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Leggere le parole di Giuseppe Ferrari, pronunciate alla vigilia del plebiscito che si tenne il 21 ottobre 1860,  non può non riportare alla mente le scelte di quei meridionali che foraggiati dal Cavour con incarichi e prebende svendettero il loro paese in nome di una unità che ci ha perduti.

Le sue parole su Napoli:

Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti più splendidi che nelle prime capitali dell'Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nell'agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le mine di Pompei sembra l'eterna regina della natura e delle nazioni. Or bene, s'io avessi l'onore d'essere nato nella patria di Vico, e se l'alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci.

Declassata da capitale a provincia del reame, la nostra Capitale non si è mai più ripresa divenendo una città da terzo mondo, i guasti del problema immondizia stanno lì a ricordarcelo, semmai ve ne fosse bisogno.

Zenone di Elea -15 Maggio 2009

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DISCORSI
DI
GIUSEPPE FERRARI
SULL'
ANNESSIONE DELLE DUE SICILIE
PRONUNZIATI
AL PARLAMENTO ITALIANO
nelle tornate dell'8 e dell'11 ottobre 1860





TORINO 1860
TIPOGRAFIA EREDI MOTTA
palazzo Carignano

Onorevoli signori,

Le due estreme parti dell'Italia sono egualmente festose. Or ora avete intesi applausi in questo recinto per le vittorie riportate contro it pontefice romano; se vi trasportaste colla vostra immaginazione a Napoli, intendereste altri applausi per altri capi egualmente vittoriosi contro il re di Gaeta. Le due metà dell'Italia, separate da secoli dalla zona pontificia che intercettava tutte le comunicazioni e che ci involava il magico spettacolo delle Due Sicilie, hanno oramai stabilita una corrente elettrica di idee, la qual corrente sarà ben tosto sussidiata e fortificata dal commercio, dall'industria, da ogni specie di scambio civile e morale, per cui le forze dell'Italia alla fine congiunte saranno moltiplicate. Che la concordia, che la pace, che questi nomi sì spesso vani sulla terra ci assistano! che almeno ci concedano le felici apparenze dell'unione! Noi siamo in uno dei più solenni momenti della nostra nazione; ancora un passo, ancora un atto, e l'Italia sarà « compiuta nella sua redenzione.

Una riflessione mi rincuora nell'atto di prendere la parola contro lo schema di legge. Questo riflesso si è che siete tutti concordi. (Bisbiglio)

lo posso asserirlo, io che sono in parte estraneo al sistema


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che regge l'alta Italia e a quello che regna sulle Due Sicilie. Io partecipo egualmente alla gioia delle due vittorie, all'ebbrezza dei due trionfi; io sono e voglio essere egualmente cittadino e a Napoli e a Torino; ma infine esiste una leggerissima linea di separazione tra i miei concetti e quelli degli attuali Governi, e questa linea rende ancora più imparziale il mio giudizio, ancora più affermativa la mia testimonianza sulla pace che deve unire l'alta colla bassa Italia. Infatti i principii che animano il Governo di Torino non sono forse i principii che Garibaldi et le sue schiere hanno rapportato a Napoli? Garibaldi non ha forse proclamato Vittorio Emanuele nelle Due Sicilie? Non ha forse inalberato il vessillo tricolore che sventola colla croce di Savoia nelle città del mezzodì? Nelle due estreme metà dell'Italia non si predica forse egualmente la monarchia unitaria? Non si propugnano forse nello stesso tempo le annessioni? Non si rispetta forse nel mezzodì la religione come a Modena, a Bologna, a Faenza, dove si proscrivono i vescovi poco affezionati al regno italiano? Qual dogma, qual legge sociale vien messa in dubbio nel mezzodì? Nessuna al certo, e nello stesso tempo nessun uomo borbonico o pontificio potrebbe ivi dirsi al certo protetto dal nuovo Governo. Insomma gli uomini che redimono la bassa Italia partirono da questo recinto; voi li avete moralmente sostenuti almeno con continui applausi, almeno coi desiderii sinceri, e indubitamente nessuno tra noi si vanterà di avere fatto voli per la loro caduta, per la loro sconfitta.

Havvi di più: la momentanea separazione de' due Governi raddoppia, per così dire, l'unanimità del loro patriottismo. Ognuno di essi trae dall'altro una metà della propria forza.

Quale principio facilitò l'impresa di Garibaldi nella bassa Italia? Il Governo stesso l'ha detto: Garibaldi s'avanzava a nome di Vittorio Emanuele; l'esempio dell'alta Italia gli a-priva la via; la promessa della libertà dello Statuto gli affezionava i popoli, e le moltitudini della bassa Italia lo seguivano, perché quelle dell'alta Italia avevano seguito Vittorio Emanuele.

D'altra parte qual è lo spirito, l'idea, il principio che tiene Vittorio Emanuele?

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Io non dirò verun uomo necessario nel mondo; nessun capo sarà mai assolutamente indispensabile, in veruno Stato; non innalzerò alcuna statua ad un vivente; ma dico che lo spirito, l'idea che consacra Garibaldi crea sola l'entusiasmo dei popoli per il regno di Vittorio Emanuele nell'alta Italia.

In che consiste adunque il dissentimento momentaneo, ma pure incontestabile, tra l'alta e la bassa Italia? Esso nasce dal modo con cui venne iniziata l'attuale liberazione, e nulla di più urgente che l'esame accurato e coscienzioso delle cause prime, le quali, disconosciute, potrebbero condurre a luttuosi disastri.

Voi mi conoscete riverente per le vostre leggi, rispettoso per le tradizioni vostre, alieno da ogni discussione di persone, e spero quindi che non darete un'interpretazione ostile alle mie espressioni. Mi sia adunque concessa la facoltà di liberamente parlare del sistema piemontese. L'attuale liberazione ha cominciato colla scuola piemontese, le cui idee furono svolte con eloquenza e lealtà, furono ridotte a dettami popolari, meritarono di essere propagate e accettate con entusiasmo, ma alla fine come ogni cosa mortale erano condannate a svanire dopo compiuta la loro carriera. Queste idee, primamente annunziate dal conte Balbo e più tardi ampliate dall'abate Gioberti, sono poi diventate il retaggio di altri scrittori che per principio io non nomino, essendo essi viventi, quantunque rimangano pur sempre nella sfera tracciata dai loro defunti maestri. Il loro sistema consiste nel dire ai Lombardi, ai Veneti, ai Modenesi, ai Romani, ai Napoletani, a tutti i popoli italiani: insorgete; i vostri gravami contro il pontefice, contro l'Austria, contro i principi sono giusti; ma, appena appena l'insurrezione sarà fatta, non vi sia cambiamento né discussione, siate immediatamente Piemontesi. (

Vivi rumori)

Dietro questi principii la Lombardia è insorta, e diventò piemontese; gli altri Stati l'imitarono, ed il Piemonte si sovrappose a tutte le città dell'alta Italia. Nulla di più naturale. Una volta stabilito che i popoli italiani volevano prevalersi di un Governo di fatto; una volta ammesso che volevano trascinarne i capi e gli armati contro l'Austria ed il papa;

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una volta proclamato che gl'insorti disorganizzati, inermi, senza diplomazia, senza cannoni, senza alleati, dovevano invocare il Piemonte, la logica voleva che i Piemontesi, entrando nei diversi Stati, ne fossero i capi, gli arbitri, altrimenti avrebbero essi esposto l'esercito, l'onore, le forze loro ad una inevitabile catastrofe.

Per tal guisa si è inaugurata la libertà con armi, con impiegati, con ministri, con generali, con governatori, scelti a Torino; e come mai credere che il Governo piemontese giungendo coi propri mezzi, non volesse rendere piemontese la Lombardia, Modena, Parma, l'intera Italia?

Voci.

No! no!

FERRARI. Fu strana, fu maravigliosa la concordia artificiale colla quale tutto lo Stato subalpino, quasi unanime nei diversi suoi partiti, sostenne la parte di liberatore italiano. Io non conosco fatto alcuno nella storia d'Italia che mostri tanto ingegno profuso nel costituire un'opinione trapiantata da una regione a tutte le regioni della penisola. Senza adottare alcun libro scritto o concetto in quest'intento, l'intera Europa ha accettata la celebrità dei capi piemontesi, che arditamente si presentarono agli Italiani onde dirigerli nella gran guerra contro il pontefice e l'imperatore; e queste mie dichiarazioni devono persuadervi, onorevoli colleghi, che io sono lontano dal disconoscere o dal calunniare il sistema piemontese. Io ne proclamo al contrario i vantaggi grandissimi che lo hanno reso popolare; io stesso confermo che ogniqualvolta le truppe di Savoia sono entrate in una terra italiana sono state festosamente accolte ed acclamate, perché il sistema piemontese, essendo assoluto, aveva il vantaggio di recidere dalla base tutte le tirannidi italiane, e perché evidentemente ove giungeva il Piemonte non poteva più sussistere né il duca di Modena, né la duchessa di Parma, né il granduca di Toscana o il re di Napoli; nessun principe, nessun re, né principe italiano poteva conservarsi.

(Movimenti)

Ma questo, signori miei, è un sistema che vi espongo; questi sono fatti non dipendenti dalla mia volontà, questa è la storia, pura storia; desidero che siate capaci d'intendere la nostra propria storia. (

Segni generali di disapprovazione)

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PRESIDENTE. Prego l'onorevole FERRARI ad essere come altre volte temperato nelle espressioni, né ammettere parole che possano offendere la dignità dei membri che siedono in Parlamento.

FERRARI. Confesso all'onorevole PRESIDENTE che io provo una profonda meraviglia nel vedere che sono accolte le mie parole come ostili, nell'atto stesso che io rendo il più profondo omaggio al passato ed al presente del Piemonte e dei Piemontesi. (

Interruzioni)

MASSARI. Il Piemonte non esiste più.

