Eleaml


Pubblichiamo il quinto volume del testo scritto da Proto, autore fra l'altro della interpellanza parlamentare mai portata alla discussione parlamentare dai paladini delle nuove libertà sabaude.

A commento della pubblicazione riportiamo le parole profetiche dell'autore:

Laonde se laido è lo stato presente di nostra civiltà, oltra ogni dire bruttissimo possiamo prognosticar l'avvenire di essa; ché le genti italiane, educate alla scuola della Rivoluzione che ne socquadra, sapranno trar di coltello e rubare e falsare ed assassinar meglio e più che in antico; ma delle antiche arti di nostra civiltà non sapranno diversamente di quello, che un musulmano di Smirne sappia essere nato Omero nella sua città.

Questo paese ha un debito di verità verso i meridionali, prima o poi dovrà saldarlo.

Zenone di Elea, 6 giugno 2009

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DEI

CINQUE REGNI D'ITALIA

LIBRI CINQUE

DEL DUCA DI MADDALONI

Volume I.

LUGANO

TIPOGRAFIA TRAVERSA E DE GIORGI

1868

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AI

SAVI ED ONORATI ITALIANI

CHE DALLA STORICA E NATURALE IDEA

DI ITALIANA CONFEDERAZIONE

MAI

NON SI DIPARTIRONO

QUESTO UMILE DISCORSO

DI NOSTRE PATRIE VICENDE

F. PROTO CARAFA PALLAVICINO

CON ANIMO

LIETO NO MA SECURO

I BUONAPARTESCHI

LIBRO QUINTO

Scrisse Cornelio Tacito, uffizio dello storico esser non solo il narrare i fatti, ma ancora lo esporre la ragione di essi. E di vero, dove non si avesse questa a rintracciare e discettarne talora, e far che di essa e delle sue conseguenze abbia a risultare alcuno ammaestramento, quelle sentenze che, anche quando non pronunziate, si affacciano necessariamente allo intelletto del colto lettore, quella filosofia che, come ne svela il passato, ne è conforto del presente e maestra dell’avvenire, lo scrivere istorie sarebbe poco più che mestiere, e lo storico non altro che povero cronista che registra i fatti a gloria di Dio e come meglio li appara; insomma poco più, poco men nobile di un gazzettiere.

Noi, come già toccammo, non scriviamo storie, ma discorriamo di esse. Pur non crediamo poterci esimere dall'obbligo di narrare e discettare delle ragioni di quelli avvenimenti che crediamo opportuni ricordare; e come abbiamo già fatto nei precedenti libri, così ci governeremo ancora per questo. Che se nel dire del quarto Regno d'Italia ci è stato necessario discorrere della Rivoluzione Francese, come quella che fu madre del Buonaparte autore

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della restaurazione di esso Regno d'Italia (rivoluzione che per vero dire si personificò nel primo Napoleone, siccome la moderna si personifica oggi nello erede di lui), così malamente, impossibilmente potremmo scrivere di questo quinto Regno senza cominciare da quei fatti, da quei tumulti, da quel lavorio, che ne prepararono, ne spianarono e ne affrettarono infine l'avvenimento.

E di vantaggio egli è mestieri notare che, se un cotale obbligo di esporre le cause dei fatti incombe allo storico o a chi di storie discorre, ogni qualvolta prende a dire di gravi frangenti ne' quali versò o versa la repubblica, a più doppi nol si vuole porre in non cale in quella che prendesi a narrare degli avvenimenti che travagliano oggi la misera Italianità; avvenimenti i quali, più che altri mai, sono derivazione di altri, né pochi, che non rivolture voglion considerarsi, ma episodii della grande rivoluzione cosmopolita di che toccammo, corollarii della Rivoluzione Francese, non altrimenti che questa l'era della Riformazione Tedesca. E di vero in che mai consisterebbe il fatto presente, se non nella origine di esso; e questa non è il lungo, il pertinace, l'ipocrito lavorìo delle sétte segrete che già da lunga pezza fan di scalzare ed abbattere la vecchia società europea e la Chiesa che tienela in protezione e la sorregge? Eh via! che non altrimenti la fondazione di Babele, questa del quinto Regno d'Italia opera è di un concetto d'opposizione alla divinità; né diversa dalla storia di quella, la storia di questo tutta sta nel racconto delle stolte, delle malvagie fatiche della fabbricazione e della confusione delle lingue, nanzi che fornita l'impresa.

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Né queste parole che noi scriviamo ci vengano apposte a nimistà di parte, preghiamo, o ad una idea preconcetta o ad altro men che onestissimo disegno. Sappiamo noi venire accusati di municipalismo, né contro a ciò ci difendiamo. Perciocché, se colpa è questo, egli è pur vero che ne siamo rei; e se non colpa, come teniamo, e se per contrario sia virtù, come veniva davvero reputato dagli avi nostri, che per lo amor di quei tanto oggi disprezzati campanili fecero sì nobile e sì chiara e potente tra le nazioni questa nostra Italia, anziché difendercene, dovremmo superbirne, o meglio ringraziare il Signore Iddio che volle ad essa infiammarne.

Ma questa nostra animavversione per il Regno d'Italia non iscaturisce punto dal nostro privato amore per quella parte della Penisola che ne fu madre, ma sì da carità di tutte le genti Italiane di tutte provincie e di tutte schiatte, immigrate nel Bel Paese. Conciossiaché, per quanto il nostro povero intelletto si sforzi in ragunare le istorie di nostre genti ed in giudicare di lor passate condizioni, non sa (e domandiamo chi saprebbe?) rinvenire in esse altro che tre epoche sommamente grandi, nobilissime, gloriose, e tre veramente vili, corrotte, miserrime. Quelle sono le età dei Tirreni ed altri popoli primitivi della Penisola, l'età della Repubblica Romana e l'altra dei Comuni o degli Stati Italiani del Medio Evo; queste il tempo degli Imperatori Romani, quel del Regno d'Italia, ossia dei Barbari, e quel del Regno d'Italia frutto della Rivoluzione Francese, che ne aggiogò affatto al suo imperio.

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E come fu il discentramento la ragion prima della felicità e della gloria di quelle tre epoche buone, cosi indubitato è lo accentramento essere stato potissima causa della miseria delle tre malvagie. Né dicasi che a tempo di Napoleone I fosse l'Italia divisa: perocché il principe buonapartesco che imperiava a Napoli non era altrimenti ministro di Francia che il viceré di Milano od i governatori di Roma, di Firenze, ecc. E come il Murat si scostava dall'Impero, men misero era il paese da lui corretto. E sì che la stessa Dominazione Spagnuola non seppe sì reo ai principi ed ai popoli italiani, come avrebbe dovuto, né fu sì infesta come le altre barbariche, per appunto perché non concentrica, e perché nol poteva essere, per le troppo disperse parti del suo imperio. E si che pochi dominatori stranieri furono più avari e crudeli e superbi di quei governanti spagnuoli.

Per contrario la regione cui più disservì la trapotenza di Carlo Vedi Filippo II e suoi successori, fu per appunto l'Iberia che pareva più dovesse giovarsene. Ed il veggiamo ben oggi che, dopo Grecia e Turchia, trovasi la parte men civile e più misera di Europa, avvengaché piena di ricchezze. E ciò perché mai se non per quella congiunzione del Portogallo alla Spagna che tanto piacque a re Filippo II, e tanto nocque alla sua stirpe, e perché nella penisola Iberica potevasi poi operare lo accentramento, che sì quadra ai tiranni, e si operò veramente, ché (salvo alcune forme del tempo ed il titolo di viceré dato ai governatori degli antichi regni) la Monarchia Spagnuola di là dai Pirenei andò bene accentrata, e fu indubitatamente l'Iberia la regione di

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 Europa più stretta allora da catene governative. Però quella peste del passato e più del presente secolo, che malediciamo col nome di burocrazia, dove volesse cercare a dovere del suo albero genealogico, il troverebbe derivato da Spagna non meno certissimamente di quel che la Polizia ne sia venuta di Francia e di quella Rivoluzione Francese che strombazzava, né cessa, di voler francare l'umanità.

Caduta la somma tirannia del Buonaparte, i principi italiani, restaurati in loro potenza, rifecero i governi antichi qual più qual meno conservando quegli istituti che erano stati trapiantati nei loro dominii dalla repubblica e dalla dominazione francese, e gli uomini che quella avean servito, vuoi fra le armi, vuoi nelle aziende dello Stato.

E faccia pur querela chi ne ha fronte del che quei monarchi non tenesser conto né dei fatti intermedii, né degli uomini, né degli interessi, né delle opinioni nuove; ché noi gli rimproveriamo per contrario di non aver ristaurato la repubblica secondo gli antichi e peculiari e naturali ordinamenti di essa, di averla voluto troppo vestire ed imbavagliare a mò di oltralpe; e che però la rivoluzione venisse posta alquanto in riposo, ma conservata in vita; le si mutasse divisa, ma non le si togliesse soldo.

E come nel libro precedente, secondo nostra povera scienza, facemmo di mostrare che quegli Stati d'Italia che più furono travagliati dallo spinto di novazione, durante il secolo XVIII, più poi trovaronsi presti ad insollire e ribellare alloraché scoppiò

Dei cinque Regni d'Italia — Vol. II. 9

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in aperta ribellione la Rivoluzione Francese; non altrimenti, e meglio forse, speriamo poter far chiaro come tra gli Stati italiani restaurati dopo la caduta del Buonaparte, si trovassero sempre più apparecchiati a congiurazioni, a tumulti, a rivolture, quelli che più avevan conservato gli istituti e lo spinto di quel breve ma funestissimo periodo della nostra istoria che si addimanda dalla Occupazione Francese.

E primo fra questi Napoli, i cui Reali della Casa di Borbone, per l'antico genio democratico di famiglia e la tenerezza del potere assoluto (connaturale di vero ad ogni monarca, e più ai principi di elati spirti), piacquersi di quel pessimo libro che dicesi Codice Napoleonico e 'l vollero ben conservare. Né poser mente come in esso fosse tutto sincretizzato il verbo della Rivoluzione Francese, e che però, distruggendo la vecchia società, dovesse necessariamente strascinar nella rovina di questa i suoi capì: e quali dopo i Romani Pontefici furono in essa maggiori che i principi della stirpe di Ugo Capeto?

Medesimamente come nocque molto a Napoli la conservazione dell'opera francese, la quale opera (incredibile a dirsi) fu portata dai Borboni stessi in Sicilia; in Sicilia che non era stata travagliata dalla Rivoluzione e che capiva e mal pativa il veleno di suoi frutti; così non giovò punto a Casa d'Austria lo aver conservato la tradizione contraria al Governo della Chiesa che avean legato alla burocrazia di Vienna gl'Imperadori Giuseppe II e Pietro Leopoldo; tradizione mista di giansenismo e di quel falso filosofismo che cagionò poi tante sventure

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e cui la Casa di Lorena dovette per così lunga guerra combattere.

E si che nelle Università dell'Impero insegnavasi il diritto ecclesiastico del Rechberger, e nei tribunali facevasi secondo la giurisprudenza del Van Espen. La nominazione dei vescovi e dei parrochi dipendeva dal Governo, e facea mestieri dei placet e dell'exequatur per pubblicar bolla del Pontefice, per dar valore ai suoi brevi, alle sue dispense od indulgenze, ned era tribunale ecclesiastico neppur per faccende di matrimonio e di benefizii: la Chiesa eravi affatto serva allo Stato.

E dove non erano gl'istituti francesi e quelli dei governi riformatori che precedettero i lunghi travagli onde usciasi, erano gli uomini che avevano mestolato nei governi caduti o militato negli eserciti di essi, quelli si arrabbattavano instancabilmente alla riscossa della rivoluzione. E ciò facevano alienando i principi dai popoli, e questi da quelli per l'oscuro mezzo della congiura. Mezzo, non solo immorale e pervertitore, ma stoltissimo; perocché esse congiure non possono non iscoppiare pur finalmente in sollevazioni, che, fiaccate, sperdono i forti e vieppiù disanimano i fiacchi, e mettono sempre in maggior diffidenza i principi. Indarno è l'affannarsi: i governi quando non sian vitali caggiono di per sé, e se rovesciati o feriti quando ancora in lor vigoria, risorgono a dispetto di ogni uomo, come di ogni opera. E questi fatti, malvagi sempre, ai tempi di che discorriamo erano fuormodo impotenti ed imprudenti, perciocché mulinati contro a Signori, più che avveduti, gelosi per le fresche sventure patite, ed in cospetto di uno

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straniero baldo delle recenti vittorie ed interessato a comprimere ogni moto novello, anche più che nol fosser le stesse naturali monarchie del Bel Paese, come quello che era più francamente avversato e minacciato di espulsione.

I principi restaurati dal Congresso di Vienna rifecero sì la cosa pubblica secondo le forme antiche, assolute (ed il Re di Sardegna ed il Duca di Modena più che altri, conciossiaché fossero secondati dai loro popoli che, come dicemmo, meno erano stati conci dallo spirito della rivoluzione); ma essi tutti, sia detto a loro eterna gloria, ripatriarono spogli di quell'odio e di quello spinto di vendetta onde tornarono sempre agitati i fuorusciti. E non furono supplizii, non condanne, non rancori, e neppur diffidenze a prima fronte; che anzi quei monarchi pareva facessero a gara di meglio raccettar fra loro servi i fautori della caduta potestà.

Ma questi per contrario non dismettevano; e avvegnaché quel quinquennio che corse dal 1815 al 1820 fosse stato senza comparazione felicissimo per clemenza e moderazione e buoni provvedimenti dei principi e migliori progressi dei popoli, quei sicofanti della tirannide buonapartesca, adontandosi forse di ciò, soffiavano fra gli Italiani essere essi i popoli di Europa «peggio governati e più oscuramente, e più illiberalmente, e che però dovessero uscir dal sonno e vendicare a sé quella libertà e quella indipendenza che si avevano altre nazioni molto men civili e men nobili della gente italiana.»

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E sì venivan crescendo tali desiderii, caldeggiati più che da altri da quei soldati dell'Impero Francese, che, come toccammo, concepirono il disegno di un reame d'Italia accentrato, come quello di Francia, e composto di tutte sue provincie ed isole e regioni dipendenti; ma che di quei giorni non più parlavano di questo, come di cosa troppo imprudente, e solo facevan parola quando di cacciar gli Austriaci dalla Insubria, quando di vendicare in libertà la Penisola.

Laonde confusi tra sé incedean tali desiderii tra le nostri genti, e confondevasi la parola libertà con il disegno d'indipendenza, e questo e quella nell'odio contro a quell'Impero Austriaco, che, vinto il Buonaparte, aveva ereditato il suo possesso nel bel paese.

Medesimamente le varie forme di libertà, tutte erano seguitate nei desiderii degli italiani: ché quali agognavano a quelle che vengonsi dalla monarchia rappresentativa all'inglese, quali a quella che derivava dalla Francese del 1814, quali volean la libertà spagnuola del 1812, quali quella della repubblica a modo moderno americano, e quali anche a quella del medio evo sospiravano ed a quella delle repubbliche greca e romana. Però era un patassio, un turbinìo di tutte brame e di opposti desiderii. 1 quali più facea di scomporre la scelta dei mezzi per che teneasi doversi raggiugnere e dar perfezione all’impresa: mezzi indeterminatissimi quanto e talor anche più dei disegni di quei rivoltuosi, agitati ormai non da bisogno ma da capriccio; perciocché, se la libertà non era nelle carte, era ben nei fatti dei principati italiani di quel quinquennio che dicemmo: se non era libertà politica, in somma, vi avea libertà civile a strabocco.

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Niuna idea aveano quei sediziosi di resistenza e conquiste legali di franchigie, ma solo sapevano di insurrezioni e di congiure... e chi non sa di queste in Italia che pur troppo è la terra classica di esse, ne par che voglia dismettere?

E però congiuravano. E siccome tornava impossibile fare a modo che i nostri padri del secolo XV o del XVI, così congiuravano per quel mezzo, non già più moderno, ma perfettuato di congiurazione che sono le sétte, le società segrete ecc.; ché di vero non altro sono esse che un estendimento di congiure parallelo al crescimento degli stati ed alla grande prolificazione dei mestatori di politica che successe ai pochi che se ne brigavano Dei passati secoli.

Le quali sétte noi, come già toccammo, teniamo siano state sempre e saranno, se pur non verrà migliore la gente, e che solo esse sogliano mutar di forma, di nome, di statuti, di disegno. Nondimanco mestieri è dire come il più degli scrittori moderni tenga che esse venissero di fuora, nel passato secolo, pur non volendo aggiustar fede a lor genealogie, perché esse si dicon più antiche: e queste erano le sétte dei Franchi Muratori o Massoni e quella degli Illuminati e non ricordiam quant'altre. Le quali sotto la tirannide di Napoleone assai dilataronsi, e più che altrove fra gli eserciti di lui. Ma esse, di vero, vi rimasero in ombra, né spiegaron loro potenza; almeno pubblicamente, siccome fanno ai di nostri.

Di esse par che nascesse in quel torno la setta che si addimanda Tugendbund, nata e cresciuta in Prussia negli anni che fu serva al Buonaparte,

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e la quale setta vuolsi aiutasse il sollevamento di quella parte di Germania, e, secondo altri, di tutta quella gran nazione contro alla tirannide Francese. Laonde vi rimase poscia pubblicamente, ma con nomi mutati e con disegni non avversi alla repubblica: a quel ne dicono. Ma indubitatamente di esse nasceva poi in quel tempo medesimo quella che si addimandò dei Carbonari. E dissero venisse caldeggiata dai Principi di Casa Borbone contro ai Buonaparteschi. Ma ciò è falso, e fu sbugiardata tante volte l'ignobile accusa, che noi maraviglieremmo del vederla ancor ripetuta da savii scrittori moderni, dove non conoscessimo ormai le arti dei rivoltosi, il loro coraggio del non rinculare né dismettere innanzi a smentita veruna; noi che vediamo accusare quali fautori di quello addimandano brigantaggio nell'Italia Meridionale, la povera Corte di Roma ed un misero Re spoglio anche di suo censo privato, e gli osceni calunniatori non desistere neppure innanzi alle mille prove della innocenza di loro vittime, neppure sbattuti dalla evidenza.

E questa setta dei Carbonari, con la quale aveva consentito lo stesso Giovachino Murat, non tardò a dichiararsi e ad operare contro ai principi restaurati dal Congresso di Vienna, proclamandosi ministra di libertà, della quale veramente era negazione pei vincoli di suoi adepti. Però faceva all'impazzata: ed i nemici di essa per combatterla immaginarono formare altre sétte, e sursero quelle dei Calderari, di certi cosi detti Guelfi, Sanfedisti, ecc. E chi ciò faceva non errava in principio, ma si nell'applicazione di esso.

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 Conciossiaché vero sia, verissimo che per mortificare o per isbattere una setta mestieri è d'una società. Ma questa, per essere seguitata e vincere, avrebbe dovuto opporsi tenendosi sugli spaldi della legalità e del giusto, non discorrendo ad altri eccessi, mostrandosi affatto contraria della setta nemica non solo pel suo fine, ma anche pei mezzi onde procedeva, e soprattutto esser non società secreta (cosa sempre pericolosa o rea), ma sì pubblica e riconosciuta.

Le sétte ossia società dei Frati Predicatori e dei Minori purgarono la società europea da quelle degli Albigesi, dei Patareni, dei Catari ecc., le sconfissero, le dibarbarono dalla terra: e chi ne dubita? Ma esse non avrebbero ferito segno dove non fossero state pubbliche, ned avessero operato per la santità del loro concetto e combattuto specialmente con la grande carità di loro vita e con la professione di tutte virtù. E si fecero, che nel medio evo veggiamo gloriarsi di appartenere al Terzo Ordine di S. Francesco, cioè essere affigliati alla setta di quel sommo, uomini come Dante Alighieri, principi quali Elisabetta di Ungheria, Luigi IX di Francia, Roberto di Napoli, Guido di Montefeltro, ecc. E quegli Albigesi, quei Patareni ecc. erano anch'essi sètte antisociali come le moderne. Ma la misericordia di Dio non ha voluto ancora mandar un uomo, che (come il Guzman od il Bernardoni e quelli che seguitarono quei grandi difensori della Religione e della Civiltà Cristiana) sappia intraprendere la guerra, per che il mondo dovrà purgarsi della brutta lue che lo ulcera e minaccialo di disfacimento.

Né ci si dica che queste sétte moderne sono politiche e che non si vuole adoperare

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contro esse le armi di un religioso istituto, perciocché oggi con tali parole non possono uccellarsi neppure 4 più mogi degli uomini. Aperto, confessato ormai è come la guerra politica sia stata e sia ancora mezzo per esse, non fine. Fu schiuso il santuario del tempio di cotali sétte, ed è affatto cieco colui che non vegga il nume che vi si adora invece di Jehova Santo, empio chi non ne torca il piede inorridito. La rivoltura moderna è guerra religiosa. Non si tratta di costituzione più o men liberale di Stato, ma sì di novella costituzione morale dell'umanità.

Ma più che delle sétte accennate dei Calderari, dei Guelfi ecc., i governi restaurati valsersi di altro istituto che non è men setta né men sudicia di quelle che ne travagliano tanto segretamente quanto pubblicamente, e questo istituto si è quella Polizia Politica che nacque Ira i marosi della Rivoluzione Francese, ed in processo fu usata dai governi rivoltuosi anche più che da quelli furono renitenti al far novità. E questa Polizia Politica pare che sdegni servire altro reggimento che quello non fosse di plebei tiranni. Perciocché, utile a questi indubitatamente, operò poi sempre in disservigio dei legittimi principi. Congiure non iscoprì mai che dopo scoppiate, tumulti non sedò, ma punì dopo composti dalla forza delle armi o dalla prudenza del principe, persona non amicò ad onesto reggimento; tutti i buoni per contrario fece di alienare con molestie di ogni fatta e vessazioni e gelosie, che gli uomini facilmente strascinano a quelle colpe delle quali sono sospettati, e che non possono o non vogliono o sentono non valere a discolparsi.

