Pubblichiamo le Lettere Napolitane di Pietro Ulloa tradotte in italiano dal Salzillo. Le nostre pur modeste conoscenze del francese non ci impediscono di rilevare che la traduzione è imperfetta - lo stesso Salzillo lo ammette. Appena ne avremo la possibilità – lo ribadiamo, siamo webmaster per passione e non per professione – pubblicheremo anche la versione francese. Buona lettura! Zenone di Elea, 25 settembre 2009 |
LETTERE NAPOLITANE DEL MARCHESE PIETRO C. ULLOA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DE MINISTRI DI SUA MAESTÀ IL RE DELLE DUE SICILIE TRADOTTE DAL FRANCESE PEL CAV. TEODORO SALZILLO Socio corrispondente di varie Accademie SECONDA EDIZIONE DELLA PRIMA VERSIONE ITALIANA CON NOTE INTERESSANTI ROMA TIPOGRAFIA DI ANGELO PLACIDI Via di S. Elena N.71. 1864. Scarica il testo in formato ODT o PDF | DUE PAROLE AL LETTOREQuando prendemmo a tradurre le lettere napolitane, vi fummo incoraggiati dalle lodi che avean levato in quasi tutta la stampa europea. L'Union diverse volte le Mercure de France, la Gujenne, la France Centrale, l'Esperance du peuple, l'Union de l'ovest ecc: in Francia, le Journal de Bruxelles, l'Emancipation e di giornali fiamminghi nel Belgio, molti giornali tedeschi, il Tablet, il John Bull, il Morning Herald e lo Stendard, in Inghilterra, La Civiltà Cattolica, l'Osservatore cattolico, il Firenze, l'Unità Cattolica ecc: in Italia) tutti parlarono con alte lodi di quel libro. Noi non potevamo confidare di rendere colla stessa forza in Italiano un'opera che in Francia erasi tenuta scritta con lingua e perfezione di stile da fare invidia ai migliori maestri nell'arte di scrivere (Union del 4 Gennajo 64). |
Non potendo dunque affannarci a dare alla traduzione la stessa purità di lingua ed eleganza di stile volendo sopra tutto render nota l'opera perché meglio si conoscessero i fatti di Napoli e le condizioni dello pseudo regno italiano, ci affrettammo a pubblicarne la versione, corredandola qua e là di talune note per chiarir molte cose, che Fautore non disse o non volle dire, per indicare molti nomi, che per prudenza politica o carità cristiana non indicò, e per accennare a molti fatti accaduti o venuti in luce dopo la pubblicazione dell'opera.
La stessa ragione che ci fece affrettare nella traduzione, ci consigliò a venirla pubblicando man mano e per fascicoli.
Ora però intendiamo a pubblicarla ad un tratto, ponendo mente un poco pia alla lindezza dello stile ed aggiungendo qua e là, se sia possibile, altre note.
Confidiamo che questa nostra fatica possa incontrare nello stesso favore che ha meritato la prima, unico nostro scopo essendo quello che si apra a tutti la verità intorno ai fatti che han distrutto l'ordine, la pace e la prosperità dell'Italia.
Roma, li 2 Agosto 1864
La Storia singrona ammaestra direttamente, ma deve combattere le vive passioni ed opinioni del momento. Essa non può sperare di svellere dal cuore ingiuste prevenzioni, e né tampoco scemarne la violenza; poiché è impossibile distruggerne il potere. Ma d'altra parte, trattandosi dei destini della patria bisogna saper sfidare lo sdegno dei contemporanei.
Però io nel pubblicare queste lettere espongo solo i fatti nel loro sviluppo con la tinta del colore politico dei tempi in cui vennero scritte, e rendendole di pubblica ragione vi ho aggiunto soltanto quelli che sono avvenuti posteriormente alle loro date. Non consegno alla luce quelle dirette ad Italiani salili in fama per lettere, scienze e politica; conoscendo che è vezzo dei partiti di non mai risparmiare i vinti. Credo che vi si troverà moltissimo a meditare, e non pochi giovevoli insegnamenti vi si potranno attingere, senza di che la Storia diventerebbe lettera morta, scapiterebbe nel suo decoro, ed ogni utilità verrebbe a perdere. Se mi è impossibile domar la passione che si muove a sdegno contro il delitto, e protestar contro la fortuna, anche essendo parziale, porto speranza di non esser giammai ingiusto.
Le mie lettere esporranno la verità, null'altro che la verità, e se talvolta mi incontrerò ad esser severo, avrò ceduto ad una tendenza che prendeva origine dal medesimo sentimento dell'amor nazionale.
Gaeta
Al Sig. Barone di Beust Ministro degli Affari Esteri a Dresda
Sig. Barone,
Gaeta è caduta. Noi abbiamo lasciate, partendo, fortificazioni smantellate, case e monumenti crollati, o dai proiettili forati, e le strade insanguinate. Quella parte di popolo che altra volta era la parte più avventurosa e più eletta della nostra Società, ci vien compagna nella terra dell'Esilio per poi disperdersi nelle città d'Europa a procacciarsi il pane del mendico; e così i doviziosi addiveranno poveri, ed i poveri si riduranno nell'estrema indigenza — Il timore e l’inquietudine appariscono nel volto di tanti vecchi Soldati il cui cuore è fortemente agitato — Il Re e la Regina sotto le volte del Quirinale ripareranno le loro teste, ma non tarderà quell'asilo ad esser segno di spietata invidia!!! Essi» insieme a quelli che seco loro spartirono perigli e sventure saranno al supplizio della speranza dannati, che per tutti i proscritti è supplizio terribile!!! Alle vittime del dovere, della generosità e dell'onore, oscuro ed incerto l'avvenir si mostra; ma il Re però può a ben donde ripetere con l'eroico Francesco I. tutto è perduto fuorché l'onore! benché la sventura ogni fronte costringe ad inchinarsi.
Il 9 di Febbraio per Gaeta l'ultim'ora non era ancor toccata, ma un cerchio di ferro circondava la piazza; cadendovi una pioggia di proiettili che per ogni dove scoppiavano. Un principio d'incendio minaccia la riserva delle munizioni, e gli artiglieri con perizia ed annegazione l'estinguono. L'indomani il fuoco degli assedianti
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era divenuto
più che premente, ma i prodi artiglieri e marinai si battevano come
leoni. Tutti eran nel loro posto, compatti, anneriti di polvere e
sanguinanti, ma risoluti anziché arrendersi, morire; e perciò
gareggiavano a prender posto dove il pericolo mostravasi maggiore. Le
chiese, le case, ì monumenti sono io rovina, e la città orribilmente
soffre, mentre le donne ed i fanciulli sono schiacciati nelle loro
abitazioni, nelle strade e fin nei sotterranei, talché al giunger della
sera non l'ardore, ma la stanchezza aveva fatto sospendere il fuoco.
Dal 4 Febbraio però questo valore era adoperato inutilmente, giacché la esplosione di quattro polveriere, l'apertura di due brecce, la perdita di non pochi sol dati, causata dal tifo e dal fuoco, e la mancanza di munizioni e di viveri costringevano alla resa. La guarnigione pertanto senza scoraggiarsi domandava, per mezzo dei suoi capi, prolungarsi la resistenza, la sua fermezza non si smentiva; ma senza un barlume dì speranza era a sé stessa abbandonata. Per la qual cosa il Re cedendo di proprio moto ad un umanitario sentimento pose termine a questo doloroso sacrificio di vittime fedeli, ohe per l'avvenire era divenuto glorioso, come pel momento era inutile. All'uopo convocò nel dì seguente il suo Consiglio, come una assemblea di famiglia, in cui presero parte la Regina, i Conti di Trani e Caserta, e i due Ministri. In quel momento di suprema discussione ogni fisionomia era atteggiata a tristezza ed il cuor di ciascuno, gonfio dal dolore era impotente alla parola. I due Principi che si erano esposti sempre al pericolo e che nell'amor fraterno avean spesso trovati ostacoli, taciturni e dignitosi se ne stavano, quasi presentendo l'ultim'ora della secolare Monarchia e della Nazionale indipendenza. Il più degli uomini serbano un grado di coraggio per condursi con valore, ma il Re in questa circostanza mostrò averne una dose maggiore: poiché perduta la corona, affrontata la guerra, sofferto il tifo e visto lo spettacolo delle
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sofferenze
della fedele soldatesca, non mai gli venne meno la bravura e l'energia,
che altamente onorano la sua resistenza. Egli espose con aria
tranquilla lo stato della piazza, e domandò se doveva io vista di esso
assentire ad una capitolazione. I ministri comprendendo che la fortezza
non poteva più sostenersi, e che gli istanti più che i suoi giorni
erano contati, avvisarono, prorompendo in lagrime, per la resa ed i
Principi profondamente commossi con un lento chinar di testa fecer
segno di consentimento.
Durante i due giorni destinati a discutere i patti della capitolazione, gli assedianti che ci rifiutarono una tregua non ristettero dal molestare la piazza coi loro proiettili. Si stava per aprire il Parlamento di Torino e si voleva poter annunziare la presa di Gaeta, ma l'energia degli assediati faceva temerne. Il fuoco acquistò in poche ore tale una violenza non mai avuta; sicché il Cielo istesso pareva infiammato — Tremendo spettacolo! Le case matte minacciano rovina, quella della giovin Regina è sul punto di cadere, le cannoniere sono discese al livello della spianata, le bombe scoppian sulle case, sulle Chiese e sugli ospedali, facendo numerose vittime tra gli abitanti più infelici. la fine tutto crolla e non vi è più strada praticabile, né più luogo sicuro. Niuno però si allontana dalle batterie, tutti sono vicini ai cannoni, ed a vicenda s' invidiano il posto dell'onore e del pericolo. Tre o quattro giovinetti dai quindici ai sedici anni, fuggiti dal collegio militare di Napoli per dividere i pericoli dell'assedio, più d'ogni altro si distinguono» La riserva delle munizioni ed il laboratorio in questo punto saltano per aria con un orribile fra casso; e dalla forza della polvere un giovane uffiziale di artiglieria e pochi soldati sono lanciati in alto, ricadendo nel mare. Una casamatta rovina, e rovinando seppellisce soldati ed artiglieri. I piemontesi a tal vista, presenti i plenipotenziari napolitani, che conchiudono la capitolazione, emettono grida di gioia, battendo le mani palme a palme, come assistessero ad uno spettacolo festivo.
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Questa è l’ultima lotta, ma lotta disperata; poiché il sacrifizio, firmata la capitolazione, e consumato —
Nella sera del 13 la casamatta Reale era ingombra di uffìziali di ogni grado che venivano a testimoniare al Re il loro costante rispetto, che in quel momento si rendeva più alle sue qualità personali, che alla dignità del suo rango, appalesando col loro silenzio tristezza ed abbattimento. Il Re, nel ringraziarli li elogiava, ed in questa occasione con sovrana dignità rammentò loro ciò che aveva fatto, e quello che avrebbe voluto intrapendere a fare per la felicità del paese. Difatti senza posa erasi interamente dedicato alle cure del governo, ma al vigore giovanile no#n ancora aveva potuto unire quella esperienza e maturità che portano seco gli anni — Egli aggiunse di più, che non si sarebbe mai dimenticato della loro fedeltà ed attaccamento, e ne conserverebbe una viva gratitudine, e questa ricordanza nell'esilio e nel ritiro gli sarebbe della più dolce consolazione e conchiuse facendo voti alla Provvidenza per la prosperità del suo regno e per la felicità dei suoi intrepidi difensori — Durante l'addio del Re tutti piangevano, chi per l'ammirazione della sua grandezza d'animo, e chi commosso per le sincere espressioni dell'amore che sentiva per i suoi popoli —
Ma l'ora della separazione e della partenza era suonata, poiché alle otto del mattino l'avanguardia piemontese principiava a penetrare nella piazza, ed a salire in sulle battone. La Muette, vapore di guerra francese ed i bastimenti spagnoli che dovevano ricevere il Re non giungevano ancora; pel qual ritardo il giovin Eroe si decise di recarsi sulla Partenope, fregata napolitano, che era disarmata in porto, ma nel momento di eseguirsi il disegno, la Muette comparve — Allora il Re e la Regina sortirono dalla casamatta seguiti da' Principi, Ministri, Generali, gentiluomini e da un gran numero di uffìziali di ogni arma e grado, passando immezzo alla guarnigione che era schierata in battaglia fino alla porta di mare.
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I
soldati laceri e defatigati con gli occhi abbattuti presentavano le
armi e la musica dei reggimenti suonava la marcia reale. Quest'inno,
opera del Paesiello, durante il bombardamento si suono continuamente,
ed allora questo pezzo, d'armonia faceva un contrasto doloroso col
rumore spaventevole delle artiglierie, ma in questo momento solenne
queste note cosi armoniose e tenere, fecero altra impressione, poiché
ricordavano ben altri giorni, talché l'emozione diventò generale, e le
lagrime sgorgarono dagli occhi di tutti. I soldati gridando viva il Re
non facevano sentire che suoni rauchi misti a singulti, e la
popolazione esposta a dure prove durante il combattimento, si precipitò
allora sui passi del Re per baciargli chi le mani e chi gli abiti, e
parte di essa dall'alto dei balconi, convulsa, agitava i bianchi
fazzoletti come affittuoso segnale dell'estremo addio — I soldati si
prostravano singhiozzando dinanzi al Re, e gli uffìziali oppressi dallo
stesso dolore si gettavano nelle braccia dei loro soldati
scambievolmente abbracciandosi; e di quest'ultimi vi furon molti che
strappandosi le spallette, ruppero le spade e le gittarono al suolo. La
commozione era si generale e profonda che non si sapeva più altrimenti
esprimere — II Re si commosse altamente del dolore universale, ma
serbando la più perfetta eguaglianza d'animo, non pareva di altro
occupato che a consolare i suoi soldati e a mitigarne il dolore — Egli
non poteva aprirsi il varco in mezzo a coloro che da tutte parti lo
circondavano, e alla giovin Regina per questo fatto spuntarono per la
prima volta le lagrime dagli occhi. Alla perfine il Re uscendo dalla
porta di mare salutò colla mano i suoi eroici soldati, e s imbarcò col
suo seguito e con quei Francesi che fino allora s'erano a suo servizio
dedicati e con tale annegazione e bravura da potersi chiamare temerità.
In quella che la Muette lasciò il porto una batteria rese gli ultimi
onori al Re — II rumore del cannone si innalzò per l'aere come il
singhiozzo del moribondo...
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le grida di viva il
Re! spinte dai cannonieri nel momento in che abbassavasi la bandiera
Napoletana ci strinsero il cuore, poiché sembravaci quella bandiera un
funereo lenzuolo che si gittava sulla Monarchia di Carlo III e gli
stessi francesi della Muette erano commossi come i napolitani — Ed in
tal modo, Signor Barone, si è terminata la resistenza di Gaeta, il più
memorabile avvenimento dell'invasione del Regno. Essa ba avuta una
durata di tre mesi e mezzo, e nessun giorno è passato senza che gli
assedianti non avessero fatto qualche sforzo per sottomettere la
Piazza, dal cui destino sapevano dipenderti? quelli del Regno di
Napoli, nonché dell'Italia. La difesa fu vigorosa ed ostinata, degna
della causa, di un migliore successo — La piazza ha lottato contro le
macchine inventate dalla moderna balistica, e sola la costanza e la
divozione della guarnigione han potuto bilanciare la gran superiorità
delle armi — II mondo ha contati i giorni della difesa, ma ignora
ancora tutte le sofferenze ed i pericoli affrontati dalla Real
Famiglia, dai Ministri, dai gentiluomini e dalla guarnigione che
difendeva in questa Missolungi Napolitana l'ultimo baluardo della
indipendenza Nazionale — La guarnigione se ha dovuto cedere, esige però
rispetto dal nemico, che deve ammirarne il suo coraggio»
A bordo della Muette li 14 Febbraio 1861.
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Allo Stesso
Signor Barone,
Ci
viene riferito che ieri cinquemila uomini in circa, residuo dell'armata
Napolitana, hanno deposto le armi, d'avanti al generale Cialdini, e
così il Conte di Cavour che può contare sopra un bel trionfo
parlamentare!!! Si racconta che il vecchio generale Milon sortendo
dalla Piazza, alla testa di quella guarnigione, s'è avveduto che alcuni
Uffiziali piangevano per l'ira è per la disperazione! — Figliuoli miei
(ha detto a loro) durante la mia lunga carriera mi son trovato sette
volte in guarnigione ridotta a capitolare, è tre volte sono partito da
questa stessa piazza. Alla mia età non posso sperare di rimirarvi, ma
voi giovani ancora, voi vedrete altri giorni in cui potrete riprendere
le armi per la redenzione della patria vostra!—Nel mentre che la
guarnigione deponeva le armi, tre uffìziali disertori in Luglio e che
attualmente servono nell'armata piemontese, si sono dati in spettacolo,
marciando fieri ed allegri d'avanti ai ranghi dei loro vecchi
commilitoni — II tradimento e la paura non comprenderanno mai il
trionfo dell'onore e della lealtà — Qualunque esse siano le inquietezze
e le angosce dell'ora presente, le anime degli ultimi ed eroici
difensori del dritto e dell'indipendenza della lor patria sono di già
nobilitate, malgrado il secolo e gli esempi contrari; e se la brutalità
degli avvenimenti li ha schiacciati, possono però da questo momento
contare sul giudizio della storia.
La giovine Regina è stata ammirabile pel suo eroismo. Questa Principessa di svelta e sottile statura, ha gli occhi soavi e dolci e nei diciotto anni che conta possiede
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moltissima grazia ed attrattive. Non
conobbe la grandezza d'un Trono che per le disgrazie. Dal primo istante
dichiarò che Essa voleva dividere i pericoli del suo Sposo Reale, e
#quando il generale Cialdini fece dire che si poteva lasciar sventolare
una bandiera sul palazzo della Regina, fece rispondere che preferirebbe
farla inalberare sulla chiesa di S. Francesco. Quando visitava le
batterie veniva accolta con vive acclamazioni de’ soldati i quali non
si stancavano d} ammirarla, e se il fischio, dei proiettili faceva
succedere l'inquietudine all'ammirazione, Essa non faceva altro che
sorridere. Un obice scoppiò nel suo appartamento e quasi a' suoi piedi,
ma non ne fu menomamente turbata, e disse sorridendo a quelli che si
rallegravano di vederla sana e salva: Eppure avrei desiderata una
piccola ferita! Allorché le s'impediva di uscire facendosele osservare
che non mancava il nemico di rimarcare il suo brillante seguito, Essa
andava a sedersi tranquillamente innanzi alla sua finestra con un libro
alla «roano. La sua grazia fiera ed amabile eccitava l'entusiasmo e le
grida frenetiche dei soldati. Negli ospedali era sopratutto una
provvidenza, ed allora il cuore della donna temperando più che mai la
severità delle sue grazie con una tinta dolce, produceva negli ammalati
e ne' feriti un incanto incredibile, in modo tale da parere che quegli
infelici obliassero ogni male e sofferenza innanzi ad una semplicità
così attraente e ad un naturale così perfetto.
Il Re e la Regina scesero a Terracina ed io passai dalla Muette sul Brandon per continuare il mio cammino fino a Civitavecchia, durante il quale ebbi sempre il cuore tristo, non avendomi potuto mai sottrarre dalle mie cupe preoccupazioni. Nell'appressarmi a Roma sentii il cuore consolato, come se Dio mi avesse fatto risplendere giorni felici — La mia memoria era ostinatamente occupata da quei versi di Virgilio.
AETERNAM MORIENS FAMAM CAIETA DEDISTI!
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Ma
la difesa di Gaeta sarà ristretta solo nella gloria d'aver sostenuto
l'onore del paese? Son certo di no; perché quegli uomini, che han
pugnato per la vera indipendenza e libertà della patria, sono gli
assicuratori, e tutto mel dice, dei destini dell'Italia; ed un giorno
si vedrà l'emancipazione della Penisola spuntare dal sangue generoso
dei difensori di Gaeta. Il nobil cuore del Re ha riportato trionfo
sulle prevenzioni più ostinate; il suo prestigio non può perire in
quelli che sono abituati fin dalla loro nascita a rispettare la
Dinastia dei Borboni. Il discendente di Enrico II è il passato coronato
vivente per mezzo dell'avvenire. Egli ha protestato, e ne ha latito
appello alla giustizia europea, al dritto delle genti ed all'onore,
poiché il dritto della forza non può sempre trionfare.
Il proclama dell'8 Dicembre è il testamento politico del Re. Pel tuono degno e per la fiducia che ispira questo proclama gli spiriti si sono riempiuti di fede nello avvenire, di coraggio e di costanza nel presente. Si conosce chiaro che il Re lasciando la terra Napolitana ha seco portata la felicità del regno. La sventura fa divenir grande ogni cosa, ma in questo caso quella grandezza è nell'infortunio! Di già si è inquieti, e i più sinceri sono costernati di vedere che questa rigenerazione tanto preconizzata, si è limitata alla devastazione del paese; allo spargimento del sangue, alla negazione dei loro voti patriottici ed a fare della loro patria una provincia non dell'Italia, ma del Piemonte. Ed il modo con cui il Piemonte abuserà della sua vittoria, renderà la reazione negli spiriti più pronta e più completa. Ben presto si sentirà che la causa della giustizia, della legalità, e della civilizzazione liberale è identificata con quella della monarchia e della indipendenza. Tutto può aspettarsi da un momento di energia, da un incidente che potrà esser la scintilla d'un vasto incendio. Le passioni represse e celate nel momento, siatene certo, dovranno da se stesse scoppiare un giorno, con la più grande violenza, e propriamente quando l'immagine della patria si sarà
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svincolata
dalle tenebre. Il giorno del trionfo non tarderà a comparire; ed in
quello saran da compiangersi soltanto coloro, che combattendo morirono.
Roma 16 Febbraio 1861.
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Al Signor Duca de la Rochefoucauld-Dondean.
A Parigi.
Signor Duca,
Spesse
fiate erasi veduto in Europa lo spettacolo del distacco di provincie,
di Stati che si formavano s'ingrandivano o si disfacevano, di Sovranità
che cambiavano di luogo o che si aiutavano a sparire: forse però non si
erano mai vedute brusche invasioni, conquiste: in piena pace, provincie
strappate di sorpresa, ratti di popoli concertati nei misteri delle
sette o con la complicità dei Gabinetti, come è accaduto nel regno di
Napoli. Io non voglio raccontarvi le peripezie del dramma della
rivoluzione, napolitana, che doveva mutare la situazione dell'Italia e
l'aspetto del mondo Monarchico in Europa; ma desidero constatarvi la
dignità con la quale cadde la monarchia di Napoli, una delle più
antiche e delle più illustri che fossero nel mondo — Non si è voluto
affatto prestar credenza che il Re lasciò Napoli per risparmiare il
sangue dei suoi sudditi e la grandezza della sua patria; come pure non
s9 è voluto vedere in questo Principe cavalleresco ritirandosi in mezzo
delle sue schiere, Carlo X, che abbandona Rambouillet per guadagnare la
rada di Cherburgo; ma si è voluto paragonare a Giacomo II nel quale,
vincendo paura ogni altro sentimento, recossi a pricipitanza sulle rive
di Medwey ed abbandonò due volte Londra, senza adottare niun
provvedimento per la difesa della capitale, e pel mantenimento
dell'ordine e della giustizia; avendo avuto soltanto cura della sua
persona. Questo esempio è malamente applicato per un giovine Re, il
quale oltre che si trasferisce nel mezzo delle sue truppe per
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lottare
con eroismo e difendere la sua corona e l'indipendenza del paese, ma
nell'allontanarsi dalla sua capitale vi lascia un governo ed una
guarnigione, ed Egli si reca a prendere il supremo comando della sua
armata stanziata sul Volturno, dove non si mostrò mai al di sotto del
destino, che la Provvidenza si compiacque assegnargli—Intanto non pochi
Re sono stati obbligati dalle incertezze e dalle sorti della guerra, ad
abbandonare le loro Capitali. Filippo I per ben due volte sortì da
Madrid, ed il Conte di Cavour osa dire che l'allontanamento di
Francesco II costituisce un'abdicazione; dimenticandosi che nell'anno
precedente aveva seguito il suo Re, che abbandonava Torino, in vista
dell'invasione, al punto, che gli Austriaci, con un poco più
d'arditezza avrebbero potuto occupare quella Capitale. —
Egli è ben facile il dire che con un poco più di energia la rivoluzione di Napoli sarebbe stata domata. — In quanto a me non vi ci presto credenza, giacché quella di Napoli non era solamente una rivoluzione intestina, che fosse nelle idee più che nei fatti; ma era una rivoluzione complicata ad esterne quistioni, cosicché tanto i concetti quanto l'appoggio partivano dall'alto anziché venire dal basso — La politica esteriore di tutti gli Stati dipende essenzialmente dalla loro interna politica, ma gli Stati di second'ordine disgraziatamente s'aggirano nell'orbita dei grandi Imperi. Un nuovo regno nel 1859 poteva promettere un'era novella di pace, di concordia e di prosperità, se la rivoluzione e le ambizioni della casa Savoia non vi si fossero opposte — All'indomani del 22 Maggio 1889 la Monarchia di Napoli era nel suo essere, gli ordini della società restavano qual erano, tutte le amministrazioni continuavano a funzionare, le leggi eran rispettate, il potere militare dello Stato, serbate le proporzioni, era imponente; sembrava infine che la macchina politica funzionasse come per lo innanzi — Per verità pochi spiriti sapevano apprezzare le cause celate che potevano cagionare il più strano e drammatico rovesciamento. Intanto oscuri timori turbavano
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la quiete
generale, spaventando la previdenza degli mini illuminati — Questo era
il lavorio insidioso delle società secrete che, propagando nell'ombra
il principiò dell'unità Italiana, lo diffondevano nell'intera Penisola
— II governo di Napoli non ignorava di quali mezzi nascosti si
servivano coteste sette, composte della maggior parte d'esiliati del
regno delle due Sicilie, per diffondere nelle popolazioni il veleno
delle loro sovversive dottrine, le quali per più volte erano state
denunciate all'Europa col mezza di pubblici giudizi — In questo mentre
un mal definito timore s'impadroniva delle masse; e si avvertiva che le
incitazioni dall'estero potevano in meno di pochi mesi tutto
confondere, e condannare il nuovo regno a perire nell'impotenza.
Il Piemonte dopo il 1849 si era sforzato a rialzarsi moralmente dalla sconfitta militare di Novara, e lavorando senza posa per i propri interessi, si era impadronito di tutte le speranze d'una divozione eroica e disinteressata, atteggiandosi ad aperta ostilità contro il Regno di Napoli. Da dieci anni accordava asilo agli emi grati di tutti i governi d'Italia, esaltati senza interruzione dalla stampa e dall'appoggio del governo. Manino e Trivulzio Pallavicino, antico prigioniero dello Spielberg, avevano istituito, dopo la battaglia di Novara un'associazione segreta, avente per iscopò l'indipendenza italiana, e si aveva esortato il Re di mettersi a capo del movimento. Niuno ignora come il Gabinetto di Torino, durante il congresso di Parigi, spingesse innanzi la quistione della nazionalità italiana, e le aspirazioni dei popoli, verso la grandezza, la libertà, e l'indipendenza della Penisola; come del pari si conosce la missione degli emigrati napolitani a Aix les Bains ed a Ginevra per incoraggiare le imprese d'un pretendente alla corona di Napoli. Più tardi si vide esser questa la spedizione di Pisacane, partita da Genova, per mettere a rivolta il Regno. L'attentato di Agesilao Milano, attentato fino allora inaudito nei tempi più infelici della nostra storia, fu elevato
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a
cielo dalla stampa piemontese, e si celebrò in versi dagli esiliati che
erano riuniti a Torino — Durante la guerra d'Italia. le dimostrazioni
clamorose che si fecero a Napoli ed a Palermo più d'ogni altro luogo,
dopo la battaglia di Magenta, costituiscono un avvenimento, non tanto
per la importanza propria ed immediata, ma per i sintomi che rivelavano
rendendo nell'indomani la situazione più grave di quella che era i)
giorno antecedente. La rivolta della svizzera divisione scosse la
fermezza dell'armata. In questi fatti, ed in tutte le agitazioni che
seguirono in Italia, la mano del Piemonte pur troppo visibile vi
appariva. L’oro rinvenuto addosso ad un gran numero di soldati, e la
qualità delle monete non lasciavano verun dubbio sulla causa della
rivolta degli Svizzeri, in cui contribuì molto il Consolato, ed alcuni
addetti alla Legazione Sarda — La più parte dei soldati licenziati,
dieci mesi dopo si videro far parte delle legioni garibaldine! e dopo
la pace di Villafranca, la setta divenne l'ausiliaria assoluta del
Piemonte —
L'annessione dell'Italia centrale, e l'insurrezione della Sicilia erano preparate dai Comitati che lavoravano tutti sotto l'impulso della società centrale. Tutti i giornali ostili, libelli, lettere degli emigrati, che eccitavano i sudditi alla rivolta, ed i generali e gli uffiziali alla defezione, sortivano dalla legazione sarda, e quando a Napoli si mandò un ministro, che era stato plenipotenziario al congresso di Parigi, un fremito elettrico sembrò scuotere tutto il paese. Fino a quest'epoca vi era soltanto agitazione negli spiriti, ma da questo momento in poi la cospirazione divenne permanente e non si aspettava che l'ordine d'agire. La casa di questo ministro divenne luogo di abituale adunanza per i compromessi e per gli esaltati, i quali ne uscivano tutti affaccendati e con volto confidente. Dalle loggie dei teatri furono gittate coccarde e carte tricolori, e nelle strade si vedevano sparsi in abbondanza proclami eccitanti, clandestinamente stampati. A datare da questo momento, tutto fu messo in opera per corrompere l'armata
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e
spingerla al tradimento: insinuazioni, provocazioni della stampa,
sollecitazioni dei parenti emigrati, esortazioni dei concitali, furono
i mezzi di cui si fé uso per raggiungere lo scopo; e tutte codeste
seduzioni si usarono col pretesto di far risorgere la gloria e la
grandezza dell'Italia, Sono sconosciuti i dettagli di questa invasione,
in piena pace, d'un Regno, di cui il Piemonte poco prima aveva
affrettata l'alleanza. Si sa come la spedizione di Garibaldi era stata
organizzata dal governo di Torino, ed era partita da Genova come quella
di Pisacane tre anni in pria, è noto come il governo di Torino al
cospetto di Europa qualificò con note diplomatiche i fatti di
Garibaldi, come altrettanti atti di pirateria, e spinse la sua
ipocrisia tant'oltre, che annunziò offìcialmente spedire una squadra ad
inseguirlo. Si conoscono adesso le istruzioni che il ministro Cavour
diede all'ammiraglio, cioè: doversi situare tra i navigli della
spedizione, e quelli della crociera napolitana, e l'ammiraglio mostrò
benissimo d'averlo compreso. Si sa oggi che nel denegare ogni
partecipazione del governo, si lasciavano organizzare altre spedizioni
in Toscana, e per fornire volontari alle novelle spedizioni di Sicilia
si scioglieva la brigata di Ferrara. Il ministro che dichiarava voler
rispettare il dritto delle genti, segretamente invocava i buoni uffizi
dell'Inghilterra, per far togliere il sequestro che il Console di
Francia aveva messo sopra alcune navi cariche d uomini, d'armi, e di
munizioni, il cui ritardo poteva compromettere il successo di
Garibaldi. Il Gabinetto di Torino preferiva la doppiezza alla forza,
aspettando il momento di preferire questa a quella. Difatti arrivato il
momento non esitò a gloriarsi d'aver mandato Garibaldi in Sicilia,
siccome il Conte di Cavour si gloriò, al cospetto del parlamento, di
aver cospirato per ben dodici anni.
La pubblicazione della costituzione, dopo i disastri di Sicilia era un atto d'indebolimento morale, e di disorganizzazione politica nel momento più critico, che il Regno avesse da lungo tempo attraversato.
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Si era
in presenza di una rivoluzione, che forse poteva essere battuta, che
forse poteva esser vinta, ma soddisfatta giammai. Ella era pronta a
tutto, ma aspettava il momento di sfoderar la spada con successo;
poiché si sentiva il Piemonte alle spalle, e considerava la concessione
del Re come una minaccia, e perciò si sforzava a fare che la
transazione riuscisse impossibile, provocando dei disordini, e degli
ostacoli al potere per scuoterlo, onde trovar pretesti ad un intervento
piemontese. I comitati che ricevevano il motto d'ordine da Torino,
organizzarono subito le insurrezioni, dalle quali Napoli fu agitata, e
s'ebbero le strade bagnate di sangue ne giorni 27,28. Giugno. Questa fu
una imitazione di ciò che aveva fatto il popolo di Londra nel 1688. Il
movimento che aveva sorpreso il ministero il 27. non lo trovò più
prevenuto l'indomani, dapoichè senza freno spargendo per le strade il
terrore, tutte le genti rimasero scoraggiate ed abbattute. L'accordo e
l'alleanza col Piemonte potevano accerchiare di imita) la rivoluzione,
e così contenerla, ma i risultati delle negoziazioni incominciate con
Torino si conoscono.
Il gabinetto non voleva far travedere l'idea della egemonia, che se avesse respinta l'alleanza avrebbe messo a nudo i suoi ambiziosi desideri, e se l'avesse accettata gli sarebbe stato d'uopo di rassegnarsi alla confederazione, e far rinunzia degli Stati già annessi.
Napoli però si presentava come già ridotta agli estremi, ed una politica che si dice disarmata invita all'insulto. Si videro tergiversazioni puerili, temporeggiamenti, e basse simulazioni. Si soffre leggere delle note e dei le corrispondenze su negoziati che non esistevano affatto, le quali non erano che grossolane e volgari lusinghe, in cui ogni parola manifesta la bugia. Si aspettava che l'agitazione degli spiriti propagandosi, scoppiasse nell'armata una manifestazione sediziosa, come in Toscana, affinché l'unità italiana diventasse una realtà. Intanto nell'ombra non si cessava mai di cospirare. Difatti a Napoli la subordinazione era venuta meno ad un tratto.
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Le passioni politiche che avevano radunate
le loro forze, ed emancipatesi da tutto ciò che può costituire
soggezione, si mostrarono a viso aperto. Il ministero era trascinato,
ed il governo si trovava ridotto a tollerare ciò che non ledeva poter
impedire. I comitati si erano insediati al fianco del governo, egli
emigrati, che in grafia dell'amnistia erano rientrati in patria vennero
a cospirare apertamente contro la Dinastia. Il Ministro a Torino ed il
barone Ricasoli a Firenze si erano con essi intesi su questo proposito
senza mistero, e senza esitazione; e la loro primiera missione era
quella di rendere impossibile qualunque governo. Essi vennero a Napoli
con l'idea preconcetta d'una latente vendetta, e dal primo giorno del
loro arrivo dettero alla rivoluzione di Napoli il funesto riverbero
della rivoluzione francese. Si era saputo approfittare della venalità
di questi agenti, e del loro spirito basso, col quale si preparavano al
tradimento... L'audacia e l'impudenza della stampa in poco tempo
sorpassarono ogni limite. Si proclamava il trionfo di Garibaldi, e
l'unità italiana, senza serbare un velo neppure trasparente: e l'unità
italiana, mostrava un potere concentrato a Roma, diretto dalla Casa di
Savoja. Il governo lasciava la più estesa libertà ai giornali di
attaccare e calunniare la Dinastia. Gli emigrati amanti forsennati
delle piemontesi dottrine gittavano ogni giorno, ed in ogni ora, al
pubblico fogli volanti, e si occupavano a renderli popolari. Si
stampava la biografia di Garibaldi e se ne vendevano dei ritratti,
essendo esposti nelle vetrine di ogni bottega. Si era composta pel
popolaccio una canzone col ritornello: Oramai Garibaldi è il nostro Re,
e la polizia lasciavala intuonare in tutte le strade. Si organizzò il
funerale del generale Guglielmo Pepe, e per conseguenza peri difensori
di Venezia del 1849. Gli agitatori dovevano attraversare la Città con
la bandiera di S. Marco in testa: la guardia nazionale si sarebbe
trovata sul loro passaggio, e cosi da questi moti si sperava una
insurrezione.
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I Camorristi ed i bravi dei
quartieri n'erano avvertiti, e si darebbe più, o meno arrischiato,
secondo i successi che avrebbe ottenuti l'opposizione! del governo. Ora
il governo per non assumere il tuono delta fermezza, e della forza,
discese ad una transazione, permettendo i funerali, ed abbenchè la
bandiera mancasse pure tutti gli emblemi della repubblica si' videro
nella Chiesa. I militari più compromessi e più esaltati, i generali che
per lo passato furono nemici personali del Pepe, quegli stessi, che
avevano abbandonata Venezia nel momento del pericolo, si vedevano colà
riuniti. Gli uomini elevati per senno, posti come in fuora degli
avvenimenti, per gli eccessi delle fazioni, e che avrebbero voluto ad
ogni costo opporsi ella rivoluzione, la quale correva a marcia forzata
per raggiungere il suo scopo, erano respinti dal potere. Essi proposero
un'associazione per agire in comunità di forze e di risorse: vollero
fondare una stampa contro l'ardente e libera propaganda della
rivoluzione, ma i ministri supponendo che la incertezza della volontà
costituisse loro la virtù degli uomini di Stato, evitando le lotte,
ricusarono il loro appoggio, ed un ministro vi si oppose tanto
energicamente da obbiettare che il governo non aveva danaro per
giornali, mentre nello stesso giorno aveva disposto pagarsi 18 mila
franchi ad un giornale rivoluzionario. Si faceva tutto il possibile per
acquistare il favore della piazza e dei comitali, e quando si trattava
di prendere qualche energico provvedimento, si indietreggiava, come
dicevasi, per la paura di accelerare la catastrofe.
La rivoluzione che scoppiò in Francia nel 1848 diede movimento a quella dell'Italia, e da questa regione passò in Germania, sollevando tutte le popolari passioni. Le armate, in mezzo al disordine generale, erano sempre rimaste la sola, ma forte difesa dell'ordine; e si sarebbe edificato sulla friabile arena sino a quando l'armata era in sostegno del potere. Però il governo di Torino esisteva nella risoluzione di far proclamare a Napoli l'annessione dall'armata, la quale era stata già scossa
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dalla rivolta delle truppe sviziare, dai
proclami e dalle lettere degli emigrati, che si erano diffuse l'anno
precedente nei ranghi della divisione degli Abruzzi. Alcuni uffiziali,
avevano di già mandata la loro adesione al comitato di Firenze, e non
pochi altri avevano promesso di dare la loro dimissione; a quali ai
fece rispondere di non abbandonare i loro posti, ma di lavorare
efficacemente a far proseliti, ed intanto la stampa proclamava esser la
diserzione un dovere, il tradimento un eroismo. I comitati e gli
emigrati impiegando sollecitazioni, promesse o minacce, avevano
affievolita la fedeltà di alcuni, e diminuito l'ardore in altri, ed
attaccando i capi nella riputazione, ne indebolirono l'autorità. I
politici sconvolgimenti presentano agii audaci le opportunità di
aumentar fortuna; cosa che di rada e con lentezza, si verifica in tempi
calmi e normali. Molti uffiziali, benché privi di fortuna, si dimisero,
altri passarono nelle fila di Garibaldi, e non pochi si ricusarono di
combattere con italiani. A Napoli non mancò un burò, dove dagli amicali
si facevano arruolamenti di soldati e di basai ufficiali, e questo non
s'ignorava da nessuno, e le persone, che lavoravano di concerto e senza
mistero, spendevano ingenti somme per corrompere l'armata. Il governo
solo fingeva di nulla sapere. Le defezioni di rilievo non tardarono. Il
Capitano Àmilcare Anquissola, avendo a complici i suoi uffiziali, si
recò con la corvetta il Veloce presso Garibaldi, e dopo aver rifatto
l'equipaggio, che non aveva partecipato al vile ed infame tradimento,
ritornò in crociera per sorprendere con inganno due altre navi dello
Stato, ed impadronirsene. Poco dopo alcuni uffiziali di marina, anche
disertori, si presentarono in una notte a Castellammare col Veloce per
portar via il vascello il Monarca, il cui comandante, colonnello
Giovanni Vacca, era precedentemente di concerto, che poi dopo la non
riuscita cattura, per salvarsi si rifugiò a bordo di un vascello
inglese. Ai posteri gli si è denunziata la inaspettata e vergognosa
diserzione del generale Alessandro Nunziante, uno di quelli
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che
più avevano asserrato il Trono con i loro intrighi con le loro
cupidigie, strappando mai sempre opulenti favori. (1) Egli però sapeva
che la rivoluzione, tenendo presente i servigi resi, tutto condona, e
perciò mandò te sua dimissione, restituendo le decorazioni;'e lungi di
poggiare il piede su questo novello teatro, con esitazione tentennante,
usò ardire da sfrontato. Minò la disciplina, e volendo che l'armata
addivenisse un istromento di sedizione, eccitò con ordini del giorno la
sua divisione a disertare. Questo generale per acquistarsi la
benevolenza non sarebbe stato restio a mettersi pel primo il berretto
frigio, ma sotto le sue declamazioni non si sente palpitare né il cuore
dell'uomo, né quello di soldato. Egli si recò a Berna, e di là a Torino
ove, chiamato dal Conte di Cavour, col quale tenuto un abboccamento,
ritornò a Napoli sulla fregata sarda l'Adelaide da cui discendendo
misteriosamente per fomentare il disordine nell'armata, vinto dalla
paura, si rifugiò nella seguente notte a bordo della Costituzione, ore
poteva cospirare a suo bell'agio. Questa spaventerai figura d'ingrato e
di traditore, volle farsi una riputazione, che nel la sua mente aveva
forse una perfetta analogia con quella che compartisce la gloria.
Siccome accade sempre in epoche, in che le politiche commozioni si
trasfondono nel mondo morale, l'armata, nel suo esempio, provò uno
scoraggiamene profondo, e da quel punto i militari sentirono le
tristezze della disperazione politica.
(1) Qui ti
traduttore si permette far osservare a ehi di dritto, che gli onori ed
i favorì accordati ad uomini senza merito, sono funestissimi ai Troni;
perché non solo rendono orgogliosi i favoriti, ma producono
l'indignazione nei buoni, i quali vengono dimenticati, o per intrigo
dei primi, posposti. Questa grande verità è dimostrata pur troppo
chiaramente dai fatti dei Generali Nunziante, Pianell, ed altri, i
quali avvalendosi dell'appoggio dei loro mal conferiti onori, vilmente
tradirono e vendettero il Sovrano, la patria e l'onore.
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Il materialismo politico è alla società ciò che l'ateismo è alla religione, e toglie nelle anime ogni ispirazione patriottica.
Con queste corruzioni e con questi esempi la rivoluzione si sforzava di scemare, l'orrore della cospirazione sotto, le bandiere, che tra le cospirazioni è la più dannosa e la più imperdonabile II sentimento universale giudicò poteste diserzioni come figlie dell'ambizione e della cupidigia di tutti i capi dell'armata, non che della incurabile corruzione dei funzionari. Molti uomini politici oppressi dal disgusto e dall'orrore, ben rientrarono nella vita privata e nella non curanza di una oscura condizione. Il Re da questo momento poté aspettarsi veder molti di coloro, che mentre biasimavano acremente il generale Nunziante. ne imitavano poi l'esempio; invidiandone ancor forse l'umiliante iniziativa.
La guardia nazionale che aveva aperte le sue file alla gioventù più esaltata, aumentava gl'imbarazzi, e le apprensioni, ed i comitati s'interessavano a spingerla innanzi se la rivoluzione dovesse, scendere nelle piazze.
Si avevano arrogati il dritto di farle arrivare ordini del giorno, come partenti dalle vere autorità, a cui essa doveva obbedire, ed in questo momento si spargevano la diffidanza ed i sospetti nei suoi ranghi. Si aveva fatto tanto chiasso perché il comandante della piazza non aveva dato alla guardia nazionale il motto d'ordine che si comunica alla truppa di linea, e la stampa facendo proprio questo richiamo, ne formulò un'accusa, per la quale cosa furono vane le dichiarazioni, del governo 9 che quella negativa era stato un malinteso. Poco dopo si fece correr voce della scoverta d'armi e di abbigliamenti per vestire reazionari, che non esistevano, e che in alcuna parte non potevano esistere, e si diceva: che il potere voleva tentare un colpo di mano con la guardia reale e colle masse della marina. Più tardi fu dato l'allarme che annunziava tre battaglioni esteri avanzarsi sopra Napoli, ed acciò quei rumori cessassero fu mestieri mandare per la strada uffiziali dello stato maggiore.
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Si gettava pure spesso nella città lo spavento buccinandosi che si fossero marcate col rosso tutte le case che dovevano essere saccheggiate dal popolaccio. Un gran numero di emissari si portavano la sera nei quartieri della guardia nazionale e vi divulgavano quelle frasi di terrore, che la natura ispira all'approssimarsi di qualche grande calamità, e quelli che più cercavano d'ingannare, erano i comandanti e gli ufficiali, i quali venivano lusingati dalle espressioni, essere essi solamente capaci di sollevare il Regno con la loro fermezza, e col loro patriottismo.
La squadra sarda che aveva fatto conoscere esser venuta per solo fine di assicurare la vita e le fortune dei sudditi Piemontesi, teneva a bordo delle truppe di linea, le quali una volta tentarono ancora di scendere armate, per la qual cosa le navi furon minacciate di farsi calare a fendo. Eppure con tutto questo si lasciavano andare a terra bersaglieri i quali introducendosi nel corpi di guardia della milizia cittadina, s'intrattenevano seco loro sulla felicità della imminente fusione dell'Italia e nell'incontrarsi per le strade con la guardia nazionale si fraternizzavano, e mostrando con orgoglio una quasi superiorità, serbavano disinvoltura di disprezzo per la guarnigione. Quindi è che le risse non mancarono tra costoro ed i soldati napolitani, i quali ad ogni incontro li schernivano, e perciò successe una forte baruffa tra questi bersaglieri ed i mitragliatori della guardia reale, al che la guardia nazionale accorrendo per separarli, favorì apertamente i primi, ed inveì contro i secondi. Tutte queste seduzioni, e questi timori l'avevano esasperata, e nei suoi ranghi non si udivano che minacce ed esecrazioni contro la perfidia della Corte, e continuamente si discuteva sulla necessità d'innalzar barricate contro la guarnigione all'appressarsi di Garibaldi. Allora tutto il combinato, per molti anni, dai diversi ordini della società napolitana si pose in vista, e coloro solamente che conoscevano il lavoro delle società segrete, degli esiliati, e del governo piemontese, non ne rimasero per nulla sbigottiti.
Roma li 16, Marzo 1861.
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Signor Duca
Si
pensava, da circa' mezzo secolo in qua, ché i popoli moderni tutti
educati, quasi ad un dipresso, nella stessa civiltà ed istruzione non
dovessero crederei più esposti alle calamità di una Conquista malvaggia
e subitanea; poiché pareva che le sorti di uno stato noti dovessero più
dipendere in prosieguo da una battaglia, o da una invasione. Ceti tutto
ciò il reame di Napoli ha subita una conquista si rapida che non sì
trova altro esempio nella storia che quello dell'epoca di Consalvo di
Cordova, or son tre secoli e mezzo i nel medesimo Regno, e per un
tradimento perfido del pari contro la Dinastia Aragonese. Novelle
orribili, l'una dopo le altre, giungevano il 20 Agosto. La spedizione
di Garibaldi aveva superate le più serie difficoltà, in traversare lo
stretto di Messina. La crociera napolitana arrivata troppo tardi, non
aveva potuto impedirne lo sbarco, ed aveva calato a fondo un piroscafo
arrenato: e così si era rinnovata la scena di Marsala. Dopo un
disperato combattimento la città di Reggio era caduta, la quale avrebbe
potuto essere salvata se la brigata che marciava in suo soccorso non si
fosse ad un tratto fermata, e se la squadra che si dirigeva a tutta
machina verso la costa non avesse virato di bordo per andarsi ad
ancorare davanti Messina. Poco dopo una divisione, lasciatasi ad arte
circondare, depose le armi, i di cui soldati indignati ed esasperati
trucidarono il loro generale rinnovellando in questa terribile e
ristucchevole scena le tante eguali che erano state fatte in
Portogallo, ed in Ispagna all'incominciare del presente secolo.
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Le
fortezze della costiera erano l'una dopo le altre cadute; e Monteleone,
dove il generale in capo aveva perduto il tempo prezioso era evacuata,
e quel generale si recava in Napoli. Garibaldi si spingeva
nell'inseguimento dei soldati napolitani con l'impetuosità di un
torrente, battendo la via marittima, le cui colonne una sola fregata
avrebbe potuto distruggere: ma la squadra si era fatta; trasportare dal
vento verso il Sud, per passare in Sicilia, e quindi dirigersi sopra
Napoli. Il generale, capitolato, a Saveria, senza bruciar prima una
cartuccia, si ritirava sopra Cosenza, col cui comitato il generale
Caldarelli aveva trattato. Cosi Napoli pure aveva avuta la sua doppia
Vergara, rimanendo la strada che dalle Calabrie mena a Napoli sgombra
di truppe fino a Salerno.
Lo spirito di rivolta avanzava terribilmente. Taranto e Matera erano in tumulto: a Foggia i Dragoni avevano presa parte ad un movimento del popolo ed in Potenza la gendarmeria era stata scacciata proclamandovisi un governo provvisorio: perciò non altro rimaneva che contrastare l'entrata della capitale '— In Napoli lo scoraggiamelo vinceva tutto, ed i disastri delle Calabrie, e lo scioglimento di due belle divisioni non si spiegava in altro modo avvenuto, che pel tradimento dei generali. La diffidenza si propagava nelle file della guarnigione, e quei medesimi che si sforzavano ridestare lo spirito nelle truppe erano convinti di sacrificare inutilmente la propria vita. Dall'altra parte, le teste si riscaldavano, i complotti militari si ordinavano con la speranza di un quasi sicuro successo. Intanto la marcia del nemico avrebbesi potuto arrestare a Salerno ove gli si poteva chiudere il passo, e se accettava una battaglia nel piano vi era artiglieria e cavalleria cosi numerosa da sperarsi il suo sbaragliamento — Una volta battuto, non avrebbe avuto ove rifuggiarsi, ed i suoi successi trionfali sarebbero spariti in brevissimo tempo. La vittoria era ancora in quei critici momenti il voto di tutte le genti oneste, nelle quali lo spirito di parte non
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aveva
fuorviato il patriottismo, ma il Ministro della guerra, il generale
Pianelli, credette non essere oramai più possibile la resistenza. Un
ministro estero che faceva nobili sforzi per rialzare la causa del Re,
nell'esortargli a prendere il comando dell'armata, s'ebbe freddamente
in risposta: che essendone stato falsato lo spirito, egli non poteva
rischiarsi a guidarla al fuoco.
Ma il Re, quantunque era stato dal dolore colpito, non era punto abbattuto, e sopportava le fatiche e le angosce della sua situazione, con una forza di gran lunga superiore alla sua età ed alla sua salute; manifestando una fiducia non mai simulata. Egli credeva nel trionfo inalienabile e virile della grandezza morale, ma non si dava in braccio ad alcuna illusione, e sapeva vedere la verità senza impallidire. Credetemi io non tengo al trono, mi diceva allora, ma vorrei strappare la patria è la mia famiglia ad una crudele sventura: se poi la sorte si è pronunziata definitivamente, saprò cadere da Re. Egli aveva scritto al Ministro Pianelli che l'armata aveva sofferto dei disastri, perché non si era trovata concentrata sul punto del pericolo; che aveva ancora quaranta mila uomini alla cui testa si avrebbe messo, ed in questo punto stesso fece dar ordine alla colonna che era nelle Puglie di ritirarsi a marcia forzata sovra Napoli. Era così deciso esporsi ad ogni cimento per compimento del suo dovere, che sorridendo mi diceva: In quella che un naviglio viene assalito dalla burrasca, non è il capitano medesimo che prende il suo timone, e ne dirigge l'equipaggio?
Ma gli avvenimenti si accumulavano come una tempesta, e gli effetti di una propaganda rivoluzionaria divenivano l'un di più che l'altro manifesti. Il conte di Siracusa, zio del Re, aveva assistito ai funerali del generale Pepe, e la stampa non aveva mancato di esaltarlo, ed il più strano si fu, che non si risparmiarono le allusioni ad un altro Principe che si segnalò nella primiera rivoluzione francese. Il conte aveva dato un gran pranzo agli uffiziali della squadra Sarda,
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all'annunzio
dello sbarco di Garibaldi, e fu applaudito quando bevve alla salute del
Re Vittorio Emmanuele. In prosiequo si era portato a bordo della
Costituzione ed aveva ricevuti onori dovuti piuttosto alle sue
opinioni, che al suo grado. E come se questi scandali non rivelassero
abbastanza la sua cooperazione, si decise adun passo più ardito e più
stupendo. Credendo o supponendo che la corrispondenza col Duca di
Carignano fosse stata sorpresa, indirizzò una lettera al Re, nella
quale, dopo d'essersi doluto che giammai era stato ascoltato, lo esortò
di mutare l'esempio della Duchessa di Parma, e di abbandonare il Regno.
Questa lettera, ispirata come si diceva dal Ministro sardo fu subito
dai giornali pubblicata, e sparsa a migliaia di copie, anzi prima che
fosse dimessa al Re, il quale per questo fatti non disse altro, che le
seguenti dogliose parole: Se io non fossi Re, o non avessi la
responsabilità della corona verso il mio popolo, e verso la mia
famiglia da molto tempo me ne avrei tolto il peso. Il Re serbava quel
sentimento energico e religioso che agguerrisce nell'infortunio. Questa
lettera del conte fu I ultimo colpo dato alla Corte che da quel momento
si trovò in un vero scompiglio. Nel XVI, Federico d'Aragona, zio anche
esso d'un re collocato in simili condizioni, diede tutt'altro esempio,
poiché fu il modello della fedeltà cavalleresca.
La guardia nazionale segnatamente vide in quella lettera la irrevocabile condanna della Dinastia. Si mormorò dicendosi, che se il Re, dopo la lettera di suo zio, non comprendeva la sua posizione, e non si ritirava era d'uopo ricorrere alla insurrezione ed alle barricate, e così si avrebbe una rivincita del 15 Maggio 1848. La guardia nazionale, lasciata ne' suoi istanti di gloria e d albagìa, si lusingava di divenire il corpo dei giannizzeri della rivoluzione. Il popolo di continuo era agitato dalle notizie di trame reazionarie e la stessa autorità, benché faceva vedere di proteggere l'ordine e la pubblica tranquillità, co’ suoi proclami vi soffiava dentro.
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Il popolo abbagliato dulia
medesima credulità, come dapertutto, era sempre pronto ad aggiornare la
giustizia e la ragione e ad accusare la cieca durezza della Corte. I
capi dei battaglioni della guardia nazionale avevano di già segnata
senza esitazione una protesta, diretta al Re, piena di minacce e
d'irriverenza, nella quale avevano chieste le armi e le munizioni; lo
scioglimento dei tre battaglioni esteri, il cessamento degli apparecchi
guerrieri, che minacciavano, come si diceva, la principal rovina —
Questo, indirizzo illegale bugiardo nel fondo ed ingiurioso nelle
forme, aveva trasformata la guardia nazionale in corpo deliberante. In
questo frattempo si faceva tutto il possibile come spargere nel
pubblico ogni sorta di vaghi timori, e come mostrarli più terribili. Un
francese esaltatissimo, il. Sig. Desaugliers che qualche volta assumeva
il tuono di ispirato pubblicò per le stampe un consiglio al Re, con cui
lo esortava di prenderete più energiche misure contro la rivoluzione.
Il ministro di polizia, Liborjo Romano, s'impadronì di questo fatto
privo d'importanza, per esagerarlo a suo talento, ed accrescere
l'allarme nel paese. Il prefetto di polizia che permetteva alla stampa
ogni attacco contro la Dinastia, si portò di persona, con un grande
apparato di forza, ad arrestare il francese, e principiò a gridare aver
egli ventata una grande cospirazione. I Comitati e la stampa
commentarono questo tema ed annunziarono che il popolo andrebbe a
sollevarsi per difendere i suoi diritti. I capi de’ battaglioni della
guardia nazionale si presentarono ai Ministri, e si dichiararono pronti
a combattere ogni tentativo reazionario, pretendendo con le loro
minacce l'allontanamento dal governo della piazza di colui che per
serbare a Napoli la tranquillità aveva fatto mostra di un apparecchio
militare inusitato. Col mezzo di questo preteso pericolo di reazione si
accesero gli animi, e si osservò questa credulità sempre crescente,
mercé la. quale,, il popolo, sulla fede di un giornale, o sulla parola
di un settario, accoglieva il timore delle più orribili cospirazioni.
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Il
Re, tocco' da profondo dotare, si fece chiamare i comandanti della
guardia nazionale, ed accogliendoli con somma grazia, si mostrò
soddisfatto della premura che si prendevano pel mantenimento
dell'ordine, ma fé loro con diligenza notare che questa era l'unica
missione ad essi affidata, e promise nel tempo stesso che Napoli non
sarebbe giammai esposta ad una guerra di piazza, perché aggiunse, Lui
essere il primo napolitano — Ma il fine di questo ricevimento mancò:
perché i comandanti si lagnarono del loro generale e del governatore
della piazza, ed in sortire dalla reggia facevano cenno con gli occhi,
sorridendo con le guardie nazionali che erano là per attenderli.
Intanto ogni ora del giorno annuii zia va una novella più trista, un fracasso più funesto, o un nuovo imbarazzo. La squadra inglese ancorata in Napoli s'ebbe un rinforzo, il cui ammiraglio sollecitamente spedi in questo stesso tempo una nota al Governo con minaccevoli rimostranze, facendogli sapere che se avesse luogo un movimento popolare, ed il Re facesse bombardare Napoli, come si aveva fatto a Palermo, la squadra vi si opporrebbe con la forza, per applicare in questo modo il principio del non intervento!... Il Ministro si affrettò rispondere che il Re aveva deciso di aspettare il nemico fuori di Napoli e la città non correrebbe alcun pericolo. Ed in effetto la stampa europea che aveva tanto gridato contro il bombardamento di Palermo nel 1848, avrebbe dovuto conoscere, che il generale Desauget, che lo aveva comandato, era stato rimproverato, anzi acremente biasimato dal Re — Questa disapprovazione reale non è immaginaria, ma risulta chiaramente dalla corrispondenza passata tra il generate ed il Ministro della guerra. Nel 1860 fu il generale Briganti, che poi più tardi fu ucciso dagli stessi suoi soldati, il quale dal forte di Castellammare bersagliò la città di Palermo con obici e bombe. Il Re, di contrario meditava con tutta la serietà a preservare Napoli, in caso che una lotta disperata avesse luogo nei suoi contorni.
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Il Ministro degli
affari esteri ebbe ordine di riunire il corpo diplomatico, per
proporgli la neutralizzazione della Capitale sotto il patrocinio delle
squadre straniere. Il Ministro sardo che non amava affatto vedere il
dittatore signore di Napoli, in apparenza promise la sua cooperazione;
ed aveva accettato, essendo forse certo che niun risultato si avrebbe
da quei negoziati — Il Ministro inglese, aveva di già molti giorni
avanti scritto al sua Governo, che egli s'aspettava in Napoli
l'abbandono,, o l'abdicazione del Re,, e non domandava altro che una
approvazione di fare proclamare l'annessione al Piemonte; il Corpo
diplomatico declinò la responsabilità d'una guarentigia qualunque: il
ministro Elliot soggiunse che sarebbe stata una violazione del
principio del non intervento, (1) e sulla qual cosa i ministri
d'Austria e di Prussia dopo d'aver accolta per un momento la proposta,
ritirarono la loro. adesione, ed il ministro sardo nella sera fece
palese il i suo rifiuto. La conferenza benché era rimasta senza
risultato pure il Re non rinunciava alla speranza di porre Napoli sotto
l'egida delle potenze amiche; e siccome la Francia domandava allora una
riparazione dell'insulto fatto al suo ministro nell'ammutinamento del
27 Giugno, il Re inviò il Duca di Cajanello all'Imperatore per ottenere
la sua intercessione. Vi fu un istante che il governo si credette
doversi difendere ad una fiata contro l'invasione, e contro la
insurrezione. Questo estremo pericolo, a dir vero, svani ben presto, ma
le disposizioni erano sempre violente. Il partito d'azione voleva
irromperete la sua impazienza è la sua rabbia erano riscaldate a tal
grado, che chiamava tiepidezza e viltà,
(1)Il principio del
non intervento dall'Inghilterra s'invoca solo quando le torna conto
perché quando poi le fosse di ostacolo Essa lo calpesta e non si cura
delle ciarle della diplomazia — Lo stesso Lord Palmerston nella Camera
dei Comuni il giorno 21 Maggio parlò nel senso sopra detto.
34
ciò
che altri avrebbero giudicato zelo imprudente e furioso. Il partito
piemontista, che aveva promesso a Torino di sollevarsi all'annunzio
dello sbarco di Garibaldi, s'immaginò di esser fermo nella data parola
ma, approssimatosi il pericolo, mostrò più iattanza che risoluzione. I
ciechi servi della rivoluzione poi, imbevuti di tutte le dottrine del
terrore, si erano separati dai piemontesi, e si chiamavano il Comitato
del pugnale; mostrando con ciò che i partiti estremi hanno nelle loro
agitazioni, qualche somiglianza alla tigre; perché essi non fiutano
altro che sangue.
Si seppe nella Corte essere sbarcati alcuni garibaldini, partiti da Genova e Livorno, e tenendosi nascosti, aspettavano un momento opportuno per compiere un moto insurrezionale. Infiniti emissari andavano nelle provincie, e da esse venivano in Napoli i più audaci, ed i più adatti ad un colpo di mano, per prepararvi il trionfo di Garibaldi, i quali eran provvisti di armi, e di considerevoli somme di denaro, e stavano pronti a tutto.. Gli uffizi di arruollamento lavoravano costantemente e senza mistero. Il Governo solo non usciva dal suo incurabile letargo. Il ministro, Sig. Romano, che spaventava in ogni istante il Consiglio ed il pubblico con i fantasmi della reazione, prendeva sempre misure contro un movimento realista, e non vedeva quel tenebroso lavorio; però nella notte, come era ben noto, teneva abboccamento con i comitati, con Alessandro Dumas, emissario della rivoluzione, con I' ammiraglio Persano, e con tutti i reduci emigrati e sovra tutto con i militari. Stranissime novelle si diffusero per la città, e si dette a credere che il ministro e l’ammiraglio francese, farebbe calare a terra una porzione dell'equipaggio della squadra, e che l'inglese ne avrebbe seguito l'esempio — Dal che avvenne che tanto gli stranieri nonché gli abitanti si affrettarono di ottenere l'autorizzazione di apporre sulle loro case cartelli, che annunziavano la nazionalità inglese e francese.