PRESIDENTE. Mi permetta che gli osservi che io non mi sono accorto che le sue parole siano state accolte come ostili; si udirono alcuni rumori di dissenso; ciò significa solamente che quelli che sollevarono questi rumori, che io non voglio giustificare, non partecipano le sue opinioni; ma c'è gran distanza dal non parteciparle al crederle ostili; quindi io giudico ingiusta anche questa sua qualificazione.

Ritenga però che quando alcuno, il che non credo, facesse o con mormorio, o con parole dimostrazioni che potessero o inceppare la libertà, od offendere la persona dell'oratore, io sarei sempre pronto a chiamarlo imparzialmente all'ordine

(Bene!

); ma nello stesso tempo io debbo impedire che l'onorevole preopinante nelle sue espressioni possa offendere alcuno o la Camera intera. Ella riconoscerà in me, lo spero, quella perfetta imparzialità che deve guidare sempre il. PRESIDENTE nel dirigere le discussioni della Camera.

FERRARI. Io mi dichiaro soddisfatto delle sue spiegazioni;, ma io non sono che al principio, ed io devo di nuovo scongiurare la gentilezza dei miei avversari che non vogliano attribuire alle mie parole un senso ostile, un senso aggressivo, un senso nemico.

Quali sono era i difetti del sistema regnante? Esso offre vantaggi, riporta vittorie, la cosa non saprebbe essere contestata. Ma infine, per ciò stesso che un dissidio esiste tra l'alta e la bassa Italia, per questa unica ragione bisogna che un difetto esista nel Governo, difetto di cui i suoi capi saranno forse assolutamente innocenti, ma che, estendendosi nell'azione, potrà condurre ad involontari errori e ministri e generali e cospiratori,

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tale essendo la forza dei sistemi che, una volta ammessi, non concedono ad alcuno la libertà di sottrarsi alle loro conseguenze. In che consistono adunque i difetti del sistema piemontese? Essi consistono nel sovrapporre uno Stato unico a tutti gli altri Stati italiani; la è cosa momentanea, transitoria, sarà riparata; ma giacché siamo in un Parlamento per riparare i disordini che potessero emergere, noi dobbiamo cominciare dal riconoscere il disordine massimo del Piemonte che vuoi sovrapponi agli Stati italiani.

Da ciò ne nasce un momentaneo malcontento, un'irritazione febbrile, un'irritazione cieca se volete, ono sdegno di razza

(Rumori),

permettete. quest'espressione, ma pure sdegno il quale può condurre all'anarchia e sciogliere il Governo

(Rumori)

Se in Francia, per esempio, una provincia del mezzodì si sovrapponesse subitamente a tutte le provincie del nord; se Bordeaux volesse di un tratto spedire generali, governatori, commissari a Strasburgo, a Rennes, a Calais, egli è certo che desterebbe, a torto senza dubbio, ma con effetto infallibile, un generale malcontento. E siccome ogni malcontento sulla scena della politica acquista il senso di un principio; siccome questa è legge generale a cui nessun uomo, nessuno Stato, nessuna nazione può togliersi, ne nasce che, sovrapponendosi il Piemonte a tutti gli altri Stati italiani, egli getta i rivoluzionari nella opposizione e si costituisce loro nemico. (Rumori di dissenso)

Voi stessi avete detto che facevate la guerra all'Austria, alla rivoluzione. L'avete ripetuto apertamente, soffrite che ve lo dica.


CAVOUR, ministro. È vero.

FERRARI. Siamo dunque d'accordo. (Ilarità)

Sì, d'accordo nel fatto. Ne consegue, come diceva, che il rivoluzionario, il ribelle, l'uomo che resta espulso dal Piemonte, sovrapposto a tutti gli altri Stati italiani, il ribelle, dico, si agita, forse a torto, ma in somma si agita. (Rumori)

Consideriamolo attentamente senza lodarlo, senza biasimarlo; promettetemi di rimanere nell'imparzialità della scienza, di non essere né tribuno, né uomo di parte.

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Io ripeto ancora oggi quello che dissi al signor PRESIDENTE del Consiglio la prima volta che io presi la parola in questa Camera, che cioè egli non avrebbe mai inteso da. me né una parola faziosa, né un dire demagogico. Ne risulta quindi che il ribelle formola anch'esso i suoi gravami contro il sistema piemontese nell'atto stesso in cui voi combattete il papa e l'imperatore.

Il rivoluzionario dice: e che? io sono insorto contro l'Austria, contro i duchi, contro il papa, ho passato lunghi anni nelle prigioni, ho sacrificato il mio sangue alla patria, ho posto in non cale la mia fortuna, e vedo giungere, chi? Uomini estranei, uomini di governo, uomini di comando?

Ecco il punto in cui il sistema piemontese trova un ostacolo, e voi stessi lo riconoscete. (Segni di dissenso)

Ma v'ha di più. Io mi fondo sempre sui vostri documenti, non me ne stanco un istante. Siccome il Piemonte procede risolutamegte e arditamente nella sua via, e siccome persiste nell'applicazione delle sue dottrine, combattendo ora i duchi, i papi, gl'imperatori, ora i nemici stessi dell'Austria, del papa e dei duchi, s'impegna il Governo in una confusione di atti gli uni ministeriali, gli altri rivoluzionarii gli uni conservatori, gli altri sovvertitori, d'onde emergono poi innumerevoli accuse e recriminazioni.

E che? dice il rivoluzionario, io sono perseguitato dall'uomo che ieri mi stringeva la mano, che mi spingeva sul campo di battaglia; sono escluso dagl'impieghi, non ho gradì nell'esercito, debbo ritirarmi, sono calunniato dai giornali, sono trattato da perverso e perfino da repubblicano da chi fraternizzava con me e sembrava professare le medesime mie opinioni. Ma io eseguiva gli ordini del signor ministro, ma io intendeva la sua voce; e perché debbo io immolarmi ed egli comandare? Avrà forse torto il ribelle, ma questo è quanto dice e proclama. (Ilarità prolungata)

Signori, accennerò ad un ultimo inconveniente, perché in verità non vorrei parere troppo malintenzionato. ' II sistema piemontese, e sono felice in questo momento perché mi rivolgo al signor PRESIDENTE del Consiglio, il quale è uno degli economisti più distinti dell'Italia, il sistema piemontese,

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senza che alcun piemontese ne sia colpevole, si fonda necessariamente sulla capitale piemontese, ed eccoci quindi in faccia al problema economico e politico d'Italia: la capitale. (Segni di disapprovazione)

Non v'ha cospirazione, non v'ha concordia fittizia che possa stordirci al punto da farci dissimulare o da farci ignorare che Torino si dee sovrapporre a tutte le altre città per la forza stessa del sistema regnante, qualunque sia poi la sorte che l'avvenire riserva a questa metropoli.

Onorevoli signori, esaminiamo questo fatto: nulla di più urgente che di conoscere appieno oramai che cosa sia una capitale.

Una capitale è una città preponderante, che. sorge nel mezzo d'una nazione con una popolazione talmente esuberante che schiaccia tutte le altre città (Mormorio)

, le quali in nessun modo possono competere e rivalizzare con essa. Parigi è capitale, perché possiede un milione e duecentomila abitanti, mentre Lione non ne conta che duecentomila. Londra è pure la metropoli inglese, perché abitata da due milioni di abitanti, mentre tutta l'Inghilterra non giunge a venti milioni. Una capitale, sia essa nella China, o in Tartaria, o in Turchia, od in qualsivoglia Stato barbaro od incivilito, è sempre un fatto economico, un fatto preponderante, che nessun capo, nessun re, nessun popolo; può decretare o improvvisare, senza disporre di forze barbare assolutamente, eccedenti la nostra civiltà. Non basta d'altronde a costituire una capitale il deportarvi un numero grandissimo di abitanti, non basta il riunirvi accidentalmente come in una fiera una sterminata moltitudine di cittadini; bisogna altresì che la città privilegiata, il centro dominante sia un perpetuo deposito di merci, una riunione mostruosa di

bazars,

un deposito generale di ricchezze. E ancora questo non è nulla se la capitale non organizza il suolo intero dello Stato, voglio dire se non si trova sussidiata da un'ampia irradiazione di strade che la mettano in comunicazione immediata colle città inferiori e colle ultime località dei confini. Da ultimo, senza una zona circolare di fortezze che servano come di stazioni all'esercito per giungere ai confini,

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senza un'irradiazione strategica che protegga i raggi dell'industria e. del commercio, nessuna capitale esercita lungamente le proprie funzioni, né vale a mantenere il suo posto contro le invasioni nemiche.

Ogni qual volta poi una città eguale alle altre città che la attorniano prenda una supremazia esclusivamente politica, essa diventa tirannica, esercita un'odiata pressione sulle nazioni soggette, le spinge all'insurrezione, all'anarchia, a disordini che voi riproverete, forse giustamente, ma che insomma finiranno per soverchiare le forze vostre e distruggere, ogni vostro lavoro. Questo è l'ultimo vizio del sistema piemontese.

Comunione delle Due Sicilie che voi reclamate subitanea, incondizionata, voi svelate l'ostacolo supremo del vostro sistema, il quale deve essere oramai vinto dal sistema italiano.

Diffatti voi sapete che la città di Napoli conta 520,000 abitanti; sapete che è ricca, che è organizzata, che regge, e, se occorre, tirannicamente, le Due Sicilie, e che fa loro subire spietatamente il suo dominio sotto l'aspetto economico; e non parlo qui dei Governi che passano, e si fanno, e si disfanno quando si vuole. (Oh!oh!)

Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che si dia a voi, che si dia a Torino. (Bisbiglio)

Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico Io vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confiscazione immediata e incondizionata della più grande tra le città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio)

Quando diceste che Napoli deve darsi incondizionatamente, voi avete pesato le vostre parole, e mi permetterete di pesarle anch'io sulla vostra stessa bilancia, non sulla mia.

La dedizione incondizionata significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi... (Mormorio prolungato)

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Voci. No! no!

FERRARI. Incondizionatamente, signori; io sono nella parola, nella stretta parola: io non sindaco alcun pensiero, né alcuna intenzione; io non nomino il Governo in questo momento; io sto nella parola, come se fosse stata scritta da persona invisibile.

Chi mi dice annessione incondizionata, mi dice che vuole che lo Stato si dia in modo tale che ne possa disporre a proprio placito lo Stato che lo prende... (Rumori)

Voci. Non lo prendiamo!

PRESIDENTE. Prego la Camera di lasciare che l'oratore sviluppi tutte le sue opinioni con piena libertà: non mancano gli oratori in favore per rispondere dopo.

FERRARI. Sarò nell'errore, ma la parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi: la cosa è la stessa.

Qui non si tratta di forma di governo, non su di ciò verte la discussione; non è il caso di esaminare se il Governo, che prende le Due-Sicilie, sia monarchico o costituzionale, libero o assoluto, ma bensì dobbiamo cercare se, sotto l'aspetto economico, l'alta vale la bassa Italia, e se il suo Governo sia autorizzato a trascinare nella sua corrente il regno delle Due Sicilie, il suo diritto di darsi leggi, il suo potere di reggere la propria antichissima autonomia.

Bisogna osservare il fatto, che probabilmente alcuni ignorano, ma che riconobbi io stesso nella capitale del mezzodì. Io ho trovato in Napoli la memoria di un regno odiato; ho inteso mille giustissime accuse contro il governo borbonico; Garibaldi era accolto col massimo entusiasmo. Lo ripeto: sotto l'aspetto politico la sua rivoluzione era accettata e fatta superiore ad ogni discussione; era inteso da tutti che un Governo nuovo succederebbe all'antico e nuovi capi alla stirpe borbonica; ma io non intesi alcun Napoletano dirmi: abbiamo cattive leggi, noi chiediamo impazienti altri codici, un altro regime civile. Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono dubbio della discussione,

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le cui finanze ondeggiano nell'urto delle autonomie, e il cui ordinamento geografico è un mistero per i membri stessi del Gabinetto piemontese?

Qual disastro nascerebbe adunque se l'annessione fosse ritardata di un mese, di un anno? Qual disgrazia se gli abitarti del mezzodì riflettessero sulle proprie loro sorti? E se esitassero a darsi in vostra balìa, che fareste voi?

Havvi un altro punto che non posso pretermettere, e giacché l'onorevole presidente del Consiglio l'ha accennato, mi pare che, avendo la sventura di parlare il primo in questa discussione, io debba dichiarare che le ragioni dette per accelerare l'annessione delle due Sicilie non sono né ottime, né decorose.

Voi dite: se attendiamo, si dichiarerà l'anarchia, e il mezzodì cadrà sotto un sistema di conquista, ubbidirà ad un dittatore, che presto sarà un despota, o avrà per successore un tiranno. Il disordine ha cominciato, si estende; noi siamo indispensabili.

Sapete voi che se per caso si elevasse in questo recinto una discussione contro il Governo attuale di Napoli, se voi stessi la promoveste, se chicchessia la suscitasse, se io stesso l'aprissi, io accuserei Garibaldi, accuserei il liberatore delle Due Sicilie, sarei il nemico della libertà italiana!

(Rumori)

In primo luogo non avete il diritto di accusa. In questo momento le Due Sicilie non sono nel regno; formano un altro Stato. La discussione non è aperta; noi siamo incompetenti.

In secondo luogo potreste voi censurare la dittatura di Garibaldi, senza incorrere nella taccia della più nera ingratitudine? E che? Egli vi da un regno, ed il primo vostro atto sarà di accusare il vostro benefattore? Egli compie da solo un'impresa da voi dichiarata impossibile, ed il primo vostro dire sarà di chiamarlo stolto? Egli governa col solo gesto otto milioni di uomini, ed. il primo passo sarà di dichiararlo incapace di governare? Riflettete. Vi sarebbe illegalità, vi sarebbe ingratitudine, il vostro discorso sarebbe borbonico, perché i Borboni sono ancora nel regno, combattono ancora benché vinti; finché ferve la battaglia possono vincere, ed in guerra chi non è prò, è contro; non havvi mezzo alcuno.

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E la vostra critica fatta incendiaria propagherebbe l'insubordinazione, il discredito dei capi, la ribellione mascherata dell'inerzia, del tradimento; un ordine non eseguito a tempo basterebbe a compromettere i soldati tutti del mezzodì.

Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo-che si possa in quest'istante immaginare. (Ilarità)

Parlo colle vostre idee, non colle mie; giudico il dittatore colle vostre leggi, colle vostre istituzioni, coi vostri esempi, e non con utopie da me inventate; e onde meglio apprezzare il dittatore mi costituisco spettatore imparziale. Esaminiamo adunque i grandi atti del suo Governo, esaminiamoli l'uno dopo l'altro considerati nella loro importanza storica. Primo suo atto fu di conquistare la Sicilia alla libertà, e mi accorderete che in questo primo atto si comportò eroicamente. Passiamo innanzi. La Sicilia liberata gli serve di base d'operazione per assalire la tirannide che opprimeva il regno di Napoli, ed essa lo soccorre d'uomini e di danaro, Io festeggia in mezzo al duro travaglio della guerra, mantiene 35 mila combattenti, e i soldati del Borbone sono sconfitti in Reggio. A partire da quest'istante Garibaldi marcia su Napoli, giunge fino sotto Capua: e tutto cede, tutti obbediscono, tutti proclamano la sua dittatura, tutti accettano i suoi governatori, tutti lo assecondano nella sua guerra di Capua; nessuna sedizione, nessun disordine né a Palermo, né a Napoli, benché il regno muti di forme e di regime.

Questi sono i fatti superiori, gli atti storici, i momenti decisivi della dittatura del mezzodì; il resto cade nei particolari dell'amministrazione, né si potrebbe parlarne senza cavillare. Che cosa mi rispondereste voi se vi rimproverassi qualche disordine della vostra amministrazione di Vigevano o di Cherasco? Che direste? Che non vi è Stato senza delitti, che non vi è provincia senza delinquenti; che nei difficilissimi momenti in cui succede un cambiamento di Governo nascono sedizioni inevitabili. Questo me l'accorderete; unitevi dunque con me, e riconoscerete l'eccellente Governo delle Due Sicilie (Si ride) nella situazione attuale, non nella situazione ultima, quella in cui sarà costituita di qui a 3, 4 o 6 anni.

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Direte: noi governiamo meglio. Ebbene, vediamo se governate meglio. Voi siete andati a Milano un anno fa, dodici anni fa; siete andati a Modena, a Parma, nell'Emilia; avete proceduto coi dittatori, col governo arbitrario delle rivoluzioni, colle inseparabili proscrizioni dei rivolgimenti politici. Avete voi fatto meglio di Garibaldi? Devo io ricordare i vostri atti di Milano? Non ch'io voglia difendere la mia città nativa, né suscitare lotte municipali o gare terrazzane, ma giacché mi traete su questo terreno, giacché mi fate scendere in questo campo, dirò che nel 1848, nell'atto che Carlo Alberto entrava in Milano, vi erano disordini tali che andarono sino ad una grave sommossa. Il commissario piemontese Cibrario dovette essere difeso a Venezia da Manin, che lo involava ai furori del popolo. Credete d'altro lato perfette le dittature di Ricasoli, di Farini, e scevra d'ogni disordine la vostra influenza sull'Italia centrale? Non voglio ricordarvi nessun atto disaggradevole, ma vi scongiuro, a nome della pace, a riconoscer ottimo il Governo della Sicilia, e la bilancia tra voi e Garibaldi sarà compensata.

(Risa e mormorio)

Ma sapete d'onde deriva o d'onde potrebbe derivare un disordine nelle Due Sicilie? Non vi è Stato che non sia esposto a sedizioni, e le Due Sicilie sono uno Stato come gli altri, e possono forse in avvenire essere esposte all'anarchia. Ma da che nascerebbe il disordine? Dagli annessionisti (Movimento), dal desiderio precipitato, impaziente ed indiscreto degli annessioni sii. (Mormorio)

Badate che qui io non parlo del presidente del Consiglio o dei ministri; io non discuto ancora la questione della fiducia; occupato d'un sistema, non accuso uomo alcuno in particolare.

Che cosa facevano gli annessionisti per precipitare la fusione? Essi esageravano a disegno i difetti del Governo piemontese nelle Due Sicilie. Vi fu un ministro di Napoli che propose una cosa che biasimerebbe lo stesso ministro della giustizia qui presente. Voi sapete quale sia l'attuale incertezza della vostra legislazione, quali misure abbiate prese onde dissipare questa momentanea confusione, quale peritanza vi colga ogniqualvolta si tratta di applicare l'antica legislazione.

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Or bene, vi fu un ministro che voleva portare il dittatore a promulgare immediatamente tutte le leggi piemontesi. (Denegazioni al banco dei ministri)

lo posso nominare il troppo zelante ministro, ma desidero tacere il suo nome, avvertendo solo che è affezionato al Piemonte, Toglio dire al Governo, al sistema piemontese...

Una voce. Lo nomini!

FERRARI. Volete che lo nomini?

(Si! si!)

PRESIDENTE DEE, CONSIGLIO. Lo nomini!

FERRARI. Pisanelli!