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Però nel 1820, scoppiate rivolture militari nella Spagna e nel Portogallo, incontanente diedersi a fare le sétte italiane, piene zeppe, come dicemmo, di soldati del caduto impero. E la setta dei Carbonari operò di ricolpo una rivoltura militare a Napoli, che vi proclamò, vi stabili in fretta la costituzione spagnuola del 1812, cioè la francese del 1792, quella per appunto la quale menò al patibolo il cugino e principe della casa di quel Re Ferdinando che si voleva facessele buon viso. E quella era una costituzione con principe senza voto; cioè con un principe senza libertà di monarca e neppure di cittadino: una costituzione con una sola camera ed un comitato permanente nei recessi di questa: insomma una costituzione non repubblicana né monarcale, perciocché il principe vi fosse simbolo, e verace ed assoluto signore il parlamento.

Un membro del quale, l'abate lacuzio, un bel giorno, con sicumera da cattedra e gorga affatto pugliese, surse a dire: «Noi qui sémo tutti re.» Risene l'uditorio, e per ogni dove il deputato di Biceglie venia domandato Re lacuzio. Ma Re Iacuzio avea ragione, perciocché la costituzione, in virtù della quale sedeano quei dabbenuomini, faceva che essi e non più i Principi di Casa Borbone fossero i Reali di Napoli. Re lacuzio non aveva altra colpa che quella di sua pronunzia e quella del definire e concludere, colpa grave spesso, e nei parlamenti gravissima.

 

Proclamata ed attuata così a baldanza in Napoli questa costituzione spagnuola o piuttosto francese del 1792, Sicilia, più rettamente pensando, gridò la sua costituzione antica, ammodernata poi nel 1812,

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e però separossi dal regno di terra ferma. Ma i liberali carbonari nol tollerarono, e di botto vi mandarono esercito capitanato dal Generale Florestano Pepe, che guerreggiò, vinse e costrinse la nobilissima isola a goder la libertà a modo che piaceva ai settatori napoletani.

E ciò nella meridionale Italia. Nella occidentale poi, in Piemonte, sul cominciare del 1821 i carbonari di colà, la più parte uomini militari degli eserciti napoleonici con a capo Carlo Alberto di Savoia Principe di Carignano, fecero anch'essi novità a modo di Napoli. La qual baldoria durò non più che un mese: perché sopraffatta dalle arme austriache che, prestamente chiamate dal Re di Sardegna, incontanente giunsero e vinsero e sperperarono l'esercito rivoltuoso in men che non scrivesi.

E colà il moto fu ingiusto ed imprudente non meno che a Napoli. Perocché quel buon re Vittorio Emmanuele I già volgevasi ad uomini non paurosi di libertà, né avversi ai buoni progredimenti; e già ammodernava lo Stato, per quanto le morali condizioni del popolo richiedevano ed era possibile senza venir sullo sdrucciolo delle rivolture; ed abdicando Vittorio Emmanuele e succedendo a lui il fratello Carlo Felice, questi salì pi trono con l'animo ancor più, e certo più giustamente, pieno di sospetti contro agli strilloni di libertà.

Nel frattanto che venia doma in Piemonte la rivoltura e con tanta lievezza, l'Eserci1o Austriaco, attraversando Italia da tutti i popoli di essa festeggiato, avea mosso contro Napoli per spegnere anche colà lo spirito di ribellione. Ed il parlamento mandògli incontro il Generale Guglielmo Pepe con esercito di gente fresca,

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di quella che i Romani dicevano tumultuaria e tutta descritta nelle ragunate dei carbonari, le così dette vendite della setta; e questa usa al facil cicaleccio delle parti, anzi che alle fatiche di Marte, tutta giurava morire per la libertà della patria e tutta tornava a vivere prestamente in servitù grassa e tranquilla.

La restaurazione dei due governi testé tanto stoltamente travagliati dalla rivoltura seguì moderata ed umana. Alcuni caporali di essa furono banditi in esilio: i più avevan già abbandonato la patria col cadere di loro fortuna, e solo due uffiziali di quei ribellati in Piemonte furono a pubblico esempio mandati a morte da Re Carlo Felice e due a Napoli da Re Ferdinando.

Ed allora furono nove anni di pace, sol molestati a quando i noti nemici della monarchia dalla mala setta della Polizia cui giovava mantenere l'ira delle parti; e molti, e forse non erriamo in asserire che i più dei carbonari passarono ai soldi di quello dicevano già il tiranno, e con ogni studio facevano che tale divenisse davvero, accusando di continuo lor passati cugini o soffiando sospetti contro essi e calunniandoli e stimolando i reggitori alla severità.

Accusata è sì quella età di servitù alla Potenza Austriaca. Ma essa era certo men grave che la moderna a Francia; perocché, a dimostrarla qual fosse veramente, basterebbero le parole di un illustre uomo di stato, il Fossombrone, ministro del Gran Duca di Toscana, il quale ad ambasciadore francese che dicevagli potente essere a Firenze il volere dell'Austria, rispondeva: «Ben potrebbe essere vero ciò che voi dite, ma indubitato è che il Gabinetto di Vienna non ce ne fa accorgere.»


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Ma la colpa onde eran rei veramente ed Austria e gli altri potentati d'Italia, e forse quasi tutti di Europa, l'è quella dello avere posto mano a ristaurare le antiche dinastie e lor reggimento, ma non le massime per che elle vissero e furono illustri tanto secolo. Alcuno studiavasi far prevalere un cotal consiglio in quel consesso assembratosi a Verona. Ma sparnazzò indarno sua fatica, conciossiaché già Europa non fosse più. Il Conte Giuseppe di Mestre, il maggiore filosofo di nostro secolo, il solo forse dei moderni per cui non va prostituito un tanto titolo, moribondo l'anno 1820, accomiatavasi da suoi amici dicendo: «Addio. Io men vo. E non solo! Io men vo di brigata con l'Europa. Non è egli vero che parto in buona compagnia?»

E sì giunse il 1830. Le sétte rivoltuose ammettono una provvidenza istorica di lor proprio stampo, e per la quale inferiscono le rivolture essere naturale, pura, necessaria conseguenza del malcontento dei popoli o di alcun loro bisogno divenuto sovrano. Pur noi vogliamo giudicare a lor modo in questa, e però ne è gioco forza venir nella sentenza, che ottimo e quasi universalmente consentito fosse il reggimento dei principi italiani che seguì la restaurazione dell'anno 1814 ed i tumulti del 1820; poiché, fra tanto foco di ribellione che ardeva quasi tutta Europa in quell'anno 1830, Italia teneasi in pace ed in fede quasi tutta.

Dall'altro versante delle Alpi, in luglio 1830, la troppo vicina Francia, agitata da sua rabbia democratica e dallo spirito anticristiano della grande rivoluzione,

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colà men che altrove spento, cacciava i Borboni dello stipite e, per costituzione affatto rivoltuosa, intronizzava i Borboni della branca dei Duchi di Orléans.

Ed altra rivoltura seguia nel Belgio. Ma giusta era questa, ma onorata, e della quale veniasi l'indipendenza di quei gloriosi, solerti, civilissimi popoli, come quelli che sempre furono cattolicissimi, e la separazione di quelle schiatte galliche affatto dalla razza teutonica del paese di Olanda: e del pari fra i Tedeschi fur tumulti assai e varii, cui tenner dietro concessioni di monarchia rappresentativa in parecchi principati della Confederazione.

Medesimamente fu allora anche in Polonia una gran levata di popolo per vendicarsi quella indipendenza di che i padri sì bruttamente avean fatto getto; rivolgimento giusto, santo diremmo quasi, e sopratutto meravigliosamente propugnato con le armi da quella schiatta armigera degli Slavi Cattolici, ma infelicissimamente perduto e brutto per le solite gare di libertà1 e dal solito spirito di democrazia sorto a sbatterlo presto e più che il valore degli Slavi Russi e Scismatici.

E tale era in quell'anno lo ardore del rivolgersi o del riformarsi, che anche la vecchia Inghilterra minacciava dar nei fatti, ed indubitatamente avrebbe, dove quella non governassesi ad aristocrazia. E però questa, sapiente e sperta quanto la Veneta dei migliori secoli della Repubblica di S. Marco, seppe antivenire i tumulti popoleschi col por mano alla

(1)La Repubblica Polacca portava scritto nelle sue bandiere Malo periculosam libertatem quani quietum servitium. E la pericolosa libertà la condusse nel temuto quieto servizio, sì l'uno fu sempre corollario dell'altra.

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riforma parlamentare, concessione che non scemò ma accrebbe di potere la parte aristocratica e conservatrice, ché non la diradò ma la estese, se nell'Impero Britannico aristocrazia non è solamente la Camera dei Pari, ma anche quella dei Gentiluomini dei Comuni.

Ed Italia quietava. E sì che le sétte le quali avevano figliato quelli ingiusti, quelli stoltissimi ed imprudentissimi moti del 1820 erano ancor vive ed ancor tenevano lor colloquii e ragunate, avvegnaché facessero in ombra. E come il succeder di novello principe dié sempre grande agio allo insollire ed al rivolgersi; così grandissimo avrebbene conceduto ai popoli della Penisola l'avvenimento di nuovi monarchi sui tre maggiori troni d'Italia, quel di Roma, cioè, e quel di Napoli e quel di Sardegna.

Conciossiaché, tornati al loro Signore in poco scorrer di tempo Leone Papa XII e Pio VIII, principi forti, santi, avvedutissimi, succedesse nella somma cattedra Don Mauro Cappellari Monaco Benedettino della Riforma Camaldolese, uomo dei più dotti di Europa e dei più santi della Cattolicità, ma che nel reggimento dello Stato apportava necessariamente quel rigorismo e quella uniformità che il cenobio conservano, e lo Stato, se non mortificano, intorpidiscono; e però non tutti accoglievano lietamente l'esaltazione di tanto uomo.

Per contrario a Napoli somma era la gioia dell'universale per cui al buono, al molto erudito, ma debil re, Francesco I di Borbone, figliuolo che fu di Ferdinando e di Carolina d'Austria, succedeva quel Ferdinando II che poi (imperitura e certo incontrastabile gloria) fu,

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dopo Filippo II di Spagna, il principe più combattuto ed esecrato e calunniato dai sicofanti della rivoltura moderna, vuoi italiani, vuoi francesi, vuoi inglesi, vuoi di ogni famiglia del mondo e d'ogni setta.

Bello e prestante dell'ingegno come della persona, giusto e clemente come i Re Capetingi quasi tutti (e noi scriviamo per coloro che appresero le istorie nei libri degli storici, non nel bordello dei romanzatori francesi e nelle loggie dei massoni), quel Borbone era largo senza esser prodigo, e, come verace cavaliere, nemico di pompa e di vanagloria, temperato nei piaceri quanto filosofo, nella famiglia buono ed amoroso quasi uom di popolo, ardente nella sua fede come neofita, saldo nelle sue massime assai più che non si venga ad uomo politico, erudito, spiritoso, efficace ed affabile come sirena, despota quanto un liberale.

Però i vizi come le colpe di tanto uomo furono conseguenza di sue stesse virtù, e di sue stesse virtù più che mai l'odio onde fu onorato dai rivoltosi.

E sì che niuno meglio che Re Ferdinando II era fatto per venire in grande amore della democrazia: perciocché ed il genio popolesco della famiglia ed il suo grande amore di giustizia, non altrimenti che la smania di tutto fare da sé ed a proprio modo, facevangli schifare i grandi, e cercare la gente ima e serva, come quella che più si accomoda al piacer del padrone.

Ma questa serviagli come per fitto, non era sua: né poi le sétte, che tanto già potevano fra e su la gente nuova, sapevangli perdonare il disprezzo in che le avea, lo ingegno non volgare onde era governato il suo animo, la sua pietà, e l'alta idea che portava della dignità di monarca.

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Ma le virtù di tanto principe, non altrimenti che il danno il quale veniasi di esse per le sétte segrete, non erano ancora palesi. Però queste non vedevano in lui che un re giovane, bello, ardente di gloria, che ascendeva il trono degli avi suoi, aprendo le braccia a tutti gli amici ed anche ai nemici della sua stirpe; un re che a quasi tutti i fuorusciti riapriva le porte della patria, che a qualunque reo di maestà frangea le catene, e provvedea vivesse in onorata agiatezza, che cacciava malversatori e parassiti di corte e magistrati venali, che prometteva «sanar le piaghe del regno,» che ponea mano allo ordinare l'erario, dissestato dalla prodigalità di Re Francesco, ma più dalle rivolture passate; un re che disegnava fecondare i patrii istituti, non a colore di parte guardando, ma si a valore di uomo: e però tutti, quale per verace entusiasmo, quale per simulato, quale per gratitudine, quale per prudenza, quale per amore del bene, e quale anche per lo appetito del male, tutti benedicevano e levavano a cielo Ferdinando, padre del popolo, restauratore della felicità, iniziatore di una novella età di giustizia e di opulenza.

 

Ma non così, né con plauso di alcuno, saliva a regnare in Piemonte Carlo Alberto di Carignano, cui i fautori della moda antica di Casa Savoia gelosivano, temevano novatore e tuttor seguace segreto delle massime della Rivoluzione, che già dieci anni addietro aveva caldeggiato; Carlo Alberto, cui d'altra banda i segreti settatori esecravano (come quelli, che non con equa lance giudicando, si tenean traditi da lui e venduti)

Dei cinque Regni d' Italia — Vol. II. 10

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cui anche i vagheggiatori di miglioranza e di progredimento guardavano tremanti.

E si che essi temevano non le stesse colpe passate e l'odio, che necessariamente doveva ardere in lui per suoi odiatori, e la necessità d'ingraziarsi la parte retriva e la trapotente vicina Casa di Austria, cui egli erasi anche congiunto per parentado e disegnava congiungere il figliuolo, farebberlo di leggieri discorrere a tirannide, e certo conservare la repubblica in suo vecchio stato e la nazione in vassallaggio dei Tedeschi. Ed il non avere, non che posto mano, accennato ad alcuno di quei provvidi atti, che illustravano lo ascendere al trono di Re Ferdinando, ed il neppur graziare suoi antichi compagni di rivolture e di esilio, più che più alienavangli i cuori di parte liberale, e (dobbiam pur dirlo) di ogni onesto, di ogni generoso che fosse in Europa; ondechè il nome di Carlo Alberto, in quel torno, venia per ogni dove vituperato.

Re Ferdinando di Napoli e Carlo Alberto di Sardegna rappresentano la rivoltura, lo stato morale, la politica Italiana di meglio che un quarto di secolo, la mira di Casa Savoia, la resistenza di Casa Borbone. Laonde chiediamo ne sia conceduto discorrere alquanto più diffusamente delle cose del Principe Subalpino pria che venisse re; perocché gli uomini forniscono il più delle volte lor vita per quelle massime onde esordirono o nelle quali furono creati, e mal s'intende delle opere di taluno senza saperne a dovere il passato.

Re Cado Alberto adunque, come ognun sa, nasceva l'anno 1798 dai Principi di Carignano,

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cioè di un ramo di Casa Savoia da meglio di due secoli diviso dal ceppo; e però cosi lontano dai principi di esso e dalla speranza della successione, che i suoi parenti eran tenuti più come nobilissimi privati che come principi di regia stirpe. E già più con patrizie contraevan parentadi che con case sovrane; ed una suddivisione di esso ramo dei Principi di Carignano (la branca che dissesi di Savoia Soissons, ed oggi porta il titolo di Principe di Carignano, onde venne regalata da Re Carlo Alberto, quando dismise questo e ascese al trono), era venuta in così povera fortuna, che alleavasi a famiglie di borghesia, serviva in umile grado principi forestieri.

Ad ogni modo sì poco capace di destar gelosie era la condizione dei Carignano, che, a tempo della Rivoluzione Francese, caduto il trono della Casa di Savoia e cacciata la regia famiglia, i genitori di Carlo Alberto rimasero in Piemonte come privati ed i Giacobini gli tolleravano di leggieri. Certo è pure che un dì, andando in carrozza la Principessa di Carignano con il bambino Carlo Alberto, questa fu pregata da repubblicani di calarsi e danzare la Carmagnola attorno a quella pertica cui addomandavano albero della libertà; albero senza foglie e senza frutti, e cui avremmo addimandato più rettamente palo della libertà. — La Principessa di Carignano accondiscese e danzò, tenendo pur fra le braccia il figliuolo.

Morto poco appresso il Principe di Carignano, la Principessa vedova di lui, che nascea dai Duchi di Curlandia, riparò a Francia, dove viveva amicamente coi Buonaparte. Era essa grande e maschia del volto, della voce, del portamento come granatiere di Federico I di Prussia.

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Passò a seconde nozze con piccolo gentiluomo per nome di Molheart; e però Carlo Alberto venia crescendo in questa novella famiglia della madre, la quale fu feconda di altri figliuoli. E presto fu cacciato in parecchi collegi di Parigi, di Ginevra; e avanzò così negli studi tra cattolici, protestanti, atei, repubblicani, buonaparteschi e peggio; nati di bordaglia i più, se non tutti. Pure (vedi prodigio della nobiltà del sangue) il Carignano riuscì più e cortese uomo.

L'anno 1814, sendo per uscir di palestra, la madre avevagli ottenuto brevetto da Napoleone, per che venia nominato sottotenente nello esercito francese e mandato al presidio di Bordò. Ed alcuni asseriscono giungesse anche a vestire la divisa buonapartesca; quando, caduta pur finalmente la fortuna del massimo despota, corse a Torino, dove fu amorevolissimamente accolto da Re Vittorio Emmanuele I, che il riconobbe come agnato. Poi, non avendo prole maschile esso, né alcun figliuolo il fratello, e reggendosi felicissimamente per legge salica i Reali di Savoia, Re Vittorio Emmanuele fece riconoscere il giovane Principe di Carignano quale erede presuntivo dai potentati assembratisi a Vienna, dando così virtù ad amico articolo del Trattato di Vesfaglia o della Quadruplice Alleanza, ed agli insegnamenti del diritto pubblico del Mably.

Contraddiceva a quest'accordo Casa d'Austria, tra per sua cupidità, e perché le sapeva reo il vedere ed aver re vicino principe già privato, e cosi fattamente creato in atmosfera rivoltuosa e nemica alla sua possanza. Ma Vittorio Emmanuele cosi difese le ragioni dell'agnato Carlo Alberto,

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e così il sostenne Alessandro Imperatore di Russia, che ogni opposizione o maneggio contrario tornò vano.

In uggia a vecchi retrivi ed assolutisti della Corte di Re Vittorio Emmanuele, il Principe di Carignano circondavasi di giovani liberali, o veramente di quelli educati alle idee del tempo buonapartesco, e fra le arme dell'Impero Francese e fra le sétte di che toccammo. Però nel 1821, parendo sdimenticare gli obblighi che il legavano al suo re e suo benefattore, fu a capo della rivoltura con titolo di reggente. Ma sbaragliate le arme piemontesi dalle austriache, fuggì... e noi non vogliamo fermarci di vantaggio nel dir di quel moto, né in giudicare della condotta di quel Principe in quel frangente; perocché non vorremmo si apponessero a nimistà di parte nostre parole.

Questo sì non possiamo tacere, che egli andò a fare ammenda in Ispagna dei suoi errori commessi in Piemonte, e colà, combattendo contro ai Costituzionali Iberici, assai valorosamente diportossi al Trocadero: onde fu poi riammesso in patria, e dalla Regina Cristina di Borbone (moglie di Re Carlo Felice e protettrice sua generosissima) venne guiderdonato di una spada dall'elsa riccamente gemmata, la quale ancor vedi conservata nella bella raccolta di armadure che nobilita la Reggia di Torino.

Dove, venuto a vivere con la consorte austriaca (ottima principessa davvero), Carlo Alberto di Carignano era tenuto universalmente nemico alle già professate massime, e si che dicevasi lui aver mutato parte. Non pertanto Re Carlo Felice, che non era uomo di lettere, ma principe oltremodo sagace, il reputava tuttavia carbonaro.

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Non l'esecrava, perché plasmato di quella generosa tempra dei Re di Casa Savoia; ma non il careggiava di certo. Ed una sera, nel Teatro Regio, a quella sua piissima Cristina di Borbone, che faceva di disporlo più amorevolmente a pro del suo successore, dicendo lui esser contrito, convertito, eccetera: «Non mi parlate di conversione, rispondeva, ché in fatto di convertiti io non ne credo che due.»

Erano i due uffiziali dell'esercito piemontese messi a morte per i fatti del 21.

Dicemmo Italia tra le rivolture del 1830 si tenesse in pace ed in fede quasi tutta. Ma non dicemmo tutta: perciocché molto si arrabbattassero le sétte della Emilia a ribellare lo Stato della Chiesa e mutar quello d'Italia; avvegnaché con poco e ridevole frutto davvero.

A Roma, pochi dì innanzi i tumulti di Bologna e di Modena, alcuni carbonari ed antichi soldati del tempo buonapartesco, con alla testa Napoleone e Luigi Buonaparte, figliuoli di Ortensia di Beauharnais, congiurarono di impadronirsi della Mole Adriana per sorpresa, gridando Italia, Roma, la costituzione1. Ma la mala impresa aborti; né meno ridicolosamente fallivano altri tumulti ad Ancona ed altre terre delle Marche.

A Bologna, a Modena ed in parecchi luoghi della Romagna la setta dei Carbonari ribellava contro la legittima signoria, costituendone altra di avvocati e mercanti, che di botto pubblicaronvi il Codice Napoleonico, Corano della Rivoluzione. Ma quei tumulti, sedati dalle arme austriache con maravigliosa lievezza,

(1)Hisloire de la Renaissance politique de l'Italie. 1814, 1861, par Adolphe Rey. Paris, 1864.

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risursero; ondeché furono domi ben presto un'altra volta dalle schiere medesime e da quelle della Corte di Roma e dagli stessi uomini del contado, le truppe dei tumultuanti disperdendosi per tutto, quasi senza opporre resistenza; poi indubitato è non poter mai aver forza di vita un movimento, il quale non sia consentito dai più o non venga da verace bisogna dei popoli e dei tempi.

Lo spirito di rivoltura, nel frattanto, l'anno 1833, scoppiava novellamente a Modena ed in Piemonte. Ma fu spento allora con supplizi anche troppi dal nuovo Re di Sardegna Carlo Alberto, e dallo erede di Casa d'Este; e però più che più alienavasi parte liberale e da quel piccolo principe della Emilia e dal Monarca Sabaudo; e meglio diedersi a fare in ombra le sétte, sì malamente combattute con la violenza e spesso ancora con l'ingiustizia.