Il gabinetto non aveva fino a quel tempo mostrata
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alcuna
tendenza a rassegnare i suoi poteri, ma tutto ad un tratto, sia per
debolezza o per calcolo, si decise dare la dimissione. I ministri
trattarono in questo momento solenne l'ordine sociale, come un malato
uscito fuori di speranza, con cui non più si discutono alcune
prescrizioni, e non volendo sottoporsi con coraggio alla situazione che
si avevano creata, si ritirarono... Che dico! Non si ritiravano, ma
abbandonavano il paese, ed il ministro Romano li fece decidere a questo
passo. L'imbarazzo della corona saliva all'estremo. La stampa che poco
si era brigata della quistione del gabinetto si svegliò come da
profondo sonno, ed altamente spaventata accusò il Re di volere un
ministero reazionario. La guardia nazionale inviò un nuovo indirizzo ai
Ministri, scongiurandoli di non rassegnare il potere: e questo
indirizzo era stato ispirato e dai comitati e dal Signor Romano.
Ed in tal modo questo, ministero che, due volte, si era veduto minacciato nella sua esistenza, e che tutto aveva fatto, e tutto si era permesso per resede al potere, in questo punto si raccoglieva da banda con quell'inerte fatalismo dalla cui forza si lasciò trascinare nella corrente. Questi uomini non avevano più la forza neppure di guardare gli avvenimenti, che non mai avevano provato signoreggiare. Era facile il prevedere che vili mancamenti accompagnerebbero un tale esempio; e tutte le genti unanimamente riconobbero che le inconvenienze dell'inazione era più dannosa dell'agire, perché vale meglio rischiare che annichilirsi: però niuna persona si esponeva a dar l'esempio coraggioso della resistenza. Non vi fu uomo capace che volle accettare la missione di gittarsi a traverso i disegni della rivoluzione, ed arrestarne, se era ancor possibile, l'impeto del movimento, che precipitava il Reame nella mina. Tutti si scusarono fingendo chi più e chi meno calcoli e timori; e taluni per farsi merito presso i comitati, li tennero informati del loro rifiuto.
Roma, il 25 Marzo 1861.
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Signor Duca,
Dopo
pubblicata la lettera del Conte di Siracusa, che aveva fatto rivolgere
sempre più gli sguardi dei funzionar! verso Torino, segretamente
parecchi già si contrastavano il vantaggio di conciliarsi la
benevolenza d'un Principe che poteva ben [tosto essere il loro Sovrano,
e con queste turpitudini cominciarono in pochi giorni ad andar superbi
— Si aveva detto continuamente e ripetuto che ora della caduta della
Dinastia era segnata nel quadrante del destino: di già tutti parevano
provare un mancamento indefinibile, uno di quei languori snervati che
menano alla consunzione. Ognuno presentisce la catastrofe che si
avvicina, tutti ne paventano, ma non vi è abile persona che la
costringa ad arrestarsi. Molti cittadini e soldati che con intrepidezza
avrebbero affrontato il fuoco delle mitraglie facevan mostra di
codardia nella civile tempesta: e quando il Re si disponeva a partire,
per mettersi alla testa della sua armata, in cui il suo immediato
comando avrebbe cangiato lo scoramento in ardente zelo, Egli non era
pia circondato dall'energia e dalla forza d'animo, perché andava
divenendo la pusillanimità una cittadina virtù — Molti generali
proposero al Re di lasciare Napoli, per così salvare la loro patria, e
gli dicevano: se V. M. fa sortire la guarnigione dalla capitale, la
rivoluzione subito si pronunzierà; se la farà rimanere, per noi sta
esser troppo debole incontro al nemico. Quindi è necessario sapersi
rassegnare alla violenza, onde scongiurare danni maggiori ed
inevitabili. Il Re ascoltatili con tranquillità, e serbando a se stesso
la decisione sul da farsi,
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ordinò a quei
generali di mettere in iscritto il loro parere, al che adempirono in
quello stesso momento. Ma un fatto strano s'ebbe a verificare! Uno tra
essi che, per durezza di modi, e per mancanza di sensibilità, si aveva
usurpata la riputazione di franco e di leale, dopo di aver sottoscritto
infranse la penna con indignazione — Oh quanto sarebbe stato più nobile
e dignitoso atto romperla pria di sottoscrivere!... (1)
Per verità pensava allora come penso adesso, che lasciar Napoli, era lo stesso che abbandonare la Corona ed il regno: perché con tale atto si veniva a && comporre il potere, e ad organizzare definitivamente la rivoluzione e la guerra. Questo diverso modo dispensare sovra un soggetto di tanta importanza, si manifestò nella guarnigione, e produsse quegli effetti che se ne attendevano; scambiandosi biasimi e riprovazioni.
(1)Questo onorevole
generate è il Principe d'Ischitella, che ha pubblicate le sue memorie a
Parigi, ma il traduttore nell'interesse della storia e della verità gli
dirige le seguenti domande. Come potete dire, Sig. generale, che non
avete data la dimissione, se con vostra, dimanda del 4 Settembre 1860
chiedevate essere dimesso dal servizio attesa la indisciplinatezza
delle truppe? Dunque non era la dimanda solo per la dimissione del
comando della Guardia nazionale? — Come potete negare d'aver
consigliato il Re ad abbandonare Napoli, si sottoscriveste un voto nel
quale si esponevano le impossibilità della resistenza, e si consigliava
per amore dell'umanità ad abbandonarne il pensiero? — Voi dite esser
partito per non trovarvi presente allo scioglimento di 40 mila uomini,
ma questa armata non essendosi sciolta, e per sei mesi battevasi,
perché non la raggiungeste restandovene a Parigi, senza dirigire
domanda al Re pel ritorno, come altri generali fecero?... E poi se
questi fatti non eran veri, perché lamentarvene negandoli ed indovinare
che a voi d riferivano? —
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Ma il Re non per
questo era meno deciso di restare in Napoli ed a marciare incontro al
nemico, e si degnò manifestarlo a me ed al Ministro di Spagna, che si
affaticava tenerlo fermo in quella generosa risoluzione. (1) Chiaro
apparisce da ciò che il Re era convinto essere un'errore abbandonare,
per qualunque caso, le immense risorse della capitale, e l'effetto
morale di possederla \ anzi ne era risolutissimo, ed il suo cuore era
pieno di speranza, che fu diminuita da novelli eventi — In primo luogo
fu scosso dal seguente ed inatteso fatto. Un generale di spirito aspro
ed in. costante, ma devoto e valoroso, e che si era ben comportato in
Sicilia, nel giungere a Salerno per prendere il comando della sua
brigata scrisse a S. A. R. il Conte di Trani, accertando il Principe
che l'armata era piena di fiducia, e non altro chiedeva che volersi
battere. Il suo orgoglio offeso a Melazzo, ed il desiderio di prendere
una rivincita, come si credeva, lo infiammavano e si poteva tutto
attendere dalle sue bravure. Questa lettera così assicurante il buono
spirito dell'armata, fece pel momento rialzare quello della Corte. Poco
dopo che il generale ebbe scritta ed inviata questa lettera si recò in
Napoli, e nel ritornare a Salerno indirizzò una seconda lettera allo
stesso Principe reale con la quale, dopo quaranta ore d'intervallo, gli
diceva tutto l'opposto della prima. A suo parere, ogni difesa era
inutile, ed ogni lotta impossibile; poiché le truppe demoralizzate, si
rifiutavano combattere, e gli uffiziali in pria ne avrebbero dato il
tristissimo esempio: per fa qualcosa i più fedeli mostravano un
abbattimento presso che disperato; e conchiudeva essere d'avviso dovere
il Re necessariamente abbandonar Napoli, e ritirarsi in Ispagna, perché
solo con questo nobile ed ultimo sacrificio salverebbe il paese. (2)
(1)Questo Ministro era il Sig. Marchese di Urna.
(2)Il traduttore va a credere essere questo generale il Cav: D. Ferdinando Beneventano Bosco.
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L'impressione
che fece nell'animo del Re questa lettera fu penosissima, e senza
dubitarne produsse il risultato degli apprezzamenti abilmente
calcolati, ed abbenchè la lettera da molti fu diversamente
interpetrata, pure non mancò avere una grande importanza, ed una
dolorosa influenza—La dappoca attitudine del ministro Pianelli, nel,
mentre che la rivoluzione straripava ovunque, guadagnando sempre
terreno, non aveva avuta una grande influenza sulle decisioni del Re;
ed i timidi consigli dei suoi generali non lo avevano scosso. Egli
diceva che, in tempo di guerre e di rivoluzioni, in cui le impressioni
sono estremamente vive, i fatti s ingrandiscono, e se ne esagerano le
conseguenze. Il Re aveva mostrata una intera fiducia, ed aveva
seguitato a dare gli ordini pel concentramento delle truppe a Salerno,
ma la lettera inaspettata di quel generale, di cui sopra si tenne
parola, lo sconcertò; ritenendola come la espressione della verità,
perché nel corso di tre mesi non di altro si parlava intorno a lui che
di cospirazioni e di complotti. L'armata dopo i disastri delle Calabrie
aveva fatto dubitare della sua fedeltà; i partiti ostili ne avevano
colle loro manovre minata la disciplina e vi avevano mantenute delle
funeste passioni. Credette dunque che il generale, senza ritenutezza
dasse una prova di maggior devozione, con lo svelamento del vero stato
e dello spirito dell'armata. Se egli non era sincerò, se egli stesso
era stato segno di una seduzione, per lo che dubitò della fedeltà del
l'armata, non si poteva oramai aver fidanza in alcun'altro. Ove trovare
adunque quei sentimenti che formano la forza dello Stato e dell'armata,
quando mancano in un uomo, che per fedeltà si ritiene a tutta prova, e
si stima incapace a farsi vincere dalle settarie tentazioni? Dall'ora
il prefato generale si dichiarò infermo ed insistette per un congedo,
la qual cosa mostra voler egli salvare la sua riputazione, e non
presenziare allo sbandamento dei soldati. Il Re intanto per questo
fatto si ebbe a credere che tutti lo avevano abbandonato —
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Altre
notizie vennero ben presto ad aumentare il turbamento dei suoi
pensieri, e le fluttuazioni della sua volontà. Si aveva fino a quel
momento supposto che il generale Caldarella, abbandonata Cosenza, si
ritirasse sovra Salerno evitando gli scontri; e si presumeva che egli
tutto al più si era internato per le montagne per trovare nella
lontananza il cammino sicuro, ma poi si apprese con certezza, che egli
era venuto a patto col comitato, e che marciava al fianco delle orde
garibaldine; la qual cosa oltre che fece perdere l'effetto morale, che
non era di picco! momento, tolse ancora un'altra brigata per la difesa.
In questo stesso momento la squadra, che non mai seppe incontrare il
nemico, che lasciò sbarcare Garibaldi in Sicilia ed in Calabria, e che
non ne aveva turbate le marcie, giunse nella rada; abbandonando lo
stretto, per lasciare libero il passaggio ai volontari riuniti nel
Faro. Essa rientrava senza bandiera, e con movimenti cosi sospetti che
l'ammiraglio francese si credette nell'obbligo di mandarla a
riconoscere. Il comandante aveva detto con tutta la ingenuità avere
camminato a madrina sforzata lungo le coste della Sicilia pel evitare
le batterie del Faro; e gli uffiziali ansiosamente chiedevano delle
notizie, ed investigavano se il Re era ancora in Napoli — La
rivoluzione, che durante dieci anni, aveva da per tutto seminata la
diffidenza e la disaffezione non poteva aver dimentica la marina.
Difatti il comitato ed i suoi affigliati che spiavano l'istante
favorevole per innestarvi il febbrile delirio della rivolta, fecero
correr voce nel mezzo, degli uffìziali e degli uomini dell'equipaggio
che il Re voleva inviare la flotta a Trieste, e metterla in tal modo
tra le mani dell'Austria. Si era sparso sulla squadra un proclama con
cui si scongiurava la marina di non abbandonare in questi supremi
momenti la causa Italiana, e questo proclama medesimo si vide affisso a
bordo di molti bastimenti per tolleranza se non per ordine de loro
comandanti — Gli uffiziali venivano obbligati di sottoscrivere l'atto
di adesione, e tra gli equipaggi
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e più
d'ogni altro tra i machinisti si spargevano timori i più gravi, ed in
caso di resistenza la rivoluzione minacciava di far strage delle loro
famiglie.
Queste continue minacce scossero tutti, e non vi fu una sola persona che facesse mostra di quella intrepidezza d'animo che non dispera giammai — La crisi era arrivata, ed il potere non aveva più a sperare sul concorso degli uomini, che avevano qualche cosa a perdere, e segnatamente su di quelli che si erano rapidamente arricchiti con mezzi ignobili, i quali se avevano tra i doviziosi un posto, tra i nobili le mancava. Il Re fu assalito dalle domande di dimissione, che fino a questo punto erano state di solo ritiro; benché lo scopo.. di quelle e di queste era identico, cioè la mascherata diserzione; e se n'ebbe la prima prova nel generale ispettore dell'artiglieria, il quale con i suoi atti, e coi favori di ogni specie, onde era stato ricolmo, aveva eccitato immenso sdegno contro la corte. (1) Il secondo esempio lo diede il Maggior generale della Marina, che con buon numero di generali, ottenuto il ritiro, rapidamente scomparve. La paura essendo divenuta contaggiosa, molti ingrati, ed impinguati a spese della. Corte si pentivano della lentezza colla quale avevano agito per mettersi al sicuro. Coloro che si dicevano fédelissimi l'uno dopo l'altro scomparvero. (2) Alcuni si riconoscevano impotenti a rialzarsi e agli occhi propri e dinanzi al paese. Altri che si erano lamentati non
(1)Uno di coloro
che immeritevolmente avevano usufruiti i favori della Corte è appunto
questo Generale ispettore di artiglieria, il Brigadiere d'Agostino, che
ripagò i benefici, con una mascherata diserzione,
(2)È fatto oramai dall'esperienza assodato, che quegli uomini i quali affettano troppa fedeltà ad un Sovrano, e che si mostrano Leoni in tempo di pace, in tempo di guerra costoro tradiscono il benefattore e fuggono il periglio più che timida lepre. E lo stesso Giuda non fece così?...
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aversi
tenuto abbastanza in conto fino a quel momento i loro servigi, si
tenevano con ogni accuratezza nascosti. Tutti quelli in fine che si
erano astenuti parlare quando era lor dovere, se lo permettevano nel
punto in cui tutto gli comandava di tacere. Gli uffiziali di ogni corpo
ed arma che a tutt'ora penetravano nella Reggia, senza etichetta, alla
quale in tempo di sventura non si ha riguardo, addebitavano
solennemente ai loro superiori la caduta della Monarchia — Tutti coloro
che fino a quell'istante avevano vissuti la vita per i benefici della
Dinastia, la fuggivano, perché in braccio della sventura. Il più dèi
gentiluomini, vedendo il trono in pericolo, per evitare di non essere
schiacciati sotto le sue rovine, si allontanavano da Napoli; e
dimenticavansi che l'abbandono e la disperazione dei marinai non
salvano un vascello che va a far naufragio. Alla presenza di questa
situazione non vi era mezzo, col quale si poteva ripuntellare il trono,
perché l'azione degli uomini non si sostituiva a quella degli
avvenimenti.
Allora il Re si accorse che il suo destino gli ave. va decretata una impossibile lotta. A Napoli esisteva un governo che già si era venduto, un ministro potente e traditore, un'armata arrendevole, ed una cospirante guardia nazionale. Da tempo assai si aveva fatto credere al popolo che la Dinastia gli era la maggior nemica, ed in questo momento, gli avvenimenti,1 colori, le bandiere e tutto ciò che colpisce gli occhi della moltitudine, serviva come segnale di rannodamene. Il potere era impossibilitato a difendersi. Il gabinetto per aver dato la sua dimissione non si credeva più responsabile; e secondo i Ministri non vi era più tempo per adottare energiche misure, onde arrestare il movimento: sol però la partenza del Re, come essi dicevano, poteva rendere più tranquillo il Regno... Il solo Liborio Romano affrontava la catastrofe con una risoluzione tutta brillante e preconcetta, ma il Re non si vedeva da altro circondato che dalla debolezza e dal tradimento.
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Egli non
riceveva dai Sovrani d'Europa che infruttuosi consigli, mentre il corpo
diplomatico se ne stava da banda; e né poteva sperare appoggio alla sua
famiglia. I due Conti di Trani e di Caserta, suoi fratelli erano
desiderosi di combattere ed impazienti n'aspettavano il momento: (1)
l'unico suo zio che lo assisteva, benché egli pure fosse rimasto
isolato, era quell'anima generosa del Conte di Trapani (2). Ad onta di
tutto questo, il Re sentendosi geloso della gloria dei suoi Maggiori,
si vedeva capace a tentare delle grandi imprese. Tutta la sua persona
annunziava una volontà risoluta ed altera, e quantunque danneggiata
dagli avvenimenti, aspirava alla rivincita. Egli senza farsi
(1)Imparziale
per la giustizia, non si può tralasciare di rendere le pubbliche lodi a
S. A. R. il Conte di Trani, che diunito a S. A. R. il Conte di Caserta,
han fatto prodigi di valore. Il traduttore, oculare testimone
nell'assedio di Gaeta, ha veduto questi giovani eroi esporsi a rischi
incredibili con somma annegazione, animati dal sol pensiero di
difendere la indipendenza nazionale, perché già prevedevano il duro
servaggio, a cui l'invasore avrebbe sottoposto quei popoli, che dagli
Avi loro erano stati resi indipendenti.
(2) Il traduttore vergine di servo encomio, ed. intransigibile con chicchessia quando si tratta asserire la verità non può non dire una parola per debito di gratitudine, ed in segno di ammirazione a S. A. R. il Conte di Trapani D. Francesco Paolo, ti quale si mostrò superiore di se medesimo nella sventura del suo Re e Nipote. Egli lo accompagnò sul campo e valorosamente gli combattette al fango. Egli tra gli altri di famiglia gli mostrò amore, fedeltà e divozione. Egli infine ha compiuto verso il suo Re tutti i doveri, di congiunto, di Principe e di soldato — Senza poi dir nulla della munificenza e liberalità di questo Principe sempre pronto e soccorrevele alle urgenze dei miseri che a tutto il mondo ora mai son note.
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ribelle al suo destino, si
determinò rimanergli superiore. Allora fu che, allontanatosi dal suo
venduto. governo, scampatosi dai vili e dai traditori, e riuniti tra
Capua e Gaeta i suoi fedeli, risolvette o di vincere o di morire da Re.
(4)
Si convinse pur troppo pienamente che solo nella vittoria poteva trovare una possibile salvezza: però temeva che la demoralizzazione non si barbicasse nelle truppe, perché qualora l'armata non si abbandonasse al disordine, che sempre più cresceva nelle sue file, gli era ancor facile comporne una forza imponente, e dar principio ad una lotta suprema, divenuta necessaria — Egli non poteva contare sulla forza materiale dell'armata, che in quattro mesi, si era molto diminuita, e né sulla forza morale, che era pressoché ad annientarsi, ma doveva sottraila il più che fosse possibile dagli arruolamenti clandestini, e dalla corruzione.. A ciò fare gli era necessario un punto di appoggio, per mettersi alla sua testa e con vigore dirigerne le operazioni, e cosi assicurarne l'esecuzione ed i resultati; perciò ali dopo si scelsero le rive del Volturno, ove si riunirono le truppe. Una lotta nei dintorni di Napoli
(1)Quali
prove di coraggio e di valore avesse dato il Re Francesco IL nelle
battaglie di Capua, del Garigliano, del Volturno, e durante l'assedio,
in Gaeta, non è d'uopo qui rammentarle, poiché gli stessi suoi, nemici
le hanno al mondo confessate e nelle loro corrispondenze
giornalistiche, e nelle opere pubblicate. Egli, benché vittima delle
più nere infamie de’ suoi più beneficati, tracciò 'la via da battersi
per giungere al tempio dell'immortalità dei Soprani nel quale giunto,
registrò colla propria spada, in quel volume, quasiché ancora
immacolato, il suo glorioso nome, e l'epoca sua — Il traduttore lieto
per tanta gloria di sì giovine Re, lo saluta con i meritati titoli di
eroe delle battaglie, di vero Sovrano guerriero, e d'impassibile
innanzi all'adirata fortuna.
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avrebbe dato
luogo ad uno spargimento di sangue, oltremodo crudele in una grande
città. Egli ripugnava di essere accusato come autore delle rovine di
Napoli, come lo avevano fatto credere di quelle di Palermo; e di questi
suoi generosi sentimenti aveva data assicurazione all'ammiraglio
inglese ed alla guardia nazionale. Comprendeva essere la sua partenza
un abbandono, ed il suo posto venir rimpiazzato da Garibaldi, ma a
risparmiare alla sua patria diletta il dolore di una conclusione
sanguinosa e di spaventevoli disordini, antepose l'allontanarsi. A
questo effetto lasciava un governo, e la guarnigione nelle fortezze,
onde l'ordine e la tranquillità non venissero turbate. Egli non voleva
partendo infliggere nel suo popolo il castigo dell'anarchia e perciò
sull'ara del destino, per la salute di tutti, faceva di se solo
sacrifizio aspettandosi dalla posterità la giustizia, e forse ancor la
gloria, perché noi troveremo allora, Egli diceva, dei campi di
battaglia più gloriosi.
Ma sparsasi la nuova, che il Re uscito dalla capitale, erasi ritirato a Capua per combattere il nemico, la diffidenza, e la costernazione rapidamente si dilatarono in ogni ordine della società. Il generale comandante la guardia nazionale si dimise, e tosto fu rimpiazzato dal generale Desauget, il cui primo atto fu di segnare la illegale protesta diretta ai ministri, la quale fino a quel punto s'ignorava. Con quell'atto il generale fece la professione di fede dei suoi novelli, ma tardivi sentimenti politici. Egli da qualche mese faceva mostra di un'aria la più democratica, sforzandosi far obliare i vecchi rancori dei liberali. Il general Pianelli dopo la dimissione di ministro, si dimise pure del suo grado. (1) Il generale. Nunziante si era ritirato quando
(1) Pianelli stando a capo
della, colonna mobile negli Abruzzi combinò colla setta il tradimento
che con viltà poi ebbe consumato. La setta lo fece innalzare al
ministero, perché essendo uno che godeva la fiducia della Corte,
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il
Re aveva ancora della forza, e quando la defezione presentava ancora un
pericolo, ma il generale Pianelli lo abbandonò proprio quando stimò
essere la causa perduta, ed al par di un fuggitivo s'imbarcò su di un
estero naviglio, cosa che non sorprese alcuno. Il direttore della
guerra, partito il ministro, insistette ancora per avere il ritiro; (1)
e gli altri si mostravano impazienti aspettare che il Re partisse da
Napoli. Il capo medesimo dello stato maggiore (2) che era al fianco del
Re, faceva travedere in ogni circostanza il suo abbattimento, ed il
cattivo umore. Un altro generale pure si rifugiò in un bastimento
straniero, in seguito alla indisciplinatezza dei soldati (come ei
scriveva al Re) che si ricusarono di battersi: e questi esempi, che
nell'assieme non erano altro che vilissime diserzioni in faccia al
nemico, vennero da altri imitati.
poteva senza timore
lavorare, Egli fu annunziato dai giornali ministro delta guerra quando
il Re non lo si era neppure sognato. In lui Torino confidava per lo
sbandamento, delle truppe Napolitane, e lo aveva scelto come leva
potente a rovesciare la Dinastia a cui Egli tanto doveva — Ad eseguire
quanto si era stabilito, finse sempre fedeltà, consigliandola pel ben
morire, ma allorché le mine erano già all'ordine, diede il segnale
dell'incendio e, fuggendo, gridò si salvi chi è capace. —
(1) Questo Direttore era il generale Fonseca, il quale dopo d'aversi impinquate le tasche per i lavori a lui affidati delle strade ferrate, quando vide la Dinastia in pericolo credette meglio godersi i frutti de benefici reali, anziché difendere i dritti del suo Sovrano benefattore. —
(2) Il generale Garofano Capo dello stato maggiore il quale non aveva mai fatto sfuggire un momento favorevole per carpire favori ed onori dalla Corte, quando vide che era pericolante invece di animare gli uffiziali del suo seguito a seguire il Re in sulle rive del Volturno consigliò a tutti; anzi, colla sua autorità impose che ognuno si ritirasse pei fatti suoi!
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Di questo vile
ed ignobile abbandono di coloro che avrebbero dovuto circondarlo in
questo tempo di, prova, il Re non rimase affatto colpito; poiché egli
si attendeva#tutto l'appoggio da quegli uomini, che incominciava a
conoscere, e si conduceva con essi, col'rie se da lunga pezza li avesse
conosciuti; e sostenendo con dignità i colpi dell'avversa fortuna,
mostrava una tranquilla risoluzione, che è lungi dall'audacia, ed un
dolore senza debolezza. Questa convinzione era degna di un principe che
ha più desiderio di adempiere a propri doveri, che certezza di
favorevole risultato; e sembrava che quanto accadeva nulla gli fosse di
nuovo, (1) imperocché non mostrava né sorpresa né sdegno — Egli
possedeva di già Quella perfezione che dona la sventura. —
Fece redigere una nota alla diplomazia in forma di protesta, e diresse un proclama ai popoli de Regno, alla cui lettura tutti gli spiriti si scossero e se ne divisero il dolore.. Ognuno vide in quello 1 annunzio d'una decisiva catastrofe, perché il popolo napolitano vi scorgeva i germi della guerra civile, e. della servitù del paese; e presentiva la sua propria rovina, in quella della causa dei Re — Fino a quell'ultimo istante d'intrattenne francamente e co’ ministri e con quelli che si presentavano alla reggia ad esternargli l'affetto, o per rispetto di lor medesimi. Tutti furono trattati con la sua proverbiale cortesia, ma alcuni con freddezza, e nel riceversi il loro addio, ce li ricambiò con la più perfetta tranquillità di spirito, In quei supremi momenti pieni di angoscie, conservò la calma della sua dignità, e l amorevolezza nel sorriso — Tutto ciò che accadrà dopo la sua partenza, giustificherà in avvenire le le sue previsioni e l'opportunità della sua risoluzione. Quindi è che se la Monarchia fu abbattuta non
(1)Le Corti in generale dovrebbero tenere la storia del Re Francesco II. Come Maestra, e solo così potrebbero prevenire i danni che i fedelissimi a loro continuamente preparano.
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fu solamente per
opera dei suor nemici, ma eziandio e forse più ancora, per opera dei
tradimenti dei suoi amici, (1) e per la insensibilità dei suoi
partigiani —
Roma il 1 Aprile 1861
(1)
Se per poco il lettore si fa a ricordarsi il modo barbato con cui è
stato tradito il Re Francesco II non può non maledire quei vili che gli
erano amici della fortuna. Essi, mentre facevan speculazione su i
favori della Corte, patteggiavano col nemico a vii mercato l'assassinio
di Lui, e della patria.
E a tal uopo i Governi debbono essere in guardia di questi iscarioti novelli, e non usare deferenza in accordare favori, la qual cosa è sempre la causa principale della caduta dei Troni. La nobiltà e povertà debbono aver egual posto agli occhi del Sovrano, il quale però deve tra le due classi di società egualmente premiare il genio e la virtù, che è il solo puntello per non far vacillare le Corone.
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Signor Barone, :
Sono
già cinquantaquattro anni, dacché un altro Re della famiglia Borbone
veniva egualmente espulso dalla propria reggia; ma una tal partenza fu
straziante, perché l'amore ed il rispetto erano stati accresciuti
dall'infortunio, e nessuno aveva voluto evitarne l'impressione. Le sale
della reggia erano stivate di gente, ed il corteggio reale incesse in
mezzo a mille volti impalliditi ed abbattuti nell'animo pel dolore. I
gentiluomini facendo ala al passaggio del ne, che piangeva al pianto
dei suoi famigliari, quali tutti si gli prostravano innanzi per onorare
la Sovranità, la vecchiezza e la sventura; i fedeli domestici di Casa
Reale appartenenti a famiglie infeudate per i favori di Cario III.
singhiozzavano di nascosto, e la Maestà del Re aveva già sentito il
dolore di quella separazione che avrebbe fatto spargere intorno a sé
lacrime copiose. Il corteggio però del Giovin nipote di Ferdinando IV,
che del pari sortiva dal comando dei suoi domini non si compose che di
tre soli generali ed una sola dama, faceva compagnia alla Regina, che
era la Duchessa & Cesareo, alla quale, per la rimembranza dei
dolori si rendeva più nobile è per questo meno difficile il compito. La
storia registrerà i nomi di questi sudditi fedeli che seguirono la
famiglia reale nella disgrazia, ed in un tempo di tradimenti, ma a
gloria della dignità umana, (1)
(1) Il traduttore si crede
nei dovere far osservare ai suoi lettori i tre tenenti generali che
seguirono il Re. Essi furono Il Duca D. Riccardo di Sangro. Il Principe
50
Questo
corteggio, trista lezione dell'umane vicende!.. attraversò
silenziosamente le deserte sale della reggia. Il Re mostrava una
grandezza di animo al pari dell'avversa fortuna. La giovine Regina si
mostrava in grado eminente fornita di una tal forza di animo, che
produce una gran fedeltà; nel suo dolore si scorgevano innestati
abbattimeli ti ed intrepidezza insieme, che non si potevano ammirare
senza rimanerne maravigliati. Essa appena appena pensava a quel trono
che poco fa era uno dei più belli del mondo, ma tutti li suoi pensieri
«ratto rivolti al suo sposo, obbligato a doverne discendere.
Negli ultimi istanti i Ministri avevano ascoltate in silenzio le dichiarazioni del Re, e niuno tra loro aveva mostrato rincrescimento per vederlo determinato a partire, e se erano forse costernati, non ne era causa il quadro che loro si offriva dei dolori del Re, essendo essi affatto innocui a tenerezza, ma lo erano per loro stessi, perché ciascuno riserbava per se medesimo l'egoismo di sua pietà. Il Signor Romano appariva impassibile e pagava col disprezzo la diffidenza che inspirava a suoi colleghi. Il Re voltosi a lui gli disse sorridendo: Ma non siete abbastanza compromesso, Signor Ministro, per staccarvi un passaporto? Ventiquattro ore dopo il più di quei Ministri si erano imbarcati, ma niuno ebbe il pensiero di recarsi a Gaeta. Il Romano rimaneva per ricevere Garibaldi, per assistere al suo ingresso con tutta solennità e per arringarlo pomposamente unito a' due Direttori Giacchi, e di Cesare, uomini nei quali ciascun pensiero era stato una frode, e ciascun'azione un inganno; $ nel mentre che uscivano dall'ombra, non più si scorgeva in loro l'audacia, ma la sfrontatezza, Essi si ricevettero da Garibaldi quei poteri che il giorno avanti tenevano dal Re. Il Generale De Sauget ritenne il comando della Guardia Nazionale in premio del convenuto prezzo.
di Buffano e S. E. il Commi B. Leopoldo del Re, i quali senza esitanza adempirono al loro dovere, ed i più tardi nepoti non dimenticheranno i loro onorati nomi.
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Il
Re arrivato all'Arsenale niente trovò allestito per la partenza, e né
si presentava alcun Comandante per accompagnarlo a Gaeta. Tutti
mostrandosi sommessi in sua presenza, fintamente deploravano
l'immoralità dei loro equipaggi; Nel ricevere l'ordine di approntarsi
alla partenza, molti borbottando adducevano inutili scuse; altri davano
la loro dimissione, e qualcheduno rispose che non riceveva ordini
fuorché dal Ministro responsabile. In fine dato l'ordine della
partenza, la Saetta sola si muoversi parte, ed il Re si allontana da
quel grandioso anfiteatro di Napoli, ove una calca di gente commossa
testimoniava col dolore la sua fedeltà. Napoli si era abbandonata alla
gioja colpevole dei nemici della Monarchia, allo scoramento dei suoi
partigiani, al dolore, ma non alla sorpresa degli uomini onesti,
spaventati da questo strano cambiamento di fortuna. Tutti i navigli
della crociera con i quali il Re imbatte vasi, viaggiando, ricusavano
di portarsi a Gaeta, tutti i Comandanti affettavano di non conoscere
una Sovranità, dalla quale non avevano ricevuti che continuati favori.
Il solo Tenente Colonnello Signor Pasca lo segui con uria fregata a
vela, che gli Uffiziali abbandonarono in arrivare ài porto. Francesco
li. aveva serbate pochissime illusioni per esserne sorpreso. Ma a suoi
rammarichi di Re gli si aggiungevano i dolori di cittadino, da' quali
fu assalito crudelmente per la vergogna della marina napolitana. Si
fecero altra volta sollevare gli equipaggi della flotta Olandese contro
i loro capi ma nell'attuale procedimento odioso, si rubava la flotta al
Re, prevalendosi gli uffiziali del loro ascendente sull'equipaggio. In
quella che il piccolo naviglio del Re nel dì 8 Settembre fendeva le
onde, quelle truppe, di cui si era fatto dubitare nella fedeltà,
entravano brigar a per brigata in Capua. Se vi era ancora confusione e
disordine, noti vi erano però diserzioni, né tampoco insubordinazioni.
Queste truppe erano indignate di essere state vinte senza comprenderlo:
peritavano su chi dovessero far cadere i loro sospetti. Non si è mai
veduta un'armata così ardente,
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cosi adombrata, cosi sospetta, la quale, basta che non comprendeva una cosa, gridava al tradimento. Questo era la contro rivoluzione nelle file della milizia, l'armala era popolo, e l'artiglieria sopra tutto faceva mostra fra i soldati di una collera più che generosa; e se da questo nobile sdegno sapevasi trarre profitto, col solo secondarlo, la disciplina avrebbe potuto infiorire.
Intanto a Napoli gli uomini che passavano il giorno avanti per i più fedeli e per temperamento più ben formati, se ne ritiravano, ma partito il Re, non esitarono di ab bracciarsi quella bandiera che poteva loro procurar vantaggi senza pericoli. I Generali congedavano i loro ajutanti di campo, e ricusavano di andarsi a mettere alla testa delle loro truppe; uno sciame di ufficiali si nascondeva per non seguire una bandiera in ritirata, e beo tosto, vinti dall'infezione, pubblicavano la loro adesione, e ricevevano impieghi dalle roani di Garibaldi. Uomini altolocati, senza usar riguardi alle proprie convenienze, si videro passare da uno all'altro partito e ne adottavano le passioni, salvo se ciò facessero per finzione. Questi esempi di tal natura non hanno riscontro che nei conquistatori del Perù nel XV secolo. Il General Ghio, questo Maroto napolitano, che aveva capitolato Soveria fu innalzato a Governatore militare, di Napoli. Coloro che avrebbero dovuto dare ordine alle guarnigioni dei forti si nascosero. Il Comandante del forte di S, Elmo, Sig. Stanislao Garzia, che aveva ricevuto immensi benefìzi dalla Corte, e che, per X esagerazione 4e' suoi principii si era rimasta sempre impunito delle sue malvagità, si affrettò di cedere il forte. Il maggior generale della marina Signor Luigi Iauch, ed il colonnello Nunziaate si adoperavano nel reggimento della marina per farlo defezionare, provocandone lo sbandamento. Il generale in capo della colonna venuta dalle Puglie, Signor Filippo Flores. dopo aver abbandonate le sue truppe loro scriveva di fare la sommissione, e ne preparava la dispersione. Il generale Signor Luigi de Benedictis, dopo aver aspettato con pazienza che la vittoria si fosse dichiarata,
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scrisse
in od modo sconvenevole al ministrò della guerra a Gaeta, ed in pari
tempo con termini di confidenza al ministro di Garibaldi. Esso stesso
aveva organizzato l’abbandono delle fortezze e con ciò anche la perdita
degli Abruzzi. Il Generale Signor Ferdinando Locaselo, (1) comandante
di Siracusa, ed il comandante di Augusta che avevano cedute le piazze
senza essere attaccate, i recarono in Napoli per gloriarsi del non aver
fatto tirare un colpo di fucile. Quali ammaestramenti e quali esempi!
Un giorno verrà che la storia sentirà tremarsi fra la sua mano la
bilancia della sua giustizia, quando entrerà nel racconto di queste
triste scene! Gli esempi di fedeltà furono pochissimi e tra gli altri
quello del colonnello Girolamo Liguori, che non potendo impegnare una
lotta in città, rannodò il suo reggimento, e lo condusse a combattere
sul Voltolano.
I fatti che seguirono l'abbandono di Napoli sono troppo conosciuti, perciò non mi è d'uopo diffondermi su quella lotta eroica, e su l'ammirabile condotta del Re in mezzo a suoi fedeli soldati.
Il Piemonte smettendo ogni ragione di dritto, tutto ad un tratto comparve sulle spalle dell'armata per gettare la sua spada nella bilancia, e decidere la lotta. Aut Nunc aut Nunqnam aveva detto Guglielmo d'Orange partendo per detronizzare il suo suocero. Ma qui il Re detronizzato ha dato prove di eroismo nella ingiusta lotta, ed io credo che tutti i nobili cuori che hanno casa nella patria di Enrico IV, saranno rimasti compresi di ammirazione per un Principe di sua famiglia, che purtroppo bene lo rappresenta. In questo modo si consumò l'odiosa cospirazione che era stata ordita dalla trista
(1)Questo
traditore ebbe a compagno anche il Capitano Galluppi, i quali per non
avere la sorte del Generale Briganti dicevano ai soldati che il Re si
era imbarcato per l'estero, ma dopo che quei prodi seppero essere il Re
a Gaeta colà volarono alla sua difesa, maledicendo i nomi di Locascio e
di Galluppi.
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amministrazione di soli due mesi, benché la metà di tal lavoro era stato compiuto. dall'abilità corruttrice del gabinetto di Torino, e dalla somma destrezza di un Ministro. Egli si era servito del potere per disarmare il Re, e con l'astuzia smantellare la Monarchia, e la indipendenza nazionale, pria di annientarle colla violenza.
Allorché si esamina lo stato in cui la nazione si trovava, e confrontando le forze delle fazioni, si vedrà che gli aderenti del Re erano di gran lunga superiori ed in numero ed in potere. Il popolo sosteneva con calore i dritti di Francesco II. Il Clero poteva mettere nella bilancia tutta l'influenza che aveva sul popolo. La scienza, l'esperienza e tutti gl'ingegni brillavano in particolar modo, e presso che esclusivamente, nel partito realista e costituzionale. Ma gli avversai avevano altri vantaggi che loro assicuravano molta superiorità. Tutti i talenti che germogliano d'ordinario nelle rivoluzioni, la risolutezza, l'inganno, l'audacia, uno scopo prefisso, l'appoggio energico di un governo le simpatie di taluni altri, combattevano contro il Re. Le misure del cospiratori erano prese con prudenza, ed eseguite con vigore; tutti i loro piani orditi nel più gr$n secreto erano condotti, con arte. I cambiamenti che sono d'ordinario il frutto degl'intrighi e delta destrezza, preparavano alla lontana le ore alla violenza. Il popolo napolitano amava la Monarchia dei Borboni, ed alle sue tradizioni si teneva fermo; la monarchia costituzionale contava pochi avversar!, ma amici senza numero, e questi erano per lor natura circospetti e di poca energia, I due partiti realista e costituzionale formavano due correnti d'idee, che rispondevano a due bisogni positivi del paese, ma sarebbe stato bisogno potersi intendere senza urtarsi. La monarchia aveva pochissimi elementi per sostenersi in vita, innanzi alle minacce che se le facevano, perciò vi era d'uopo di una fusione, che per mancanza di tempo non si poté effettuare. Per la qual cosa rimasto libero il campo al partito della violenza, che non vedeva il suo trionfo se non in mezzo al turno dei combattimenti,
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e che
tracciò la via a Garibaldi, la rivoluzione si diffuse con tanta
celerità che rassomigliava ad una striscia di fuoco. Questo partito era
composto di tutto quanto aveva il paese di più appassionato di più
audace, di più facinoroso, e voleva adottare il giorno dello sbarco di
Garibaldi come il primo giorno della ERA sua.
Il potere l'aveva ajutato; la sua politica si era ridotte in tanta tristezza da vivere alla giornata, senza pensiero del giorno innanzi, ma con tutti i terrori dell'indomani. Il Ministro non aveva avuto che dubbiezze,, che mancanze, o calcoli secreti; si era ben guardato di invocare la reale autorità da cui tutto doveva emanarsi, e dipendere nell'ordine esecutivo; aveva costantemente affettato di credere che un governo costituzionale era l'assenza di ogni azione ostensiva del Sovrano negli affari di Stato, ed avrebbe voluto fare un simbolo vano di questo potere dello Stato cosi efficace e cosi tutelare; e cosi la rivoluzione, con la violenza e l'inganno che si stringevano la mano, aveva rivolto contro il Re la stessa libertà, che aveva accordata. La rivoluzione non lascerà né anche al paese la libertà de’ suoi dolori, perché è il trionfo di un partito. Gli annali politici offrono molti esempi di nazioni rivoltate per ottenere la libertà, ma era riserbato al regno di Napoli offrire lo spettacolo sorprendente di una nazione, che tollera l'invasione e l'insurrezione, nello stesso momento in cui il suo Re le concede una libertà forse troppo larga e di molta estensione. Ma se la Monarchia napolitana si trovò esposta ai vortici tempestosi delle onde rivoluzionarie pronti a sommergerla, ne fu causa sopratutto l'Europa col suo abbandono, poiché stette impassibile fino al momento in fui vide i rottami del Trono dispersi e trasportati dal torrente.
Uno storico che non deve permettersi alcuna escursione nel vasto campo dello congetture ha il dovere di registrare gli avvenimenti, di esporre coscienziosamente le cause, e gli effetti. Intanto si va chiedendo
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ancora e spessa in
qual modo Ferdinando II avrebbe diretta la catastrofe di questa nuova
rivoluzione, e se la casa di Savoia, che aveva ripresi gli stessi suoi
vasti ed ambiziosi progetti, avuti sotto il regno precedente avesse
terminato per trionfare. Senza dubbio Ferdinando II con la sua volontà
imperiosa colla sua energia, e colla sua lunga esperienza, se non
avrebbe impedita, avrebbe almeno ritardata la catastrofe, però senza
anche l'indecisione di un nuovo regno senza pure la guerra d'Italia, la
federazione di un Principe, e di un governo con la rivoluzione avrebbe
condotto alla stessa crisi. L'aristocrazia militare, nei suoi generali
di terra e di mare, attivatasi in questa rivoluzione più che l’antica
aristocrazia liberale, io la stimo come la vera autrice dell'abbandono
di Napoli, che fu l'incoronamento della rivoluzione. È innegabile
essere stato questo grande sfacelo opera dei Capi militari, poiché con
la loro debolezza, con la loro viltà e perfidia impedirono che i
Sovrani comandi producessero gli effetti salutari; covrendo in tal modo
la patria loro di vergogna innanzi agli occhi degli avvenire. Essi
preferirono conservarsi le ricchezze, anziché la fedeltà e l'onore...
Il delitto che commisero ministri ed i generali napolitani è senza dubbio il pii terribile, perché lo consumarono a nome dei loro poteri, nei quali la società affida l'incarico della sua difesa, per mezzo delle braccia che ne sono l'appoggio. Questo loro delittuoso esempio fu la causa del turbamento delle coscienze, dello scuotimento del più fermo coraggio, e del paralizzamento delle vive forze della nazione.
Io credo esser giusto in additare costoro, con i propri marchi, ai contemporanei, ma la posterità sarà più severa di me, benché i suoi giudizi siano dati con pii} freddezza. La storia che rappresenta la posterità, che ha bisogno tutto conoscere, ed il dritto di tutti giudicare, registrerà molti fatti a rammarico perpetuo dei cuori generosi.
Roma li 14 Aprile 1861.
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Signor Barone
Da
qualche tempo, la vostra Alemagna carezza con più entusiasmo, che con
riflessione, il sogno dell'unità. Ila ciò che è stato per l'Italia una
legge di morte non può essere per l'Alemagna una legge di vita. £ anche
in nome dei pericoli della nazionalità che si agitano i cuori, e che si
turbano gli spiriti. La divisa dell'italiana bandiera si è impressa
pure su quella tedesca, e camminando per lo stesso scopo, si obbedisce
ad identiche ispirazioni. E voi che avete saputo adempiere con tanta
gloria alla missione eminentemente patriottica di conciliare le
rivalità dalle potenze tedesche; voi che con tanta nobiltà di animo
avete faticato a fermare i patti federali; serbando intatta
l'indipendenza delle corone; voi a cui la Sassoni tutto deve per aver
fatto di sua indipendenza un uso vantaggioso allo sviluppo dell'idea
del progresso, voi certamente comprendete meglio di ogni altro che
l'unità sarebbe il servaggio di tutti. In Italia la sola base del
dritto pubblico, protettore di tutti i popoli, poteva assicurare
l'indipendenza delle popolazioni, la stabilità delle dinastie, ed il
inameni mento dell'ordine contro le fazioni. I Sovrani avrebbero potuta
mettere in comune, come si è fatto in Germania, le loro cure, le loro
esperienze ed i loro lumi pel bene dei popoli. Voi avete orinai sotto
gli occhi i fratti amari della politica unitaria in una contrada, ove
erano di niun rilievo i contrasti, gli ostacoli e le antipatie, benché
vi era pure 1 unità delle credenze religiose; e con tutto questo non si
è fabbricato che su palafitte nell'acqua.
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E
non crediate che si è dovuta aspettare gli avvenimenti, i quali
l'Europa intera hanno disordinata, per intravedere i pericoli di questa
unità, ch'è un atto iniquo, ed in pari tempo una misura impolitica;
poiché da otto secoli in qua è stata sempre tale la Stona dell'Italia;
in ciò che risguarda la guerra tra il principio dell'unità, ed il
principio della confederazione. Questa guerra vi fu ancora e per lungo
tempo prima della Signoria de’ Romani. Nell'Italia moderna l'elemento
ghibellino ha lottato sempre contro Roma, e la federazione; e
l'elemento guelfo unito a Roma contro i Cesari teutonici e l'unità; e
questa lotta, e questa opposizione hanno formata la vita nazionale
degl'Italiani. La decadenza politica dell'Italia non data che dal XVI
secolo. Quelli che Conoscono la nostra storia, M genio, i costumi, le
abitudini, e le usante del popolo italiano, non ha bisogno che venga
loro dimostrato non essere la coscienza popolare che fa appello
all'unità dell'Italia; e se da questa sono state infiammate delle
immaginazioni, (che nella Penisola sono sì vive e mobili!) il più degli
Italiani saggiamente l'ha creduta una ingannevole e funesta chimera.
Voi sapete, che vi sono poche razze cosi avide di dominio, come la razza italiana; questo sentimento si scorge nelle produzioni di letteratura di ogni epoca. Questa avidità si appalesa pare nella poesia e nelle opere ove le passioni si manifestano con spontanee tendenze, in cui se ne può sopratutto cercare I' espressione. La letteratura si è preoccupata, per più secoli, di dare una specie di consacrazione a questo istinto dominatore, dando sempre mano alla rivoluzione: e più segnatamente dopo il risorgimento delle lettere si è sforzata a convincere gl'Italiani, che la civiltà pagana fu più perfetta di quella dei secoli cristiani. L'educazione, dopo Leone X. è consistita non in altro che a studiare, ad ammirare, e ad onorare l'antichità; ma dopo di aver seguita la letteratura brillante, le arti, la filosofia degli antichi l'Italia ha voluto prendere egualmente ad imprestanza la loro
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politica
costituzione. Gli spiriti più esaltati invocavano la repubblica, e
Invada de Camilli e dei Scipjoni, chiamavano co’ loro voti Cesare e
l’impero, e coloro che credevano seguire l'idea di Dante, e di
Machiavelli con capivano il pensiero dell'indipendenza dell'unità
Italiana. L'idea della monarchia italiana si mulinò pure da Federico;
Barbarossa, da Luigi di Baviera, da Federico II, da Enrico VII, da
Ladislao di Napoli, da Carlo V, e forse dallo stesso Cesare Borgia, ma
ciò non era presso costoro, né un disegno premeditato, né un'utopia. La
Chiesa ch'è stata la protettrice dei popoli italiani contro le barbare
invasioni, e la custode nella nazionalità italiana non ha. avuto forse
un Alessandro III, un Gregorio VII, ed un Giulio II? Costoro però
pensarono non all'unità d'Italia, ma alla sua forza ed alla sua
grandezza. La rivoluzione francese e l'Impero, al principio di questo
secolo, lavorando a render uniforme il convincimento, che riunita
l'Italia in un sol fascio sarebbe invincibile, e che in luogo di essere
a vicenda la vittima de’ Tedeschi, dei Francesi e degl'Inglesi, essa
farebbe a tutti la legge, e diverebbe la prima nazione del mondo
I Napolitani danno il più libero corso alla loro immaginazione, una scintilla, piccolissima che fosse, è molto pericolosa d'accanto ad un ammasso cosi combustibile, per la qual cosa a Napoli specialmente, la rivoluzione segnò l'apoteosi della razza italiana. Il talento della parola, della cui forza troppo facilmente s'abusa nel napolitano, era l'istromento più efficace per rendere la gioventù accessibile ai ditirambi sopra la superiorità degli italiani, e sul toro destina, ch'è quello di far risorgere la dominazione romana.
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Ma
il partito liberale non voleva, dopo la pace di Villafranca, fasciar
trascinare il suo liberalismo Ano alla rivoluzione, e si sforzò colle
sue esortazioni di opporsi alle idee unitarie, al quale uopo parlò di
libertà, e non di unità. Dapoicbè non scorgeva in esse che una
situazione piena di discordie, di difficoltà, e di lusinghe a vantaggio
delta cupidigia, e dell'ambizione del Piemonte. Il prefato partito era
di più indignato, della doppiezza del governo piemontese, il quale
contrariando io stipulato di Villafranca, lasciava sfuggire l'ultima
occasione, forse, di rigenerare. L'Italia. Tutti gli uomini illuminati,
tutti i primi locati nella magistratura, e nell'amministrazione,
desideravano palesemente la federazione. Delle due forme differenti,
confederazione di Stati, o Stato federato, la prima era la più adatta
ai costumi italiani la più semplice, vedendola più facilmente
attuabile. li Pontificato supponeva nello stesso tempo una egemonia che
tutti gli associati avrebbero riconosciuta.
Non vi è poi alcun argomento opposto alla possibilità dell'unità italiana, e così ben giustificato dagli avvenimenti, che non sia stato da quell'epoca obiettato al partito piemontese; ma questo partito anche prima di arrischiarsi, si opponeva di già alle concessioni del potere, perché le credeva nemiche alla vita della rivoluzione. Non si è mai visto un partito che si correggesse per mezzo dell'esperienza.
Napoli era allora un focolare di attività intellettuale e morale più ardente forse, che quelli delle altre città d'Italia. Le opinioni, che dividevano gli spiriti, in ogni circostanza, erano represse, e con quella vivacità nazionale, che il calore del combattimento spiegava, ma non affatto giustificava; e sia l'una che l'altra parte era persuasa, che con tali discussioni si metteva in trastullo l'avvenire del paese. Ma la bandiera del Piemonte non aveva altri seguaci, che quelli i quali, per far fortuna, volevano sopraffare il potere. L'Italia, secondo essi, indarno aveva procurato
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in
ogni epoca interessare l'Europa delle sue sventure, che pel mondo era
un rimorso, ed abbenchè essa era dannata a rifarsi una vita morale, ed
un destino politico, pure, senza posseder forza da farsi rispettare,
aveva sempre ispirato il rispetto.
La patria di Galileo, e di Dante, di Telesio e di Vico, di Tasso e di Alfieri, di Flavio e di Colombo, non veniva considerata come la patria dei Colonna, degli Sforza, dei Caldora, dei Montecucculi, e di Eugenio di Savoia, e perciò non esercitava alcuna influenza sugli interessi dell'Europa. La divisione dell'Italia in piccoli principati l'aveva ridotta a vivere sotto tutela, aveva favorito la preponderanza dello straniero sopra una nazione che per la sua storia, per le sue ricchezze, per la sua popolazione, e per la sua posizione geografica avrebbe dovuta annoverarsi fra le grandi potenze d'Europa. Nelle rimembranze, della storia antica gl? italiani dovevano attingere il sentimento della loro potenza. Un grande avvenire si sarebbe fondato nell'ultimo combattimento tra il genio della bella libertà antica, e quello della presente moderna dominazione. D'altronde nulla è di più legittimo, che i popoli di già uniti per comunione di sangue, di lingua, e di civiltà tendessero a mirare ad una fusione di un regime politico, compatto e forte;essendo pio desiderio quello di rinascere alla grandezza antica...
L'unità sola, aggiungevano essi, potrebbe fare dimenticare per sempre il capriccio, e la leggerezza della politica degli Stati Italiani, e gli episodi funesti del lungo martirio de' popoli a causa dell'occupazione straniera. L'unità d'Italia non era meno necessaria alla nazionalità italiana, che l'unità della Francia e della Spagna le quali furono giudicate indispensabili alla nazionalità Francese e Spagnola. L Italia era filata calpestata non meno che la Grecia e la Polonia; per la confederazione ed il Pontificato che avevano mantenute le divisioni nella penisola, si erano perpetuati il dispotismo interno e la tirannide ecclesiastica.
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Le idee dì Balbo e di Gioberti erano oramai divenite decrepite. Non si poteva rimaner soddisfatto di una confederazione, in cui entravano l'Austria come arbitra, ed i Duchi come vassalli, perché in una guerra qualunque si avrebbero veduti italiani marciare sotto una bandiera che detestavano l'unità italiana attuata nelle arti, nelle lettere, e nelle scienze con una grandezza incontestabile aveva sempre incontrato, rispetto alla politica, ostacoli da non potersi sormontare. Ormai essa poteva affidare questa missione alla Casa di Savoia, pel cui patriottismo la nazionalità italiana era vissuta al di là dei disastri di Novara. La bandiera di Novara si veniva a rialzare a S. Martino, e la pace di Villafranca non era che la supremazia della Francia. Questa ripetizione della vecchia Storia mostrava che, l'Italia combattendo col braccio dello straniero, doveva esser sempre serva, sia vincitrice, sia vinta. Frattanto i partigiani dell'unità ripetevano sempre non volere le aquile straniere; perché le sole aquile latine erano il simbolo della forza e della indipendenza italiana.
Essi non credevano, che nell'unità italiana vi fosse un problema europeo. L'Inghilterra erasi già pronunziata in favore, dell'annessione dell'Italia centrale; la Confederazione germanica non si Mostrava ostile; La Russia era sdegnata dell'ingratitudine di Vienna; l'Austria era impotente, e la Francia non poteva retrocedere fino alla politica dei Valois, e dei Borboni per risuscitare l'Italia dei Duchi di Mantova e di Urbino l'elemento nazionale trovava in Europa simpatie certe, nazioni libere e governi illuminati. L'Austria atterrii^ dal fantasma dei pericoli', che potrebbe incontrare con una nuova guerra popolare; imbarazzata dalle sue sconcertate finanze; minacciata dalle aspirazioni dei suoi popoli, comprenderà, dicevasi, l’impossibilità di tenersi soggetta la Venezia. L'Italia col suo rantolo di agonia non sarà più molesta all'Europa. Bisogna adunque saper profittare nelle circostanze, perché l'opportunità del momento è la suprema saggezza: è d'uopo o risorgere, o per sempre morire; e per risorgete bisogna
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aver fede nell'avvenire, nelle nazionalità, e nel trionfo definitivo della ragione e della giustizia!
Coteste declamazioni vi daranno, Sig. Barone, un'idea presso a. poco esatta delle passioni, e delle preoccupazioni del partito esaltato, ad un tratto divenuto unitario. Ma quei che temevano volersi fare della libertà un patriottismo, le combattevano con inaudita energia: perché non volevano, come asserivano, che le lezioni della storia fossero andate perdute. Questa fissazione sella idea dell'unità; questa febbrile risoluzione di riuscire anche a, costo della giustizia, questa cieca fiducia nelle sue proprie forze, e nei suoi destini non potrebbero far suonare a rintocchi funerei la campana dell'Italia? Dopo tranti inganni, ed in vista, di tante rovine perché non interrogare il passato, onde esser istrutto per l'avvenire? Il sentimento dell'unità italiana rivestito della forma con cui oggi giorno appare non prende origine nelle rimembranze della grandezza Romana.
L'Italia non videsi giammai unita ohe sotto il giogo di Roma, e non per comandare al mondo con essa, ma per servirla col mondo. E là grandezza romana pertanto ad elevarsi sugli avanzi dei costumi; delle istituzioni, e delle libertà italiane impiegò non pochi secoli. Si vuole far rivivere la democrazia del popolaccio, che schiavo e re, vendeva la porpora ai Cesari? Si sogna per caso un'unità assorbente e conquistatrice? Allora però non si tende ad altro che ad un concentramento di potere senza controllo, e ad una guerra al di fuori perché l'unità non può attuarsi se non col terrore e con la guerra, e così o quello o questa dovrà essere la base del nuovo governo. Una politica orgogliosa, turbolenta, e temeraria avrà seco l'unità, giacché l'ambizione è sempre più vasta delle frontiere. Lacerate la carta d'Italia, fate un'ecatombe di tutte te tradizioni, e voi non riunirete che elementi eterogenei. Il potere che voi formerete sarà litigiosa e pieno di vanagloria, e se cade una volta sotto la mano di nomini ambiziosi,
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potrebbe divenire formidabile istigamento di perturbazione e di guerra. L'Italia una, forzata fin dalla sua cuna a divenir guerriera e conquistatrice sarebbe condannata a morire tanto per le sue disfatte quanto per i suoi trionfi Voi contate sulle simpatie nel mondo? Ma chi calmerà le gelosie ed i sospetti d'Europa? Questo colosso improvvisato, per mezzo di una rivoluzione, non solo, ma ancora per una usurpazione territoriale, sarà sempre una combinazione minacciante. Richiamate alla mente la Costituente di Francfort del 1848, e l'agitazione dei tedeschi durante l'ultima guerra. L'Inghilterra si vorrà servire dell'Italia contro la Francia, ma si ricorderà più tardi delle flotte di Genova, e di Venezia, non che di una. immensa estensione di coste, di porti superbi, che sono popolati di eccellenti marinari. La Francia nè tampoco dimenticherà che un gran regno italiano è un'idea di Pitt: permetterà dunque che le s'innalzi contro, ouesto bastione come il Belgio nel 1815? L'attitudine della Russia sarà la stessa, quando voi potrete dall'Adriatico attraversare la sua politica in Oriente? La vostra riunione delle eterogenee razze d Italia, la vostra unità di conquista, la vostra distrazione delle dighe morali e materiali innalzate nel 1815, può divenire il principio di un guazzabuglio da non saperne prevedere il fine ninna intelligenza umana. Il nuovo impero per garantirsi sarebbe obbligato di mantenere un'armata colossale, e. non potrebbe costituirsi che per mezzo della guerra, e della tirannia; e con questo una coscrizione opprimente, un debito enorme, un abisso di sacrifici. L'unione del romano impero mondiale fu il trionfo del dispotismo. La centralizzazione è la condizione, ed. il pericolo dell'unità politica, la quale non può farsi che per mezzo del dispotismo. L'Italia non si riunirà che nel servaggio, frutto di una dittatura militare, e l'eguaglianza non si stabilirà che sotto l'oppressione comune. Al contrario la federazione, proseguivano essi, risposa sul genio nazionale; la divisione che esisteva prima della dominazione romana, è nata dalla configurazione della penisola.
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Essa gode il vantaggio dell'unità di religione, di letteratura, di gloria, ma viene composta di popoli differenti per l'origine per indole, per abitudini, ed eziandio per i pregiudizi. In tutta Italia vi sono dialetti, che non si uniformano all'unità di lingua, e questi dialetti sono altrettante lingue innalzate ancora al grado di lingue letterarie. L'opera della letteratura non ha penetrato nelle infime parti della società $ vi sono mille divergenze dovute alle circostanze esterne, al clima, ed all'educazione d'incivilimento. E se si veggono che influenze sì diverse possono in una nazione, a più forte ragione debbono esse agire tra nazioni e razze differenti. Ricordatevi che la razza Milesiana degl'Irlandesi non si è ancora fusa con la Sassone. Presso noi ciascuna città ha i suoi annali, e dell'Italia è avvenuto come della Grecia, in cui l'unità le produsse servaggio, e l'indipendenza municipale le avrebbe data la grandezza. In quella che 1 Italia scosse il giogo dei barbari, lo fece col suo antico municipalismo, col quale rivalizzò con l'Italia di altri tempi, e riempi il mondo di civiltà. Questo smembramento, di cui voi vi lagnate ha sempre contribuito allo sviluppo intellettuale degl'Italiani, ed ha fatto sopravvivere l'Italia a tutte le invasioni, di cui essa è stata il teatro, contenendo in sé grandi elementi di forza, che la sola federazione può sviluppare. Ed il capo di questa federazione è Colui che personifica la monarchia universale, e che assegna a Roma una seconda eternità. Tutti i tentativi che si son fatti per rallentarci nei legami che a Roma ci stringono, non hanno altro prodotto che la schiavitù d Italia.
D'altra parte, lo spirito italiano è per eccellenza uno spirito di rivalità, è lavoro di secoli. Farete voi di Roma il centro del vostro governo per urtarvi contro il j>o tere temporale del Papa? Farete voi di Torino l'Atene dell'Italia? Sopprimerete voi Firenze, la città dei Medici, Napoli la città di Federico, e di Alfonso d'Aragona, Milano e Palermo, tutte queste capitali che hanno una storia, de’ monumenti, delle tradizioni, delle leggi, e de’ costumi?
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Si lasceranno esse assorbire per lungo tempo da Torino?
Non vedete Genova la città dei Doria e dei Fregosi, che soffre con impazienza dopo quarantacinque anni di esserle annessa? I Siciliani non sono stati un tempo uniti al Piemonte? E furono per questo più felici e sommessi? I Napolitani che non lo furono sotto il dominio Francese, vorrebbero perdere l'indipendenza ricuperata con Carlo III, per ricadere in una schiavitù più oppressiva che loro impose una volta la Spagna? Le tradizioni sono potenti, le vanità imperiose, e, passato il delirio rivoluzionario, le diverse contrade d'Italia non vedranno nell'unione, che una vendetta di partito. Le suscettività municipali creeranno ostinate opposizioni, resistenze, e guerra civile. Al primo disastro, le passioni dell'indipendenza, è le gelosie Municipali scoppieranno da per tutto con una spaventevole esplosione. Il Re del Piemonte rappresenta a nostri giorni la parte del capo degli Ostrogoti? Ma in tal caso sarebbe una conquista, una dominazione sabauda! E come mai questo nuovo Teodorico farebbe dimenticare le Dinastie legittime? Gli Stuardi, i Borboni, i Bonaparte non conserveranno sempre partigiani numerosi e potenti? Si è dimenticato l'insurrezione dei Calabresi, ed il sangue a torrenti versato allorché si sollevarono contro le falangi francesi? Ostinarvi nel vostro progetto importa volervi svegliare al rumore di lotte fratricide, importa volere che l'anarchia, onde son desolati da un mezzo secolo gli Stati dell'America meridionale, sia il retaggio dell'Italia, per condurci presto o tardi ad una restaurazione. (1) Ed i laceramenti e le lotte intestine non
(1)
Saggissima è la riflessione del chiarissimo autore, perché ogni
rivoluzione, essendo una negazione della sovranità, dopo aver corse
diverse vicende, finisce col rinnovamento dell'impero legittimo, con
una ristorazione la Quale, parlando generalmente, in Europa dipende dai
popoli e dai principi.