MANCINI. Perché conosce le leggi del Piemonte meglio che gli altri.

FERRARI. lo non accuso nessuno, ma dico che il sistema di Cavour, il sistema piemontese, è sostenuto nelle Due Sicilie da un partito (al quale i capi del Piemonte saranno estranei), ma che si mostra impazientissimo di precipitare l'annessione, e che si sforza di far decretare misure, le quali riescono anarchiche. Questo partito, per rendere necessaria, indispensabile la immediata, la subita annessione, diffonde arditamente il disordine, impediendo le misure più urgenti, più necessarie

(Rumori)

Non parlo già dei capi del Ministero piemontese, parlo dei miseri suoi addetti, dei suoi addetti da esso ignorati, degli amici di cui non conosce neppure resistenza, e il cui ardore s'accresce appunto per la necessità in cui sono di farsi rimarcare a forza di esagerazioni.

Il Ministero Conforti propose la sua demissione, qualora il progetto del ministro Pisanelli, di pubblicare immediatamente tutte le leggi piemontesi, fosse adottato. Questo è fatto storico incontestabile. Io non ne voglio rendere risponsabile il Governo piemontese, rispetto il carattere stesso del signor Pisanelli, io separo l'intenzione sua dall'atto suo, e piacesse al Cielo che ogni entusiasta del Piemonte potesse rassomigliargli. Ma, messo da parte il Governo piemontese, e scartato pure il signor Pisanelli, io devo dire che il partito annessionista delle Due Sicilie è composto in gran parte di avventurieri... (Rumori generali di riprovazione)

Dico solo in parte, dico...

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(Alzandosi vivamente) Domando la parola per protestare contro queste espressioni!

PRESIDENTE. Prego di far silenzio. Veggo che l'oratore eccede i limiti delle convenienze parlamentari. Io invito l'oratore a ritirare le ingiurie e accuse non fondate che ha lanciato contro uomini onorandi

FERRARI. Io parlo nella profonda indipendenza delle mie opinioni; ho consacrato la vita alla patria; non vengo qui a chiedere impieghi (Vivi rumori di disapprovazione)

Voci. All'ordine!

PRESIDENTE. Prego l'onorevole preopinante a pensare meglio alle cose che dice: egli precipita troppo i suoi giudizi. Un'accusa succede ad un'altra.

FERRARI. Domando di fare una rettificazione.

PRESIDENTE. Io lo prego di lasciar parlare il presidente. Nessuno dei deputati che siedono qui certamente è venuto per acquistare impieghi; tutti adempiono coscienziosamente al mandato dei loro elettori di rappresentare la nazione, e ne promuovono gl'interessi con ispirito patriottico. (Applausi)

Nessuno ha facoltà di fare insinuazioni, e supporre che vi possano essere deputati che vengono qui con secondi fini. Ella quindi fa un'ingiuria allarmerà. Io la prego di ritirarla.

FERRARI. La ringrazio di aver dette queste parole, perché questa sua preghiera riesce inutile; io mi son rettificato, soggiungendo che accade nel-partito annessionista delle Due Sicilie quello che accade in tutti i partiti, cioè che s'introducono in questi partiti degli uomini i quali sono avventurieri.

Io dichiaro che rispetto la Camera e l'ho sempre rispettata;lei travolge le mie parole... (Forte mormorio)

PRESIDENTE. Prego l'onorevole preopinante...

FERRARI. Mi lasci finire, lo supplico in nome della libertà.

PRESIDENTE.

(Con forza) Ella deve anzitutto dichiarare che quella frase le è sfuggita, e ritrattare l'accusa diretta al presidente di travolgere le sue parole.

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FERRARI. Le ho travolte io stesso involontariamente, quindi non mi meraviglio che siano state travolte dal presidente. Io rispetto la Camera (Basta! basta!), essendo essa l'unica immagine della libertà italiana

PRESIDENTE. Dunque io prendo atto delle sue dichiarazioni, che ha ritrattato quanto vi poteva essere di offensivo nelle sue parole verso le persone che siedono qui, e verso persone onorande che furono altrove insignite di alti uffici.

FERRARI. Non solo rettifico, ma aggiungo che mi rettificai prima che me lo dicesse; aggiungo che ho dichiarato almeno venti volte di parlare di un sistema, non delle persone;aggiungo che se nel calore dell'improvvisare una frase o inutile o inesatta tradiva il mio pensiero, mi affrettava a completarla; aggiungo in mezzo a tanta reclamazione la parola spenta manca al mio pensiero...

CASARNETTO. (Rivolto all'oratore) Prenda qualche minuto di riposo.

FERRARI. Io finisco in due parole la prima parte del mio discorso, esprimendo il desiderio che non si provochino discussioni irritanti sulle Due Sicilie. I disordini che potessero per avventura esistervi si sono egualmente prodotti quando voi siete entrati nelle città dell'alta Italia, dove avete mutati i Governi, e spero che riconoscerete che Garibaldi fece quanto fecero Cavour, Farini e Ricasoli in simili vertenze. Che se ci furono avventurieri, non fu colpa né del dittatore, né de' suoi, né di questo Governo, né di quest'Assemblea. Questo nome d'avventuriero non deve essere da me applicato ad alcun nome qui pronunziato. Per la forza delle cose, uomini tristissimi s'introducono in ogni partito, in ogni mutazione; ma ogni partito, ogni mutazione dovendo essere giudicata dal principio che l'anima, la mia censura all'influenza piemontese nell'alta e nella bassa Italia si svolge al di fuori d'ogni considerazione d'individui, non anelando se non a giustificare Garibaldi dietro gli esempi stessi del Governo qui presente. (Bene!)

Domando un momento di riposo.

PRESIDENTE. La seduta è sospesa per alcuni momenti.

(Segue una pausa di un quarto d'ora.)

Il deputato Ferrari ha facoltà di continuare il suo discorso.

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FERRARI. Il presidente del Consiglio ha sollevato la questione di fiducia, ed ora io debbo dire la ragione per la quale non posso annuire a questo voto di fiducia. Separo compiutamente ancora una volta la persona dall'uomo politico; io non considero che il Ministero. Un Ministero ispira confidenza quando rappresenta il proprio principio e ne è, se non creatore, padrone, e lo domina talmente che lascia presumere che in ogni qualsiasi circostanza lo applicherà con fedeltà, con prontezza.

Tale è l'idea che mi sono fatta dei ministri, idea che trovo negli scrittori italiani e francesi, ed a questo titolo furono riconosciuti come grandi ministri Pitt e Fox, l'uno nel sostenere, l'altro nel combattere la guerra degl'Inglesi contro i Francesi. Mi chiedo adunque se il presidente del Consiglio possieda le qualità ministeriali, le quali ispirino fiducia per dargli subito incondizionatamente il regno delle Due Sicilie. Questa è la domanda che rivolgo a me stesso. La mia risposta sarà semplice. Avete voi incoraggiato la spedizione? ci avete voi creduto? Avete sperato in essa? L'avete voi apertamente protetta? Voi l'avete dichiarata un atto quasi insensato, avete dichiarato il suo trionfo impreveduto. Dunque, incaricandovi di compiere l'annessione, sarebbe un premiare la vostra imprevidenza ad esclusione degli uomini provvidi. No, non siete i ministri della situazione. I vostri meriti saranno grandissimi, ma non corrispondono all'epoca, al periodo, all'anno, al mese attuale. (Si ride)

Voi non avete la fiducia né dei combattenti, né dei volontari, né del capo della spedizione, a cui devesi almeno tanta deferenza dal pubblico, quanta se ne cattivarono Farini e Ricasoli, la cui previsione concordava nell'Italia centrale colla vostra.

Questo è il primo punto. Ma si tratta d'altronde di costituire l'Italia, di fare l'Italia degl'italiani, frasi non mie, ma della situazione, frasi da voi accettate. La nuova Italia tende a dominare il sistema piemontese, a sciogliere la stessa Torino dal peso soverchio che l'opprime, dalla dura necessità di reggere da sola i destini italiani. La nazione esige che voi andiate a Roma ed a Venezia, e voi non siete i ministri né della spedizione di Roma, né della guerra di Venezia. (Bisbiglio)

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Non siete i ministri della spedizione di Roma, perché non so se volete andarvi, se volete distruggere il papato, o se volete riformarlo. (Risa e rumori)

Personalmente indifferente in mezzo a queste alternative, io concepisco le sorti dell'Italia in un quadro sì vasto, e con tale latitudine, ch'io scorgo il progresso dappertutto: l'acqua andrà sempre al mare. Ma il Ministero, senza disegno, diventa ipso iure incompetente. Quindi non si crede alla vostra spedizione, o, se si crede, si pensa che attendiate un Cola da Rienzi, che poi forse accuserete d'essere incapace, onde poi detronizzarlo sotto pretesto asinità.

Essendovi posti al di fuori delle prospettive di Napoli e Palermo, il pubblico non vi vede sulla via retta di Roma.

Andrete voi a Venezia? Quando? Come? Non volete, non potete spiegarvi. (Risa e rumori)

E poi ancora si diffida di voi; si crede che andrete a Venezia come siete andati, come andrete certamente a Napoli ed a Palermo, cioè che ci andrete quando ci sarà stato un Cola, un Manin, il quale, lasciando le idee della sua prima vita, ne avrà preso altre per farvi la strada.

In altri termini, si teme che differiate l'impresa di Venezia per rimanere a Torino, che vogliate perpetuare lo stato provvisorio dell'Italia per far prosperare lo stato tradizionale del Piemonte; e, vera o falsa, ogni apparenza in politica vale quanto la realtà.