E tra i fuorusciti di Piemonte riparati a Marsiglia, maravigliosamente veniva crescendo di fama, tale che oggi pur troppo bassi a tenere siccome dei più possenti uomini, non che d'Italia, d'Europa, e certo dei più singolari caratteri cui possan presentare le istorie: noi vogliamo dire Giuseppe Mazzini.

Nato congiuratore, come Michel di Lando nascea tribuno, come condottiero l'Attendolo, eccetera, il Mazzini disposa al suo naturai genio di rivolgimento una confidenza incrollabile nel buon successo di sue mire, ed una operosità più costante e forte che non si vegga nel secolo e nella oziosa terra italiana. Presentavasi all’ardente gioventù quasi uomo ispirato, come profeta dell'idea,

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come condottiero novello di un popolo al racquisto di sua grandezza preterita; e fu seguitato da molti, tuttocché non scendesse egli medesimo tra i combattenti, né fosse ricco di erudizione, né di pensieri, né di eloquenza. E per appunto in questa, non direm poverezza, ma carizia di virtù intellettuali, Vincenzo Gioberti dicevane stare il segreto del che consentisse tanto con il Mazzini la gioventù italiana; perocché dove fosse più dovizioso di pensamenti, non potrebbe esser compreso da gente la più parte indotta e volgare. Quella miscela di fantastico e di realismo, di misticismo e di demagogia, che emerge con tanta bizzarria dalle scritture e dar parlari di questo protoplasta della moderna rivoltura italiana, non poteva non fascinare una gente naturalmente corriva all'entusiasmo; laonde operi egli aperto o celato, si tragga in ombra o venga innanzi, il Mazzini si vuol reputare anima e sostegno di quasi ogni opera che fu tentata o fornita nella Penisola, dall'anno 1831 al giorno in cui dettiam queste pagine.

Il nuovo congiuratore genovese ben presto faceva scisma dalla vecchia setta dei Carbonari, costituendo quella che dissesi Giovane Italia; ed a questa dettava come dogma la repubblica democratica fatta dal popolo e per il popolo. Egli non voleva reggimento misto, predicandolo bugiardo ed incapace di tenere in verace libertà il Paese. Medesimamente respingeva la forma federativa, dicendo ottima per la repubblica quella di Stato uno ed indivisibile. Però, volendo Italia unita e costituita in repubblica, proclamava Roma dover essere metropoli di essa; e non essendovi luogo per principi

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nella sua Italia rigenerata, non ve ne doveva esser neppur per pontefici.

Alla Roma dei Cesari ed a quella dei Papi, diceva egli, deve succedere una Roma del Popolo, sede di nuovo progredimento civile, politico e religioso. Il rivolgimento proclamato dal Mazzini fu dunque sin dal principio sociale e religioso più che politico; e però, a differenza di coloro cui giovò fin oggi la sua opera, egli fu sempre aperto nel proclamare le sue dottrine e sempre leale nel drizzare al segno di sua mira. Ecclettico poi nel suo sistema, pensieri e mezzi tolse in prestanza ai frammassoni, ai carbonari, ai socialisti francesi ed ai settatori della Giovane Polonia, e tutto riassunse nella formola facile e breve: Dio e Popolo, che per verità sarebbe un popolo senza Dio ed un Dio senza popolo. Però lieve è comprendere che fatta di gente ragunassesi sotto a tal bandiera, e per quali sconsigliati passi ed a quali opere procedessero cotal tesmoforo e la sua setta.

Laonde dal radicalismo di cotesta, dalle sue imprese risicate, e da quel dogmatismo che crede con una formola potersi mutare la società degli uomini, aborriva la parte più avveduta dei liberali italiani; e dalla antica setta dei Carbonari si faceva altro scisma che voleva un reggimento costituzionale, confederazione di Stati, una Italia conservata cattolica e messa quasi sotto la soprassovranità dei Romani Pontefici. Rinasceva, dunque, non diremo la setta, ma sì la scuola guelfa; scuola veramente, perocché pubblica fosse questa e naturale alla Penisola, non vincolata da regole né da giuramento, né da obblighi né da conciliaboli, ma libera e tutta costituita nell'opinione; e coloro che consentianvi,

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per lo più uomini di lettere e patrizi, degni veramente di cotali nomi, non volevano distruggere ma affortificare lo Stato; non bandir principi ma conservarli e fargli più sicuri e più nobili in lor monarcale grandezza.

La storia politica di tutte le nazioni in generale mal può scompagnarsi dalla storia letteraria. E più che per le altre provincie d'Europa e per i tempi che furono, per questa nostra Italia e per la nostra età. Nelle quali veggiamo così la fazione che spinse alla rivoltura, come la parte che vi si oppone e vorrebbe arrestare le nostre genti sulla china onde fanno di precipitarla i novatori del secolo, entrambe originarsi dalle scuole, dagli scrittori e dalle opere alle quali vennero educati gli uomini fra cui viviamo.

Usciti di vita il Genovesi, il Pagano, l'Alfieri, il Parini, il Cesarotti, gli scrittori insomma e i pensatori che fiorirono sul cadere del passato secolo, lo spirito di loro opere serpeggiava ancora fra la gente italiana, e vi era fecondato dal Monti, dal Foscolo, dal Denina, dal Borelli, dal Coco, dal Botta, che mantenevano nella Penisola lo spirito così detto liberale, ma per verità indeterminato e disperso fra mire diverse. Ed in questa surse prima Carlo Troja con il suo libro del Veltro e poi con le dottissime istorie del medio evo. Tosto gli tenne dietro Alessandro Manzoni con i mirabili suoi inni sacri e le sue due tragedie e il gran romanzo dei Promessi Sposi: e questi due grandi nostri conterranei, con il loro amabil valore e con il sentimento profondamente religioso e liberale nel tempo stesso, al quale informarono le loro opere, servirono immediate a tórre la ben nata e bene educata gioventù dalle vie empie, stolte ed incivili del falso filosofismo del secolo XVIII.

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Laonde, proclamando indivisibile la grandezza della Penisola dalla esistenza del Papato e dal suo dominio temporale, gridando la croce addosso ai barbari, ma non contro alcun principato od istituto o persona italiana, preparavano gli spiriti dei più saggi ad un onesto e naturale rivolgimento, disarmavano gli oppositori, confortavano i tementi delle nuove cose.

Se non che sursero due altri grandi scrittori che par consentissero piuttosto con la parte esagerata dei liberali italiani, con quella capitanata di là dell'Alpi dal Mazzini: il Leopardi, vogliamo dire, ed il Giusti. E questi col spiritoso radicalismo della sua satira, quegli con l'attica venustà dei suoi canti anticristiani ed insociali, non poche delle giovani menti italiane venian fuorviando dal buon sentiero pel quale dilungavansi; e però veniasi diradando la schiera liberale e cattolica che voleva una Italia confederata e corretta da libertà moderate e di natura italiana, non di quelle nate in Francia e strombazzate dalla setta dei Giacobini.

Ma ben tosto venne in mezzo altro scrittore, il quale con la sua facondia e magniloquenza ragunava issofatto il più delle divise genti e le mire diverse; venne Vincenzo Gioberti, che con quel suo bellissimo libro del Primato civile e morale degli Italiani, riconduceva a quella reciproca moderazione dalla quale di santa ragione si aspettavano ogni bene i veraci amatori d'Italia, non i settatori di una rivoluzione cosmopolita, per i quali davvero non esiste Italia, ma l'umana schiatta ed un mondo che vorrebbono conciare a lor moda.


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Però il volgo dei liberali, i fuorusciti ed i tenaci corifei delle vecchie sétte presero tutti a gridare ed a fare contro il Gioberti ed il suo libro. Ma per questo stava sempre la parte più saggia degli Italiani, ed il conte Cesare Balbo, il Cantù, il Tommaseo, il Capponi, ed altri ingegni italiani venian diffondendo con loro scritture opinioni ed idee non discordanti da quelle del filosofo piemontese. Se non che questi inciampò tosto nel brutto errore di voler accomodarsi a' suoi avversi, e per tal modo ridurgli sotto alle sue bandiere; e (comeché spesso i grandi, i quali meglio che altri comprendono le peregrino ragioni delle cose, sono poi ottusi per le ovvie) il Gioberti non vedeva che gli uomini e le loro sétte procedono anche più per impulso dei contrari che per lor propria forza motiva.

Perocché al Primato seguiva presto altro libro: i Prolegomeni. Nel quale il Gioberti sacrificava ai liberali radicali i Gesuiti, che avevanlo sino a quel giorno protetto e fatto sì che venisse in fama; ed esaltava Carlo Alberto principe sino a quei dì retrivo, ma che cominciava, per ancora incerta ragione, a saper men reo alla parte liberale ed anche radicale degli Italiani. E nel libro medesimo terribilmente apriva guerra contro a Re Ferdinando di Napoli ed al Governo Pontificio; perocché avessero con severità combattuto esterne aggressioni e represso sconsigliati moti, suscitati nel Regno e nella Romagna della setta Mazziniana. L'ingiustizia di tal fare alienò sventuratissimamente il Monarca Napoletano dalle oneste mire degli Italiani, e fece che esso cominciasse a vedere un nemico di sé e della sua dinastia in ogni uomo che scrivesse o parlasse di risorgimento italiano.

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Il Gioberti adunque e gli altri scrittori, che lui tennero dietro, quel che facevano a pro d'Italia, ragunandone le divise opinioni, disfacevano poi, alienandone molti valorosi uomini, i quali chiaro vedevano in quella guerra bandita ai Gesuiti ed agli uomini della Curia Romana, un principio di rivoluzione di natura francese; e più che più disservivano la patria comune, nimicando il maggiore dei potentati italiani, quegli che fra essi era il più forte per animo, per pecunia, per arme. L'Albertismo nasceva: la causa italiana, già prima che scoppiassero i rivolgimenti italiani, diventava causa di Casa Savoia; ma non tutti sapevano né potevan così presto vedere sì addentro.

Queste opinioni ed il loro lavorio furono molto diffuse dai Congressi degli Scienziati, tenutisi in parecchie città italiane, ed ai quali non aveva temuto di aprir le porte del suo regno e la sua reggia neppur l'avvedutissimo Ferdinando di Borbone. E tosto vennero meglio affortificate e fecero maggior cammino per la esaltazione del novello Pontefice Pio IX. Il quale consigliato, più che da politica considerazione, dalla grande pietà e generosità del suo animo, promulgava ampia amnistia per tutti i rei politici del suo Stato, ed apriva il cammino a quella riformazione della cosa pubblica, la quale era predicata buona e necessaria dai politicanti della Penisola e di Oltralpe. Laonde Pio IX pareva pontefice eletto secondo il cuor del Gioberti. Il suo avvenimento pareva una vittoria del Primato; e di quei giorni la rivoltura italiana passò dalle carte nell'opere, e schiusesi quel periodo di nostra storia moderna che dissesi delle riforme:

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periodo felicissimo per nobiltà di aspirazione, per letizia di speranza, per fratellanza di uomini e di caste, per gentilezza di mezzi, per concordia di principi; cosicché la gente italiana pareva naturata per il libero reggimento, degna di ogni miglior sorte di che possa largheggiare civiltà alle nazioni.

Fra quei festanti e quei festeggiamenti arrotavansi, egli è vero, non pochi uomini di mala volontà. Ma la loro pravità così bene sapevano essi mantellare con l'ipocrisia, e così poco sospettosa è d'ordinario la letizia, che lieti il Granduca di Toscana ed il Re di Sardegna seguitavano nel cammino del progredimento il generoso Pontefice, né molti sapevano antivedere il fine di cosifatte Baldorie. Se non che in mezzo al vociare di parte liberale per tutta Europa, e l'esecrazione di ogni gente, teneva duro Re Ferdinando di Napoli, il quale conosceva i motivi di quei fatti, sapevasi come mal si patteggi con naturale nimico, come il compito delle rivolture bene spesso fosse tutt'altro che quello venne proclamato in loro esordire. Vagheggiatori noi pure di riformazioni e d'indipendenza nazionale e di confederazione di principi, e però avverso allora a quel Monarca, la miseria in che ora veggiamo condotto il nostro paese, ne costringe, come cristiano e gentiluomo, a fare ammenda, e però a lodare quel principe per appunto di quella renitenza che allora tenevamo a malvagia.

E Re Ferdinando, oltre al comprendere la natura della rivoluzione italiana (preveggenza del che era incapace la inesperta e non bene addottrinata gioventù), opponevasi alle richieste di riformazione che gli venivan da tutte parti d'Italia ed anche di Oltralpe,

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mostrando come già i sudditi suoi fossero in possesso di quegli istituti e quegli ordinamenti, allo stabilimento dei quali procedevasi con tanta festa per altre provincie italiane. E di vero non andava errato. Ma egli, che dell'indipendenza del suo paese e di sua corona non aveva solamente l'amore, ma la gelosa smania, trovavasi quasi isolato fra i Principi di Europa; solo legato di amistà con l'Imperatore delle Russie, perocché la lontananza e le materiali e morali condizioni dell'impero di lui facesser che l'Autocrate non poteva di alcuna cosa richiederlo. Ed intanto avevasi nimicata Inghilterra, che per la signoria dei mari è ognora propinqua agli Stati della Penisola. Laonde tra i potentati di Europa non pochi associavansi al grido della piazza e della stampa contro il Monarca Napoletano; ed il Governo Britannico caldeggiava tumulti nella strema parte della Penisola e ribellava Sicilia al suo signore, facendo gridare la costituzione riformata nel 1812, ed indipendenza dallo Stato di terra-ferma.

Però Re Ferdinando costretto dalla guerra intestina e dall'esterna malevoglienza a restaurare Sicilia di sue antiche libertà, concessene anche a Napoli: ma sventuratamente troppe, e di quelle innaturali al paese, perocché figliate non dagli antichi ordinamenti e costumi e necessità di esso, ma sì dalle male massime, per le male arti e fra i maledetti marosi delle rivolture francesi.

Laonde, e pel soverchio di tali concessioni, e perché il conceder costretto è sempre pronubo di sospetti, né sa amicare persona al donatore, Sicilia continuava in sua pervicacia contro al Re ed alla gente napolitana.

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Ed i settatori della Giovane Italia e gli Albertisti, accorsi a Napoli prestamente dall’altre provincie d'Italia, immediate dopo la promulgazione dello statuto diedersi a fare tumulto contro alla dinastia imperante, contro agli ordini religiosi, violando la testé giurata costituzione con la cacciata dei Gesuiti, e chiedendo statuto anche più democratico di quello democraticissimo che era stato dato al reame; una sola camera, revisione e fecondazione di una legge che schiudeva libertà, le quali sarebbono state anche troppe per i civili e morigerati popoli della Magna, della Britannia eccetera.

Cessato il periodo della Rivoluzione Italiana, il quale addimandavasi dalle riforme, e cominciato quello da governi rappresentativi, Re Carlo Alberto di Sardegna ed il Pontefice ed il Granduca di Toscana non poterono non tener dietro prestamente al Monarca delle Sicilie, e promulgarono anche essi liberi statuti per le loro genti, tutti più o meno simili alla costituzione largita al Napoletano. Ma nel frattanto che Italia entrava nella rivoluzione rappresentativa europea, o veramente apprestavasi a far la prova del reggimento misto, scoppiò in Francia quell'ingiustissimo tumulto che bandì i Borboni della branca di Orleans, e vi stabilì quella repubblica che presto poi riconduceva la sedicente gran nazione in servitù del Buonaparte, che oggi ne corregge le sorti.

E quella si fu sopragrandissima sventura per gli Italiani. I mali che di essa scaturirono son di quei pochi dei quali non possi appuntare i vizi né le colpe di nostre genti;

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perocché non erano esse, ma sì la troppo vicina Francia, che con il suo esempio e l'opera dei suoi democratizzatori venia infocando la parte esagerata dei nostri liberali, e destando legittime gelosie e timori giustissimi nei governanti e negli amici del buon stato; e però una terza o meglio una quarta o quinta volta quella pur cortese e valorosa gente di Brenno sorgeva a turbare le cose d'Italia, ad interromperne l'assettamento e quel progresso riformativo; il quale, comunquemente esordito, pure avrebbe potuto raddrizzarsi in suo cammino, cosi per la virtù dei principi che imperavano nel Bel Paese, come per impeto di quello ingegno che non falliva giammai al nobilissimo seme latino.

E si cominciava quell'anno 1848 che rimarrà sempre memorabile fra le nostre genti e negli ammaestramenti della storia di ogni paese. Conciossiaché fosse allora che si appalesassero dietro alle due buone e giuste idee delle indipendenze nazionali e dei governi temperati, quei due perniciosissimi ed antisociali appetiti che minaccian rimbarberire Europa: l'ambizione di una democrazia assoluta, esclusiva, sotto i nomi e i desiderii poco diversi di comunismo e di socialismo: la smania della cosiddetta unità delle nazioni o riduzione di esse in uno Stato solo e centrale.

La novella rivoltura Francese originavasi dalla prima di queste due idee; e presto furono tumulti e sconvolgimenti nella Magna per attuarne la seconda. Italia, cui già incombeva il troppo difficile carico di aver sventuratamente, ad un tempo medesimo,

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a faticare per lo stabilimento delle libertà e per il riacquisto della indipendenza, tosto fu distratta dal nobile uffizio. Seguace, per antica lue, di tutte mode e mattezze di Oltralpe, non poté tenersi anche questa volta dallo anfanare per ciò che facevasi in Francia e fra Tudeschi. Però, dando orecchio a quella parte dei liberali, che cominciavasi ad addimandare Albertista, principiava ad arrabattarsi per questo, che il Balbo chiamava «vano desiderio dell'unità o sogno settario1» e, seguitando i corifei della Giovane Italia, dava opera per il conseguimento della unificazione dello Stato, non men che della assoluta democrazia, che veramente ne è corona, e che essi tenevano anche il mezzo più spiccio ad istabilirla.

Alla promulgazione degli statuti di Napoli, di Toscana, di Sardegna, di Roma, immediate seguirono le valorose giornate di Milano, onde le Arme Cesaree furono costrette ad uscire quella, né poche altre nobili città dell'Insubria. Però Re Carlo Alberto, senza neppur dichiarare guerra alla già alleata Casa d'Austria (e forse perché con lo straniero acquartierato nella patria vuolsi reputar bugiarda ogni pace), Carlo Alberto, diciamo, venne a campo con piccolo ma bene ordinato esercito; per il che gli Austriaci, minacciati da questo, né potendo tenere nella città insorgenti, si raccolsero al campo di Montechiari. Ed il Principe Sabaudo, scendendo il Po, portava issofatto la guerra sul Mincio. Si combatté a Coito, a Monzambano,

(1)Cesare Balbo, Sommario della Storia d'Italia, Età settima: Delle preponderanze straniere: anni 1814 1848.

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 a Valeggio, e si era però tra Mincio ed Adige, su quel campo dove, da Caio Mario a Napoleone, avevano spiegato lor valentia non pochi dei più chiari capitani d'Europa.

L'Esercito Piemontese era dunque fra le formidabili strette di quel quadrilatero, di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago, dove gli Austriaci potevano esser battuti, ma non mai sconfitti; e per contrario sconfitte, appena battute, le arme esterne che si conducessero su quel campo. Laonde il grido universale in Italia era contrario a cosifatto andare dei Subalpini. Volevasi incedessero spacciatamele a dar mano alle insorgenti città della Venezia, e si portasse la guerra agli sbocchi delle Alpi, per impedire che altri eserciti calassero nel Bel Paese. E cosi solo potevano più facilmente sbattere ed opprimere gli stranieri che presidiavano il Regno Lombardo Veneto, i quali non erano più di 60 a 70 mila.

Ma lasciando ai saputi in fatto di guerra il giudicar se giuste cotali accuse e se potessesi fare contro all'Esercito Austriaco una guerra tumultuaria (quale volevasi anche da non pochi uomini sperti delle cose militari), diciamo come ingiustissimo fosse poi il gridare che tosto cominciò contro Re Carlo Alberto, perché non facesse società con potenza straniera, con Francia cioè, e dicesse quella sua famosa sentenza: Italia farà da se. La quale, se troppo era confidente, e può parere anche temeraria a chi sappia delle vere condizioni morali della Penisola, nobilissima era poi e savissima nel suo virtual senso; perocché mal sorgano le nazioni che non per proprio impulso si levano, né per proprie forze camminano.

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Al viver dei popoli, massime se nuovo o rinnovellato, è necessario il vincere; altrimenti non sarebbe guerra d'indipendenza quella che combattessero o lasciasser combatter per se, ma si guerra di servizio, rivolta di schiavo che fa di mutare padrone.

Ma più che gli errori militari e quelli sempre ingiudicati dei divisamenti politici, nocquero alla guerra del 1848 le antiche gelosie ed invidie e borie ed ambizioni italiane. Per le quali vedevi i Piemontesi tenere in dispregio o lasciare inoperosi i Lombardi ed i Veneti, e quelli delle altre provincie italiane che correvano volonterosi a combattere. Milano, burbanzosa per le sue cinque giornate, trattare come gente inutile, tarda, usurpatrice di sua vittoria le arme del Principe Sabaudo; e questo (come ebbe a dire egli stesso) non altrimenti i Giacobini di Francia del 1792 usavan fare pei condottieri di loro truppe. Il Governo Piemontese rifiutare l'offerta fatta dallo Schnitzer, inviato austriaco, di lasciar libera Lombardia sino all'Adige. Re Carlo Alberto ingelosire gli altri potentati d'Italia facendo proporre dal governo provvisorio di Milano, e poi anche da quel di Venezia, al voto universale degli Insubri la loro unione al Regno di Sardegna; usando allora la prima volta quelle infauste e neppure italiane parole di fusione ed annessione, ed accettando che una costituente lombardo-veneta-piemontese rifacesse la costituzione dello Stato così ingrandito. Ma più che più mal faceva attraversando o ricusando di fermar patto di alleanza e di confederazione con Napoli, con Toscana, con Roma. Senza la quale concordia cadeva la stessa giustizia della sua sentenza Italia farà da se; perocché chiaro sia come il Piemonte

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e non Italia avrebbe dovuto fare, e fare per se; e dove Italia avesse proceduto in guerra, avrebbe dovuto combattere per il Piemonte e non per se, e forse anche contro di se come fu veduto appresso, pur troppo.