Se i popoli poi si ostinano a non volere il buono
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finiranno
forse colle umiliazioni al di fuori? La libertà medesima esposta agli
odi degli uni, ed agli eccessi degli altri non resisterà alle lotte
accanite dei partiti. Voi sarete come i barbari, che avanti di
rinnovare le sorgenti della vita, e di creare il mondo moderno, furono
sul punto di stringere la civiltà. Ma progetti simili, quando sono
l'opera dei particolari, si chiamano tradimenti: ed applicati ad un
popolo intero si chiamano suicidi. Né, egli è impossibile riunire col
mezzo della conquista e della rivoluzione ciò, che altre conquiste ed
altre rivoluzioni hanno veduto disunire; e di riunire ciò che l’azione
dissolvente de’ secoli ha diviso. Gl'Italiani per una fittizia verità
non andranno certamente a gittarsi in una vera unità rivoluzionaria, in
cui perderebbero la loro originalità. L'antica e vera grandezza
dell'Italia non può risplendere che il giorno in cui il focolare
domestico, il trono, e l'altare saranno messi sotto l'egida della
potenza moderatrice del Papato, ottenendone dall'Europa quella
neutralità universale, che si è conceduta alla Svizzera, ed al Belgio.
La prosperità e la forza dell'Italia saliranno ben tosto al sommo grado
appena messi sotto gli auspici del Pontificato, il quale ha dato ai
popoli la civiltà e la libertà. L'Italia conserverà una forma di
governo ch'è stata adattata alla sua indole, e guarderà l'equilibrio ad
eguale distanza da un attaccamento superstizioso al passato, e dalle
novità temerarie. La vita nazionale potrà rinascere sul terreno di
tutte le tradizioni, ingrandita dalle più pacifiche e felici
innovazioni. Vi ricorda che la libertà, avente a sostegno il dritto,
fiorisce; e la rivoluzione non ha altro appoggio che la forza, la quale
o abbatte o inaridisce.
antico, ed i Principi, o a
mantenere o a ripristinare % vecchi abusi, il male che oggi affligge
l'Europa troppo a lungo durerà, ed il mondo sarà sempre turbato da
nuovi rivolgimenti. Il traduttore spera di essere su questo particolare
un falso profeta.
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Ed ecco in qual modo,
Signor Barone, gli spiriti, pensanti e sperimentati, de’ quali gli
esaltati stessi erano forzati di riconoscere il sapere, l'amore
dell'ordine e della giustizia, si facevano gli apostoli della concordia
e della pace. Ma quando le nazioni sono spinte verso l'abisso, non è
che al dimani della catastrofe si ricordano di esserne state avvertite.
I movimenti rivoluzionar! del 4820, e 1848 non avevano avuto altra
tendenza, che quella di cambiare la forma del governo o gli uomini che
io rappresentavano. Ma nel moto che si preparò dopo i preliminari di
Villafranca vi era una portata pii pericolosa, il cambiamento della
Dinastia. Era Quasi un movimento sociale, perché mirava ad una
modificazione radicale della società italiana, ma le dottrine unitarie
comparivano, a dire il vero, così immature che non ispiravano alcun che
di timore. Il partito d'annessione formava un mondo artificiale
soprapposto alla nazione. Nondimeno gì' intrighi delle sette sono
spesse fiate pii a temersi che le popolari esplosioni; e questi
intrighi, in Napoli, si appoggiavano su la forza di un governò
ambizioso e temerario, che ci creava difficoltà, per crearci subito
dopo dei pericoli.
Il Regno di Napoli per la sua popolazione, per le sue, leggi, per la sua storia, e per ì suoi costumi, era opposto pii che ogni altro paese d'Italia all'annessione, poiché non aveva ancor dimenticati i due secoli di schiavitù, che avevano, annientata la civilizzazione aragonese, ma il tradimento che era penetrato in molte case, e che si era assiso in molti focolari, era penetrato ancora fra le fila dell'esercito. La catastrofe fu per così dire, inaspettata, ed arrivato il momento del pericolo, parve ad ognuno essere con le braccia legate. Questo fu lo svenimento della disfatta. È pur sempre vero che la mollezza, e la pusillanimità della gente onesta fanno trionfare i nemici della monarchia, del popolo, e del paese', perché, difatti, a Napoli il partito vincitore dovette i suoi successi alle stesse cause che hanno prodotto altrove il rovesciamento degli Stati.
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Erano
pure a mirarsi i vinti partiti i quali, fingendo ignorare che la
debolezza sia un delitto, permisero il trionfo della ingiustizia senza
riflettere che, benché essi non dividessero coi nemici le spoglie, pure
non potevano esimersi a spartire con essi loro la colpa e la ver gogna.
Roma li 4 Maggio 186.
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Signor Duca,
Non
si è mai verificata una rivoluzione cosi rimarchevole con altrettanta
facilità, e con mezzi cosi sproporzionati al loro scopo. Niuna storia
avrà mai registrata una concatenazione di avvenimenti cosi singolari e
cosi eclatanti. In prove del consenso dei Napolitani si sono addotte la
marcia trionfale di Garibaldi ed il Plebiscito, e questo consenso si è
buccinato dall'alto di una tribuna parlamentare. Ma tutto fu opera del
tradimento di uno Stato per mezzo di un altro, e dell'apatia di quella
massa, che tanto là, (in Napoli) quanto dovunque ha il silenzio per
rimorsi, e l'inerzia per coraggio.
Allorché Garibaldi faceva in Napoli l'entrata venne accolto con frenetici saturnali, ed era seguito dal Padre Gavazzi in vettura abbigliato di una rossa camicia, e con pistole in cinta, aveva al suo fianco seduta una giovine portante i tre colori... k qual cosa mostrava essere l'immoralità accresciuta dai ridicolo e dalla vergogna. La camicia rossa dell'uno ed i colori dell'altra superavano la moda delle carmagnole e delle tonache romane. Il corteggio in mezzo alle deliranti acclamazioni era di una moltitudine forsennata, di apostati ministri del Santuario, e di forzati evasi dai bagni, che col pugnale alla mano si sforzavano far dividere i loro bugiardi deliri, Ai gridi violenti di questi energumeni, agitanti armi e bandiere, si aggiungevano quelli di una caterva di prostitute vilissime, le quali incessantemente agitavano dei fazzoletti. Uomini che avevano compri i favori del governo con ignominiosi servigi, si mostravano impazienti
71
di
ricomprare, tradendo il proprio dovere, il delitto di aver tradita la
patria. Ma e così da per tutto: quegli che fanno pompa della loro
apostasia, sono gli stessi che hanno quella sorte di coraggio che
affronta con alterezza l'infamia. Il Dittatore che si attendeva essere
salutato da quella gioia espansiva e follemente strepitosa, di che
vengono accusati i napolitani esser prodighi, soffrì purtroppo
crudelmente in vedere che niun altro, fuorché la plebaglia lo
corteggiava, la qual cosa gli fece vedere a prima vista in che
consistere quell'ubbriaco entusiasmo Ei vide con molta chiarezza
mancarvi quelle correnti di opinione che trascinano e dominano le
individuali resistenze. Quella gioia febbrile non era una gioia
popolare.
Dovunque si espose lo strano spettacolo di un avventuriero, che col mezzo della cosmopolita rivoluzione, veniva a rovesciare la Monarchia dì Carlo III: il popolo era come sbalordito, e si credeva come sotto l'illusione di un sogno. Il volgo non comprende che gli snodamenti: ed agli occhi suoi la giustizia di una causa è riposta sovente nel successo. Intanto la moltitudine in Napoli non ebbe nel giorno 7 Settembre che una vana e mobile curiosità, scevra di energia e priva di risultato. Fu una muta e pronta obbedienza, abbandono piuttosto che sommissione. Il silenzio della società civile era, è vero, una debolezza morale, ma è purtroppo provato che i popoli amano le soluzioni, benché li sottomette ad un giogo, basta che assicurino il loro riposo; e di questo umano quietismo si sono avuti esempi da per ogni dove. Le classi agiate, più abbattute dell'altre, si affrettarono d'illuminare le loro case, e mettere delle bandiere alle finestre.
Comunque, cominciata la conquista, e cessati i ricevimenti ufficiali, non si era tardato a presentire il ritorno della pubblica opinione, la qualcosa non accade se non dopo lunghi sforzi, e lunghe incertezze; ed a Napoli negli animi si verificò un istantaneo virar di bordo. In tempo di rivoluzione le idee maturano
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con
una strana rapidità. Si era andato in cerca di libertà e si era
raccolta la dittatura, si era dimandata l'indipendenza e si era
ottenuto il servaggio e la miseria. In due mesi la sicurezza era andata
perduta, la fortuna pubblica dilapidala e non si raccoglievano che i
sanguinosi saturnali di Napoli e le devastazioni della guerra. Due mesi
di anarchia e di lotta avevano saziate e dimagrite tutte le passioni: e
rimpiangevasi il regno della pace e delle Leggi. Coloro medesimi che
avevano contemplati con una insolente gioia la caduta della Monarchia
erano costretti a subire le dure lezioni dell'avversità, per aver
preferiti gì' interessi di una masnada di faziosi all'onore ed alla
indipendenza della Nazione. Si era aspirato alla libertà, e si era
caduto bruscamente sotto il più grave dispotismo, sotto il dispotismo
militare: sparì ogni illusione, dileggiossi ogni speranza, mancò la
confidenza e la fede nelle professate dottrine, ed in loro stessi.
Quegli, la cui coscienza si esasperava alla vista dei dritti, e degl'interessi più legittimi conculcati, fu loro d'uopo limitarsi, in presenza del trionfo della forza, a ricusare la solidarietà alla rovina della patria.
In questo momento di generale scoraggimento la rivoluzione, esaltata dalla paura, tentò la prova del suffragio popolare. (1) La stampa, (come aveva fatto a
(1)Il
plebiscito che oggi si tiene come una panacea generale per ogni
quistione pendente è divenuto una commedia schifosissima, perché esso
non più esprime il voto del popolo, ma corona il desiderio di chi lo fa
eseguire. Se i Sovrani pensassero che la teoria dei plebisciti perpetua
i rimescolamenti politici territoriali, ed il caos sociale, la
bandirebbero per sempre da' loro gabinetti. L'onesto lettore che
desidera sapere come si è fatto il plebiscito a Napoli a Firenze, a
Modena ed altrove si compiaccia leggere le rivelazioni di Curletti, e
così si persuaderà non esservi assassinio maggiore dei popoli più di
quello che l'imporre loro un plebiscito, nella quale espressione si
racchiude l'essenza del mendacio, del tradimento e
73
Firenze),
dichiarò traditore della patria e degno della pubblica vendetta
chiunque osasse votare contro l'annessione. Nel tempo stesso sicari,
feccia del popolo e dei bagni, percorrevano le strade, armati fino ai
denti, proferendo minacce, una moltitudine di agenti segreti, assoldati
dai ministri, che prendevano danari senza controllo nel tesoro, si
spandevano nelle provincie ed i sgherri della polizia si aggiravano per
le campagne adiacenti a Napoli. Il mezzo che adottavano per sedurre,
era la minaccia, la quale veniva preferita all'argento che amavano
meglio intascarselo. Il Comitato, più che il governo fece votare
l'annessione, sotto la protezione delle truppe sarde, della guardia
nazionale, e di tutte le forze, riunite di cui la rivoluzione
disponeva. I Camorristi si tenevano dappresso alle due urne destinate
una pel voto negativo ed una per l'affermativo, ed erano situate ad una
certa distanza l'una dall'altra, di modo che, appressarsi all'urna
negativa sotto gli occhi di tali testimoni, era lo stesso che
affrontare con preconcetta risoluzione il pericolo.
Alla fin fine nel 21 di Ottobre 1860 si votò questa annessione contronatura, da alcuni come una salvaguardia, da altri come un avviamento verso l'unità rivoluzionaria dell'Italia. Il più dei votanti si componeva dì corifei della cospirazione, di satelliti dei comitati, d'individui assoldati dall'oro piemontese, di volontari garibaldini, di assassini che cercavano l'impunità con la vendetta del proprio paese, di mascalzoni divenuti cittadini contro lor voglia, e di contadini che, ammandriati come pecore dai Camorristi, votavano senza comprenderlo. Si fece ancora un giuoco ed un trattenimento di questi ignobili comizi. I volontari cosmopoliti di Garibaldi versavano voti a piene mani nell'urna, come sovra una tomba si gittano dei fiori; ed in tal modo si compiva il sacrificio dell'autonomia di un paese,
della malafede, e perciò non si è ammesso in verun dritto pubblico europeo.
74
che
fu indegnamente venduto, come pari vergognosamente comprato. La vendita
della monarchia di Ruggiero e di un popolo civilizzato si effettuava
pari a quella di una turba di schiavi in un Bazar di Africa.
Dopo quindici giorni ebbe luogo la consacrazione di quel sacrilego atto, proclamandosi 1,313,376 voti affermativi, ciò che era una menzogna; e 10,312 voti negativi, il che non era meno falso, per la ragione che voti negativi non vi potevano essere, perché mancava, ad ogni votante la libertà di darlo. Quei pochi individui che ebbero il coraggio della loro convinzione, quasi tutti, ricevettero un colpo di stile. Dal che chiaramente si deduce che quei voti negativi si registrarono solo per garanzia della libertà, e per mostrare la legalità del voto. Lo spoglio dello scrutinio fu devoluto alla Corte suprema di Giustizia, che non era molto, aveva prestato premurosamente all'invasore il giuro di fedeltà, ed il cui presidente giurò senza vergogna, diffamando e rinnegando il suo Re legittimo, per prodigare incensi a Garibaldi, nello stesso pretorio ove, non eran che pochi giorni, aveva giurato fedeltà al Re che lo aveva elevato a capo della magistratura napoletana. Questo Collegio, il giorno avanti che entrasse Vittorio Emmanuele considerò come controllati i voti dei comizi popolari, ed il presidente nell'ammaliarne il risultato parlò con energico calore su i voti della nazione Italiana, e su quella del popolo napolitano! (1)
(1)Oltre
al discorso che il Presidente Niutta pronunziò nella pubblicazione dei
voti del plebiscito da lui e da Vacea immaginati, ne pronunziò un altro
nella prestazione del giuramento a Garibaldi. In esso il Presidente
prodigando i suoi incensi al Dittatore ed a Vittorio Emmanuele,
ringraziava il Cielo che fosse alla fine crollato l'edifizio de’ Goti.
Ei dimenticava che, mercé quelli edifizio, da umilissimi principi, era
salito a Presidente della suprema Corte, con danno di moltissimi a lui
superiori d'intelligenza. In questa circostanza può ripetersi
75
L'esempio
della Capitale fu seguito dalle grandi Città. Nella più parte delle
provincie si ricusarono o pochissimi, o niun votante. La Terra di
Lavoro, che è la più vasta di tutte le provincie, occupata ancora dalle
truppe reali, non votò affatto. La maggioranza della Nazione non
assistette a quei comizi liberticidi. Gli uomini che nelle epoche di
pubblica rovina rappresentano il dritto e la giustizia, sono raramente
dotati di quella energia ed utilità, necessario a salvar la patria;
anzi curvano facilmente la testa al peso che loro il destino impone.
Per la qual cosa si è detto che la Monarchia è caduta non solo per
l'audacia dei suoi nemici, ma forse più per l'apatia dei suoi
partigiani... Pur tuttavia, bisogna tener conto del terrore che nelle
pubbliche piazze dominava.
Il plebiscito del 21 Ottobre non fu altroché una commedia spaventevole, non fu che l'opera dell'ambizione sanzionata dall'anarchia. È inutile il dire che il popolo napolitano si dimenticò tutto ad un tratto il suo passato, le grandezze e le legittime suscettibilità del suo paese natale, i pregiudizi locali, e le rivalità di Stato a Stato. Egli deve tutte le sue disgrazie all'ambizione: parassita di uomini che non avevano per essi niente, nemmeno la coscienza. Il popolo non fu un popolo suicidato, ma sospeso alla corda. Tutti gli annunziavano. che era sovrano, ed intanto gli si imponeva sommariamente un governo novello ed una nuova dinastia.
D'altronde la menzogna del plebiscito fu scoverta dall'astensione della maggior parte dei membri della classe agiata. La nobiltà, che aveva quasi emigrato interamente, protestava con la sua assenza; un gran numero di funzionari pubblici avevano preferito alla fellonia, la mendicità e l'esilio. I proprietari a migliaja abbandonarono i loro domestici focolari per sottrarsi al giogo degli invasori. Le provincie intere che non avevano
che i favori mole allogati producono il fruito delle rivoluzioni.
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affatto
votato, deponevano contro il plebiscito. E d'altra parte, un Re, un
governo, un'armata valorosa e fedele, che rappresentavano lo Stato
innanzi al paese ed all'Europa, tutti protestavano sul Volturno; ed il
Capo del Forein Oflice scriveva al suo ministro a Napoli qualche mese
dopo: che i voti del suffragio universale nelle Due Sicilie sembravano
di poco valore al governo di S. M. Britannica!
Ma la falsità del plebiscito fu ben tosto da tutti conosciuta. Due mesi dopo, solamente il gabinetto di Torino servendosi di tutta la sua influenza, di tutta la sua destrezza e del denaro saccheggiato nel tesoro napolitano, ordinò l'elezione dei deputati: tutto il paese si tenne in disparte, contentandosi di maledire: il numero degli elettori non sormontò i 25000. Più. tardi quando si trattò di nominare qualche altro Deputato pel parlamento; il numero degli elettori si è trovato di qualche centinajo. Così, nel quartiere Mercato a Napoli che conta 180 mila anime, Paolo Cortese venne eletto con quarantatré voti, che gli assicurarono la maggioranza sul suo competitore, che n'ebbe quarantuno. In un collegio non si sono presentati più che sessanta elettori, ed in tempo delle elezioni dei Corpi municipali le sale restarono vuote: a Napoli non si ebbero che 800 elettori, sopra 500,000 abitanti. Nel tempo che corre pare che non ancora il popolo faccia presentire essere disposto ad uscire da quell'apatia, e da quella indifferenza, in cui si rimane immerso, or già son tre anni compiuti, ed è questo il sintomo della morte di ogni spirito pubblico. Ma non sono tante proteste quelle che fanno contro il plebiscito tutti quei magistrati, impiegati che si sono destituiti o messi in disponibilità? E tutti quei detenuti politici dei quali sono stivate le prigioni?... Ognuno deve convincersi che i Napolitani non soffrono con piacere il giogo che pesa su d'essi... Che, si osa ricorrere ad un secondo plebiscito?!... Non si sono chiamati i popoli delle provincie Danubiane a pronunziarsi una seconda volta sopra i loro propri interessi?
77
Perché
dunque si ha l'inconseguenza di non permettere la libera espressione
della volontà popolare a Napoli? Che si osa riunire un parlamento
napolitano a sanzionare il plebiscito del 21 Ottobre che tanto
s'invoca; che si osa pure di riunire separatamente i deputati delle Due
Sicilie... Non si azzarderebbe neppure a riunire il parlamento italiano
a Napoli!... Il popolo Inglese, che ha creduto vedere nella catastrofe
dei Borboni di Napoli una ripetizione della sua rivoluzione del 1688,
avrebbe dovuto ricordarsi che una spada non fu sguainata a difesa di
Giacomo II. Al contrario, in Napoli un'armata di cinquanta mila uomini
rimase intrepida e fedele al suo Re, con tutto che trovavasi in mezzo a
tanti esempi di tradimenti, di seduzioni, e di miseria. Questa armata
non poteva che colla sua patria soccombere senza poterla salvare,
poiché ella doveva combattere a campo aperto con un'armata di fronte e
con un'altra alle spalle. Se dovette subito abbandonare il Volturno,
fece provare al nemico perdite significanti a Capua e sul Garigliano.
Attaccata inaspettatamente da mare (essendo sicura che la squadra
francese non l'avrebbe permesso) le convenne abbandonare parimenti il
Garigliano, e poco dopo Mola, e la sua terra natale. Questa armata
allora si era ridotta in un brano di terra da non poter avere né
alimenti né mezzi di combattere, sicché una parte di essa cercò un
asilo ne gli Stati della Chiesa. Gli avanzi decimati dalle febbri erano
senza ospedali, senza medici e senza medicinali. La privazione giunse a
tale, che ricevendosi da Terracina cinque once di china si provò il
maggior piacere del mondo. I soldati vestiti di semplice tela ali entra
re dell'inverno, forzati dormire su nuda terra sulle sponde del
Garigliano erano rimasti privi di nutrimento per due giorni, e buon
numero di essi perivano d'inedia (1)
(1)Pel nutrimento
mancato ai soldati nel Garigliano si debbono rendere le meritate lodi
agli onorevoli Commissari di guerra, i quali tenevano ogni provvisione a
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cadendo
anche i cavalli sotto i cavalieri... Eppur tuttavia questi avanzi di
una beli' armata respingevano sdegnosamente le offerte di qualsiasi
capitolazione, amando meglio consegnare le loro armi ad una Potenza
neutrale che ad un nemico che li aveva vinti non colla forza, ma con la
corruzione e col tradimento. Non vollero a veruna condizione confessare
la loro disfatta, rinunciare alla causa del loro Re, e consentire alla
distruzione del loro paese. Tutti sanno qual resistenza ha opposta
questo Re, aiutato da un pugno di bravi per lo spazio di quattro mesi,
esposto al fuoco, alla fame, ed al tifo.
Roma li 17. Maggio 1863.
Scauli, ma non si curarono farne la distribuzione perché così si era combinato. Il Traduttore ignora i nomi di costoro, ma la storia saprà rinvenirli dal labbro di quelli che ne furono le vittime.
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LE OPINIONI
Al Sig. Barone de Wendelaud In Roma.
Signor Barone,
Non
appena si seppe che una resistenza popolare si era manifestata nelle
Due Sicilie, un profondo stupore s'impadronì di tutti coloro, che
avevano fidati sopra una pacifica soluzione: il velo scindendosi con
violenza s'intravide, in prospettiva, la guerra civile. Questa novella
mentre ravviva le speranze negl'increduli che nulla veggono possibile
senza l'assistenza dell'Europa, nello stesso tempo aumenta l'allarme, e
l'esasperazione di tanti altri, che aspettavano veder sparire l'ultimo
ostacolo, al libero compimento dell'unità italiana, con la caduta di
Gaeta. Gli uomini però eh' erano convinti essere, la tranquillità
apparente del regno, piuttosto stanchezza che un vero ordine, non se ne
maravigliarono. Se alle convulsioni anarchiche ed all'invasione
straniera successero l'inerzia ed il ristagno, questo torpore
passaggiero poteva dare facilmente qualche momento di tregua, ma non
era una soluzione.
Non si comprenderà giammai la situazione delle provincie del mezzogiorno a Italia, se non si conosce la storia, e la condizione sociale delle classi di quelle contrade. Nel regno di Napoli, presso a poco come altrove, vi sono due classi, cioè la nobiltà e la media, le quali sono relativamente illuminate, ed abbastanza provvedute di senso politico da poter partecipare nei pubblici affari. La nobiltà, da qualche tempo ha perduto il carattere di un gran corpo politico, e dopo il principio del volgente secolo, le rimasero semplicemente gli onori, senza privilegi. La classe media, se cosi, vogliasi chiamare, la sorpassa molto in lumi, in autorità,
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ed
in fortuna, ed è in (mesta classe sopratutto, che si rincontrano il
talento, e il merito personale. (1) Queste due classi ravvicinate dalla
loro posizione, pensavano che pel tempo, corrente un Sovrano non poteva
regnare che di concerto colla nazione, essi desideravate no dunque un
governo rappresentativo ingenuamente; stabilito, e legalmente attuato.
Tutte e due avevano il, sentimento del vero e del possibile, e se nella
prima vi erano ancora ostinati partigiani dell'immobilità, se ne
rinvenivano molti pochi nella seconda, che volessero la rovina dello
Stato.
Quando al cominciar del secolo XVI, il regno per de la sua indipendenza, una parte della nobiltà si mostrò apertamente ostile alla dinastia aragonese; ma i baroni difesi nelle loro case, si accomodavano al miglior modo con un Sovrano residente a Madrid. Essi non vedevano nel Viceré che un eguale, e perciò non ne paventavano il potere. Gli Spagnoli si sforzavano, durante due secoli, di eternare 1 indole bellicosa della nobiltà Napolitana, che al pari della nobiltà Polacca era sempre a cavallo per combattere ora a favore dei Normanni contro la Casa Sveva, ora per gli Svevi contro Carlo d'Angiò, ed ora per gli Aragonesi, e per li Angioini. Ma alla restaurazione della Monarchia la nobiltà intera si radunò con entusiasmo intorno a Carlo III Borbone, e con inaudito valore combattette a Velletri. Essa aveva, in vero, perduta in gran parte l'influenza che nasce dalla ricchezza e dalla forza, ma le rimaneva ancora l'orgoglio della prosapia, ed il sentimento di sua nazionalità; e perciò si vide consacrata alle difesa del regno, che veniva ad essere riconquistato.
(1)E pur
troppo vero che dalla classe media escono luminari in lettere, in
scienze ed in arti, perché essa è laboriosa più delle altre, e cerca
supplire ai vani fumi di nascita colla virtù che, in vero, è la sola
che sublima l'uomo sopra ogni grandezza e lo rende immortale.
81
Al
presente questa stessa nobiltà è avvilita, ed indignata del servaggio
di sua patria, e perciò, ha veduto con un acuto dolore sparire con
Francesco II, e la di Lui Corte, le sue più care illusioni: e con pari
sdegno ha veduto intronizzarsi nella reggia de’ suoi Re il dittatore
Garibaldi, con i proconsoli piemontesi; per la qual cosa ha emigrato in
massa portando seco all'estero il suo sdegnato patriottismo. (1)
La classe media non esisteva alla caduta degli Aragonesi, perché cominciò ad elevarsi nel secolo XVI: essa, durante il periodo di sessant'anni or già scorsi, si è sforzata di mettere i suoi sentimenti e le sue pretenzioni all'altezza della sua nuova fortuna. Questa classe ha ottenuta l'abolizione della feudalità, la riforma dello stato sociale, e la soppressione degli abusi introdotti da tanti differenti regimi. Essa, inspirata dal sentimento nazionale, marciava alla conquista di una legale libertà, ma sentiva pochissima simpatia per le vecchie utopie rivoluzionarie dell'unità italiana. La borghesia dati altra parte per esperienza, sapeva che le rivoluzioni vendono a caro prezzo i vantaggi che promettono perché non aveva mai vedute riforme efficaci o pesarsi senza rivoluzioni, ma sempre rivoluzioni senza riforme; per la qual cosa i successi di Garibaldi, e la ripetizione del tradimento di Vergara, in Calabria, l'avevano spaventata.
Questa classe vede ora che il servaggio della patria è molto più umiliante, che non lo fu nel tempo del XVI secolo. Sotto il dominio spagnolo vi era
(1)Il
traduttore non può non rendere lode ed onore alla nobiltà emigrata,
Essa rappresentando il popolo Napolitano, protesta contro l usurpazione
dei dritti che spettano al suo legittimo Sovrano Francesco II. La
storia non mancherà di registrare i nomi illustri che la compongono,
perché essi dovranno essere per i posteri il tipo della fedeltà e del
dovere — E se non fosse privo d'appoggio il traduttore, compirebbe
questo non piccolo ed interessante incarico.
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sempre
un regno di Napoli, perché i Viceré vi avevano una Corte circondata da
un consiglio di stato; aveano un nucleo di armata, qualche reggimento
napolitano, ed una gendarmeria nazionale; aveano pieni poteri;
pubblicavano leggi, e godevano del dritto di far grazia. Essi non si
limitavano a dar feste, ma possedevate l'orgoglio di lasciare qualche
traccia del loro governo nell'istituzioni del paese, e nelle opere
pubbliche; ed è per questo che molle strade, molti ospedali riccamente
dotati, e non pochi stabilimenti di beneficenza, datano da quell'epoca.
Vi furono Viceré, come per esempio, il Duca di Ossuna, ed il Conte di
Lemos, ai quali non mancò che il titolo per essere principi
indipendenti. Napoli aveva allora un parlamento, benché per verità, era
un'Istituzione feudale, ma vi siedevano ancora i deputati della città,
che rappresentavano il popolo, e questo parlamento era quello che
stabiliva le imposte. Anche i sedili o congregazioni di patrizi,
godevano una grande influenza nei pubblici affari. Pur tuttavia la con
dizione di provincia aveva totalmente immiserito il regno che, come
assicurano gli storici, gli abitanti amavano meglio di andarsi a
stabilire sul territorio Turco. Per non citare che un esempio, il
malcontento del popolo nel 1637 provocò la rivoluzione di Masaniello.
Ora la classe media ha veduto il Piemonte distruggere l'indipendenza del paese, senza rispettare neppure i simulacri della dominazione Spagnola. I ministeri e le rappresentanze all'estero sono scomparse, l'armata è stata disciolta, la flotta portata via, gli arsenali sono stati spogliati, i cantieri e le fabbriche di armi annientate, de Casa della Zecca, la Direzione delle Poste, e quella del telegrafo soppresse. In pochi mesi si sono abolite, le istituzioni letterarie, e segnatamente l'Accademia delle scienze, e l'Istituto delle belle arti; l'Università di Federico II. si è impoverita, molti istituti di pubblica educazione annientati, ed i Musei clandestinamente spogliati. Queste spogliazioni, questo vandalismo, io dirò di più, queste profanazioni dovevano
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naturalmente
eccitare lo sdegno di chiunque ama le arti, le lettere, le scienze.
Tutta la classe media, e specialmente gli uomini di toga, che in Napoli
è assai influente veggono con dolore le belle leggi del regno
rimpiazzate; da altre contrarie alla morale, alla giustizia, ed alla
umanità; ed è spaventata dalle innumeri visite domiciliari, dagli
arresti arbitrari, dalle denunzie autorizzate, dalle violenze ordinate
dal governo, dai giudizi iniqui, dalle condanne spietate, e dalla
illegalità che ormai è divenuta la sanzione delle leggi,
l'allontanamento della Corte, e del Corpo Diplomatico, l'emigrazione
della nobiltà, la distruzione dell'armata, hanno naturalmente
accresciuto la miseria ed il malcontento del popolo. Bentosto si ebbe a
deplorare la destituzione ed il cambiamento di una moltitudine di
funzionari indigeni messi in disponibilità come per grazia, e l'arrivo
di uno sciame d'impiegali famelici ed ignoranti venuti da Torino in
Napoli come sopra un paese conquistato. Nello giro di tre anni, le
imposte sono state decuplicate da un governo che scialacqua, e
profonde; due miliardi per arricchire i corifei, ed i suoi sicofanti.
Ma la classe media non poteva esentarsi di percorrere in breve tempo le fasi diverse dello stupore, della speranza, e del disinganno. Essa vide il Regno umiliato alla condizione di provincia di un governo straniero, e poco dopo la soppressione della luogotenenza si esegui il trasferimento degli archivi ministeriali a Torino. Il Piemonte adottò un sistema di assimilazione violenta, che si è manifestata nelle particolarità più piccole dell'amministrazione, in mezzo a criminosi disordini, ed a corruzione la più vergognosa e ributtante. La mancanza di sicurezza personale venne ad accrescere le tetre preoccupazioni degli spiriti; la proprietà e la giustizia furono in egual modo minacciate: le autorità somministrarono coraggio per lo scandalo delle loro apatie. l bravacci di bivio assediarono il governo siccome ai tempi più tristi
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i gladiatori assediavano
nel Foro i sediziosi tribuni. Ed in grazia di questi bravi del XIX
secolo, il delitto passeggia tronfio e pettoruto nelle strade, ed il
furto e l'assassinio sono addivenuti lo scherzo giornaliero.
Al momento che scrivo, la classe media sente un forte sdegno per l'esigenze della conquista, e delli suoi saccheggi — Essa ha guardato con orrore le case spogliate, i campi devastati, i paesi incendiati; si rammenta la morte di pacifici cittadini fucilati, per sol capriccio di un ufficiale, o di un caporale. Si domanda ov'è l'adempimento delle promesse, a nome delle quali si è operata l'annessione, e come mai è avvenuto che la crociata del Piemonte contro l'assolutismo non ha portato che oppressione. Gli annessionisti più esaltati ne sono pentiti e maledicono il Piemonte. Sotto questo ceto tribolato si trova il popolo, massa tranquilla, laboriosa; estranea alla politica, leggiera, spiritosa, che denigrava per oziosità, e si limitava a vendicarsi del suo governo col dirne male. Questo popolo ha veduto presentare agli occhi suoi le idee politiche delle altre classi, senza mai ingerirsene: dal 1734 in poi si è affezionato di cuore ai suoi Re ed alla Dinastia dei Borboni. La sua rivoluzione del 1799 fu un vero movimento democratico simile a quello del 1647. La resistenza poderosa che oppose alle legioni francesi nella città di Napoli fé dire al generale Championnet, in un suo rapporto al Direttorio, ch'egli aveva dovuto combattere contro eroi. Nel 1806 il popolo si sollevò nelle Calabrie, che dal Maresciallo Massena si appellarono la Vandea napolitana, gl'insorgenti sommavano oltre i quarantamila, ai quali gl'Inglesi fornivano danaro, armi e munizioni. La guerra dell'insurrezione, contro i primi soldati del mondo durò per ben tre anni, ed il regno di Napoli somministrò al Tirolo ed alla Spagna l'esempio della resistenza.
Oggi questa massa però sperimenta più vivamente che le altre classi, se ciò è possibile, il disgusto del piemontese servaggio.
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Essa
ha veduto con dolore il suo Re, il figlio della Santa, bombardato in
Gaeta e dopo esiliato dal regno. L'allontanamento degli antichi
funzionari e l'insolenza dei nuovi, il rapido accrescimento dei
misfatti di ogni specie, la paralisi, da cui sono colpite le industrie,
e la brusca interruzione del commercio, non hanno fatto che accrescere
il suo malcontento. Bentosto ha risentito un peso, ed una miseria, che
non mai aveva conosciuti, e si è vista ferita non solo nelle sue
affezioni, ma anche nei suoi interessi. I piemontesi con le loro idee,
con i loro costumi, e col loro linguaggio si trovano fin dal primo
momento in i una grandissima opposizione con la idee, con i costumi, e
col linguaggio dei Napolitani. Questi due popoli, riuniti sul medesimo
suolo avevano caratteri nazionali così in opposizione l'uno all'altro,
come quelli di due altri popoli europei. Adunque tra le due razze non
vi poteva essere che pochissima simpatia, la quale si diminuì di molto,
quando il popolo napolitano venne a scovrire una differenza nella
religione; ed i contadini segnatamente che in sino a quel momento non
avevano altra causa conosciuta da difendere, che quella del Re e della
patria, pensarono sostenere quella della Religione.
L'organizzazione della guardia nazionale portò all'apice il malcontento, sopratutto nelle campagne. È d'uopo conoscere che dopo lo scioglimento delle milizie, le quali avevano contribuito alla rivoluzione del 1820, si formarono nelle provincie le guardie urbane, nelle cui file i contadini volentieri si ascrivevano, perché con quella caratteristica avevano il privilegio di asportare il fucile; e non vi è paese, in cui non si abbia il piacere di trascinare una sciabola, ed avere un pennacchio al cappello. La guardia nazionale fu in gran parte reclutata fra i borghesi, che nei primi momenti fecero pesare sul popolo la loro vanità ed insolenza; questo popolo fremeva; ma aspettava, perché vi era ancora un'armata, ed il Re trovatasi tuttavia in Gaeta. Quello però che l'offendeva sopra ogni credere era lo spettacolo senza freno dell'immoralità e della irreligione.
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Vescovi
in fuga, degni sacerdoti strappati dall'altare, maltrattati e messi
soventi volte a morte, nel tempo che preti e monaci rivoluzionari
percorrevano le strade armati fino ai denti; predicando ognora eretiche
dottrine. Cangiamenti così bruschi e radicali avevano incominciato col
destare meraviglie, ma finivano con eccitare lo sdegno. La coscrizione
militare da oltre a mezzo secolo era passata in costume nel popolo
napolitano. È vero che i Francesi bruciarono, borghi e villaggi, ove il
popolo sì opponeva colle armi, e che sotto la restaurazione si
conducevano ancora i coscritti incatenati come galeotti; ma da circa
trent'anni, essi presentavansi con la coccarda al cappello
spontaneamente ai corpi, ed in traversare i paesi lo facevano al grido
di Viva il Re: l'essere stato soldato costituiva una caratteristica
onorevole, ma dopo il 1860 non è stato più lo stesso. I soldati della
armata disciolta, rientrati nei loro focolari, vi portarono l’odio
contro i piemontesi, ed il desiderio di vendicarsene. Si ebbe la
goffaggine di lasciare insultare i prigionieri napolitani dai
camorristi e dalle guardie nazionali; per le vie erano stati fischiati;
si erano loro lacerate le divise che indossavano; si avevano preso
ardire dì sputarli ancora nel volto. La guarnigione di Capua, entrando
in Napoli, dopo la capitolazione era stata fischiata; ed il partito
rivoluzionario aveva applaudito al generale Ferdinando Locascio, che
menava pubblico vanto di aver ceduta la piazza di Siracusa, senza aver
bruciata una cartuccia, ed anche prima di essere minacciato d'attacco.
I capitolati di Gaeta erano stati cacciati dalle loro case per ordine
delle autorità, insultati dagli uffiziali della guardia nazionale,
gittati in prigione; e quando ne sortivano, non trovavano lavoro per
vivere, perché niun proprietario osava prenderli al suo servizio, per
timore di divenir sospetto alle autorità piemontesi. Quelli che si
trascinavano fino alle montagne native, storpiati, mai guariti delle
loro ferite, portando sul loro volto abbronzato le tracce delle loro
sofferenza, non trovavano un giaciglio negli ospedali, e né tampoco
un'elemosina.
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Altri erano stati menati a
Genova, a Torino, e in Alessandria; e rientrando in famiglia narravano
la vita meschina che avevano menata in Piemonte, gl'insulti ricevuti,
il nutrimento cattivo, e la brutalità degli uffiziali piemontesi. Nel
1861 vi era tuttora un numero considerevole di soldati napolitani, che
a stento camminavano indeboliti dalla fame, e coverti di cenci, dandosi
cosi in spettacolo di sterile pietà, nei luoghi in cui si erano un
tempo mostrati brillanti e superbi delle loro divise.
In questo mentre si decretava a Torino una leva di 36,000 uomini nelle provincie meridionali, e si chiamarono sotto le bandiere quelli che non avevano ancor compiuto il periodo del loro servizio. La leva ordinaria nel Regno di Napoli non era stata mai che di tredici mila uomini per ogni anno. Or gli abitanti che ne avevano dato 72,000 in quindici mesi a Francesco II tutti si commossero all'idea di dare 36,000 uomini al Piemonte per vederli condurre a Cuneo, ad Aqui, e Finestrelle. (1)
L'ingaggio del coscritto napolitano era di cinque anni, dopo i quali il soldato passava alla riserva. L'armata era ben pagata, e ben nutrita. Sotto i piemontesi l'impegno è di undici anni, il servizio aggravato, il nutrimento quasi ributtante, il codice militare fa mo stra di draconiana severità. Tutto questo era pur troppo sufficiente per ispirare orrore il servizio militare. D altra parte il prezzo di esenzione sotto l'antico governo era di franchi 960; ed al presente è di franchi 2,916. Godevano la franchigia sulla coscrizione i licenziati, quelli che avevano ottenuta la medaglia nel Reale Istituto di Belle Arti, i figliuoli unici, ed i sostegni di famiglia,
(1)Quando
si sono pubblicati gli ordini per le leve i genitori e le madri più di
tutto l'hanno sempre gridato, i nostri figli non andranno mai a servire
un Re scomunicato; ma piuttosto morranno per Francesco II sulle
montagne.
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ma la legge piemontese non
eccettua nessuno. Altre volte nei paesi del littorale non si
domandavano che i marinai per la flotta, ora però si sono assoggettati
alla doppia coscrizione, cioè di terra e di mare, ed in alcune
provincie fu spinta a tal segno la brutalità, di far partire anche
quelli che avevano di già fornito un cambio. Per la qual cosa ne
avviene che non appena si bandisce la leva tutti sen fuggono, e si
nascondono, ed i refrattari si contano a migliaia. La Sicilia, che non
aveva mai conosciuta coscrizione ha fatta la più generale resistenza;
ed è perciò che un gran numero dei suoi coscritti si sono rifugiati a
Malta, ed altri sono fuggitivi in campagna: nella sola Città di Palermo
il numero di essi ha raggiunto la cifra dei 4000. (1) In conseguenza di
che la repressione è divenuta inesorabile. Nel 1862 si erano,
circondati con mezzi di forti distaccamenti di linea i comuni d'Adernò,
di Biancavilla e di Paternò per cercarvi i refrattari; ma nel 1863 si
sono sorpresi in egual modo Girgenti, Trapani, Bagheria, eia stessa
Palermo, vietandosi a chicchessia uscire dalla città in cui si rimase
con questo stato d'assedio per molli giorni. È conosciuto da tutti il
proclama del General Govone, che minacciava d'arresto il padre di
famiglia, il negoziante, in casa di cui si troverebbe un refrattario, o
un disertore. Ma l'esecuzione oltrepassò ben molto le intenzioni di
quel generale filosofo. (2)
(1) La cifra dei 4000 oggi
per detto dello stesso per esecutore dei coscritti, il Generale Govone,
è arrivata per la sola Palermo a 18000, e per la sola provincia di
Napoli a 5000. Si lascia considerare al lettore quanti dunque possono
essere i renitenti per tutto il regno delle Due Sicilie, tenendo
presente queste due cifre per le sole popolazioni di Napoli e Palermo.
(2) È noto come Govone nell'assediare le Città per arrestare i coscritti, pria di ogni altro le toglieva le acque spezzandone i cammini, per cosi privare quegli abitanti anche dell'elemento più necessario alla vita. Dove è quella tigre che non inorridisce a tanto atto disumano.
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La
forza s'impadronì di tutti i giovani che avevano l'età del coscritto,
si trascinarono in prigione vecchi, femine, fanciulli, e chiunque era
parente di un refrattario. A Palermo furono arrestati in un monastero
due pensionar! parenti di un coscritto. (1) Gl'impegni dei marinari in
Inghilterra hanno qualche cosa di più odioso?
I vecchi soldati fremevano di dover servire sotto una bandiera che detestavano, ed i coscritti ne imitavano l'esempio; e siccome la reazione era di già ovunque scoppiata, il decreto della coscrizione non fece che accrescere il numero degl'insorgenti. Quelli che vennero obbligati a partire disertarono, arrivati appena sotto le bandiere. Circa quattro mila di essi riuscirono a passare dalle guarnigioni della Lombardia a quelle del Veneto, ed in altri luoghi si mettevano di concerto a venti ed a trenta, e disertavano. Nel 1862 i casi di diserzione verificati sommarono a 1,730, ed attualmente le prigioni militari sono dai disertori stivate. Questo delitto è tanto addivenuto comune nell'armata italiana, che il ministro della guerra, è stato costretto a rivolgersi alla guardia nazionale, dandole l'incarico di sorvegliare l'armata regolare. Contro un tal delitto, e contro quello della reazione non v'ha misericordia. Un disertore veniva ad essere arrestato a Roccamonfina; la madre dell'infelice si gettò ai piedi dell'ufficiale che comandava il distaccamento, ma questo scellerato, dopo averla latta imprigionare, ordino di fucilarsi il colpevole sotto le finestre della prigione dov'era ristretta la madre!...
Questa è la condizione, Sig. Barone, delle differenti classi della società napolitana. Esse non aspirano che a qualunque costo spezzare il ferreo legame che al regno d'Italia le tiene incatenate, e non crediate, che di tali sentimenti facciano un mistero;
(1)In un monastero di donne a
Palermo furono prese in ostaggio due sorelle di un renitente, e si
tennero in carcere quelle candide colombe fino a che non si presentò il
fratello,
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poiché nelle famiglie, nei caffè,
e nei teatri, non si ascoltano che sarcasmi, ed epigrammi contro la
balordaggine e la ignoranza dei piemontesi. Si maledice ad alta voce
Torino, il parlamento italiano, la consorteria piemontese, e la stampa
venduta; e le donne se ne mostrano più implacabili. Da per ogni dove
trovate la convinzione che questa mostruosa trilione non può durare.
Nelle campagne voi sarete colpito dal sentimento d'odio, che i
contadini hanno nel ripensare alla loro miseria ed alla loro
oppressione. Entrando negli alberghi, e nelle osterie voi ascoltate far
racconto dell'imprese dei reazionari ed il celebrarne il loro coraggio
e la loro fermezza, pubblicano, le disfatte dei piemontesi, e sopra
tutto quelle della guardia mobile e della guardia nazionale. Si fanno
concerti per andare a raggiungere le bande, si ricompensano
esploratori, si preparano terribili vendette contro i partigiani
dell'unità, e contro i nemici del Re, ed il Re agli occhi del popolo
non è che Francesco II, Vittorio Emanuele che gli unitari chiamano il
re galantuomo, dal popolo vien designato sotto il nome di re dei
galantuomini. E non dovete credere che questo sia un inganno, o uno
scherzo di parole, poiché galantuomo, nel linguaggio del popolo vuoi
dire proprietario, uomo della classe civile. Il titolo di re dei
galantuomini è dunque l'antitesi di re del popolo.
Cosi il clero, i sapienti, i nobili, la gente del popolo unanimemente compiangono i bei giorni dell'indipendenza del paese; ed il sentimento dell'autonomia al presente è così forte, e cosi vivo, che vien giudicato traditore della patria chiunque non odia gli usurpatori e la fazione dominante. L'unico e solo appoggio che rimane all'unità è il terrore che ispirano i proconsoli di Torino (1) Bisognava che questo popolo fosse dotato
(1)E' fatto dalla esperienza assodato, che quando un governo deve reggersi col terrore può dirsi più che finito, perché il popolo indignandosi l'un dì più, che (altro si risolve, commuove e mena giù l'oneroso far
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di una
straordinaria indifferenza per obliare gl'incendi, il saccheggio delle
sue città, e le innumerevoli fucilazioni. Credetemi, nessuna delle due
razze perdonerà di tutto cuore l'altra; perché sono due popolazioni,
che benché abitanti il medesimo suolo, pure moralmente e politicamente
son divise. I vincitori affettano un contegno irritante, ed i vinti
sitiscono di vendetta. I primi parlano dei napolitani, come cosa da
grandissimo disprezzo, e gli altri parlando dei piemontesi, mostrano
pel volto la bile, e l'invincibile avversione. Gl'invasori si
comportano come i Sassoni di Guglielmo il conquistatore in Irlanda, e
come i compagni di Cortez al Messico, ma i napolitani hanno chiaramente
dimostrato non essere Indiani, e perciò molti secoli dovrebbero
decorrere pria di divenire gl'Irlandesi dell'Italia. La casta
governante è puntellata da un'armata numerosa, su cui esclusivamente
conta per la protezione degli interessi italiani. Le popolazioni del
regno fanno assegnamento sul sentimento nazionale, sul numero, e sulla
ostinata fermezza, per rifarsi del perduto. Il sangue piemontese ed il
sangue napolitano non mai si unificherà bene che su i campi di
battaglia. In fine tra le due razze si è bandita una guerra a morte.
Albano li 10 Settembre 1863.
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Al Sig. Marchese della Rochejaquelein a Parlai
Signor Marchese,
È
ben difficile immaginare maggiore anarchia, maggiore violenza e
crudeltà maggiori a quelle che tuttavia si verificavano nel Regno di
Napoli. Non vi può 'essere più possibile stato sociale, quando la
nazionalità, l'indipendenza, e le civili istituzioni addivengono parole
vuote di senso — Che i discepoli di Filmer riprovano ogni insurrezione,
facilmente è a comprendersi; ma è troppo strano venir condannati i
Napolitani da coloro che sostengono essere una giustificazione della
resistenza, l'estrema oppressione — Un Santo proibiva ai cristiani di
Roma di opporsi al governo di Nerone, ma i Napolitani sono essi sudditi
del Piemonte? Se un uomo aggredito dagli assassini, non è tenuto di
lasciarsi maltrattare senza far uso delle sue armi, perché mai tutto un
popolo lo dovrebbe al nome del bugiardo plebiscito e della rivoluzione,
che loro ha venduto?
L'unanimità dei Napolitani nel loro odio contro i piemontesi spiegherà i successi della reazione. Gli orrori della guerra civile non sono che il risultato della violazione dei dritti religiosi, civili e morali di un popolo. Dopo la catastrofe del sei Setttembre gli uomini di cuore si sono trovati senza coesione tra loro; perché esitavano a riconoscersi ed a comunicarsi le proprie idee, contando forse sul trionfo dell'armata napolitana. Pur nondimeno, dopo pochi giorni all'ingresso di Garibaldi in Napoli, una formidabile insurrezione scoppiò a Riano ed a S. Antimo, località vicinissima alla capitale. Il generale Turr che trovavasi nelle vicinanze
93
di
Ariano vi accorse colla sua colonna ed affogò nel sangue quel moto
popolare con moltissime esecuzioni.(1) La città di Bovino fu anche di
sangue inondata. Una colonna uscita da Napoli represse la rivolta di S.
Antimo con lo stesso metodo, che poi fu applicato anche ai piccoli
paesi di Paduli, Montemiletto, Frasso, Gallo; Cantalupo, e Torre delle
Nocelle. E nell'impadronirsi di queste località, si passarono per le
armi tutti quelli che si stimarono sospetti di aver preso parte alla
insurrezione, e questi esempi raffrenarono per alcun tempo le
popolazioni circonvicine. (2)
(1) Il popolo di Ariano
fedele al giuramento degli avi suoi verso la Dinastia legittima, che
tanto lo aveva beneficato, protestò con una insurrezione contro
l'invasione straniera, è pagò questa sua espressione di sentimento con
la fucilazione di CENTO CINQUANTACINQUE individui. —
Il traduttore domanda al generale Turr, per quale dritto egli aveva fucilati tanti individui, se nei 12 Settembre Ninutta e Vacca non ancora avevano pubblicata la loro immaginata cifra dei voti del popolo?
(2)Il traduttore ponderando bene questi fatti trova che se i Governi caduti avessero fucilati i rei convinti di fellonia, come per giustizia era lor dovere, in egual modo che il Governo rigeneratore del Piemonte fucila i sospetti, l'Italia godrebbe la pace e la prosperità, e t. i non sarebbe stata dilapidata spogliata e disonorata come il mondo la vede. È vero che la clemenza deve essere la prima virtù dei Sovrani, ma però essa non deve estere disgiunta dalla giustizia, la quale vuole che la pace d'un popolo deve anteponi alla vita di pochi individui che, sono la rovina del paese — E passando dalla teoria alla pratica, chi non comprende che se in Napoli si avessero fucilali Pianelli, Nunziante, Romano ed un'altra dozzina di assassini della patria, il popolo delle Due Sicilie ora goderebbe quella pace, che godeva. Il Re Filippo II di Spagna diceva in una nota diretta al suo plenipotenziario
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Quelle esecuzioni consumate a nome della
giustizia rivoluzionaria, non provocarono né un grido né una protesta;
ma in vece di che si erano sparsi i rumori più asssurdi a proposito di
alcuni villaggi occupati in Sicilia dalle truppe del Re.
Alla notizia dell'armata reale sul Volturno, e più tardi della resistenza di Gaeta, le piccole città di Castellaccio, Carbone, Latronico e Castel Saraceno, rialzarono la bandiera del Re in Basilicata. Negli Abruzzi si erano di già formate molte bande. La reazione era stata formidabile in Sora, in S. Germano ed a Roccaguglielma in Terra di Lavoro, e da esse si erano espulse tutte le autorità rivoluzionarie, era stata disarmata la guardia nazionale, e le orde Garibaldine respinte — A Cajazzo, a Piedimonte ed a Rocca Romana, il popolo era insorto all'arrivo dei battaglioni napolitani. Nel contado di Molise l'animosità nazionale si mostrava più ardente che altrove, e quivi là guerra civile aveva preso un carattere spaventevole di ferocia. La città d Isernia (1)
residente
in Napoli, che per serbare un popolo dalla catastrofe di una
rivoluzione son necessarie due cose: premio e pena, le quali sono i
cardini di un governo. Il premio deve darsi a chi spelta per merito, la
pena a chi spetta di dritto, e se il primo mal si concede e la seconda
per clemenza si risparmia, il Sovrano che tanto fa upn solo è ingiusto,
ma è pur anco nemico di se stesso e dei suoi popoli.
(1) Intorno ai fatti d'Isernia dei quali in questo momento si agita colà giudizio sol poche cose si dicono, desumendole da una scrittura messa ultimamente a stampa — L'accusa vuole colpevoli di questi movimenti i signori de Lellis, Cimorelli, Melogli, ed altri non pochi. Dalla scrittura da noi indicata si chiarisce ad evidenza che gli accusati si negarono ad ogni partecipazione del movimento popolare, ed indi a poco abbandonarono il paese.
Invece si osserverà che la processura è stata spinta dal Sig. Iadopi il quale seppe avvalersi della sua
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per
ben due volte si prese e riprese — Negli Abbruzzi durante la resistenza
di Gaeta furono più volte battuti, ed obbligati di accordare
capitolazione agli insorti, come avvenne a Bauco. Gli ultimi
avvenimenti pareva ohe annunziassero alla perfine il trionfo della
insurrezione.
Quattrocento insorti avevano sorpresi i piemontesi a Carsoli, e fattili prigionieri, tolsero una bandiera, e ridonarono la libertà ad alcuni contadini che erano nel momento di essere fucilati. Essi si erano in seguito impadroniti di Callisto, occupato dai soldati nemici, e ne avevano uccisi molti, ed altri non pochi fatti prigionieri. Ma questi volontari cosi potentemente organizzati, dovettero a loro dispiacere rinunziare ad altre più gloriose imprese. Il coraggio da cui venivano animati, in vista di una estranea bandiera non era certamente mancato, benché Gaeta era caduta. Il Re però che voleva evitare nel suo paese gli orrori della guerra civile, diede ordine da Roma ai comandanti della Cittadella di Messina e di Civitella del Tronto, che si arrendessero, ed ordinò pure agl'insorti di desistere dagli sforzi inutili.
Intanto, decorsi pochi mesi con apparente tranquillità, le insurrezioni ricominciarono in quasi tutte le provincie, e le bande degl'insorgenti si mostrarono pure sulle alture che dominano la Capitale del Regno. Esse bande, mercé le disposizioni del popolo, trovarono intelligenze e soccorsi dovunque, dal che si spiega il perché la reazione si è sostenuta e tuttavia fa fronte ad una imponente occupazione Militare. Voi intenderete di leggieri
importanza conquistata dalla rivoluzione, e della
sua influenza come deputato al parlamento di Torino. Ad ogni onesto
lettore basterà il sapere che il Sig. Iadopi è genero e cognato di
coloro che egli con tanta perseveranza ed accanimento accusa.
Chi poi fu la vera causa dei movimenti esernini più tardi, con apposito opuscolo, il traduttore non mancherà additarli.
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perché
l'insurrezione non ha mai avuto capi di rimarco, e perché gli
stranieri, assumendo un tal compito, non sono riusciti all'intento.
Quali avrebbero potuto es sere i capi degl'insorti, se i generali ed
uffiziali superiori dell'armata si erano resi colpevoli di tradimento,
avevano domandata la loro dimissione, ed erano rientrati nel ritiro e
nella oscurità? I generali fedeli e gli uffiziali superiori che si
erano battuti al Volturno ed al Garigliano arrestati, in disprezzo
delle capitolazioni di Capua, di Gaeta, e di Messina, ed inviati a
Genova, o in Alessandria, ed altri si erano dovuti rifuggiare
nell'estero. È molto facile intendere come gì'insorgenti accusano
abitualmente i loro generali ed uffiziali, ed è perciò ch'essi hanno
più fiducia nel mugnajo, nel taglia legna, e nell'oste, anziché a
quelli, perché questi parlano la lingua stessa del popolo, e ne
conoscono gl'interessi e le passioni. Quali sono stati i capi delle
altre insurrezioni che possono paragonarsi a questa? Chi erano
Stofflet, e Cathelineau? Chi erano El Pastor, l'Empecinado e Mina
stesso? Se nomi più illustri hanno figurato nelle guerre della Vandea,
avvenne, perché questa contrada conteneva ancora alcuni dei suoi
antichi Signori rispettati dalle popolazioni ad un'epoca, in cui la
feudalità non si era ancora abolita che nelle leggi. In una guerra
contro lo straniero, gli uomini più caldi e più educati al maneggio
delle armi son quelli che sfidano più arditamente il palco e le palle.
Da loro stessi si creano capi non avendo altro titolo e nobiltà che la
loro audacia e la loro intrepidezza. Se le bande napolitane hanno
talvolta accettato per capo un sottouffiziale, è avvenuto perché questi
si era fatto perdonare i suoi antecedenti a forza di bravure.
Le bande napolitane serbano un'istintiva diffidenza negli stranieri; e se negli Abruzzi venne accolto il Conte de Christen, lo fu perché veniva da Gaeta. L'infelice Borgés era ancora straniero, il quale ignaro della lingua, e dei costumi del paese, dovette abbandonare la lotta per mancanza di docili partigiani.
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Il generale
Tristan l'ha passato tutta un'invernata sopra una montagna con sessanta
uomini, usciti nella più parte dall'armata, ed educati alla disciplina,
ma i volontari non hanno voluto riunirsi a lui, perché aveva fatto
fucilare Chiavone. Per la qual cosa ai loro occhi Tristan, era un
traditore. I proprietari amano la tranquillità a preferenza di ogni
altra cosa, perciò si sottomettono alla tempesta per rialzarsi quando è
passata; non sarebbero, adunque riusciti ad inspirare agl'insorgenti
maggior confidenza che i militari.
Da gran tempo si è negato alle bande della reazione napolitana ogni colore, ed ogni consistenza politica; ed intanto esse si sono sollevate al grido di Francesco II, e di Napoli questo grido serviva loro di rannodamento, ed era il grido di guerra. La bandiera ch'essi portavano era bianca, simbolo dell'indipendenza nazionale: la inalberavano dovunque, dopo di aver abbattuto gli stemmi, ed i colori sardi, ed ai busti di Garibaldi, e di Vittorio Emanuele vi sostituivano la bandiera dei Borboni, ed i busti del Re, e della Regina. Qua e là quando il potevano gl'insorgenti rimettevano le autorità destituite dagl'invasori, e vi proclamavano il governo del Re. Oggi benché si è dovuto concedere ad essi qualche consistenza politica, pure non si vuol cessare ancora di chiamarli briganti, come se il nome potesse coprire il fatto e spargere il disprezzo sulle loro intraprese. Ogni governo ha sempre disonorato con questo nome tutti coloro che si sono sollevati contro la tirannia, e l'oppressione, che questa parola esisteva al tempo di Spartaco lo avrebbero ancora chiamato brigante! La rivoluzione francese non ha trattati da briganti gl'insorti della vostra eroica Vandea? E più tardi lo stesso nome si è dato ai napolitani, agl'insorgenti del Tirolo, ai guerrilleros di Spagna e di Portogallo, quantunque gl'insorgenti del Regno di Napoli, e que' della penisola di Spagna combattessero al fianco degl'Inglesi, i quali formavan loro armi e munizioni, e guide l'epiteto di briganti è stato dato ai Belgi nel 1830
98
ed
anche ai Greci nel principio della loro rivoluzione, ancorché fra le
loro bande ci combattevamo i Filelleni di tutta l'Europa: l'epiteto
medesimo si è aggiunto al nome di chiunque osò innalzare lo stendardo
della Indipendenza in Alemagna. Ai capi delle bande napolitane non è
mancato che il successo per meritare pia tardi un nome più glorioso.
Hofer fucilato come brigante a Mantova fu sei anni dopo, celebrato come
un eroe!
Una volta la Spagna dava il nome di banditi a coloro che combattevano il suo governo, intanto uno di essi a nome Marco Sciarra, per esempio, alla testa di quattromila uomini, batté più d'una volta i generali Spagnoli, ed i Baroni che sostenevano il governo straniero, sicché la repubblica di Venezia non si credette a vile prenderlo al suo servizio per impiegare le sue bande nelle guerre degli Uscocchi. Masaniello s'ebbe h fortuna di morire pria che salisse, come bandito, la forca (1)
Ma gl'insorti napolitani, benché vengano tuttavia chiamato briganti, pure si è cessato farne argomento di disprezzo; e nella stessa Capitale provvisoria non più se ne beffano, dopo vanificato ohe un armata imponente (2) non è riuscita a batterli ed a disperderti. Molti Luogotenenti del Regno sono stati richiamati da Napoli per non essere ancora pervenuti a soggiogate i primi germi della rivolta contro il dominio piemontese,
(1) Il traduttore
rinvia il lettore al capitolato IV della sua opera, Roma e le menzogne
parlamentari, nel quale si tratta profondamele quella importante
quistione ed al n. 113 del giornali il Cattolico del 1862.
(2)l'armata impiegata dal Piemonte per affogare nel sangue i cosiddetti brigami è di 120000 uomini oltre alle immense schiere di guardie mobili, e guardie nazionali, le quali producono danni nei luoghi dove passano più grandi dei perseguitati, è ciò affermato dai giornali di ogni colore che attualmente si pubblicano in Napoli.
99
Non
più si nega agi' insorgenti il loro carattere politico, e né più si
dissimula la loro importanza. Si è cominciato col confessare che nel
mezzogiorno ci sono piaghe, che nessun medico può guarire, e per
tastare queste piaghe si è nominata una Commissione d'inchiesta, nella
cui lunghissima relazione viene pienamente dimostrato che il
brigantaggio è un fatto politico, una conseguenza necessaria delta
situazione fatta dal dominio straniero: ed in quel documento risulta
pure che il patriottico, e religioso sentimento delle popolazioni
inspira un odio implacabile contro il Piemonte. La Commissione per
iscoprire l'origine del brigantaggio risale con le sue indagini fino
all'epoca della feudalità, ma inutilmente, poiché essa avrebbe dovuta
trovarla sotto la dominazione Spagnola, ed al tempo della conquista
francese. Sotto i borboni, malgrado le vicissitudini e gli eccitamenti
politici, non esisteva. Il Regno presentava l'aspetto di un paese
pacifico e regolato, e non vi era d'uopo far uso di duecento mila
uomini per comprimere le resistenze popolari.
Il governo di Torino j convinto di questa terribile verità, ha suggellato con un profondo silenzio quell'inchiesta della Commissione, temendo di essere costretto di dover dare una spiegazione sul perché l'insurrezione non si era manifestata nel momento stesso della rivoluzione, e durante l'assenza di un potere forte e costituito, ma bensì dopo l'invasione e la conquista. Egli ha pubblicato il rapportò della Commissione quando però erasi già dimenticato, lo che fece unicamente per giustificare i novelli rigori e legittimare un decreto che mise fuori la legge undici delle più belle e delle più vaste provincie del Regno di Napoli, (1).