Neppure inspirate voi fiducia quali ministri dell'unità italiana. Avete voi avuto il coraggio nel 1830, sotto il peso dell'assolutismo, di rivolgervi a un Re ancora dubbio, e dirgli: prendetevi tutta l'Italia, se no saremo i vostri nemici? (Movimenti)

Avete voi osato persistere in quel terribile sistema, tenendo di continuo il futuro capo della nazione tra la necessità della gloria, e quella di una caduta gravissima nel presente e nell'avvenire? Avete voi sfidate tutte le polizie italiane, perlustrate tutte le prigioni per vedere quali elementi potevate osare, o in che modo si poteva unificare l'Italia, o l'aggruppare uomini che in un avvenire qualsiasi potessero proclamare l'unità italiana?

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Io non muto d'avviso: sono stato avversario dell'unità italiana, la credo tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni. Ma al certo i ministri che non dividono questa mia opinione, non hanno mai parlato di unità italiana nel 1848, ancora meno dopo la battaglia di Novara; e nei recenti protocolli del 1859, quando accusavasi l'unità austriaca nei ducati italiani, ogni nota del Gabinetto piemontese non era forse federale?

Vi direte voi ministri della federazione? In verità io trovai nel progetto di legge una dichiarazione la quale mi colmò di gioia. Io credo alle federazioni; le credo potenti quanto l'unità, sia nell'associare le forze militari, sia nella resistenza alle invasioni, sia nel favorire lo sviluppo della libertà, sia nel proteggere le arti, le scienze, l'industria, il commercio.

Quando lessi nel vostro progetto che volevate fare una monarchia scentrata, io non poteva trovare una dichiarazione più favorevole alla federazione.

Una monarchia scentrata, nella quale ogni città pesi del giusto peso del suo valore economico, deve essere detta federazione, e da Aristotile fino a noi questo nome fu sempre applicato ai corpi politici, per qualsiasi ragione non dotati di capitale. Ogniqualvolta più Stati non possono sottostare al centro, comunque siano essi riuniti, qualunque sia il Governo loro, formano sempre un corpo federale, che sarà poi buono o cattivo, come ci sono buone o cattive monarchie. Scentràlizzare uno Stato e federalizzarlo sono due termini corrispettivi.

D'altronde yoi vi proponete di riconoscere le autonomie. Ogniqualvolta riconoscete le autonomie voi cadete nel sistema federale. La federazione non mira ad altro, se non a conservare le autonomie sia delle antiche capitali, sia degli Stati costituiti, sia delle regioni condizionalmente indipendenti. Date il significato che vorrete alla parola autonomia, e non potrete sottrarla dal sistema federale. Che se in vostra sentenza pochissimi sono i federali, io credo al contrario che ve ne siano troppi; e qualora nessuno difendesse la federazione italiana, i due miei amici, il Po e gli Appennini, non l'abbandoneranno mai.

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Se non che per togliere le gare tra le città conviene riconoscere dei confini, riconoscerli legalmente, sovranamente; insomma accettare una legge fissa, senza della quale si ricade nelle guerre di città, nelle rivalità locali, nell'anarchia municipale, dove ogni terra invidia la prosperità del centro a lei più vicino. Mancando i confini sovranamente determinati, l'Italia contò in altri tempi più di duemila guerre, che si riprodurrebbero in parte, o giacerebbero latenti nella scentrata monarchia, simile all'Italia che Carlo VIII di Francia trovava nel 1494 piena di malcontento, e, secondo la frase di Comines, avida di ribellioni. Ma voi che vi dite unitari, a dispetto della scentralizzazione, non potete neppure essere i ministri della federazione.

Quanto all'essere ministri di una rivoluzione, voi avete dichiarato di non volerne, di voler chiudere l'era delle rivoluzioni. E qui mi limito ad ammirare la vostra affermazione. E che? Tutti gli Stati sono esposti a febbri intermittenti che si chiamano rivoluzioni; ad ogni tratto non possono rinnovarsi senza traversare giorni nefasti in cui, ogni cittadino prende le armi; è questa una legge naturale come la legge delle malattie nei corpi umani, e voi mi parlate di chiudere per sempre l'era delle rivoluzioni?

Io credeva che un economista come il signor conte di Cavour avesse lasciati questi luoghi comuni ai giornalisti della antica reazione (Si ride), agli uomini della legittimità, che sospirano il ritorno di un duca di casa d'Este o di Lorena. Come mai il signor conte di Cavour, che attende la rivoluzione di Roma e quella della Venezia, vuol egli chiudere l'era delle rivoluzioni? (Ilarità ed applausi dall'estrema sinistra)

Una teoria già adottata da uomini rispettabili alla vigilia del 1848 propugnava l'indipendenza italiana in odio di ogni rivoluzione, e dicevasi: «Noi non vogliamo rivoluzioni; non vogliamo esautorare alcun principe, spodestare alcun capo italiano: uniamoci tutti; combattiamo l'Austria.» Il Ministero, che non rappresenta né l'unità, né la federazione, né la rivoluzione, sarebbe egli l'erede di questa senile utopia, ripudiata dagli stessi suoi propugnatori? Sarebbe egli il Ministero dell'indipendenza pura, senza rivoluzioni?

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Ma egli ha fatta una guerra di rivoluzione al Borbone anche diplomaticamente; ha fatto una guerra di rivoluzione alla famiglia d'Este, a quella di Parma, a quella di Toscana. I suoi principii erano rivoluzionari, benché moderati, benché esposti colla massima abilità.

Io non posso dunque considerare il conte Cavour come ministro né dell'indipendenza, né della spedizione di Roma, né di quella della Venezia... Forse lo sarà egli dell'influenza francese? (Mormorio di disapprovazione)

Io rispetto altamente la generosa nazione che da secoli si è associata a tutti gli sforzi in favore della libertà italiana, né io penso che alcun uomo politico possa adontarsi di rappresentare l'influenza francese nei limiti richiesti dalla patria nostra. Ma io vedo nel Governo elementi i quali escludono la possibilità anche di rappresentare la parte benefica dell'influenza francese, perché infine le tradizioni de' suoi membri rimontano altrove, e l'uno di essi considerava il soccorso che per avventura la Venezia avesse potuto invocare dalla Francia nel 1848 come una pubblica calamità, come un'ignominiosa maledizione. Voi d'altronde considerate l'influenza francese come l'atto personale o, direi anche, capriccioso di un uomo, dell'imperatore dei Francesi, e nel proclamare la vostra gratitudine al capo della Francia voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte la ragione dell'Italia attuale. Con ciò si costituisce un nuovo sistema imperiale; l'imperatore, il Cesare antico, è precisamente l'uomo isolato che scende dall'alto, che s'invoca come liberatore, astrazione fatta dalla nazione alla quale appartiene; che sia Carlo IV di Boemia, o Ludovico di Baviera, che sia francese o tedesco, nessuno parla della patria sua, e tutti gli chiedono di rendere felici le nazioni, e le vostre espressioni eccessive di gratitudine, le vostre frasi smodate di riconoscenza mi annunziano che, respinto l'impero tedesco, voi ricadete nell'impero rivolgendovi al Cesare francese.

Quando pure queste ragioni non mi sconsigliassero dall'avere fiducia nel Governo, i volontari del mezzodì, quest'esercito volante di uomini eroici, partiti senza bagagli come se andassero a diporto, m'impone di diffidare dei capi del Governo.

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Sono uomini che hanno sacrificato la loro fortuna, la loro famiglia; gli uni saranno mutilati per sempre, gli altri avranno mancata l'una delle stazioni della vita loro rimanendo inferiori ai loro coetanei, e io li vedo sospetti mentre si affaticano per dare un regno a Vittorio Emanuele! Qual dichiarazione la quale prenda in considerazione tanti eroici sacrifizi? Io non conosco il palazzo degl'invalidi che potrà raccoglierli, non conosco l'asilo che potrà ricoverarli! Sono essi accusati in quest'Assemblea, dove sperava d'intenderli lodati! (Mormorio)

È vero che il Governo ha riconosciuto e il merito di Garibaldi e dei volontari

PRESIDENTE. Mi permetta: io sono costretto a interromperla per avvertire che finora nell'Assemblea non si sono sollevate accuse contro Garibaldi, né contro i volontari; anzi, in tutte le occasioni in cui si è fatto menzione del nome e delle eroiche gesta di Garibaldi, non si udirono che applausi.

Ella suppone delle opposizioni e crea delle difficoltà per potervi rispondere e combatterle. Domando alla sua imparzialità ed alla sua memoria se si possa dire che nell'Assemblea siansi elevai accuse contro uomini benemeriti della patria. Questo non fu fatto, e credo nemmeno pensato. (Applausi dalle tribune) Prego di far silenzio.

FERRARI. Sento con vera soddisfazione le osservazioni dell'onorevole presidente; io dico solamente, e ripeto naturalmente frasi sentite con alcune modificazioni che la difficoltà dell'improvvisare m'impone. Io dico che il Governo ha domandato un voto di fiducia, e che io non mi sento di potergli accordare questo voto di fiducia, specialmente avuto riguardo all'atto che implica questo voto di fiducia, che sarebbe di affidargli la sorte intera dell'esercito del mezzodì. (Ahi ahi)

Non dico già che corra pericolo di essere maltrattato o di essere non bene trattato; dico solo che questo esercito io lo vorrei confidato ad un altro Ministero.

Mi affretterò a volgere al fine, rispondendo ad alcune obche potrebbero essermi opposte,

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la prima delle quali sta nella maggioranza, la quale non mancò mai di sostenere il Ministero fa tutti gli atti suoi.

Mi guarderò dal contestare questo fatto, o dal ricordare che le maggioranze svaniscono rapidamente soprattutto nei paesi abituati alle unanimità entusiaste. Ma quando si tratta della bassa Italia la maggioranza qui non esiste; bisognerebbe che fosse anche convocata l'Assemblea della bassa Italia. Quand'anche fossimo unanimi, non saremmo autorizzati a dichiararci maggioranza negli affari dell'intera nazione.