A Napoli, appena seppesi delle giornate di Milano e del movere a campo che facevano i Piemontesi, la parte liberale gridò guerra all'Austria, e Re Ferdinando la bandì, mandando di botto un reggimento di fanteria con i militi volontari. E inviava per le Marche meglio che venticinque mila uomini capitanati da Guglielmo Pepe, nel tempo medesimo che faceva salpare la sua armata per l'Adriatico. Era poi il primo che spedisse ministri plenipotenziari a Roma per fermar la lega de’ Principi Italiani per la guerra, e quindi la confederazione di loro Stati.

Ma nel frattanto che così egregie cose facevansi di qua dal faro, di là attraversavansi i disegni e l'opere del Monarca Napoletano e di sue genti. Conciossiaché, assembratosi il Parlamento Siciliano, decretasse la separazione dell’isola dal regno di terra-ferma, e poco stante, la decadenza dal trono per i reali di Casa Borbone; preparasse arme ed armati, non solo per combattere contro ai Napoletani, che afferrassero all'Isola per propugnar le ragioni del Principe e la unione dei due regni, ma anche per trabarcarle nelle Calabrie od in altre provincie dell'Apulia. E sì tenea bordone ai nemici della dinastia, e faceva più facilmente potessero ribellarle anche la parte peninsulare dei suoi Stati. E questi osceni fatti, che operavano la diminuzione dell'unione preesistente nel Bel Paese,

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e perpetravano scisma allora appunto che si cominciava a parlare di costringere in un solo stato la universa gente italiana; questi appresti di guerra che prostituivano alle gelosie di una provincia italiana il nobilissimo nome d'indipendenza, per appunto nell'ora che combattevasi per la vera e nazionale indipendenza della patria, erano attraversati non già, ma favoriti, sublimati di ogni loda, soccorsi di uomini e di conforti dalla gente d'Insubria e dalla fazione albertista di tutta Italia: contraddizione che i fatti posteriori di nostra istoria dimostrano meno stolida, se non possono farla parere men disonesta.

Ed a tale si giunse, che quando le navi napoletane passavan lo Stretto di Messina, per condursi contro all'Armata Austriaca nell'Adriatico, i Siciliani e gente di altre parti d'Italia, che presidiavano le castella dell'Isola, traevan contro ai nostri soldati: soldati allora della nobil guerra italiana!

A Roma poi, gente della fazione medesima che cosi attraversava a Napoli ed in Sicilia l'assetto di nostre cose, turbava l'animo del santo Pontefice, facendo tumulti contro ai Gesuiti, e dettando al generale Durando una proclamazione per la quale invitavasi a crociata l'Esercito Pontificio contro a gente che pur riconosce nel Papa il Vicario di Gesù Cristo sulla terra. Ai quali fatti aggiugnevasi che al Cardinale Antonelli segretario di Stato, ed ai plenipotenziari di Toscana e di Napoli deputati alla trattazion della Lega Italiana (dei quali, con il compiacimento che si vien dalla fede e dall'opera seguitata sempre costante, ricordiamo essere stato anche noi, che sì discorriamo di questi fatti),

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il marchese Pareto, inviato di Sardegna, ricusava ogni proposizione di lega o di accordo, soggiungendo tratterebbesene a guerra finita. E le parole del diplomatico subalpino sendo affortificate dai gridori degli Albertisti e dei Mazziniani, già trapotenti nella piazza, dove versavasi la somma delle cose dello Stato, chiaro diventa più che mai come a ben altro intendesse la Rivoluzione, che a guerra d'indipendenza ed a concordia di principi e ad oneste libertà di popoli.

Arroge che uomini della setta mazziniana osavano, di quei giorni medesimi, proporre al Papa una forma di repubblica italiana con a capo i Romani Pontefici. Ondecché gli scontenti e le schifiltà e i timori ben giustamente sorgenti nell'animo di Pio IX, scoppiarono nell’allocuzione concistoriale del 29 aprile. Per la quale il santo Pontefice, principe di pace, siccome egli è anzi tutto, respingeva da sé ogni partecipazione alla guerra; ma non però rigettava il disegno di una confederazione italiana, come (non sappiamo da qual mira consigliati) credettero leggere il Farini ed il Balbo1 in quelle parole per che condannavasi la cennata proposizione mazziniana di una repubblica capitanata dal Papa.

Questi fatti, di che certo van condannati gli uomini e le opere che ne furon subbietto, tolsero ogni forza alla parte moderata, sincera dei liberali; ruppero ogni accordo, che paresse ancora esistere tra le fazioni nelle quali dividevasi l'Italianità; e la guerra d'indipendenza, attraversata dai parlari e dalle opere degli unitari di Toscana,

(1)Parini, Lo Stato Pontificio, tomo II. — Balbo, Sommario della Storia d'Italia. Età settima, pag. 485.

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di Roma, di Napoli, in questa città riceveva colpo letale il di 15 maggio: colpo che fu segno e principio di tutta la riazione europea.

Conciossiaché in Napoli, appressandosi la convocazione del parlamento, gridassesi, più tumultuariamente che per innanzi, non volersi camera di pari, non lo statuto qual era stato giurato dal Principe, non giuramento di deputati, ecc. Però disputavasene tra Re, ministri, uomini di parlamento e bordaglia, questa addivenuta di un subito trapotente in quella metropoli; e sopravvenuti molti settatori della Giovane Italia ed Albertisti dalle provincie e da altre contrade della Penisola, costoro incominciarono ad asserragliare le vie che conducevano alla Reggia, della quale stavano a guardia buone arme. L'autore di queste povere pagine, sconsigliando quella pazza impresa, della quale tutto antivedeva il danno, si abbatteva in un giovane cui, un mese innanzi, aveva provveduto d'arme e di danaro perché andasse a combattere in Lombardia. E facendo le meraviglie del vederlo sul lastrico di Napoli, e chiedendolo del perché fosse tornato, quegli speditamente rispondeva: «Per ciò che ci è stato detto che qui ci è più da fare per Italia che di là dal Po!»

E si faceva. Perocché, sendo a fronte le regie milizie e i rivoltuosi, parti un colpo dalle file di costoro, onde si appigliò la zuffa, e quindi seguironne tutti gli orrori della guerra intestina. Della quale rimase vincitore il Principe. E furon cacciati di loro aula gli eletti deputati, che, assembratisi senza diritto, già avevano costituito un governo provvisorio, con a capo quel Topputi, che in processo di tempo fu pure di coloro che servirono a dare il Regno Napoletano a Casa Savoia.

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Pure il Re proclamò amnistia e dichiarò conservare incolume la conceduta costituzione; ma i rivoltuosi fuggirono a Calabria, levando colà la guerra civile. Laonde Re Ferdinando, come colui che di santa ragione era inteso a conservare prima il suo proprio trono e l'indipendenza di esso, richiamava l'esercito, che aveva spedito in Lombardia; e questo (il Pepe eccetto e poca parte dei nostri, che non seppe tenersi dal passare il Po) ritornava con bello ordine in regno, maladicendo alle opere di que' settatori scellerati, che strappavangli la gloria della nobil guerra con lo straniero, per cingerlo degli ingrati allori delle pugne fraterne. Così, fin dallo esordire del rivolgimento italiano, per servire al cosiddetto principio dell'unità, il supremo bisogno della nazionale indipendenza veniva disservito, diserti i campi di Lombardia da meglio che quarantamila uomini, quanti già ve ne erano iti di quelli del Regno Napoletano e dello Stato Pontificio.

Con parte dei quali e con il proprio esercito Re Carlo Alberto, passato il Mincio, aveva occupato quei colli, che salgono da Valeggio per Somma Campagna e Sona, sino alla sponda destra dell'Adige, e quindi si collegano al Montebaldo, alle storiche posizioni di Rivoli e delle Chiuse d'Italia. Così avea investito Peschiera. Ma gli Imperiali, mostrando volersi difendere a Pastrengo, il Principe Sabaudo ve li assaliva valorosamente; e sì che bella e profittevole vittoria sarebbe stata la sua, dove avesse voluto più lungamente combattere. Ma poscia volle assalire Verona, e funne respinto, ed il Duca di Genova pose l'assedio a Peschiera.


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Nel frattanto il Maresciallo Radetzki, con bello accorgimento, moveva da Verona per far levare il campo, e però veniva a Mantova ed assaliva a Curtatone ed a Montanara con il suo esercito di 40,000 uomini, cinquemila tra Toscani e Napoletani. I quali valorosissimamente combattendo, e soccombendo lieti di loro provvida finita, fecero sì che il Radetzki, indugiato da cotal resistenza, non potesse proseguire in quel giorno il suo cammino, né giugnesse che la dimane all'attacco designato sulla punta della destra piemontese a Goito. Dove Re Carlo Alberto, ragunate le sue milizie, poté accettare la battaglia, e vinsela; ed in quel medesimo giorno, che fu il più nobile e il più avventurato per le arme subalpine, ebbesi anche la nuova della presa di Peschiera.

Ma la letizia di quei fatti fu estrema e d'infelice augurio per la guerra italiana. Conciossiaché il Radetzki riparasse facilmente a Mantova, dove si rifece, e di colà spingesse sue vanguardie sino all'Oglio, nel frattanto che Re Carlo Alberto rimanevasi a Goito, né assaliva Verona; Verona, che ha mestieri d' uno esercito di presidio, ed in quella non l'aveva. Ma, nulla facendo i Piemontesi, il Duce Austriaco non restava; e traendo profitto dalla rotta recente, ritirandosi per Legnago, assaliva Vicenza, dove avea ricoverato il generale Durando, dopo di aver indarno tentato d'impedire la congiunzione delle arme del maresciallo Nugent con quelle di esso Radetzki. Ed il Durando, dopo buona ma breve resistenza, cedeva. Ed in quell'ora medesima, per appunto, Re Carlo Alberto moveva finalmente a campo contro Verona;

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dove, appurato il ritorno del Radetzki, vincitor di Vicenza, tosto fece suoi avvisi, e ritirossi precipitosamente nella notte, tenendo a gran ventura il non essere perseguitato dal nemico.

E da quel dì scorse tutto un mese d'ignobile, d'inesplicabile, d'irresoluto ozio per le arme piemontesi; perocché non si acconciassero neppure ad una guerra difensiva. Poi l'allobroga presumenza spinsele all'assedio di Mantova, dove, se non fossero state le arme austriache, il malaria avrebbe, di per se solo, spento l'esercito subalpino. Il quale, pur riducendo Mantova, nulla avrebbe fatto 0 poco, rimanendo agli Imperiali tutta la linea dell'Adige e Legnago e Verona, che nei libri precedenti abbiamo detto esserla porta d'Italia ed il primo strumento di straniera signoria per i principi che imperano nella Magna.

Ed in cotal ridicola fazione l'avvedutissimo Radetzki colse Re Carlo Alberto. Perocché, assalendo i Piemontesi a Sona e Sommacampagna, cacciolli di colà e spinseli sino al Mincio, a Salionze, a Monzambano, a Valeggio. Carlo Alberto, per tempo avvertito di cotali progressi degli Austriaci, levò immediate l'assedio da Mantova, e fece le mosse dell'esercito a Villafranca.

E fu vinto a quella Custoza (che di allora divenne nome infausto alle arme Subalpine), ondeché ritrattosi precipitosamente a Villafranca e di colà a Coito nottetempo, tenne a somma ventura il non essere perseguitato dall'inimico. Quindi, raccolto l'esercito alla sinistra sponda del Mincio, mandò il conte de Sonnaz contra Volta;

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ma, battuto e respinto anche questi, Re Carlo Alberto domandò armestizio, offerendo ritirarsi dietro Oglio.

Il Duce Austriaco rispose dietro Adda, lasciando Ducati e Peschiera. Ma il Principe Sabaudo, per inesplicabile errore, ricusò; e quindi, incedendo gli Imperiali, i Piemontesi ruppero in fuga disordinata. Nonpertanto il Re condussesi a Milano con meglio che venticinque mila uomini, che accampava fuori le mura, dalla parte di mezzogiorno; e giunti gli Austriaci si appiccò la zuffa. Ma, dopo poco di ora, i Piemontesi maladicendo ai Milanesi perché non corressero in loro aita; ed i Milanesi maladicendo ai Piemontesi perché non sapessero sbattere gli Imperiali, il Re e l'esercito di lui fuggironsi dietro le mura, supplicando a notte ferma capitolazione: la quale il Radetzki concedette, con assai discrezione di vincitore; chiedendo i Piemontesi si tornassero dietro il Ticino, indicendo due giorni ai Milanesi che volessero seguire le loro arme.

Ma alla dimane, appena seppesi della chiesta e conceduta capitolazione nella città, il popolo baldanzosamente insolliva, e gridando codardi i Piemontesi e traditore lo stesso Re, che combatteva contro gli Imperiali, corse al palazzo dove faceva stanza, e sì cominciossi a trar sassi e colpi di moschetti contro alle porte ed ai veroni, l'aere assordando di ogni fatta di contumelie contro alla reale persona ed alla nobile stirpe degli Amedei. E cotal vituperevol gioco durò parecchie ore, e la capitolazione lacerossi popolarmente; ma, rifattosi dallo atterrito governo municipale, buon nerbo di bersaglieri, corse a liberare il Re di sua umil postura.

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Laonde, dispersa l'attruppaglia dei tumultuanti, Carlo Alberto, traversando a piedi le vie della città, a notte poté svignarsela di quelle mura, inseguito pur sempre dai più osceni vituperi e dalle fucilate, che gli traevan dai crocicchi e dalle fenestre i cittadini. Ed in quel transito fu udito egli più volte maladire a quella inconsulta ambizione che i principi fa servi della bordaglia, per voler poggiare a più alto stato, con il mezzo dello incostante favore popolesco e delle rivolture, nol potendo per propria virtù di arme, o per sapienza di consiglio, o prevalenza di lor peculiare o pubblica ricchezza della gente la quale correggono.

Il Maresciallo Radetsky immediate e senza contraddizione di persona entrava in Milano, e dopo pochi dì segnava con il conte di Sallasco, legato di Re Carlo Alberto, un armestizio, della cui discrezione maravigliarono allora e poi quanti hanno senno per l'universa Europa: armestizio che pur veniva tenuto per ignominia dalla imbelle e ciarliera setta dei rivoltuosi italiani, per la quale l'onorato nome del Sallasco diventava sinonimo d'infamia.

La quale setta, dopo quella che dicesi la prima sconfitta di Custoza, debaccava fra tutte nefandezze d'inciviltà. I loro sicofanti cacciati da Napoli per la resistenza di Re Ferdinando, da Milano pel mal successo delle arme piemontesi, da Venezia furon tenuti lontano per la prudenza di Daniele Manin, che fattosi capo al popolo di S. Marco, appena questo si uscì di sotto gli Austriaci, fece sì che si rimettesse in suo stato franco, ma non a modo della Repubblica Francese o di quella dei Carbonari della Giovane Italia.

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Ed, operando anche meglio, fece che armasse e preparassesi a quell'ammirabil difesa della laguna che è il miglior vanto militare d'Italia, dopo i fatti operati dai nostri maggiori.

Ma gli arruffapopolo, cacciati di quelle città, ingrossarono viemaggiormente in Sicilia, dove già apertamente caldeggiando l'unità della Penisola, divisarono spianarle il sentiero, inducendo il parlamento rivoltuoso a gridar re il Duca di Genova, figliuolo secondogenito di Re Carlo Alberto. Nel tempo medesimo, cacciandosi in Roma, in Firenze, in Livorno, in Genova, in Torino, vi facevan di continuo tumulti; e quasi comiche compagnie, vi aprivan la scena di una Costituente Italiana, che fu veduta ridicola a tutti, ma che in fin della fine disegnava quello stato per appunto nel quale, dopo men che dodici anni, dovea travagliarsi l'infelicissima nostra patria.

Ed i settatori di cotale unità, avvegnacché bravamente osteggiati a Napoli da Re Ferdinando, non restavano dallo operare in ombra. Conciossiaché, riassembratosi il parlamento Partenopense, e venuti eletti dalle provincie quasi tutti gli stessi uomini che condussero il paese fra gli orrori del 15 maggio, questi non giurarono già fedeltà al Principe ed allo statuto, né studiavansi punto del meglio della pubblica cosa, ma volevano impedire al governo il ricostituirsi, e che pacificasse le provincie e ricuperasse Sicilia. E sì diportavansi, maladieendo quasi pubblicamente alla Dinastia di Carlo III, e levando a cielo la Casa di Carignano; precipuo maneggiatore di ciò il calabrese Carlo Poerio,

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uomo di poca levatura e di nessuna erudizione, ma persona di bel garbo e congiuratore pertinace, operoso, scaltro, non da appetito di pecunia stimolato, ma di favor popolesco: spirito, non sappiamo se da buona o malvagia possanza creato, per dimostrare la fragilità dei troni, i quali possono essere scalzati ed infranti, anche pel ministerio di uomini di ogni valor destituti e di ogni scienza.

Era disegno dei caporali della setta unitaria (vuoi di quelli tenevano per Casa Savoia o di coloro si arrabattavano per la Repubblica Mazziniana) che dovessersi per ogni modo impedire i progredimenti del governo rappresentativo ed ogni accordo che potesse intervenire tra i principi ed i popoli delle divise contrade italiane. Però, come in Sicilia perfidiavasi nella ribellione ai Reali di Napoli, ed a Napoli facevasi per ogni modo di alienare il popolo dal Principe, e questo costringere ai rigori della riazione; così a Roma tennesi quasi nuova sconfitta della rivoltura l'essere stato messo a reggere la cosa pubblica Pellegrino Rossi, scrittore ed uomo di stato eminente. Il quale, come colui che era sincero liberale e verace italiano, ed al buon volere aggiungeva il ministerio della mente e la potenza di animo saldissimo, ben comprendevano i rivoltuosi che indubitatamente avrebbe stabilito la confederazione italiana ed un cotal reggimento negli Stati della Chiesa, che tenesse libero e grasso il popolo, e l'autorità pontificale forte ed indipendente così dalle intemperanze delle plebi soggette, come dal volere e dal predominio di principe forestiero.

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Laonde gli Unitarii deliberarono spacciarsi di cotanto uomo, massime come appurarono il Rossi adoperarsi a far società con Toscana e con Napoli. Dalle virtù del cui Principe quel valoroso politico teneva assai dovesse sperarsi la Penisola, se intesa al verace suo bene. Leggansi le gazzette che venian scribacchiate in Piemonte a quei giorni, e vedrassi quanta ira fosse e gelosia nei Subalpini per il novello ministro di Pio IX. Però il Rossi, recandosi al palazzo della Cancelleria, dove assembravasi il Parlamento Romano, trova la piazza e la corte di quella storica magione piena zeppa di uomini facinorosi e di militi reduci dall'Insubria, che gridanlo traditore d'Italia. Il ministro rimane imperturbato fra i vituperii di quella canaglia, e preso a salire la scala, viene dai Militi di Vicenza separato dagli uomini che faceangli codazzo. Ed allora un soldato l'ingiuria, e volgendosi egli a sfolgorarlo col guardo di suo disprezzo, a tergo un altro scellerato gl'immerge un pugnale nella gola. E cade, ed indi a poco spira fra quei manigoldi l'illustre uomo. Recatasi nell'aula dei deputati la novella di così scellerato assassinamento, non un solo di essi surse a maladirlo. L'immanissimo fatto si udì non altrimenti fosse raccontatà la morte di vil giumento E pur fra quei legislatori erano non pochi degli entusiasti, che in processo, nel Parlamento cosiddetto Italiano, decretavano pubblico pianto ed apoteosi per manovali i più mogi di nostra moderna Babele!

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Ma a decoro di Roma e d'Italia (che son ben altro che la setta che oggi ne confisca la terra) noi ci affrettiamo a ricordare come, diversamente che fra gli Unitarii, grandissimo fosse stato lo stupore ed il lutto onde, per quel delitto, furon presi gli onesti di ogni ceto e di ogni colore fra la gente latina, mentre che gli assassini del Rossi, portando in trionfo il pugnale che avevalo spento invita, e benedicendo alla mano che perpetrò il misfatto, debaccavano per le vie della eterna città, chiedendo alla Corte Pontificia scegliesse suoi ministri dalla loro setta (uomini che furon poscia e sono in possanza nel novello Stato d'Italia), bandisse guerra all'Austria, convocasse la Costituente Italiana. E così scelleratamente infuriavasi contro alla legittima signoria, che, non ritenuti neppur dalla più santa delle maestà, da quella del Vicario di Cristo Salvatore, gli Unitarii corsero in arme al Palazzo Quirinale, dove faceva stanza il buon Papa, e cominciossi a trar di moschetto contro alle fenestre, facendo cader morto ai piedi stessi del Pontefice un prelato della sua corte, e puntossi il cannone per isfondare la porta della sacra magione. Pure il sacrilego che osò tentare infamia sì prode, è in grande stato ai dì nostri, veste la divisa delle antiche milizie di Casa Savoia, diventato è cavaliere, porta il cappello e le insegne di generale!

Pio IX, ridotto cosi a quel duro stato in cui trovavasi Re Luigi XVI dopo il 10 di agosto, parve cedesse alle improntitudini dei rivoltuosi. Quindi, consigliato dai più saggi prelati della sua corte e dal più degli oratori dei potentati europei, acciocché cansasse il secolo dall'onta del supremo scandalo della uccisione del Pontefice,

Dei cinque Regni d'Italia — Vol. II. 12

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prescelse il martirio dell'esilio, in luogo di quel della morte cui era parato; e lasciando le profanate mura della Città Santa, riparò in corte al Re di Napoli, che solo, in mezzo all'avvallarsi dei tanti marosi della Rivoluzione, che infuriavano per la Penisola e fuori, menava non avariato il vascello della cosa pubblica.

Ed in corte al Re di Napoli riparava medesimamente Leopoldo II Gran Duca di Toscana, cui la rivoltura italiana volea far, peggio che servo, burattino. Laonde presto sursero a Roma ed a Firenze reggimenti rivoltuosi di nome come di fatto, e le tirannidi del Guerrazzi e del Mazzini, la cui mercé proclamavasi in Campidoglio rediviva la Repubblica Romana, e decretavasi eterna.