(1)Nel
principio di Gennaio ultimo, questo Stato di assedio si estese a 22
provincie tutte nel mezzogiorno, e nelle altre rimanenti se non vi fra
applicato in dritto, di fatto vi esisteva prima delle altre. Ciò non
può dubitarsi, perché ei sa anche dai cani della Persia
100
Il
parlamento italiano aveva con molto calore per lungo tempo discussi i
mezzi per ridonarla pace al disgraziato Regno di Napoli, ma aveva
sempre finito col rimettersi alla rivoluzione. La commissione creata
per sollevare le vittime del brigantaggio, si adoperò invece a tutto
potere di perpetuare la guerra, di eccitare maggiormente gli odi, e di
provocare le delazioni. (1) Ella largisce cento lire a chi fa
determinare un brigante a presentarsi, ma ne dona trecento e seicento a
colui che lo prende vivo e l'uccide, e mille lire per la testa di un
Capo. (2) Un premio di cento a trecento lire si è promesso a chi
denuncia complici, ed i fautori di tulle le specie. La qua! cosa
importa che la delazione si eleva ad industria, ed il tradimento e
l'omicidio vengono assoldali. Questa tariffa di sangue è l'opera di un
governo che si diceva chiamato a moralizzare le provincie meridionali!
In virtù dell'ultima legge, si è arrestato nelle Due Sicilie un gran
numero di proprietari, e finanche alcuni funzionari municipali in
sospetto di complicità coi briganti (3) Si sono esiliati i Fortunato di
Rionero, i Corte di Avigliano, gli Aquilecchia di Melfi e tanti altri.
Si numeravano fino a due mila di questi infelici sulla fine
(1)
Il deputato Massari nella bugiarda e lunghissima, a perpetuare la
guerra civile, asserisce certe complicità colla reazione, che il
traduttore non crede neppure contraddirle, poiché il giornale del
Ministero, la Stampa ed il libro del Capitano Bianco di Saint Jorioz,
senza volerlo fanno le sue veci.
(2) La promessa, per chi uccide o prende vivo un capo banda, è stata ultimamente elevata a cinquanta mila lire, e propriamente per Crocco Donatiello, come testifica il giornale il Conciliatore nel suo numero 158 del 8 Giugno 1864.
(3)Oltre ai funzionati municipali, sono stati arrestati, pure per sospetti di complicità coi briganti, molti magistrati mandamentali, e Capitani delle Guardia nazionale, che pare incredibile ma è vero!
101
di Settembre ultimo. (1) La
maggior parte se ne è rilegata al Lazaretto di Livorno ed al forte
Belvedere di Firenze. Quattordici comuni dichiarati in istato di
reazione avevano diretti a Torino una minacciante protesta; e con tutta
questa si sono arrestate sessanta persone a Roccarasa, che è uno di
quei quattordici co fauni e che conta quattro in cinquemila anime. Gli
uckasi piemontesi sono applicati con una severità, che ha del delirio e
del furore.
Cosa singolare! Uno dei deputati Napolitani (2) che votarono questa legge di sterminio, nello stesso giorno scrisse ad un Direttore di giornale, lodandolo d'aver sostenuta l'abolizione della pena di morte! Ecco una filantropia pienamente a proposito! Quanta umanità rifulge in tale onorevole razza di deputati.
Si sono affaticati di far credere che il focolare della reazione era in Roma. Ma Francesco II non ha suscitate né le seconde né le prime insurrezioni. Se, avesse voluto provocare la sollevazione del suo popolo, avrebbe avuta la propizia occasione allora quando era ancora in Gaeta. Avrebbe messi allora i suoi nemici in una terribile alternativa, o di marciare contro l'insurrezione, abbandonando l'assedio o continuare l'assedio, lasciando sviluppare l'insurrezione. Se il Re avesse voluto, come sì pretende, ravvivare il brigantaggio, non avrebbe certamente, fin dal suo arrivo in Roma, dato ordine alle bande degli Abruzzi che si ritirassero. Che logica è quella dei nostri nemici!
(1)
Secondo registra il Nomade gli arrestati finora ed inviati al domicilio
coatto toccano la cifra di settemila. L'onesto lettore non potrà non
rivolgersi a Visconti Venosta e dirgli, perché rimproveraste
all'Autocrate Russo per le spedizioni dei Polacchi che faceva in
Siberia?
(2)Il traduttore è nella credenza di non andare errato dicendo: che questo Deputato fu il Sig. Ranieri, autori, dell'orfana dell'annunziata.
101
In quella che questo Re
viene accusato di fomentare il brigantaggio trovatasi ancora a G^eta, e
quando la sua bandiera sventolava ancora nella Cittadella di Messina,
ed in Civitella del Tronto, non vi erano che alcune bande e solamente
negli Abruzzi. (1) Oggi che questo Re trovasi lungi dal suo Regno,
senza soldati e senza denaro; (2) oggi che il Piemonte occupa le Due
Sicilie in tutta la loro estinzione, e che la popolazione è in preda
alla disperazione, l'insurrezione e in permanenza nella più parte delle
provincie, e poi ci viene a dire
(1) Negli Abruzzi, durante
l'assedio di Gaeta, si verificarono varie insurrezioni, come quella di
Pizzoli, Campotetto, e tutto il circondario di Montereale, e Cicoli,
Pinelli stando al principio essere un delitto usare pietà a quei che
non volevamo la libertà, il giorno 28 Ottobre 1860 usciva dall'Aquila e
si dirigeva verso Pizzoli per rigenerare col sangue quegli abitanti
avversi alla libertà piemontese. Saputosi da quel popolo, Uomini,
donne, vecchi, fanciulli, tutti si riunirono per decidere sul da farsi.
Fu stabilito far incontrare l'idrofobo Pinelli da pochi valorosi in una
gola, ove si appostarono, e nel passare che faceva il generale col suo
seguito, ebbero tanti colpi di pietra, che il valoroso drappello, se ne
ritornò all'Aquila scarnato e ferito, ed il Pinelli ebbe due colpi ben
aggiustati, per lo che disse con uno dei liberali allo moda, che egli
aveva corso più pericolo in quell'imboscata, che nelle campali
battaglie.
(2)Non deve recar maraviglia all'onesto lettore che Francesco II non nuota nei tesori, perché il Direttore delle Finanze Cario de Cesare, nel sortire da Napoli gli negò anche un soldo, per conservarlo a Garibaldi che era per arrivare. Ei, come confessa in un rendiconto che faceva a Torino, tenne stretti quei non pochi milioni che si trovavano nei tesoro per vestire e pagare le turbe garibaldine, cosa che oggi, senza arrossirne, fa a merito della sua condotta. Senta invidia!...
103
che l'opera è del Re! Inoltre è
da osservarsi, che la reazione si mostra più formidabile nelle più
lontane provincie dalla frontiera pontificia, e quindi più difficile
alla portata del Re. Dopo la caduta di Gaeta, essa non ha mai potuto
rialzarsi negli Abruzzi, e nella Terra di Lavoro è quasi scomparsa:
delle provincie centrali al contrario, come nelle Puglie, nel
Principato citeriore, nella Basilicata e nelle Calabrie, ove il popola,
della campagna ignorano generalmente che Francesco II trovasi a Roma,
le bande si moltiplicano e riportano i più gloriosi trionfi. Al momento
che io scrivo la frontiera pontificia è tranquilla, mentre che nelle
provincie fontane vi è il teatro di una implacabile lotta. Se gli
ordini partivano da Roma, perché Borges ed il generale Tristan non sono
stati riconosciuti ed ubbiditi? Perché tutte le bande non hanno
coesione maggiore ed un piano meglio concepito? Perché non ad altro
s'ispirano, che esclusivamente alla loro disperazione ed al loro
coraggio. Se esse non si sono decaplate questo è da attribuirsi alla
mancanza delle armi e delle munizioni. Gl'insorgenti non hanno altro
mezzo di armarsi che quello di disarmare le guardie nazionali ed i
piemontesi. Le prime sono stanche di dar la caccia a reazionari loro
compatrioti e loro parenti, che sostengono una causa, che esse stesse
amano, ed allorché la truppa di linea non le trascina, sortono da una
porta e rientrano nell'altra. Se qualche guardia nazionale è ammazzata
in qualche scontro, tutta la popolazione si raduna trista e melanconica
d'avanti la casa della vittima, ed in deplorare la disgrazia della
famiglia, si maledicono i piemontesi ed i loro aderenti. Se al
contrario poi si ammazza un uffiziale sardo, un Sindaco, un funzionario
qualunque, la popolazione non fa che sorridere: cosi ad esempio, la
gioia è stata quasi pubblica e generale per la disfatta toccata ai
piemontesi, e dalle guardie nazionali presso Troja, tanto più che gli
uffiziali e le autorità erano state tagliate a pezzi. Si son date non
poche strette di mano anche a Napoli allo annunzio della
104
sorpresa
dei piemontesi in Torrecuso, ove i prigionieri l'un dopo r altro
vennero fucilati. Credetemi, è una guerra terribile e spietata! E per
tanto la invasione piemontese non si era annunciata come conquista?!
Oggi questo popolo che si è dipinto corrente innanzi ai suoi
liberatori, si mostra implacabile, esasperato, ed è impossibilissimo
domarlo, a segno, da non aversene più a temere.
Roma li 22 Maggio 1863.
105
Signor Conte,
Dopo
gli avvenimenti di Polonia, ci si è domandato, Sig. Conte, perché il
popolo Napolitano non si} è sollevato in massa come i Polacchi, sa è
vero che i Napolitani difendono la stessa causa, la loro autonomia, e
la loro indipendenza. Ecco la giustizia degli uomini! Se i Polacchi che
hanno perduto la toro indipendenza dopo il 1771, la di cui servitù è
stata consacrata dalla conquista, e dai trattati, destano interesse,
perché non si fa lo stesso per i Napolitani che hanno perduta la loro
indipendenza; nel 1860 contro la fede dei trattati? Si crede che i
Polacchi hanno dritti da non potersi cancellare dalla guerra, o dalla
conquista, perché questi stessi dritti si contestano ai Napolitani i
quali hanno dovuto soccombere davanti l'irruzione dei rivoluzionar!
cosmopoliti, e di una potenza amica, che ha invaso un regno senza
preventiva dichiarazione di guerra, e mentre che aveva ancora un
ministro accreditato in Napoli? La divisione della Polonia ha fatto
emettere prolungate grida d'indignazione, e la distruzione
dell'indipendenza di Napoli non à procacciato ai Napolitani neppure una
parola di sterile compassione. I Russi sono Sciti, e gli Allobrigi sono
italianissimi! Se è così, si va dicendo, perché i Napolitani non
insorgono in massa come si è fatto dai Polacchi? Ciò avviene, perché in
Polonia, il sentimento della nazionalità è sostenuto ancora dalla
rivoluzione, ed è coverto dalla bandiera della rivoluzione europea; nel
mentre che nel regno di Napoli la rivoluzione combatte in nome della
106
libertà
il sentimento della nazionalità. Attorno al governo russo per le
animosità religiose e le passioni rivoluzionarie producono
l'isolamento, e l'indecisione; attorno al governo piemontese si stringe
una minoranza faziosa che domina le masse colla sua audacia. In Po
Ionia, le autorità si distaccano dal governo russo per tendenza o per
timore; in Napoli la rivoluzione stringe al governo tutti quei che
hanno ottenuto dei gradi, degl'impieghi, degli onori, e specialmente
quelli che hanno sperperato il pubblico danaro, che hanno tradito, che
hanno mostrata debolezza, e specialmente quelli che si spaventano pei
giorni delle rappressaglie. I proprietari delle provincie tremano,
innanzi i piemontesi che li minacciano di deportazione di prigionia, o
di fucilazione, e non tremano meno innanzi alle bande, pensando alla
formidabile sciaccherie che esse possono organizzare da un momento
all'altro, (1)
Adunque l'insurrezione Napolitana non deve solamente lottare contro 90,000 uomini di truppe regolari, ma ancora contro 109,000 guardie nazionali organizzate dalla rivoluzione, e piemontisti per timore dei piemontesi; contro la guardia nazionale di Napoli che trema per i suoi negozi; contro la guardia mobile, accozzaglia di garibaldini di tutti i paesi, e contro la legione ungherese. L'autorità e la forza del governo, una magistratura uscita dalla rivoluzione e disposta sempre ad inferocire, le risorse dello Stato, e quelle dell'amministrazioni locali, i cui impiegati essendo imbevuti dello spirito rivoluzionario, sono altrettanti nemici della reazione.
(1)1 Francesi chiamano jacquerie una grande e
terribile insurrezione avvenuta nell'Ile de France il 21 Maggio del
1358. I contadini dell'isola insorsero contro la nobiltà, che non era
senza un qualche torto e uccisero e devastarono tutto. E siccome il
contadino fra chiamato a quei dì Iacques Bon homme, così ai loro
saccheggi ed alla loro insurrezione fu dato di Iacquerie,
107
E per questo, tante forze riunite, in due anni e mezzo, forse hanno potuto annientarla?...
Che se il popolo Napolitano è stanco, non è punto scoraggiato; e la sua calma apparente è il risultato delle grandi speranze che esso nutre tuttavia. La memoria dei Borboni si conserva con più affetto in tutti i cuori, (1) questo popolo oppresso ha fiducia in un migliore avvenire. Esso è lungi dal credere che l'Europa sia disposta a sanzionare una conquista fatta in disprezzo della morale e della giustizia, tiene gli occhi costantemente fissi su l'orizzonte politico. Per la massa del popolo la restaurazione non è che una quistione di tempo. Le classi inferiori, pur anco, hanno tanta perspicacia da vedere, che il governo attuale non è solido, e che la bancarotta, e l'insurrezione possono da un momento all'altro arrecargli l'ultimo colpo: tutti insieme poi poggiano le loro speranze o sopra un congresso ch'eviterà la guerra, o sopra una guerra che indubitatemente condurrà ad un congresso. La guerra sarà un conflagrazione generale in cui il Piemonte vedrà la sua armata distruggersi, e la rivolta scoppiare per ogni dove; (2) ed il congresso avrà la giustizia di non sanzionare il dritto cieco e brutale della forza; indarno adunque si ha fidanza sulla calma apparente che oggi giorno regna nel più delle masse, senza temer di errare può dirsi di Napoli ciò che l'ambasciatore francese diceva dell'Inghilterra nel 1786 il malcontento è grande e generale, ma il timore dei
(1)A
proposito di ciò il Colonnello Mella parlando dei soldati napolitani
disse; Se a costoro si spacca il cuore non può non trovarvisi l'effigie
del loro Re Francesco II.
(2)La previsione del Chiarissimo: autore è basata sulle verità del Vangelo, che non mai mutano o si prescrivono col mutare dei secoli, cioè: qui gladio ferit, gladio perit. Il traditore non può non morire per opera del tradimento.
108
mali
peggiori, rattiene ancora quelli che hanno qualche cosa a perdere. Un
anno dopo, la rivoluzione, che v'incontrava tuttavia ostacoli,
giudicati insuperabili, era compiuta. A Napoli si cammina, su di un
debole strato di cenere sotto cui la lava di fuoco è viva tuttora li
popolo napolitano soffri durante un secolo e mezzo, la dominazione
Spagnola; e vedeva con rassegnazione tutto l'oro e l’argento del regno
passare nelle casse dei Ministri a Madrid, ma un dazio su le frutta
fece scoppiare la rivoluzione del 1647, e fu mestieri combatterla con
le migliori truppe di Europa sotto gli ordini di D. Giovanni d'Austria,
uno dei primi capitani del suo tempo. E con tutto questo, la
rivoluzione se non era tradita, avrebbe trionfata. Chi sa se un giorno
i Vesperi Napolitani non porranno in dimenticanza i Vesperi Siciliani!
Intanto, novanta mila uomini sono accampati nel regno di Napoli come i Turchi in Europa, e trenta mila ed i più scelti carabinieri piemontesi stanno in quella Sicilia, che ha divorati trentatre generali o prefetti. Il Piemonte occupa il paese, (1) ma non vi mantiene l'ordine, né si sente sicuro dell'avvenire l'abitudine delle popolazioni lo tengono inquieto più che mai, perché è molto evidente, che se la reazione non avesse a sperare alcuno appoggio dalle popolazioni, essa sarebbe di già repressa. Non osa neanche fidarsi su le forze organizzate dalla rivoluzione, giacché si trova, a ciascuno istante, nella necessità di sciogliere le compagnie ed anche battaglioni interi di guardia nazionale, di licenziare le squadre di guardie mobilizzate, e destituire consigli municipali sospetti di connivenza coll'insurrezione. Si rimpiazzano questi consigli con Commissari mandati da Torino: nuova maniera di rispettare il principio del suffraggio popolare!
(1)Il Times parlando sullo stesso argomento dice: i piemontesi nel mezzo giorno dell'Italia vi sono accampati, e lo trattano come un paese conquistato', senza però mantenervi ordine, e né lo possono, perché niuna fratellanza esiste tra i due popoli.
109
Ma vi è di più, I Sindaci
poco zelanti per la distruzione del brigantaggio sono stati
maltrattati, e gittati in prigione; quelli dei comuni del Gargano sono
stati condannati a pane ed acqua, pena per i soldati indisciplinati! Se
le truppe sarde si rimangono nel paese, avviene in grazia de’ rigori
dello stato d'assedio: la legge marziale è la salvaguardia del governo
che spietatamente e senza interruzione la va applicando. Sotto l'antico
regime, Napoli fu messo nello stato d'assedio dopo un'insurrezione ma
soltanto per la durata dì tre giorni. (1) Lo stato d'assedio imposto
dai piemontesi è stato mantenuto in Napoli per la durata di sei mesi;
si son trattati i Napolitani non come uomini che combattono per la loro
libertà, e per la loro indipendenza, ma come schiavi ribellati ai
propri padroni, dal che poi avviene che il sangue versato non cessa di
chiamare sangue novello. Si è praticato sempre così nelle guerre
civili, ed il regno di Napoli trovasi in preda alla guerra civile, ed
alla guerra straniera! Si sono sterminati, quelli che non si volevano
sottomettersi. Le più orribili rimembranze delle guerre, civili
impallidiscono innanzi alle atrocità delle truppe piemontesi. I
Pinelli, i Neri, i Galetefi, i Fumel bandirono una guerra d'esterminio,
in cui la pietà era un delitto. Dovunque gl'insorti sono caduti tra le
mani dei piemontesi, sono stati fucilati sommariamente e senza
misericordia; (2) si son visti talvolta sacrifizi umani di quaranta in
cinquanta prigionieri ad un tempo. A Montecilfone, per esempio, sopra
ottanta prigionieri quarantasette
(1)Tutto ciò è
confermato dal Lampo del 16 Agosto 1860, ed aggiunge: che una tale
misura governativa di semplice prevenzione non meritava il nome
all'armante di stato di assedio.
(2)E tutto questo in grazia della rigenerazione, in grazia della libertà ed in dimostrazione del progresso.
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furono passati per le armi; (1)a Montefalcione cinquanta uomini rifugiati netta stessa casa di Dio, vi furono scannati.
Quel che è peggio non sonosi limitati a fucilare soltanto gl'insorgenti presi con le armi alla mano, ma chiunque era creduto sospetto di aver preso parte all'insurrezione, gli e toccata la stessa sorte. Un giorno, un contadino addormentato in campagna Ticino a Pozzuoli, venne sorpreso da un uffiziale comandante un distaccamento piemontese, questo uffiziale non volendo perdere il suo tempo a prendere informazioni sul conto quel disgraziato, trovo più espediente farlo fucilare contro l'oppinione di tutti.
In un altro giorno, un distaccamento incontratosi con un contadino su la via di Benevento, dopo averlo arrestato l'interroga, ed abbenchè questi protesta della sua innocenza, annunziandosi come corriere spedito dal Sottoprefetto di cui mostra i dispacci... ma i dispacci son ritirati, e quell'infelice è fucilato.
Molti contadini delle vicinanze di Noia, di Sansevero, di Avellino, di Bovino, di Melfi, pacifici carbonari del Gargano sorpresi in una strada battuta dagl'insorti, sono stati massacrati dalla truppa di linea... Pastori vecchi od inoffensivi, ed alcuni imberbi giovinetti sono stati uccisi a colpi di baionette. Nel 1862 non vi furono meno di ottandue esecuzioni nel distretto di Gerage, in Calabria, fra le quali va Contata quella dei Baron Franco, e di suo zio denunciati come aver potuto tenere relazioni con Borgés, il quale era passato per quei luoghi; e ciò perché una denuncia qualunque era bastevole. Talvolta i soldati stessi hanno fucilati, perché si annoiavano del loro servizio. Tredici prigionieri furono un giorno fucilati presso Lecce da' soldati di scorta,
(1)Questi quarantasette furono fucilati per ordine del famigerato farmacista De Luca prefetto d'Avellino, però nell'esecuzione che impassibilmente subirono, dissero: che vi rimanevano ancora quelli che avrebbero vendicato il sangue loro.
111
e
quando il magistrato domandò loro che n'era dei briganti, risposero
sorridendo: che riposavano nelle vicinanze della città. Ultimamente i
Piemontesi entrarono a S. Giorgio la Molara, e condussero seco loro i
proprietari designati come partigiani degli insorti, che venivano ad
uscir dal paese. La Corte criminale a cui si era rimesso un processa
compilato sollecitamente, li dichiarò innocenti. Ma quando si cercarono
i detenuti si seppe che i piemontesi li avevano fucilati. L'impazienza
di questi carnefici non permette neppure alle vittime di ricevere gli
ultimi conforti di che è larga la pietosa e santa religione.
Vi ricorda, Sig. Conte, del grido di orrore che si elevò in Europa, quando un generale spagnolo fece fucilare la madre di Cabrera. Ebbene, quante madri sono state fucilate nelle Due Sicilie per aver portato o perché si sospettavano portatrici del pane ai loro figli insorti, o refrattarii l'oscura condizione di questi figli ha fatto ignorare all'Europa il supplizio delle loro madri. Uomini, donne, vecchi fanciulli tutti si passano per le armi, ora come parenti, ora come parenti dei complici, o come complici de’ parenti. Alcuni refrattari erano sbarcati all'isola di Pantelleria: la truppa si mette ad inseguirli, e li circonda come bestie feroci; quelli si rifugiano in una caverna, e per snidarli vi si getta legna bagnata d'acqua di ragia, e senza pietà vi si appicca il fuoco. L'officiale del distaccamento trattava i Siciliani, come sono stati trattati i Kabili. Pantelleria non è in realtà vicino all'Africa.
Non è guari, un distaccamento attornia di notte tempo una casa di Petralia Soprana per sorprendere un refrattario contadino abitante, che pochi giorni io pria si era visto sorpreso dai ladri, i quali dopo di averlo spogliato avevangli oltraggiata sua figlia, si ricusa di aprire ed esplose un colpo di fucile; I' ufficiale senza frapporre tempo appicca fuoco alla casa, e tre persone vengono dalle fiamme bruciate. (1)
(1)Quando si pubblicarono queste lettere s'ignoravano
112
A
Montescaglioso un capitano fece serrare in una capanna dieci o dodici
lavoranti di campagna, che, a suo dire, non l'avevano bene ragguagliato
sulle marce degl'insorti, senza misericordia li brucia alla presenza
delle loro famiglie.
Il Capitano Bigotti fece passare per le armi a S. Francesco di Pollicastro molte persone da lui supposte complici degl'insorti; uno di questi disgraziati, che non era stato colpito, restava all'impiedi; l'ufficiale l'ammazza a colpi di scibala, sitibondo di sangue come la jena.
A ben donde può dirsi che nel mezzogiorno della dell'Italia, tutti coloro che indossano un mantello si credono nel dritto di ammazzare quelli che non ne hanno. In Luglio 1861 un distaccamento giunse a Somma, piccolo borgo alle falde del Vesuvio. Il Comandante fatto arrestare sei infelici, a lui designati come complici degli insorti, senza altra informazione, ne ordinò la morte, e tra quelle vittime vi era un ufficiale della guardia nazionale, appena ventenne e da pochi giorni si era maritato; e quando la pubblica indignazione giunse ad esigere che quest'uffizi a le (il Capitano del Bosco) si consegnasse alla giustizia militare, questa lo dichiarò innocente. Il consiglio di guerra di Torino, invece di giudicare il carnefice, calunniò le vittime; e per assolvere il primo, dichiarò con Un giudizio postumo che quelle si erano rese colpevoli di connivenza con gli insorti. Ma qual Magistrato avea giudicato quegl'infelici? Qual legge si aveva ad essi applicata?
Il Maggiore Fumel giunto con un battaglione in ca$a di un Signor Campagna, dopo aver mangiato bene col suo ospite, guarda l'oriolo e gli assegna tre minuti
i martiri sofferti dal sordomuto Antonio
Cappelli di Palermo, da Carmine de Marino e da Carmine del Zio; che
tutto mette in chiaro una lettera di un cittadino delle Due Sicilie del
1 Maggio 1864 diretta al Parlamento Inglese. Il Precursore nel
registrare questi delitti li qualifica come atroci.
113
di
tempo per presentare la lista dei briganti, che stavano nelle
vicinanze, ed in mancanza gli brucerebbe la casa. L'elenco è
presentato, il maggiore riunisce le vittime nel cortile col Signor
Campagna alla testa, e n'ordina la fucilazione. Il governo fa
sospendere l'esecuzione; per lo che il sardo emettendo grida di furore,
da la sua dimissione. Il governo però, poco di poi, pentito della sua
debolezza si determina a rimandarlo nelle Calabrie. £ poi si grida
contro Murawief! Nel mezzogiorno dell'Italia ciascun ufficiale, ciascun
caporale si stima in potenza eguale al general moscovita.
Le case di campagna, le capanne sospette di aver servito di rifugio agi' insorti sono o bruciate o spianate. Si proibisce ai contadini, sotto pena di morte di sortir da loro villaggi dal cadere al sorgere del sole, e di condurre seco viveri, per la qual cosa non si trovano più braccia pel lavoro de' campi; gli animali sono stati ritirati nell'interno de paesi, e vi muojono a migliaja. Famiglie intere orbate de’ loro genitori andavano fin dal 1861 errando, per essere senza pane e senza tetto.
Una soldatesca sfrenata ha lasciate tracce di fuoco e di sangue in tutti i luoghi, dove ha incontrata la minima velleità di resistenza. Ai tempi di Garibaldi, popolazioni intere hanno assistito ai massacri di Ariano, di Frasso, di Paduli, di Montemiletto, di Torrecuso, di Paupisi, di S. Antimo, d'Isernia, di Castelluccio, di Castelsaraceno, di Carbone e di Labronico, pacifici asili di agricoltura e d'industria. Sotto la conquista si è veduta la distruzione di S. Marco in Lamis, di Viesti, di Cotronei. di Spinello, di Rignano, di Barile, di Vico di Palma, di Campo di Miano, di Guardia Regia, di Montefalcione, e tutto ciò in seguito alle ignobili scene di saccheggio, di violazioni, e di sacrilegio.
Auletta fu invasa da coorti ebbre di sangue, condotte da un capo che, armato del suo revolver, fece fuoco sopra tutti quelli, che gli venivano designati come reazionari. Il giornale officiale di Napoli in annunziare l'entrata delle truppe piemontesi a Trevigno,
114
ha
confessato che vi avevano ammazzati quaranta briganti e in vero queste
vittime non erano che poveri infelici, i quali invasi da timore,
fuggirono; e che poi credendo per un istante essere la città in potere
dei partigiani del Re, avevano avuta la malaugurata ispirazione di
rientrarvi con un salvo condotto del Sindaco! Tutti sono in conoscenza
di questi fatti orribili, ma il timore per lungo tempo non ha permesso
ad alcuno parlarne. E questo avveniva nel momento stesso in cui un
ministro piemontese ardiva dire innanzi all'Europa, che la
pacificazione dell'ex-regno di Napoli procedeva lentamente a causa del
rispetto dell'autorità verso le franchigie costituzionali!
Un mezzo secolo fa, il General Manhes è stato il terrore delle Calabrie, ma quel Fumel francese era almeno il solo della sua specie.
Chi non ha intesa narrare la spaventevole distruzione di Pontelandolfo, e di Casalduni? Una banda di insorti si era gettata sopra un distaccamento piemontese e gli aveva ammazzato una quantità di soldati... Si volle dare un esempio; un distaccamento giunse a passo di corsa, e subito tutti gli abitanti uomini, donne, vecchi, fanciulli furono seppelliti sotto le rovine tra l'ondeggiar delle fiamme. Il general Cialdini che aveva ordinato questo esterminio, l'annunciò al mondo in questi termini: giustizia è stata fatta di Pontelandolfo e di Casalduni! Più tardi in seguito a' massacri di Castellammare in Sicilia, il Questore di Palermo fece inserire nel giornale officiale queste parole: a Castellammare i colpevoli sono stati rigorosamente puniti. Il magistrato faceva uso del linguaggio di soldato. Nella conquista dell'Irlanda non si trova lo stesso entusiasmo di ferocia, benché i Sassoni ed i Celti erano due differentissime razze come i Napolitani ed i Piemontesi. L'Inghilterra ebbe a deplorate molte guerre civili, ma non vide giammai orrori simili a quei di Pontelandolfo, e di Casalduni. Nella Vandea non si ammazzavano che i combattenti. A quei briganti, che spontaneamente si presentassero al
115
le
Autorità si era promessa amnistia e vita salva, ma in effetto non fu
così, poiché quei che lo credettero e si presentarono a Livardi, a
Caserta, a Noia, ed in molti ti altri luoghi, furono immediatamente
fucilati. Genitori sventurati, a' quali il dolore aveva stravolta la
ragione, si sono visti erranti attraverso le campagne per rinvenire gli
avanzi de' loro figli massacrati. Gli sgozzatori del 1793 erano capaci
di tali enormità, ma credevano in tal modo punire i cittadini ribelli
alla patria, e mettere un argine all'invasione straniera. Sul finir del
1861 venticinque uomini tra Spagnoli e Napolitani decisi di abbandonare
il regno e la causa dell'insurrezione, andavano a rifugiarsi negli
stati della Chiesa, ma circondati al momento in cui erano per varcare
la frontiera, si arresero, depositando le armi, nella credenza di
ottener salva la vita, perché senza questa speranza avrebbero opposta
una disperata resistenza. Infelici, s'ingannarono! che dopo disarmati
vennero passati per le armi! Nel 1843 i fratelli Bandiera che volevano
sollevare il regno, sebbene presi colle armi alla mano, furono
purtuttavia sottoposti ad un giudizio; ebbero i loro difensori, ed uno
degli accusati fu anche assoluto; e degli altri ventuno, dodici ebbero
salva la vita. Eppure si osò dire, come verità, che i fratelli
Bandiera, i quali avevano diffusi proclami incendiari, avevano
innalzati gridi di rivolta, ed avevano combattuto, erano stati
assassinati! Al contrario, Borges ed i compagni, che avevano cessato di
combattere tra le fila dell'insurrezione, ed avevano rinunciato ad ogni
resistenza, furono spietatamente fucilati per l'ordine di un maggiore
piemontese. Il sangue adunque è un olocausto necessario per l'unità
d'Italia?
La vista del sangue, come sempre. avviene, ha induriti i cuori, e resi feroci anche gli uomini estranei alla lotta, non esclusi i patriotti stessi che si fanno gli ausiliari benevoli dell'invasione. Cotesti dilettanti della caccia-briganti, si precipitarono sul villaggio di Tognano, ed invadendo le case, arrestarono e fucilarono un buon numero di abitanti.
116
Si
è raccontato in pieno parlamento che tre di questi patrioti avendo
arrestata una donna che portava un pezzo di pane a suo figlio,
supposero che questi fosse un brigante, la fecero mettere in ginocchio,
e la fucilarono. Si attestò del pari che up infelice era stato anche
fucilato per aver rubato un montone. Coteste atrocità furono per lungo
tempo ed ostinatamente smentite. Vi fu eziandio un membro del
parlamento inglese, il quale osò dire: essere popolare la coscrizione
nelle provincie meridionali, e la guardia nazionale attaccata al
Piemonte, ma che solo i briganti si lordavano delle più grandi
atrocità, nel mentre che i soldati piemontesi erano i modelli di
disciplina, e di umanità! Vi è la lista officiale delle persone che
sono state fucilate in due anni. Il rapporto della commissione di
inchiesta ne porta la cifra a 7,151. Durante i tre primi mesi del 1863
se ne sono fucilate altre 118, in Aprile 110; ed un numero maggiore nei
mesi successivi. (1)
Al momento in cui scrivo, la brutalità della forza non ha più limiti, la reazione è una passione e diverrà ben presto un entusiasmo. La rivoluzione e la conquista troppo ostinate per desistere dai loro progetti, troppo deboli per eseguirli, sperimentano le funeste conseguenze della guerra civile, chef esse stesse hanno accesa. L'Italia n'è accesa, e quella fraternità, a cui si era fatto appello, si ritrova or ora nello spettacolo di tante sventure.
Albano li 14 Luglio 1863.
(1)Secondo la relazione di un giornale non sospetto i fucilati fino a questo momento sono DICIASSETTEMILA, circa un dodici mila sono morti combattendo, dieci mila feriti, ed ottanta mila in prigione per reati politici, senza che niun magistrato si incarichi di loro, oltre ai sette mila spediti al domicilio coatto come registra il Nomade. Ecco la libertà piemontese!
117
Al Sig. Marchese della Rochejaquelein a Parigi
Signor Marchese,
Si
è commesso in Napoli lo sbaglio stesso, come dappertutto, cioè
d'impiegare il terrore per operare la sommissione. Le vendette e le
rappresaglie, in tempo di passioni politiche, non possono che vieppiù
inasprire le vittime. Ieffrays si vantava, dicesi, di aver fatto
impiccare più traditori, che tutti i suoi predecessori dopo la
conquista dell'Inghilterra; il general Cialdini parimenti può vantarsi
di aver ordinate più fucilazioni, nel periodo della luogotenenza, che
tutti i poteri anteriori, compresovi il governo francese, che non
peccava certamente per eccesso di clemenza. Egli intese provare che si
era calunniato il general Manhès, che almeno giunse a pacificare le
Calabrie col terrore. Noi vorressimo ben conoscere quale accoglienza
s'ebbe il generale piemontese nel suo ritorno a Torino, la quale senza
dubbio fu piena di ogni cordialità. è incontestabile che la ferocia dei
piemontesi è stato il principal alimento dell'insurrezione, in cui i
Cialdini, i Pinelli, i Neri, i Galateri, i Fumel e molti altri sono, i
veri complici della reazione, ed essi non se ne discolpano, anzi ne
vanno superbi. Non vi ha che ascoltare gli officiali piemontesi
residenti in Napoli, i quali spudoratamente dicono che le tante, da
loro, vittime fucilate non sarebbero neppur morti di qui a
cinquant'anni, ma che tali sacrifizi sono necessari per una grande
nazione. Questi sono i principi, da cui è animata la recrudescenza
contro l'insurrezione di un governo che va debitore totalmente della
sua origine e della sua potenza ad una insurrezione, ed a quale
insurrezione!
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Si fa rimprovero ai briganti
degli eccessi sanguinosi a cui si abbandonano. Non isconfesso che essi
han commessi atti di crudeltà, e che non si sono mostrati meno
sanguinali de' loro nemici, ma si può compiangere la trista necessità
di una guerra civile, si può prevenirla o combatterla, senza aver per
questo il dritto di contestarne la popolarità, e di misconoscerne il
carattere. D'altronde fa mestieri ricordare, che nei primi tempi gì'
insorgenti risparmiavano la vita ai loro prigionieri, con tutto che i
Piemontesi non sempre rendevano a loro la pariglia. Più tardi, essi
marcavano i prigionieri per riconoscerli, e solo ultimamente, e per
rappresaglia hanno pur essi incominciato a non più dar quartiere.
Quanti di questi insorgenti non hanno a piangere la morte de loro
parenti fucilati a sangue freddo, sotto il pretesto di una complicità
immaginaria? Niuno può mettere in dubbio che il sangue invoca con più
ferocia il sangue. Un giovane sfuggito alla dolorosa catastrofe di
Pontelandolfo combattette fino a quando non ebbe colle proprie mani
ammazzati diciotto piemontesi, perché sua Madre fu assassinata da
diciotto soldati, ed alla sua presenza; e compiuta la sua vendetta
espatriò. Oggi giorno gl'insorgenti disputano il terreno con una
ferocia ostinata, come uomini che fanno la guerra solo per sterminare i
loro nemici. Essi non domandano quartiere e né tampoco lo danno. Essi
non ammazzano solamente nei scontri; a Torrecuso hanno massacrati
quattordici infelici soldati caduti tra le loro mani, e che avevano
forse anch'essi le madri e le sorelle!
Si accusano gl'insorgenti di saccheggi; Ma queste accuse sono sempre fondate? La guerra anche fatta dalle truppe regolari va sempre immune da bottino e da saccheggio? Gl'insorgenti saccheggiano le casse pubbliche dei paesi che assaltano... ma hanno anche essi come ogni creatura umana, il dritto di non basir di fame. È necessario d'altronde alimentare la guerra, e mettere la mano sopra le risorse, che possono cadere in poterò del nemico. In ogni paese, meno che nelle Due Sicilie,
119
non
si stima né meraviglioso né atroce, che i sicari assassinino col
pugnale nelle case i cittadini, che si negano di pagare l'imposta
nazionale all'insurrezione. Le bande napolitane hanno spesso bruciato
sulle piazze pubbliche gli oggetti tolti ai piemontesi, o li hanno
ripartiti tra i poveri; quando essi hanno incendiate o rovinate le
raccolte, è accaduto per vendicarsi di quei che si ricusarono inviarle
i viveri, e che in cambio, istruivano le truppe su i suoi movimenti. In
generale gl'insorgenti non molestano per nulla l'abitante, se è
conosciuto manifesto avversario alla causa nazionale. Pilone, per
esempio, si mostrava cortesissimo coi toristi che si portavano a
visitare il Vesuvio. Tutti coloro che veggono nei briganti la causa
prima delle disgrazie della loro patria, sono i bersagli del loro odio,
e della loro vendetta, tra quali, i sindaci e gli uffiziali della
guardia nazionale. Siate sicuro, che queste bande non deporranno le
armi se non alla restaurazione, e se la guerra si manifesta in qualche
parte, voi li vedrete moltiplicare: come i denti di Cadmo.
E' pubblica fama che il General Lamarmora ha perduto ogni speranza di soffocare l'insurrezione; in egual modo che Cialdini suo antecessore, percorrendo le provincie ed investigando le cause da cui è sostenuta, si è persuaso che i 90,000 uomini non sono sufficienti per riportarne trionfo. Egli benché officialmente ha detto che irriganti non erano più che cinquecento, pure si è dovuto accorgere che ciò era falso, perché avendone, da quella dichiarazione fucilati un numero maggiore, la reazione non si è estirpata, anzi si è aumentata. Gli ufficiali piemontesi sono stanchi di questa guerra senza nome; ed i soldati, sopratutto i Lombardi, i Romagnoli ed i Toscani ne van mormorando. In quanto ai soldati napolitani, è da dirsi che essi non aspettano se non l'occasione per rivolgere le armi contro i loro ufficiali, specialmente se questi ultimi sono anche napolitani.
Precisarvi, Signor Marchese, le perdite dei piemontesi in due anni, è impossibile, le quali benché
120
accuratamente
si tengono nascoste, pure si sa che sono significanti. La stampa à
segnalato nel 1862 fino a 574 avvisaglie tra la truppa e gl'insorgenti,
di cui si diceva ignorare il risultato. Quest'anno il numero
degl'insorti è accresciuta dopo l'ultima legge sul brigantaggio. Gli
scontri, fino al mese di Ottobre, anno toccata la cifra di 600 (1).
Nella seduta secreta del parlamento italiano allo spirare del testé
decorso anno si valutarono le perdite dell'armata a quindici mila
uomini. In effetti, ì distaccamenti d'infanteria e di cavalleria sono
stati non poche volte disfatti, ed una quantità di ufficiali sono stati
ammazzati; gli ospedali sono quasi sempre stivati di feriti, in Giugno
ultimo (che or fa un anno) un solo ospedale di Napoli ne conteneva 156.
Le marce forzate a traverso le rocce, e sotto il Sole ardente
dell'estate, contribuiscono all'assottigliamento de’ ranghi Piemontesi.
Nel mese di ottobre sopra sette mila uomini che formano la guarnigione
di Napoli, si son contati 1103 malati, di cui un buon numero era dei
feriti. Questi soldati coperti di cenci, senza scarpe $ e senza potersi
quasi mai spogliare, danno spettacolo della più dura miseria. Si son
numerati talvolta fino a 500. ma» lati in un reggimento di 1800 uomini.
è stato d'uopo molte volte ricorrere ai musicanti del reggimento per
rimpiazzare le sentinelle. Le compagnie d'infanteria di 120 uomini sono
state spesso ridotte a 50, ed anche a 45. Un Reggimento di cavalleria
nella Capitanata non, aveva che sessanta cavalli.
(1)Da
Ottobre 1863 fino al Giugno corrente del 1864 secondo risulta dai
giornali più esaltati, non escluso il giornale uffiziale, si sono
verificati altri 828 scontri, i cui risultati sono stati sempre
sfavorevoli alle truppe, ben che i giornali di livrea nascondono quasi
sempre le perdite ad esse toccate. Però quando l'onesto lettore non
vuole esser tratto nell'inganno, legga sempre, dove dice: sono morti
dieci briganti; sono morti Venti piemontesi, perché come costa al
traduttore la stampa salariata ha l'incarico di dire sempre l'opposto
121
In
mezzo dei soldati non v'è più disciplina, la quale si è sordamente
consumata, per averli fatto assuefare ad essere carnefici.
La fonte da cui estraggo questi indizi è il rapporto stesso della Commissione d'inchiesta. In generale, allorché i Comandanti piemontesi spediscono le loro colonne nelle provincie per dar la caccia agli insorgenti, essi le compongono, per quanto è possibile di soldati napolitani, mostrando con ciò compiacimento di questa guerra doppiamente fratricida, che spaventa il paese, e garantisce gli uomini del Nord dalla rabbia degl'insorti. Vi sono stati dei casi, in cui i capi de’ corpi hanno allegato, per non marciare, lo scompiglio delle loro truppe. Nel mese di Agosto ultimo lo squadrone de’ cavalleggieri di Lodi, avendo ricevuto l’ordine di portarsi a combattere l'insurrezione in Basilicata, il suo Comandante protestò: fu messo in disponibilità, ma lo squadrone non parti.
Il governo italiano si trova in un serio imbarazzo: comincia a pentirsi di aver troppo prematuramente nominato regno d'Italia, un'agglomerazione di cinque Stati diversi. L'arrestarsi, importerebbe lo scrollamento dell'edificio dell'Italia; l'avanzarsi, porta seco la provocazione all'insurrezione generale; e se si rinculasse, mostrerebbe chiaramente la sua viltà la sua inettezza. Quello però che non può mettersi in dubbio è che in Napoli il dominio piemontese è impossibile.
Lo spirito di giustizia, che l'interesse può soffogare momentaneamente presso un popolo, andrà a rialzarsi non appena la passione si raffredda. E questo avviene a Napoli. Sotto l'impressione immediata della forza e nell'ignoranza di ciò che è nel seno dell'avvenire, pare che tutti avessero inconsideratamente accettati i fatti compiuti;. ma la riflessione non tarda a riprendere il suo impero. Si era sperato che l'entrata di Garibaldi mettesse fine alle civili turbolenze, ed invece si era caduto in una terribile anarchia, che niuno si lusingava a vederla cessare dopo l'entrata dei Piemontesi,
122
ed
in tal modo era andato incontro al dispotismo militare. Ora, quegli
stessi che, per non uscir dalla loro beata quiete, avevano senza
rammarico vista la partenza del Re, e l'annessione con stolta
indifferenza, affrettano con tutti i loro voti la restaurazione. Gli
esaltati del 1860 al momento sono calmi e spaventati. Non erano ancora
decorsi tre mesi, e di già il lume si era fatto. Le coscienze si
ribellarono allo spettacolo di tutti i dritti distrutti, dritto della
Chiesa, dritto di Sovrano, dritto di nazionalità, dritto delle
corporazioni. In presenza del cinismo delle autorità, e della
spudoratezza della stampa, tutto ciò che vi ha d'onesto, si sente
indignato e ne arrossisce, e respingendo l'egemonia piemontese come
cosa intollerabile ed impossibile.
l'insurrezione, che non aveva sopravvissuto alla resistenza di Gaeta, dopo quattro mesi (e quasi in un'ora, come per incanto generale) si mostrò potentemente organizzata, che dall'ora in poi ha sempre arricchite le sue file di nuovi combattenti.
Gl'Inglesi considerando la loro rivoluzione del 1688; la ritengono come la meno violenta e la più benefica di tutte, e vanno orgogliosi di non averne più subite. Ma questo è, perché s'ebbbero una rivoluzione conservatrice nel XVII secolo, e non ne soffrirono una distruttrice nel XIX. È vero che due sollevazioni si verificarono nel 1715 e nel 1745, ma dopo ventisette e cinquantasette anni dalla prima rivoluzione. Or le insurrezioni napolitane hanno ricominciato quattro mesi dopo la fine della guerra, ed al momento stesso della proclamazione dell'unità italiana. L'insurrezione sempre più, va divenendo una guerra selvaggia, una guerra d'esterminio e senza misericordia. Ma ancorché la provvidenza nei suoi impenetrabili disegni, permettesse che il regno di Napoli dovesse essere per qualche tempo radiato dalla carta di Europa, l'interruzione della vita nazionale dovrà produrre sempre un tempestoso interregno. L'antagonismo di Napoli e Torino faranno sempre i due poli opposti dell'Italia, né il tempo, né le leggi,
123
né lo splendore delle
feste, né le atrocità delle fucilazioni, saranno da tanto per mettervi
un termine, perché il sentimento della nazionalità eternamente dura, e
volendo anche ritenere che i piemontesi avessero conquistato Napoli per
valore, pure non può dubitarsi doverla perdere per la loro insolenza.
Chiunque con attenzione vi pone mente non può non iscorgere resistenza di una funesta e sanguinosa emulazione tra gli oppressi e gli oppressori. Certamente la Francia, che adempie la missione provvidenziale di difendere il debole contro il forte, l'oppresso contro l'oppressore, la vittima contro il carnefice; la Francia che ha inviate le sue legioni in Morea, per proteggere gli Elleni contro la scimitarra degli Egiziani, ed in Siria per difendere i Cristiani contro il fanatismo musulmano, permetterà essa l'esterminio dei Napolitani? Come potrà guardare senza orrore nel Regno di Napoli, la cui storia è troppo alla sua intimamente legata, il sangue versato dai Cristiani per opera di altri Cristiani, che con una rabbia degna di Caino hanno brandito il ferro? La Francia che si è commossa per lo stato anarchico del Messico, lascerà essa prolungare i disordini, i saccheggi, gl'incendi, e gli eccidi, che desolano il Regno di Napoli, che minacciano di turbare indefinitamente la pace, e forse l'equilibrio dell'Europa? La Francia s'interessa della sorte della Polonia, e che ha sempre plorato di non averne impedita la divisione, dovrà essa un giorno rimproverarsi, di non aver stesa la sua mano protettrice sul Regno di Napoli? Se essa nutre la buona volontà, l'Europa non ha verun dritto a paralizzarla. L'Inghilterra in tutto il corso del nostro secolo si è pregiata sempre di faticare per le cause dell'indipendenza dei popoli e per l'equilibrio europeo, ed a questo essa deve la sua influenza morale. Non pugnò essa con la Francia a Nazarino per salvare la Grecia? Non inviò pur le sue truppe per sostenere il Portogallo contro la Spagna? L'Inghilterra, come potenza di primo ordine, non ha forse molto interesse a mantenere
124
l'osservanza del
dritto pubblico esistente, per desiderare la pacificazione dell'Italia?
Come segnataria de’ trattati del 1815, essa protesta contro la
distruzione dell'esistenza politica di Cracovia, ed invoca tuttavia in
favore della Polonia quei medesimi trattati, che si son violati a
Napoli. In questo stesso momento non rinuncia essa al prottettorato
dell'Isole Ionie in favore della Grecia? Non contraddirebbe ai suoi
principi se lasciasse ultimare la distruzione del Regno delle Due
Sicilie. L'Inghilterra non è più quella potenza che si risenti tanto
fortemente al XVII secolo per l'occupazione della repubblica di S.
Marino? l'Austria, devota ai grandi principi della monarchia,
all'unione dell'autorità con la libertà, non troverebbe essa nella
Francia, e nell'Inghilterra utili cooperatrici e potenti alleate? Essa
che ha intrapresa l'opera grandiosa e popolare di ricomporre
l'Alemagna, ricuserebbe la missione vantaggiosa alla causa dell'ordine
e della libertà in Italia? Le altre potenze certamente non si
opporrebbero al compimento di quest'opera di pace, e di giustizia,
perché non sarebbe giusto il permettere la violazione delle leggi
eterne, del dritto delle genti, senza di cui non vi è né ordine, né
pace, né sicurezza. Non vi è rivoluzione isolata; e son certo che le
violenti commozioni politiche, le quali attualmente conquassano
l'Italia si faranno sentire un giorno al di là delle sue frontiere, I
Sovrani ed i popoli comprenderanno allora la solidarietà che li unisce,
e si pentiranno (ma troppo tardi) amaramente della loro egoistica
indolenza.
Roma U i Novembre 1863.
125
Signore,
Vi è una popolarità, che si appoggia specialmente ai nostri giorni sopra pregiudizi, passioni e tendenze colpevoli, ed è favorita con facilità da coloro che dispongono della pubblicità e dalia stampa con una forza incontestabile. Si può bellamente avere a sdegno l'una, ma è molto difficile combattere o illuminare l'altra. Intanto niuno, scrupolo, fino a che mi rimane la, speranza di poter far intendere il linguaggio della verità, mi farà cadere la penna dalle mani; e per questo mi rivolgo a voi che avete date tante prove di generosa sollecitudine per i diritti della giustizia e della ragione.
Napoli, ove la giurisprudenza è stata sempre luminosamente coltivata, può a ben donde rivendicare I' onore dì aver iniziata in Europa la riforma degli abusi legislativi. Ai nostri legisti e non ad altri si deve l'abolizione del duello giudiziario, lo stabilimento di una Corte Suprema di revisione, e la soppressione della tortura. I Filosofi napolitani, riformatori del secolo XVIII, introdotti molti miglioramenti legislativi, ne hanno resi altri possibili dopo di loro. Se egli è vero, che si giudica della civilizzazione d'un paese dall'esame della sua legislazione, quali insegnamenti non ci somministrano le antiche leggi napolitane al confronto di quelle che vi si vengono a sostituire?
Alla fine del secolo XVIII si fece ogni sforzo, per far scomparire tutte le vestigia di una barbara e gotica legislazione. La giustizia era l'egida di tutti e di ciascuno. Il potere proclamava la giustizia per gli oppressi ed il rispetto degl'infelici.
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Dopo più di un
mezzo secolo i rigori inutili non disonoravano più le leggi, si era
tolto al palco tutto il suo apparato di crudeltà, e soppressa di fatto
la tortura, di cui l'ultimo esempio nei nostri annali giudiziali
rimonta ah" anno 1774, si astrinsero i magistrati a motivare i loro
giudizi, acciò non potessero mai coprire l'omicidio col mantello della
legge. La riforma delle leggi criminali si stava studiando verso la
fine del secolo; le riforme che si preparavano erano consone ai grandi
principi di giustizia e di umanità, proclamati a quest'epoca con un
successo degno della patria di Pagano e di Filangieri. Non mai la
verità si era ricercata con tanta forza, né ricevuta con un interesse
più generale. Il più delle leggi avendo per iscopo accelerare i
giudizi, e di modificare i vizi riconosciuti dall'antica
giurisprudenza, in aspettare l'istallazione, testimoniavano la
sollecitudine costante ed illuminata del potere per la riforma degli
abusi e per la prosperità dei popoli. I principi della scienza erano
applicati con piena fiducia. Si era introdotta nel 1786 là pubblicità
della procedura militare e si pensava con seria attenzione ad un
miglioramento radicale dei luoghi di detenzione. Convinto che era
d'uopo far uso di circospezione anche nell'esecuzione delle riforme le
più indispensabili, il governo volle che i cambiamenti fossero graduali
riflettendo che, in una vecchia società, sono i più sicuri preservativi
contro le innovazioni pericolose^ ed in tal modo il potere univa lo
spirito di riforma alla prudenza del legislatore.
Il Regno, d'altronde, non aveva nulla prodotto da fargli più onore che questa antica magistratura, alla quale una semplice pietà, una austera probità, ed una vita seria ed occupata, prescrivevano la giustizia la più imparziale come un dovere di religione. Così, benché la legislazione era ancora imperfetta, gl'interpreti della legge però erano saggi, sperimentati, umani. Le massime degli scrittori se ne passavano dai magistrati al governo, e si diveniva, per una specie d'intuizione, ammirevole nelle riforme, che non erano neppur anco altrove immaginate.
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La maggior parte delle
grandi idee e de’ voti generosi emessi dal Filangieri e dal Pagano,
erano già verità riconosciute, o fatti compiuti.
Vantaggiosi miglioramenti furono introdotti ne' primi anni del secolo XIX; ma essi lo furono pel disordine, e la tempesta. La mutazione delle leggi nella conquista francese fu troppo radicale, e troppo violenta: si teneva a scavare un abbisso tra il nuovo regime e l'antico. Ma la legislazione non prese un posto molto fermo che sotto la restaurazione; non si trovò più alcuno al di sopra della legge, né tampoco al di fuori della sua protezione. La revisione delle leggi civili e criminali corrispose ai bisogni della società; come del pari a quei della scienza. La legislazione civile si migliorò molto sul modello straniero, e conservando tutte le tracce di sua origine, si modificò nello spirito, e nella forma. Le leggi criminali, basate su i veri principi del dritto universale, s' ispiravano nei sentimenti generosi dell'umanità, e negli interessi dell'autorità. Il matrimonio non fu separato dalla religione, il contratto ritornò sacramento, ed il divorzio fu cancellato dal codice. Si diede più forza alla famiglia; la potestà paterna, conservatrice dei costumi, acquistò più estensione, e le successioni vennero meglio regolate. Si era osservato, che la divisione continua della proprietà per l'inflessibile legge della successione avrebbe sminuzzate le grandi colture, e preparato lo sperpero delle fortune: non si volle più rimescolare il suolo come la famiglia, e si ritornò ai maggioraschi, rendendoli possibili solo a pochissime fortune, e ciò per non urtare le idee dominanti dell'epoca. Si riformarono in pari tempo le leggi sull'espropriazione forzata. un'esperienza di dieci anni aveva fatto sentire la necessità di ritornare su d'una quantità di casi all'antiche leggi del regno, e cosi far rivivere nella legislazione lo spirito del diritto romano. D'altronde, questo progresso era altamente riconosciuto anche dai giureconsulti francesi.
128
Il
codice penale fu renduto più conforme ai bisogni della scienza, alla
ragione ed ai costumi del tempo. Il popolo stesso avea rinvenuto,
durante due lustri, nella moderazione del carattere de’ magistrati, e
nei costumi che sono, presso noi come dovunque, un temperamento alla
severità del codice dell'Impero. Nel 1819 la riforma ritenne i principi
razionali di Beccaria e di Filangieri, i quali furono gran promotori
del progresso compiuto nel dritto penale. Il codice, in reprimere il
delitto, si propose per fine ultimo di prevenirlo. Si proporzionarono
le pene ai misfatti con una gradazione più illuminata, con la
soppressione di tutti i dolori inutili nei supplizi. Si abolì la gogna,
l'esposizione non era servita durante dieci anni, che ad indurire
coloro, che la soffrivano; si soppresse l'infamia del marchio, che
perpetuando il disonore conduceva alla recidiva, e la confisca, che
arricchisce i delatori, e spoglia gli orfani. In quanto alla pena dì
morte, questa non fu più prodigata come nel codice dell'Impero. La
distinzione tra il delitto tentato ed il delitto mancato, tra la
recidiva, e la reiterazione, la gradazione della complicità, sono
altrettanti acquisti dello spirito filantropico, reclamati dal
progresso del secolo e della civiltà. La legislazione cosi emendata,
prevaleva in modo su gli altri codici di Europa che l'Inghilterra
l'adottò per l'isola di Malta, e la Francia nel 1832 vi attinse molte
riforme. Il codice militare, con suo sistema di pene e col suo ordine
di giudizi fu egualmente posto in armonia con l'esigenze della civiltà.
Molto superiore a quei del resto d Europa, non ha cessato di esserlo al
codice francese, che dopo la riforma introdotta nel 1850.
I risultati di tutte queste riforme non si fecero aspettare; il nuovo spirito di legislazione ebbe una felice influenza sull'andamento dei giudizi criminali, e lo spirito del governo rese sempre più rara l'applicazione della pena di morte. Dopo il 1831 niuna sentenza di morte poteva eseguirsi senza un rapporto precedente al Re, e perciò quasi sempre la pena era commutata.
129
I
Borboni esercitarono con magnanimità il dritto di grazia, così, anche
dopo la rivoluzione del 1848, non vi fu che una sola esecuzione,
quantunque il colpevole aveva aggiunto alla ribellione con mano armata
l'esterminio di una famiglia intiera. In trent'anni non si son viste
che tre o quattro eccezioni reclamate dall'opinione pubblica, ed il
numero dei delitti tendeva a diminuire... felice applicazione
dell'esperienza di Leopoldo II in Toscana.
Intanto lo spirito di partito, non contento di esagerare a proposito l'abuso, ricorse alla calunnia, e fece della giustizia napolitana il tema eterno di aspre controversie della stampa straniera. Gli emigrati del 1848 si vendicarono falsificando l'opinione pubblica, durante dieci anni. La stampa che aveva un bell'offizio d'adempiere, quello d'illuminare, di calmare le passioni e di preparare soluzioni parifiche, si compiacque di suscitare l'Europa contro il governo di Napoli; ed i giornali non erano sempre mossi dagl'interessi esclusivamente politici ed umanitari. Si. elevò a moda di portare sulla giustizia napolitana un giudizio tetro ed implacabile, senza il menomo pensiero della verità, e di gettare in pascolo della pubblica credulità i fatti più inverosimili.
Io non vi parlerei delle lettere di un ministro celebre, giudicate poscia con una severità ben meritata. Voi avete inteso parlare della cuffia del silenzio, e raccontare la storia più assurda e pia ridicola ancora degli ossami delle persone crocifisse, trovate nei sotterranei della polizia a Palermo. Vi era più di un secolo che si era abolito in Napoli l'uso della tortura. Nondimeno non si trasanda di gridare contro le torture che la polizia infliggeva nelle prigioni. Un emigrato, rifugiato in Firenze, inventò in un momento d'estro la cuffia del silenzio, e la sua invenzione fece rapidamente il giro del mondo. Un sentimento di carità e di misericordiosa politica m'impedisce di nominarvi questo calunniatore. (1)
(1)Con sommo dispiacere il traduttore deve turbare le
130
Ultimamente,
la speculazione ajutata dalla politica avea fondato i suoi calcoli
sopra tutte queste invenzioni per segnalare la buona fede del popolo
inglese. Sarebbe stato bello, in effetto, di ricordare a Londra le
torture del tempo di Giacomo II! I Borboni di Napoli, al XIX nono
secolo, non sono per un certo modo gli Stuardi del decimo settimo? Ma
si sa la fine deplorabile del Dottor Nardi, che avea speculato sullo
spettacolo delle torture napolitane. (1)
Intanto, un altro dottore, uomo serio e riflessivo, assicurò dopo la rivoluzione di Sicilia, aver veduto coi propri occhi, a Palermo, gli ossami dei giustiziati. Era gravoso, era uno scandalo, ma fa d'uopo attribuirlo senza dubbio ad un errore involontario. Palermo aveva conservato le vestigia delle pene barbare del medio evo. Vi si vedevano ancora nel 1845, teste e mani de’ giustiziati sospesi agli angoli delle strade in gabbie di ferro ossidato. Teste di delinquenti, quasi ridotte in polvere, eranvi, non ha molto tempo, esposte sulla porta di Trapani ed altrove. Questo lusso di crudeltà era scomparso dalle leggi, ma non si era mai pensato a distruggerne le vestigia, di cui, d'altronde, il popolo stesso non sì prendeva più pensiero. In occasione della venuta dell'Imperatrice di Russia, si volle fare scomparire questo spettacolo spaventevole, ma invece di trasportare questi funebri avanzi al cimiterio,
ceneri di quell'esule sig. Gennaro Belletti, ma
nell'interesse della storia è costretto a farlo. Egli è morto non ha
guari, senza però potere accusare il governo del Piemonte
d'ingratitudine verso di lui per così bella invenzione.
(1)Il Dottor Nardi sia che fosse spinto o no, annunziò su i giornali aver trovata la CUFFIA DEL SILENZIO. Si recò in Londra, pubblicò manifesti, fece dipingere molti apparati di tortura, chiamò con tutti i mezzi un pubblico numeroso, ma fu fischiato! l dispendi erano stati molti, i creditori, pare, erano insistenti, ed ei pensò pagarli, bruciandosi le cervella.
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si ebbe la negligenza di gettarli
in una segreta della polizia. Ora i ribelli, penetrando nella prigione
per dare alle fiamme gli archivi, trovarono questi ossami ammucchiati,
che credettero nel loro. delirio, essere gli avanzi di qualche infelice
misteriosamente messo a morte. Ma il dottore inglese, a cui si erano
mostrati, avrebbe potuto convincersi che quegli ossami rimontavano ad
un epoca superiore ad un secolo; che niuno avea visto scomparire alcuno
de’ suoi; che i detenuti erano sempre in comunicazione colle loro
famiglie; ohe è impossibile oggigiorno di nascondere la morte di un
individuo, perché un luogo di detenzione in una capitale, non è
un'abitazione del medioevo, e che la polizia in questo caso, avrebbe
meglio saputo celare i suoi misfatti. Non poteva avere, come il
popolaccio insorto, la febbre calda della vendetta, che non ragiona.
Disgraziatamente il governo napolitano aveva disprezzati gli attacchi
della stampa straniera senza risolversi. giammai ad illuminarla. Senza
questo fastoso e deplorabile disdegno, si sarebbe forse con vantaggio
distrutta la causa di molti delitti, e di molti errori nazionali,
spesse volte più umilianti che i disastri.