Riconosco che il soccorso della Francia, la sua protezione assicurata varrebbe quanto il sostegno morale di una maggioranza frammentaria, e sarebbe per me un'obbiezione gravissima, benché non insormontabile. Ma il Ministero gode egli della confidenza, della Francia? Io non domando rivelazioni, non domando documenti; io voglio fondarmi sulle dichiarazioni pubbliche, sulla storia contemporanea, la quale non può essere falsata da alcun documento o da alcuna nota diplomatica. Gli ambasciatori di Francia sono ritirati da Napoli e da Torino; la Francia non ha né garantito, né approvato, né legittimato l'annessione dell'Italia centrale, e non vuole quella delle Due Sicilie; e, ciò che più rileva, l'imperatore dei Francesi ha consigliato continuamente ed ostinatamente all'Italia una forma federale. Né mai su questo punto le dichiarazioni dell'imperatore dei Francesi hanno variato, e benché lasci ora libera l'Italia di costituire la propria unità, le sue dichiarazioni non debbono essere poste in non cale.

La Francia vi lascia liberi di distrarre tutti i nemici d'Italia, che sono pure i nemici suoi; vi spingerà ancora forse più in là del limite a cui siete giunti; ma le conseguenze di tale spinta e delle sue riserve voi le conoscete, l'avete nel sistema francese, e saranno che ad ogni annessione italiana corrisponderà un'annessione francese. (Mormorio)

Voi mi dite che non esistono trattative relativamente alla Sardegna, che non fu chiesta alcuna concessione. Io vi credo; ma io consulto nel tempo stesso i documenti contemporanei, la tradizione attuale, i dati prestabiliti dalla politica napoleonica, e i precedenti, le aspettative,

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le trattative sono aperte nelle dichiarazioni fatte dal ministro Thouvenel nell'atto di accettare l'annessione di Nizza e Savoia. Le trattative per l'annessione, non dirò della Sardegna, ma di qualunque altra parte, stanno nella democrazia francese che ha assicurato il suo progresso col voto universale, nella influenza francese talmente terribile che fa fremere gli aristocratici del Reno e i lord dell'Inghilterra; le trattative stanno nella espansione del commercio francese, che invade tutte le città italiane per guisa tale che a Torino come a Napoli tutte le botteghe sono francesi. Le trattative stanno nella influenza della letteratura francese si superiore all'italiana che per leggere una discussione imparziale e non velata sulle nostre cose ci convien prendere un libro stampato a Parigi. (Segni di diniego)

La Francia in una parola vuole estendersi, la sua espansione fu inaugurata a Nizza e in Savoia; appena prese possesso di Chambéry vi creò un liceo, un altro ne fondò a Nizza, e in questo momento da 25 milioni alla città di Aiaccio, prodiga i suoi benefizi alla Corsica ed alle nuove provincie, vuole sfidare coll'esempio della sua democrazia i Governi italiani, tedeschi ed inglesi, e si estenderà coi sillogismo delle annessioni che voi avete votato.

So che voi ripetete ad ogni tratto: non sottoscriveremo mai a nuove annessioni, non cederemo mai un palmo di terra italiana.

Io vi credo; il presidente del Consiglio sarà fedele alla sua promessa; ma io non parlo del presidente del Consiglio, il quale troverà modo di salvare il proprio onore, io voglio salvare l'Italia. Quando avrete impegnato la nazione in una guerra sconsigliata; quando l'avrete affievolita colla vostra unità piena di malcontenti; quando vi saranno toccate sconfitte; quando sarete censurati dalla Francia, che vi accuserà d'imprudenza; quando l'impazienza delle annessioni vi avrà compromesso, che cosa resterà allora? L'onor vostro; ma non basterà a sollevar la nazione; che, se rimanete al potere, sarete allora costretti a farvi battere nell'interesse della Corona. Per riassumermi, mi limiterò a trasmettervi l'impressione che reco da Napoli, da me prima non vagheggiata se non ne' miei sogni o ammirata se non ne' libri suoi.

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Ho visto una città colossale, ricca, potente: innumerevoli sono i suoi palazzi, costrutti con titanica negligenza sulle colline, sulle alture, nei vieni, nelle piazze, quasi che indifferente fosse la scelta del luogo in una terra da per tutto incantevole.

Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti più splendidi che nelle prime capitali dell'Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nell'agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le mine di Pompei sembra l'eterna regina della natura e delle nazioni.

Or bene, s'io avessi l'onore d'essere nato nella patria di Vico, e se l'alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci. (Segni di disapprovazione)

E diffatti, giacché la storia non volle che l'Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra (Rumore);

colla federazione ogni Stato italiano si riconosce con una propria assemblea erede delle patrie glorie; poi ogni assemblea nomina i rappresentanti della nazione nella dieta dove l'intera patria sottrae ai pontefici la sua ragione per riflettere alla fine sui propri destini. Colla federazione si ottiene l'unità d'un esercito, perché non vi fu mai lega il cui scopo non fosse di riunire le disperse forze degli Stati, come lo mostrano gli esempi della Germania e degli Stati Uniti; colla federazione si ottiene l'unità della diplomazia, la quale trae dalla dieta un unico pensiero e la direzione unica degli Stati in faccia alle estere nazioni.

Fu sparso l'errore che la federazione volesse dir divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus; foedus vuoi dire patto, unione, reciproco legame; e il legame delle federazioni è si flessibile e potente che sa congiungere in Germania repubbliche e principati, e può elevare il presidente della dieta dal grado di semplice cittadino a quello d'imperatore o di re. Arrogi che la federazione è il sistema costituzionale preso nella più pura espressione,

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che fonda la libertà nella legalità d'un patto, nella moltiplicità delle assemblee, nell'inviolabilità d'ogni interno confine, nella solennità della sua dieta. Se aspirate alla democrazia ateniese o lombarda, gli amfizioni ve la consentono; se preferite lo sviluppo della libertà individuale, gli Stati Uniti vi offrono il più prodigioso fra gli esempi. Ammirate voi la forza? I federati della Germania distruggevano l'impero di Roma, e i Tartari, eterni federati dell'Asia, invadevano la China, cioè la nazione la più unitaria, la più compatta che abbia mai esistito.

lo credo giunto il momento di rinnovare l'Italia; io vedo il pontefice giunto all'ultimo grado della demenza (Mormorio), come sovrano temporale. (Ilarità generale)

Voi stessi l'avete combattuto; né la scienza di Rossi, né il valore di Lamoricière non hanno potuto salvare questo Governo, che rassomiglia nella fatale e sovrumana sua ostinazione al senato di Venezia giunto all'ora sua estrema, ad ogni Governo nell'ultima sua agonia. So che nelle crisi di ogni nazione federale l'unità trionfa con universale distruzione; l'unità distruggerà le instituzioni pervertite della patria nostra; ma la costruzione comincierà solo nell'istante in cui sorgerà l'era federale.

TORNATA DELL'11 OTTOBRE 1860.

Signori,

Io volli mostrarmi quale io era; il dissimulare una parte de' miei principii mi sarebbe sembrato cosa poco onorevole, avrei avuto una specie di rimorso, avrei creduto d'ingannarvi quasi! (Bene!)

Io difenderò in brevi parole le mie opinioni, trasportandole nel campo della pratica. (Bravo!)

Io vi confesso che non deploro coll'onorevole preopinante la nuova che si riuniscano Parlamenti in altre parti d'Italia; io desidero la libertà, che sarà sempre il principio dell'unione italiana. È proclamato da tutti il principio del regno italiano; e il dominio di Vittorio Emanuele trovasi egualmente proclamato a Palermo ed a Torino. Trattasi solamente adesso, senza più discutere la quistione di fiducia, di sapere se la annessione debba essere incondizionata o condizionata, assoluta o reciproca, unitaria o federale, e, permettete la parola, piemontese o italiana.

L'onorevole signor Minghetti mi paragonava ieri amicalmente ad un cavaliere del medio evo, il quale, addormentatosi dopo di aver passato, credeva egli, un'ora, si sveglia a capo di un secolo.

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CAVOUR, presidente del Consiglio. (Ridendo) Di cinque secoli! (Ilarità)

FERRARI. Se è di cinque secoli, tanto meglio! (Nuova ilarità) ed accetto il paragone.

Vi furono istanti della mia Vita in cui il presente mi pareva odioso, e lo pareva anche a voi tutti, onorevoli signori; allora io, che amava la patria, la cercai nel passato; rifuggendo lo spirito mio del presente, volli godere della libertà dei sepolcri, della voluttà di meditare sulle tombe e sui mausolei; e, caduto nel sonno magico della scienza, fui d'un tratto risvegliato dal cannone di Magenta e di Solferino! (Applausi)

Risvegliato come il cavaliere del medio evo, io che aveva vissuto lungamente fra le ombre, domandai conto degli antichi contemporanei de' sogni miei; e chiesi ai vicini: c'è ancora il papa a Roma? (Viva ilarità) Mi fu risposto: sì; e vive sempre tra le adorazioni e le sommosse. (Bravo! Benissimo!)

Domandai dell'imperatore di Germania, di Massimiliano I d'Austria, e mi dissero che era accampato ancora nella Venezia, e disgraziatamente non si sapeva se ne sarebbe espulso da una repubblica o da altro Governo; si sperava, ma nulla ancora di certo.

Domandai se Francesco' I di Francia combatteva ancora la Germania, e mi dissero che si poteva sperare che la Corte di Francia, in rivalità con quella di Vienna, soccorrerebbe ancora l'Italia.