L'avvenimento della parte demagogica a Roma ed a Firenze, mentre Napoli spingeva più sulla via della riazione (perocché Re Ferdinando sciogliesse in quel torno il Parlamento), a Torino affrettava il corso della rivoltura. Però, saliti a governo il Sineo, il Rattazzi, il Cadorna ed altri cosifatti ciarpieri, Re Carlo Alberto novellamente ruppe guerra all'Austria: e fu così presto sconfitto e con tanto danno del nome piemontese, che il nome di Novara (funesto non una volta ad Italia) riman sempre più doloroso nella memoria di noi sinceri amatori di nostra gente. Perocché, più che il valore degli Imperiali, combattessero contro alla causa della indipendenza italiana, nei consigli l'ambizione smodata e la cupidità di parte cosidetta moderata, e la impazienza democratica dei sicofanti della Giovane Italia, e la ribelle somaraggine di tutti;

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nel campo lo abbottinamento dello esercito, ed ambizioni che la storia moderna non ancora appurava sì da poterle pubblicare nelle sue pagine. E si che videsi parte dell'esercito rifiutarsi di entrar nella mischia; il Re indarno supplicante, a piedi, con il cappello in mano perché i suoi soldati volessero combattere; altre brigate disciogliersi appena affrontato una volta l'inimico, e tutti prestamente rompere in fuga: ed allora Italia ebbesi lo spettacolo nuovo di veder corse e date a saccomanno le proprie campagne e città; Novara, posta a ruba, da barbari non già, ma dai proprii subalpini militanti nella nobile guerra che il confine della patria dovea sbrattar dello straniero.

Il Maresciallo Radetzki supplicato di pace, sdegnò trattare di essa con Re Carlo Alberto. Per lo che questi abdicava e ritraevasi in terra straniera, nella Lusitania (dove in termine di pochi mesi morissi di quello atroce dolore, onde usciron di vita più o men prestamente i monarchi quasi tutti, che furon costretti a dismantarsi del dolce incarco della signoria), e sul trono di Sardegna salì ad imperiare il figliuolo di lui, Vittorio Emmanuele.

Per amor del quale l'Austriaco vittorioso fermò pace, dettando condizioni fuor d'ogni credere umanissime. Ma simil discrezione non era fra gli Italiani; perocché a Roma ed in Toscana e nella Lombardia e nella Venezia e nel Piemonte stesso gridassesi commedia la rotta di Novara; l'abdicazione di Carlo Alberto esser novello tradimento di Casa Savoia; i Piemontesi credessero lavar l'onta della sconfitta incolpando il General Ramorino, che venia però messo a morte.

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E Genova ribellava alla monarchia: ondeché il Generale Alfonso della Marmora bombardandola, ed i rivoltuosi mal difendendosi, fu prestamente ridotta in fede; poi quelle milizie italiane, che così di rado seppero oppugnar le arme forestiere, furon sempre eroiche nello opprimer quelle dei conterranei.

Fornita così nobilmente quella seconda guerra piemontese, che durò quattro giorni, Re Ferdinando di Napoli mandava sue genti per compiere la riconquista della Sicilia, dove affortificavasi gran parte della imbelle e della guerriera democrazia cosmopolita. E nel frattanto gli Austriaci per Toscana e per la Emilia fugaronne i rivoltuosi, ristabilendovi le legittime signorie. Venezia resisteva ancora valorosamente, e pel valore dei Napoletani che presidiavanla, fu l'ultima a por giù il vessillo della guerra. Ma gli Imperiali, trionfanti per ogni dove, e le Arme Borboniche, tornate vittoriose di Sicilia, si apprestavano a salvar Roma dalla tirannide mazziniana, che veniavi perpetrando i più atroci fatti; quando ne vennero impedite dagli astuti maneggi di tale che, vedendo sconfitta la Rivoluzione, non voleva avesse questa ad esser siffattamente morta e seppellita, che non potesse risorgere bentosto.

Conciossiaché il nemico di ogni umana felicità, non mai restando nella pugna del male, in quella che vedeva per ogni dove sbattere le sue arme nella bella regione, che il Signore pose per il loco santo del suo Vicario, fece che la mobil gente francese, facendo getto di sua libertà e del decoro, scegliessesi novello padrone in quel Luigi Napoleone Buonaparte,

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che vedemmo esordire nella vita civile tumultuando a Roma ed in Romagna. Però, salendo a signoreggiare Francia un italiano e settatore della rivoltura anticristiana ed antisociale che volea socquadrare il Bel Paese, mentre questa rivoltura, oppressa di qua dell’Alpi, riparava minacciosa Oltremonte, spalleggiata dalla prima potenza sovversiva dell'universa terra, padrona delle grandi ricchezze di un regno creato all’industria ed alle buone arti di civiltà per trentatre anni di ottima signoria (la dinastia dei Borboni) apprestavasi a discendere duce del più agguerrito e del più entusiastico esercito che fosse allora fra le provincie di Europa.

Però il fattore e sostenitore del moderno stato d'Italia, Luigi Napoleone Buonaparte, venuto presidente della Repubblica Francese, non volle che nella Penisola spiegasse suo predominio l'Austria vittoriosa; e, facendo di presto ficcarvi la propria autorità, si affrettò a cogliere l'occasione che la cessata balìa della sua repubblica avesse già offerto al Pontefice di riporlo in sedia, e scrisse ai Potentati Cattolici lui voler ristaurare la Corte Romana di concerto con essi. Laonde affrettavasi a mandar le arme di Francia per stringer Roma di assedio. Ma comecché i gregari rado sien fatti per comprendere la mente del condottiero, ed i caporali sien sempre gelosi di far seguitare il proprio consiglio: così il Mazzini, il Saliceti, il Garibaldi e tutto lo sciame dei repubblicani romani, che di tutti paesi eran fuorché di Roma, non vollero intendere parole né colpi del Buonaparte. Ed oppugnarono maravigliosamente il sublimato valor dei Francesi;

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cosicché molte fatiche ebbero a durare gli assalitori per cacciar dalla Santa Città quei ribelli, non del Pontefice (al quale nessuno o ben pochi eran sudditi) ma del loro novello padrone, cui eran consorti per setta.

Laonde, in quella che il Buonaparte abbindolava Francia ed Europa, appresentandosi quale restauratore della potestà temporale del Pontefice, campione della causa della patria civiltà, che è la civiltà cristiana, non pretermetteva di attraversare l'opera riparatrice del Papa negli Stati di lui, creandogli inciampo con suoi consigli ed orditi. E sosteneva tutti i rivoltuosi d'Italia riparassero agli Stati del Re di Sardegna, al quale di sottecchi teneva bordone, perché serbasse alta pur sempre la bandiera che il primo Buonaparte aveva conceduta alla Repubblica Cisalpina; ed all'ombra di quella insegna, con libertà simulata per i popoli, più che larghissima per la sua setta, congiurassesi contro agli antichi Stati della Penisola, balestrassesi la Chiesa di Gesù Cristo, la gente latina uccellassesi con le lustre di un progredimento, che poscia doveva chiarirsi altro non esser che quello di ogni umana miseria e del pianto.

L'opera del Buonaparte e del Governo Piemontese favorivano il Palmerston e suoi sicofanti d'Inghilterra, tra per odio di nostra Religione e per nimistà a Re Ferdinando di Napoli, che, il Governo Britannico invito, avea vinto Sicilia e resistito con nobile forza,

(1)Il vessillo tricolore italiano non è mai abbastanza ricordato essere d'invenzione francese e comandato dal generai Buonaparte quale bandiera della Repubblica Cisalpina.

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e forse anche altiere parole, ai suggerimenti degli uomini politici di quella Albione, che non intendeva già Italia francheggiar dall'Austriaco, ma la parte meridionale della Penisola infeudare ad Inghilterra, non altrimenti il Portogallo od altro piccolo Stato di Europa.

Ma questa gelosia d'indipendenza nazionale che scaldava il petto di Re Ferdinando (come di quello che era ben senziente della dignità di monarca e di napoletano) non capiva nell'anima di chi inteso era a male opre e a far mercanzia d'ogni cosa e d'ogni diritto per ingrossare l'avere. Però gli uomini del Governo Piemontese non schifavano aggiungere alla secreta servitù a Francia la pubblica servilità per Inghilterra; ed il Palmerston maravigliosamente gli venia ricompensando con il congiurare e loro prestare aita a scalzar gli altri antichi troni d'Italia, creando dissidenze e rancori nei popoli contro ai loro Principi, e nei Principi contro ai popoli; facendo infamar dalla stampa rivoltuosa d'ogni paese il Monarca Napoletano, quelli serviano il suo reggimento, ed i governi di tutti gli altri Stati della Penisola, che non aderivano alla rivoluzione. Fra queste effemeridi e libelli venner famose le lettere di Guglielmo Gladston, il quale, volendo (come fu chiaro in processo) per cupidigia di potestà passar dalla setta dei Torys cui era affigliato, a quella dei wigs, che in Inghilterra più lungamente tiene l'imperio ai dì nostri, pattuì con il Palmerston che in sua nuova giornea avrebbe esordito con tale opera da ferir colpo letale contro a quel Monarca Napoletano cui tanto inodiava la parte rivoltuosa di tutta Europa. Quelle lettere, che dicevano il Governo delle Sicilie la negazione di Dio,

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a prima fronte furono credute veritiere anche da molti degli uomini di buona volontà, conciossiaché tenessero ancora il Gladston della parte tory, né sapessero per anco di quel mercato che poscia fu chiaro, e veramente è consueto nei paesi retti dal cosidetto reggimento costituzionale; o meglio dalla corruzione che, pur troppo, con dolore grandissimo dell'anima nostra, dobbiamo riconoscere ingenerata dall'artifizio di cotal signoria.

E benché le calunnie onde era piena quella scrittura venissero sbugiardate da gravissimi uomini, anche inglesi, e dalla esposizione di fatti e di documenti, e confessate le menzogne, e scusate d'ignoranza dal loro autore medesimo, questi divenne ministro di sua nuova parte, e gli asserti di lui continuarono ad essere strombazzati dal vociar dei rivoltuosi e dalle lor gazzette: la mala setta e la stampa, che ne è ministra, prendendo sin da quei dì a non disanimarsi e confondersi per pubblica o privata smentita, e perfidiare in quelle calunnie che le fa mestieri diffondere.

E di quei giorni grandissimo acquisto faceva la Rivoluzione nel descriver fra suoi campioni Camillo Benso conte di Cavour. Il quale (maladetto sino allora dalla setta unitaria siccome uomo retrivo) ambizioso fuor d'ogni misura che egli era, e cupidissimo di pecunia e di possanza per sé, per i piemontesi suoi, per i suoi padroni, deliberò mutar parte, ed immediate posesi ai servigi della rivoluzione cosmopolita. «Il Cavour, scriveva allora il Gioberti, non è ricco di quel genio che italianità si appella; anzi pei sensi, gli istinti, le cognizioni è quasi estraneo all'Italia; anglico nelle idee,

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gallico nella lingua1.» Ma che monta: pochi e forse niuno nella Penisola si avea più versatile ingegno, più attitudine al broglio, più efficacia alla persuasione, più operosità nei maneggi, più prontezza nel concepire e mutar divisamento o massime, quanto il Cavour, come colui che di massime veruna avea ferma nell’animo. Ed oltre a ciò egli recava nel fare del rivoltuoso i modi ed il nome di gentiluomo; e chi ignora che validi istrumenti sian questi per Europa e per Italia, dove tutti ragliano di democrazia, e persona vuol essere del volgo? E, meraviglia! la setta unitaria compreselo incontanente, e gran parte di essa gli si assoggettò; il Cavour accettando di botto l'idea dell'unità italiana concepita dal Mazzini, e solo riducendola a monarchia per Casa Savoia: minuzzolato cioè il disegno repubblicano alle proporzioni dell'Almanacco di Gotha.

Messasi così fra le mani la fazione rivoltuosa d'Italia ed i fuorusciti delle diverse provincie della Penisola, i quali tutti aveva raccettati il Piemonte; cacciati Oltralpe quelli di essi che non consentivano con la Signoria Sabauda, che incocciavano di doversi tener fermo non solamente qual fine, ma anche qual mezzo della rivoluzione, all’unità repubblicana, e proprio quale il Mazzini l'avea bandita, surse la Società Nazionale, novella branca della Giovane Italia; e con l'opera di quella il Cavour prese a congiurare a grande agio2, (siccome egli stesso manifestava in processo),

(1) Gioberti, Risorgimento d'Italia. Voi. II, pag. 224.

(2)Une fois l'emigraticn gagnée, le Gouvernement Piémontais eut un puissant moyen d'action sur le reste de l'Italie. Turin etait le point au quel venaient aboutir toutes les trames du parti constitutionnel. De Turin l'emigration entretenait une correspondance suivie avec les centres liberaux de toute la Péninsule, et elle ne cessait d'écrire aux


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a consigliare e por mano a tumulti, a spianar discese di filibustieri nel Regno delle Sicilie, e comperar traditori negli eserciti, nei dicasteri, tra i magistrati, nei consigli stessi dei principi. I quali dai novelli settatori dovevano abbindolarsi e nimicarsi ai loro popoli, nel tempo stesso che (nol potendo ingiustizia o crudeltà, per la nobil natura di quei monarchi) gli uomini del Cavour avevano uffizio di rendere uggioso il reggimento legittimo per fastidio ed ogni fatta di angherie che potessero commettere i ministri subalterni della signoria. E sì che, trionfante poi la rivoltura, furon veduti costoro spudoratamente continuare nei loro carichi e poggiare anche a maggiori dignità, confessando nel pubblico cospetto lo aver faticato per il padrone forestiero, per una Italia, il cui nome continuamente bestemmiavano ed infamano.

E perché a cosifatta malvagità di opera non mancassero malvagissimi operatori, il Cavour, tra esso e la Società Nazionale, ed i palesi e liberi, ed i compri e segreti sicofanti dell'unità italiana che ulceravano gli altri Stati della Penisola, stabiliva mezzani suoi stessi inviati diplomatici e consolari. I quali, all'ombra della loro inviolabilità, frustravano e disservivano scelleratamente la cristiana civiltà che gli vuol sacri. E forse il gentiluomo piemontese così governavasi per far cortesia al nostro onore. Conciossiaché, dovendo assoldar traditori della nostra terra,

meneurs de tourner la jeunesse vers la royauté de Victor Emmanuel, etc.

Così il signor Rodolfo Rey apologista della rivoluzione italiana, ed a quanto dicesi, per missione del Governo piemontese scrittore di un'opera intitolata Histoire de la Renaissance Politique de l'Italie, della quale a pag. 347 rinvengonsi le parole da noi citate.

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dimostrasse non patirne difetto neppur quella onde si nasceva egli stesso; poi non men reo di tradigione sia colui che per oro o per altra mercede o mala passione dell'animo disserve il proprio principe e la patria, che colui il quale muove a congiurare contro monarca alleato con il distrarne dalla fede giurata le genti. Ma la Rivoluzione anche questa volta dovea dimostrarsi e dimostrossi naturata a declamare il panegirico di Giuda.

Dall'infausta discesa del cristianissimo Carlo VIII in Italia (chiamatovi anch'esso dall'ambizione di un principe subalpino e dalla costui gelosia della possanza dei Reali di Napoli) la storia del Bel Paese, pur troppo, descrive lo avvicendarsi della signoria o del predominio della Casa d'Austria e dei Dominatori di Francia. I potentati di Europa, assembratisi a Vienna il 1815, servirono anch'essi all'usanza pessima ed antica, tradendo l'Italia dalla dominazione del vinto Napoleone alla tutela delta vincitrice Casa di Ausburgo; ed il conte di Cavour, togliendo le redini della rivoltura, servi maravigliosamente ai disegni del terzo Napoleone insediatosi in Francia, facendo di rimettere sotto la soprassovranità di costui la Penisola. Quel ministro di Casa Savoia fu ed è per ciò maladetto dai buoni italiani d'ogni fazione. Ma gli tornava impossibile il governarsi altrimenti, dappoi per mezzo della Rivoluzione il Governo di Torino aveva deliberato seguitar la sua mira: e la Rivoluzione, non altrimenti al principio del secolo incarnavasi in un Buonaparte, nel bel mezzo di esso anche in altri dello stesso nome ritornava a personificarsi,

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per procedere difilato ed ordinatamente a disastrare l'antico stato della Società Europea.

Della quale facendo contro, con il movere a campo nella Crimea di conserva con Inghilterra ed il Turco, Napoleone III rompendo gli ultimi avanzi della Lega Nordica, fu sollecito di strascinar seco il pupillo Piemonte. La pusillanimità o la nullaggine del principe di Schwartzenberg, che reggea le cose d'Austria, favoriva la bisogna; perciocché in modo diportassesi che questa né sapesse tenersi in fede de’ suoi antichi socii, né sbatterli con il collegarsi arditamente a novelli.

Pure, da poi che le dure vicende di quella guerra costringevano le potenze occidentali a dismettere, andavano in dileguo le grandi speranze concepite dal Cavour e dai settatori della Unità Italiana; eia Fazione Mazziniana (che non aderiva a Francia, ma che lasciava fare al Cavour e mulinava di concerto con esso in ciò che teneva mezzo a conseguir la mira comune del socquadrare la vecchia Italia) mandava a Parigi, un suo assassino, per nome Pianori, affin di ricordare al Buonaparte come egli fosse per sempre tenuto al servire quella rivoluzione italiana fra cui moti aveva esordito nella Romagna. Il colpo del Pianori fallì. Ma non affatto venne meno il disegno dei suoi mandatori, ché, la mercé del Buonaparte, il Piemonte sedette al Consesso di Parigi, e fu lasciato (tuttoché non senza proteste dell'Austria) sparlar di altri governi della Penisola ed avvocare la causa della rivoluzione: e così, palliata del nobil manto della libertà, della civiltà, eccetera, la mala lupa della cupidità subalpina portava tra i parlari della diplomazia europea il discorso della rivoluzione italiana.

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Ma chi serve allo spirito della rivoluzione, rade volte è saggio, e paziente non mai; e però non veggendosi presto i frutti né di quella guerra di Oriente, né di quel consesso di Parigi (per essere il terzo Napoleone lento nel concepire, incerto nell'operare, benché tenace e presto nel servire a quei disegni fermi da lunga pezza nella sua mente) gli Unitarii Mazziniani mandarono contro il Sire di Francia un novello sicario, il Tibaldi. Ma il Buonaparte non si addava di costui. Ed allora venne in mezzo l'Orsini, il cui feroce attentato ancor conturba le menti degli onesti di ogni nazione e di ogni parte.

E fallì anche quel colpo. Ma le lettere, il testamento del sagace assassino fecero di più sangue che non le sue bombe; perciocché si scuotesse P antico milite delle Romagne, che fu sollecito di mandare in Italia un suo uomo (il Pietri, un còrso che capitanava la polizia) a fin di meglio accontarsi con i rivoltuosi della Penisola; e fece venire il Cavour presso di sé a Plombiéres, luogo divenuto celebre ormai, per quell'accordo di non più udita baratteria, che vi si fermava, e della cui bruttezza non discorriamo noi, per non defraudarne la storia, che solo con il volger del tempo potrà tutta appurarla, e con parole non codarde né temerarie descriverla.

Di quel giorno che il Buonaparte ed il Cavour furonsi accordati a Plombiéres, la dittatura di costoro cominciò più palesamente a dichiararsi per Italia e fuori. Conciossiaché presto vidersi partir di Napoli i legati di Francia e d'Inghilterra, per ciò che Ferdinando re

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non volesse piegare alla volontà di straniero potentato, né aprir le porte del suo regno alla Rivoluzione; dalla riviera di Genova moveano ardimentosi filibustieri per ribellar le Sicilie, e vi erano oppressi più che dalle regie milizie, dagli uomini stessi del contado, popolarmente accorsi alla bisogna. Certo About, corifeo della rivoluzione cosmopolita, di mandato del Buonaparte, scriveva libelli contro Roma e la potestà dei Pontefici, dando cosi principio a quella guerra di calunnie e di suggestioni satanniche che un sennato spirito di Francia addimandava Guerre Brochurière; un Agesilao Milano soldato attentava ai giorni di re Ferdinando, non senza avvalorare gravi sospetti che quel milite facesse con il consiglio di uffiziali dell'esercito che si avevano il favor del monarca, ed eran già compri dal Cavour, siccome chiarissi poco dopo. Napoleone III, abboccatosi in Stoccarda con Alessandro II di Russia, riducealo alle idee generali di Alessandro I, e dell'Abate Piattoli, lasciandogli sperar libero il passo all'ambita riviera del Bosforo. Nel tempo stesso abbindola la Prussia con il dimostrarsi tenero di sua soprassovranità nella Magna. E poco stante, fa di strascinar l'Inghilterra, che lesto s'avvide come la carità di Francia per Italia non fosse da dovvero che libidine; e separa l'Austria dalla società di ogni potentato europeo, e minacciala in pubblico convito. Nel frattanto una principessa del regal sangue di Savoia è tradotta sposa nei Buonaparte, suddita ad imperatrice uscita di suddita gente (avvegnaché nobile ed antica); il Piemonte mendica pecunia per l'universa Italia, levasi in arme, descrive soldati, affortifica le castella,

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fa la massa dei volontarii sul confine lombardo, minaccia gli Austriaci col vociare di sue gazzette, di suo parlamento, di sue sétte; l'Austria è costretta a protestare, a dimandar che dismettesse Casa Savoia dal ribellarle Lombardia e Venezia; re Vittorio Emmanuele perdura; Napoleone III sorge palesemente ad avvocarne la causa, ondeché Austria move a campo contro il Piemonte. Napoleone III, gridandola provocatrice, accorre, egli, che non molto addietro scrivea1 lui convenire in quella sentenza del Mignet, che il verace autor di una guerra non sia quegli che la bandisce, ma chi la fa necessaria.

Ed ecco l'esercito francese calarsi in Italia per sopporla alla soprassovranità gallica, in luogo del già perito dominio austriaco. Ecco le arme della Casa di Absburgo sbattute, più che pel valore del nemico, per la imperizia di lor condottieri. Ecco Napoleone III vincitore dimandare armestizio al vinto; e questi, venuto a parlamento col Buonaparte, lasciarsi uccellare a Villafranca, in quella che la Magna quasi tutta commovevasi in suo favore, che per gli Austriaci cominciava la guerra difensiva del Quadrilatero, guerra durissima all'impeto francese; ed ecco tutto mutarsi^in parvenza, ché, firmata pubblica pace e solenne, comincia nuova ed oscena guerra in segreto.