La stampa francese, la belgica, l'inglese, e specialmente quella del Piemonte si sforzò, durante dieci anni, di esagerare gli abusi del governo, di Napoli. Intanto una guarentigia del pubblico bene ed anche di bene popolare poteva trovarsi nelle leggi costitutive del regno. È da notarsi che tutte queste guarentie di libertà civili messe alla testa delle costituzioni moderne, si trovavano da più di mezzo secolo registrate nelle leggi napolitane. Le leggi governando il bene dello stato, la liquidazione dei conti dell'amministrazione pubblica, l'uguaglianza al cospetto della Legge, i casi di acquisto, o di perdita della nazionalità, la libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio e del secreto delle lettere e la capacità per esercitare le pubbliche funzioni, tutto di già esisteva nel nostro codice. Le leggi amministrative erano conformi a quelle della Francia, e superiori a quelle
132
di molti altri Stati; la
legislazione riguardando il commercio, l'ipoteche, il registro, le
acque e foreste, portava l'impronta di una saggezza rimarchevole, che
un mezzo secolo di giurisprudenza aveva sviluppata e consolidata. E per
quello che riguardava la giustizia, i costumi, dopo lungo tempo, appo
noi, avevano trionfati dell'inquisizioni giudiziarie col render
pubbliche le discussioni; ed anche che si fosse serbata tuttavia
severità nei giudizi, l'iniquità però non si poteva assidere alla
sbarra dei tribunali. Solo quando le Corti di Giustizia hanno
pronunziati i loro arresti nell'ombra del mistero e senza eco, gli
omicidi giudiziali sono stati frequenti. Con tutto ciò non vengo a dire
che il regno di Napoli era stato ben costituito in ogni cosa, e che la
condotta del suo governo fu sempre ferma e prudente. E poi; perché
orpellare la sua causa quando si conosce da tutti aver essa in difesa
la ragione e la giustizia? La franchezza e la miglior cosa, e a altra
parte, le cause cosi giuste e cosi sante, esiggono una misurata, e
moderata difesa. Le cattive istituzioni possono depositare i germi di
morte là, ove la vita era chiamata a svilupparsi, le buone leggi hanno
del pari bisogno d'intelligenti magistrati, e di esperti
amministratori. D'altra parte lo spirito del governo è quello che fa
muovere il meccanismo politico di uno Stato, sicché la felicità, la
forza ed il destino d'un popolo dipende appunto da questo spirito e
dalla sua istruzione. I napolitani si credettero fondati a poter
reclamare riforme nelle leggi, e non si può far di meno riconoscere
oggi con una certa meraviglia, che semplici riforme avrebbero resa
duratura la pace e l'indipendenza del regno. Se essi desideravano un
cangiamento nello spirito del governo, ciò era pure nei desideri del
potere. Ma l'opposizione sorda e continua di un partito esagerava i
torti del governo, o non sempre improntavano con giustizia e verità
bastante. Quest'opposizione travestendo gli atti dell'autorità per
farla detestare, provocava il potere con la diffidenza. L'altezza
disdegnosa di questo partito preferiva presso
133
il
potere la resistenza ostinata alle concessioni opportune. Se vi erano
abusi nel Governo, erano abusi che non mancavano per ogni dove. Quando
si leggono le lettere di Giunto, non si può rimanere non compreso di
meraviglia in vedere che una stampa cosi libera, ed una tribuna cosi
fragorosa non potessero impedire tanti disordini e tanti iniqui abusi
nella vecchia Inghilterra. Ma checche ne sia, dopo la pubblicazione
della costituzione, una volta ritornato al Governo rappresentativo, si
sarebbe dovuto sforzare di mantener l'ordine e la pace nel regno; non
solamente coloro che fanno degl'interressi materiali lo scopo
principale della loro vita, ma specialmente quelli che, rappresentando
le tendenze liberali in politica, dovevano a cuore tener la cosa.
Questa classe che doveva tanto operare fu quella che, decisamente
favori gl'intrighi di Torino, e Torino con somma alacrità pose ogni
impedimento, onde Napoli non divenisse uno stato forte, e felice, che,
non separandosi dalle sue tradizioni, sarebbe stato il vero sostegno
dell'indipendenza italiana ed una fonte inesausta di vantaggi per
l'Europa. Si preferì la chimera dell'uniti, che sarà un imbarazzo
costante ed un pericolo continuato per tutti gli Stati. La nazione
napolitana andava a smentire, ed in un modo il più energico, quelli che
credono potersi cambiare impunemente le forme di governo. Le leggi
stesse che rendono una nazione felice e prospera non si possono
imporre, con la forza, ad un'altra che ha tradizioni e costumi
interamente opposti. Or che deve accadere al Regno di Napoli?!.. I
cambiamenti minacciano di farlo retrocedere al suo punto di partenza
almeno di un mezzo secolo.
Albana, 10 Luglio 1863.
134
Signore,
In
che modo il governo unitario ha trattato le leggi napolitane? Il nostro
codice civile non si è conservato che provvisoriamente. Il parlamento
aveva deciso che le provincie meridionali continuarebbero ad esser
regolate da questo codice fino alla promulgazione del codice generale.
Ma una circolare del guardasigilli, ci vien a prescrivere la
celebrazione dei matrimoni tra gli acattolici, nuovo insulto alle
convinzioni religiose e nuova violazione della legge. La legge del
registro pesa colla sua ingiusta fiscalità su i processi di poca
conseguenza che riguardano più particolarmente il popolo. Si è
costretto a pagare per lo stesso credito quattro volte la tassa: dopo
una sentenza di condanna fino all'esproprio. Si è di già elaborato,
come si dice, il codice generale, il codice di procedura, il codice di
commercio, e si va prossimamente a presentarli alla legislatura. Si
assicura non essere che un innesto, benché mal fatto, delle leggi
Napolitane, Piemontesi e Leopoldine. Per altro le nostre leggi penali
nel Regno si sono abolite immediatamente, in ragione che queste leggi
sono strettamente legate all'ordine pubblico, e formano la base e la
forza del potere. I barbari che inondarono l'Italia al cadere del
Romano Impero, non altrimenti oprarono. Si era permesso alla Toscana,
che aveva votata l'annessione, di reggersi colle proprie leggi, ed il
regno di Napoli che non si era sottomesso, dicevasi, all'unificazione,
fu privato dei suoi codici. Sotto il pretesto dell'unità italiana,
invece di applicare le leggi penali napolitane, alle altre parti della
Penisola, che se ne sarebbero senza dubbio trovati bene, s'imposero a
Napoli le leggi Piemontesi.
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La dittatura
subalpina compiacevasi sopprimere ed annientare tutto quello che poteva
credere essere pel regno gloria e ricchezza intellettuale.
Il codice Piemontese intanto, non è che il codice dell'Impero del 1810, meno alcune disposizioni e la confisca. Niuna distinzione tra la recidiva e la reiterazione, niuna gradazione nella complicità, tutto il rigore di un potere sospetto per gli attentati contro lo Stato e pel rispetto dovuto all'autorità; la pena di morte prodigata come nel suo modello. Io mi restringo a citarvi una sola disposizione. L'autore di un tentativo qualunque e non prevenuto di cospirazione, nel fine di cangiare la forma del governo, è punito con la reclusione; e questa pena può ancora estendersi ai lavori forzati, secondo la gravita delle circostanze. Tra le pene non vi manca la gogna., fra i delitti d'incesto, che te leggi napolitano avevano saputo comprendere nelle disposizioni generali, ed il suicida, di cui la pena ricade sopra gli eredi. Le disposizioni testamentarie del colpevole si ritengono per casse, e se il delitto non è stato che tentato, il colpevole può essere rinchiuso fino al termine di tre armi. Bisogna non dimenticare, che in Piemonte la legge Albertina del 1831 abolì il supplizio della ruota, la pena di morte per i FURTI SEMPLICI, l'infamie, le tanaglie e la confisca. Cosicché l'omicidio volontario nel codice Piemontese, è ancora punito co’ lavori forzati a vita, anche quando è accompagnato da circostanze attenuanti. Nelle leggi criminali, si ama trovare la garentigia dell'interesse pubblico e particolare, non che questi due interessi equilibrati e debitamente soddisfatti. Però, nella legislazione sarda pubblicata nel 1839, non si trova questo equilibrio reclamato dalla giustizia e dall'umanità, anzi il sospetto e la gelosia. del potere in ogni linea soprattutto campeggia; e per convincersene basta leggere le disposizioni sulla cospirazione, sulla resistenza alla forza. ed all'autorità pubblica.
In rivestire l'autorità di un dritto terribile, quello della
136
repressione
colle armi, la legge Napolitana non permetteva alla forza pubblica far
uso dell'armi che nel caso di violenza; il codice Piemontese punisce
con prigionia di sei giorni a cinque anni l'omicidio commesso dalla
forza pubblica nell'esercizio delle sue funzioni per eccesso di
vivacità. La legge Napoletana non era indulgente pel rivelatore, perché
quando le sue confessioni avevano luogo pria della cattura, esse si
potevano ritenere come una testimonianza di pentimento. Non cosi il
codice Piemontese, il quale accorda la sua indulgenza (ossia
l’esenzione della pena) ad ogni accusato che ha denunciato, e fatto
scovrire un colpevole. La quale cosa importa lo stesso che favorire, in
un modo tutto immorale, la dilazione. A questo codice Albertino si è
unito il codice militare sardo, in cui risalta una draconiana severità.
Si è abolita la pena della bacchetta, ma però vi esiste quella di
legare i soldati a' pali e di condannare a pane ed acqua: in tutti i
corpi di guardia ognun tede sospese le catene di diverse grandezze. Le
leggi d'istruzione criminale hanno regalato al Regno di Napoli i giurì,
cosa che può aver meritata l'approvazione di coloro che preferiscono il
giurì alla magistratura. Ma, per i tempi turbolenti che corrono, i
giurì sono stati più umani e più indipendenti?
Ciò che l'uomo giusto e virtuoso, diceva Ersckine, deve domandare all'Altissimo con più fervente calore, è chela giustizia umana sia pura, elevata, benefica come la giustizia del Cielo. La giustizia Piemontese al contrario, entrando ad un tratto nel Regno di Napoli, si è presentata con la scure del littore alla roano. Essa si è servita dei magistrati come figure stabilite di uno Stato, per mascherare sistematicamente una usurpazione, ed introdurvi un dominio nuovo, senza badare che questo artificio politico è antichissimo. La nuova amministrazione dunque deve camminare, se l'è possibile, sulle tracce della precedente, ed il meccanismo del nuovo governo senza dubbio non può formarsi che con i mezzi rotti e dispersi dell'antico.
137
Ma si
ama meglio far ricorso ad istrumenti, di cui la sola rivoluzione
conosceva la forza e la portata. Tutti gli agenti rivoluzionar!, tutti
questi uomini dell'indomani, che aspettavano pazientemente il successo,
si agitavano, sollecitavano, avendo tutti le suppliche in mano con
forti assicurazioni di attaccamento. In questo focolare d'intrighi
incessanti, non si ebbe né il tempo, né la volontà di una scelta
illuminata. Mentre che i buoni magistrati tal volta potevano rendere
tollerabili le leggi cattive, il. governo piemontese che si proponeva
di riformare e moralizzare l'antica magistratura, l'ha disorganizzata,
coll'introdurvi gli uomini ignoranti e sconosciuti, il cui solo merito
era di aver cospirato contro l'antico governo, e di aver riportate
politiche condanne. Gl'intrighi, venendo al soccorso delle ambizioni,
federo largo all'avidità impaziente di mille e mille sollecitatori; la
magistratura si vide invasa da tutte le giovani e vanagloriose
escrescenze della, rivoluzione. Gli antichi magistrati furono tutti
confusi nella stessa riprovazione; pochissimi, e la più parte sotto Il
protettorato di qualche comitato, riuscirono a conservare il loro
impiego. Centocinquanta magistrati, su quattro o cinquecento, furono
scartati dal solo scrutinio del sei Aprile 1862, benché questo fosse il
terzo!
E intanto nel parlamento italiano si ripete sempre che gli avanzi dalla antica magistratura sono quelli che compromettono la giustizia. Ma come lo può se essa trovasi in uno stato troppo servile? La novella magistratura, prestando naturalmente l'appoggio al potere, è stata da questo incaricata di non darsi carico a giudicare, ma di attivarsi ad ogni costo per la difesa del governo contro i sentimenti del popolo, e contro le imprese dei partiti, dovendo far ricadere sopra i vinti ogni rigore. Questi nuovi magistrati procedendo in tal modo, si lasciano giornalmente sorprendere in flagranti delitti di dimenticanza de’ loro giuramenti, e trovandosi sempre prodighi di queste vessazioni inutili e vergognose che, contro un governo sospettoso,
138
provocano
odio piuttosto anziché rigori. Si mosse accusa all'antica magistratura
di non essere rimasta impassibile in mezzo agli avvenimenti e di non
essersi scrupolosamente limitata nelle sue attribuzioni.1 magistrati
creati dalla rivoluzione si glorificano di non essere giudici di tutti,
senza distinzione d opinione, cosa degna dei ladri e degli omicidiari,
che si vogliono cercare una piena fiducia col mezzo delle loro
sentenze.
Non vi lusingate a credere che la nuova magistratura peccasse di eccessiva pietà verso un accusate, e indebolisse la giustizia con molta filantropia; come pure non è a temersi che essa abbandona mai lo Stato senza difesa., e le persone negli attentati d'un forte ed impunito delitto! Essa al contrario si affligge di non più avere alla sua disposizione le crude pene e gli atroci supplizi come ne' tempi che furono; per la qual cosa. non dì rado, i procuratori generali si lamentano, spiacendosi,. di dover applicare pene che troppo leggere, si presentano ai loro occhi. Che si direbbe, in Francia, se un pubblico accusatore, come il Signor Tramontana, nella sua requisitoria contro il Colonnello Barone Cosenza, avvertisse i giuri che i processi politici ^sono. eccezionali, e che bisogna giudicarli più da partigiani che da magistrati? d'altronde, in questo fatto $ si è avuto un esempio per sempre memorabile della indipendenza di questa magistratura. La Corte di cassazione di Napoli, dopo la vana impresa di Aspromonte, spogliò i tribunali delle Calabrie di ogni loro competenza, in vista di un telegramma del ministero di Torino, telegramma che si è anche ardito menzionare nella requisitoria dell'avvocato generale e nella sentenza. Nel processo della Principessa Sciarra, si dichiarò che la sua innocenza non doveva essere rilevata che nelle discussioni. Il luogotenente generale militare s'immischiò anche nella giustizia. Cosi, nel processo del sopradetto, Cosenza il Signor la Marmora raccomandò alla Corte di attendere con accuratezza alla procedura, perché il Colonnello, senza alcun dubbio, sarebbe condannato.
139
Questi
avvertimenti di tal fatta vengono sempre ben compresi dai giudici, a
cui s'intende accordato il privilegio dell'inamovibili là, dopo
l’esperienza di tre anni: e perciò I applicazione della Legge non data
che dal 1862.
Che dire del codice d istruzione criminale? La facoltà accordata dalle leggi napolitane di lasciare in libertà provvisoria un prevenuto è stata ristretta dal codice piemontese, e per riguardo alle cose politiche si è messa in disparte. Il giudice in altro tempo, era in dovere, immediatamente interrogare il prevenuto. Oggi il codice sardo dispensa il magistrato di questo dovere, nel caso di flagrante delitto; ed in ogni altro caso, lo facultà di aggiornare questa formalità, basta che faccia menzione della causa del ritardo. Altre volte non si poteva negare il permesso di visitare i detenuti, dopo il loro interrogatorio; oggigiorno dipende dal beneplacito di un regio procuratore, o di un giudice d'istruzione. Per ottenere questo favore, i parenti ed i difensori debbono aspettare la notifica dell'atto di accusa, notifica che si fa tal volta attendere quindici mesi. Gli avvocati del foro napolitano hanno segnata, in pura perdita, una energica protesta, rammentando che i detenuti hanno per loro la presunzione dell'innocenza.
Le camere d'accusa, la cui missione è di garantire rinterrasse individuale lo compromettono tutto giorno, quando si tratta di politica imputazione, declinando ogni responsabilità. Esse credono che quando un accusato, è presentato al loro cospetto non può non essere colpevole, e poi lasciano all'Assise la cura ed il pericolo della liberazione. Questo è il modo con cui s' interpreta il voto della legge (anche quella piemontese) che comanda dover essere la detenzione preventiva la più breve possibile che si potesse. I giudizi di sottoporre all'accusa, servono per giustificare gli abusi della polizia. E non vi si è dato un esempio ancora che un magistrato preferisse alla fortuna l'indipendenza e la giustizia. La corte di Santa Maria diede la libertà a quasi trecento
140
di
questi individui, imprigionati arbitrariamente, e benché fin dal
principio furono dai testimoni dichiarati innocenti, pure dovettero
soffrire una lunghissima prigionia, e solo con questo mezzo poteva
evitare la taccia d'indulgente, e forse anche il corruccio del potere.
L'oppinione pubblica... non forma giammai quistione. Una Corte ha
ricusato di riconoscere un decreto di grazia di Francesco II.
sottoscritto in quel tempo che occupava le rive del Volturno: sulla
qual cosa è da notarsi, che il delitto era stato commesso sul
territorio occupato dalle truppe napolitane, e che la grazia non era
stata accordata, che per questo solo, pel quale la giurisdizione dei
magistrali era interdetta, trovandosi in potere del nemico il resto del
territorio. La corte partì da questo considerando che il Re, essendo
sortito da Napoli, era decaduto dai suoi dritti di Sovrano, ed i
prevenuti dopo aver sperimentata una lunga detenzione, furono
condannati.
Questi registrati, timidi e tentennanti, non si curavano affatto di sollecitare e di assicurare il corso della giustizia: sicché il presidente della corte di Napoli Sig. Giacomo Tofano, supponendo che la lentezza introdotta nei giudizi, era la causa della sua destituzione, riconobbe in una giustifica stampata, che questa accusa era ben fondata ma però se l'attribuiva a vento; perché ei soggiungeva: questo modo di agire da parte sua era un atto di patriottica prudenza. Se io, ei seguiva a dire, avessi liberato una moltitudine di detenuti, come era obbligato a fare, 'perché senza prove, avrei ben cagionata al Regno una più grave e più pericolosa situazione, tanto più che era giunto il momento in cui la rivoluzione veniva a scoppiare... Giustificazione degna di Carrier, o di Lebon! Questo tipo di magistrato annessionista prendeva la maschera della giustizia, più odioso mille volte che lo scherno sfrontato dell'oppmione. Felici gli oppressi, che dopo una giusta detenzione, sono rinviati alle Assise, mentre gli altri marciscono nelle prigioni in mezzo a tutto ciò che le grandi città producono di più
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corrotto
e di più impuro. Quante migliaia di prevenuti sono stati gettati in
prigione senza prevenzione e senza processo! Essi non eran rei d'altro
delitto che di odiare i loro oppressori e di affrettare col desiderio
il giorno della liberazione, dopo tutto ciò, è maraviglioso che
un'annessione imposta dalla forza, sia esecrata da uomini che veggono
la loro patria assoggettata e spogliata, le campagne e le città messe a
fuoco ed a sangue, e l'esecuzioni sommarie all'ordine del giorno! Per
altro gli usurpatori, sotto l'impressione dei timori che van sempre
d'appresso alle nuove conquiste, non si prendon carico d'altra cosa
prima della loro sicurezza, e questa, secondo essi, non può esser
meglio garentita che dall'esilio e dalla carcerazione di tutti colora
che eccitano i loro sospetti. Le persone dabbene, e spesse volte anche
i membri distinti della aristocrazia, sono stati rinchiusi coi
malfattori più infami; un gran numero di uomini distinti per la loro
sociale posizione, per la loro fortuna, pel loro sapere; sacerdoti di
grande pietà e d'illibati costumi, sono stati messi in prigione e
confusi coi ladri, e con gli assassini. Il Duca di Popoli, solamente fu
molto fortunato, perché sorti dopo cinque giorni di detenzione, e fu
troppo prudente ed assai disprezzante per non mercanteggiare il suo
dritto di esiliarsi. (1)
I detenuti sono assoggettati ad inauditi trattamenti e non è loro permesso neppure di scrivere e di ricevere lettere o di avvicinarsi alle ferriate; i loro parenti ed i loro avvocati non possono che rarissimamente visitarli se non in presenza dei 'carcerieri. Per convincersi della verità sarebbe necessario leggere il regolamento delle prigioni ed allora non si potrebbe non dire che lo Spielberg è stato calunniato; tanto più che i custodi delle carceri sono tutti piemontesi. Al fatto, perché i detenuti sarebbero meglio trattati che i soldati? (2)
(1)Il traduttore crede che fossero quindici e non cinque i giorni passiti in carcere da questo gentiluomo, che divide da più anni l'esilio col Re.
(2)Si legga nella pagina 139.
142
Il
dubbio è possibile, dopo la tornata memorabile del parlamento
britannico in cui valenti oratori consegnarono all'indignazione europea
la tirannia e l'atrocità piemontesi, nel Regno di Napoli; dopo la
testimonianza del nobile e generoso personaggio Lord Enrico Lennox, il
quale affermò sul suo onore ciò che aveva veduto coi propri occhi,
percorrendo l'Italia? Non haegli delineato con orrore, al cospetto del
popolo Inglese e di tutta l'Europa, il miserevole stato delle prigioni
napolitane, e denunziato il numero dei prigionieri detenuti dopo
dieciotto mesi, anzi due anni, senza conoscere il delitto, che loro
veniva imputato, senza esser stati interrogati, a segno tale che
avevano anche cessato di muover lamento? Vi erano molti gentiluomini
che sotto il peso degli anni si erano curvati, o sopra le crucce si
trascinavano.
Lord Lennox ha veduto i prevenuti politici confusamente con i condannati per atroci delitti, e con i condannati à morte; questi stessi confusi cori gli officiali della guardia nazionale, con i debitori con i sacerdoti, e co Vescovi; uomini per nascita e per educazione distinti trascinare la. catena dei l'orzati e andar legati co’ briganti condannati per latrocinio,, o per omicidio; volontari garibaldini, di cui si era molto accettato il concorso per accendere l'incendio, ma ripudiato per estinguerla, donne accusate di simpatie politiche rinchiuse con la feccia dei bivi; tre nobili donzelle, che i cuori più duri avrebbero risparmiate, condannate a vivere nello stesso modo.
Ah! si che allora l'anima generosa dell'inglese dove sentirsi commossa ed assalita dalla trista rimembranza delle giovani figlie di Tauntòn! Ed intanto qual differenza! Le giovani inglesi del secolo XVII offrirono uno stendardo a Montmouton, in un momento di trionfo della sua ribellione, e le giovani napolitane del secolo XIX, invece, han sospeso nella finestra un lenzuolo che ben tosto si è trasformato in borbonica bandiera! Le inglesi espiarono il loro fallo in una prigione,
143
ove
imperversava; una malattia contaggiosa, e finirono col pagare un prezzo
pel riscatto, ma le napolitane sodo rimaste per lungo tempo in mezzo a
questo conteggio dello spirito e non ne sono uscite che disonorate per
sempre da un simile contatto. (1).
Il filantropo inglese, questo degno compatriotta di Howard, vide ammucchiati cinque o seicento prigionieri nelle carceri, che prima erano destinate a contenerne duecento o trecento. Questi disgraziati, esultanti di piacere, come alla vista di una divinità tutelare, l'assalirono di lamentevoli grida, di preghiere, e di suppliche disperate; domandando, non la libertà, ma i giudici ed un giudizio. Con gli occhi schizzettati di sangue e con le braccia tese, gli si affollavano d'intorno, implorando il suo patrocinio. Le loro vesti menta sucide e logore se ne cadevano a brani, ed appena appena coprivano la loro nudità. E tutte queste creature umane erano condannate a nutricarsi di un nero pane, che non si sarebbe gittato ai cani, e che non cedeva neppur sotto la pressione del piede. Il nobil Lord può constatare il loro stato dì ributtante sordidezza,: l'aria mefitica che respiravano ed il loro nutrimento mal sano, che avevano fatto sviluppare la febbre tifoidea; cosicché non potette non fare il paragone tra questo tristo ed orrido spettacolo coll'inferno di Dante, e tra questi infelici condannati che non proferiscono altro che
Parole di dolore e accenti d'ira
Che non si sarebbe detto visitando le prigioni delle provincie come quelle di Cosenza, di Potenza, di Catanzaro, dove i detenuti erano ammucchiati e dovevano dormire senza paglia, e senza coverte, ove Dell'ultima di queste città
(1) Queste tre sorelle infelici, trovate nel
carcere delle prostituii di Santa Maria Agnone da Lord Enrico Lennox,
han nome Francesca Carolina e Raffaela Avitabile.
Il nobile Lord diceva in tale proposito nella camera: ecco ove è giunta la legge e la giustizia nel Reame di Napoli!
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duecento
ottanta di essi, nel 1862, erano attaccati dal tifo? Che non si sarebbe
detto se si fossero visti a Foggia i carcerati ammucchiati, per
mancanza di locale, nelle anguste e corrotte cose di legno? e le
carceri di Avellino stivate di vecchi, donne, fanciulli stesi per
terra, perché i loro padri, i loro figli, i loro mariti combattono
nelle fila degl'insorgenti? Quale impressione non avrebbe prodotta là
vista del rigurgitamento dei carcerati, nel forte di Mare, a Brindisi,
tutti di onesta condizione, circondati da muraglie umide e perciò
mortali, e quei che si credeano pericolosi legati strettamente ai pali
di legno? Che non si sarebbe detto se si fossero ascoltati le
lamentevoli grida dei prevenuti battuti dagli aguzzini, o dalle guardie
nazionali...? Ve ne fu uno, a Nisida, che si era legato all'inferriata
di una finestra con una catena che gli stringeva mani e piedi. Tutti
questi carcerati sono magri e pallidi, e spandono nelle loro segrete
prigioni una fetida e pestilenziale atmosfera, che può far vendetta su
i loro giudici, ma in tal modo, da un momento all'altro innocenti
città, si possono ammorbare. Lord Lennox non ha potuto dividere
l'indifferenza che affettano i dominatori di Napoli, ed alla quale
vogliono abituare la società. Ah! se il suo ardente amore per la
giustizia e per l'umanità l'avesse condotto nelle viscere della terra,
ne' sepolcri antichi delle Chiese di qualche località della Basilicata,
avrebbe veduto calare i detenuti, là dove una volta si calavano i
cadaveri! Alla vista di questi patimenti, sconosciuti ancor dai negri
trasportati da Congo al Brasile non poteva fare a meno di gridare che:
sul suolo napolitano, una volta paradiso terrestre dell'Italia, vi si
trova tutt'ora qualche cosa di peggio dell'inferno di Dante.
Albano li 11 Agosto 1863.
145
Signore
Compita
appena l'annessione, la libertà individuale in Napoli venne onninamente
a mancare. In fatti, ivi dall'ora non si è mai cessato d'imprigionare
senza querela, senza processo e senza mandato della giudiziaria
autorità, essendo sufficiente una denunzia ratta innanzi ad un
guastamestieri, patriotticamente autorizzato. Il capriccio di una spia,
di una guardia nazionale, di un camorrista e del primo arrivato che ti
arroga il dritto del potere, è bastante a fare arrestare migliaia di
persone, il cui solo delitto, è di lagnarsi del servaggio della patria.
Per esempio, voi volete vendicarvi d'una dimanda respinta, d'una lite
perduta,,0 di qualunque riprensione incorsa per sregolatezza di
costumi? Denunciate! Perché in questo modo furono arrestati molti
Sacerdoti nelle provincie, e l'antico procuratore generale Francesco
Morelli fu assalito nella strada di Toledo e trascinato in prigione;
chiunque perciò era rimasto fedele all'antica fede si è trovato nello
stesso pericolo, aspettandosi indubitamente la medesima sorte. Il
principe d'Ottajano, Giuseppe de’ Medici, dovette soffrire quattro mesi
di prigionia e fare emigrare suo figlio, prima che non si ricolmasse di
onori per la sua strepitosa apostasia. Complice spietato dell'assoluto
potere fece di tutto come dimenticarsi della sua vecchia complicità,
onde risparmiarsi de’ rimorsi!...
Questi modi di agire sono assestamenti di coscienza, che non onorano gli uomini, tanto quei che li provocalo, quanto quei che ne assumono la responsabilità; benché a Napoli, tuttavia, serbando una tal condotta, non si è sempre sicuro.
146
La
Francia e l'Inghilterra che penseranno su queste brute violazioni della
libertà individuale, la quale solamente, può contribuire alla
sicurezza, ed in conseguenza, alla felicità degli abitanti? Qual cosa
dovranno dire gl'Inglesi, che sono cosi attaccati alla legge
dell'habeas corpus, la quale vien considerata da loro come il freno più
potente che la legislazione avesse mai potuto imporre alla tirannide?
Eppure il timore degli arresti arbitrar! era tale che nissuno ardi più
dirigersi da Napoli verso lo Stato pontificio senza far la volta di
Livorno, o di Marsiglia. Al ritorno però queste precauzioni non erano
manco sufficienti. Un prefetto, il Signor Pasquale Mirabella, reduce da
Marsiglia, dopo sei mesi d esilio volontario, si vide arrestato, nel
punto che disse il suo nome, e rinchiuso per sedici mesi.
L'inviolabilità del domicilio non è stata più rispettata, le guardie nazionali, i camorristi, ed i studenti si permettevano come per dritto d'invadere le case dei sospetti. Dal primo gennaio alla fine di Marzo 1862 si fecero 1,511 visite domiciliari nella città di Napoli. (1) Si trascinavano i cittadini nelle prigioni, spietatamente strapazzandoti. Si è visto un carabiniere a cavallo condurre un infelice, ligato col cappio al collo, perché impotente a seguire il trotto della sua cavalcatura; arrestati ammucchiati su di una carretta, in cui trasportavano confusamente due religiosi: ed un giorno il popolo si dovette ammutinare per sottrarre un prigioniero dalle brutalità di un gendarme, che l'aveva ligato alla coda del suo cavallo.
(1)Da Marzo 1862 fino a Giugno 1864
si sono verificate oltre DICIASSETTE MILA SEICENTO TRENTACINQUE visite
domiciliari come potrà riscontrarsi nel Nomade e nel Popolo d'Italia
dei due anni. E ciò per la sola Napoli, e se si volessero poi riunire a
questa cifra quelle delle provincie al di là ed al di qua del Faro, il
numero totale ascenderebbe di non poco superiore alla cifra dei debiti
contratti in quattro anni dal governo civilizzatore.
147
Lo
autorità non danno. migliore esempio: il questore (prefetto di polizia)
Signor d'Amore ferì esso stesso con colpo del suo revolver un certo
Tancredi, che ricusava confessarsi colpevole di complotto, borboniano.
Questo. prefetto, magistrato sortito dalla rivoluzione, non ambisce che
una gloria: l'ha di già ottenuta, Gli ufficiali che avevano combattuto
sulle rive del Volturno, e del Garigliano, malgrado le capitolazioni di
Capua, di Messina e di Gaeta; in vece di vedersi accolti nei ranghi
della nuova armata, o ammessi in un ritiro onorato, sono stati
arrestati, durante la notte, nel loro pacifico domicilio; ed
ammucchiati su dì un naviglio furono trasportati a Genova, quindi in
Alessandria; senza essere stati mai fatti degni di conoscere la causa
del loro arresto, il magistrato, che l'aveva ordinato e la sentenza che
li destinava a quest'arbitraria ostracismo. Coloro che, fedeli al loro
giuro, avevano pugnati pel Re e per la patria, fino all'ultimo momento,
caduta Gaeta e ritornati in Napoli, furono arrestati, e nell'orrida e
meschina isola di Ponza, deportati. Vi è di più: Si spedirono
bastimenti a Civitavecchia, per prendervi gli ufficiali, che essendosi
rifuggiati colla loro divisione sol territorio romano, erano stati più
tardi ammessi a partecipare della capitolazione di Gaeta col prezzo
della cessione di Messina e di Civitella del Trento. Arrivati al porto
di Napoli furono ignominiosamente portati nei forti, ove trattenuti
diciassette giorni, si spedirono a Ponza in cui si trovavano di già i
loro infelici compagni d'armi.
I Borboni nel 1815, dettero esempi di una condotta molto differente assai nella lealtà, e tanto è vero, che vennero riconosciuti tutti i gradi delle milizie debellate. I nostri ufficiali, indarno invocano la loro capitolazione: si teme l'elemento napolitano, e si vuole compensare l'elemento piemontese. Il più di questi sfortunati si trovano oggi rilegati nel loro paese natale, ove l'assenza li aveva fatto dimenticare o nelle piazze fonti, in cui sono privi di ogni cosa. E ritornando nei loro focolari, i soldati sono stati insultati, maltrattati, impriggionati ora
148
dagli
antiborbonici, ed ora dalle stesse autorità, felici coloro che han
potuto prendere la fuga!... Tre anni sono già scorsi di piemontese
dominio, e gli arresti arbitrari non cessano ancora. Questi attentati
si vorrebbero anche giustificare; col dirci che sarebbe ignoranza voler
condannare il rigorismo, dopo le regole, che non possono essere
osservate se non nei tempi, in cui l'ordine è ristabilito...
Quando un popolo vuole assicurare la sua libertà, deve prevalersi di tutto ciò che può menare a questo fine ecc. Queste sono le massime degli uomini del potere, e specialmente del prefetto di polizia di Napoli. E questi che si allontanano in ogni momento, dalle forme prescritte dalla legge, e da ogni regola di giustizia e di morale, si danno il vanto di aver sottratto il popolo dall'antica tirannia! A Napoli il governo piemontese non si è mai fatto scrupolo di violare il secreto delle lettere, e spesse volte carabinieri situati dietro l'inferriata dell'officio hanno tratto in arresto coloro che si portavano a domandate ima lettera sospetta, una lettera proveniente da Multa, da Marsiglia, e specialmente da Roma nella quale si era trovata qualche frase ambigua qualche espressione di speranze di famiglia, di un voto! Ed il processo del Duca di Cajaniello n' è una delle tante pruove; ed abbenchè si fu costretto dichiarare la sua innocenza, da tutti riconosciuta, pure ciò si fece dopo d'averlo fatto soffrire otto mesi di dura ed inumana prigionia. Il processo del Marchese Spaventa, ebbe pur principio da una lettera enigmaticamente sorpresa su di contadino, dopo che un'altra ne era di già stata sorpresa alta posta, che aveva messa la polizia agli agguati. Dopo una lunga detenzione ed un solenne giudizio, se non imparziale, fu d'uopo infine rassegnarsi ad un pagamento, e di questi simil fatti se ne son visti in moltissime località, sicché talvolta gli agenti provocatori hanno scritto delle lettere per ottenerne risposte, onde trarre appoggi di convinzione.
149
Tutto
questo non è da metterei in dubbio, poiché il gabinetto di Torino
accusato di violazione del segreto delle lettere affidate alla
amministrazione, non si difese, limitandosi ricusare alla Camera la
presentazione dei documenti. Questo era il medesimo gabinetto che
dicevasi impastoiato nella repressione dell'insurrezione napolitana,
pel suo rispetta di legalità e di garanzie costituzionali! È pur vero
che senza contare il numero dei detenuti nelle prigioni militari, (che
sono i ingombre), i medesimi pelle prigioni civili sono ascesi talvolta
alla cifra di trentamila e più» cosa che non mai si è verificato nel
passato, benché si volessero numerare riuniti tutti i prigionieri
ordinar! e politici nel corso di un lustro. Nel Budget del volgente
anno si è domandato un aumento di fondi per le prigioni, perché la
cifra dei prigionieri in tutta Italia è già montata a trentaduemila e
ventitré. Ma un depotato del parlamento Italiano, prendendo come media
proporzionale la metà di duemila e quattrocento prigionieri di Salerno,
ha elevato il numero dei detenuti per le sole provincie meridionali a
ventitremila (1) La lentezza dei giudizi vi deve contribuire ancora,
perché nella sola provincia di Salerno nel 1862 sopra mille ed
ottocento prevenuti, non se ne giudicarono che solo cento. A proposito
di ciò un generale piemontese pubblicò una sua lettera nei giornali,
con la quale confessava che le prigioni della provincia di Basilicata
rigurgitavano di detenuti, di cui la giustizia stessa non sapeva che
fare; la loro iscrizione sul registro dei carcerati, non essendo
accompagnato da alcun processo verbale, constatano il motivo dei loro
arresti.
(1)Dalle relazioni date dai giornali si
apprende: che la cifra dei prigionieri politici e sospetti è giunta
fino a SESSANTA MILA oltre i carcerati per delitti comuni, esclusi pure
i settemila che finora sono stati inviati al domicilio coatto. Di
questi ultimi infelici si è fatta offerta ai proprietari di fondi,
potersene giovare pari ai schiavi. Ohi quanta differenza tra gli
esiliati Polacchi e gli esiliati Napolitani...!
150
E
quali guarentigie trovano gli accusati nei magistrati, nel giuri? Niun
prigioniera accusato di reato politico può aspettarsi da loro un
giudizio imparziale. I vincitori non debbono mai essere chiamati a
pronunziare sulla sorte dei vinti, e con più forte e miglior ragione da
coloro, che non hanno presa parte alla lotta. I magistrati di oggi
giorno, sortiti dall'urna dittatoriale o da quella ministeriale di
Torino, non appena si assidono allo stallo, già pronunziano sulla sorte
degli accusati.1 giurì non fanno altro che tener fissi gli occhi sul
presidente; il presidente è il Giove che, con un segno di testa, tutto
anima e muove. (2) La redazione delle liste dei giurì è non poche volte
controllata dalle autorità amministrative, le quali senza pudore si
avvalgono di tutti i vantaggi, che te lettera della legge assegna al
governo. La lista dei giuri è formata in ciascun anno da Sindaci
nominati dal governo; ma i prefetti hanno facoltà di diminuirla o
aumentarla all'epoca della sessione, una commissione amministrativa
prende da questa lista un nome di ciascuna serie di Quattrocento
iscritti; il prefetto ed il consiglio provinciale, percontando questa
nuova lista, possono, perché ne hanno il dritto, cancellare un quarto
di tali nomi. Dopo ciò fatto, dei rimanenti nomi se ne tirano a sorte
trenta, fra i quali il pubblico ministero può rifiutarne otto del pari
che l'accusato. Da tutte queste radiazioni certamente non può
risultarne che un giuri ubbidiente, zete, e per nulla attaccato ai
scrupoli nei politici processi. In generale, i giuri sono uomini del
partito, scelti arbitrariamente dai prefetti, servi del potere per
vantaggiare la propria fortuna. Persuasi che essi nuovamente dovranno
riconfondersi con la folla, non li vince né il pudore né
responsabilità, e perciò senza scrupolo sieguono la direzione dei
magistrati e le ispirazioni del partito, e si affrettano,
(2)Il Presidente nelle cause politiche è quello che distrugge, edifica, muta il quadro in tondo e questo in quello.
151
o
per passione politica o per egoistico timore» giustificare tutte le
oppressioni del potere. Intanto non ci è scampo; innanzi a questi
giurì, passati al crivello di molte radiazioni amministrative debbono
essere trascinati gli accusati politici, sulla cui sorte pronunziano
con un si o con un no, senza essere obbligati di giustificare le loro
decisioni. Le assise in provincia, talvolta hanno giudicato cinquanta
ed anche cento accusati insieme, ed il giurì ha dovuto rispondere a
settemila e cinquecento quistioni in una sola causa! E quanti falsi
testimoni non compariscono innanzi a questo giuri per ottenere il
perdono o il favore del potere! Quanti altri lamentevoli fatti non
avrebbe registrato il vostro Beranger, se fosse venuto a cognizione de'
verdetti del ghiri napolitano!
I condannati non ottengono che le universali condoglianze, più e segreto omaggio, che solo alla virtù ed alla disgrazia si render ma i giudizi restano sempre qual sono: la passione senza la verità e la forza senza dovere. Il magistrato, che ha condannato il Conte de Christen alle galere, può arrogarsi il titolo di coscienzioso? Il Cavalier Gabriele Quattromani, cieco e più che sessantenne, aveva affidate alla Principessa Sciarra, partendo per Roma, lettere sigillate, due delle quali, in cifre, esprimevano voti e speranze che non si potevano qualificare colpevoli, se non con molta buona volontà. Il vegliardo, trascinato innanzi le assise, confessò aver rimesse le lettere, ma negava le due criminose, che gli era impossibile, cieco, d averle vedute mettere nella stesso pacchetto. Or la Principessa fu lasciata libera, e l'illustre letterato fu condannato a dieci anni di reclusione. Ah! se un'antica Corte criminale avesse discusso questo giudizio!
Ma innanzi al giurì, che pronuncia sul suo onore e sulla sua coscienza, talenti oratori, logica e passione, non valgono a nulla. La vostra maschia ragione, Signore, la sublimità del vostro sapere, l'estro inesauribile, ed il prestigio della vostra eloquenza incaglierebbero
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innanzi a
simili magistrati; voi non potreste neppur dirgli: batti, ma ascolta.
Forse è più giusto di attaccarsi ai tempi, che agli uomini:
l'abbassamento dei caratteri siegue sempre a appresso ai torbidi
civili.
Al cospetto di una tale giustizia, vengono trascinati qualche volta accusati, che dominando i propri giudizi coll'altezza della loro dignità, riggettano ogni mezzo di difesa, come indegna della loro posizione d'oppresso; essi si lasciano accusare di cospirazione, convincere, e condannare su motivi cosi frivoli, che lo spirito del partito, e lo spirito di cavillo né hanno spesso arrossito. La maggior parte di questi sono martiri ignoti, che non pensano punto a farsi merito del loro attaccamento. Essi sanno che, quantunque il giurì rendesse loro un verdetto di non colpabilità, pure non sortirebbero dalla prigione. Non si è abrogato, quanto io mi sappia, l'ordinanza del Sig. Conforti, altre volte ministro di Garibaldi, ed ora presidente della Corte di cassazione, che prescrisse ai governatori di provincia di ritenere sotto chiavistello tutti coloro che i magistrati dichiarassero innocenti, dovendosi attendere per sortire, il beneplacito della polizia. In Inghilterra, in Francia, nel Belgio, ed in tutto, il mondo l'artigiano più infelice, lo stesso contadino che è attaccato al suo aratro, gode sotto l'egida delta legge una piena libertà; inviato alle assise, è sicuro di comparirvi in tre mesi, e di riacquistare immediatamente la sua libertà, se si perde. A Napoli sotto il governo italiano, uomini distinti per nome, fortuna, sapere, e per le funzioni pubbliche che hanno esercitate, sono strappati dal loro domicilio e mandati o in esilio o tant'osto gittati in prigione; e se per avventura, la loro innocenza venisse dai magistrati proclamata, pur nondimeno, vengono lasciati a marcire indefinitamente nelle carceri. Il popolo ha sentimento profondo della giustizia; egli la sente viva e luminosa nella sua coscienza, questa giustizia assolve come lo stesso Iddio; il governo moralizzatore, lui solo, non la crede necessaria per la civile società.
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Egli non fa che
sostituire la giustizia privata alla pubblica, e niun atto di clemenza
sino ad ora si è verificato!(1) Ah!... che io son compreso di
meraviglia per quell'antico barbarismo che il governo di Torino ha
voluto far scomparire!
Aliano, li 18 Settembre 1863.
(1)Durante
quattro anni di governo Piemontese in Napoli, non si è veduto un uomo
aggraziato, e se si è emanato quache indulto, è stato atto da burla,
perché chi oggi veniva liberato, domani era di bel nuovo incarcerato.
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Signore
Non
è permesso ad alcun paese di separare completamente i suoi destini
letterati da suoi destini politici. Le barbare vicende che il regno di
Napoli ha subite, durante più di un mezzo secolo, vi hanno sempre messo
il pensiero ad una seria e solenne prova. Al principio di questo
secolo, l'occhio meno esercitato avrebbe potuto vedere, che il genio e
la scienza non erano sopravvissuti allo stato di cose, onde avevano
ricevuto cominciamento. I grandi uomini, il cui talento aveva sparso
tanto splendore sul regno di Napoli al XVIII secolo, e che si erano
prodotti nei giorni fortunati, non avevano lasciati successori.
Nondimeno sotto la conquista francese, si potavano ancora vedere i
grandiosi avanzi, le splendide reliquie, e le magnifiche ruine, come
muri anneriti di un edificio, dalle fiamme consumato. Poco dopo, gli
uomini più versati nelle scienze nelle lettere si proposero di rialzare
ciò che la tempesta aveva abbattuto. La letteratura, nata da questo
tentativo, e che, nel principio aveva mostrato più spirito ed abilità,
che dignità e patriottismo, mise bentosto al disopra del potere la
sovranità dell'indipendenza, della giustizia e della ragione: se aveva
perduto in solidità, aveva guadagnato in estensione ed in superficie.
Sotto la restaurazione questa letteratura mirò a creare l'aristocrazia
dell'intelligenza. Le anime si ritemprarono al ritorno verso le idee
severe di nazionalità, di monarchia, e di morale che si operò in tutte
parti. Alla vista allora di tanta unione negli spiriti e di felicità
nelle circostanze, tutto sembrava facile! Era un nuovo ristauro d'un
tempio antico.
La rivoluzione del 1820 provocò un eccesso di attività intellettuale, e l'apparizione di una quantità
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di
scritti incendiari, ma a poco a poco il movimento intellettuale riprese
il suo andamento interrotto, e lo spirito di restaurazione rinacque. Il
governo vi contribui di molto colla riorganizzazione de' licei, e con
autorizzare la società di scienze, di medicina di dritto e di
agricoltura, creando centri d'istruzione e di civiltà nelle provincie,
scuole per l'istruzione della infanzia e collegi per iniziare
l'adolescenza alla letteratura. Vi era l'Università per ammaestrare
negli studi superiori e la Accademia reale per rimunerare le fatiche.
Vi fu nel 1830, un ritorno manifesto a tutte le ispirazioni generose,
ed a più riprese si fecero nobili sforzi in tutti i rami del sapere,
nelle scienze fisiche e morali, nella storia, nella giurisprudenza,
nell'economia politica e nelle: scienze morali. Questo movimento per le
circostanze favorevoli, si estese di poi con una moderazione da far
presagire certo la sua durata.
Ma gli ultimi rigagnoli di queste sorgenti sì vive e sì abbondanti non si vanno ancor essi a perder nella sabbia? L'attività intellettuale che ha sopravvissuta nel regno, con molte eccezioni, resiste a tutte le rivalità, sfidati i rapimenti passaggieri della gloria militare e le perturbazioni civili, potrà essa sopravviene alla rovina della monarchia ed alla perdita della indipendenza nazionale?
Gli è proprio nella natura stessa di una rivoluzione di attraversare i progressi dei lumi; le crisi politiche sono alle lettere ed alle scienze ciò che l'uragano è all'atmosfera. La sola pace, può sviluppare la somma della intelligenza di un popolo, perché la letteratura subisce sempre l'influenza delle passioni, delle azioni, dei piaceri e dei dolori di coloro che la coltivano. Quei che pensano essere i tempi di commozioni politiche produttori di opere eminenti ed originali, confondono le lettere e le arti col genio, che si apre un sentiero attraverso tutti gli ostacoli di un'epoca.
Dante, sperimentato dalla persecuzione l'esilio
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e
la povertà, Milton, provato dalle sofferenze, pericolo e cecità, ebbero
campo a meditare canti sublimi e santi, in mezzo all'effervescenze
politiche dell'epoca loro, come l'avrebbero fotta nei tempi
perfettamente pacifici. Ma il pensiero, che teme il rumore delle armi
ed il conflitto delle lotte civili, noli spiega le sue ali in mezzo
alla scuotimento della società» Quale 'Splendore hanno avuto, dorante
te rivoluzione, le letterature inglese e francese? In tempo di crisi
sociale, gli scrittori non pensano a reclamare dal pubblico una
attenzione assorbita tutta intiera dagli avvedimenti, e che senza
fallo, sarebbe a loro negato. Una generazione che subi una rivoluzione
è quasi sempre insensibile alla storia delle lettere. In Inghilterra,
per esempio, il regno di Carlo II fu sterile, ed i belli modelli non si
produssero, che sotto la regina Anna. Passata la rivoluzione,
ristabilita la calma, la speranza rinasce, e gli spiriti possono far
ritorno ai loro antichi lavori ed alle pacifiche preoccupazioni del
passato, ad in tal modo la Francia ha veduta fiorire la letteratura
sotto la restaurazione.
La letteratura, quasi sempre responsabile delle commozioni sociali, travaglia al momento della restaurazione per modificare le idee e purificare i sentimenti; la ragione e la scienza riparano allora i danni, a cui hanno contribuito. Là maggior parte degli scrittori debbono far dimenticare gli eccessi ne' quali si son precipitati per attraenza, perché essi allora sono quei che comandano la riserva alla filosofia, alla storia, all'economia politica, e sopratutto alle opere d'immaginazione. Ma quando una perturbazione sociale indebolisce il sentimento morale di un popolo sotto il colpo di una trasformazione profonda, quando un popolo perde la sua individualità, le lettere non possono divenire, che un'arte liberale, come ai tempi d'Augusto.
Esse rimangono estranee agli interessi della politica e dello Stato. I sapienti saranno necessariamente relegati lungi dagl'interessi attivi della vita, e non avranno più
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la passione del bene
pubblico per la speranza di contribuirvi. La letteratura sarà allora
come quella dell'Irlanda e della Polonia; e quest'ultima non ha vissuta
quasi pel giro d'un secolo, che straniera sulla terra. Essa conterà
autorità brillanti, ma non avrà più ispirazioni all'avvenire, perché
non si potrà più dare impulso alla rigenerazione del paese. Non si
esporrà più per meritare la pubblica stima, perché il favore pubblico
non sarà più là per incoraggiare tali sforzi e né si penserà da
vantaggio alla gloria del passato. Lo spirito nazionale è in rapporto
diretto con la vivacità delle memorie nazionali.
Distrutte le istituzioni civili, la civiltà che in tal modo è un prodotto del suolo, deve d'altronde arrestarsi. L'indipendenza del pensiero, una volta compromesso, l’armonia della letteratura, coi sentimenti del popolo, sarà rotto; e la letteratura non si potrà più confondere come nel secolo XVI, colla civiltà, come del pari non si potrà render popolare tra le classi inferiori. Questo appunto è quello che di già si è verificato nelle Due Sicilie.
Ognuno portava speranza che il governo italiano, atteggiatosi a riformatore, facesse possibili sforzi per ricondurre le istituzioni napolitane al loro pristino splendore ed incoraggiasse il movimento intellettuale, ma... s'ingannarono, perché troppo diffidi cosa era indagare i disegni del piemontese assorbimento; sicché avvenne che tanto gli uomini di lettere, quanto quegli di politica, si trovarono in una falsa situazione. Il loro bizzarro concerto di lodi esaltate, e di critiche amare, s'intese ben tosto, ed in una parte dell'Italia adulatrice più che la Grecia, si fé sentire più forte. Ma l'incenso che essi prodigavano al nuovo governo, e le maldicenze con cui aggravavano il caduto potere, non doveano salvarli.
La politica dei prudenti, dopo Augusto fino ai nostri giorni, è stata sempre di contraffare gli atti di vigore sotto le forme popolari; la politica del Piemonte è stata tutta al contrario.
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Si
disse che per accattivarsi le volontà, era necessario distruggere, e
nel metter mano all'opera non fé uso della prudenza di legislatore, ma
operò colla fretta di un potere, che è convinto della sua caduta, e
colla, irriflessione e crudeltà del settario; e senza tener conto delle
esigenze del passato, de fatti e delle resistenze, giudicò tutto un
passato con una inconcepibile fatuità, senza perdonare ad alcuna cosa.
Si diè principio all'opera vandalica col supprimere l'Accademia reale
di Napoli, alla quale i migliori i scrittori di Europa andavano superbi
appartenere; e di essa faceva parte ancora quella Accademia Ercolana,
che aveva saputo, colla sua immensa erudiziene, forzare l'antichità a
rivelarci tutti i suoi secreti sepolti gotto la cenere e la lava. Si è
dispersa eziandio l'Università di Napoli, fondata da Federico II di
Svevia, in un epoca d'ignoranza; vi si è tolta quella di Teologia,
bruscamente destituendosi molti professori. Uomini insigni per sapere
vennero sostituiti da altri, il cui merito consisteva in essere stati
cospiratori o esiliati, ed a questi si concessero più cattedre, onde
aumentar loro maggiori proventi. Molti, nel tempo stesso, sono deputati
al parlamento e professori! La gioventù ha mosso reclami, e perciò si e
anche sollevata contro simile stato cose, come si è visto a Palermo,
ma... indarno! Le università sono pressoché deserte dai professori, e
profanate dagli studenti; cosi quella di Napoli, che contava nel 1861 e
nel 1862, 9,395 studenti, non ha liberate nel 1863 che tre iscrizioni,
benché la legge permette di presentarsi agli esami senza precedenti
iscrizioni.
Poco dopo si abolì l'istituto di Belle Arti sul semplice ordine di un proconsole piemontese. Si nominò per nuovo Direttore del Museo delle Belle Arti, un patrizio che fece fratturare i modelli dei famosi cavalli di Canova, perché rappresentavano due Re della Casa dei Borboni! Invece di uno di quei anacoreti dell'erudizione presa nell'accademia d'Ercolano, si nominò Direttore dei
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musei
nazionali il romanziere Alessandro Dumas, il quale essendosi stabilito
in un palazzo reale, si trattava da principe, avente un seguito ed una
muta, e ritenne pure l'impegno, della direzione degli scavi pompejani e
della pubblicazione di un'opera di archeologia! Noi essendo stati
testimoni della distruzione dell'accademia, non andrà a luogo, e
vedremo deserti e spogliati questi questi musei, ove il mondo intero
veniva ad ammirare gli avanzi della civiltà antica. I Napolitani
situati nel mezzo dei sepolti tesori della greca e romana
civilizzazione hanno sempre studiata l'antichità con trasporto ed in
particolarmente i monumenti di Pompei e d'Ercolano. Quanto più il
nostro suolo si è scavato, tanto maggiore si sono disotterrati capi
d'opera; il governo dei Borboni non aveva cessato mai d'incoraggiare
queste ricerche, e Napoli fin dal XVIII secolo, era un focolare di lumi
archeologici pel resto d'Europa. Nei nostri giorni Pompei si risente
dell'annessione e della conquista. Un consigliere della Luogotenenza
piemontese vi ha rubato partendo, delle statuette di bronzo, ed il
governo vi ha fatto distaccare un'ammiranda pittura per trasportarla a
Torino. Una statua, scoverta a Pesto si è diretta per la strada del
Nord} una quantità di oggetti preziosi sono stati offerti ad alti
personaggi, e spesso anche senza il consenso del governo. Un
personaggio straniero si è appropriate le antichità trovate negli scavi
eseguiti a Cuma; per suo ordine; un altro straniero ancora presosi in
fitto i terreni vicini alta strada di ferro, vi ha fatto scavare per
suo proprio conto. Il governo, che permette queste profanazioni, chiude
anche gli occhi su certe ciarlatanerie per lo meno molto singolari.
Cosi, ultimamente, si è levato rumore per la scoverta di una tazza di
oro considerevolissima; poi, è stato d'uopo confessare che questo
lavorio era stato organizzato da un direttore ambizioso di concerto con
un artista. Se il popolo non faceva fracasso, le porte di bronzo del
Castello nuovo, che sono un capo d opera del XI secolo
160
sarebbero
state condannate al domicilio coatto a Torino. È vero che ricordare il
passato è cosa inutile; ma l'avvenire almeno, quale sarà? Tutte le
illusioni a questo riguardo se ne sono andate in fumo, poiché il
Piemonte ha ripreso il sistema della conquista spagnola. Si è
disorganizzato il Collegio militare, fondazione di Ferdinando IV.
trasformazione nel 1811 in scuota politecnica, in dove la gioventù
veniva da tutte le parti dell'Italia a studiare l’arte militare; la
scuola militare di Maddaloni è stata disciolta, il collegio civile, che
vi era stabilito da più di un mezzo secolo, è stato abbandonato. Nel
1862, vi erano quindici professori e due alunni, perché i genitori
amano meglio vedere i loro figliuoli in preda all'ignoranza anziché in
preda dei vizi. Torino, è vero, che mandò un giorno a Napoli il sig.
Lavia come ispettore degli studi, ma questi invece di riorganizzare i
collegi si diè frettolosa premura di loro imporre... le sue istituzioni
ed i suoi libri. I collegi, che si tenevano dagli ordini religiosi,
scomparvero ad un tratto con tutti questi ordini. Un simile destino,
tra gli altri, è pesato sul collegio e sulle scuole de' Gesuiti, ove si
conservavano le belle tradizioni della classica educazione. Il governo
non ha serbato rispettoso riguardo neppure al collegio di marina,
antica istituzione di Carlo III, semenzaio di distinti officiali, che
con onore hanno combattuto a fianco degli Spagnoli, dei Francesi e
degl'Inglesi. La scuola de’ Ponti e Strade, stabilimento scientifico
che non ha mai avuto l'eguale in Italia, è minacciato; si sono di già
sospesi, dopo tre anni, gli esami di ammissione. Molti istituti
privati, (che non eran di ristretto numero) hanno dovuto chiudere le
loro porte, l'emigrazione delle famiglie doviziose ed i torbidi
continui della città hanno loro recato un colpo fatale. L'istruzione
privata, (in cui il governo non avea in altri tempi alcuna ingerenza),
oggidì si è resa impossibile.
La licenza non tarderà a produrre uno degli effetti ordinarii la degradazione morale delle donne.
161
All'epoca
in cui tutti gl'interessi sociali ricevevano una protezione egualmente
illuminata e feconda, l'educazione delle donne a Napoli, era in
particolare e con ogni accuratezza coltivala, e forse, tenendo conto
delle proporzioni, più di quella degli uomini. Molti Napolitani si
distinsero nelle lettere, e segnalatamente odia poesia, a cui le donne
hanno sempre serbata simpatia. La loro vita si passava nell'esercizio
dei loro seri doveri di famiglia, e nei piaceri letterali senza invidia
e senza vanità. Che è divenuta, poi, quella educazione delle donne,
così essenziale a tutta la società? I due reali convitti delle zitelle
della nobiltà e della cittadinanza hanno ricevuto un colpo terribile il
giorno, nel quale i gendarmi son venuti ad espellerne le istitutrici,
perché le educande avevano rotto un busto del re Vittorio Emmanuele!
Molte ne sono state discacciate, e non poche richiamate dai loro
genitori. Gli altri istituti di donzelle sono quasi tutti chiusi, o
abbandonati. Le scuole primarie e secondarie non hanno potuto
sostenersi per mancanza di fondi, e voi non ne troverete una in tutti i
Comuni del regno. L'asilo d'infanzia, e lo stabilimento degli Orfanelli
del colera, che si sostenevano con sovvenzioni della nobiltà, non più
esistono. La rivoluzione che ha promesso, con tanto strepito, un gran
numero di cose nuove, non ancora ha dato principio al lavoro, ma solo è
alacremente occupata a distruggere. Ed in tal modo il governo di
Torino, sotto aspetto di fare rinverdire l'albero, lo carezza con la
scure alle radici. Che si direbbe in Francia, di un governo, che
abolisse l'Istituto, la Scuola politecnica, la Scuola di Saint Cyr,
senza rimpiazzarle? Che si direbbe in Inghilterra, se si vedessero
serrate le Università di Oxford e di Cambridge per popolare quella di
Dublino? Ebbene, tutti gli stabilimenti letterari del Regno di Napoli
sono stati sacrificati al Piemonte, che è la Beozia italiana. Che
avverrà quando il tempo delle vendette politiche sarà passato, quando,
invece di demolire, si penserà (se mai vi si pensa!) a ricostruire? Se
gli è vero ohe si operano,
162
in seno della società, cambiamenti graduali e quasi impercettibili, che affettano la felicità di un paese in una maniera molto più potente, che le rivoluzioni politiche che si deve aspettare d% questa demolizione, che ha percosso precipitosamente e temerariamente tutti gl'interessi del presente e dell'avvenire?
Cosi, vedete i risultati! Dopo tre anni non vi è più letteratura nel Regno di Napoli, neanche quella che ha l'umiliante pretenzione di sostenere il nuovo governo. Se il cielo avesse continuato a proteggere i progressi dello spirito umano in tutte le sue direzioni, e non avesse accecato gli uomini, le opinioni riformatrici senza violenza, moderate senza arbitrio, libere senza licenza, avrebbero fondato e lasciato alla posterità un opera solida e luminosa: in vece di questo, la rivoluzione e la conquista hanno coverto il suolo di ruine. In tre anni non si sono pubblicati, in Napoli, che operette la più parte senza importanza, miserabile indizio dell'effervescenza degli spiriti, opere di follicurari, che non sanno nulla perdonare alta disgrazia, pungente polemiche, che non rendono appassionati né anche i con temporanei! Si direbbe che l'intelligenza in preda a grande tempeste, ed in mezzo a tante e sì rapide vicende, ha perduto tutta la sua chiarezza, e si tiene in disparte per fuggire alle influenze del tempo ed agli strazi delle idee dominanti. Non opere serie, non opere d'immaginazione, né anche d'inni a lode dei nuovi dominatori! La sorgente dell'invenzione nelle arti, sembra disseccata, come se gli artisti avessero rotto il loro scalpello, la loro paletta e le muse la loro lira incantatrice. Non poteva essere altrimenti, poiché non vi è Corte. per proteggere le Belle Arti e per fecondare il talento, come per lo passato! In tre anni, non si è vista sbucciare in Napoli (né anche in Italia), alcun opera degna delle corone della fama. Tutta una pleiade di artisti si è eclissata, come per incantesimo, dopo l'emigrazione dei patrizi, che lo accoglievano nelle loro sale, e della Corte che fecondava le sue ispirazioni.
Roma il di 15 Giugno 1862.
163
Signore,
Egli
è impossibile di non conoscere 1 influenza della letteratura su gli
spiriti. Ora, si opera, nel regno di Napoli uno scompiglio totale
d'idee morali $ vi è di già tutta una rivoluzione perfetta nelle anime.
La letteratura, quando non è la salvaguardia dei costumi da cui è
inspirata, non può essere che cattiva. Perché i costumi riproducendosi
ovunque nelle lettere, la letteratura non attinge le sue bellezze
durevoli che nella morale la più delicata.. Tanti avvenimenti compiuti
in poco tempo per opera della forza, tanti sentimenti generosi divenuti
oggetti del ridicolo e del disprezzo, tanti delitti assoluti dal
successo non possono non corromperla ed indebolirla. Essa aspira dopo
tre anni, a divenir popolare e licenziosa.
Se forse i tempi di politiche conflagrazioni sono favorevoli allo storico ed al filosofo osservatore, non lo sono, a mio avviso, agli autori drammatici. 'Il teatro si lega a tutti gli avvenimenti che costituiscono la vi la sociale e gli scrittori hanno sempre proclamato che il teatro è un mezzo d influenzare su i costumi. I democratici in ogni tempo invitarono il popolo alle sceniche rappresentazioni, il secolo XVIII si cattivò le classi inferiori col teatro, e nel principio del secolo si davano spettacoli gratuiti, per lo che il volgo di Napoli andava a divenire quello dei Cesari, ma più tardi questo mezzodì popolarità s'interdisse. Il popolo napolitano ha sempre amato il teatro fino alla follia, ma in Napoli, sotto un ciclo ridente che copre gli oggetti di una splendida chiarezza, ove l'aria della sera è imbalsamata di profumi, ove tutto è armonia, il teatro ha bisogno di colori brillanti, naturali, graziosi e di eleganti produzioni.