Me ne rincuorai. Ma non vi sono armati italiani? chiesi di nuovo; e intesi dirmi: l'Italia ha buoni soldati, gli uni disciplinati, gli altri da ventura; gli uni e gli altri sono egualmente valenti; ma l'unione manca, benché si possano citare molti condottieri a mezzo soldo e a soldo disteso.

Domandai se Giovanni Sforza era ancora a Napoli; sì, mi. rispose un vicino, c'è uno Sforza, cioè che sforza la natura e che va al di là. (Benissimo!)

Siamo noi ancora affezionati alla nostra religione? chiesi di nuovo.

In quel momento (era a Napoli) intesi il cannone e vidi precipitarsi a ginocchio tutta la popolazione, perché il sangue di san Gennaro cominciava a ribollire. (Ilarità)

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E non crediate che io accusi il regno di Napoli per credere al sangue di san Gennaro e al sangue di santa Patrizia, che bolle egualmente, o alla manna che scorre dall'avello di un santo della Basilicata o della terra di Bari! No. Il regno di Napoli è poetico, grande, ingegnosissimo come ai tempi della regina Giovanna, e l'egregio Decaroli mi diede un suo libro scritto colle teorie di Vico volte a spiegare l'immacolata concezione della beata vergine Maria. (Movimento)

Così da secoli camminano insieme in Italia l'ingegno, la poesia, la religione, le avventure; e volete voi, signor Minghetti, mutare quest'antichissima nazione colle sole forze del vostro entusiasmo? No, non ci pensate. Hannovi condizioni economiche, le quali non si oppongono punto, grazie a Dio, alla liberazione italiana, ma che nessun volere entusiastico può mutare per far della nazione un corpo unitario simile alla Francia. Come mai comandare alle strade, alle città, agli edifizi, alle agglomerazioni dei popoli, alla loro tradizionale separazione coll'impeto solo dell'animo nostro?

Mi si dice che il Piemonte non esiste più. Ma io ne sarei afflittissimo. Noi dobbiamo la prima metà della nostra liberazione al Piemonte; agli uomini che qui sorsero, e Garibaldi, e altri, e gli stessi personaggi che seggono sul banco dei ministri iniziarono la nostra libertà, e soggiungo che tra quanti sono in questo recinto nessuno minaccia il Piemonte meno di me, per la ragione che nessuna capitale minaccia Torino. Chi può mai pensare che Roma, che ha 80000 abitanti...

Voci. No! noi il doppio!

FERRARI. Fossero anche 100000, fosse anche questa città sei volte maggiore, non basterebbe, né potrebbe equivalere a Napoli ed alle diverse capitali dell'alta Italia. (Si parla)

PRESIDENTE. Prego i signori deputati di far silenzio.

FERRARI. L'onorevole Boggio mi diceva: riconoscete almeno che abbiamo un regno forte: l'ultima volta che voi avete parlato il regno era di 11 milioni, ora è di 22 milioni. Questa è forza.

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Ripeterò quanto già dissi tre mesi sono.

Considerando il nostro regno come rivoluzione esso è fortissimo; sotto quest'aspetto ho dichiarato che diventerebbe ancora più forte, e certo la rivoluzione delle Due Sicilie non ha oltrepassatole mie previsioni. Sì, il regno è forte contro l'alta aristocrazia dei prelati e della chiesa, il regno è forte contro l'alta aristocrazia dei duchi e dei principi oramai esiliati, il regno è fortissimo contro la loro polizia vinta e dispersa, il regno è terribile contro le loro politiche leggi che avevano mantenute inaccessibili alla civiltà, il regno è irresistibile contro la stolida Italia dei tempi andati; ma non è fatto ancora, è moto e non Stato, è liberazione e non regno.

Diffatti sotto l'aspetto esterno noi non sappiamo ancora qual sarà l'ultimo scontro, in qual misura la liberazione o la rivoluzione nostra sarà accettata, e non dico dalle alte potenze che ci sono ostili, ma dal nostro stesso alleato, unico nostro protettore. In una parola l'esistenza d'una nazione non è stabilita se non quando è costituita in faccia allo straniero, e il regno nostro non è né riconosciuto, né messo alla prova di un inevitabile cimento.

Che se noi non siamo ancora vittoriosi in faccia al nemico, non siamo neppure interiormente ordinati.

Io non voglio muovere nessuna critica amministrativa, né accuso le persone che ci governano; ma di che si occupano esse? Esse sono assorte nella meditazione delle più contrarie possibilità sul modo di rifare la nazione e di rifonderla nel regno, non sanno, secondo le espressioni dell'onorevole presidente del Consiglio, se sarà una monarchia scentrata o uno Stato perfettamente unitario.

Havvi del resto un merito e un vizio nel regno che ci riunisce. Il merito si è di riassumere il moto generale, di spingerlo contro la vecchia Italia, di trasportarci di continuo di combattimento in combattimento; il vizio poi me lo mostrò il signor Armelonghi quando disse: non isforziamo la natura; avanziamoci a poco a poco; se oggi non possiamo ottener tutto, contentiamoci della più gran parte.

Ed io lo confesso, la più gran parte è ottenuta. Dico di più, in mia sentenza,

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l'eccezione di Roma e l'eccezione di Venezia, che sono luttuosissime, al punto in cui siamo giunti, qualora si consideri il regno come uno Stato già definitivamente costituito, non sono se non due disgrazie locali.

Non v'ha nazione nel mondo che non abbia le sue sciagure. L'Irlanda è una piaga per l'Inghilterra; la Germania deplora alcune provincie che giacciono sotto la Danimarca, e, se noi avessimo a deplorare la sola assenza di Venezia e di Roma nel gran convito della libertà italiana, il problema della nazione sarebbe sciolto.

Ma voi non potete fermarvi; siamo in moto: gli stessi conservatori, come il signor Boggio ed il signor Chiaves, sono trascinati dai volontari, dall'eroe; non possono, non potete trattenervi dal dire: vogliamo tutto; e ehi tutto vuole non corre forse il pericolo di nulla stringere?

Le federazioni avrebbero esse il torto, come mi opponeva il signor Boggio di favorire il despotismo, di essere barbare, di essere gotiche, di essere tartare? Ma se i Tartari sono federali come i barbari che invadevano l'impero romano, se moltissimi selvaggi sono essi pure federali, essi sono nel tempo stesso liberissimi.

Né vale il dire che manchino d'industria, di commercio, di civiltà; la forma di governo non si confonde colla civilizzazione, e uno Stato barbaro può essere monarchico come uno Stato incivilito; uno Stato federale può offrire lo stesso vantaggio della libertà, sia desso arretrato come i Tartari, o rapido nella sua corsa come gli Americani del nord. Non accusate la federazione di propagare il dispotismo, accusate bensì l'unità che si svolge in Francia col sangue degli Àlbigesi nel mezzodì, coll'umiliazione dei Normanni a Rouen, col massacro di S. Bartolomeo diretto da Parigi, coll'espulsione degli Ugonotti ordinata da Luigi XIV, e infine coi terrori della Convenzione, che distruggeva il nome degli antichi regni, superstiti sotto il nome di provincie. Questa non è certo libertà.

L'onorevole Chiaves temeva, al contrario del signor Boggio, che al di fuori della monarchia italiana sussistesse una repubblica, un asilo di fuorusciti facinorosi, di nemici dichiarati del Re italiano.

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Qui la federazione diventava ultra-liberale; ma qui devo fare, direi quasi, una rivelazione, ed è... (Movimento d'attenzione) (oh! una rivelazione di principii) (Ilarità generale) ed è che gli uomini accusati di essere avversi al regno, e repubblicani, messi sul terreno della pratica, lungi dal comportarsi come repubblicani nel senso rigoroso della parola, sono più monarchici del signor Boggio e del signor Chiaves.

Noi crediamo alla Costituzione: l'unica nostra forza è quella della pubblicità; una volta stabilito un limite, restiamo liberi, e facciamo consistere la nostra fierezza nello spingere all'infinito la nostra libertà.

Io non vedo il Re, non lo conosco; per me è un mito; solo obbedisco alla legge. Ma i repubblicani, della bassa Italia gridano Viva il Re! più di voi, trasportano i suoi stendardi là dove non vorreste trasportarli voi, e, impazienti di allargar il suo dominio, poco si curano della legge e della libertà. Necessariamente tratti a cospirare, essi prendono i cannoni dove si trovano, i fucili e le polveri dove sono; e, sicuri anticipatamente di vedersi giustificali dall'evento, ogni transazione occulta, ogni abbandono de' loro propri amici nulla costa alla loro propria fierezza, la quale tratto tratto si raddolcisce e dilegua misteriosamente in voti di strana fiducia nei Ministeri avversi.

Brevemente, i repubblicani della bassa Italia non dovrebbero avere dinanzi a voi che il torto di essere ultra-realisti. (Ilarità)

Spesso, dal 1830 all'epoca presente, nei comitati di Parigi e di Londra i repubblicani italiani si mescolavano di continuo ai repubblicani francesi per discutere i loro comuni affari. Stando ai loro programmi, sembravano essi concordi; ma ogniqualvolta si veniva all'azione, si vedevano separati da una subita contraddizione. Il repubblicano francese voleva distruggere il Re, il repubblicano italiano non lo voleva distruggere, voleva servirsene. (Movimento)

Mai re non sono essi fatti pel servizio dei popoli?

Voglio dunque conchiudere che, se nello scopo la maggioranza sembra unanime, essa si scinde appena si discorre dei mezzi. Gli uni vorrebbero andare nelle Due Sicilie per isviluppare, gli altri per fermare la rivoluzione;

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gli uni per impedire la pretesa repubblica, gli altri per esagerare Fattuale libertà. Non havvi vera maggioranza, non vera unanimità, siamo tutti in moto alla rinfusa, con idee astratte, e col pericolo di nulla stringere, a cagione del troppo assolutamente volere la totalità, cioè Punita italiana.