E quasi che non bastassero a tante infamie, quante veniansi già da buon tempo perpetrando nella Penisola, cotanto numero e possanza di malfattori,

(1)Comme l'a dit Mignet (Histoire de la Révolution) le veritable auteur de la guerre n' est pas celui qui la déclare, mais celui qui la rend nécessaire. Napoleon III. Dea idées napoleoniennes, chapitre IV, p. 122.

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fortuna, la favorita del demonio, venia togliendo anche gl’impacci, che per avventura potessero attraversare lo andazzo della rivoluzione. Alla quale indubitatamente molesto doveva tornar quel Ferdinandò di Napoli che di continuo e sì bravamente aveva oppresso la parte rivoltuosa ed i suoi orditi nelle Sicilie; e re Ferdinando, in quella che apprestavasi a far solenni le nozze del Duca di Calabria suo primogenito, con la duchessa Maria Sofia di Baviera, principessa di maravigliosa beltà e valore, assai miserabilmente infermava, ed in termine di pochi mesi uscia di vita.

L'età ancor giovane del monarca e la prestanza della persona, la nimistà delle sétte secrete e delle pubbliche alla quale era segno, l'ora del tempo in che uscìa di sanità e poi di vita davano adito a gravi sospetti. E sì che quella era per appunto l'ora che il Buonaparte aggrediva con amare parole il legato austriaco a Parigi, e scriveva o facea stampare opuscoli in favore della rivoluzione italiana, ed inanimava ad insollire gl’Insubri, onde venia poscia a combattere nella Penisola, bandendo quella ideomachia, che doveva risolversi nella cessione di due provincie italiane e nel servaggio di tutto il Bel Paese a Francia, e sa Dio che altro costeranne in processo. Tutte queste ragioni adunque facevan sorgere, scusavano il sospetto della gente volgare che re Ferdinando morisse di lento veleno, sobillatogli sul cominciar di quei moti. Ma la stessa Famiglia di quel Re altrimenti crede; perocché Ferdinando morisse della medesima infermità, onde era uscito di vita il padre di lui, né pochi altri principi di Casa Borbone: morisse cioè di discrasia. E di vero, le sétte che sì ne travagliano,

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la rivoluzione che ordirono o della quale uscironsi, han forse bisogno di altre infamie, chele tante già perpetrate di certo, per venire in orrore alla gente onorata e civile?

Così saliva a regnare sul maggior Stato d'Italia Francesco II, principe giovanissimo, fregiato dell'ingegno facile e versatile del padre e della pietà della santa sua genitrice, buono, generoso, cortese, e sì che non conosciamo gentiluomo di lui più compito, né animo più forte e più galante nella pugna e nelle avversità. Ma la veneranza del padre fece Re Francesco non respingesse i ministri e gli uomini venduti alla setta unitaria, che furono cagione degli errori di Re Ferdinando, e che lo abbindolavano, tenendolo gelosamente prigioniero. E però, in quella che l'insubria ardeva di rivoltura, spalleggiata apertamente da Francia; in quella che l'iniqua congiurazione del Boncompagni, legato di Piemonte a Firenze, e la viltà toscana facevano i Principi Lorenesi abbandonassero il Trono Mediceo; in quella che ritraendosi per disegno strategico le arme Austriache da Parma, da Modona, dalle Romagne, la setta dei Piemontisti vi gridava Re Vittorio Emanuele; in quella che Austriaci aveano passato il Ticino, e Francesi calavansi in Italia per combatterli e porsi in lor vece padroni, i Troja, i Murena, gli Scorza, un Alessandro Nunziante eccetera facevano segnare a Francesco II un editto, per che promettevasi continuare la politica di Re Ferdinando.

La quale, benché di avveduto e fortissimo principe, non cessava però di esser retriva troppo nell'ultimo tempo di sua vita, troppo isolata, troppo gelosa,

Dei cinque Regni d'Italia —Vol. II.

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piuttosto che indipendente, politica di resistenza, politica di passione. Laonde di quella grida piansero i sinceri amatori del paese e della dinastia; ma ne gioirono oltre modo i piemontisti, gli unitarii, vuoi pubblici, vuoi ancora nascosti; e con questi tripudiavano gli sbirri e sanfedisti che tenevano aver riportato trionfo, però che si tenessero ancora in possanza. Né è a dire i conservati ministri ignorassero le ansie del paese, e le smanie e le speranze che avrebbe deluso lo editto di Re Francesco li; perocché mettessero gente d'arme attorno ai cartelli di esso, onde non venissero strappati dalle pareti.

Francia era in Italia per combattervi Austria, Inghilterra gelosiva dello estendimento Buonapartesco, ed i ministri dinasticidi di Re Francesco non pensarono largheggiare alquanto con il popolo, riamicar Sicilia, che è la fortezza del regno, stringer patto novello con la corte di Londra, sola e naturale amica della Monarchia Napoletana (massime quando in Francia è signoria nemica de’ Borboni), apprestare a guerra l'esercito napoletano, e spacciatamente restaurare nelle Romagne la potestà del Pontefice, che è la somma guarentigia dell'indipendenza e del limite del regno delle Sicilie.

A nulla pensarono di ciò gli antichi ministri di Re Ferdinando. Né potevano: perocché ignari di politica, abbietti curiali, tanucciani e sanfedisti ad un tempo, ed i quali tenevano tutto aver salvo nello aver salva la loro broda. Ma in questo si essi erano rei, che sapevano esecrate dall'universale la loro opera e le loro persone; e però tra essi e gli spudorati traditori, de’ quali tanto si menò scalpore in processo, altra non è differenza,

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che nei trenta danari di Giuda, che i secondi presero, ed i primi non credean meritare.

Pure nel frattanto che le milizie francesi, venute in Italia, riportavano la vittoria di Magenta, dove il Buonaparte fu per cader prigione degli Austriaci, Re Francesco, cacciato il giannoniano Murena (come quello che dei servi di Re Ferdinando era il più esecrato per soprusi, per avarizia, per violenza di modi plebei), chiamava nel suo consiglio il Principe Carlo Filangieri ed alcuni valorosi magistrati. Ma, tra perché già molto innanzi con gli anni il Filangieri, e diverso da quello era il 1848 (poi dieci anni di più nella vecchiezza suonan ruina), e perché egli ed i nuovi consiglieri della corona venivano attraversati ed impediti da' vecchi tuttavia conservati, e da quella cabala di corte, che dicevasi con parola spagnuola camarilla, e che componevasi di ignorantissimi servi e di uomini già venduti al Piemonte, siccome dicemmo, il mal plasmato ministero nulla poté per la salute della dinastia e del paese: e di vero già non era più tempo di largheggiare con i popoli o di muovere a campo per la media Italia o la soprana.

Questo potevasi fare nell'ora che Re Francesco ascendeva il trono, quando cioè gli Austriaci si apprestavano a venire ai ferri, e calavansi i Francesi. Ma quando questi avevano già vinto e fermavano pace, Napoli non poteva che o movere a rotta indubitata, od accordarsi con la rivoluzione: indecorosa opera e rovinosa sempre, ed allora anche inutile, perocché essa avesse già fermo di spacciarsi di Papa e di Borboni e di tutto che rappresentasse l'antica e bene ordinata società.

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La Rivoluzione temporeggia e transata con i mezzi, sì, ma con il fine... giammai!

Ferma la pace di Villafranca, per le arti del figliuolo di Ortensia di Beauharnais, presto fu stipulato l'ordinamento degli Stati Italiani in confederazione sotto la presidenza del Pontefice, la cessione della Lombardia alla Francia, che regalavane Sardegna (il cui ministro ebbe fronte di acquetarsi a quel vergognoso modo di acquisto); la partecipazione di Venezia alla Confederazione Italiana, la restaurazione dei Buchi di Toscana e di Modena, con amnistia e costituzione liberale della monarchia; riformazione di governo per gli Stati Pontificii, separata amministrazione delle Romagne, ed amnistia per tutti i reati politici commessi durante la guerra. E fermossi a parole che Francesco Giuseppe Imperatore largheggierebbe con i suoi soggetti della Venezia, e che le due potenze interdirebbersi il ricorrere alla forza per la restaurazione dei Duchi. Ma in questo era il capzio principale di quella concordia; conciossiaché, prevalendo la vile e dissocievol massima del non intervento, tutto era annullato il già fermo, ed ogni cosa vincesse la Rivoluzione; poi che dal campo generoso della guerra passavasi in quello della cabala, in che è solamente valorosissima la Rivoluzione.

Maravigliava di questa pace Europa ed Italia, ed i rivoltuosi gridavano al tradimento, perocché il Buonaparte non tenesse i suoi obblighi segreti, le sue promesse pubblicamente rinnovellate nel bando della guerra, per il quale proclamava in faccia all'universo mondo, lui voler francar la Penisola dall'Alpe all'Adriatico.

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E di vero, rimanendo il Quadrilatero in mano agli Austriaci, non potevano non addarsi come Lombardia rimanesse senza difesa, ed effimera fosse l'indipendenza, non che d'Italia, di quella provincia; e le restaurazioni patteggiate in quella pace eran contrarie al disegno di Casa Savoia e dei suoi aderenti non solo, ma di tutti i ribellanti italiani.

La confederazione poi era ciò che più si temeva da questi, perocché essa assicurasse l'esistenza dei diversi principati italiani, desse maggior forza al Pontefice presidente di essa: e le fazioni insollite volevan sbrattar da Italia Austriaci non solo, ma Borboni, ma Papa, per poter poi con maggior agio spacciarsi di chi vi rimanesse. Casa Savoia inoltre, non ponendo mente a ciò, o bravando questo pericolo, era avversissima al disegno di federazione, pel suo già noto aborrimento di essa, perocché osteggiasse sue mire, e perché infine, avendo queste svelate, in una dieta italiana sarebbesi trovata sola a combattere contro agli altri principi della Penisola, di santa ragione associati contro il Re di Sardegna.

Laonde il Governo di Piemonte e tutti i rivoltuosi immediate diedersi a far contro alla pace di Villafranca, già certi di non trovar seria resistenza nel Padrone di Francia; e quello accordo di principi, di ministri, di politicanti, di popoli sarebbene veduto degno dell'antica saggezza romana, dove esso non fosse stato opera di setta, cui già tutti erano aggiogati, e dove non fossero pur troppo in Italia che due sole fazioni: quella degli impronti, cioè, e quella de’ poltri.

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Il Cavour, che non aveva potuto impedire la concordia di Villafranca, si ritrasse dal pubblico maneggio dello Stato, mulinando dietro il Rattazzi. Vittorio Emmanuele, segnando i preliminari della pace, avea scritto: «Accetto per ciò che mi riguarda,» cioè per prendere ciò che mi si dona: e questa restrizione del principe fu pei settatori unitarii la movenza dell'atto secondo di loro dramma.

Però cominciossi tantosto a gridare e ad operare per l'annessione dei Ducati, delle Romagne, della Toscana. La quale, malgrado la sola forza che sia in essa, quella del suo spirito autonomico, così fu arrotolata dal Barone Bettino Ricasoli, da un Marchese di Laiatico e da un Cosimo Ridolfi e da un Ginori, già servi di corte, burattini mossi a lor volta da abilissimo giuocatore (Vincenzo Salvagnoli, avvocato ed uomo di lettere spiritosissimo), che non andò guari trovossi venduta al Piemonte; avvegnaché non pochi esterni ed interni mestatori affannassero a costituirla centro di un nuovo regno di Etruria per Napoleone di Girolamo Buonaparte.

Perpetratosi l'ignobil mercato a Firenze, immediate ne fu seguitato l'esempio a Parma, a Modena, a Bologna, sulle quali imperiava già come proconsolo piemontese un Farini, mediconzolo di Russi (povero borgo su quel di Felsina), antico servitore dei Buonaparte, sanguinoso brigatore di sétte segrete, ed in quel torno fregiato dell'insegne del nobile Ordine dell'Annunziata il collo truffato al carnefice. E non è a dire come superbisse costui in quel seggio1 ed a quali operesi abbandonasse:2

(1) Vedi Brofferio. Memorie dei suoi tempi.

(2)Vedi la relazione del Marchese di Normambt.

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tra le quali venne famoso l'assassinamento del colonnello Anviti, che credevasi facesse per servigio della Duchessa di Parma1 .

Ed in quella il podestà di Parma, un Conte Linati, recatosi presso l'Imperatore dei Francesi per servirvi la causa dell'annessione, udiva rispondersi: «Dite ai popoli, che vi hanno mandato a me, che le mie armi non isforzeranno giammai la loro volontà, e che giammai io permetterò che alcuna potenza straniera lor faccia violenza2.» Pure gli atti ufiìziali del governo di Francia avvocavano sempre la causa della confederazione italiana. Ed il 20 ottobre di quell'anno 1859, il terzo Napoleone scriveva a Vittorio Emmanuele, discorrendo come gli Stati di essa confederazione esser dovessero indipendenti, ma uniformi nei loro politici istituti per la introduzione di reggimento rappresentativo; come Italia dovesse avere una sola bandiera, un medesimo sistema di dogane e di moneta, ed a Roma un centro direttore sotto la presidenza onoraria del Pontefice; dieta composta di deputati scelti dai principi, sur una lista presentata dalle camere legislative; come la Venezia, dotata di governo e di esercito nazionàle, dovesse far parte di essa, e Mantova e Peschiera essere fortezze federali.

Ma per dare virtù a ciò nulla facevasi né a Parigi, né a Torino. E nel frattanto, fermatasi la pace e stipulatisi tre distinti trattati, tra Francia ed Austria, tra Piemonte e Francia,

(1) Vedi la rivelazione del Curletti, non mai stata confutata, né mai potutasi sbugiardare.

(2)Kodolphe Rey. Histoirr de la Renaissance de l'Italie, pagina 405-406.

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e il collettivo di tutte e tre le potenze che avean guerreggiato, non solo non si aspettò prosciugassesi l'inchiostro della segnatura per violarne il senso e le parole, ma lavoravasi a lacerarlo nel tempo medesimo che veniasi discettando: il Piemonte disservendo così non Austria ma sé stesso, perocché non più reggesse la cessione della Lombardia, poscia che non adempiva né un solo degli articoli stipulati con essa.

E già apprestavasi ad invadere le Marche e l'Umbria, spingendosi il Garibaldi, che capitanava la vanguardia delle armi descritte negli Stati dell'Italia centrale, e che dicevansi esercito della lega; quando la foga del condottiero nizzardo e l'impazienza del Governo di Torino furono rattenute dai comandi del Buonaparte, che non teneva ancor maturo il tempo a procedere con sicurtà nel dispogliare di quelle provincie la Somma Sedia. Conciossiaché forte discettassesi in quella e per tutta Europa del congresso che doveva assembrarsi a Parigi il 29 gennaio 1860, per dar sesto alle faccende interne della Penisola; e sì parevan spianate le difficoltà, che il Cardinale Antonelli, dicesi, fosse sul punto di recarsi a Francia, quando ne fu distratto dalla pubblicazione d'un libercolo, che avea titolo Il Papa ed il Congresso, ed il quale riputavasi opera del Buonaparte, e certo da esso era afflato.

Se il poter temporale, dicevasi per quella scrittura, è necessario all'indipendenza del Capo della Chiesa Cattolica, non è mestieri che si abbia una grande estensione. La quale falsa asserzione affortificando di suggestioni malvagie, l'autore di quella scrittura voleva il Papa rinunziasse la signoria di quasi tutto il suo Stato,


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accontentandosi di poca terra e di certa rendita per provvedere ai suoi bisogni ed a quelli della città pontificale. Laonde commossersene tutti i buoni cattolici, e Roma ed Austria e tutte le altre potenze d'Europa non più fecer parola di congresso, perciocché fosse chiaro dovervisi trattare la spogliazione del Pastor Sommo, il trionfo della Rivoluzione, non l'osteggiamento di essa; dar virtù in somma a quel libricciuolo, che il tradito Pontefice diceva al Goyon (capitano pel cesareo libellista a Roma) essere «un monumento insigne d'ipocrisia ed un ignobil tessuto di contraddizioni.»

Il Buonaparte, anzi di movera campo per Italia, raccomandavasi alle preci dell'episcopato Francese, perocché, diceva, non venisse nel Bel Paese per togliere Stati al Pontefice, ma per difenderlo. Ed in cosiffatta sentenza non una volta scriveva umilissime lettere alla Santità stessa di Pio IX, e prometteva renderle le Romagne cui la fazione unitaria strappava al dominio della Santa Sede. Ma promesse e giuri di Napoleonidi sono merce per balogi da lunga pezza. E però, veduto indi a poco come Europa lasciasse fare, tosto fu avviso a Parigi potersi procedere più franco; ed il Cavour, rimosso il Rattazzi, tolse pubblicamente il portafogli: i covi dei settatori in Romagna festeggiando con luminarie e falò l'avvenimento.

Ed esordì con una nota ai legati sardi, per la quale dichiarava non poter di vantaggio resistere alla violenza che facevangli i popoli della media Italia per aggiogarsi al Piemonte. E Francia rispondeva lei non dovere acconsentirvi, perocché vi fosse il danno del terzo,

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ma che poi vi si acconterebbe per una cessione di territorio, che quella era del Ducato di Savoia e della Contea di Nizza. L'ideomachia adunque si risolveva nell'acquisto di una provincia, che è chiave e difesa della Penisola, e di altra tenuta indubitatamente italiana dai tempi di Strabone, di Plinio l'Antico, di Pomponio Mela, che ben è patria di quell'eroe popolesco della moderna Italia, che pur era sulle armi per l'unificazione di essa.

Però tempestavano contro tal proposizione assai fra gli Italiani, e più fra questi, coloro erano appuntati di retrivi, ignari od immemori della baratteria di Plombiéres. Ma il Cavour, che non doveva dismentarla, consentiva e faceva consentire Vittorio Emmanuele a dispogliarsi di quella ducea stata già cuna di sua stirpe, per acquistarne altre, la cui signoria intese di vendicarsi, ricorrendo al novello trovato del plebiscito.

E sì di quei giorni medesimi il Cavour scriveva lettera al Cardinale Antonelli, perla quale riconosceva gli antichi diritti del Papa sulle Romagne, e per conciliarli coi nuovi ordini, offeriva di mandare a Roma il conte Sclopis «uomo, secondo esso, religioso e di concilievoli intendimenti.» E contemporaneamente Vittorio Emmanuele scriveva a Pio IX, gloriandosi di esser «figlio devoto della Chiesa e discendente di stirpe religiosissima,» dicendo a prova di sua pietà: «quando la presenza di un audace generale (il Garibaldi, in dicembre 1859) poteva mettere in pericolo la sorte delle provincie occupate dalle truppe di Vostra Santità, adoperai la mia influenza per allontanarlo da quelle contrade.»

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Ed il plebiscito operò a meraviglia così nella media Italia, come a Nizza e nella Savoia; la cui cessione già aveva perpetrato il Cavour, ed il servo Parlamento consentito. Laonde Vittorio Emmanuele entrò a Firenze e nelle altre provincie d'Italia annestate al suo antico regno.

Ma nel frattanto che al buon successo di suoi disegni nella media Italia serviva il Governo di Piemonte, abbottinavansi a Napoli gli svizzeri, che erano al soldo della monarchia, e seguia la cacciata di essi.

Già da parecchi anni il Cavour e gli altri congiuratori subalpini maneggiavansi con il Governo di Berna perché Napoli perdesse quel nerbo di buoni e forti soldati che si aveva, non altrimenti Francia stessa avevasi avuto, e quasi tutti gli altri grandi ed anche liberi Stati di Europa. Medesimamente mandavan settatori lombardi e piemontesi ad assoldarsi fra quelle milizie svizzere, con false carte che gli mostravano dal Canton Ticinese; e questi per loro parlari e gli orditi facevano di divertire gli animi dei commilitoni dalla fede del militar sacramento. Poi ottenevasi che il Consiglio Federale togliesse loro le bandiere dei Cantoni, commettendosi in ciò fare alla prudenza di certi mercanti bernesi, arricchiti per favore di Re Ferdinando II. I quali, diventati ligi al Governo Subalpino, si diportarono con modi così nemici alla Corte di Napoli, che ai settatori dell'unità italiana nascosti fra le milizie e fuori del loro seno, fu lieve il ribellarle, e fare che un trecento o poco più di essi si abbottinassero e corressero alla reggia a domandare quelle bandiere, che i consoli della loro nazione avevano loro tolto, ned altrimenti discorressero ad atti scellerati e salvatici.

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Pur furono domi gli ammotinati, sui cadaveri di parecchi di essi trovandosi assai monete di oro nuove di zecca piemontese. Nondimeno la maggiorità di quei militi, come quella cui non aveva potuto viziare la versuzia piemontese, voleva ben rimanere ai soldi di Napoli con e senza le bandiere dei Cantoni. Ma allora, stimando fallito il colpo, surse l'opera di parecchi soldati di corte napoletani. I quali (venduti già al Piemonte, come dimostrarono apertamente in processo) presero a soffiare sospetti contro i rimasi e nel Principe e nei suoi ministri. Laonde quegli antichi e fidi servitori della corona furono, qual per un modo qual per altro, quasi tutti licenziati, conservatine pochi nuovi, indisciplinati, infingardi, corrotti già dalle massime che fan degli eserciti truppe.

Partitosi adunque il migliore degli svizzeri, la setta unitaria diessi più liberamente a far razza fra quegli uffiziali dell'esercito napoletano, che dicevansi elemento militare, e che, come in altra nostra scrittura scrivemmo, fu il principale strumento di perdizione di nostra nobilissima monarchia; quello che, in pace, lavorò mani e piedi per alienare la gente dalla Dinastia imperante, e, rotta la guerra, vendettela. Conciossiaché, non più temendosi la guerra intestina, cioè, che la parte onorata dell'esercito napoletano, aggruppandosi attorno alle milizie svizzere, facesse impeto contro ai ribellanti settatori, questi moltiplicavansi facilmente, e, moltiplicandosi, cresceva l'ardire loro e della fazione; la quale più alacremente ed apertamente diessi a servir quegli eventi, che presto dovevano empir di miseria il bel regno delle Sicilie, e di maraviglia l'Europa.