Il dramma sente la necessità di rimanere intimamente unito alla religione; il teatro non ha il favor del popolo, se non riproduce la di lui fede.
164
Ora
gl'invasori, che si annunziarono come venuti per moralizzare i
Napolitani, incoraggiarono fin dal principio lo scandaloso
libertinaggio de' teatri. Coloro che sagrificavano la coscienza alla
devozione del potere, fecero rappresentare drammi pieni di allusioni
politiche di cui il pubblico rivoluzionario conosceva il segreto, ed i
ritratti, che nel riconoscerli, si faceva una gioja puerile. La
demagogia chiamando sempre il popolo alle rappresentazioni sceniche,
dette drammi vivaci, il cui merito non consisteva che in una scandalosa
immoralità. Gli attori corrompevano gli spettatori, e questi, a quelli.
Subito dopo, il fanatismo e l'incredulità insegnarono al popolo non
essere altro la religione che un'infermità dell'anima. Il cattólicismo
venne assalito da tutti i calcagni rossi della drammaturgia
rivoluzionaria da' cinici sarcasmi, di cui Diderot stesso, per
disprezzo e per disgusto avrebbe riso. Erano i Cardinali, era il Papa,
erano i Martiri ed i Santi, che si trascinavano sul palcoscenico. Il
merito di cosiffatte produzioni non è d'ordinario che nella malignità,
ma serviva a diffondere il materialismo nei ranghi del popolo ed a fare
la guerra a Roma. Non si lasciò il popolaccio di Londra bruciare
l'effigie del Papa? Perché mai, il popolaccio d'Italia restare al di
sotto dell'Inglese?
Intanto, la licenza di queste rappresentazioni potendo allontanare dal teatro la gente onesta, il governo per mise spacciare nelle strade e nei luoghi pubblici, libri osceni ed i più luridi. Il genere drammatico creato per una società, ove la massa degl'individui non penetra, perde tutti i giorni la sua influenza e la sua popolarità colla diffusione dei lumi, e cosi la stampa viene in soccorso dei drammi osceni ed irreligiosi. I gridatori divendendo pubblicamente abbominevoli libelli si videro esposti alla mostra dei magazzini, intagli ributtanti ed ignobili; ed in tal modo su tutto ci è che è degno di rispetto, si è sparso di ridicolo, non risparmiando neppure Io stesso infortunio.
165
Vi
è sempre della nobiltà per un governo, a non lasciare insultare un
avversario cadute; ma questo governo, nato da una invasione, la cui
rapidità ha sembrata avere del prodigioso, è cosi spietata quando
infierisce contro ogni disgusto dei passato, che lascia dopo tre anni,
stampare e circolare tali disonori. Si era promesso con tutta pompa di
rialzare la condizione morale ed intellettuale del popolo napolitano,
ma in luogo di questo si son corrotti costumi pubblici e privati, e si
è posto un ostacolo al progresso dei lumi.
L'Europa quasi al tutto ignora ciò che in Napoli accade, perché la stampa e la privata telegrafia si son fatte complici, da gran tempo, alla cospirazione piemontese e siccome altra volta falsificarono l’opinione europea sulla vera situazione del regno, ore pure hanno adottata la complicità del silenzio. L'unità e la grandezza dell'Italia, la prosperità e la libertà, la libertà del pensiero e della stampa sopratutto, sono state decantate come benefici inapprezzabili che dovevano risarcire le Due Sicilie dalle spogliazioni, dalle rovine e dal sangue versato; nel mentre che la libertà non si è concessa, se non per assicurare il trionfo e il dispotismo di una sola opinione, e ciò non poteva essere altrimenti, perché quegli stessi che hanno proclamata la libertà, hanno costituito l'arbitrio. Intanto, il nuovo potere per farsi prodigare incensi, per fare addobbare di migliori ornamenti il successo, ha fondato giornali, che imbracati di lezzo, non altro hanno fatto che vieppiù aggravare la sorte dei vinti con detti mordaci, mestiere da servo, che secondo il Piemonte, si appella opera di patriottismo!
Al momento stesso, in cui al cuore della nazione si facevan tonti attentati che eran causa di profondo e generale dolore, alcuni spiriti di una tempera più vigorosa non disperarono, se non, di affrancare, almeno di migliorare la sorte del paese.
E come in tutti gli Stati la forza d'impulsione e di resistenza trovasi al centro, nella capitale,
166
così
in questa si fondarono giornali. Stanchi del loro silenzio, e
vergognandosi di vivere nello egoismo, si proposero di limitare la loro
opposizione a compiangere o a difendere. Non è che anche a' nostri
tempi di avvilimento di coscienze e d'ingratitudine politica, non si
trovano qua e là nobili cuori e coraggiosi scrittori, ma temono di
sostenere apertamente la causa del popolo, limitandosi a preparare da
lontano gli spiriti. Il potere attuale non vuol perdonare al talento, e
non rinunzia la sua indipendenza, perché sente un grande bisogno
d'inspirar timore per tollerare in qualche modo la libertà. Esso non
vuole che scrittori corrotti, i quali senza pudore, si mettono sotto la
sua direzione domandano il suo patrocinio, sentono il bisogno di
adulare, di avvilirsi. Non si deve eziandio dimostrare l'orgoglio
dell'oppressione, perché questo sarebbe il cupo mormorio dell'onda, che
annunzia la tempesta. I giornali legittimisti o supposti tali, erano
dunque i soli perricolosi, perché essi soli parlavano al popolo; per la
qual cosa i redattori ed i gerenti si viddero tantosto chiamati innanzi
i magistrati, condannati a multe onerose ed imprigionati; e con tale
modo di operare veniva a dimostrarsi non potere la stampa mettere dito
sulle piaghe del paese.
Intanto il potere non tardò molto ad agire senza riguardo ai simulacri della giustizia; sicché alcuni giornali arbitrariamente si soppressero ed i gerenti, senza alcun mandato di giustizia s'incarcerarono. Vi è dippiù, si scatenarono sulle tipografie orde di scherani, birri, camorristi, e di studenti, che, rompendo i torchi, assalirono i lavoranti, e consegnarono alle fiamme i giornali. Di questa fine finirono in poco tempo ventisette giornali, tra quali, il corriere della Domenica, la Gazzetta del mezzodì, la Stampa meridionale, l'Aurora, l'Araldo cattolico, l'Equatore, il Veridico, il Vesuvio, il Napoli, il Ciabattino, la Croce rossa, la Settimana.
Se i sequestri della giustizia ed i tafferugli organizzati
167
dal
potere rispettarono il Torino, il Macchiavelli, la Tragicommedia, si
spaventarono i redattori, mercé lettere anonime, o facendoli minacciare
nelle strade da qualche bravo. (1) Non occorre dire che le loro
lagnanze sono sempre respinte, e che talvolta avviene loro di dover
pagare un ammenda e di andare in carcere per articoli, di cui
l'ammutinamento ha già fatta giusizia! Credereste voi che il Sig.
Ottavio Topputi, generale comandante della guardia nazionale, ha
scritto al procuratore generale per imporgli di raddoppiar severità
contro i giornali dell'opposizione?
Bisognerebbe un coraggio a tutta prova, ed una perseveranza sopranaturale per continuare a far testa contro i sequestri, le multe, gì' imprigionamenti e le insidie. I tipografi d'altra parte, s' arrogavano il dritto di rifiutare le stampe, se non si assoggettavano lore precedentemente gli articoli! Come mai adunque la stampa poteva mostrare le miserie e l'oppressione del paese se trovavasi in siffatto modo imbrigliata? Se talvolta si ascoltano i soffocati gridi di quel popolo tradito, si va debitore alla stampa repubblicana, la quale dal governo di Torino è rispettata e va adaggio in combatterla, perché vede in essa una franchigia della rivoluzione, e poi, essendo l'unità italiana di genealogia repubblicana vi è sempre una reciproca condiscendenza. Questa maniera di operare, cioè la violenza da una parte e l'indulgenza dall'altra, non è circoscritta, ma è generale per tutta la Penisola, perché si ha molto timore del passato e poca curanza del futuro. La stampa straniera di questi fatti è in generale o malamente istruita o complice, raramente per puro interesse politico.
Nelle rivoluzioni precedenti il regno era stato crudelmente sperimentato, ma non aveva perduto la sua attività intellettuale.
(1)I
giornali conservatori finora suppressi, per volontà del potere sommano
a quaranta tre, e ciò in i della libertà della stampa libera!...
168
Gli
avvenimenti che segnalarono i primi anni di questo secolo, la conquista
che aveva preferito di distruggere in cambio di riformare il rovescio
politico del 1830 dovevano naturalmente reagire è cagionare un profondo
scoraggiamento. Ma ancorché fosse grande la portata di simili
avvenimenti sulla situazione delle lettere, queste non furono attaccate
nei loro principi essenziali. Oggi, dopo la perdita della patria, la
distruzione dell'istituzioni, lo stordimento dello Spirito pubblico,
attendiamoci pure la paralisi e la morte. Il paese non è sprovvisto di
uomini che pensano, osservano e meditano, di uomini che conoscono tutti
i secreti dell'arte di scrivere, ma si sono ritirati dalla scena dopo
l'ultimo rovescio. Un giorno verrà, in cui la stanchezza ed il disgusto
succederanno alla febbre attuale, e vinti e vincitori ne proveranno
egualmente gli effetti. Dopo la distruzione dell'indipendenza; e delle
istituzioni nazionali, la gioventù, che si accorgerà de’ suoi
traviamenti, si troverà sminuzzata dalla rivoluzione colla quale avrà
scherzata. Fosse essa ancora ardente e studiosa, ove troverà un
insegnamento, incoraggiamenti, ed esempi? Qual posto terrà essa nella
famiglia degli scrittori italiani? Questa gioventù, i lavori di cui
sono stati infelicemente interrotti dalla crisi rivoluzionaria, sarà
allontanata per sempre dal teatro, ove essa cominciava a brillare. La
nuova generazione, nata in mezzo allo scoraggiamento profondo e
generale, potrà essa dedicarsi allo studio, ed aspettarne un felice
sviluppo? Non vi sembra essa condannata ad abbassarsi sopra se stessa
con una Spaventevole atonia?
Forse vi sarà ancora una letteratura, ma dessa sarà la letteratura oscura e vile di quello sciame di uomini di lettere che va sempre bordeggiando attorno il potere, ed è al servizio degli avvenimenti per dar ragione a chi è più forte e vince. Si applicherà alle scienze esatte, alla scienza medica, che tendono più dappresso ali utilità generale.
169
Gli
oratori, per vie meglio alleggiare la miseria e difendere l'oppresso,
limeranno i loro discorsi, come gli scultori linciano ì loro marmi. Ma
le scienze morali che esercitano un potente impero su le anime e che
illuminano diriggono, fecondano e conservano la civiltà, saranno
offuscate dal materialismo, che lasciano dietro loro le rivoluzioni. Si
predicherà la teoria dell'interesse, dopo un giorno la chirurgia
pretenderà spiegare le leggi sull'intendimento umano. La letteratura,
se pur n'esiste qualche poco, agirà sulle anime come il galvanismo
agisce sui nervi; essa le irriterà a le darà tormento. L'invasione di
già ha operato, in poco tempo, un cambiamento meraviglioso nei costumi
e nell'abitudini: si è vista l'apoteosi del regicidio, la
glorificazione della rivolta del delitto, e della poesia sul sangue
versato. Se non vi si appresta rimedio, la nuova generazione entrerà in
un mondo più agevole che scrupoloso, e più tendente alla fortuna, che
alla grandezza.
La società avrà rimpiazzata la virtù con le convenienze, la probità con le arguzie dello spirito, la morale con l'egoismo e con un epicureismo svestito purè d'eleganza Non ci sarà più che il solo interesse del piacere, ed in conseguenza della fortuna. Quando I godi meati morali non hanno più attrattive» lo spirito umano, voi lo sapete, o Signore, sente la necessità dei piaceri sensuali.
Albano li 3 Luglio
170
Signore,
Voi
avete visitato, nel 1845, Napoli, questa terra di nostri dispiaceri e
di nostre affezioni, venendo a portarci i germi della libertà
commerciale. Voi avete allora potuto convincervi che queste dottrine
erano state per la prima volta proclamate dagli economisti napolitani.
Voi avete osservato a Napoli lo slancio del lavoro industriale e
commerciale; e se non vi avete trovato uno sviluppo incessante e
razionale di tutte le forze produttrici del paese, lo è stato perché lo
spirito di associazione, che data dal 1833, ha sperimentato il contro
colpo di sventurate ed impreviste circostanze. Ma con tutto questo, non
vi è stato difficile il vedere un governo risoluto a seguire le
tendenze del secolo, ch'è d'associare vieppiù l'attività nazionale ai
bisogni dello Stato, un governo convinto della necessità d'incoraggiare
e sviluppare l'agricoltura, il commercio e l'industria. Voi avete
dovuto constatare il prodigioso accrescimento della potenza produttiva,
il regno essenzialmente agricolo, benché avesse pochi capitali per
impiegare all'industria. Alcune manifatture, rovinate da una
concorrenza tanto più sensibile quanto i nuovi mezzi di comunicazione
che giornalmente si perfezionano; e non potevano malgrado
gl'incoraggiamenti, ottenere la fabbricazione a buon mercato, ch'è una
necessità della civiltà attuale.
Voi avete riconosciuto che, non avendo grandi industrie create al coperto di tariffe protettrici, il governo non era contrario alla libertà del commercio. La parte debole di nostra legislazione era lo spirito pur troppo protezionista delle leggi francesi.
Nulladimeno il governo aveva ridotto poco a poco i dritti di dogana, per mezzi di trattati concepiti in uno spirito pratico, largo e liberale.
171
Voi forse avete rimarcato in noi più esitazione che incitamento, ma le riforme erano presentite e desiderate dal governo, tanto è vero, che da qualunque parte si rivolgevano gli sguardi, era impossibile di non rimaner colpito dagl'immensi progressi che venivano ad essere attuati, come per esempio: il vapore, la telegrafia ed altro. La nostra marina mercantile si era aumentata del decuplo di quella esistente al principio del secolo; e la marina militare, relativamente considerata, era imponente. La popolazione in cinquantanni erasi duplicata, e la ricchezza ed i bisogni degl'individui si erano aumentati in proporzione. Le comodità ed i godimenti erano accresciuti, ed il numero e la violenza delle pubbliche calamità, erano diminuite. Questa era la rivoluzione di cui là si godeva con l'indifferenza, che segue d'ordinario le conquiste compiute. Si facevano sforzi di stabilire un unione intima tra le scienze le arti e l'industria, specialmente in vista della prosperità del commercio. Il segno evidente dell'andamento ascendente del commercio consisteva nel numero dei bastimenti nazionali e nell'attaccamento del prodotto dei dritti di dogana; basta dire che la sala dogana di Napoli introitava fino a 130,000 franchi al giorno, e così questo ramo della rendita pubblica erasi aumentato di circa quattro milioni. Il popolo, con i suoi mezzi propri faceva fruttare le sue economie nella piccola coltura, e nel commercio di dettaglio. Le sole intraprese, potendo dar luogo a grandi società di capitalisti, erano le assicurazioni: cosi che esse eransi rapidamente moltiplicate.
Intanto appena la tempesta, che va rumoreggiando da sessantanni su l'Europa, s'ebbe scatenata sopra Napoli, il commercio più incostante che il vento del mezzogiorno, dispiegò le sue vele verso altri lidi.
Till, more unsteady that the southern gale
Commerce on other shores display'd her sail
Goldsmith non poteva predire con migliore esattezza la sorte del commercio napolitano.
172
Esaminando la situazione economica del Regno verso la fine del 1850, vi si trovano alternati ve di ferma 'speranza, e di scoraggiamelo che dovea produrre la mobilità della situazione politica. Il nostro commercio nel momento che era per rimettersi dal controcolpo della guerra d'Italia, l'agitazione interna, presagio di avvenimenti più seri, novellamente lo compromise. La speculazione non appena intese i primi sintomi della rivoluzione, fu vinta da timore. Gli avvenimenti di Sicilia paralizzarono il commercio con lo straniero, e non tardò a trovarsi molto lungi dalle statistiche del 1850. Il sistema della cassa di sconto non potè rassodare il credito: si preferì l'impiego de’ capitali nei fondi pubblici, perché malgrado un ribasso progressivo, la rendita del 5 per 100 era ancora a 113. I fallimenti erano stati di gran numero. La cifra dell'importazioni ribassava con rapidità maggiore di quella dell'esportazioni.
La crisi poteva aver attaccato la finanza e l'alto commercio; ma le classi inferiori non se ne risentivano ancora nel loro ben' essere. Bentosto i timori non furono che troppo fondati. Le importazioni divennero nulle, e non si costatò altra esportazione che quella del numerario. (1)
La rivoluzione si senti pur essa mossa, e, nel 10 Settembre, Garibaldi prorogò di due mesi le scadenze degli effetti commerciali. Un poco più tardi, il governo di Torino fece ricorso a nuove prorogazioni a vantaggio di coloro che della prima avevano fruiti. I fallimenti si successero, io Napoli, con una spaventevole rapidità e furono causa di grande detrimento ali estero commercio.
(1)Moltissimo qui si
dovrebbe dire; ma è sufficiente ricordare che tutto il numerario del
Tesoro di Napoli (che non era poco) fu condannato all'esilio perpetuo
nelle contrade nordiche d'Italia con tutti i capi lavori delle Belle
Arti: che con tanta cura e dispendio si erano raccolti; ed in compenso
s'inviarono a queste contrade le balie di cui il Piemonte è
abbondantemente fornito.
173
I giornali
inglesi, ci hanno dato il bilancio della diminuzione del commercio
britannico, nei primi anni successivi alla rivoluzione. La Camera dei
Comuni ha valutato l'esportazioni inglesi per l'anno 1861, a 48,116,104
franchi, e per l'anno 1862 a 31,712,064 franchi cifre che dimostrano
una diminuzione di quasi 17 milioni. Si sarebbero dovute mettere in
confronto di queste cifre quelle dell'esportazioni inglesi nel regno
delle Due Sicilie prima della rivoluzione! E quale non dovrà essere nel
1863, la diminuzione su i ferri, sul lino; su gli acciai, su la lana ed
i cotoni! I cambi hanno per necessità dovuto soffrire, è d'uopo
domandarlo al deposito di Malta, al quale lo smercio della Sicilia è,
per cosi dire, chiuso. Napoli non aveva certamente un commercio
paragonabile a quello delle città manifatturiere, ma voi l'avete
trovato prospero: oggi, le transazioni sono divenute quasi mille ed il
movimento del porto insignificante, Voi non avreste che ad entrare nel
primo magazzino che incontrate, per ascoltare i negozianti ed i
fabbricanti lagnarsi amaramente della loro attuale situazione. I vostri
compatriotti, se vogliono esser franchi e sinceri, vi diranno che se
essi hanno fatto. guadagno nel principio della rivoluzione, nel
proseguo hanno molto perduto. I banchieri non veggono più giungere
Inglesi in Napoli, o almeno pochissimi appartenenti all'aristocrazia. I
vostri nazionali non hanno più ministro a Napoli. I negozianti vi
confesseranno che vendono la metà di ciò che vendeano; e vi diranno
pure che i loro corrispondenti non fanno più che spedizioni limitate,
con ordine di ritirare tutto di seguito le mercanzie dalla dogana, di
collocarle al più presto possibile, e di realizzarne il valore. Quanto
non ha perduto il commercio francese alla soppressione della Corte di
Napoli, di un governo Principesco, e di po' alta amministrazione?
Qual risorsa poteva ritrovare il commercio, allorché i bastimenti non erano più ammessi, che alla scalo di
174
Genova,
affinché la percezione dei dritti di dogana si facesse nelle vicinanze
col governo di Torino? I porti di Napoli e di Messina furono
sacrificati a quello di Genova, mentre che si facevano pesare carichi
nuovi sul tesoro napolitano. La dogana di Napoli si tenne un giorno per
fortunatissima, perché incassò 1S,000 franchi. L'abolizione della
franchiggia del porto di Messina cagionò un vero disastro. Giudicate,
se la marina mercantile ha risentito il controcolpo di tutte queste
misure!
Si è rimarcato, che spese prodighe, gravi imposizioni, assurde restrizioni commerciali, ed anche gl'incendi e le inondazioni, non potevano in un nodo cosi rapido, distruggere il capitale di un paese, che gli sforzi privati dei cittadini lo costituiscono. Intanto, la guerra, la rivolta, la persecuzione non possono non incagliare, se non distruggere l'industria. In Napoli, la rivoluzione trascinò violentemente nella rovine una quantità di modeste fortune. Il commercio di valori mobiliari, dopo aver considerabilmente declinato, subi disastrosi tempi di sosta. Il monopolio dei prodotti del Piemonte compromise tutte le piccole industrie del paese. Agitazione si traduce, in economia politica, per diminuzione di lavoro e di prosperità. Succederà in Napoli, ciò che si osserva dovunque in tutte le epoche della rivoluzione. Le sommosse di piazza e le minacce della polizia obbligavano, in ciascun giorno a chiudere con fretta i magazzini. Dove trovare compratori, quando la popolazione ha timore di discendere nelle strade? Le transazioni sono esse possibili, se l'abitante è tutto intento nella conservazione di sua proprietà? L'invasione e la guerra civile interruppero ogni comunicazione con le provincie, ove la capitale faceva diffondere la sua attività per mezzo dei mercati settimanali. Le fabbriche dei drappi di lana di Sora dovettero sospenderne i loro lavori fin dai primi giorni dì Settembre, e dirigersi al Re, allora in Gaeta, per potersi procurare all'estero le materie
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che da esse facevan bisogno. Al principio del secolo, il Regno si copri di contrabbandieri, che neutralizzarono gli effetti funesti del blocco continentale, ed il contrabbando divenne, presso a poco, l'unica risorsa del commercio; ma la pubblica morale ne ricevette duri colpi. Nel 1860, il contrabbando riappari senza che le autorità spiegassero una grande attività per reprimerlo, e non tardò ad esercitarsi su di una vasta scala. Si videro cose inaudite, i soldati cittadini favorire con fraterna carità l'imprese dei contrabbandieri, questi presentarsi ai commercianti onesti e pacifici, e li obbligavano colle loro minacce ad accettare i loro servigi, e la loro cooperazione. La proprietà essendo cosi compromessa del pari che la giustizia, il commercio si trovò tanto radicalmente colpito quanto il dritto.
D'altronde, il consumo notabilmente ne risentiva per la mancanza del credito, per l'assenza della Corte, del corpo diplomatico, e di quasi tutta la nobiltà. La soppressione e la espulsione di molti ordini religiosi, l'appropriazione delle rendite ecclesiastiche, l'abolizione dei ministeri, e di molte amministrazioni, e la destituzione di una moltitudine d'impiegati produssero pel commercio e per l'industria effetti funesti. La circolazione del numerario venendo a cessare il lavoro alla classe innumera degli artisti, mancò tutto ad un tratto.
Per tutto d'altronde, essendovi una plebe, che non ha nulla da perdere, aspira a cangiamenti violenti. Il popolo napolitano però, soddisfatto dei benefici del cielo e del clima, serba sentimenti molto vivi che trasmettono alla sua anima impressioni rapide e chiare, per le quali ei percipisce, predice, ed in un momento conchiude. Il popolo di Masaniello avendo dimenticato i torbidi passati, e non sentendo i stimoli della miseria, non era inquieto. Il suo sogno dorato erano le feste ed i piaceri, perciò non si dava premura di avere un Anfiteatro. Ma questa plebe, come da pertùtto, è sensibile ai beni materiali.
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Le
si era annunciato che Garibaldi andava a fare di Napoli un paradiso
terrestre; che il prezzo del pane ribasserebbe all'arrivo del
dittatore, e che non si pagherebbe più pigione! Queste erano le
promesse ingannatrici dalle quali si ricevette appoggio per applaudire
l’entrata di Garibaldi. Ma la realtà non tardò a subbentrare
all'inganno. I decreti su le sale di asilo, su la cassa di risparmio,
sul ristauro degli alloggi, sull'istallazione di un colleggio per i
figli del popolo non trionfarono di sua indifferenza: si sarebbe
proclamato il dritto al lavoro quando, non se ne sarebbe agitato!
Quanto più le illusioni, con cui i comitati avevan lusingato questo
popolo, erano state grandi, tanto più il disinganno era doloroso.
Sì era fatto entrare in questa via di languore commerciale chi conduceva alla diminuzione forzata del travaglio. Migliaia di operai, di marinai, di domestici, erano stati gittati sul lastrico in meno di un mese. Gli effetti dell'oziosità sulla tranquillità pubblica sono conosciutissimi. La mancanza di credito e di commercio, la guerra ed i torbidi civili fecero bentosto alzare il prezzo dei frumenti e del nane. La classe lavoriera covri i Piemontesi d'imprecazioni, trattandoli da stranieri da stupidi da barbari.
Gli spiriti, allorché il governo decretò la chiusura degli arsenali, e dei cantieri, erano di già molto inaspriti. La flotta fu condotta a Genova, il cantiere di Castellammare soppresso, tutto il personale licenziato. Gli arsenali di terra, ov'erano state depositate tante ricchezze militari; furono saccheggiati senza vergogna e senza riguardo, 250,000 fucili, e tutti i cannoni di bronzo degli arsenali, e delle piazze furono spediti in Piemonte. Dopo la caduta di Gaeta, il saccheggio e la distruzione non conobbero più limiti. I palazzi di Napoli, di Capodimonte, di Portici, di Caserta e della Favorita, ricche di tante magnifiche opere di arte, divennero le spoglie opime di Torino e dei Verri, che venivano in Napoli,
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l'un dopo l'altro ad occuparvi a breve intervallo le funzioni di proconsoli (1)
Ora, intanto, si veggono pavoneggiare sulle sponde della Dora in quelle stesse carrozze di lusso, che servivano, pei tempi passati alle pompe dei Borboni Napoli! Ciò che rimaneva del bottino, in argenteria delle tavole reali, fu venduto all'incanto. I rami di cucina furono portati via, e diretti in Torino. (2) Tutti questi furti avevano luogo in presenza del popolo, il quale non fa neppur dubbio di tutti quelli, che nell'ombra del mistero, sono stati consumati. Ma esso è quello che doveva risentirne gli effetti, poiché migliaia di lavorieri vivevano per questo lusso, e per queste ricchezze. Si congedò l'armata; si liberarono dal timore della disciplina quasi 100,000 uomini, mettendoli nel duro bivio o di rubar o di morir di fame.
(1) Quali
scandali siano avvenuti per lo spoglio della reggia, il traduttore non
intende ricordarli, per non far raccapricciare l'onesto lettore..! Si
limita ad accennare soltanto che il principe dell'Equile, (il quale ha
cominciato dal rubare il suo titolo al Duca di Fragnito), essendo capo
dell'Amministrazione dei Reali Palazzi, venne accusato pubblicamente
dalla stampa di aver trafugato mobili, quadri, ecc. e di averne
adornata la casa di una Signora. Il principe si tenne offeso, ed accusò
di calunnia i rivelatori di questi scandali. Ma il magistrato...
dichiarò l'accusato innocente. Al lettore la conseguenza.
(2)Torino, invasa dallo spirito annessionista non si è limitata solamente ad annettere popoli, tesori e sudori altrui, ma si è creduta nel dritto di annettersi anche i rami di cucina de’ Reali Borboni (cosa, per altro, nuova per essa). La sorte dei rami toccò pure a molti divani e poltrone coverte di rosso serico velluto, esistenti sul ministero di grazia e giustizia. Il lettore da ciò deve persuadersi che, in Napoli, tanto i mobili non che gli uomini sono egualmente in pericolo di essere esiliati...
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Torino inviò tutto a
Napoli, i vestimenti, le calzature dei soldati, la carta, lo spago e la
cera di spagna per le pubbliche amministrazioni, il tutto meno buono; e
più caro che in Napoli. Si mandarono le nuove bilance, e le nuove
misure, i banchi per le scuole, la pietra da costruzione! Si parlava e
si parla tuttora di utili lavori, però la demolizione continua si vede,
ma i lavori di riedificazione non sono ancora cominciati. Questo non è
tutto: perché Torino vorrebbe ben presto strappare al popolo l'ultimo
frusto di pane che poteva guadagnare col sudore di sua fronte. Napoli
si vide inondata di lavorieri di strade ferrate, di facchini di dogane,
di donne per lavorare nelle fabbriche di tabacchi, di spianatori,
fabbricatori delle strade, anche di nutrici per i fanciulli trovati!
Giammai gli avventurieri scozzesi si gettarono sull'Inghiltera con
maggior sollecitudine ed avidità. Il suolo napolitano divenne la
California di tutti questi affamati.
A memoria d'uomo, non si erano mai avuti ammutinamenti d'operai a Napoli; ma non tardarono a verificarsi a Piedi monte, alla Cava, alla strada di ferro, all'arsenale di marina, ove si ebbe effusione di sangue. I cocchieri di carrozze di affitto si sparsero colle armi alla mano nelle strade di Napoli, e di Palermo. Le donne che lavoravano nelle fabbriche dei tabbacchi a Napoli, si ribellarono, dimandando voler essere pagate come le piemontesi. Ma il tumulto più formidabile fu quello dei spazzatosi di strade, essi erano preceduti dai membri di un Comitato di Masaniello! Il governo che si era servito cosi spesso dei lavorieri per eseguire i suoi colpi di mano, si trovò senza forza per reprimere i loro eccessi.
Io prevedeva già, l'anno passato che Napoli, senza ritardo addiverebbe, come Manchester, il teatro di scene sanguinose. Lo stabilimento di Pietrarsa, unico in Italia, e degno di essere paragonato ai migliori del medesimo genere in Europa, aveva costato milioni al governo dei Borboni.
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I
lavorieri dipendevano dal governo, vivevano pacificamente con i loro
lavori ed erano, per cosi dire, considerati come pubblici impiegati. Il
governo di Torino, recentemente diede in fitto tutto questo
stabilimento ad un particolare per una somma annuale non rappresentante
neppure gl'interressi dei capitali. Si voleva imporre una diminuzione
di salario, ed un aumento di fatica ai lavorieri che, inaspriti pel
lungo ristagno dell'industria, pel caro dei viveri e per l'incertezza
dell'avvenire, inviarono una deputazione al nuovo direttore che, per
risposta, ne diede avviso al commandante di Portici. Trecento uomini
arrivarono frettolosi e, senza intimazione, senza altro preambolo, il
commandante ordinò una scarica. I lavorieri sorpresi e spaventati, se
ne fuggirono precipitosamente: essi furono perseguitati a colpi di
fucile, e si tirò ancora su di quelli che si erano gettati nel mare.
Undici morti ed un gran numero di feriti furono il glorioso trofeo di
questa repressione brutale, commessa per sorpresa contro lavorieri
senza difesa. L'enormità stessa del fatto ha ispirata la scusa di una
provocazione, che la stampa intiera ha smentita. Che si sarebbe detto
in Inghilterra se la truppa avesse tirato su i lavorieri di Wolwich, di
Leeds o di Bolton, senza la presenza di un magistrato, e senza intima
preventiva?
Ed in tal modo l'invasione piemontese è stata fatale al nostro commercio. Con la federazione, noi avressimo avuta l'unità militare, una sorte ili Zollverein italiano, l'unità degl'interessi e delle forze... Si è voluta preferire l'unità politica all'unione; non si è compita l'unità e si è resa impossibile l'unione..
Albano li 4 Agosto 1863.
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Al Signor Disraeli, a Londra
Signore,
l'idea
di schizzare il quadro dello stato finanziario del mio paese, unisce al
merito di essere incontestabilmente patriottico, quello d'essere
perfettamente giusto. Non vediamo noi in ciascun giorno, comparire
libelli e stampare discorsi ove la situazione delle Due Sicilie è
sconosciuta? Io oso dunque lusingarmi, che coordinando le mie memorie,
potrei portare per i giudizi una riparazione, almeno appresso voi,
dell'ingiustizia e dell'ingratitudine dell'opinione.
Le finanze d'uno Stato non possono essere apprezzate, che in un punto di vista comparativo, e nessuno meglio di voi; d'altra parte, saprà comprendere, che le finanze abbracciano tutto, toccano tutto, i pesi, le risorse ed i mezzi per sviluppare la ricchezza pubblica, è tutto ciò che costituire la forza d'un paese. Se è vero che l'abilità e la prevegeoza di un governo si provano con lo stato delle sue finanze, fa d'uopo convenire, che il sistema finanziario del regno di Napoli era ben organizzato ed il suo credito solidamente stabilito.
Questo sistema, dopo cento trentaquattro anni è stato sempre di non aggravare i popoli di nuovi balzelli, e d'alleggerire per quanto è possibile le antiche. La stessa conquista francese non gravò di goffe imposizioni quel regno; la restaurazione abolì ben tosto alcune tasse nuove che davano per prodotto 9,951,692 franchi. Gl'interessi del debito pubblico che alla fine del 1819, non eran di 5,680,000 franchi. In seguito della rivoluzione del 1820, lo Stato si vide obbligato di contrattare un prestito di 320 milioni, e le finanze si trovarono aggravate da 20,763,420 franchi d'interessi.
Ma le imposte, a cui si fece ricorso per supplire ai nuovi bisogni, non furono che di 8,280,000 franchi.
Queste furono anche abolite in parte, in maniera da potersi dire, che la sola prosperità nazionale ha portata
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la
rendita pubblica a 64 milioni, cifra del 1815, a 128 milioni, cifra
degli ultimi anni. La produzione in ogni cosa era aumentata e tutti i
generi di consumo erano divenuti più facili. Si poteva valutare a 50
per 100 l'aumento delle raccolte de’ cereali dopo il 1815, ed in tal
modo si erano potuto fornire molto più imposizioni e molto più
imprestiti che nel passato.
La rivoluzione del 1848 costò allo Stato 120 milioni. Il Budget degl'introiti, pel 1848 e 1849 era stato calcolato 223,544,244 franchi; ma in realtà non si ebbero che 176,943,316 franchi. Le spese fissate a 211,033,687 franchi, si alzarono incontro a 239,858,604 franchi. Il disavanzo materiale del tesoro alla fine del 1849 era di 62,915,288 franchi. Le perdite di armi, di munizioni e di materiale non figuravano in questa cifra, ma i Budgets posteriori dovevano risentirsene. Cosi lo stato finanziario del regno alla fine del 1849, era presso a poco lo stesso che nel 1821. Intanto non si ebbe ricorso a nuove tasse, si pareggiò il deficit iin caricare il debito di 5,210,731 franchi d'interesse e per la esazione di antichi crediti della Tesoreria. E qui bisogna rimarcare, che se il regno aumentava gl'interessi del suo debito di 5 milioni, il Piemonte aveva accresciuto il suo, quasi nello stesso tempo, di 58,611,470 franchi.
Si poteva avere nel paese l'opinione, che la politica finanziaria dello Stato non era condotta con un vero spirito d'ordine e di prevegenza, ma è ormai evidente che se vi furono incertezze ed inconseguenze dopo il 1849, non si può mai constatare né inettezza né improbità. Il credito non si era giammai trovato in decadenza. La situazione finanziaria del regno dopo il 1849, era stata sempre favorevole in rapporto del progresso delle entrate, del non aumento delle spese e del rialzamento del corso della Borsa. La rendita napoletana era divenuta dopo quest'epoca, un valore il più ricercato, ed a forza di economia, dopo il 1848 e 1849, l'equilibrio si era quasi ristabilito.
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Tutti i governi hanno
un interesse superiore ad aver cura delle loro finanze, perché tutti i
governi sono interessati a far del bene; niuno di essi fa il male di
suo buon grado e con premeditazione, perché sarebbe lo stesso che
suicidarsi. Ma vi sono alcune straordinarie circostanze, le quali
sconcertano tutte le previsioni e distruggono tutti i calcoli. La
soluzione del problema dell'equilibrio nelle finanze, era stato trovato
nello sviluppo delle forze produttive e della ricchezza latente del
paese. L'accrescimento della popolazione e l'aumento naturale di alcuni
rami della pubblica rendita contestavano un progresso che, per essere
stato lento, non era stato meno reale. Le imposizioni non molestavano
lo slancio della pubblica prosperità; si potevano anche riguardare come
un incoraggiamento alla produzione, poiché in conclusione, lo sviluppo
della ricchezza pubblica non riposa che sul lavoro. La riscossione di
tutti i fondi del tesoro si era sempre eseguita con una regolarità e
facilità, che non lasciavano nulla a desiderare, avendosi tutti i
riguardi per i contribuenti. Malgrado, questo non si poteva
dissimulare, che uno degli accidenti che sfuggono alle previsioni dei
governi più saggi basterebbe per immergere Io Stato in una crisi, forse
irreparabile.
Nel 1859, all'avvenimento di Francesco II. la situazione delle finanze del regno era relativamente prospera. Il Budget del 1859 portava 128,072,426 franchi di rendita, e 126,377,010 franchi di spese, ciò che da un eccedente di 1,695,416 franchi. Intanto questi, elementi di prosperità non potevano svilupparsi, che alla condizione di maneggiare con una buona economica le risorse attuali, e di apportare un momento di sosta alle spese. Il Budget della guerra compromise l'equilibrio. Dopo le spese, i disordini e lo sciupio apportato dalla rivoluzione del 1848, era stato impossibile di procurarsi una eccedenza, che potesse sovvenire ai bisogni imprevisti e straordinari. Due milioni era una troppo debole risorsa.
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Voi
avete con retto giudizio rimarcato ultimamente, che la spesa d'uno
Stato risulta sempre dal suo politico sistema, ma, nel reame di Napoli,
oltre gli imbarazzi del di fuori, si provò nell'interno una carestia,
due epidemie e due terremoti. Le spese straordinarie del 1859
provenivano dal licenziamento della divisione svizzera, dopo la rivolta
dell'otto Luglio, licenziamento che importo quasi che 4 milioni, e
della formazione d'una novella divisione nazionale. Poco dopo, si senti
il bisogno di concentrare un corpo d'osservazione negli Abruzzi, e di
metterlo in piede di guerra (1)
Infine si dovettero spingere con più attività le manifatture d'armi di precisione e di polvere, per provvedere le piazze. Le spese del secondo semestre del 1859 erano state di 142,062,271 franchi, e le riscosse di 120,873,940 franchi, ciò che aveva innalzato l'eccedente delle spese sulle rendite a 21,188,331 franchi. Frattanto, dalle risorse della tesoreria, si era ripieno il vuoto e ristabilito l'equilibrio. Alla fine del 1859, si poteva disporre di 16,666,447 franchi per Tanno seguente, ed aggiungendovi la rendita alienata, si aveva nel portafoglio 24,648,962 franchi. L'esercizio del 1859 fu dunque chiuso in perfetto equilibrio. Si sperava di potere più tardi operare una riforma ed aumentare considerevolmente la rendita pubblica. Le contribuzioni ordinarie, il bollo, il registro e le dogane davano un prodotto molto di più al precedente; e come si erano esattamente calcolate le risorse, giudicate necessario per l'esercizio del 1860, non ci era ragione di stare inquieto.
Non pertanto vi era urgenza di ristabilire il Budget della guerra, perché le spese (quelle almeno che si pagavano dal Budget) ascendevano a 45,808,880 franchi, erano state aumentate di molta per le circostanze impreviste dell'anno.
(1)Questa spedizione, a parer del traduttore, fu più perniciosa che utile; perché diè luogo a spese, ed agevolò il comandante in capo, sig. Pianelli, di concertarsi meglio con Torino, di cui in altro lavoro si parlerà a lungo.
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Con l'ordine, con l'economia
e con l'accrescimento naturale del prodotto dall'imposte, si sperava di
far fronte a tutto. Tutti i governi hanno in un momento di crisi
imprevista, sperimentato imbarazzi finanziari. Le finanze inglesi
conoscono anch'esse i disavanzi, dopo alcuni anni, sebbene non toccano
le porzioni colossali, alle quali sono arrivate quelle degli altri
paesi. In quanto alle spese giustificate per necessità della politica,
la saggezza d'un governo può ricovrirle con serie riduzioni. Ora, il
governo di Napoli n'ebbe il tempo come ne aveva l'intenzione? Esso
aveva, guardando la rendita, belle e legittime speranze, da cui poteva
ricavare un fecondo partito, e non era punto una fiducia ottimista. Il
Budget del 1860 mostrava un disavanzo di 22,953,543 franchi, ma con la
resta di cassa di 24,648,962 franchi, di cui tenni parola, si otteneva
un'eccedenza di 1,695,417 franchi al finir dell'anno. Disgraziatamente,
la situazione cambiavasi ad un tratto.
Nel tempo dell'invasione di Garibaldi e della rivolta di Palermo si trovò costretto a fare spese eccessive per le crociere, per l'invio de’ navigli, delle truppe e delle munizioni da bocche e da guerra; perché le truppe si dovevano alimentare alle spese di Napoli. Il Budget della guerra al cadere del Giugno del 1860, si trovava di già portato a 34,080,148 franchi, ed era un'eccedenza di 8,188,708 franchi nelle spese della guerra. Così, al cominciar del secondo semestre del 1860, il disavanzo che non avrebbe dovuto oltrepassare i 2 milioni e mezzo, oltrepassò 96,175,321 franchi; la pace soltanto avrebbe permesso di contare sul ristabilimento dell'equilibrio.
Non si volle ricorrere alla dispendiosa risorsa degl'imprestiti, e si incaricò la Casa Rothschild di vendere i vaglia di rendita al cinque per cento, che gli si rimettevano secondo il bisogno. La rendita napolitana era stata a 115, quando quella del Piemonte non era che a 85, e nelle occasioni in cui il governo napolitano avesse avuto il bisogno di ricorrere agl'imprestiti,
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gli si erano offerti al prezzo di 90 mentre che il Piemonte non li otteneva che a 80.
Malgrado questo, il corso della Borsa si manteneva tra 108 e 113, al 4 e mezzo per cento. Questa era una condizione molto rara nella storia delle finanze d'Europa La Casa Rothschild non prenderà che sette ottavi per cento. Si fece dunque ricorso all'ipoteca di una parte della rendita ai beni della tesoriera, presi dalla cassa di sconto. Di 1,200,000 franchi di rendita, la metà solamente è stata alienata ai 20 di Giugno. Il resto aggiunto al sopravanzo del 1859, dava il risultato di 28,964,089 franchi. Al primo Luglio, adunque, malgrado la procella rivoluzionaria, ogni speranza non era perduta di ristabilire l'equilibrio generale, tanto più che il secondo semestre dell'anno era quello che rendeva di più, e che copriva ordinariamente. il vuoto del primo. Ma, nel primo Settembre, fu mestieri far l'emissione di un milione e mezzo di rendita, ciò che, calcolato alla pari, dava un valore di 29,740,256 franchi; e tutte queste risorse, nel giorno sei, erano presso che intatte. Ecco perché l'invasore, nella sua entrata in Napoli, trovò ancora un tesoro capace di sovvenire ai bisogni dello Stato ed anche a quelli della guerra.
E pertanto il nuovo governo si lagnava fin dal primo giorno, della mancanza del danaro; e ciò avveniva» perché l'amministrazione era divenuta un prodigio di dilapidazione e di corruzione. Si cominciò dall'impadronirsi dalle residenze reali, delle loro mobiglie, della loro argenteria, degli oggetti d'arte e di lusso, senza rediger ne alcun inventario, (1)
Si assegnarono 6,000 franchi al giorno per le spese
(1)La
voce pubblica in quei di accusava il direttore di polizia sig.
Spaventa, di aver fatto liquefare SEI CENTO PAIA di candelieri di
argento. Ma il traduttore chiede soltanto che è avvenuto di tanti
quadri, di tanti orologi, di tanti candelabri, e sopra tutto della
preziosa armeria del Re, nella quale era specialmente la spada
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della
tavola del dittatore, che intanto viveva con moltissima sobrietà. Ma i
suoi prodittatori, i suoi segretari, i suoi ajutanti di campo erano
abbagliati, e non erano entranti per niente nei palazzi degli Incas
d'Italia (1). Per decreto del dittatore il governo s'impadronì dei
fondi pubblici appartenenti alla famiglia reale, sotto pretesto che
ritornavano allo Stato. Era una spogliazione di fondi che, dopo la
legge fondamentale del dritto pubblico, erano sacri. La rivoluzione,
che nulla rispetta, li aveva sempre e da per tutto rispettati Questi
fondi appartenenti al Re, come dote di sua Madre, formavano ancora la
dote delle Principesse reali. Il valore di questi beni si levava al di
là dei 40 milioni; ma non se ne Confessarono che 24, adducendo la
menzogna, dover essere distribuiti ai patriotti, che avevano sofferto
per la causa della libertà. Nello stesso tempo si sequestrarono i
maggioraschi dei Principi, i beni dell'ordine Costantiniano ed i beni
della Chiesa, sempre però al nome della libertà; e per iscusa si
adduceva la necessità, scusa che si adduce anche nei boschi.
I bisogni e Pavidità, crescendo l'un di più che l’altro non si fermarono là, poiché si soppressero i fondi dei ministeri che il governo si compiacque di chiamare segreti: si alzò il prezzo dell'interesse della Cassa di sconto dal S al 6 per cento anche per i vaglia di. rendita, e pel deposito degli oggetti preziosi alla Banca. Si restituì alla Città la percezione dei dazi di consumo, la qual cosa,
che
impugnava Francesco I a Pavia. La conserva, per avventura, alcuno in
Torino per impugnarla in qualche altra e simile occasione?
(1)Se il chiarissimo autore ha qui paragonati i Re di Napoli agli Incas del Perù, a parer del traduttore, il paragone sembra giustissimo, non solo perché il Re di Napoli furono sempre i più ricchi Principi d'Italia, ma ancora perché quelli che li spogliarono somigliano troppo nella rapacità agli avventurieri del nuovo mondo.
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benché
era una misura popolare, pure in un simile momento questa misura
diminuiva le risorse finanziarie. L'imposta fondiaria non poteva essere
pagata esattamente; le poste per mancanza di comunicazioni, ed il
registro per l'inazione dei tribunali, non rendevano quasi che niente.
Molti milioni di rendita si vendettero con segretezza; ma non valsero a
riempire la voragine, anzi un mese dopo l'arrivo del dittatore non si
sapeva più come far danaro; e si rabbrividiva all'idea di un rovescio
militare ed alla prospettiva di doversi giovare degl'interessi della
rendita in tre mesi.
Ognun comprende, senza dirlo, che il commercio ed il credito erano in decadenza. Il giorno dell'entrata di Garibaldi si era imposto alla Borsa, benché chiusa, un rialzamento di fondi per fare impressione sulla opinione pubblica; ma il domani i fondi pubblici, che sono la positiva espressione dello stato degli spiriti bruscamente ribassarono, e la rendita pubblica che, sotto il governo legittimo era salita a 118, non fece molto aspettare a discendere a 65! Tutte le borse si serravano; i fornitori si ricusavano di provvedere ai bisogni delle truppe, o passavano contratti scandalosi; nessuno intendeva fare sacrificio per sostenere la rivoluzione. Nella previsione della guerra, il dittatore incaricò una commissione di raccogliere sussidi per Roma e Venezia; (1) ma questo appello al patriottismo italiano non trovò alcun eco. Coloro che avrebbero potuto fare dei sacrifizii' non avevano fiducia nella durata dell'opera rivoluzionaria.
Roma, li 18 Luglio 1861
(1)Il
traduttore crede sapere che le poche somme raccolte, come gli venne
riferito da un pentito garibaldino, vennero portale sopra una nave che,
sparita nel giorno appresso, s'ignora tutta via ove quelle somme
fossero andate a cadere.
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Allo stesso Sig. Disraeli
Signore,
Un
governo nell'insieme esercita sempre una certa influenza ed azione su
gli affari finanziari, commerciali ed industriali; ma, sotto Garibaldi,
il ministro delle finanze divenne un essere totalmente passivo. Lo
sciupio, mercé l'imperiose esigenze del Sig. Bertani, ed alle
ricompense, che si aggiudicavano essi stessi gli emigrati ed i
militari, prese proporzioni tali, che si vide tosto nella impossibilità
di soddisfare ai bisogni del governo e della guerra. Il dittatore
stesso prendeva nel pubblico tesoro somme ingenti per distribuirle in
largizioni ai suoi favoriti. Il più degli emigrati ottennero, per se e
per i loro, somme enormi come sollievo dello passate sofferenze. Il
ministro Conforti prese per lui 300,000 franchi, totale stipendio che
egli avrebbe dovuto ricevere, durante dodeci anni come ministro, se
fosse restato in tal posto; ma non lo era stato che quaranta giorni
(1). Il ministro Scialoja prese per lui e per suo padre circa 200,000
franchi e sottoscrisse egli stesso l'ordìnanza. Lo stipendio dei nuovi
funzionari le pensioni di ritiro largamente accordate a coloro che
avevano perduto i loro posti per l'esilio, assorbirono somme favolose.
Un ex-sottotenente di fanteria, a nome Filippo Agreste, nominato
direttore delle dogane, si ritirò da quel posto, dopo un mese, con una
rendita di 12,000 franchi, rendita eguale alla totalità dei suoi
stipendi.
(1)Conforti ministro caduto col quindici maggio,
parche abbia ragionato, come molti altri, a questo modo: se non fossi
stato in esilio, avrei durato eternamente nel ministero, e poiché ad un
ministro spettano ducati sei mila annui, la somma a me dovuta e di
ducati settantaduemila. Il calcolo, per aritmetica, era così
semplicissimo.
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Un altro che, nel
1848, era stato due mesi in carica, ottenne un ritiro di 18,000 franchi
(il trattamento di un ministro plenipotenziario), e questo non l'impedì
di cumulare più. tardi, col suo ritiro, un altro impiego copiosamente
ricompensato. (1) Un magistrato, non avendo che dieci anni di servizio,
si fece dare il trattamento di consigliere di Cassazione. (2) Il Signor
Mariano Ayala, un tempo luogotenente di artiglieria, si creò generale e
prese un appartamento nel palazzo reale. A dirla in breve, le penzioni
di ritiro aggravarono il tesoro di una spesa annuale di quattro o
cinque milioni ed i nuovi stipendi e l'aumento per gli antichi, di sei
altri milioni. Si crede sapere che si estrassero anche dal tesoro
napolitano sovvenzioni per i comitati di Livorno e di Genova; è certo
che 3,300 franchi furono in parte diretti sopra Genova. Si pagarono
alla Società genovese Rubattini 4,800,000 franchi per il Cagliari (che
gli era stato dopo lungo tempo restituito), per i due vapori il
Lombardo e il Piemonte che avevano trasportato Garibaldi in Sicilia e
per un quarto che era stato calato a fondo dalla squadra napolitana. La
preparazione del plebiscito costò molto cara, tanto più che gli agenti
del potere intascarono il danaro, e ne distribuirono il meno possibile
nel far proseliti.
(1) Il traduttore crede che qui si
accenni a Pietro Leopardi spedito nel 1848 a contrar lega con Carlo
Alberto. Nulla fece se non si vuol tenere per qualche cosa l'importanza
che si diede mostrandosi ai pubblico.
(2)Le leggi napolitane, secondo ha appreso il traduttore non accordan ritiro con sussidio se non da venti anni in poi, per ottenere l'intero stipendio bisogna documentar quaranta anni compiuti di servizio. Ora il Signore Aurelio Saliceti non sarebbe giunto a tal periodo neppur calcolando il breve tempo che fu triumviro in Roma, ed i dodici anni che vagò in esilio
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Un
direttore e due segretari di Stato presero essi soli quasi due milioni.
(i) II fatto, descritto dalla stampa fece gran chiasso e si minacciò
d'intentare un processo... ma niuna querela giudiziaria vi fu fatta,
verso la fine di settembre, le casse erano di già vuote e non si aveva
che a stento il vivere dell'armata rivoluzionaria.
Come mai poteasi impedire la dilapidazione quando non vi era controllo? Il dittatore ed il prodittatore, prendevano dal tesoro in ogni momento, senza dirne il perché, sopra un semplice biglietto; i militari con la minaccia sulle labbra e con l'arma nel pugno, si facevano aprire le casse della Banca, i volontari vendevano i loro effetti subito dopo ricevuti e qualche volta anche ai fornitori, facendosene poscia dare degli altri nuovi. Il comandante Zambeccari li minacciò indarno del codice militare, fu bisogno obbligar tutta questa gente senza focolare e senza tetto a munirsi di carta in regola, pena l'esilio. La precauzione era saggia, perché il primo venuto, portando una camicia rossa, potea permettersi tutte le indignità possibili. Si cita un ufficiale superiore che fece passare il suo figlio, dell'età di sei anni per ufficiale e li fece pagare due mesi di soldo. (2) I disordini del commissariato non erano meno vergognosi. Si ordinarono 72,000 cappotti per l'armata meridionale, che si componeva di circa 25,000 uomini; questi cappotti, pagati del tesoro, non furono giammai consegnati. In alcuni luoghi dove si trovarono oggetti di fornitura, o di armamento della truppa napolitana,
(1)Secondo le accuse
prodotte sulla stampa periodica, il Signor Carlo De Cesare, il Signor
Ferrigni, il Signor Tranchini, il Signor Magliano ed altri, presero
ducati quattrocentomila. Il traduttore non crede che essi avessero
prodotta querela di calunnia.
(2) Quest'ufficiale era italiano e garibaldino dei più accesi, e si dispiace il traduttore non saperne il nome per tramandarlo ai posteri come uno degli autori dell'Italia una, che in Napoli, si traduce spogliatore.
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ciascun comandante se li appropriò, vendendoli ai fornitori i quali li rivendettero al ministero della guerra! (1)
Si sa che l'armata meridionale fu licenziata all'arrivo dei Piemontesi. I volontari si presentarono allora, in folla alla Banca per esigere il loro soldo arretrato, ed i pagamenti furono fatti sopra semplici atti di presenza. Se gl'impiegati facevano qualche minima opposizione, le sciabole sguainate venivan loro mostrate dai Garibaldini che, se non si vedevano contentati, impugnavano pure i loro revolvers; e siccome talvolta trovavano chiuse le porte della Banca, minacciarono atterrarle; così fu d'uopo ad inviarvi un distaccamento per disperderli con la baionetta. Per dare un'idea di ciò che ha estratto dal tesoro napolitano l'armata meridionale, basta dire che nel 1861, quando era dopo lungo tempo disciolta, le si pagarono ancora quasi quattro milioni.
Questi fatti sono avvenuti all'epoca della transazione tra la rivoluzione e la invasione. Sotto il Piemonte il debito pubblico fu aumentato di cinque milioni. Torme d'impiegati in ogni grado, calarono dalle Alpi sopra Napoli, locuste avide di larghe indennità e di pingui stipendi. Il prefetto militare, a Napoli, oltre il suo soldo di generale e de’ suoi stipendi come prefetto, percepisce 12,000 franchi, per le spese di rappresentazione e dispone di due palazzi reali. Due impiegati, che l'assistono, assorbiscono il rimanente de' 304,000 franchi, costo della prefettura militare di Napoli. Pisone, in Grecia, e Verre in Sicilia, erano forse più modesti. L'ammiraglio Tolosano si è stabilito nello splendido albergo del Principe di Capua. Un consigliere della luogotenenza, alloggiò in uno appartamento reale
(1)Il
traduttore se è bene informato, il governo piemontese si è dato in
seguito molta pena per chiarire e punire queste frodi. Ma non crede che
gli sia stato facile, supposta anche la buona volontà.
192
e
si fece concedere 60,000 franchi di spese per ristaurazione, e, per
costruirvi un teatro. (1) Il Sig. Alessandro Dumas, ha ricevuto
anch'esso, il suo piccolo profitto, di circa 900,000 franchi, a quanto
si dice: è vero che egli pretende aver fornito dei revolvers. Gli si è
ceduto per proprio uso un palazzo della corona, e pranza, e si diverte
a caccia alle spese dell'antica lista civile. (2)
Il credito finanziario, le sale d'asilo, le scuole ed il collegio pel popolo, le casse di risparmio, le casse del deposito e dei prestiti che aveva promesso il nuovo governo, ancora si stanno aspettando. Il potere viveva di giorno in giorno, continuamente stimolato dalla mancanza delle risorse; e tanto è vero, che ardì anche di mettere la mano sul danaro dei particolari depositato alla Banca. Il vostro illustre Pitt, anche in mezzo alla guerra gigantesca, spingeva a moltiplicar Banche. Nel nostro regno, ove erano poche istituzioni di credito, il ministro piemontese distruggeva il credito d'una Banca dei depositi, che numerava non pochi secoli di esistenza; e le cui polizze ispiravano una fiducia illimitata. Il pubblico ritirò i suoi depositi; sicché il numerario della banca che era, nel 27 Agosto 1860, di 77,205,172 franchi, nel 27 Settembre era di 50,563,244 franchi, nel 28 di Gennajo 1861, era di 31,600,460 franchi, e nel 13 del seguente Aprile, era ridotto a 27,394,896 franchi.
(1)Tutti conoscono quello che
abbia fatto in Napoli, il già consigliere ed ora diplomatico signor
Nigra. I Napoletani ricorderanno lungamente, se non altro, le grazie e
l'attillamento di questo vezzoso personaggio...
(2) Il signor Alessandro Dumas che diceva a tutti «non guastargli la sua rivoluzione di Napoli», accusato di aver presa questa somma, si giustificava coll'asserire che ne avesse comprato revolvers, in Marsiglia. Tutte le fabbriche di quella città avrebbero avuto bisogno di un anno e più per fornirgli una quantità di armi corrispondenti a tal somma e che pure il Dumas ritrovò in un istante. Il traduttore ignora ancora chi abbia avuto o visto quelle armi —
193
Questo
però non ha impedito al governo di rapire alla Banca, nell'anno scorso,
sei milioni, nello stesso tempo che ritirava i depositi metallici dalla
zecca di Napoli, il primo de’ stabilimenti di questo genere, dopo
quelli di Vienna e di Londra, per farli coniare a Torino. Oggi, dopo il
colpo portato alla Banca di Napoli, essa non possiede neppur la metà
della somma depositata nel 1861, poiché la pubblica confidenza si è
raffreddata! Inutilmente il giornale ufficiale pubblica un quadro
abbellito dei depositi giornalieri; perché, oramai, queste
ciarlatanerie tanno perduto ogni prestigio d'ingannare la gente.
Roma li 10 Ottobre 1861
194
Signore,
Arricchito
dalle spoglie della Casa dei Borboni e degli Ordini religiosi, il nuovo
potere non fu prodigo che di novelle imposte. Egli volendo ristabilire
l'equilibrio delle finanze, non si prese la cura di diminuir le spese,
ma fu tutto attivo ad aumentare riscosse, vale a dire le imposte. La
contribuzione di guerra, levata appena, nuove e gravissime tasse si
gravarono pel popolo, tra le quali vi sono ancora delle sconosciute.
Il Napolitano pagava, dopo il 1832, 14 franchi per ogni anno ed il Siciliano meno ancora, in quella che il Toscano ne pagava 17, il Modenese 15 il Romano ed il Parmense 18, ed il Piemontese 19. Oggi per la sola tassa sul registro, degli atti giudiziali, civili ed amministrativi, divenuto obbligatorio, da volontario che era; il Regno di Napoli invece di 1,500,000 franchi, ne paga 39,000,000. Vi sono, oltre a ciò, altre tasse che per lo innanzi non si conoscevano, come quella su i beni mobili, quella sulle successioni che nel 1862, nella sola città di Napoli, ha prodotto un milione e mezzo e più. La Sicilia pagava un imposta sul sale e tabacco che non conosceva. Altre tasse nuove e l'aumento delle antiche portano la media individuale delle imposte a franchi 25 e centesimi 25. (1) Si parla già di sottomettere tutta l'Italia al regime d'imposizione che è in vigore nel Piemonte, in cui vi sono tasse, che nel resto della Penisula, sono ignote. Non si domanda ancora se tutte queste imposte sono giuste, né quale sarà la loro influenza sulla ricchezza pubblica, né quali effetti morali sono chiamate a produrre.
(1)Si rinvia l'onesto lettore a pag.21
del libro Roma e le menzogne parlamentari dello stesso traduttore, ove
troverà a lungo trattato ciò che concerne tasse del nuovo regno
d'Italia, che finora sono 47.
195
Il
governo di Torino prosiegue la sua opera gravosa e raccomanda ai
Prefetti di adoperare tutti i mezzi, per far votare atti ili
ringraziamento dai consigli municipali; i prefetti poi non mancano mai
per cosi patriottico officio.
Frattanto, questo governo, che in piena pace aveva bisogno di un miliardo, mentre che gli antichi governi si contentavano di 500 milioni, come dunque spende le sue risorse? In qual baratro adunque ha gittato le ricchezze del Reame di Napoli? Non è certamente il mantenimento della sua armata che può impoverirlo: l'effettivo di quest'armata non sorpassa di molto, se è vero che lo sorpassa, quello di tutte le truppe della Penisola avanti l'annessione. Si fa sommare oltre a 300,000 uomini Tarmata italiana, ma non arriva, in realtà, che a 230,000. (1) Le armate dei diversi stati d'Italia, compresavi quella del Piemonte, formavano un totale di 228,933 uomini. A questo bisogna aggiungere che le finanze pontificie sostenevano allora anche le spese dell'occupazione tedesca. In che maniera queste armate si mantenevano? L'armata napolitana era la miglior vestita, in Europa, e quella di Modena e del Papa erano brillantemente equipaggiate. Oggi le truppe italiane sono nello stato il più miserabile, e non vi è forestiere, che, attraversando l'Italia, non l'abbia osservate (2). Il governo pertanto non ha da mantenere tutti gli stabilimenti militari degli stati annessi. A Napoli, per esempio, si sono soppressi i cantieri, le manifatture delle armi ed i laboratori militari quasi distrutti, e lo stabilimento di Pietrarsa si è serrata.
(1)
Il ministro della Rovere rispondendo ai deputali che gli richiesero la
cifra dell'armata, disse che era di 350,000: ma rimase avvilito, quando
si gli fece vedere che l'armata effettiva non oltrepassa i 220,000. Dio
sa come è concorde questa armata!...
(2)Qualunque indifferente basta che abbia un cuore, non può non esser compreso da compassione in vedersi l’armata italiana. Essa è sempre abbigliata da un cappotto
196
Non
è a dimenticarsi che gli Svizzeri capitolati a Gaeta, aspettano ancora
la loro pensione, malgrado le proteste del Consiglio federale.
II governo italiano non ha Corti principesche da mantenere a Napoli, a Firenze, a Parma, a Modena e nelle provincie della Chiesa. Una sola lista civile gli rimane a saldare, nel mentre che ha ristretti nelle sue inani tutti i beni delle Dinastie in esilio. Da per tutto si son soppressi i Ministeri e la qual cosa solamente, in Napoli, ha fatto realizzare, come per confessione di propria bocca, un economia di 100,000 franchi. La Zecca, la Direzione delle poste e la Telegrafia di Napoli sono state soppresse e tutto si è riconcentrato a Torino. La Banca non gli costa più niente; si sono abolite parecchie amministrazioni, tra le altre quella degli Ordini cavallereschi e. degli Ordini religiosi. Questa misura ha prodotta la realizzazione economica di 30,000 franchi sul solo Ordine Costantiniano. Una somma di 80,000 franchi ha potuta essere economizzata sulle spese di percezione di certe imposte. Il corpo diplomatico ed i Consoli degli Stati annessi non ricevono più trattamenti. Si è abolita la Corte dei Conti, a Palermo ed a Napoli, riducendole ad una semplice sezione.
