dunque al Piemonte di ritirare le sue milizie, e poi riferisca al Parlamento quel che sarà accaduto in men di un giorno.

Finalmente, quanto alla proposizione che in favore del dominio del Papa stanno solamente quelli che da quel sistema ritraggono i loro guadagni, vorremmo sapere dall'illustre uomo di stato se in favore del dominio della Gran Brettagna stieno anche quelli, che da esso non ritraggono alcun guadagno? Ciò, se per guadagno intende qualsiasi vantaggio. Dove poi per guadagno intendesse, come pare che intenda, lucro; in tal caso vorremmo da lui sapere quali lucri ricavino da quel sistema tutti i Vescovi della Cristianità, quali i Cleri, quali i popoli, che solennemente con encicliche, con lettere, con indirizzi si dichiararono in favore del medesimo? E senza ciò, ignora forse il valentuomo che il Governo temporale del Papa, dopo l'iniquo assassinio di quasi tutti i suoi stati consummato dal Piemonte, si sostiene in grandissima parie colle spontanee oblazioni dei fedeli, in capo dei quali sta il popolo romano? Il danaro di S. Pietro, dimostrazione sì patente del mondo cattolico, e segnatamente d'Italia e di Roma, non è una solenne mentila che riceve il nostro politico? Un Ministro della Gran Brettagna, il quale deve certamente intendersi di mercatura, dee senza dubbio sapere che non può cavarsi gran lucro da un sistema, per sostenere il quale convien anzi dare del proprio.

IV. Ma la parte più comica di questa commedia si è il mostrarsi che fanno cotesti Signori così zelanti per l'unità d'Italia, sul principio che ha ogni nazione di darsi l'assetto che più le aggrada. Il che essi affermano il giorno appresso della ricezione da Corfù del seguente telegramma: «L'assemblea avendo risposto al discorso di Lord Commissario con un indirizzo, nel quale domanda istantemente l'unione delle isole Ionie con la Grecia, Lord Commissario ha ricordato al Parlamento che non gli appartiene punto di discutere questa quistione, avendo l'Inghilterra assunto col protettorato il diritto e i doveri che ne derivano.» È ormai la quarta o la quinta volta che il Parlamento ionico, legittimamente assembrato, esprime in nome del popolo il fervido voto di annettersi al regno ellenico, essendo ancor essi di nazione greca. Or che fa il Governo inglese?

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Fa orecchi da mercante; ovvero risponde che essendosi una volta esso Governo compiaciuto di assumere il Protettorato di quelle isole, né popolo né parlamento ha più diritto neppur di discutere la propria nazionalità. ma dee obtorto collo godersi in pace l'odiata dominazione. E «e quella buona gente non si persuade e si ostina a pretendere l'annessione, ne vedremo delle belle; vedremo senza dubbio un governo, si tenero del diritto di nazionalità, condannare all'esilio, alle galere, e forse peggio, chi non è reo di altro che di volersi costituire in nazione! Ciò per altro non impedisce che, se nelle Camere inglesi torna il discorso sopra le cose d'Italia, il Palmerston, il Gladstone e consorti mostrino lo stesso zelo pel principio del non-intervento della nazionalità. Ecco la logica pratica di cotesti signori! Come si chiamerebbe ella? ciarlatanismo politico, beffe del buon senso, o ripudio d'ogni decoro?

V. Il sig. Palmerston conchiude il suo discorso appellando al giudizio della storia. «Giudichi tra noi la posterità.» Egli fa bene; perché il giudizio de' contemporanei, attesa la perversione dei principii più evidenti della giustizia, che si fa ora da molti, non potrebbe ricevere quella universalità di suffragio, onde le grandi iniquità sogliono essere sfolgorate. Ma i tardi nepoti, liberi da quelle passioni, che presentemente agitano gli animi, e non avendo alcuno interesse a scusare o difendere i fatti odierni, potranno senza contrasto recare sopra di essi una imparziale sentenza. Senonchè oltre al giudizio delle posterità, crederemmo opportuno che il sig. Palmerston volgesse la mente anche al giudizio di Dio; del quale la sua decrepitezza dovrebbe oggimai ingerirgli un pensiero. Noi non sappiamo, se le leggi massoniche permettono ai supremi capi di quella società di credere più alle divine Scritture. Ma supponendo che sì, preghiamo l'egregio uomo di Stato a voler leggere il capo sesto della Sapienza, là dove si parla ai potenti della terra. Egli vi troverà parole, che forse fanno ottimamente al caso suo. Ecco ciò che ivi sta scritto: «Porgete 'le orecchie, o voi che avete il governo dei popoli e vi gloriate d'aver soggette le moltitudini: la potestà è stata data a voi dal Signore e la dominazione dall'Altissimo, il quale disaminerà le opere vostre e sarà scrutatore dei vostri pensieri.

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Praebete aures, vos qui continetis multitudines et placetis vobis in turbis nationum: quoniam data est a Domino potestas vobis et virtus ab Altissimo, qui interrogabit opera vestra et cogitationes scrutabitur. Perché, essendo voi ministri del suo Regno, non avete giudicato con rettitudine, e non avete osservata la legge di giustizia, e non avete camminato secondo la volontà di Dio. Quoniam, cum essetis ministri. Regni illius, non recto iudicastis nec custodisti! legem iustitiae, neque secundum voluntatem. Dei ambulastis. Or dunque, con orrore e presto, vi avvedrete come giudizio rigorosissimo si farà di quei che sovrastano. Imperocché coi piccoli si userà misericordia; ma i grandi soffriranno grandi tormenti. Horrende et cito apparebit vobis quoniam iudicium durissimum his, qui praesunt, pel. Exiguo enim conceditur misericordia; potentes autem potenter tormenta patientur. Perocché Iddio non darà esenzione a chicchessia, come dominatore che egli è di tutti gli uomini, e non avrà riguardo alla grandezza di alcuno; perché Egli è che fece il piccolo ed il grande, ed ha egual cura di tutti. Ma ai maggiori, maggior supplizio sovrasta. Non enim subtrahet personam cuiusquam Deus nec verebitur magnitudinem cuiusquam; quoniam pusillum et magnum ipse fedi, et aequaliter cura est illi de omnibus. Fortioribus autem fortior instat cruciatio 1.

1. Sapientiae, C. VI v 3-9









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