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E nel frattanto venivano a Napoli ambasciatori di tutti potentati europei per felicitare Re Francesco del suo avvenimento al trono. E tra quelli afferrava ai nostri lidi il conte di Salmour ministro di Sardegna; il quale, certificando il giovane Re dell’amistà e della buona fratellanza ed amorevolezza di congiunto per parte di Vittorio Emmanuele, lavorava poi di sottecchi, abboccando con molti della parte liberale napoletana, a fin di persuaderla a por giù i Borboni ed insediare Luciano Murat, figliuol di Giovachino, promettendo a ciò l'ausilio di Casa Savoia e quello del Buonaparte.

Conciossiaché Piemonte, di quei giorni, non avesse ancor trangugiato Toscana e Romagne e Ducati, e solo sperasse fare e dispensarsi dal ceder Nizza e Savoia, col compensare il Buonaparte, servendolo nell’intronizzare temporaneamente a Napoli un Napoleonide. Ma il Salmour trovò tutti contrarii a cotal disegno. Perocché i liberali unitarii volessero romper gl'indugi, profittar del buon vento e venir di botto e difilato alla unificazione della penisola; ed i liberali federalisti comprendevano a maraviglia quale servitù di Napoli a Francia si ascondesse sotto all'accettazione del Murat o di Casa Savoia; né al postutto volevano disdir la fede alla antica, alla legittima, alla ormai nazional dinastia dei Borboni, i quali non avevano perduto speranza diverrebbero al più saggio consiglio di accordarsi con il Papa e gli altri Principi Italiani per una confederazione, e di largheggiare con il paese di quelle moderate libertà, che si convenissero allo stato di sua vecchia civiltà, e che, senza scalzare la potestà del monarca, difendessero i soggetti dall'arbitrio dei ministri e dalle avanie degli uomini di corte. Laonde il Salmour,

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tornato a Torino, riferì al Rattazzi (o meglio al Conte di Cavour, che il movea) lo stato delle opinioni napoletane; e, credendo alle parole dei bindoli unitarii di Napoli, disse questi essere infiniti, pochi i federalisti e di poco credito. Ed il Cavour, stimolato dai fuorusciti napoletani (saccentuzzi presumenti, che avevano a sdegno, anche più della Dinastia imperante, la gente napoletana, perocché se ne sapessero pesati a rigore) lasciossi buonamente persuadere il gran paese delle Sicilie potesse sobbarcarsi di leggieri alla Signoria Piemontese.

Pure, poco innanzi di dar nei fatti, l'assalse ed espresse timore a certo Pietro Leopardi, che i futuri deputati napoletani non gli avessero a guastare il Parlamento Piemontese, sì commodamente mancipio. Ma il Leopardi risposegli non temesse, «perocché si avrebbe non altro che un centinaio di Mancini. «Laonde il Cavour credette alle parole di quel povero uomo; e sapendosi come i curiali, di ordinario (non diciamo già il Mancini) si guadagnassero a facil mercato, procedé dritto indi innanzi, mandando a Napoli un Pes di Villamarina, sardo, che sotto la guarentigia di legato di Casa Savoia, forniva il tradimento di un principe, che pur nasceva dalla figliuola di tale, che fu suo benefattore e padrone.

Nel frattanto gli avvenimenti che precipitavano nell'alta e nella media Italia, conosciuti ed esagerati, anche più che in Napoli, in Sicilia, facevano terribilmente insollire gli animi dei rivoltuosi e dei malcontenti dell’isola; talché ribaldeggiavano i novatori, e gli uffiziali del governo tapinavano, vacillavano nella loro fede, le nozioni del dovere divenute già vaghe ed incerte, e,

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nella temenza di una propinqua catastrofe, quasi tutti sorridevano alla parte, che apprestavasi a far le sue prove.

I Siciliani, che smaniavano di aversi un governo separato da quel di Napoli, un reggimento ammodernato, temperata costituzione, (quella del 1812) dopo quel delitto di alto tradimento, che fu il bando cui il Troia, il Murena, eccetera, pubblicarono per Re Francesco II, allora che tolse il freno dello Stato, i Siciliani adunque, abbindolati da fuorusciti dell'isola, ospitati e compri dal Governo di Piemonte, incominciarono anch'essi a volgersi a questo. Il quale da sua banda (conoscendo il potente desiderio di autonomia che è in tutti i popoli italiani ed in Sicilia vivacissimo) non altrimenti che ora a Firenze, ora a Milano, diceva pazientassero, ché esse sarebbero metropoli del nuovo regno, ed ai napoletani consigliava non facessero parola, perocché Napoli necessariamente sarebbe centro e capo della Penisola; così agli isolani faceva intravvedere una costituzione a parte, col vicariato di un principe della regia stirpe, e confortavagli si accordassero per allora in una azione comune, intenti solo a rovesciare l'antico Stato.

Laonde quelli tra i Siciliani che eran fidi alla dinastia dei Borboni e parecchi servitori d'essa (primo tra i quali Paolo Cumbo, gentiluomo e giureconsulto messinese) fecersi a supplicare Re Francesco, perché si riamicasse Sicilia, cominciando dal mandarvi luogotenente un dei reali, ché quand'anche non avesse guadagnato i rivoltuosi, certo avrebbe riacquistato alla Dinastia l'amor dei popoli. Ed a Re Francesco piacque il consiglio.

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E voleva farlo: ma fu abbandonato in ciò da tutti i principi di sua famiglia, perocché niuno volesse ottemperare ai cenni del giovane monarca.

E frattanto la stampa dell'alta Italia e quella di Francia e quella d'Inghilterra che, già ligia alla rivoluzione, allora era stata compra per il Piemonte da Don Neri Corsini, mercé il prezzo di ottocentomila franchi, più che più si affaccendavano nell'opera di diffamazione del governo borbonico. Era un diluvio di spudorate menzogne, cui l'armento degli uomini aggiustava tanto maggior fede, per quanto erano esse più stolte, e che però non venian confutate. Parlavasi di supplizi occulti, di orribili strumenti di tortura: ritornavasi sopra una già sbugiardata calunnia di certa cuffia dl silenzio, d'una sedia angelica, di un trapano ardente1  eccetera.

(1)Quando questa atroce calunnia corse per Europa, il Governo Napoletano la smentiva, producendo testimoni due Gentiluomini stranieri, un Polacco ed un colonnello Prussiano che trovavansi in Palermo, ai quali fu dato di entrar soli nel carcere dove stavano i complici del moto del Bentivegna, ed i quali interrogati sul modo onde erano trattati, risposero che nulla avevano a dolersi e che stavano sotto la giurisdizione del magistrato, e non della polizia. Ma più che questa testimonianza valse a sbatter la calunnia una dichiarazione ultroneamente pubblicata in tutti i giornali di Francia e del Belgio dal Signor Moreau Christophe, ispettore generale delle prigioni di Francia, il quale attestava che quella calunnia non aveva neanche il pregio dell'invenzione, perocchè fra gli strumenti di tortura che sono nella Torre di Londra, egli vi avesse veduto la cuffia di silenzio affatto simile al disegno prodotto dai giornali piemontesi. Se si pon mente a qual principe servisse il Signor Moreau e all'epoca in cui pubblicava la sua smentita, l'anno cioè 1856, quando rompevansi i rapporti diplomatici con Francia, si vedrà anche meglio quanta fosse la sincerità di quella dichiarazione. Posteriormente il Dottor Raffaeli di Palermo vantavasi in una sua lettera, pubblicata dal Corriere Mercantile di Genova, di aver egli inventato quella calunnia per servir la causa della rivoluzione. E chi mai dopo gli avvenimenti del 1860 ha osato dire di essere stato sottoposto alla tortura?

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E ciò per fare orribile negli occhi dell’Europa il Governo Napoletano, ed attenuar nella coscienza pubblica il ribrezzo che dovevan produrvi gli atti scellerati cui mulinava la setta dei Piemontisti per asservir le Sicilie.

Sedati senza spargimento di sangue, senza castigo neppure, lievi tumulti suscitati a Palermo, a Messina, a Catania, da mestatori unitarii per le vittorie riportate dalle armi francesi in Lombardia, i rivoltuosi diedersi a descrivere gente nella campagna ed a prepararla per la riscossa, adoperandosi a ciò uomini mandati da fuorusciti siciliani ricoverati a Torino, mezzani fra i rivoltuosi di Piemonte e quei dell'Isola i consoli di Sardegna, di Francia, d'Inghilterra. E furon sostenuti in flagrante parecchi di quei messi. Ma nulla si poté rilevare, perocché i magistrati fossero già compri dal Governo Piemontese e mandassergli assoluti.

Ed intanto raccoglievansi armi ed armati che dovevano piombar su Palermo e ribellarla.

Nel 1861 poi il Corriere Siciliano pubblicava che nei sotterranei della fortezza di Castellamare si erano trovati gli strumenti di tortura suddetti. Ma è egli possibile che le regie armi, che nel giugno 1860 uscivano da quella fortezza senza lasciarvi neppur chiodo, vi lasciassero gli stromenti di tortura, che, venendo nelle mani della rivoluzione, sarebbero stati il più terribile argomento contro la monarchia Borbonica? Ed il Governo di Piemonte non avrebbe con gioia fatto tesoro di questi stromenti trovati dalle sue genti, e non avrebbe fatto constatarne, solennemente dal magistrato il ritrovamento, per denunziarlo all'Europa civile? Avrebbe usato discrezione con chi sì crudelmente cacciava di sedia? E questa calunnia destava in processo l'avidità speculativa di certo dottor Noni, saltimbanco medicale e politico, il quale, fabbricando istrumenti di tortura come quelli dei quali aveva letto, gli esponeva a Londra con clamorosi manifesti. Ma la calunnia era già vieta e confutata troppo. Pero nessuno rispose allo invito del ciarlatano piemontista: laonde costui, il 22 settembre 1863, vuoi per delusione, vuoi per rimorso, suicidavasi.

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Ma, prevenuto il colpo, e sbattuti alcuni temerarii, per solerzia di un Ferdinando Maniscalchi direttore di polizia, i capi dei piemontisti palermitani deliberarono spacciarsene; ondechè il giorno 27 novembre 1859 il facevano assassinare mentre usciva dal Duomo1. Ma il colpo non fu mortale, e però il Maniscalchi risanato, mentre venia segno a molto onore e carezze del Governo di Napoli, richiesto di una franca esposizione dello stato dell'Isola, faceva, e sì indicava parecchi mezzi per che egli teneva potrebbesi prevenir la rivoltura, riamicandosi il popolo con temperate concessioni e modi di buon governo2.

Ma il rapporto del Maniscalchi spiacque ai somari ed ai malvagi della Camariglia. I quali ne menarono scalpore: ed il Nunziante, forte temendo non il Re vi desse orecchio e però componessersi le cose, giunse a scrivere al Maniscalchi, chiedendogli se fossesi accontato con i rivoltuosi, se la ferita gli avesse fatto mutar parte.

(1) Noti sono i nomi dei congiurati e dell'assassino. Not non gli pubblichiamo per discrezione di gentiluomo, e per vergogna di trovar parecchi di nobil casato tra essi.

(2)Consigliava il Maniscalchi «la creazione di un Consiglio di Stato. Dar vita ai Consigli Provinciali, i cui voti eran negletti o scherniti, e di rendere una verità il diritto di sindacazione, che loro accordava la legge sulla condotta dei pubblici funzionarii. Di allargare il numero dei membri della Consulta, introducendovi per un periodo di due in tre anni delle persone rispettabili, scelte dal Re sulle liste che ne avrebbero presentato i Consigli Provinciali; e comunicarsi alla Consulta lo stato discusso annuale, non per discuterlo, ma per aver contezza dell'entrata e dell'uscita del danaro pubblico. Questa pubblicità avrebbe fatto cessare tutti i maligni parlari contro la probità del governo. Consigliava inoltre di promuover l'istruzione pubblica negletta alquanto. D'intraprendersi dei grandi e proficui lavori pubblici a simiglianza di quanto facevasi presso le più colte nazioni. Di togliersi i Comuni dall'ingrata ed arida tutela in cui li teneva un mostruoso accentramento amministrativo, ereditato dalla invasione francese, e che, senza smettersi dalla sorveglianza, si lasciasse ai municipii amministrare le robe loro. «Rapporto del Maniscalchi, il quale conservasi presso noi.

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E nel frattanto il Consiglio di Re Francesco cullavasi inerte in mezzo a tanto affaccendarsi di congiure e di congiurati piemontesi, i satelliti del Mazzini e del Conte di Cavour correndo Napoli e Sicilia, incitando gli animi a ribellione, promettendo prossimo soccorso. A tal uopo, sul cader di febbraio 1860, il Cavour mandava a Palermo certo Arrigo Benzo suo consanguineo, per accontarsi con quella parte della nobiltà che consentiva con la rivoluzione. Ma, cacciato costui da Sicilia, riparò a Napoli, onde era espulso medesimamente. Pure egli poté far conoscere al governo piemontese come i rivoltuosi dell'Isola, appena avesser presti gli uomini, che descrivevano, ne avrebbero dato avviso a Torino, perché il Cavour facesse afferrare all'Isola il Garibaldi, per quell'impresa operarvi che già da due anni disegnavasi.

L'infermo Governo Napoletano, per quanto schermissesi sulle piume, pur sentiasi morire: e però, ritrattosi il Filangieri, eran chiamati nei consigli del Re personaggi assai reputati per fede al principe, per probità e temperanza politica. Ma già, per consiglio del Nunziante, era venuto direttore di polizia il Commendatore Aiossa, un rompicollo di parte retriva, che, invece di arrestare il movimento, acceleravalo. Conciossiaché sul cader del marzo divisasse sbattere la rivoluzione col fare una razzia a modo beduino di molti liberali. E non sapendosi (come non mai si conosce dai partigiani) qual differenza corra tra gli avversi, in fatto di opinione o di vita eccetera, sostenne, una con rivoltuosi veri, parecchi osteggiatori di essi e anche odiatissimi dalla setta dei Piemontisti, come quelli che non volevano accomodarsi ai loro disegni; verbigrazia, il Principe di Torella, il Duca Francesco Proto Pallavicino.

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Per cosi stolto divisamento strepitavasi fuor modo ed in piazza e pei circoli e per ogni dove. Re Francesco impedì fossero cacciati dal regno il Torella, il Proto, il Principe di Camporeale, e parecchi altri. Ma furonne banditi di molti che pur non erano unitarii. E questi, venuti a Firenze, lesto furon guadagnati ai disegni del Cavour (mezzano Silvio Spaventa da Bomba); e nel frattanto liberi congiuravano in Napoli e nella regia stessa i veraci ed antichi adepti della setta unitària, e preparavano i tumulti ed i tradimenti che non tardarono a scornare il nome napoletano.

Sul cominciar di aprile, a Palermo scoppiava il moto così detto della Cangia, dal Convento dei Francescani, ove eransi nascosti ed affortificati i fautori del Piemonte. Vinti i quali dalle arme napoletane nella città e nella campagna, re Francesco immediate comandò che di novantadue insorgenti fatti prigionieri, le armi alla mano, né un solo venisse posto a morte. E poi pubblicava generale amnistia: ma i benefici effetti di tanta clemenza venivan frustrati dal Governo di Piemonte che mandava alcune sue navi da guerra a Palermo per rialzar gli animi della sua setta.

I capitani delle quali, D'Aste e Piola, dichiaravano esser venuti per proteggervi i sudditi sardi: e si che di questi non era che un solo a Palermo, il Console, la cui dimora divenne tantosto la fucina dei rivoltuosi, non altrimenti era stata la casa del Boncompagni a Firenze. Ed affinché per tutta Sicilia fosse noto come il Piemonte spalleggiasse l'insorger dell'Isola,

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una delle navi sarde di presente prese a scorrazzare per le riviere, visitando Trapani, Gergenti, Catania, Messina, mandando poscia, col telegrafo sotto-marino di Cagliari, le notizie che facean mestieri al Conte di Cavour per l'impresa del Garibaldi.

Il Governo di Napoli già sapea di questi disegni del ministro sabaudo e dellamossa che facevasi a Genova; e ciò per rapporti segreti di un fuoruscito, venuto poi membro del Parlamento Italiano. Però faceva da sue navi guardare il mare. Ma già (tenendo bordone uno dei regi ufficiali in Messina) i Crispi, i Rosolino Pilo, i Carini correvano l'Isola con apprestarvi le genti a venire in sussidio del Garibaldi; ondeche sul cominciar di maggio tumultuava novellamente Palermo. E venia ricomposta in pace facilmente. Ma, due giorni dopo, giunse telegramma al Luogotenente del Re, che diceva: «Sono arrivati due vapori con bandiera sarda, da dove sono sbarcate delle truppe piemontesi, comandate da un certo Garibaldi.»

Alla dimanda fatta dal telegrafo di Palermo per avere notizie più particolareggiate, venne risposto non essere vero quello che dianzi erasi scritto; ma Tuffiziale telegrafico si avvide come di altra mano che la prima fosse il secondo telegramma.

E sì che il Garibaldi era disceso veramente a Marsala, come ognun sa, sfuggendo alla crociera delle regie navi napoletane, capitanate da uomini quasi tutti ligi alla setta piemontese, come poscia lussuosamente chiarironsi. E nello afferrare all'Isola era protetto da regio navile inglese, senza il soccorso del quale (il Garibaldi stesso dichiaravalo a Londra testé) non avrebbe potuto far cosa l'eroe.


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Il quale, accolto non festosamente a Marsala, mosse oltre, e, giunto a Palermo, pubblicò una grida, perla quale assumeva titolo di dittatore della Sicilia per Vittorio Emanuele; il cui ministro Cavour, che vel mandava1 faceva sacramento e all'universo mondo dichiarava essere non solo estranio a cosiffatta aggressione, ma avverso. Ma l'onore, la morale, il diritto, dove la rivoluzione italiana avesse a vincere durevolmente, saranno altro che non furono sino al tempo nostro, e canonizzeremo Caino che degli unitarii fu il primo.

Assai fu detto della tanto sublimata vittoria di Calatafimi, riportata dal condottiero nizzardo sulle genti del General Landi, mandato a combatterlo, e che tenevasi in disparte col maggior nerbo di èsse, frementi del non entrar nella zuffa. Non andò guari e seppesi prezzo del tradimento una falsa polizza di trentamila ducati, che poi il Landi rilevò non esser che di soli trenta; onde preso, per dispetto, da apoplessia, ne moriva in termine di poche ore.

Non ignorasi come assai uomini della risma del Landi fossero fra i generali dell'esercito napoletano, e come a capitanare i regii in Sicilia mandassesi da Napoli un Lanza, soldato siciliano di patria, ma grave di ottant'anni di età e di ottocento pesi di asinità, circondato da consiglieri e congiunti tristissimi. Il quale tenevasi in panciolle, mentre il Garibaldi scorreva l'Isola, facendo massa di facinorosi, e pur quando moveva per Palermo, ove sarebbe giunto anche più presto, dove non fosse stato rotto a Monreale da pochi regii capitanati dal Colonnello Von Michel.

(1)Vedi la recente pubblicazione del signor Nicomede Bianchi.

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E il Garibaldi fu sbattuto e respinto anche dal Parco, ove erasi accampato. Laonde, disperato del buon successo, divisò riparare ai luoghi montuosi, da' quali potesse poi uscire per un dì quei colpi di fortuna che son consueti nei politici rivolgimenti.

Medesimamente divisava colà poter far il centro di una guerra spicciolata, o partirsene repente per imbarcarsi sopra navi sarde o di altra potenza, che molte scorrevano già per quei mari. E già era a Palermo l'armata inglese capitanata dall'ammiraglio Mundy, che di concerto col console Godwin, uomo nimicissimo ai Borboni, di continuo abboccavasi con il Lanza e gli altri uffiziali dell'esercito; il tempo svelerà per che fare.

Ma il Turr, ungaro, ai soldi della rivoltura italiana, combatté il divisamento del Garibaldi, dicendo la salvezza dell'impresa starsolo in un colpo audace, e questo il piombar su Palermo ed entrarvi per padroneggiarla o perirvi; e tutti, accettando il partito di quel1' animoso, deliberarono movere per a Palermo, mandando per far diversione contro le armi del Von Michel una parte di garibaldeschi, i quali, vinti poi a Gorleone, rompevano in fuga.

Il Garibaldi era posto sui monti di Gibilrosso, in vista di Palermo. Ma il Lanza, consigliato a mandar lui incontro sue molte genti, e sbatterlo prima che giugnesse alle mura della metropoli, per non trovarsi poi tra un aggressore esterno ed un popolo ribellante, rispondeva beatamente: «Ne parleremo domani.» Ed il domani, avvertito di novello del pericolo, diceva: «Lascialo scendere, ché te lo acconcio io per le feste.»

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Ed il Garibaldi scese, ed entrò a Palermo, combattendo per lui meglio che garibaldeschi e popolani, l'inerzia o il tradimento di generali napoletani, che, invece di ravvivare, impedivano lo ardor dei soldati. I quali eran lasciati pur senza viveri. Ed il Lanza (che prima non tenne altro mezzo di vincere che quello vilissimo e stupidissimo del bombardare, e che più inimicava il popolo), prestamente, mezzano l'Ammiraglio inglese, fermava armestizio col Garibaldi. E fermavalo in quella per appunto che le armi del Michel tornavano a Palermo e prendevano alle spalle rivoltuosi e garibaldeschi e gli battevano, e padroneggiavano le vie asserragliate; talché i Siciliani fuggivano, abbandonando le arme e strappandosi le coccarde tricolorate. Laonde il Garibaldi apprestavasi a riparar sulle navi inglesi, e mandava al Lanza per tentar l'adempimento dell'armestizio..., che cominciava al mezzodì, ed allora battevano appena le ore undici!

Il Lanza si arrese al messaggio del Garibaldi. Il quale, rimasto nelle mura di Palermo, vi si affortificava, cosi che il capitano e gli uffiziali napoletani, procedendo di viltà in viltà, deliberavano poi abbandonargli affatto quella metropoli. Però ventunmila uomini, bella e forte gente, ben munita, ardente di vendicar l'onor nazionale, di salvar la corona al loro Re, e che sotto altri condottieri avrebbe preso tutta Sicilia, uscia da quella città maledicendo, nel cospetto di tutto un popolo stupido dalla maraviglia, pel veder tanto esercito ritrarsi senza combattere; un esercito che, se non avea deposto le arme, non era meno ridevole, come quello che era vinto senza che fossevi il vincitore.