Il governa non può, d'altronde, allegare, per giustificare le spese,
che
le serve per giuba e per mantello, le scarpe sempre senza sóle, le
camicie nere e sucide da scambiarsi con quelle dei lavorieri dei
carboni; i calzoni risaltano per i molti brani che vi pendono. Chi poi
potrà dire gli insetti che tormentano quei poveri disgraziati? l'onesto
lettore ben comprenderà la causa di un tanto male; la spada della
divina giustizia non tarderà ad atterrare il desiderio degli empii...
quia desiderium peccatorum semper peribit.
197
ne' grandi travagli di pubblica utilità, né sussidi all'istruzione pubblica, all'industria ed al commercio.
Dopo il 7 Settembre fino al mese di Decembre del 1860, si ebbe nelle finanze Napolitane un deficit di circa 50 milioni. Gli eventi del 1860, al 6 Settembre, erano costati al Regno di Napoli 55,248,618 franchi; il Piemonte aveva nello stesso anno aumentato il suo debito di 150 milioni, ma il male peggiorò talmente l'anno seguente, che il deficit divenne da 80 a 90 milioni. Nulla di meno, nei conti resi dalla Tesoreria napolitana, la guerra figurava per 10,823,120 franchi, ai qua li fu d'uopo aggiungere, in un tempo in cui l'armata napoletana non più esisteva, 13,273,224 franchi pagati ali armata italiana dal Tesoro, e 6,798,166, dalle provincie. Non è mia intenzione di svolgere a fondo que sta finanziaria questione, perciò semplifico il più che mi sia possibile le cifre ed i calcoli. Il budget, nel 1861 doveva subire una diminuzione di rendita per la soppressione delle contribuzioni della Sicilia (al di là dei 16 milioni), dalla riduzione delle tariffe doganali, dal prezzo del sale e dalla restituzione delle tasse di Consumo alla Città 'di Napoli. Dall'altro iato, le spese si trovavano considerevolmente ridotte per la soppressione, della lista civile, e dei ministeri della guerra, della marina e degli affari esteri. Cosi, se vi si aveva una diminuzione di quasi 30 milioni sulle rendite, il budget si trovava scaricato d'un passivo di oltre ai 64 milioni. Intanto i conti resi del 1861 constatano che le spese erano aumentate. Il passivo era stato fermato a 104,303,161 franchi. Il regno di Napoli, come tutte le altre provincie, doveva subire la sua porzione delle spese generali, ma proporzionatamente alla sua popolazione; non vi si poteva dunque contribuire che per un terzo. Il Budget totale essendo allora di 498,395,133 franchi,. Napoli doveva sopportare una spesa di circa 160 milioni, che aggiunto al passivo fissato dal Budget speciale delle due Sicilie, offriva un passivo totale di 264,303,161 franchi
198
Per
farvi fronte, si vendettero circa 34 milioni di vaglia della rendita,
dipoi, a rischio di una carestia, si vendettero pure tutte le derrate
che dal governo precedente si erano raccolte, la qual cosa offri un
introito di 6 o 7 altri milioni. La situazione divenne cosi grave, e la
povera Città di Torino dovette fare l'elemosina a Napoli, non ha guari
floridissima, di quasi 8 milioni! Per convincersi di tutti questi
fatti, non si deve che leggere il rapporto del segretario delle
finanze, Sig. Sacchi, Piemontese.
Si son visti dei governi appropriarsi, senza il minimo scrupolo, il di più delle rendite prodotte dall'aumento naturale della ricchezza; ma il governo italiano trova tutto semplice ciò che si paga di più, allorché il paese, va di più in più a cadere nella miseria. L'Italia agli occhi dei ministri, e come l'asino di Sterno, che, abituato ai colpi, riguardava con volto rassegnato, come per dire, che non si battesse troppo forte, ma che se si voleva bastonare, si poteva.
La situazione deplorabile delle finanze italiane ha dato luogo ai deficit degli anni 1860,1861 e 1862 ed a rovinosi imprestiti, che hanno raggiunto fino a questo giorno la cifra di 1,420 milioni. Il debito pubblico, in tempo delle disposizioni del ministro Sella si era già accresciuto di 925 milioni, ed il nuovo Stato d'Italia pagava, con i debiti precedenti,308 milioni d'interessi. Si è discusso ultimamente il Budget del 1863 e quello del 1864, si sono votati in fretta, in una sola tornata! Chi si prende la pena ad esaminarli, vi troverà che lo scoperto, al momento in cui io scrivo queste linee, è di 368,072,684 franchi. (1) E questo senza pregiudizio di altre spese imprevedute
(1)Si è pubblicato il bilancio
del 1865, ed acciò il benevole lettore non venghi defraudato di questa
conoscenza, il traduttore ce ne fa un dono, esso è come segue: Le spese
ordinarie sono valutate a 747,359,368 franchi e gl'introiti ordinari a
574,063,107 franchi. Le spese straordinarie sono valutati a 106,470,266
franchi,
199
come ve ne sono state negli
esercizi precedenti, e senza tener conto della emissione sempre
crescente dei beni della tesoreria, emissione che crea un novello
debito. Il governo italiano si lancia colla testa bassa nelle
operazioni finanziarie le più insensate Mentre che la spesa collettiva
di tutti gli Stati d'Europa si è elevata al 15 al 20 per cento, dopo la
guerra del 1859, l'aumento, nel neo regno, è stato del 100 per 100.
Voi conoscete l'esposizione finanziaria del Sig. Bastogi, vero laberinto immaginato, nel quale l'ingegno più matematico vi si sperderebbe.
Si è decisa l'alienazione dei beni demaniali e di quelli della Cassa ecclesiastica: questi beni, al dir di un ministro, producevano una rendita di 26 milioni, che rappresenta quasi un miliardo di capitale. Cercando nella vendita di questi beni, una risorsa straordinaria, si dimenticava che, anche al di fuori degli ostacoli e delle riluttanze opposte dalle coscienze, niente è più funesto che l'incertezza e l'instabilità. E pur con tutto questo, il Signor Bastogi affettava una beata sicurezza e si lusingava di poter far fronte al vuoto, il quale da lui non veniva valutato che a 37 milioni. Il deficit del 1861, all'epoca della discussione dell'imprestito, era valutato a 314 milioni; i crediti supplementari l'hanno accresciuto di 77 milioni. Il deficit previsto pel 1862 era già di 217 milioni. Questi due esercizi riuniti davano l enorme deficit di 708 milioni. Intanto il ministro fidava sopra 58,880,000 franchi provenienti della alienazione delle rendite napolitane e siciliane, mercé l'unificazione del debito pubblico, e sopra un imprestito di 500 milioni. Si lusingava ottenere 139 milioni dalle nuove imposte, di maniera che il vuoto reale non doveva essere di più che 20 milioni!
introiti straordinari a 061,437,611 franchi. Il deficit si calcola a quasi altri 400 milioni. Ma sarà stata detta tutta mura la verità?...
200
Ma
di primo slancio le risorse a cui il ministro fidava erano o pur né
reali? Gli eruditi in finanze lo giudichino. Nel 21 Decembre 1861, il
ministro aveva indicato il deficit dell'anno senza parlare
dell'arretrato del 1860. Esso aveva annunciato semplicemente il deficit
generale pel 1861 a 400,408,507 franchi, ed il deficit previsto pel
1862 quasi a 317,000,000, ciò che formava un totale di 717,408,507
franchi, benché il deficit napolitano non figurava in questo calcolo
che per 22 milioni: ora si è elevato a 90 milioni. D'altra parte se per
una spesa prevista di 805 milioni, si era avuto un deficit di 400
milioni, come mai il ministro, che calcolava per le spese previste nel
1862, la somma di 840, riduceva il deficit a 317 milioni? Di quanto i
deficit non sorpassano sempre le previsioni dei ministri! Esso aveva
calcolato le spese dell'anno 1861 e 1862 a 708 milioni; e quelle del
solo anno 1862 a 158 milioni; ma in quella che il bilancio fu
pubblicato, il deficit del 1862 si trovò essere di 308 milioni. Il
successore del Sig. Bastogi annunzio nel 7 Giugno 1862, che il deficit
del 1861 e 1862 non era più di 708 milioni, ma di 1,004 milioni. Le
spese per l'anno 1862, già calcolate a 840 milioni, si videro elevate a
966 milioni. Quale adunque dei due ministri esponeva la verità? Uno di
questi intanto aveva confessato, che non vi erano possibili economie, e
che il solo mezzo di coprire il deficit, erano le imposizioni e sempre
imposizioni (1). Il nuovo ministro al contrario,
(1)Questo
sistema di accrescere sempre imposizione fu inaugurato dal celebre
Cavour il quale più volte aveva detto: per far l'Italia bisogna pagare,
e pagare moltissimo. Tutti i deputati come Marliani, Sylos-Labini,
Lanza, Sella e Massari applaudirono all'estinto e ripetettero, che per
uscire dalla normale condizione in cui si trovava l'Italia, era duopo
aver coraggio votare imposte tali che valessero a riempiere il vuoto
delle casse. Per dare un saggio all'onesto lettore di quale imposte
sono gravati i popoli d'Italia, il traduttore, dopo aver letto
201
ha
dichiarato in pieno parlamento la spaventevole situazione delle
finanze, promette l'economia di 113 milioni, ma ne domanda in
imprestito 700 milioni!...
Nel Budget del 1863 le rendite figuravano per 575 718,000 franchi e le spese per 880,353,000 franchi. U sig. Marco Minghetti prometteva economie (50 milioni annui) per far fronte al novello debito, ed una economia di 63,430,929 franchi, nel 1864. Ma doveva sapere che un terzo delle imposte non rientra nel tesoro, perché gl'introiti presunti non sono che poco pii di 50 milioni, e le spese ammontano a 880,360,435 franchi; esso doveva sapere che il deficit sarebbe sempre di 380 milioni, quand'anche l'economie progettate si realizzassero. Inoltre, teneva esso presente nel capitolo delle spese ordinarie, quasi 30 milioni rappresentanti l'interesse della nuova emissione dell'ultimo imprestito, e la guarentigia delle strade ferrate? Questa maniera di realizzare economie è tutta singolare!. Il ministro aveva promesso un'economia annuale di 50 milioni, ed ecco che le spese straordinarie, calcolate in su le prime a 100 milioni per ogni anno arrivano di già, nell'esercizio del 1863 e 1864 alla cifra di 287 milioni.
Che si sarà detto, in Inghilterra, in sentire un ministro italiano assicurare che il re Vittorio Emmanuele non aveva potuto trovare 500,000 franchi sulla fiducia della sua firma? Che si dice vedendo lettere di camino di 2,500 franchi tratte dal tesoro italiano a quattro mesi di data? Ed ecco intanto che la voragine del deficit è sempre spalancata, e lo Stato si trova gravato di 1,200,000,000 franchi di novello debito. In poco più di due anni, gl'imprestiti italiani hanno quasi pareggiato i crediti straordinari aperti in Francia negli otto anni scorsi dal 1851 al 1858.
gli atti del Senato, N.247 pagina 868 col 2 dice:
che un tale, possedendo la rendita di lire 700, ne paga di dazi 1,300.
Fortunato italiano, ma senza invidia!...
202
Dove
adunque vanno a perdersi le rendite italiane? Ma che forse saranno
assorbite da sacrifici segreti? Walpole, si dice, vantavasi di sapere
la tariffa di ciascuna coscienza, ma esso l'aveva appreso nel corso di
20 anni che era stato nel ministero. Oh! quanti Macheaths italiani non
danno anche la pena ai ministri di fare tali studi? Daccanto a loro, i
straccioni del vostro Gay sarebbero come fanciulli. (1)
È vero che si rimarca nel Budget del 1863, 53 milioni per aumento del trattamento degl'impiegati pubblici;, ma queste spese non giustificano il miliardo preso ad imprestito in pochi anni.
Per quello che si è nascosto nel regno di Napoli, all'arretrato dei precedenti Budgets si venne ad aggiungere l’imprestito della vendita e quelli che il governo Torino ha contrattati. Con ciò, Napoli deve sopportare la sua parte degl'imprestiti fatti dal Piemonte, in vista delle annessioni. Nello stesso tempo, si è fuso il debito nel debito italiano per avere una sola categoria di contribuenti, la qual cosa non reca nessun guadagno a Torino; perché se vi sono già due miliardi di deficit la porzione di questo deficit, per Napoli, è oltre dei 600 milioni, senza tener conto della Sicilia.
Intanto, uno di questi ministri (5) dedicato alla ricerca della pietra filosofale, ha pensato che gl'Italiani poteano molto consolarsi, giacché nella vostra antica Inghilterra un abitante paga pel debito dello Stato 21 franchi, mentre un Italiano non ne paga ancora che sette. Ma intanto sarebbe stato d'uopo dirci, come mi sembra, quale è il capitale produttivo de’ 27 milioni degl'Inglesi, e quale è quello dei 22 milioni degl'Italiani.
(1)Macheaths è uno dei prototopi, come credesi, della commedia degli straccioni di Gay.
(2)Il traduttore crede, che il ministro, a cui qui si fa allusione sia il Sig. Sella, il quale è uno che non è mai sfornito di entusiasmo, quando si tratta di decorticare i popoli dall'Italia, e segnatamente quei del mezzogiorno.
203
È sulla proporzione del
numero degli abitanti, che noi dobbiamo calcolare il debito e le tasse
e non sulla proporzione della ricchezza nazionale? La Francia e
l'Inghilterra sono gravate d'imposizioni, perché sono ricche, ma non
sono ricche perché pagano tante imposizioni. Le spese non formano le
ricchezze, ma sono queste che forniscono quelle. Il ministro si
mostrava superbo di annunziare che il debito nella Gran Brettagna,
assorbiva il 36 per cento sulle rendite, ed in Francia 31, mentre che,
in Italia non poteva ancora assorbire che il 26. La base del suo
ragionamento era che le rendite dello Stato aumenterebbero fino a 600
milioni. Ma gl'introiti del 1860 invece di 547 milioni, non ne avevano
dato che 456; nel 1861 si erano calcolati a 477 milioni e non he
avevano dato che 468; nel 1862 si erano valutati a 531 milioni e ne
sono rimasti al di sotto. Se dunque gl'introiti non oltrepassano in
prima 468 milioni, gl'interessi del debito essendo di 156 milioni, la
proporzione non è più di 21, ma bensì di 33 e di 32 e mezzo per cento,
Ammettendo pure che le preveggenze del ministro siano ancora deluse per l'insufficienza dell'entrate, o per l'accrescimento straordinario delle spese, non si avrà altro espediente che l'aumento del debito. Ora, chi si appoggia sul credito, si appoggia sopra la più facile, ma sicuramente sopra la più fragile di tutte le risorse. Non vi é, in Europa, Stato, che abbia raddoppiate le sue entrate in meno di un quarto di secolo; l'Italia otterrà essa dal Cielo un tal beneficio, malgrado i disordini della rivoluzione, le devastazioni della guerra civile, le diffidenze politiche d'Europa, gli all'armi del credito, lo scoramento del commercio e dell'industria? Dove è questo forte, compatto e pregevele potere, che vuole il bene ed ama la patria, e ripromette colla sua perseverante saggezza un tal prodigio?
La situazione del credito pubblico e del credito privato addiviene sempre più inquietante', e tutti i gravi ingegni se ne preoccupano.
204
Ma quando si prendono milioni, non se ne debbono prendere troppo.
I poteri nuovi hanno, in tutti i tempi, trovata a loro conforme questa massima. Gl'incaricati che tengono le redini dello Stato, tanti Titani che non avevano saputo altro che declamare con asprezza contro gli antichi governi dell'Italia, hanno di già mostrata di che eran capaci. In fine de' conti non parlano d'altro ogni giorno che di far debiti (1) Il campo degl'imprestiti è il solo, che innanzi al nuovo potere è aperto, e tutti vi vogliono pascolare. Nel vostro Stato, Signore, ove la responsabilità è chiaramente definita e si discute in parlamento, ove non è alcun Cancelliere dello Scacchiere che non prenda per punto di onore contener le spese nel limite dell'entrata, che si dirà di quei ministri amatori delicati delle particolarità finanziane, che conducono gli affari dello Stato, come il vostro Addisson, moralista benevolo, conduceva in tutte le falsità il suo Roger di Coverley? Che si dirà di quei budgets italiani non discussi, budgets convertiti a legge in un sol giorno, di quei prestiti cosi enormi votati con entusiasmo incredibile? Che si penserà di quel vergognoso sciupio, di quelle spese che non si sono erogate nel corso di un esercizio, di tutti quegli arretrati passivi che dopo il 1861 superano sempre l'attivo delle finanze italiane? Che si dirà di quella cieca speranza che, sola, non sente lo scricchiolio del cadente edificio creato, dalla rivoluzione, quando il mondo intero se ne spaventa?
Roma, li 4 Ottobre 1863.
(1)Nella
tornata de 4 Luglio 1863 il Sig. Rattazzi diceva che il governo
d'Italia ha bisogno di un nuovo prestito. Dimenticava ei forse, che
gl'interessi dei debiti finora fatti, sono al disopra delle rendite che
ti percepiscono sulle immense tasse?...
205
Eminenza,
Il
re Vittorio Emmanuele ha preteso innanzi al mondo, che esso era stato
chiamato dai Napolitani a prendere la corona di Francesco II, suo
parente. Ma qual corpo dello Stato, quali comizi, avevano espresso
questo voto? Dieci o dodici individui inviati da Garibaldi in pericolo,
si costituirono mandatari del popolo, e tra questi vi erano, alcuni
generosi ed alcuni funzionar! che dolorosamente erano divenuti celebri
pel loro recente tradimento. I comizi di Napoli non si erano ancor
tenuti in quella che i Piemontesi invasero il Regno. Nella
proclamazione d'Ancona del 9 Ottobre, redatta, come dicesi, dal
ministro Farini, si affissarono i voti delle. popolazioni, ed i doveri
verso gl'Italiani, assumendo l'incarico di portarsi a rigenerare il
Regno di Napoli, ed a moralizzare i suoi abitanti, (1) la qual cosa era
lo stesso che aggiungere l'ironia alla violazione di tutti i dritti.
Questo era, dopo l'invasione degli Stati Pontifici, una seconda
confisca per mezzo della forza, una perdita di dritto per parte della
giustizia. La marcia che s'intraprendeva aveva per iscopo sostenere ed
ajutare Garibaldi con le sue orde; e quella complicità con le me
desime, che fino a quel punto si era nascosta, ed officialmentc
smentita, in questo momento con sfrontatezza
(1)Se
moralizzare deve intendersi proteggere il vizio, e rigenerare scannare,
tutti a man franca, il governo di Torino ha adempito atta promessa
fatta, in Ancona> al regno di Napoli.
206
di nuovo genere si veniva a confessare, stimando esser giunto il tempo a dover gittare la maschera. (1)
La pretesa di moralizzare il popolo napolitano era un fiero insulto, ed una amara ironia all'indirizzo di popolazioni della più bella, e della più ricca contrada dell'Italia, e questa pretenzione, erano i Piemontesi che l'affigèvano!
Benché l'antipatia tra i due popoli non fosse allora tale, quale è divenuta di poi, i Napolitani, fatta eccezione di un partito, non riguardavano i Piemontesi come loro compatriotti. In fatti i Piemontesi hanno una fisonomia tutta sua, un dialetto proprio, particolarità morali ed intellettuali, ed una differenza di educazione che non può spiegarsi. Possedevano una riputazione di buoni soldati, ma si consideravano, nel Mezzogiorno, come non appartenenti al medesimo ramo della gran famiglia italiana. Essi non avevano che debolmente accresciuto il patrimonio nelle arti della pace, ed occupavano un posto modestissimo nei fasti di una gloriosa letteratura. I Napolitani, che si contraddistinguono per la loro vivacità, per l'ingegno, per l'eloquenza e che superbiscono di aver superati tanti altri popoli nelle scienze morali, e nelle riforme civili, non videro in quel famoso manifesto anconitano che una imbecillità, una solenne insolenza.
Il nostro popolo, naturalmente buono, è irascibile e facilmente si esaspera nel vedersi deprezzato. Il sangue di tutti gli uomini di cuore bolle alla lettura di quel proclama d'Ancona. Questo governo andava esso ad elaborare la restaurazione dei dogmi immutabili e dei principi della morale,
(1)Col tempo, quante rivelazioni non si son fatte le quali han data luce alle cose che sembravano oscure? Cavour confessò che aveva spedito Garibaldi in Sicilia; Farini confessò che i fucili erano del governo di Torino. Garibaldi confessò l'appoggio inglese nello sbarco a Marsala e nel passaggio al continente, e tutti poi insieme han detta che senza il tradimento Francesco II non usciva da Napoli.
207
senza
la quale ogni società è inferma, ed ogni autorità combattuta ed
incerta? Andava esso a mettere un freno alla dissolutezza dei costumi,
a raffermare i sentimenti religiosi, ad accordare la sua protezione
alle arti, alle lettere ed alle scienze? Che non doveva fare se vuoi
giudicarsi dalle sue promesse? Le anime semplici, provarono più
sorpresa che fiducia, però si lusingarono di vedere la loro bella
patria, in breve tempo, meritare tutte le benedizioni del cielo e tutti
gli applausi della terra.
Si era già sperimentata la civilizzazione che trascina al suo seguito la rivoluzione. Garibaldi aveva già fatto conoscere quale rispetto egli aveva per la legge e per la morale. Con uno dei suoi decreti, aveva concesso una petizione, da gravare sullo Stato, ad una figlia adultera di Pesacane morto nella folle spedizione del 1856. (1) Con un altro decreto aveva dichiarata sacra la memoria di Agesilao Milano, e concesse una penzione alla madre ed alle sorelle di quel regicida; è nello stesso tempo, un certo Ayala era andato alla testa della guardia nazionale, a deporre una corona di sempreviva sulla tomba dell'assassino.
Il governo sardo, non appena subbentrò al posto, di Garibaldi, autorizzò tutte le orgie del pensiero e tutte le depravazioni della intelligenza, di cui la stampa si rendeva l'organo giornaliero. Permise la rappresentazione di drammi osceni, nei quali i Cardinali, il Papa, i Martiri ed i Santi erano messi in iscena. Si tollerò la mostra delle più luride ed ignobili pitture, la vendita di abominevoli libelli... e di libri i più inzozzati d'immoralità, e la prostituzione la più svergognata (2)
(1)Nel 2 Luglio corrente si ergeva in Salerno a questo amatore della patria, all'uso piemontese, il monumento, ad istigazione dei deputati G. Nicotera, G. Matina ed Alfieri d'Evandro e Domenico Mauro ne faceva il discorso d'inaugurazione Povera Italia! Il governo di Torino ti spoglia di danaro e ti disonora con tali monumenti!...
(2) Il governo della moralizzazione ha fatto
208
Questo
è il lavoro delle, streghe del vostro Shakespeare:radunare veleni e
serpi per giungere ai fini dell'ambizione ed al colmo dell'ignominia.
Trecento zitelle della classe popolare furono cacciate dall'Albergo dei
poveri, grandioso stabilimento fondato sotto il governo di Carlo III,
ove più di 3,000 poveri ed orfani apprendevano un mestiere a spese
dello Stato. Queste infelici gittate tutte in un istante sul lastrico,
senza mezzi di esistenza, l'indomani, quasi che tutte divennero preda
del vizio. I direttori fecero eseguire i ritratti in fotografia delle
più avvenenti, alle quali si era permesso di restare nello
stabilimento e quei ritratti furono mandati a
Torino! Il governo non ricordava che quandosi lascia al vizio rialzare
la testa, avvenimenti funestissimi si prepararono; e più d'ogni altro
quando non sigma dei grandi principi, che formano il fondamento a una
società?
E poi si tollerava tutto questo al momento stesso, in cui si abolivano i conventi, si distruggevano gli stabilimenti di letterature e di scienze nel Regno, e si lasciavano rovinare gli stabilimenti di beneficenza! Gli antichi direttori di questi stabilimenti, presi dalla nobiltà, esercitavano gratuitamente le loro funzioni: se ne nominarono dei nuovi, assegnandosi loro dei pingui stipendi. Però non si tardò a verificarsi per questi asili una diminuzione di rendita di 200,000 franchi, ed il loro stato presente è per ogni lato deplorabile, sicché quei poveri disgraziati che si lasciano tuttavia rinchiusi nell'Albergo dei poveri sono coverti di cenci, inquietati dagl'insetti, senza letti, senza coverte, ed il cibo che si da loro, in nutrimento, è scarsissimo. Perché mai il governo avrebbe più premura per i poveri che peri carcerati. (1)
tessere la storia della prostituzione per alimentarla, ed ogni libito ha fatto lecito in sua legge.
(1) Si vegga a pagina 141 ove si è parlato dei carcerati.
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lettera
diretta, nello scorso anno, al generale La Marmora, e pubblicata dai
giornali, destò nel mondo grandi risentimenti. L'autore vi faceva una
tetra pittura di questo stabilimento, invitava il generale a visitalo,
e terminava con queste parole. Portati sul luogo osserva, e ci dirai se
i Napolitani hanno ragione di maledire Torino! Il generale fece
orecchie da mercante. E' vero che il principal dovere di un nuovo
governo è quello di far regnare l'ordine in tutto e per tutto; ma
l'ordine, in Napoli, fin dal principio si trovò compromesso nello
stesso modo che la morale. Le passioni, brutali, l'egoismo, l'orgoglio,
le necessità. del momento le combinazioni politiche impedirono ben
tosto il. corso della giustizia; ed il governo, per soli fatti di sua
origine, s'inclinò a rallentare le briglie a tutte le passioni. Quel
popolaccio che surse dagli ammutinamenti, quei bravi sortiti dalla
turba, e quei forzati usciti dai bagni dovevano dare, come dettero, in
tutti gli eccessi. La rivoluzione aveva assoldati i camorristi per
timore. come diceva, che non facessero una reazione, ma il vero scopo
fu di servirsene per spargere terrore. Nel tempo che Garibaldi entrava
in Napoli, bande di condannati fuggirono d$I bagna di Castellammare e
vennero a rinforzare la camorra ed un ministro ne fece mettere in
libertà altri duecento cinquanta! (6) Dopo la partenza di Garibaldi il
Piemonte si ricevette con compiacenza questo retaggio della
rivoluzione. Tali uomini, sicuri dell'impunità, con faccia di patibolo,
si spacciarono per politici ed avversari alla Dinastia dei Borboni!
A Palermo, ove l'anarchia era di gran lunga superiore a quella di Napoli, si formò una setta di assassini ed in pochi giorni, diciassette vittime caddero sotto i colpi di cotali miserabili. Vi si era in fine organizzato l'omicidio.
Per buon tratto di tempo, Eminenza, si son negati
(6)Il ministro a cui qui sì accenna, il traduttore crede essere il Sig. Crispi.
210
i
delitti, e l'esistenza stessa di quegli esseri feroci, nello stesso
modo ché si son negate le atrocità comandate dai Fumel, da' Pinelli,
da' Neri, e dai Galateri, che il governo italiano ha tollerate. Ma il
potere stesso, dopo due anni di complicità, non fu costretto a purgare
Napoli da questi banditi? Quando credette di non aver più bisogno del
loro appoggio fraterno, li arrestò tutti in una notte, li gittò nelle
prigioni, e fecili trasportare più laidi a Finestrelle e nell'Isola di
Sardegna. Gli altri, in numero di 1,180 sono stati inviati a popolare
l'isola dell'Elba, di Capraia, di Gorgona e del Giglio.
Era già troppo tardi; perché, in Napoli, non si poteva più camminare né di notte e neppur anco di giorno. Il pugnale di un sicario investì spesse fiate la sua vittima in pien merìgio, nelle strade più frequentate, e non di rado al cospetto della pubblica forza, il generale Màrulli, il capitano Giordano, il generale d'Ambròsio con suo figlio ed un gran numero d'impiegati civili furono bruttamente insultati, battuti e lasciati per morti in sulla strada. Bastava dirsi che la vittima era un borbonico, per fare che i carabinieri piemontesi lasciassero l'omicida libero ed impunito. Gli omicidi divennero cosi frequenti che l'abitudine ne diminuì l'orrore. Il governo non diede altra consolazione ed altra sicurezza al popolo napolitano che di fargli sapere, ogni giorno, il numero di coloro che erano stati battuti ed ammazzati dagli assassini. Questa cronaca ebbe a registrare, nel 1861, e per la sola città di Napoli, diciannove assassinati, in meno di quindici giorni! La statistica del 1861 accusa, in Napoli, 4,300 delitti contro le paesone; nel distretto di Palermo, dal primo Giugno al quindici Ottobre, 6,745 delitti, dei quali 743 contro le persone. Nel 1862, sopra il numero dei reati di cui si erano conosciuti gli autori, si contano 2,497 attentati contro le persone, e 1,698 contro le proprietà. Nella sola Città di Napoli, e nel solo mese di Ottobre, sopra 160 misfatti vi furono 98 uccisioni in venti giorni.
211
Nella
statistica del 1863, la media dei misfatti sarebbe di 3,000 e quella
dei delitti di 6,000. Di maniera che calcolando la proporzione dei
reati di. provincia sempre più numerosi sopra quelli della provincia di
Napoli, si sarebbero avuti, nel 1862, 21,000 delitti per 32,000
accusati; e 42,000 delitti per 52,000 prevenuti. Questa proporzione non
si è affatto variata nel 1863, e si calcola che vi è un accusato sopra
312 abitanti, mentre che prima del 1860 questa proporzione non era che
di 1,083. Non va modo di violenza che non si permise contro le donne,
contro i militari dell'antico governo, e talvolta, contro le stesse
autorità. Io non parlo del contrabbando; perché le spie della polizia
ne diedero in prima l'esempio.
Per lo giro di cinquantanni appena pochi incendi si erano numerati, e tra questi un solo, nel 1814, si attribuì alla malvagità. In Luglio ed in Agosto del 1860, quando la rivoluzione era presso che alle porte della Capitale, ne scoppiarono parecchi, ed altri più tardi sotto il governo piemontese, segnatamente quello dell'Albergo dei poveri. Se ne tentò un altro, ben altrimenti in gravita, alla conservazione dell'ipoteca, ed avventurosamente i titoli di tutte le fortune non furono consunti dalle fiamme. Dopo il mese di Settembre del 1860, il numero dei furti era stato spaventevole; e dopo l'istallazione del governo sardo andò d'un di più che l'altro sempre crescendo. Imbaldanziti per la mancanza di repressione e divenuti più destri, i ladri assalivano le case, le botteghe, e perfino le Chiese. Ultimamente alla Favorita, villeggiatura della Corte, ove il popolo si raduna in folla la domenica, i ladri aspettavano quelli che se ne ritornavano per spogliarli; e ciò avveniva ad una lega e mezza dalla Capitale!... Spesse volte ancora, i ladri si presentarono come agenti della pubblica forza, o vestiti da guardie nazionali, e si davano incaricati di una commissione, D'altronde, in ogni parte vi erano i complici, ed anche io quella polizia riorganizzata dal signor Curletti, piemontese,
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che scampò il
carnefice fuggendo. Nove malfattori arrostati a Posillipo, nel momento
stesso che commettevano il furto, furono, due giorni dopo, rilasciati:
il loro capo, una antico basso uffiziale svizzero, (1) era
conosciuto per la sua audacia e per la sua relazione con la polizia; e
lo stesso ne' commise degli altri nelle vicinanze di Napoli. I
colpevoli disprezzavano la giustizia. Quando si commise un furto, nel
1862, vicino Senerchia, in danno di molti negozianti, la polizia
commettendo altro gran fallo, fece indennizzare i derubati dal Sindaco,
è dalle municipalità; senza poi dire che i sospetti di Borbonismo erano
ricercati ed arrestati colla maggiore attività e rigore del mondo.
Nelle provincie, ove i prefetti hanno a loro disposizione una potente
polizia ed una numerosa forza armata, si sorvegliavo i minimi movimenti
degli uomini ostili al governo, ma si serrano gli occhi e si resta
colle mani incrocicchiate quando deve agirsi par disarmare i sicari,
per assicurare la pubblica tranquillità e difendere la proprietà. Niuno
ardisce di querelarsi innanzi le autorità, niuno osa di deporre in giù
diario. L'antico governo si è rimproverato per essere stato troppo
debole: ma qual miglioramento si ottiene ora che il governo debole è
stato rimpiazzato da un altro forte?
Roma, li 16 Luglio 1863,
(1)Il
traduttore crede che questo basso uffiziale, chiamato qui svizzero sol
perché appartenente ai già reggimenti svizzeri, sia un Vertemberghese a
nome Schmidt, condannate in patria, condannato in Svizzera, ed era più
volte messo in carcere e più volte scarcerato dalla stessa polizia.
213
Eminenza,
La
massa del popolo, se da una parte non comprende gran cosa delle leggi,
dall'altra a meraviglia comprende gli oltraggi che alla morale si son
fatti. Il popolo napolitano avrebbe potuto, parlando a rigore, rimanere
estraneo ed indifferente alle offese contro la pubblica morale, sviando
gli occhi dalle licenziose immagini, impedendo gli spellaceli ed i
teatri. Ha questo non era il compito del governo che si chiamava
moralizzatore: perché essa aveva la pretenzione di alterare te
religiose credenze d'un popolo eminentemente cattolico.
Il Piemonte, per costituire l'unità italiana, si studiò sin da sulle prime, distruggervi l'unità religiosa, che era l sola esistente, e per questo ha aperta la Penisola all'influenza del protestantismo. La società moderna, essendo basata sulla Chiesa, questa è la prima che soffre in ogni rivoluzione, ed in Napoli, vi è ancora una ragione più diretta. Nello spirito del popolo, il Re legittimo e la Religione si confondono; perciò era duopo dunque, per far dimenticare il Re, distruggere la Religione. Ed è per ciò che il governo ha fatto ogni sforzo per distaccare il popolo dalle sue avite credenze. Napoli è troppo vicino a Roma ed il nostro popolo, come ogni società cattolica, è vivamente interessata dell'indipendenza del Capo spirituale di sua Religione, (1)
(1)A proposito di ciò il deputato Ferrati
diceva, nel 4 luglio 1864, ai deputati: il Mezzodì è sempre stato per
Roma, riconobbe pur sempre l'alto dominio di Roma; e perciò è
impossibile staccarlo da Roma, che saporitamente si ride di voi.
214
Non
potendo dunque alterare essenzialmente ìa costituzione politica della
Chiesa, si è cercato, in Napoli, di scuotere le credenze del popolo con
gli esempi e con le seduzioni. Persone che domandano ad alta voce che
si tolga il Papa e che si ristabilisca Cesare, trovano tutto naturale
di formare quella turba salutatrice, che si prostrava innanzi a
Claudio, a Tiberio ed a Nerone. Non si osa dire quanto si osa pensare,
e gli uomini del governo non ardiscono forse pensare tutto ciò che
arditamente fanno: perché il governo italiano vuole che si faccia ma
non vuole che si sappia.
Sacerdoti secolari e regolari erano andati innanzi a Garibaldi ad innalzare grida frenetiche; si erano visti monaci, con la pistola e crocifisso in roano, far mostra della camicia rossa sopra la lor veste di saja. Ma il popolo, il vero popolo non aveva voluto vederli, e si rideva di tali sacrileghe buffonate. L'immensa maggioranza dei preti, specialmente, in Napoli, dava i' esempio di virtù degna del loro stato. Compresasi la loro influenza e riconosciutisi ostili, si stabilì di combatterli; lasciando all'uopo il governo, tutta la libertà ai nemici della Chiesa. li Padre Gavazzi, frate senza pudore e folle, non arrossì di predicare per le piazze e per le spiagge la libertà delle donne e dei connubi, il socialismo ed il mormorismo; (1) il Padre Pantaleo ardi tenere conferenze nelle Chiese, e fu applaudito dai sacerdoti apostati come un attore nel teatro, ed il Padre Giuseppe da Forino ed il P. Giordano neppur si vergognarono di farsi gli apostoli della rivoluzione e, dell'eresia. Frattanto una filosofia all'uso del governo, si serve della cattedra. Vi fu un tempo, Eminenza, in coi Colliris, Tindal e Bolingbroke divennero i dottori della vostra gioventù, là gioventù italiana comincia la sua carriera di educazione sotto Gavazzi e Pantaleo.
(1)Questa setta che comincia ad avere tanta
estenzione negli Stati Uniti d'America, è noto come sia intenta a
sovvertire tutte le basi della società cristiana
215
Il
governo, dal canto suo, non tralasciava impadronirsi delle Chiese per
ridurle. a carceri ed a quartieri. La bella. Chiesa della Vittoria, a
Palermo, fa mutala in scuderia! Ciò non era meno impolitico che empio.
Lo spoglio doveva precedere l'era della libertà: Garibaldi organizzò il saccheggio legale del santuario:, perché con un suo decreto abolì la compagnia di Gesù a datare dal giorno dello sbarco dei Mille. Ai termini di questa disposizione retroattiva tutti i contratti stipulati dopo lo sbarco, erano annullati! Si. soppressero i conventi,. concedendo le pensioni vitalizie ai Religiosi, si dichiarano le rendite vescovili devolute allo Stato, assegnando ai Vescovi un trattamento dì ottomila franchi. Questa abolizione arbitraria del concordato, era nello stesso tempo, un furto commesso in pregiudizio dei poveri. Il vostro Burke riprovava i furti di questo genere commessi dalla repubblica francese, dicendo che l'Inghilterra non vede alcun inconveniente nel possedimento di 10,000 lire sterline di rendita del Vescovo di Durham o di Winchester Esso con questi fatti diffamava un attentato contro la proprietà ed un tentativo contro la Religione. Egli è vero che quei decreti, furono sottoscritti con una incredibile prontezza, ma pure non vennero immediatamente eseguiti, sicché i conventi non ancora si sono soppressi di fatto.
Il governo di Torino non si fece scrupolo ad approfittarsi delle rendite confiscate, spogli vergognosi e manifesti, si prese le doti delle religiose, venendo dalle famiglie che le avevano costituite, nonché molti beni dei convenni provenienti dai legati o da altre pie fondazioni, per la qual cosa le proprietà private e le disposizioni testamentarie si trovarono alla, lor volta violate. Una commissione, sotto l'apparenza di un protettorato benevolo, prese possesso dei benefici vacanti amministrando i beni ecclesiastici, e passarli all'amministrazione dementarti. Si è messa la mano sopra i benefici, i cui titolari furono l'oggetto di piati giudiziaria specialmente sovra i beni dei Vescovi esiliati.
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Oggigiorno, l'affrancamento delle rendite perpetue prepara gli spiriti alla vendita dei beni ecclesiastici, indebolisce le ripugnanze delle coscienze e presentano viti incentivi alla Cupidigia. Pel momento, Questi beni servono per pagare i commissari incaricati a dilapidare' o per altri usi. I giornali ministeriali, gli attori ed i predicatori d'empietà, hanno ricevute pingue sovvenzioni su i fondi della Cassa ecclesiastica. Vi è di' si son pagati i commedianti di S. Carlino che rappresentato davanti la Corte l'entusiasmo della piazza all'arrivo del Re d'Italia; e, nell'inverno ultimo si son tolte le spese per i balli di palazzo.
Mentre che questi spogli, freddamente, e senza interruzione, si proseguivano, il governo si astenne di pagare le pensioni di alimento, o se or le paga lo fa con tale una inesattezza che il più delle comunità religiose soffrono la fame (1) La pensione di una religiosa è ridotta ad otto soldi per giorno, e parecchi monasteri non hanno ricevuto nulla dopo due anni! Il governo, con ciò, viene a contestare ai religiosi il diritto di vivere nella miseria. Si cacciano dai loro antichi è pacifici asili; (2) si è forzata la clausura, ad una quantità di monasteri, in Napoli, in Palermo, in Capua, in Aversa, in Bari ecc. ecc. (3)
(1) Quanto si disse dal Chiarissimo autore si è
appuntino verificato, e chi dubitasse a crederla interroghi la
Direzione del giornale l'Osservatore Romano e si faccia dire a quanti
monasteri di religiose si è soccorso per suo mezzo colle largizioni dei
buoni romani!...
(2)Nello sfratto dato alle religiose benedettine, in Isernia, i delegati del governo rigeneratore non ebbro neppure ritegno di cacciare dalla suo umile cella una monaca di anni 96, a nome Emilia Imperata, sorella del vecchio marchese di Spinete, e rimandarla a casa sua. Al saggio lettore si da il campo a riflettere...
(3)Secondo i calcoli recenti, dalla pubblicazione di questo libro, fin oggi, le soppressioni sono ammontate fino a 300 ed oltre. Con quali modi si preceda ad atti di simil natura il prova la soppressione recente del monistero di S. Giovanni, in Napoli!
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Più dì una volta la guardia nazionale si è negata a coadiuvare queste violenze, e spesse volte i superiori vi si sono opposti con una fermezza degna dei Martiri. A Napoli si voleano cacciare dalle loro stanze le Sacramentiste, le quali vivono di sola elemosina; e, perché si abbandonasse questo progettò, fu d'uopo niente meno, che lo sdegno del popolo pronto a sollevarsi. Intanto il governo avendo ottenuto con facilita una legge che lo autorizzava ad occupare a suo talento tutto le case delle corporazioni religiose, le converti ben tosto in caserme; e talvolta, per cacciarne i Religiosi, se ne sono abbattute le porte a colpi di scure, scalendosene le mora, e per contenere il popolo si è fatto uso di un insolito apparato di forze. Si numerano, dopo il 1861 fino ad oggi, in tutt'Italia, più di 200 case religiose invase; 13 o 14 mila religiosi dispersi, 164 collegiate spogliate, 121 conventi trasformati in caserme e 100 Chiese cambiate in magazzini (1) La maggior parte di queste invasioni hanno avuto luogo nel Regno delle due Sicilie. E quanti monumenti artistici, oggetti preziosi e biblioteche non si sono perdute.
La persecuzione ebbe principio fin dall'entrar dì Garibaldi; in Napoli, come nelle provincie, ecclesiastici d'un rispettabile carattere furono espulsi dalle loro parrocchie, e vennero esposti agli oltraggi di un popolaccio fanatico. Una moltitudine di Sacerdoti furono insultati, maltrattati nelle piazze, incarcerarti, e talvolta feriti a morte, Credendo che la resistenza del Clero di Napoli provenisse dall'Arcivescovo, Garibaldi ignominiosamente scacciò da Napoli il Cardinale Riario Sforza; ma il popolo essendosene commosso,
(1) Nella città di Venafro
la grandiosa Chiesa di S. Francesco dedicata alla Immacolata
Concezione, che per la munificenza del Re Francesco II era per prendere
il primo posto fra le regie dì Dio di quella Città, si è ridotta a
scuderia. Cosa che ha recato grande scandalo a quei buoni
cittadini!...
218
il dittatore
fece la voce che l'ammiraglio francese si era interposto e perciò il
Cardinale non più partirebbe. Fece pure, nella notte seguente,
illuminare gli appartamenti di Sua Eminenza per far credere alla
moltitudine che il Cardinale non era partito.
Il governo di Torino si era lusingato di formare nell'Episcopato e nel Clero un partito docile all'ispirazione dell'italianissimo, ma ingannatosi di trovarlo tale, alle suggestioni rivoluzionarie, risolvette perseguitarli a tutto potere. Il suo sistema di persecuzione è stato sempre permanente pel giro di tre anni, e lo è tuttavia, con una impassibile, ostinazione. Si era tentato l'indomani dell'entrata di Garibaldi, di saccheggiare il Palazzo della Nunziatura, ma la bandiera francese innalzata sulla porta intimidì i saccheggiatori, il governo di Torino permise però di scalarlo in pieno giorno, e di disperderne gli archivi. Dopo di avere invitato il Cardinale a rientrale nella speranza di far spiegare la sua influenza sul popolo, si cacciò di nuovo. Sotto il governo della conquista si diè principio all'ostracismo dei Vescovi d'Aquila, di Castellammare, d'Andria, di Sessa, di Teramo, di Patti, tutti i Prelati esemplari per la loro pietà e per la loro scienza, la più parte di un'età avanzata e facile a soccombere alle pene dell'esilio. Infatti quelli d'Isernia (1) di Bovino e di Sora
(1)Questo
Vescovo delle sedi riunite di Isernia e Venafro, da oltre a
settant'anni, fu esposte ad ingiurie di ogni natura. Egli fu
schiaffeggiato, sputacchiato, colpito con calci di fucili ed
imprigionato da quei furiosi, ira quali il Prefetto de Luca, il vice
prefetto Venduti ed altri. Se campò la vita fu per prodigio, poiché
quando $i voleva fucilare, giunsero le guardie urbane capitanate dal
traduttore e lo salvarono, respingendo l'orda demoniaca fino a Bojano,
già ridotta a frazione. Dopo l'invasione venne accusato da Iacopo
deputato, come uno dei promotori della reazione d'Isernia con tutti
quegli che hanno una rendita, non escluso il traduttore a cui il giorno
18 Giugno gli si è intimato ordine di costituirsi in carcere
219
morirono
per le ambascie. Se ne gittarono molti nelle prigioni, per esempio
Monsignor Frascolla di Foggia, Monsignor d'Ambrogio, Vescovo di Muro,
gli Ordinari di Reggio, di Sorrento, di Rossano, di Capaccio e di
Angiona. Si strapparono con violenza dalle loro sedi il Vescovo di
Avellino, Monsignor Gallo, l'Arcivescovo di Trani Monsignor Bianchi,
l'Arcivescovo di Salerno, i Vescovi di Lecce, di Nardo, di Acerenza e
di Gallipoli. Quei di CasteIlaneta e di Teano furono assaliti e feriti,
e se furono salvi, deve attribuirsi ad un miracolo. Il P. de Cesare,
Abbate di Montevergine fu colpito da sette palle di fucile. Esso
miracolosamente scampò fa morte, ma i due imputati di questo agguato
furono impiegati dalla rivoluzione nell'amministrazione della Cassa
ecclesiastica! La totalità, quasi dei Vescovi del regno si sono
rifugiati in Francia ed in Roma, o pure trovansi rilegati a Genova ed a
Torino, Quando le popolazioni ne domandano il ritorno, il governo
risponde, che i Vescovi sono liberi di ritornare, ma consiglia in egual
tempo a questi Prelati di non esporsi, ed intanto sequestra le rendite
degli assenti.
Un gran numero di Sacerdoti si arresta, ed i processi s'intentano a coloro che non vogliono ubbidirebbe alla loro coscienza, i quali si trascinano sulla scranna dei rei per condannarli a forti ammende,. alla prigionia ed alla reclusione: il Vicario della Cattedrale di Napoli, il Vicario Foraneo di Procida; il Vicario di Reggio se ne son dovuti fuggire per aver scritto in una circolare: preghiamo pel nostro assente Pastore; e molti altri sono stati messi sotto processo per aver pubblicata senza exequatur la bolla della Crociata, che è stata sempre esente
per esser giudicato (tome distruttore del governo... Si domanda al proc. Gle. Sig. Clauri quale governo esiste va, in Isernia, quando il traduttore e tutti quei che fan parte della gigantesca e maravigliosa causa, erano colà? L,. Se vi era il governo del Re legittimo, come dunque poter essere condannato da un governo invasore?... Il Sig. Clausiche per la borsa, ha fatto molto sfoggia di eloquenza
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da questa
formalità. Il Vescovo d'Eumemia sì è visto accusato d'aver indirizzata,
una lettera d'esortazione agli alunni del suo seminario... ed il
seminario è stato chiuso. Il prefetto di Avellino (1) di Foggia e di
altre provincie hanno poeto il Clero sotto una sorveglianza, la più
tirannica ed oltraggiante della polizia. La persecuzione non si
risparmia neppur dinnanzi le tombe: si è fatta opposizione ai funerali
di un pietoso arcivescovo, quello d'Amalfi; molti a guisa di furie,
entrarono in Chiesa e sopra la spoglia mortale si precipitarono a guisa
di avvoltoi. Si è creduto scuotere l'immaginazione del popolo facendo
interrare nel cimitero comune l'arcivescovo di Capua e il Cardinal
Cosensa, che aveva bene il dritto di riposare nel suo Arcivescovado,
per la cui restaurazione aveva speso più di 400,000 franchi. La carità
di questo Cardinale si passava in proverbio; poiché donava fino la ava
biancheria a poveri, al punto stesso di mancarne al bisogno. Ah! se in
Inghilterra vi sono uomini che non sentono una molto viva simpatia per
la persona dei nostri Vescovi e dei nostri sacerdoti cattolici, io gli
direi come un illustre oratore alla Camera dei Comuni, (2) che siano
almeno molto Inglesi nei loro sentimenti per accordare questa simpatia
a chiunque è trattato ingiustamente sia cattolico, sia protestante,
ed ha mostrata una meschinità di Logica, pria riscontri e poi sputisentenze, ed innesti centoni di versi da lui non mai compresi. Si vegga la requisitoria del 4 Luglio e seguente, sulla causa della reazione d'Isernia.
(1)Questo Prefetto, speziale in origine, ha meritate una grande celebrità, sia per le per seduzioni contro i pacifici, sia per essersi condotto egli stesso a caccia, colle armi alla mano de’ reazionari, sia pel processo contro di lui intentato perché più atroci persecuzioni suggeriva al ministro anche contro gli uomini delle rivoluzioni, consigliando dì sospendere lo Statuto.
(2)Tutti ricorderanno queste generose parole di Lord Lénnox alla Camera dei comuni, nella seduta degli 8 maggio 1862
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sia
sacerdote, sfa laico! Se il vostro Clero non conosce ancora
settembriadi (1), è perché il tempo ed il bisogno della tutela
straniera vi si opposero.
A perseguitare con tutta la forza i preti ed i religiosi si son dati opera a torturare le coscienze. Garibaldi aveva accordato il libero esercizio ai culti calvinista, greco ed anglicano. Questa concessione poteva essere ignorata dal popolo, ma i sentimenti e le pratiche del P. Pantaleo e del P. Gavazzi non l'erano. Quando si sparse la voce che l'ultimo di codesti apostati andava a predicare al Gesù Nuovo per convertirlo in tempio protestante, il popolo si credette come insultato nella sua religione, e si precipitò nella Chiesa con tale uno furore che si ebbe a durar molta fatica per liberarne il monaco apostata. A Modica, in Sicilia, le donne del volgo, armate di coltello si opposero al discorso d'un cattivo prete, divenuto fautore dell'eresia, (2) E lo Statuto piemontese proclama la tolleranza religiosa! I nuovi Longobardi hanno cambiato il titolo di Ministro degli affari ecclesiastici in quello di ministro dei culti. Questo ministro ha recentemente scritta (3) una circolare colla quale obbliga a riconoscere i. matrimoni degli acattolici, in un paese dove
(1) Si crede superfluo il qui descrivere le
stragi dei preti francesi ohe furono scannati nelle carceri di Parigi
per comando della Comune. Da quel tempo i carnefici di quei giorni
nefasti furano sempre disegnati sotto il nome di settembridi, dai primi
giorni di Settembre in cui avvenne quell'orrenda carneficina.
(2)Un fatto simile avvenne in Barrea distretto di Costel di Sangro, dove l'arciprete minacciava, di maledire il popolo se si mostrasse avverso al nuovo regimento. E questa minaccia accompagnava sventolando dal pulpito la bandiera di Savoja. Il popolo insorse ed ei non campò la vita che colla fuga, lo stesso avvenne in Bagnoli, ma il prete fu ucciso.
(3) Il ministro a cui qui si accenna è il notissimo Raffaele Conforti, ministro perenne e imperituro perché ha preso i settanta due mila ducati, come si accennò in altra nota, essendo che nell'esilio era da considerarsi
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non
si son mai riconosciuti che le unioni celebrate innanzi alla Chiesa. Si
riconosceranno ben presto i matrimoni (lei Turchi e de’ Mormoni. (1)
Intanto dite sacerdoti si son maritati pubblicamente innanzi
l'ufficiale civile ed il governo ha dato la pia grande pubblicità a
questa unione sacrilega:
Indarno settantasette vescovi hanno indirizzate le loro rimostranze al re d'Italia ed invocato lo Statuto. Malgrado ciò, come mai si può fare dimenticare ad un popolo le sue tradizioni, come mai affievolire le sue credenze e le sue memorie per distaccato da Roma?
La religione del popolo, in Napoli, aveva una forza indipendente dalla protezione del governo; e perciò la tolleranza di tutti i culti doveva necessariamente incontrare molti ostacoli. Il potere non vede dunque altro mezzo che di accordare il suo protettorato agli energumeni, come i Gavazzi ed i Pantaleo, ed a tutti li sfrontati, a quali si concede piena ed intera liberti di predicare, di profanare e di rinnegare come meglio loro talenta, e così, il desiderio di volere uomini capaci ad eccitare tutte le passioni odiose, viene ad essere appagato col trovarli. I sacerdoti cattolici, frattanto, nulla avevano perduto di dignità e di attaccamento; ma si videro privati dei gradi appartenenti al loro carattere. Il governo ritenendo come un abusala libertà cristiana per la predicazione si sforzò in mille modi per incatenare la parole di Dio, che non deve essere legata.
Una circolare del Ministro Conforti aveva annunciato ohe sarebbero puniti tutti gli ecclesiastici che, nel pulpito, si mostrassero nemici della causa nazionale; e più tardi con altra circolare, fece sentire che
come ministro in partibus. Non avrebbe egli voluto a caso con questa circolare ringraziare il governo del danaro intascato?...
(1)Non si è lontano dal vedere avverata la profezia se si leggono le discussioni del parlamento intorno al matrimonio civile e le dimande degli Ebrei per essere interrati, a spese dei municipi, nel cimiterio cattolico.
233
non bisognava confondere la religione con i suoi ministri, punibili in egual modo che tutti gli altri cittadini Nel tempo stesso esortò la Corte criminale ad agire a tutta severità contro i preti e contro i ve&covi convinti di tendenze politiche contrarie all'intenzioni del governo, e raccomandò d'incoraggiare i preti ribelli ai loro Vescovi ed infedeli ai loro doveri verso la Chiesa. La posterità dorerà molta fatica a credere a queste circolari del 10 Aprile e 3 Luglio 1862. Questo stesso guardasigilli, poco dopo, senza ritegno veruno, propose, al parlamento italiano, la famosa legge con cui si ordinava mettere la Chiesa nello stato di assedio.
Frattanto, i predicatori non hanno giammai, né in Napoli e né altrove, sollevalo il popolo contro il nuovo potere. Essi combattettero non da pubblicisti, ma da teologi la politica attentatoria atta morale ed ai dritti della Chiesa e spiegarono tutta la prudenza e moderazione possibile, sì nel pulpito che nelle relazioni private.
Però con tutto questo nulla poteva disarmane un potere ombroso da non aver il secondo, un potere accanito contro uomini il cui ideale era la patria, la conservazione della religione, dell'idee e dei sentimenti, su dei quali l'ordine sociale aveva sempre riposato. Esso vedendo che la Legge, anche travolgendola, non gli dava niun dritto d'incrudelire contro di loro, si decise. a tollerar, ed a favorire gli ammutinamenti, ed al bisogno, esso stesso, li preparò, e per cosiffatto modo si videro forsennati scagliarsi contro i sacerdoti, e strappanti dagli al lari e dai pulpiti, maltrattandoli e spogliandoli de’ loro sacri arredi. Nella Chiesa di Monserrato, in Napoli, si gittaròno sul sacerdote nel momento dell'elevazione e lo rovesciarono bruttamente sui gradini dell'altare. Nella parrocchia di Torre del Greco; furiosi spogliarono dei suoi ornamenti l'immagine della Vergine, e l'abbigliarono alla garibaldina, portandola in processione (1).
(1)Per questo insulto alla SS. Vergine è duopo ricordare a Cristiani quel che avvenne, e che i rivoluzionar
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Se
il governa non fu l'istigatore di tanti e tali sacrilegi, fu
impassibile però in vederli consumare; Noi focciamo la parte del morto!
dicevano le autorità sorridendo
Intanto, queste violenze non fecero che dare ai predicatori la popolarità dell'infelice, e l'ascendenza sui successi. Il P. Cocozza, domenicano, insigne oratore, scelto a predicare la quaresima del 1862 nella Chiesa di $. Severino, vicino all'Università, fu insultato, durante un suo discorso, da una turba di studenti di dritto e di medicina. L'uditorio intero si sollevò come un solo uomo ed una lotta accanita s'impegnò tra quei giovani liberi pensatori, ed il popolo, i due partiti s'ebbero ben presto rinforzo, si assediò l'Università, e vi erano di già feriti 9 morti quando le autorità, indolenti spettatrici di tenta violenza, intervennero finalmente, spaventate dalla sempre crescente irritazione del popolo. Durante la lotta, furono visti uomini del potere passeggiare per colà, come da semplici spettatori, serbando atteggiati a letizia e volti ed a sorriso le labbra. Il predicatore fu messo in carcere, ove, por quattro mesi, aspettò la dichiarazione della sua innocenza! Queste stesse violenze si ripetettero nelle provincia, e dapertutto ove si temeva l'efficacia dell'evangelica parola.
Ed in questo modo s'interpreta la formola di Chiesa libera in stato libero! Ecco, Eminenza, i modi ed i mezzi con cui il Piemonte vuole moralizzare il Regno di Napoli.
chiamarono caso; Mentre
questi liberali alla moda cacciavano in processione la prodigiosa
Immagine dell'IMMACOLATA con quell'abbigliamento del filibustiere
l'orizzonte si cominciò ad intorbidare, e quando la processione era
presso a rientrare, un cupo e spaventevole rombo si sentì per l'aere. I
liberali che fino a quel momento sfidavano anche gli elementi, si
atterrirono, si spaventarono e quasi si pentirono; ma... tutto era
tordi, giacché il Vesuvio, spalancate le sue voragini, vendicò
l'insulto, insegnando con ciò agli empi che con Dio e con i santi non
si scherza. I buoni abitatori di Torre del Greco ne son testimoni!....
225
La
pretesa rigenerazione ha generato da per tutto la dissolutezza dei
costumi, il disprezzo del culto, l'odio dell'autorità, il furto legale,
l'omicidio e la schiavitù. E questi sono i missionari ardentissimi
dell'indipendenza italiana, che sono divenuti gli strumenti più attivi
della servitù del paese! E' possibile mai che quest'opera d'iniquità
sia stata, innanzi al popolo inglese, paragonata alla splendente
comparsa del sole, che sorgendo con tutto il suo splendore,
contrasterebbe gloriosamente con l'oscurità che avrebbe subito
dissipata. (1) Le persone oneste sono state colpite da orrore a questo
tratto d'amara ironia. Ma (Inghilterra non chiuderà sempre gli occhi
all'evidenza. Iddio non benedice i disegni contrari alla sua giustizia,
e né permette per lungo tempo che la società cammini per vie diverse da
quelle che la sua previdenza le ha assegnate. Io vi scrivo, Eminenza,
in mezzo a queste eloquenti rovine di Roma, che s'innalzano, dopo
secoli a' testimoni della giustizia divina. Noi siamo stati ricondotti
ai tristi giorni del secolo XII ma non dimentichiamo che le dottrine di
Arnaldo da Breccia sono state disperse come le ceneri di quel temerario
turbolento.
Roma li 13 Agosto 1863
(1) Questa splendida similitudine si deve all'eloquenza d$l sotto segretario di Stato sig. Layard. Il traduttore sarebbe curioso di sapere se nell'ultimo suo viaggio in Napoli, ei fosse stato abbagliato dallo splendore di quel sole di mezzodì che egli aveva visto spuntar su Napoli dalla Camera dei Comuni.
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L'idee
astratte, le innovazioni dopo un ideale preconcetto, ripugnano al
carattere della vostra nazione. Non si è mai accusata la politica
inglese d'imprevegenza e di sacrificare il. presente ad un avvenire
problematico, Principalmente, dopo l'epoca di Chatham e di Burke, la
vostra politica è una politica essenzialmente pratica e dominata dalle
esigenze dei fatti. L'esperienza che l'Europa ha fatta nelle gesta
della demagogia, ha permesso all'Inghilterra di rimanere, nel 1848,
fredda e tranquilla. Il disprezzo delle teorie, appresso voi, è giunto
al colmo. Si comprende in Inghilterra, che né l'intelligenza d'un
legislatore, né la spada d'un eroe saprebbe affrancare una nazione, e
che non si decreta più l'unità e l'indipendenza d'un popolo, e cl&e
non gli s' improvvisa la qualità di cui manca. Or, la Gasa di Savoja e
la rivoluzione non hanno consultato che le loro cupidigie, senza
preoccuparsi di rimanere nei limiti del possibile.
l'Europa e la storia non dimenticheranno giammai i vostri nobili sforzi per impedire la guerra del 1859 ed i saggi consigli che voi vi sforzate di fare intendere. Un accordo amichevole sarebbe stato apportatore di uno scioglimento più pronto, più soddisfacente e più duraturo della quistione italiana. Voi dichiaravate, che l'Inghilterra vedeva con dispiacere turbar la pace di Europa; che l'Inghilterra rispetterebbe e farebbe rispettare gli esistenti trattati, che una nuova ripartizione territoriale non si saprebbe effettuare senza il consenso delle potenze segnalane del congresso di Vienna. I trattati del 1815 avevano assicurata la pace più lunga, di cui si avesse memoria, e nella vostra opinione,
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essi rispondevano ancora al loro scopo primiero. Disgraziatamente, scoppiò la guerra con l'Austria e nel sul termine si fece supporre che la quistione italiana era risoluta. (1) Si dice presso voi se questa unità dell'Italia, nel cui nome si erano prese le armi, poteva convenire all'Inghilterra! Per me sta che no; perché la sua secolare rivalità colla Francia, suggerì altre volte all'Inghilterra l'idea di creare a pie delle Alpi, un regno ostile alla sua vecchia nemica: ma questo progetto era del 1801, in tempo della terza coalizione, era questa un'idea da Pitt molto accarezzata. Ora, quest'idea può o no mettersi in pratica? Le guerre della repubblica, del consolato e dell'Impero non hanno fatto dell'Italia che un informe regno, il quale cadde col cader di Napoleone! l'unità dell'Italia una volta realizzata, il Piemonte, barriera messa dall'Europa tra la Francia e l'Austria, scompare dalla carta europea, egli è vero che si è creato uno Stato assai forte per disputare alla Francia il passo dell'Adige, ma questo Stato medesimo va a lanciarsi dalla Lombardia sul Danubio. Non si è già compresa la necessità d'interdirgli l'accesso dell'Adriatico? Nel progetto di Pitt, d'altra parte, il regno d'Italia doveva ricevere una costituzione federativa, ed è importante di non perdere di vista questo punto principale. In presenza di una rivoluzione che andava a sconvolgere la Penisola, si sarebbe dovuto raffermare la monarchia nell'Italia meridionale, ma non seppe ripararsi lo sbaglio del 1848. L'unificazione dell'Italia, producendo nel bacino del Mediterraneo la distruzione dei piccoli Stati che avevano una marina limitata ne risulta un regno compatto con estese coste, con bei porti e con eccellenti marinari al fianco della Francia, e sulla medesima linea che la Grecia e la Spagna.