Risponderò ora al signor La Farina, che mi rimproverava di considerare come semplici particolarità i fatti gravissimi, terribili della patria sua. Io dichiaro che accetto i fatti quali furono da lui esposti, non ne dubito punto, li accetto senza minuta verificazione, e come furono accettati da tutti in quest'Assemblea ed anche dall'onorevole Depretis, malgrado alcune differenze amministrative e, direi quasi, ministeriali. (Ilarità)

Ma se prima io rispettava l'illustre generale, adesso l'ammiro assai più, ne vedo maggiormente la grandezza.

Perché i fatti dal signor La Farina riportati sono grandi, tragici, essi riempiono l'animo di meraviglia e di spavento; eppure sì alto è il volo, di Garibaldi, sì straordinaria la sua missione, che essi svaniscono, assolti dall'assoluta necessità della rivoluzione. Né si separi il generale dagli amici suoi; sarebbe cosa impossibile non in un eroe, ma in uomo onorevole. Si nasce, si vive, si muore coi propri amici. (Rumori)

Stiamo ai fatti: il generale giunge in Sicilia e destituisce in massa tutti i municipi. Ecco un inescusabile disordine, una incontestabile anarchia; non v'ha modo di dissimularne gli strazi. Ma se lasciamo sussistere i municipi, la rivoluzione è perduta; Garibaldi dovrebbe ritornare a Genova, e forse non lo potrebbe.

Procediamo adunque; alle destituzioni dei municipi succede quella dei magistrati, e resta l'isola senza governo alcuno; la vita, la libertà, i beni dei cittadini cadono in balia di nuove e forse sconosciute persone. Ma, signori, siamo sulla terra dei Vesperi siciliani; un minuto perduto reca la morte. Innanzi.

Si danno i pascoli ai militi; e mai e poi mai il signor conte ci Cavour avrebbe sottoscritto quel decreto che da alle bande inorganiche di un generale gli immensi pascoli della Sicilia, terre che saranno la ricchezza avvenire dell'isola.

Le da ai militi...

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CAVOUR, presidente del Consiglio. Io no. (ilarità generale)

FERRARI. Garibaldi le da. Questo è disordine, misura che nessun Governo regolare avrebbe precipitata, nessun Parlamento sanzionata; ma se la rivoluzione non la decreta, la rivoluzione è perduta. Quindi ai militi le terre, quindi nuovi soldati sorgono da un suolo dove si ignora la coscrizione e si abborre ogni servizio militare; quindi nasce terribile e confusa nelle moltitudini quest'idea, che comincia ornai la guerra del popolo contro i borghesi. Voi piangete sul disastro di Bronte, dove cadono pugnalati trenta cittadini, prime vittime della guerra sociale. Piangete pure: ma dove vedrete voi in un Governo un progresso qualsiasi, senza disordine, senza spargimento di sangue, senza tragedie cittadine? Questa è cosa umana. Il generale è giustificato. (Applausi dalla sinistra)

Voi mi direte per avventura: il generale atterrisce l'isola, il genio suo ne spaventa i tranquilli abitanti, gli onesti borghesi cercano uno scampo, si parla di annettersi immediatamente al Piemonte, l'oro diventa annessionista, i più ricchi tra i Siciliani sono impazienti di veder cessare lo sconvolgimento; e chi non sarebbe stato impaziente? Ma il demonio della rivoluzione è spietato. Bisogna andare sul continente, bisogna andare a Reggio; se gli annessionisti fossero ascoltati, se l'annessione fosse fatta (cosa forse ottima per l'avvenire), giungerebbe subito il Governo regio di Torino, la rivoluzione si fermerebbe, e Reggio sfuggirebbe. Innanzi. Si moltiplicano i disastri, le lotte e le tragedie; ma voi dovete a questa tragedia il regno di Napoli, dove, vinta una piccola resistenza a Reggio, la rivoluzione vola subitamente di città in città, il generale Garibaldi può entrare solo a Napoli con sette ufficiali. (Bene!)

Emergono forse disordini a Napoli o nella Basilicata o nella provincia di Salerno? Lo dimando ai Napolitani che mi sembrano inclinati all'affermazione.

SCIALOIA. In tutto il regno.

FERRARI. Mi pare impossibile, ma dichiaro all'onorevole Scialoia che se un ministro di Luigi Filippo nel 1832 o 1833 avesse voluto citare lettere analoghe alle sue lo avrebbe potuto.

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In ogni modo, senza attenuare la gravita di nessun disordine, osservo che si tratta di una rivoluzione, di un immense rivolgimento compiuto con una magica rapidità, e nel quale ogni risparmio di mezzi sarebbe stato una sentenza di morte. Bisognava marciare colla velocità del fulmine per giungere a tempo; e chi accuserà Garibaldi di non avere trionfato?

Mi ricorderò sempre l'istante fortunato in cui io ebbi l'onore di stringergli la mano. Da tre giorni, mi disse, io tremava; eravamo qui da tre giorni senza cartuccie; se i Borbonici ci avessero assaliti, noi eravamo messi in fuga, distratti, e le cartuccie erano nel castello dell'Uovo, alla distanza di un'ora, e giungevano fortunatamente quasi collo stesso convoglio che mi trasportava da Napoli a Maddaloni. Ecco tutti i mezzi alla disposizione del governo, dell'armata, ed ecco il governo, l'armata senza mezzi, senza munizioni. Eravi dunque un abisso tra il generale e l'amministrazione. In apparenza il primo regnava, in realtà nessuno obbediva; un regno tradizionalmente soggetto ai Borboni, e subitamente in balìa di pochissimi capi, ed assolutamente nuovi, ondeggiava tra lo stupore, il torpore, il tradimento: e come mai volete voi intraprenderne la critica dietro principii economici, savi e regolarissimi, ma infine inapplicabili affatto alla terribile Sicilia ed alla sconsigliata terra di Napoli?

Il signor Carulti mi offre l'occasione di conchiudere il mio discorso.

Egli mi dice: voi siete federale, ed è questa un'opinione come un'altra; ma alla fine voi siete fuori della nazione: dov'è la federazione italiana nel passato! Se invocate la tradizione producete l'esempio, io non conosco la federazione italiana.

La stessa obbiezione fu fatta molte volte da storici altissimi} e lo stesso Machiavelli l'avrebbe promossa. Ebbene io dichiaro che non prendo i miei antecedenti né nella lega lombarda, né in altre cento leghe toscane, romagnole, anconitane; non prendo nemmeno il mio punto di partenza (e ne sarei autorizzato) nella gran lega italiana del 1484, che fu la lega del risorgimento, la federazione colla quale si svolse la grande epoca di Leone X: la fu una lega triste, passeggiera, disonorata da mille tradimenti;

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io la disdegno: ma la gran lega italiana, la lega che tanto sollevò la patria nostra al disopra di tutte le altre nazioni, la vera federazione nazionale fu quella del papato e dell'impero, del patto di Carlomagno colla Chiesa. (Mormorio)

In altri tempi, in mezzo ad altre instituzioni, fu con questo patto stabilito: che mai alcun despota regnerebbe sulla terra italiana; e dall'ottocento in poi ogni despota nazionale ebbe mai sempre fortuna tragica su questa terra, perché il pontefice disarmato e l'imperatore assente per principio doveano regnare; e non aveano altra ragione di essere, e non se per impedire il dispotismo di un reame indigeno.

Ma, mi risponde il signor Carutti, tutti i grandi della nazione furono sempre unitari; lo fu il Dante, lo fu Machiavelli. Ed io riconosco il primo, che lo furono gli uomini più avanzati dei nostri tempi, che voi stessi essendolo, avete il diritto di dirmi: seguiteci, noi siamo i veri capi della nazione; chi resta indietro resta coll'Austria. Voi vedete che non dissimulo l'obbiezione dell'onorevole signor Carutti.

Sì, Dante fu unitario fino a desiderare la distruzione di tutte le città che si ribellavano contro i principi suoi. Machiavelli giunse fino a desiderare che un Borgia regnasse sulla penisola nostra.

Voi unitari vi sdegnate contro ogni incertezza nel regno; altri, più avanzati di voi, vi oltrepassano nella via della stretta unità; Garibaldi propugna, anticipa le annessioni. Ma qui si tratta dell'unità dell'idea, dell'unità di un moto generale, in cui la nozione del giusto procede, sola astrazione fatta del peso economico in ogni città, qui la rivoluzione sola procede e chiede unità di direzione, di concetti; e sotto questo aspetto unitaria era la Grecia sotto Pericle, la Germania sotto Lutero, e sono anch'io unitario e chiedo l'unità dell'esercito, delle finanze, delle leggi generali, delle forze nazionali.

Qui siamo tutti unitari, siamo fratelli, io sono vostro; e se siete avvolti in una catastrofe, io ne accetto, non dirò la responsabilità politica, ma tutti i dolori, tutte le sciagure. Ma ricordatevi che se la rivoluzione è superiore a tutte le forme, se trascina tutti nella stessa via,

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giunge l'istante in cui essa si ferma, in cui s'arretra, in cui chiede nuovi ordini e domanda la pace di un governo.

Permettetemi adunque di supplire all'azione vostra, di compierla, di pensare all'avvenire, di riservarvi alcuni pochi amici che divideranno sempre tutti i vostri dolori, lasciandovi ogni vostro trionfo.

Voi trionferete, non vi ha dubbio. Tutta la scienza vi acclama, tutte le tradizioni italiane da sessant'anni vi dicono che il periodo della rivoluzione francese deve compiersi anche qui. Andate innanzi adunque, e non v'incresca in caso di disastro di avere ancora un amico.

(Applausi)








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