(1)Ed in fatti così era; perché dopo i preliminari di Villafranca tutto si credette assodato, e chi legge il Moniteur di quell'epoca trova una manifesta contraddizione da quel che si disse con quel che si è fatto. L ambizione della Casa Savoia rovinò l'edificio di pace che a Zurico era costruito.
228
Or, questo regno chi vi
assicura che sarà sempre l'amico dell'Inghilterra? Non può esso
divenire I' alleato della Francia, che di già possiede l'Algeria? Il
Mediterraneo non sarebbe allora un lago franco-italo che vale lo stesso
dirlo francese? (1)
Voi avete per tradizione di riunire intorno alla regina dei mari gli Stati di second'ordine. Nello stesso modo che l'antica Francia testimoniava la benevolenza agli Stati secondari dell'Allemagna, l'antica Inghilterra si teneva di conto certi Stati dell'Italia. Ogni Inglese imbevuto delle idee nazionali, riconosceva la necessità di avere l'influenza sul Portogallo, una cordiale intelligenza col l'Olanda e l'amicizia del regno di Napoli. Questa politica vi manoduce nei porti di alta importanza. Nelson, per esempio, ha potuto, dopo la battaglia d'Àboukir, ripararsi in quello di Siracusa. Perché dunque rinunciare a queste tradizioni?
Il governo brittannico voleva promuovere riforme legittime nella Penisola, e stabilirvi una civiltà modellata sulla sua propria! Felice il nostro secolo se non avesse prodotto che tali disegni! Ma una strana politica è quella che vuole profittare della febbrile inquietezza dei popoli per migliorarne le leggi. Nello scopo di riformare l'Italia si è fatto ritorno alla politica del 1848. Per far cessare uno stato di cose, giudicato eccessivo, non era bisogno che di questa vecchia autorità che concilia l'imparzialità e la moderazione, di questa giustizia eterna che è il primiero sostegno dei Re e delle Nazioni. Soddisfare agli obblighi dei trattati senza prolungare gli ostacoli alla pace, era questa cosa difficile, e che poteva muovere alla politica Inglese? La politica raffinata al dir di Burke, che si è ritenuto per un gran medico politico, è stata sempre la madre della confusione e sarà tale finché cielo e terra esisteranno.
(1)La storia ci rivela che spesse fiate Napoleone I aveva detto voler fare del Mediterraneo un lago francese!...
229
Vi
era della prudenza di seminare nelle vostre colonie l'idea di
nazionalità, che provoca doglianze e più tardi insurrezioni? Io già
diceva a me stesso, nel 1830, se i vasti possedimenti dell'Indo vi
rimarrebbero sempre sommessi, le frontiere dell'impero brittanico, in
Asia, rimarrebbero consìderabilmente tirato in dietro, la battaglia di
Goudyerat e la disfatta di Sykhs sembravano aver tutto sommesso
all'Inghilterra; ora, voi sapete che cosa è avvenuta di poi. Io diceva
a me stesso, se le lagnanze ed i reclami del Canada e delle isole Ionie
sarebbero sempre vane, il movimento democratico, eccitato dalla
vicinanza della Grecia ed il sentimento della nazionalità avevano già
strappate ai Ioni parole di malcontento, ed avevano prodotto la rivolta
di California. Ed ecco, che 12 anni dopo la pubblicazione dei miei
dubbi (1), l'Inghilterra fa I annessione delle isole Ionie alla Grecia.
Se un bel giorno il Canada cede alla tendenza che l'attira verso i
Stati-uniti, si rinnoveranno le scene di S. Dionisio e di S. Carlo
contro la popolazione d'origine francese? Si crede non aver mai a
risentirsi, nell'interno delle sommosse prodotte in Europa? Non è che a
rammentarsi di Giorgio Gordon che venne soprannominato il Giovanni di
Leyde del suo secolo. È vero che questo fu un episodio straordinario,
ma mi ricordo di una caricatura di Gilrays che rappresentava Price,
Paine e Priestley, soffiando la rivoluzione dall'alto della cattedra.
(1)
(1)L'opera a cui qui accenna l'autore portava questo
titolo Coup d'oeil sur la situation de la Sicile en 1847, par Pierre C.
Ò Raredon, Genéve. In essa a pag.218. si ritrova quanto qui si ricorda;
ed in quest'opera trovasi pure la profezia che i torbidi di Europa si
sarebbero risoluti in una guerra in Oriente. Tre anni dopo, la guerra
scoppiò,
(1) Tra le molte caricature stampate e dipinte vi
ebbe questa di Gilreys, che dipingeva tre famosi demagoghi del suo
tempo, i quali soffiavano la rivoluzione della cattedra protestante.
230
Non
si dimenticherà la formola della vostra liturgia che terminava i loro
sermoni. L'uomo saggio o Milord, diffida della fortuna e non perde
giammai dì vista che lungi di dirigere gli avvenimenti, noi siamo quasi
sempre trascinati da loro.
In Italia, la politica Inglese ha potuto avere un viso ma ha avuta una fisionomia? I fatti ultimi hanno sovente smentito le preveggenze dei politici, e più spesso ancora la (orza degli avvenimenti ha violentato i loro disegni. Impiegare mezzi onesti per serbare un giusto orgoglio innanzi ai contemporanei ed alla storia, è sempre una bella cosa. La previdenza la più elementare» era bastevole a prognosticare che in seguito dei torbidi, in Italia, e dei mezzi adottati, un soffio violente di rivoluzione incendierebbe, passando, tutta l'Europa.
Dopo la pace di Villafranca, transazione completa e soddisfacente, (se ella fosse stata attuata) poteva essa realizzare l'unione italiana colla federazione, il Piemonte si nascose dietro la rivoluzione per distruggere tutti i trattati l'uno dopo l'altro. Esso sollevò l'Italia centrale provocò r annessione, invase il regno di Napoli e lo soffocò nella culla stessa della sua libertà. Il Piemonte intervenne sulle prime diplomaticamente, dopo coll'ajuto dei mezzi rivoluzionar!, ed infine a mano armata, tenendo sempre per iscopo l'ingrandimento del suo territorio; ed in tal modo la casa di Savoja ha lacerato quei trattati, a cui doveva la sua ristaurazione e l'ingrandimento di sua potenza. Ma, secondo le vedute degli uomini di riflessione, esso non ha faticato che per scavarsi la fossa e seppellirvisi. Ciò che doveva nuocere innanzi tutto al regno d'Italia, ciò che doveva fatalmente perderlo, era la sua origine; la sua origine doveva renderlo alla rivoluzione, donde era sortito, ed il regno di Napoli doveva trascinarlo nella sua rovina per sua propria gravita.
231
Non si è potuto nel vostro parlamento, paragonare i torbidi ed i disordini, che accompagnano l'opera della unità italiana a quei che seguirono l'annessione delta Scozia e dell'Irlanda all'Inghilterra. Si dimenticava dunque che sì l'Irlanda che la Scozia uguagliando tutte e due ritenzione dell'Inghilterra, esse erano infinitamente inferiori a questa sotto il rapporto della popolazione, della ricchezza e della civilizzazione? La Scozia era stata ritardata dalla sterilità del suo suolo e l'Irlanda era ancor coverta dalle tenebre del medio evo. Lo stesso però non era anche pel regno di Napoli, che formava quasi che la metà dell'Italia, e che aveva sul Piemonte un'incontestabile superiorità di ricchezze territoriali e di coltura intellettuale. La Scozia, addivenendo parte integrale della monarchia brittannica, conservò tutta la sua dignità, e diede all'Inghilterra un re invece di riceverio, essa conservala sua costituzione e le sue leggi; i suoi tribunali rimasero indipendenti, e se la Scozia, malgrado ciò, fu, durante più d1 un secolo, trattata presso a poco come una provincia sottomessa, ciò avvenne perché questa è la sorte dei paesi annessi ad un altro Stato che gode risorse di gran lunga maggiore alle proprie. La sorte dell'Irlanda è toccata al regno di Napoli.
Vedete la crisi inetti si dimena l'Italia; essa viene ad entrare in una nuova fase. La causa del Re di Napoli, nel 6. Settembre 4860. fu dichiarata perduta. L'armata si ritirava dietro il Volturno e Gaeta diveniva il campo di asilo per gli uomini attaccati ad una monarchia forse alla vigilia di scomparire; e questo campo era l'ultimo baluardo delle resistenze nazionali contro l'invasione trionfante. Francesco II aveva saputo mostrarsi al mondo come un Re che deve difendere la sua corona, ma non si aveva per lui e per i difensori di Gaeta che una sterile ammirazione. Tutti i vecchi principi erano cassi, e da per tatto il dritto pareva vinto. Vi sonoancora uomini, che non s'inchinano meno innanzi ai bravi che n'erano stato gli ultimi ed eroici difensori; ma il potere, la forza e gli omaggi restavano il retaggio esclusivo di coloro
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che
si erano volontariamente ed ignominiosamente disonorati col tradimento.
Eh bene! due mesi non erano ancor scorsi che si fremeva di già alla
idea di vedere il regno convertito in provincia, dopo 8. secoli
d'indipendenza. L'irreligione, I immoralità, l'abbrutimento degli
spiriti, il disordine dell'amministrazione, la cupidigia, la guerra
civile in permanenza, la bancarotta in prospettiva, ecco Io spettacolo
di tutti i giorni che accresce la disperazione e nudrisce lo spirito di
vendetta! Gli avvenimenti ebbero ed hanno la cura di giustificare
ancora le funeste apprensioni degli uomini gravi e dei cuori onesti. Le
popolazioni sembrarono per un istante contare sopra l'unità d'Italia,
ma I' egemonia piemontese non tende che a vieppiù disunire. Ed intanto,
i partiti van d'appresso ai loro sogni con una franchezza ed audacia
indescrivibile. Il partito unitario, geloso del suo potere e della sua
influenza non ha altro in sostegno che il governo, e non impiega per
assicurare un'esistenza regolare e definitiva che, il terrore e la
violenza, cosa che un giorno indubitatamente lo perderà. Il partito
garibaldino, erede delle opinioni e delle tendenze unitarie
nell'interesse della repubblica, più esaltato nelle sue passioni e più
focoso nelle sue idee, abbandonato per un momento nell'isolamento, si
riorganizza nella credenza di un nuovo rivolgimento rivoluzionario. Il
partito legittimista accresce sempre le sue forze per la generale
disperazione e per la ferma fiducia che sarà d'uopo in fine rialzare da
tanti disastri e da tante rovine i troni che rappresentavano il bene,
il nobile, il giusto.
Gli avvenimenti, Milord, non hanno essi molto ingannato, fino ad oggi, gli uomini più saggi in politica? Non li hanno disordinati nei loro calcoli? Si ha una ripugnanza di darsi una mentita? Ma, quando le nuvole si addenzano sempre più sull'orizzonte, il dovere delle sentinelle è di annunziare l'imminenza della tempesta, e quello dei navigatori è di schivare a tempo il pericolo.
Oggigiorno, come nel 1831, la quistione polacca
233
minaccia
di prendere le più gravi proporzioni, oggigiorno, come allora, la S.
Sede lotta contro lo scatenamento» delle più cattive passioni. La
rivoluzione italiana, oggidì ancora, pretende combattere a nome della
nazionalità e compromette l'equilibrio europeo. In Europa, in America,
e da per tutto vi sono cause di perturbazione e di conflagrazione
generale. Quali diffidenze, quali rancori, quali rivalità possono
dunque impedire a gabinetti di riunirsi, quando un grande interesse
europeo, un interesso d'umanità e di civilizzazione, si trova in causa?
l'Italia, sotto l'egida potente del patrocinio europeo, potrebbe
riconquistare la stia indipendenza e ricuperare poco a poco la sua
forza e la sua prosperità. L'Inghilterra ha sempre esercitata una
grande influenza sugli affari del mondo, perché essa ha un interesse
evidente per esporsi all'ingrandimento illegale di ogni potenza del
continente. Non invoca essa sempre, ed anche in questo momento i
trattati esistenti? E potrebbe essa permettere più a lungo la
distruzione di questo sistema difensivo, che, a costo di tanti
sacrifizi ha contribuito a stabilire in Europa? Vedrehbe essa più lungo
tempo tollerare il servaggio di un popolo cosi antico come il popolo
napolitano? l'Inghilterra, che ha lottata si lungo tempo contro la
rivoluzione francese, soffrirà mai che la rivoluzione italiana prenda
divertimenti nel regno di Napoli, per cui il popolo vi perde il suo
splendore la sua prosperità e sia anche la coscienza di sua autonomia?
vedrebbe essa con occhio indifferente la disparizione di quella
Dinastia dei Borboni, che è stata sempre la sua fedele alleata in
Italia? Ma si potrà rispondere: ed il non intervento! Nei preliminari
di Villafranca, opera di necessità politica, anzi che di preveggente
moderazione, si è stipulato che ogni intervento per l'esecuzione del
trattato era interdetto. Questo era l'interesse del famoso protocollo
D'Aix-la-Chapelle. Rispettare i dritti che hanno gli Stati di
governarsi come loro meglio talenta, e non intervenire
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in niuna parte per ogni caso, era un principio spesso stabilito, ma giammai accettato: la pace di Villafranca l'ha proclamato in favore dell'Italia; lasciandosene la responsabilità,, delle sue future risoluzioni. Ma questo principio, che poteva essere ammesso allorchè si trattava di cambiamenti intimi in uno Stato già esistente, non poteva essere invocato, quando era quistione di rimpasti territoriali e di creazione di nuovi Stati che andavano a turbare le condizioni dell'equilibrio europeo. Questo principio non può giammai ricevere un applicazione assoluta. Vi sono delle circostanze in cui la condotta delle nazioni che circondano un popolo, può compromettere la situazione dei suoi propri affari; non intervenire sarebbe una debolezza. L'Inghilterra era di questo parere a Troppau ed a Laybach, perché essa riconosceva ii dritto d'intervenire in ogni Stato, quando la sua sicurezza ed i suoi interessi essenziali sono minacciati in una maniera seria ed immediata per gli avvenimenti interni d'uno Stato. Ai suoi occhi, questo dritto non poteva essere giustificato che per la più urgente necessità, e deve essere limitata e regolata dalla medesima necessità. Intervenire allora, è difendere il suo dritto e quello di tutti; perché vi esiste tra gl'interessi politici degli Stati una connessione manifesta. Nissun Re, nissun popolo non deve né domandare né sperare un appoggio estero nell'interne agitazioni dello Stato, ma tutti 1 Re, tutti popoli hanno il dritto di domandare la garenzia di quelle leggii internazionali che non permettono a niun governo di violare il dritto pubblico, sol per voglia di appagare le sue ambizioni. Questo è pur anche un dritto naturale inerente al dritto della legittima difesa. Sì fa conto sul tempo e sol non intervento per distruggere la propaganda rivoluzionaria, impaziente di ogni freno ed ogni autorità? (1)
(1)Il tempo in fatti, ha mostrato quanto
male ha portato sulla Religione, sulla morale e sulla giustizia la
proclamazione del non intervento; ma il tempo stesso non
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Si vuole che là il delirio patriottico nazionale divenga una causa di generale conflagrazione?...
Albano, li 27 Settembre 1863.
ha trasandato di mostrare per qual fine si era proclamato... Col rispetto di esso doveva l'Europa allagar si di sangue, col rispetto di esso doveva togliersi ogni principio di religione, di giustizia e di dritto, col rispetto di esso in fine doveva formarsi della società un caos spaventevole, in mezzo al quale, una mano ignota, rimpostando i rottami della società e le reliquie dei troni né formava un mondo tutto nuovo. Sul non intervento il traduttore ne ha a lungo parlalo nella sua confederazione italiana, non che nella sua Roma e le menzogne parlamentari. Sia siccome la proclamazione di questo nuovo dritto è una fante inesausta di meditazione, cosi ha deciso di parlarne ex professo con apposito lavoro, in cui mostrerà essere esso un ritratto della rivoluzione, suggerito da Satana.
236
A Lord Derby
Milord
II
dispotismo a quel che io veggo, disse lo stesso Luigi XIV, non è buono
a nulla; perché tende a forzare un gran popolo ad essere felice, Che
dire del dispotismo che ha voluto obbligare, colla spada alla malto, il
popolo napolitano ad essere felice! Presso voi una conquista collocò il
Duca di Normandia sul trono dell'Inghilterra; ma questa conquista
liberò in tal modo tutta la popolazione inglese dalla tirannia della
razza normanna; la conquista d'una nazione fatta da un altra fu
raramente più completa. Ma se i Piantageniti riuscirono in tal modo a
riunirla alla Francia sotto il loro scettro gli è probabile, che
l'Inghilterra non avrebbe giammai avuta indipendente esistenza. Che che
ne sia non si ha avuta una battaglia di Hastings nel regno di Napoli; i
Napolitani non sono gli Anglosassoni del secolo XI. Tre anni sono già
decorsi dall'invasione di Garibaldi e la caduta di Gaeta; se la scure
rivoluzionaria può abbattere un trono, e la spada di un nemico può
cancellare una Monarchia dalla Carta di Europa, una nazione, Milord,
non si distrugge, affatto. Se per impossibil caso, essa venisse a
scomparire dopo una lunga oppressione, per quanto tempo l'Europea non
ne sarebbe turbata ed agiata?.. E l'Inghilterra non avrebbe un giorno a
pentirsi a aver permesso l'assorbimento di un principato e d'un popolo
che furono continuamente amici degl'interessi inglesi?
La Monarchia di Carlo III, sebbene unita dai legami e dai patti di famiglia alla Francia ed alla Spagna, non rivolse giammai le armi contro la Gran Brettagna. Sullo scorcio del secolo passato, per aver voluto seguire la fortuna dell'Inghilterra, i Sovrani di Napoli, furono costretti ritirarsi, in Sicilia, come i principi normanni ed aragonesi l'avevano già fatto,
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nei tempi di
anteriori invasioni. Videsi il regno messo a fuoco ed a sangue dalle
falangi repubblicane e dalla guerra civile. Pochi anni dopo, per essere
rimasto fedele all'alleganza inglese, nuove falangi francesi lo
costrinsero una seconda voi ta a far ritorno su quell'Isola, ove rimase
per dieci anni privato delta più bella parte del suo regno. Durante un
tal periodò di dieci anni, i suoi soldati combattettero per la causa
inglese^ i soldati napolitani si portarono, sotto la bandiera
britannica, a combattere in Ispagna contro altri sol dati napolitani,
che seguirono le aquile francesi. Era questa la guerra civile italiana
che si era trasportata nella ispana penisula. Che cosa raccolse mai,
questo Sovrano di tanti sacrifici, di tante disgrazie e del suo
esigilo? Egli non fece parte del congresso di Vienna, non ricevette
alcun accrescimento di territorio e si vide anche spogliato d'una parte
de' suoi domini. Nel mentre che i piccoli principati tra i quali lo
stesso Piemonte, la Svezia e la Toscana si arricchivano delle spoglie
degli altri Stati, la monarchia napolitana perdeva I' isola dell'Elba
ed i presidi di Toscana, e si vedeva ridotta a pagare le indennità a
qualche principe spodestato.
Quarantasei anni passarono da quest'epoca e coll'ajuto d una pace benefica e d'una predilezione quasi esclusiva, e gl'interessi brittannici furono sempre protetti e favoriti nel regno di Napoli. Ma, da sua parte, la monarchia napolitana doveva credersi protetta dai trattati di Vienna, di cui le grandi potenze d'Europa si erano dichiarate mallevadrici: ella contava innanzi tutto sulla protezione del popolo inglese, di cui gì' interessi politici e commerciali si trovavano avvinti alla sua esistenza. In verità, vi furono torbidi politici nel regno di Napoli, dopo la restaurazione, ma non differivano in nulla da quelli che aggitavano quasi che tutta l'Europa dalla remota Russia sino al Portogallo. Le crisi politiche di Napoli, come le altre agitazioni che sconvolsero l'Europa in quell'epoca, avevano rapporto alla forma delle istituzioni
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del paese ma non tendevano in nessun modo a cancellare una monarchia nel numero degli Stati e distruggere la indipendenza del popolo. Un principio di nazionalità che, sa perveniva a sostituirsi alla legittimità, metterebbe in dubnio tutti i dritti consacrati dai trattati e dal tempo, e ridurrebbe in brani i più grandi Stati, ha solo potuto determinare una catastrofe copi infelice e che minacciante l'avvenire dell'Europa intera.
Ma. la quistione morale, o Milord, sale al di sopra della questione politica, perché i principi di libertà e di giustizia sono la base d'ogni buona politica. Eh che! l'Inghilterra potrebbe permettere che un regno, il giardino dell'Italia, ripieno di tesoro di arte, di scienze e di lettere, patria di tanti uomini illustri in tutte le branche del sapere umano, fiorente pel suo commercio e per la sua industria, fosse per sempre cancellato dalla carta di Europa? Una città celebre per l'abbondanza dei suoi doni naturali, per la serenità del suo cielo e per la sua numerosa popolazione si vedrebbe ridotta nello stato di un semplice municipio? Un popolo rimarchevole per la vivacità dei suoi caratteri e del suo ingegno sarebbe condannato a divenire il paria del Piemonte? Le qualità, i vantaggi di ogni specie di cui il cielo ha arricchiti i napolitani, dovrebbero essi dunque divenir la causa del loro annientamento politico? l'Inghilterra lascerebbe violare i trattati a detrimento d'una potenza amica e malgrado le assicurazioni le più solenni? si potrà dopo questo sacrificio d'un popolo innocente, aver fede nei dritto delle genti e nella forza dei trattati? Si oserà convocare un Congresso dopo aver permesso al Piemonte di raccogliere i frutti di tante perfidie e d'una guerra ingiusta, contro un regno vilmente assalito, e nel solo scopo di rovesciare la monarchia dei Borboni?
Si è detto nel vostro parlamento che ciò che ha avuto principio dall'iniquità deve finire nella vergogna e nell'inganno. In effetti, l'unità italiana, ben lungi dall'esser un fatto irrevocabilmente compiuto, è ancora un problema senza risoluzione.
239
Grandi forze, potente istituzioni militari potevano ben dare pur qualche tempo ancora agli stranieri i mezzi di prolungare la loro tirannia un codice penale crudele e crudelmente applicata può bene accora proteggere per qualche tempo l'oppressione, ma la razza che si pretende aver conquistata, non è né domata né assimilata. Vedete la guerra che fa dopo tre anni ai suoi oppressori; vedete questi uomini ardimentosi che, come gli eroi delle vostre vecchie ballate, si rifugiano nei boschi e sulle montagne, resistono, combattono, e versano sangue per sangue! L'animosità dei due popoli in guerra l'un contro l'altro, non è da paragonarsi all'accanimento di due razze che, separate moralmente, si combattono sugli stessi luoghi. Questi sono elementi così ostili che è impossibile sperarne giammai fusione in una massa omogenea. Queste bande, che vengono trattate come orde di banditi, hanno non poche volte battute o sbaragliate le truppe regolari, ed in ciascuno giorno sperimentano le forze del Piemonte. Ma, anche ammesso, che esse rendono impossibile la dominazione piemontese e la realizzazione dell'unità italiana, non possono però stabilire la restaurazione del Sovrano legittimo, e ricuperare, per ciascun Stato, la sua nazionalità vendute.
Sarà d'uopo adunque, Milord, ritornare o presto o tardi ad un ordine più conforme alte tradizioni ed alle tendenze delle diverse popolazioni d Italia. L'Europa alla fine comprenderà che la rivoluzione italiana è cosmopolita. Non si deve giammai fidare alla fortuna, ma scongiurarla, e se vi sono nella vita dei popoli, terribili fasi come un'espiazione, i Napolitani hanno ai già con troppo lagrime, rovine e sangue espiato uno sbaglio momentaneo, se è vero, che questo sbaglio fu realmente di loro!
Ma quale sarebbe questo piano? Ogni combinazione Milord, che non avrebbe per scopo la restaurazione, potrebbe ben presto in teoria disporre, ma non sarebbe meno impossibile a, realizarsi. Per prevenire una grande catastrofe, si vorrà imporre al Piemonte l'esecuzione del
240
trattato
di Villafranca e di Zurigo (1)? Si aspetta che l'unità improvvisata, la
quale non riposa né sulle tradizioni né sugli interessi comuni, che è
in contraddizione colla situazione geografica della Penisola, si
subissa da se medesima? Ma allora l'Italia non sì farà né si disfarà
cosi presto. Si aspetta che la rivoluzione getta la maschera e prepari,
io non so, quale repubblica italiana? Si aspetta per venire in soccorso
della contrada la più fertile e la più amena dell'Europa, che è caduta
agli ultimi gradi della miseria della servitù politica, e del torpore
intellettuale? Tutta scissa da civile discordie ricevette il comando
sotto il nome di un Principe, diceva Tacito di Roma, Si attende, che i
Napolitani, molto avidi d'indipendenza, di stabilità e di calma,
accettino un padrone qualunque per istanchezza? Tutto quello che si è
passato in Italia, ed in vista di quanto tuttora ci accade, queste
previsione non hanno nulla di chimerico.
Ma se il regno d'Italia è un'utopia che non può realizzarsi, se la sua unità fittizia non può aver durata, se alcun uomo di Stato non dubita in Europa, non resta più a desiderarsi, che preparare la restaurazione. Forse si medita per un nuovo principe, c^me si volle fare per la Grecia? Questo è quello che la giustizia, la politica e la morale riproverebbero; perché il tradito ma non mai vinto eroe di Gaeta è sempre il rappresentante della giustizia e del dritto, e perciò è più grande del suo spogliatore. Perché mai dovrebbe egli cedere il suo trono ad un principe qualunque e per un novello saggio che i fatti non tarderebbero a condannare? Un possesso di tre o quattro anni, propugnato dalle popolazioni senza
(1)Senza più esitanza può assicurarsi
l'onesto lettore che non andrà a lungo e la confederazione è fatta
quantunque % deputati di Torino, per non far vedere la loro disfatta,
dicono ancora che vogliono salire il Campidoglio, Se leggono la storia,
essi troveranno che vicino al Campidoglio vi è la rupe tarpea, ed in
tal modo smetteranno questo pensiero.
241
interruzione,
potrebbe privare dei suoi dritti la. Dinastia legittima? S'invocherà
quel plebiscito ipocrita, opera dell'ambizione d'una turbolente
minoranza e per la quale un regno di dieci milioni d'abitanti è stato
annesso ad uno scoglio delle Alpi? Coloro che han combattuto e tuttavia
combattono, quelli che resistono e s'imprigionano, che si giudicano e
si fucilano, quelli che si dimettono e si esiliano, quelli che
resistono colla stampa (1) o per l'astenzione, non sono essi di maggior
numero e non parlano più forte di quelli che hanno pronunciato
l'annessione? D'altronde, quei plebiscito è stato fatto nello scopo di
far l'Italia unita? Come mai dunque 1 unità una volta distratta,
servirebbe di titolo ad ogni altro disegno di ricostruzione politica?
Volendo in tal mode risolvere la quistione. non se ne sarebbe meno
violato il dritto delle genti, il rispetto dei trattati e l'interesse
dell'Europa? E poi dove trovare questo principe? Come poter sormontare
le difficoltà che si soii per due volte incontrate, in ricercare un re
per la Grecia? (2) Tra la Grecia e le Due Sicilie vi sono delle
differenze molto grandi per far possibile un ravvicinamento qualunque.
La rivalità delle grandi potenze per lo smembramento dell'impero
Ottomano, che può distruggersi, ma non dividersi, ne presentano troppo
molte probabilità d'una generale conflagrazione.
(1)Si
disse in altra nota che gl'inviati al domicilio coatto erano 7,000. Ora
però si rettifica quella cifra perché, come disse S. Donato al 4 Luglio
corrente, sono 12,000. Ma dal 4 al 25 quanti altri ne saranno partiti;
e quanti altri ne partiranno?.,. Se lo immagini il lettore.
(2)La Grecia per cambiare governo, stanca della bontà di Ottone I s'ebbe un Re fanciullo, il quale, mentre per ambizione d'estendere la sua Dinastia, accettava la corona ellenica, quella del padre Cristiano IX se ne cadeva. Chi sa se altri non raccoglierà anche quella di Giorgio I perché non sudata? Chi si veste dei panni altrui presto si spoglia!...
242
Si
son fatte in Europa, sempre coalizioni contro ogni potenza
preponderante; cosi si formò la lega, anche nel decimo terzo $secolo,
contro Filippo Augusto, Si farà ancora, e per la terza volta una guerra
di cinque lustri? la conquista o l'usurpazione del regno di Napoli
ecciterà minori apprensioni e gelosie che la rinnovazione del patto di
famiglia,, di quel matrimonio destinato a raffermare i legami che
univano la Francia alla Spagna? Intanto, si potranno instituire potenze
protettrici del regno di Napoli, o bea si lasceranno le Due Sicilie e
tanti bei porti al potere di una sola potenza dominante? Se questo è I'
ultimo principe, chi è quello che potrebbe ambire la corona di Napoli o
potrebbe lusingarsi d'avervi lasciate memorie? Non vi sono che due o
tre generali, curvi sotto il póndo degli anni, ed aggravati d'infermità
che si ricordano ancora dell'occupazione militare. Quegli che cercano
convincersi, mercé l'istoria, non possono desiderare una epoca
soldatesca. L1 Inghilterra, nel secolo XVII. sperimentò per qualche
tempo i mali inseparabili del governo militare, benché mitigati dalla
saggezza e magnanimità di colui che il supremo potere esercitava. Le
rimembranze della storia napolitana al principio del volgente secolo
XIX, sono molto differenti, eia prepotenza delle bajonette piemontesi
non è fatta per distruggerle. Alcuno non potendo contestare i dritti
della legittimità quantunque si trovasse un re in qualche semenzaio di
candidali alla Reale se ne farà un Tarquinio, un Augustalo, un Re
Teodoro, o un Conte Capo d'Istria? Alcun principe straniero non
potrebbe collocare con mano ferma le fondamenta dell'avvenire. L'ora
dei scrollamenti è venuta, l'ora della ricostruzione potrà lungo tempo
farsi aspettare. Un nuovo governo, fondato su novelle basi, dovrebbe
tantosto risentirsi dell'incertezza della sua origine, e far concepire
agli altri dei dubbi sul suo destino. Ogni governo ha bisogno di questa
morale, senza di cui la resistenza materiale è meno una salvaguardia
che un pericolo di più.
243
La
tranquillità, al principio di una nuova dinastia,, comparirebbe
assicurata, ma i torbidi politici sarebbero sempre profondi. Gli
spiriti resterebbero adombrati e gl'interessi allarmati, e tutto ciò
può vedersi se si riguarda ciò che prova il Piemonte. Le potenze
l'hanno riconosciuto come regno d'Italia, alcune gli hanno apprestato
potente appoggio, la stampa europea per lungo tempo l'ha sostenuto, i
tribuni di qualche Stato lo hanno applaudito, l'oro dei banchieri non
gli è punto mancato, il principio del non intervento Io ha garantito,
il nuovo regno d'Italia ha formato un esercito numeroso, il governo ha
per lui il partito della rivoluzione che ha messo a capo
dell'amministrazione, e che ha la coscienza di combattere per la sua
propria esistenza. I vapori, le ferrovie, il telegrafo raddoppiano per
dieci volte le forze militari. Tutto gli è permesso, la cospirazione,
la violazione dei trattati, l'arbitrio, le inique carcerazioni, gì'
incendi ed i massacri. Ebbene! dove egli si trova? che ha egli
raccolto! Gli odi, i rancori implacabili e la persuasione che, il
momento è venuto alla prima crisi europea, tutto il popolo delle Due
Sicilie si leverà come un solo uomo per atterrarlo/ La giusta speranza
della stabilità è quella che gli è mancata. Or, dove dunque una nuova
dinastia stabilita nel regno di Napoli troverebbe la calma e la
persuasione di sua durata? Le nuove dinastie hanno bisogno di
tranquillità e dei benefici del tempo. Un principe nuovo può iene
tracciarsi un cammino, può ben scorgere un porto; ma sarà sempre a lui
dato d'avere il vento favorevole e d'evitare gli scogli? Che ne sarà
dei partiti, di cui ciascuno reclamerà il trionfo delle sue proprie
opinioni?
Si appoggerà sul partito piemontese da tutti esecrato? non vi si troverebbero che ambizioni smodate, pretenzioni esagerate ed il malcontento generale. Non si sarebbe fatto che sostituirsi al Piemonte, senza aver per lui il prestigio della gloria e della grandezza d'Italia.
S'appoggerà sul partito della rivoluzione?
244
La
rivoluzione si maschererebbe ancora una volta dietro il titolo di Re?
La ingannerebbe egli, se ne servirebbe con grande abilità? Come mai ne
sopporterebbe le esigenze e l'audacia? Chi vuole regolarizzare la
rivoluzione è pari a quello che cerca di sottoporre ad una disciplina
un disordine. Il nuovo governo sarebbe sin dal primo istante più
imbarazzato dai suoi focosi difensori, che dai suoi avversari (1) La
rivoluzione non gli permetterebbe di professare la libertà altrimenti
che, per suo proprio profitto e non per altrui. Un principe che ha
bisogno di una fazione per governare, non può durar lungo tempo. Il
paese si consumerebbe in sterili agitazioni, perché la rivoluzione non
si modera alla volontà di colorò che se ne servono; avendo la sua parte
d'azione, rivendicherebbe la sua parte di profitto. Come mai sottrarsi
allora alla fatalità di rendere diffidenza per diffidenza? La nuova
dinastia (l'istoria di Europa e là tutta recente ancora per
informarcelo) potrebbe molto sentir gridare contro di essa al
tradimento ed alla vendetta. Il nuovo principe, che vorrebbe fondare il
suo potere sopra le moltitudini, sarebbe sempre incerto, imbarazzato, e
posto tra il partito della ragione e di quello della passione. Come mai
dominare le coscienze e distruggere le convinzioni, se il sovrano
legittimo è sempre là in presenza del popolo col suo dritto e colle sue
tradizioni? Dove rinvenire una nobiltà conservatrice, che somministra
un punto d'appoggio quando gli mancherebbe l'antica? Una aristograzia
vigorosa, adatta a disimpegnare la sua parte politica, non
s'improvvisa; fa d'uopo che abbia la sua origine in una tradizione
rispettabile. Dove si fermerebbe? Potrebbe con libertà profittare delle
idee moderne senza distruggere le antiche, sulle quali la monarchia,
dopo dei secoli, è stata fondata?. Potrebbe sagrificare le politiche
necessità del suo regno per cedere o resistere a proposito?
(1)Tutto questo si è verificato nel governo di Vittorio il civilizzatore.
245
Ammettendosi
ancor questo si perverrebbe ad esser sostenuto da una aristocrazia
potente, e da un'armata forte e devota. Si potrebbe in questo caso
avere per qualche tempo un principe forte; ma il sistema sarebbe sempre
debole. Si avrebbe a combattere la coalizione istantanea della
rivoluzione del piemontismo. E come mai allora, questo nuovo principe
potrebbe comprimere, colla sua autorità privata, i movimenti
disordinati, a cui un nuovo Stato e sempre esposto e le combinazioni
delle società segrete ed i calcoli della demagogia? Gli avverrebbe ciò
che sempre e dovunque è accaduto. Il più piccolo malcontento gli
sembrerebbe un presagio di rivoluzione, ogni sommossa, una ribellione.
Esso vorrebbe che tutti coloro che lo circondano risentissero i
sentimenti che Io tormentano; non può avere che un governo sospettoso e
vendicativo, ed in tal modo sarà lf erede legittimo del governo
piemontese. I suoi successi ancora sarebbero vani: dimodoché esso
trionferebbe senza stabilirsi, e quand'anche non incontrerebbe più
resistenza sarebbe stretto ancora di tener tese di più in più le molle
del potere, non potrà respingere la responsabilità umiliante che poserà
su lui, e non prenderà giammai radice nel suolo. E le forze materiali
ove le poserebbe? Vorrà disporre d'un'armata numerosa per guarentirsi
della reazione popolare e dall'impresa del pretendente legittimo.
Quando anche coloro che si fatano massacrare per riconquistarsi la lor
patria non avessero niente di politica, cui potrà toglier loro il
pretesto della nazionalità e dell'indipendenza? Si lascerebbe cadere le
armi dalle mani, perché un principe straniero si sarà sostituito ad un
principe egualmente straniero? Il popolo, indifferente allo scopo della
rivoluzione non tarderà a sollevarsi contro un signore straniero,
perché quegli li tiene tutti in sospetto, e li ha in odio.
Questo principe avendo bisogno duna forte armata, ove troverà egli le risorse in un paese esausto ed oberato? Alla dissoluzione del regno d'Italia, le due Sicilie
246
si troveranno
aggravate di un debito, che assorbirà coi semplici interessi, i due
terzi delta antica rendita dello Stato. È il popolo che fornirà queste
risorse, specialmente se ha luogo di raddoppiare l'impiego contro se
stesso? Non si potrà ottenere un'armata senza la calma e la pace, nel
mentre che nel medesimo tempo sarà impossibile di ristabilire la pace e
la calma senza un'armata.
Sarà egli il nuovo principe il pupillo d'una potenza straniera? Ma questa potenza allora dovrebbe farsi la protettrice immediata della novella dinastia, non solamente contro le altre potenze, ma contro i suoi nuovi sudditi. E le altre potenze più o meno ambiziose, più o meno sensibili ai loro danni passati, cercheranno inevitabilmente di eccitare o utilizzare i malcontenti popolari a vantaggio delle loro combinazioni politiche. E quand'anche le gelose influenze non incoraggiassero i torbidi del regno, uno Stato che perde il suo rispetto al di fuori, è ben tosto turbato al di dentro. E d'altronde, a qual porta picchiare per trovare questa potenza protettrice? Giacomo I che era realmente re d'Inghilterra, inviava ambasciate a dritta e sinistra senza poter trovare un'alleato. Che ne sarebbe di un Re di Napoli, che avrebbe alienata la sua indipendenza divenendo l'agente di una corte straniera? Tutte le porte si chiuderanno al di fuori, tutte le rivalità s'agiteranno al di dentro. Vi sarebbe, in Napoli, una lotta diplomatica, continua, avvelenata dalle discordie interne, ed il potere non ne sarebbe che più debole, più dimenticato e più compromesso!
Si, o Milord, la restaurazione può solo assicurar la pace dell'Italia e dell'Europa, e la rivoluzione scoraggiata si arresterebbe d'avanti la restaurazione. Il suo violento dominio non avrebbe svelata che l'impotenza delle sue idee, e la sua insanabile incapacità di conciliare le libere istituzioni con la pace interna come col sentimento monarchico del paese.
247
Pria
che la rivoluzione potesse mettersi all'opera, passerà certamente un
quarto di secolo; e questo intervallo è lo spazio di tempo, che il
nostro Vesuvio impiega a riunire le materie d'una eruzione avanti di
scoppiare. Vi sarà forse la necessità di aspettare una novella
generazione. Il partito che avrà ajutato uno degli Stati italiani ad
assorbire per se solo ciò che doveva nudrire tutto il corpo, si vedrà
troppo abborrito per non sforzarsi d'ottenere l'obblio o la clemenza.
Il paese una volta abbandonato a se stesso, le armi cadranno da tutte
le mani; la reazione scomparirà come i banditi innanzi Carlo III, ed il
brigantaggio innanzi Ferdinando I. La reazione si manifestò nel 1799
contro la repubblica in nome del Re; essa resistette ai Francesi dopo
il 1806 fino al 1810 per la causa del Re legittimo. Ma, nel 1815, gli
Austriaci che riconducevano il Re non incontrarono la minima velleità
di resistenza. Un movimento d'interesse e di simpatia, presso i spiriti
in apparenza i più ostili, trascinò tutti verso la restaurazione. Il Re
ristabilito si trovò tutto ad un tratto più amato dai suoi popoli, che
alcun altro dei suoi predecessori, più che non lo fosse stato prima
delle sue disgrazie. Come mai questo popolo non accoglierebbe un
giovane Re, che ritornerà dopo d'avere attraversato tutte le vicende
della fortuna; un Re, una Regina eroica che sarebbero passati dalla
grandezza e dal lusso del palazzo ad una vita di campo, di pericoli,
d'esilio? Sarebbe una corrente d'entusiasmo, perché il Re verrebbe a
liberare il paese da un insoffribile schiavitù, verrebbe a ristabilire
l'indipendenza nazionale e lo splendore della monarchia senza favorire
alcun partito. Per quest'opera gloriosa, ma più ben difficile di quella
di Carlo IH, che ebbe a riformare e non a rifare, il Re legittimo si
troverebbe naturalmente piazzato in una situazione felice per divenir
l'arbitro ed il moderatore dei partiti. Egli ha ricevuto dalla natura
un felice carattere ed eccellenti qualità, per occupare un posto si
glorioso. Egli sarebbe a quelli come il vostro Carlo II
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e come Luigi XVIII? ma avrebbe la magnanimità di Enrico IV.
Questo è un'opera grandiosa se le destre trojane possono difendersi, ciò sarebbe per l'unione che concilierebbe le opinioni ed i partiti.
Il Re legittimo potrebbe conservarsi senza apprensione e con minore ostacolo alla prosperità del paese, perché la restaurazione condurrebbe seco il sentimento della stabilità. Il commercio e l'industria riprenderebbero fiducia nell'avvenire, perché ritroverebbero nella restaurazione la pace e la sicurezza. L'esperienza, allora che egli ha, ha sanato i più creduli; e la rivoluzione certamente non più li sedurrebbe.
Il Re legittimo non avrebbe alcun pretendente a combattere. Le relazioni con lo straniero sarebbero rinnovate fin dal primo giorno; la restaurazione non avrebbe che a riprendere le sue relazioni diplomatiche, le sue tradizioni ed i suoi trattati, i quali non sarebbero stati che sospesi. Non essendo né tribolato al di dentro né sospetto al di fuori, riposerebbe sopra le antiche garenzie europee. L'Europa si sarebbe vista trascinata troppo vicino al precipizio per non esser più in guardia contro l'ambizione conquistatrice, o contro l'idea rivoluzionaria. Il Re potrebbe cicatrizzare le piaghe del suo sventurato paese, senza aver bisogno d'un" armata numerosa che assorbisce le rendite dello Stato; dal suo lato, il paese s' imporrebbe volentieri tutti ì pesi possibili per procurare risorse ad un governo nazionale ed avere un'armata nazionale. Quell'armata sarebbe devota al Re del Volturno e di Gaeta, senza divenire un peso gravoso per lo Stato e un pericolo pel paese. Il Re legittimo solo potrebbe, senza esitanza e senza pericolo, riformare le leggi, purgare il personale, rendere l'amministrazione luminata, attiva e proba, circondandosi d'uomini d'esperienza e mettere a, contribuzione i lumi dei suoi sudditi. Potrebbe solo adottare un sistema di riforme e di concessioni graduali, che porterebbe i loro frutti, se si persevera fino alla maturità.
349
Dopo
il ristabilimento dell'autonomia napolitana, l'Italia cesserà d'essere
un focolare di rivoluzione minacciante per la pace del mondo.
Il regno delle due Sicilie, Milord, è stato colpito nella sua ricchezza, nel suo credito, nella sua sicurezza. Esso non ha goduto che nel sogno i vantaggi con cui si era lusingato ed ha perduto i beni reali di cui godeva. Triste lezione dell'esperienza! Ah! senza dubbio, le piaghe del Regno sanguineranno ancora: il credito pubblicò ed il credito privato son di molto impoveriti, perché l'industrie ed il commercio ne soffrono lungo tempo. Il solo che potesse guarire il male del paese è FRANCESCO II e tale è la confidenza del popolo, che non lascia sfuggire alcuna occasione per esprimere al suo Re i suoi voti e le sue speranze. Indirizzi sottoscritti da migliaia d'uomini notevoli nelle lettere, nelle scienze, nella proprietà e nel commercio sono depositati in ciascun anno ai piedi del giovine Monarca. (1) La confidenza non riposa che sopra questo principe che ha mostrato tanta prudenza, coraggio e fermezza in mezzo ai torbiti, alla rivoluzione ed alla guerra. Egli non aveva pensato, e voi mi potete prestar credenza, Milord, a brigare un posto nella politica del mondo, prese il suo dalle mani della necessità; ed il tempo, che matura le opinioni degli"uomini, confimerà questa opinione.
Roma, li 5 Novembre 1863
(1)Gl'indirizzi
che si spediscono a Roma vengono da ciascuna delle Provincie delle Due
Sicilie, e due particolari da Napoli e Palermo, oltre poi a quelli
dell'emigrazione in diverse parti d'Europa residente, le cui firme
complessive ammontano sempre quasi ad un MILIONE e più. Quale dunque è
il vero plebiscito, questo che si rinnova in ogni anno e fatto col
timore di non essere scoverti e quindi fucilato, o quello di pochi
straccioni e di altri a cui s'impose col pugnale?... Lo giudichi il
lettore!...
250
A Lord lobati Rasati, Ministro degli Affari esteri, a Londra
Milord,
La
somma fiducia che ripongo sulla bontà di V. G. mi fa portare speranza
di perdono per la libertà che mi son presa a scriverle, e stampare
queste lettere pria d'averne ottenuto il debito permesso. Ma il tempo
che mi sfugge essendo prezioso, non ho creduto ritardare; giacché r
autorità della vostra parola avrebbe potuto ingenerare, negli spiriti,
un crudele dubbio, che, nella nostra posizione sarebbe stato
apportatore di immense calamità.
Chiamato da S. M. mio augusto Re alla presidenza del suo Consiglio, ho avuto tutto l'agio di apprezzarne le virtù, le quali per me sono state un nobile spettacolo, sia nel mezzo dei pericoli d'un barbaro assedio, sia nelle sofferenze e nelle pene dell'esilio, per la qual cosa mi son creduto nel dovere più che ogni altro mai di renderle note e difenderle con la pubblicità della stampa.
D'altra parte, l'abisso dei mali in cui è caduta la patria mia, mi ha richiamato l'obbligo di patrocinarne la causa. Questo per me è stato un dovere di suddito e di cittadino; e se grande fu la libertà che mi presi, Milord, me la concesse il dritto dell'infelice...
Profitto di questa circostanza per presentarvi l'assicurazione d'un profondo rispetto con che sono, ecc.
251
Milord,
Le
solenni parole d'un ministro della Regina nel senato Brittannico veston
le più volle fiera sembianza di decisione irrevocabile che venir può
all'uopo sostenuta da tutte le forze della potenza Inglese. Epperò i
dubbi da V. G. manifestati intorno alle restaurazioni dei principi
Italiani avrebbero scosso e fortemente conturbato l'animo di quanti son
in Italia onesti amatori della loro patria se l'alto senno politico di
Lei, Milord, e le tradizioni gloriose di sua famiglia non facesser
chiaramente aperto esser que' dubbi ingenerali meno da natural
diffidenza contro a' principi spodestati, che da sollecitudine generosa
pel destino avvenire de’ popoli Italiani. Ma le sventure d'Italia, e
segnatamente del reame di Napoli, hanno, o Milord, cosi confuse oggimai
le sorti de' popoli, con quelle de' loro principi che non è più dato di
poterle disgiungere, il riscatto degli uni stando collegato
strettamente colla legittima restaurazione degli altri.
E per quel che importa reame di Napoli, V. G. esprimendo que' dubbi tenne per avventura che stati ei fosser la causa e non già il pretesto d'una rivoluzione che come sempre, fu l'opera di pochi ed il sacrificio di tutti? A quel pretesto serviron taluni ricordi della storia, onde fa rivoluzione si compiacea trovar somiglianza tra la dinastia Borbonica e la stirpe Aragonese, confidando che Re Francesco II. avesse a terminar i suoi di nell'esilio come l'ultimo Federico. Ma que' ricordi ferian essi dirittamente e solo i sovrani della casa di Napoli? Le circostanze de’ tempi si assomiglian, Milord, ma non son perciò sempre le stesse, né credo che, posando la mano sul proprio cuore,
252
vi sia chi prenda a scagliar la prima pietra contro i sovrani delle Sicilie.
La costituzione del 1812, o Milord, venne concessa alla Sicilia, mercé il patrocinio dell'Inghilterra. Ma V. G. ricorda i principi che indi prevalser nel congresso di Vienna e sa che, quando nel 1817 si pubblicava una nuova legge constitutiva dell'isola, l'Inghilterra, a cui venne comunicata per mezzo di Ser W. A. Court, non si limitò i suoi buoni uffizi che a raccomandar coloro i quali nel 1812 si eran palesati partigiani della causa Inglese. La rivoluzione del 1820 venne condannata dall'Europa riunita in congresso, la quale, in cospetto delle soldatesche rivoluzioni di Spagna e di Portogallo, esser indulgente non poteva al rivolgimento politico di Napoli patimenti opera di Pretoriani. L'Inghilterra o allora non protestò; non sostenne i cangiati ordini di Napoli, ed invece allora appunto. Lord Castelreagh dichiarava che l'Inghilterra era stata fautrice, non garante della costituzione Sicula del 1812. Né l'Inghilterra faceva udir allora i fieri accenti che pronunziò due anni più tardi per l'invasione delle Spagne, né alcun atto minaccioso si permise, come alcuni anni di poi a tutela del Portogallo. Il sovrano, come i popoli della Sicilia, venner abbandonati al supremo arbitrio dell'Europa, Né fa mestieri dell'alta intelligenza di T. G. per rilevar qual differenza mettesse dal trovarsi al Foreign Office Canning o Castelreagh. Delle vicissitudini del reame di Napoli nel 1848, fra tante e si vive gare di contemporanei, non è dato ad alcuna sapienza politica di chiarir ancora il mondo. Ma gli avvenimenti, che da due anni si succedon in Italia, fanno aperto ornai a quali destini fosse serbata la dinastia de’ Borboni, se la rivoluzione fosse uscita trionfante dalle barricate. Pur tuttavia V. G. vorrà considerare che lo statuto del 1848, malgrado le consuete ingratitudini della rivoluzione, non venne, come altrove, abolita giammai.
253
V.G. dubita tuttora degli
ordini sconvolti nel reame delle due Sicilie, degli spogliamenti, delle
angarie, de’ soprusi, delle violenze e sin de' misfatti d'ogni maniera?
Dubita che ai sentimenti religiosi s'insulti, la morale si schernisca,
che le leggi si distruggano, la libertà del domicilio e quella de’
giudizi sien gioco e ludibrio di dominatori senza freno? (1) Non vorrò
nasconderle, o Milord, l'alta meraviglia che desta il veder come fatti
d'ogni dì, de' quali le popolazioni Siciliane patiscono, di cui
migliaia d'Inglesi son testimoni, che l'Italia intera deplora, che la
stampa quotidiana denunzia, che il parlamento Italiano chiarisce, e che
i ministri stessi del Piemonte non osan negar, o contraddire, nelle
sale di Westminster soltanto sien in dubbio rivocati! Dubita V. G.
dell'esistenza della guerra civile nel reame di Napoli? Ma mi torrò la
libertà di dirle che oggimai. in Westminster istesso V. G. e per
avventura il solo che ne dubiti. I tanti uomini in armi che combattono
al grido di Francesco II. i rigori de’ Proconsoli Piemontesi e delle,
schiere Sabaude (a fronte de} quali impallidiscon le memorie più atroci
della storia) tanto sangue versato, tante ossa biancheggianti sul suolo
Napolitano, tante terre fumanti ancora, o Milord, il troveran dunque
incredulo sempre o dubbioso? Ma il gabinetto di S. James fu sempre ed
esattamente ragguagliato di quanto accadea negli angoli più remoti del
mondo.
(1)Se fino all'epoca che si pubblicava questa
lettera il Ministro britannico non conosceva tutte le atrocità
consumate dai Piemontesi nel Regno di Napoli, ora non più ne dubita;
perché non pochi generosi Inglesi lo hanno assicurato, e poi chi può
negare ciò che vien detto nel Parlamento di Torino? Chi legge gli atti
ufficiali della Camera là trova tutto registrato financo il disavanzo
del corrente anno che ammonta ad 1,807,588,500 Gran progresso!, ma...
solo ne' debiti e nel male!...
254
Onde
avvien dunque che il grido de’ disastri, delle rovine, delle morti, de’
supplizi, degli incendi del reame di Napoli, le voci disperate di tutto
un popolo spogliato, taglieggiato, spregiato, oppresso da inaudita
tirannide, d'un popolo ch'è pur tanta parte d'Italia, non giungan a
penetrar, son ben diciotto mesi, nelle sale del Foreign Office? A V. G.
basterà il volere, perché le sventure delle terre Napolitane cessin di
esser per lei un incomprensibil mistero. Ed allora un Russel, o Milord,
non potrà credere che quella sia la miglior libertà che consentir si
potesse a tanta sì bella e misera parte d'Italia. V. G. ritraterebbe
allora, ne son convinto, il voto che ha espresso contro le
restaurazioni de’ Principi Italiani.
Dubita intanto V. G. che, le restaurazioni avvenute, le concesse libere istituzioni fosser conservate, quasi l'Inghilterra dovesse, in caso di restaurazioni, pesar null'affatto su' destini d'Italia e consequentemente del reame di Napoli? Cerca l’Inghilterra fuori di sé stessa le guarentigie che salde sien per rimaner le promesse de' Principi?
Francesco II, ha di sua fama, in giovine età riempito il mondo; e se a gara se ne loda l'indole cavalleresca, il valore e la costanza, son virtù queste, o Milord, minori d'assai del politico senno, della matura prudenza, del religioso amore che pe' suoi popoli nudre. Di queste sue virtù posson far fede quanti a lui si appressano, segnatamente ora che privatissima vita sen vive. Quando eroicamente affrontava i pericoli delle battaglie e lottava in assedio glorioso, ei più la causa dell'indipendenza del reame che della sua corona propugnava. Egli mostrava come, anche cadendo, cader sapesse da Re. Ora può V. G. darsi a creder che, conseguita una gloria immortale, il principe illustre, il giovane guerriero, gittar volesse al vento le sue promesse, oscurar la sua gloria, giustificar le diffidenze tolte a pretesto dalla rivoluzione, veder cangiati gl'inni in biasimo, sapendo come presto pei popoli si tracorra dagli osanna al crucifige?
255
Crede
possibile V. G. che smentir si potessero colle promesse latte
replicatamele pubbliche, le. assicurazioni date ed in diverse occasioni
ai gabinetti d'Europa, onde vedersi, in tutti i casi di guerre o
rivolgimenti futuri, privato di ogni assistenza e d ogni patrocinio, e
spogliato delle facoltà di contrarre alleanze? Crede V. G. che un Re
potesse, dopo tante immeritate sventure, stimarsi sicuro nell'ultimo
angolo d'Italia con forma di governo diversa da quelle di tutti quasi
gli Stati d Europa? Tenersi come capace di sedar in un reame che
contiene la più vasta isola del Mediterraneo e novecento miglia di
costiere, tutte le insidie e tutti gli assalti futuri della
rivoluzione? La quale, soffocata in Napoli, non serpeggerebbe perciò
meno nelle viscere' di Europa e non minaccerebbe perciò meno, idra
spaventosa, da questo o da quell'angolo in fiamme. Cesserebber per
avventura, avvenuta una restaurazione, le occulte ostilità di questo o
quello potentato le mene, le avidità, le appetenze delle ambizioni
straniere? Non incomincerebber esse nuovamente a soffiar sulle ceneri
ancor calde d'un incendio durato per anni e che ha già tutto consumato,
fede, credenza e probità politiche d'ogni natura? Come impedir che il
celato malcontento, circolando in mezzo a popoli inesauditi, non si
aprisse nuove vie, onde proromper in nuovo incendio e più spaventoso?
Tutte le restaurazioni, o Milord, ebber a sostegno sempre o le armi disciplinate interne., o gli eserciti stranieri che dier loro agio e tempo ad ordinarsi e consolidarsi. V. G. non crederà certamente che la restaurazione Inglese avesse potuto per pochi dì soli radicarsi nel suolo Brittannico senza Monk e le sue schiere. La stessa rivoluzione del 1688 non ebbe forse a poggiarsi sulle schiere Olandesi? Non trovò la prima restaurazione Spagnola la tutela dell'esercito Francese? Non ebbe la restaurazione in Francia due volte ad ordinarsi sotto l'egida dell'Europa armata e soprastante? Ed a quali pericoli intanto ed a quante vicissitudini pur
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non andaron
incontro? Or, avvenuta la restaurazione napolitana, per impeto generoso
de’ popoli, non troverebbe, al cessar del primo bollore, ogni ordin
civile distratto, vuoto l'erario, non navi, non esercito, non mezzi di
alcuna maniera, se dall'affetto de’ popoli non le venissero?
E suppor che in mezzo ad un9 opera ardua, gigantesca e lunghissima si potesser accrescer a lascivia le difficoltà ed i pericoli, lasciando i popoli impazienti di freno, sospettosi di reazioni febbricitanti d'ire cittadine e non impediti dall'aver ricorso allearmi civili! Con qual forza contenerli, mancando le armi ed avversa la pubblica opinione, unica forza e potentissima al cader d'una rivoluzione? Avverrà per avventura la restaurazione, o Milord, per intervento d'armi straniere, trascinata l'Europa pe' capelli a cessar le inique stragi della biennale Tebaide Napolitana 1 Sarà allora la politica Europea che ordinar dovrà le sconvolte sorti d'Italia; e qual non sarà allora l'autorità dell'Inghilterra ne' consigli d'Europa ed in quelli di Napoli, ove ebbe pur tanto e si lungo predominio? Non sarà contemporanea la restaurazione nelle due diverse parti del reame? E cederà l'una, se non vedrà attuate le promesse nell'altra? E la parte persistente nella sua contumacia non si prevalerà allora delle armi piemontesi stesse a render impossibile l'ordine, la pace e la stabilità del governo nella parte rassegnata? Si tenterà di sottopor quella colle armi ordinate in questa? Ed, ove pur il consentisse Europa, quanti anni scorrer non dovran mai, prima che si abbia navi ed esercito atto e sufficiente a tal impresa? Ove una restaurazione avvenisse per plebi concitate e furibonde, allora soltanto l'Europa sarebbe condannata a veder malgrado la benignità de’ principi rinnovate le improntitudini del cader del passato secolo in Italia e più tardi nella peni, sola Spagnola. Ma non sarà per questo mai, Milord,, che l'unità Italiana, impossibil per differenza di razze, d'indole, di costumanze, di credenze
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e di storia, si consegua;
e meno ancor se ne acquisti all'Italia quella libertà della quale V. G.
è propugnatore e della quale attinse il convincimento nelle tradizioni
e fin nel martirio di sua famiglia.
Son queste ragioni potentissime, per le quali non è dato il diffidar de principi spodestati. Ma Re Francesco II, o Milord, è per senno politico e benignità d'animo convinto che, mercé le concessioni d'un governo costituzionale e rappresentativo soltanto potran, quando che sia, i suoi popoli conseguir la pace, la prosperità, la grandezza da cui son si miseramente scaduti. Di perdono e di oblio, non è dire: egli ha già tutto perdonato ed obliato, che l'indole benigna in lui a tutto prevale. E tutti accoglierà, ne vivan certo i suoi popoli, donde vengan e come, purché sinceramente a lui vengano e si stringan intorno a lui nello scopo santissimo di rimediar ai gravissimi danni ed alle miserie infinite della patria comune. Cosi è che, mercé gli sforzi di tutti, ei pensa, un'era di tranquilla prosperità e di floridezza non più conosciuta per lo innanzi potrà venir iniziata e conseguita. Per principi che discendono da Enrico IV, o Milord, sarà sempre un grande esempio quello di Luigi XVIII, che comunque circondato dagli eserciti d'Europa, consentiva alla Francia l'Ordinanza di S. Queil, al seno delle armi straniere, malgrado i Cento giorni con le loro funeste conseguenze, la mantenne salda.
Queste son le idee, o Milord, che forman un profondo convincimento d'un uomo che vive, oltre ai due aqm, accanto al Re. Vago per amor ardentissimo della mia patria, delle forme rappresentative che stimai sempre atte e sole a stabilmente fermar le sorti del reame di Napoli, io men feci sempre caldo propugnatore. E penso, ove io non m'inganni, che in questi ultimi tempi non perdonassi a cure o sacrifizi, perché se ne conseguisse l'istituzione. Quando a me venne offerto un altissimo uffizio non era più in quel momento dignità o potere, ma un cuoiaio pericolo, onde l'accettai ed il tenni.
258
Né
piego allo stolto orgoglio che da' benefizi, onde mi fu larga la
munificenza sovrana, si abbia ad argomentar de’ principi che si avesser
potuto riconoscer in me ed incoraggiare. Ma la mia capizie mi da
qualche dritto ad esser creduto, o Milord, ed io vivo certo che le
promesse del Re saran religiosamente mantenute; ed il passato essendo
scuota dell'avvenire, mi confido che saranno state per noi cause
feconde di grandissimi ed invidiati beni sin le stesse sventure.
E qui la prego a credermi, o Milord, pieno di rispetto,
Di Vostra Grazia
Roma li 28 Marzo 1862.
Devmo. Obbmo.
MARCHESE PIETRO C. ULLOA
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0 |
Due parete del Traduttore |
|
Al lettore |
3 |
AL SIG. BARONE DI BEUST, MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI A DRESDA |
|
Gaeta |
5 |
La Resistenza |
11 |
AL SIG. DUCA DELLA ROCHEFOUCAULD DONDEAUVILLE A PARIGI |
|
La Monarchia napolitana |
15 |
La Cospirazione |
27 |
L'Abbandono |
36 |
La Partenza |
49 |
AL SIG. BARONE DE BEUST MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI, A DRESDA |
|
L'Unità italiana |
57 |
Il Plebiscito |
70 |
AL SIG BARONE DI WENDELAND, A ROMA |
|
Le Opinioni |
79 |
AL SIG MARCHESE DELLA ROCHEJAQUELEIN SENATORE A PARIGI |
|
L'Insurrezione |
92 |
AL SIG CONTE C NELLESEN, MEMBRO DELLA CAMERA DEI PARI A BERLINO |
|
La Guerra Civile |
105 |
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|
AL SIG MARCHESE DELLA ROCHEJAQUELEIN, A PARIGI |
|
Il Terrore |
117 |
AL SIG. BERRYER A PARIGI |
|
Le Leggi |
123 |
La Giustizia |
134 |
I Giudizi |
145 |
AL SIG GUIZOT, MEMBRO DELL'ACCADEMIA FRANCESE |
|
L'Educazione |
154 |
La Letteratura |
163 |
ALL'ONOREVOLE SIG R COBDEN, A LONDRA |
|
Il Commercio |
170 |
AL SIG DISRAELI, A LONDRA |
|
Le Finanze |
180 |
Le Finanze |
188 |
Il Debito pubblico |
194 |
A SUA EMINENZA IL CARDINALE WISEMAN, A LONDRA |
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La Morale |
203 |
La Religione |
213 |
AL LORD DERBY |
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La Politica |
226 |
La Restaurazione |
236 |
A LORD JOHN RUSSEL, MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI A LONDRA |
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Lettera |
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251 |
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