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Mentre che questi fatti passavansi di là dal Faro, di qua il Parlamento Subalpino votava l'annessione della Emilia e della Toscana. Il Pontefice fidava la condotta delle sue armi a quel valorosissimo Generale De La Moriciére che, stante la Repubblica Francese, era stato iniziatore della restaurazione del poter temporale di Santa Romana Chiesa, e cui lo spergiuramento del Buonaparte aveva cacciato di Francia e dell'esercito, tante volte condotto da esso alla vittoria. Il Governo Sardo dichiarava, nella sua Gazzetta Ufficiale del Regno, lui disapprovare l'impresa del Garibaldi, i cui fatti teneva «come altrettanti atti di pirateria;» e spingeva tant'oltre la ipocrisia, che ufficialmente annunziava e di spedire una squadra ad inseguirlo».1 Il Conte di Cavour faceva da servi deputati e senatori approvare il già violato trattato di Zurigo.

Alla nuova della entrata del Garibaldi in Palermo insollivano gli animi dei rivoltuosi del regno napoletano e di Napoli, spinti a tumultuare dal Villamarina, ministro di Sardegna, in casa al quale erasi insediato il Comitato dei Piemontisti. Ed il Ministro di Francia, il Brenier, recatosi nottetempo a Portici, dove Re Francesco era infermo, costrinselo a promulgare una costituzione liberale. Il Re ricusava, diceva quello esser tempo da combattere,  non da concedere.

(1)Più che noto famoso è oggimai come il Governo del Piemonte, nel negare ogni sua partecipazione ai fatti del Garibaldi, lasciava ordinarsi in Toscana altri nuovi armati per la Sicilia e scioglieva la brigata di Ferrara per ingrossarli. Il ministro, che dichiarava voler rispettato il diritto delle genti, segretamente invocava il favore dell'Inghilterra per togliere il sequestro, che il Console di Francia aveva messo sopra alcune navi cariche d'uomini, d'arme e di munizioni, e il cui ritardo potea compromettere il buon successo dell'eroe nizzardo. Si conoscono oggi parimente le istruzioni che il Cavour diede all'Ammiraglio Piemontese, cioè di doversi porre tra i navigli del Garibaldi e quelli della Crociera Napoletana; e l'Ammiraglio mostrò benissimo d'averlo compreso.

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Lui volere essere largo di libertà, di amnistia, consentire nell'alleanza con la Sardegna; ma dopo cacciati dalla Sicilia i garibaldeschi. Parlava saggio: ma il legato di Napoleone III insisteva anche con minacce. Però il giovane principe cedeva, chiamando Francia responsabile dei mali che sarebbero per nascer da quelle così intempestive concessioni, e dava quella risposta medesima che fece Re Ferdinando all'Inviato d'Inghilterra per la restituzione del Cagliari: «Io non ho preteso giammai di poter lottare con le grandi potenze.»

A Re Francesco, abbandonato da tutti potentati di Europa, aggredito con immascherata guerra dal Piemonte e da Inghilterra e da Francia, osteggiato dai rivoltuosi delle Due Sicilie e dai nemici privati di sua dinastia, non rimaneva in fede che la parte conservatrice del suo regno: e per la mutata forma dello Stato volevasi dividerlo anche da questa. E fecesi. Perocché, proclamatasi dal Re la Costituzione, l'amnistia generale di tutti rei politici e l'alleanza con la Sardegna, i rivoltuosi tutto osarono, credendo tutto loro essere lecito, ed incendiarono gli archivi e le officine di quella polizia, che fastidiosa era stata indubitatamente, ma non crudele, e scannavansene gli uomini per le contrade, come non si sarebbe fatto di bestie malvagie.

Fra quei tumulti veniva malconcio a colpi di bastone il Brenier da popolani che lui tenevano autore di tanta sciagura. Malvagia opera: ma certo non era né rivoltuoso ned amico della nazionale monarchia, il quale non vedesse discender di seggio la Dinastia dei Borboni per quel sobbarcarsi di Re Francesco ai consigli ed ai minacci del Buonaparte,

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natural nemico al sangue dei Capetingi, e per lo sguinzagliarsi di tutta la parte sovvertitrice della Penisola, ormai non più italiana che di nome, ma di vero buonapartesca; poscia che gli uomini dell'avido Piemonte e lor settatori delle altre contrade d'Italia, tutti eransi fatti servi strumenti della signoria del temporaneo padrone di Francia.

Alla nuova della Costituzione largita a Napoli, i fuorusciti napoletani, mostrandosi, peggio che schiavi, valletti del piemontese, dichiaravano essi avere a re Vittorio Emmanuele, non voler sapere di Francesco di Borbone né come principe assoluto né come costituzionale. Ma il Conte di Cavour, immediate, rimosseli di quel divisamento, comandando loro, per messaggio di Silvio Spaventa, che lesto ripatriassero e facessero il governo parlamentare non attecchisse, e si trovassero presti per raccorne lo ereditaggio per Casa Savoia.

E così di Toscana e di Piemonte scendevano a Napoli i nuovi piemontisti, e con essi molti settatori dell'alta Italia, tra quali quel Ribotti che aveva avuto salvala vita dalla clemenza di Re Ferdinando. Ed il Ribotti, tornato sotto mentito nome nel regno napoletano, venia stimolando alla deserzione le regie milizie e comperandone i capi ed apprestandosi a capitanare un tumulto popolare, dove gli venisse fatto che scoppiasse.

E nel frattanto il Garibaldi movea di Palermo per a Messina. Giunto a Milazzo, ebbe a sostenervi fiero scontro delle armi napoletane, le quali indubitatamente non avrebbe superato, se loro fosse stato mandato quel soccorso di che avevan mestieri e richiedevano,

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ed il quale venia rifiutato, per indefinibile colpa del comandante delle regie milizie che erano a Messina. Né andò guari, ed il novello ministero costituzionale comandava di abbandonare affatto affatto Messina all'invasore, e con la città eziandio la cittadella; consiglio che parve scelleratissimo o stoltissimo a quel soldato medesimo per cui colpa il Garibaldi non era stato rotto a Milazzo; ondeché deliberò obbedire per metà al cenno dei ministri, e, nel ritirarsi da Messina, mantenne i soldati napoletani nella cittadella.

Medesimamente il novello ministero mandava suoi legati a Torino, per stringere alleanza e formare patto di confederazione, e faceva sue istanze presso il Buonaparte ed i ministri d'Inghilterra perché inducessero il Cavour a più onesto consiglio, il Garibaldi a dismettere dalla aggressione. Ma la ruina della monarchia napoletana era già ferma. Laonde gli oratori di Re Francesco non si avevano che belle parole dal Sire di Francia, più franche dagli inglesi; il messo dei quali a Napoli, il ministro Elliot, dicesi, osasse rispondere «Pas de Bourbon» a taluno che intrattenevalo a pro di quel Re, al quale esso Elliot era inviato dalla sua Regina.

Ed in quella il Cavour e gli uomini della rivoluzione italiana, divisando non essere ancora l'ora di assaltar la vittima a luce chiara, temporeggiavano, mentivano, veniano anguillando con le risposte ai legati del Monarca Napoletano. Ma dieci curiali subalpini non vincono di malizia né di accorgimento l'ultimo dei raboli partenopensi; laonde i membri del novello consiglio di Re Francesco si accorsero immediate del giucco,

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ed alcuni di essi cominciarono dalle sale medesime della reggia ad abboccarsi col Garibaldi, col Villamarina, che presiedeva ed assembrava in sua propria stanza il comitato rivoluzionario. Così, vedendo tradito dalla fortuna il misero principe, il tradivano anch'essi; perciocché quegli sciagurati non possono darsi neppure l'osceno vanto della iniziativa del tradimento. Quel ministero costituzionale di Re Francesco addimandasi di ordinario il Ministero Spinelli. Ma noi, quando così il nomiamo e malediciamo alle sue cattive opere (come di leggieri può comprendersi da qualunque non abbia smarrito ragione), non intendiamo già fare oltraggio al nome dello Spinelli, né di altri onorati gentiluomini, che fur parte di quella balìa, ma si a quelli di essa, che, spudoratamente in processo, chiarironsi nemici a Casa di Borbone, fautori, della riformazione non già, ma della rivoluzione, della ruina della Monarchia di Re Ruggieri.

Nel frattanto i comitati dei rivoltuosi, infuocati dagli uomini del Piemonte e da fuorusciti tornati il cuore pien di fiele contro la patria sventurata, lesto s'insediarono a fianco de’ malvagi ministri di Re Francesco per far credere napoletana una rivoluzione che era straniera affatto, importata nelle nostre regioni felici. Laonde l'audacia e l'impudenza della stampa in pochi dì ruppero ogni diga, e strombazzavasi senza reticenze il trionfo del Garibaldi e dell'Unità Italiana. I ministri già compri lasciavano piena libertà ai diarii di addentare e calunniar la legittima dinastia. Stampavansi lettere di Piemonte e comandi ed ordinamenti, diffondendosi per i pubblici ritrovi, e per le vie lasciavansi vendere l'effigie del Garibaldi e quella del Re Galantuomo.

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Poi componevansi canzoni che gridavan re l'eroe nizzardo, e lasciavansi cantare per le contrade da galeotti scappati, proteggitori i camorristi: specie di bravacci popoleschi, che anticamente chiamavansi Compagnoni, ed i quali di fresco erano stati assoldati a pro della rivoluzione dal ministro Liborio Romano.

Indarno uomini lealmente liberali, amici al paese ed al Principe, facevan di arrestar l'alluvie, che con orrendo trabocco già dilagava per la patria. Le lor parole erano accoppate, insidiati i loro giorni, calunniati di murattisti, di repubblicani presso il popolo, e di segreti fautori di unità presso il Monarca e presso quegli stessi che abborrivano dalle annessioni. Dicevasi costoro volere accelerare la catastrofe. Alla stampa rivoltuosa disegnavasi opporne altra onesta. Ma il disegno fu rotto da taluno degli stessi membri del consiglio di Re Francesco; uno dei quali ebbe fronte di asserire che il Regio Governo non avea danaro per giornali: ed il di medesimo avea comandato si pagassero franchi diciottomila in sussidio d'un diario che propugnava la causa degli unitarii! 1

Ma il paese sapevasi e vedevasi pur troppo estraneo al movimento. Laonde il grande e continuo lavorìo del Cavour era pur sempre quello di far proclamare l'annessione napoletana dallo esercito, la cui fede era stata già scossa dallo sciagurato fatto degli Svizzeri, dalle grida e dalle lettere dei fuorusciti, che erano state diffuse in quella parte di esso mandata sotto il comando del Pianel negli Abruzzi.

(1) Lettere Napoletane del Marchese Pietko C. Ulloa. Lettera terza: La Monarchici Napoletana.

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Alcuni uffiziali della quale avevano già spedito loro adesioni al Comitato di Firenze, né pochi altri avevan fatto sacramento di dimettersi dal comando delle armi. Ma gli uomini del Cavour ingiunsero loro di non abbandonar l'Esercito Napoletano e di efficacemente adoperarsi a farvi proseliti. Ed in quell'ora la stampa proclamava la diserzione un dovere, e civismo e meglio il tradimento. I reduci fuorusciti e loro ragunate facevan ressa con minacci, con promesse sontuose; e però, affievolito l'amore in alcuni, in molti spegnevan l'ardore, e, gettando screzio fra i capi, ne facevano declinare l'autorità.

Sapevasi i politici sconvolgimenti giovar gli audaci a poggiar alto. Però alcuni uffiziali dell'esercito, mascherando la diserzione, chiedevan licenza, correndo alle bandiere piemontesi che non vergognavano di accoglierli. Altri passavano nelle file dei garibaldeschi, altri tornavano a loro case, protestando l'animo non dar loro di combattere contro a gente italiana.

Né a Napoli mancava officina, dove da satelliti di Piemonte descrivevansi soldati e bassi uffiziali che abbandonavano l'esercito, e spendevansi somme ingenti per corrompere questo e l'armata. E ciò conoscevasi da tutti. Né maraviglia, perocché pubblica fosse l'opera, e gli uomini che erano nel consiglio del Principe, abbindolati da' rei compagni, non sapevano arditamente trar sé ed il regno di quel ginepraio.

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Né le diserzioni grandi tardarono. Chi ignora come il capitano Amilcare Anguissola, di famiglia carissima ai Borboni, passasse al Garibaldi con la regia nave, la Veloce? Con la quale, dopo averne rifatto l'equipaggio, che non aveva partecipato all'infame tradigione, tornava in crociera per sorprendere con inganno due altre navi dello Stato ed impadronirsene.

E poco dopo altri uffiziali dell'armata, disertate le bandiere, afferravano a notte ferma a Castellamare per portarne via il regio vascello, il Monarca, il cui capitano Giovanni Vacca pare fosse di concerto. Perocché, non sortito buon successo il tradimento, rifuggiva ad un vascello inglese e poi sulla nave sarda, l'Adelaide, che, capitanata dal generale Persano, era venuta nelle acque di Napoli per proteggervi ed infuocare la rivoltura, e raccogliere i disertori dell'esercito e dell'armata.

Notissimo per tutta Europa è come in quel medesimo tempo il Nunziante si dismettesse di quei suoi carichi militari, che permettevangli congiurare a corte e fra le milizie contro il misero Principe, e come, partendosi da Napoli, con suo ordine del giorno eccitasse le sue genti a disertare le bandiere. Perocché, chiamato dal Cavour, andava a Torino, e ratto, pel servigio del ministro subalpino, tornava a Napoli, nascosto ora in casa ad un uffiziale della Guardia del Corpo di Re Francesco1, ora sulla fregata Adelaide, onde presiedeva alle infernali macchinazioni per che strappavansi al Re ed alla patria ogni amico consiglio d'uomini, ogni difesa di armi.

(1)Il cui nome non scriviamo, sperando si accorga un giorno di questo suo delitto e se ne penta.

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Ma la officina principale delle diserzioni era pur sempre in casa del Villamarina: e colà facevasi mercanzia di tradimenti, versando oro, promovendo a gradi maggiori i fuggenti uffiziali, i traditori; vilissimi che erano poi a lor volta traditi; conciossiaché il Governo di Piemonte non tenesse le promesse con coloro non furono cauti da serbar pegno delle macchinazioni cui avevan servito1.

E mentre così venia disfacendosi l'esercito, la Guardia Nazionale raccoglieva sotto a suoi vessilli quanto di più pazzo e di più perduto vi avesse fra la gente. E novellamente apprestavasi a ripetere la iniqua impresa del 15 maggio 1848, non peritandosi di gridare «alla rivincita!» Gli ordini del giorno cui essa serviva, eran quelli del comitato del Villamarina; e nel tempo medesimo, ad ogni tantino si era sul punto di venire ai ferri per immaginarie aggressioni delle regie armi, e per una riazione che buccinavasi di continuo, ma che non era in idea di persona.

E la nave capitanata dal Persano, che dicevasi venuto per proteggere la vita e gli averi dei sudditi di Casa Savoia, teneva a bordo assai milizie, che a volta tentarono anche di scendere armate, ondeché vennero minacciate di opposizione. E, malgrado ciò, lasciavansi venire a spiaggia bersaglieri, i quali, affratellandosi con le guardie nazionali, scorazzavano con fare spavaldo per le contrade della metropoli, talora anche schernendo i buoni soldati napoletani. Laonde furono buglie fra questi e i soldati piemontesi:

(1)Vedi un opuscoletto scritto per ciò da certo Capitano Hueber, che fu uno dei sciaurati che si lasciarono abbindolare dal Villamarina.

Dei cinque Regni d'Italia —Vol. II.

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e, la Guardia Nazionale accorsa (vergogna a dirlo!), favorì il forestiero con inveir contro il fratello.

Ma la colpa di ciò non era meno di quei sciaurati nostri cittadini, che dei signori. Conciossiaché, false le tante accuse vomitate contro ai Borboni, lor peccato verace non fosse mai detto: quello cioè dello aver depressa nei Napoletani la giusta, la vitale alterigia nazionale. E però i Reali di Napoli raccoglievano, come ognor si raccoglie, quello per appunto che essi avevan seminato. Come Ferdinando I di Aragona, Ferdinando II di Borbone, per tema di ribellione, aveva fatto di spegnere lo amor patrio nella gente partenopense; e però, non altrimenti che alla discesa di Carlo VIII, battuta l'ora in cui dava pur finalmente nei fatti la congiurazione piemontese, i Reali di Napoli non trovarono che inerzia nei popoli, o stupida meraviglia, o abbandono, e raccoglievan tradimenti da quei che più avevan favorito, e per malvagità dei quali era venuta esosa a non pochi la Signoria.

Frattanto il Garibaldi coi suoi avventurieri passava lo stretto di Messina, non impedito dalla già compra armata napoletana. E cadeva la città di Reggio dopo disperato combattimento. Il quale sarebbe pur tornato a salute dei nostri, dove le milizie che venian in loro soccorso non fossersi di botto e senza alcun argomento soffermate, dove le navi napoletane che drizzavansi a tutta macchina verso quella riviera, non avessero invece virato di bordo per andarsi ad ancorare davanti a Messina. E poco dopo una divisione del povero esercito napoletano, quella capitanata dal generale Briganti, bollente di cessare la vergognosa lotta che sentia dover vincere

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e potere, per magagna del suo capitano videsi circondata dal nemico e costretta a deporre le armi. Laonde quei prodi e fidi soldati, esasperati dalla continua tradigione, trucidarono il generale, rinovellando così le brutte scene della guerra, che sul cominciare del brutto secolo desolarono Spagna e Portogallo. E quel traditore, che così pena, messo a brani dai suoi soldati, era pur quel generale medesimo, che, dagli spaldi di Castellamare, aveva bombardato Palermo.

Ed allora le fortezze della riviera tirrena cessero l'una dopo l'altra; e Monteleone, dove il condottiero delle arme napoletane aveva sperduto il tempo ed il valore della milizia in far nulla, veniva abbandonato, ritirandosi in Napoli esso capitano. Ed il Garibaldi inseguiva le regie armi per la via marittima. In quella le masnade dell'Eroe Nizzardo una sola nave napoletana avrebbe potuto sbrattare dal sacro suolo della patria: ma la regia armata si allontanava allora verso Sicilia, avvegnacché, pareva, anche il mare si opponesse ed il vento alla difesa del bel regno. Il generale Ghio, che ritraevasi a Cosenza, avea capitolato a Loveria, senza pur mostrare il nemico ai suoi soldati; ed il generale Caldarella a Cosenza abboccavasi col comitato dei rivoltuosi di Calabria. Così Napoli avevasi anch'essa sua doppia Vergara, e la via della metropoli venia spianata sino a Salerno ai garibaldeschi. Però la importata rivoluzione estendevasi maladettamente; così che tumultuavano Taranto e Matera, ed i regii dragoni a Foggia baccavano co’ ribellanti, ed a Potenza, cacciati i gendarmi, venia insediato governo provvisorio.

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Proni gli spiriti dei buoni per tanti tradimenti e sventure, e più che più insollendo quelli dei malvagi, i progressi del nemico poteansi non pertanto arrestare a Salerno. Se ne avea ancora le forze, e la vittoria dei regii era il sospiro di tutti gli onesti, il cui amor patrio non era soffocato da vincoli di setta o dalle ire della parzialità. Ma il ministro della guerra, il generale Pianel, diceva impossibile ormai la resistenza, e faceva di confortare il Re a dismantarsi: il Re, che, saldo e pien tuttavia di confidenza nella forza della giustizia e nel valor di sue genti, voleva egli medesimo movere a campo per incontrare quel nemico, che sarebbe stato troppo umile, dove già non fossesi personificata in esso la rivoluzione cosmopolita che ne travaglia.

Giovane di anni egli era, ma già maturo di senno; gracil di corpo, ma di animo più che addurato. Presso Lui, che cominciava ad essere misero, prendeva già a farglisi consiglio e compagno il Marchese Pietro Ulloa, gentiluomo e magistrato illustre per dottrina e per l'esercizio di ogni virtù: ed a questo il giovane Monarca diceva: «Non tengo al trono, credetemi, ma vorrei strappar la mia patria e la mia famiglia a sventure crudelissime, o soccombere almeno da Re, se la fortuna si pronunzia definitivamente1.» E nel frattanto scriveva al Pianel l'esercito aver sofferto, perciocché non si fosse trovato accentrato sul luogo del pericolo: Lui avere ancora quarantamila uomini e voler movere a campo capitanandoli. Però comandava alle armi, che aveva nella Puglia, di venire a spron battuto alla volta di Napoli;

(1)Lettres Napolitaines par le Marquis p. C. Ulloa Prisident du Conseil des Ministres de Sa Majesté le Roi des Deux Siciles. Paris, 1864.


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e si deliberato era il Re a dar personalmente nei fatti, che, sorridendo, diceva all’Ulloa da noi citato: «N'é vero, che quando un naviglio è in tempesta, il capitano stesso ne chiappa il timone e dirige l'equipaggio?»

Ma attorno a tanta virtù di monarca non era più alcun valore di soggetti. La pusillanimità parea fosse tenuta veramente civismo dai Generali e da quasi tutti gli antichi servitori della Corona. I quali già consigliavano il Re ad abbandonare la metropoli. Ma egli era deliberato di conservarla e nel tempo stesso di venire ad oste; alloraché una lettera scritta al Conte di Trani, fratello di Re Francesco, da un Generale, che pur valorosamente aveva testé combattuto in Sicilia, sconsigliava con ogni generazione di argomenti e di asserti il partito scelto dal Principe con tanto di sapienza. Secondo quel Generale ogni difesa era inutile, la disciplina delle armi non era più, il soldato schifava di battersi, e degli uffiziali, quelli non eran venduti al nemico, eran già vinti dalla disperanza; e però lo scrittore di cotal lettera supplicava Re Francesco cedesse al fato, abbandonasse il Regno, riparasse in Ispagna, salvasse il paese per così nobile ed ultimo sacrifizio.

In queste rivolture mestava anche il Conte di Siracusa (zio del Re) principe che pure a sommo grado raccoglieva in sé le virtù ed i vizi di Casa Borbone: l'ingegno cioè e la debolezza. Il quale abbindolato da segreto settatore della unificazione italiana, che egli avea tra i suoi servi, e governato dal Villamarina, che descrivea traditori sin nella stessa famiglia del Monarca cui era mandato a disservire, congiurando con il Governo di Piemonte ed i suoi satelliti venuti a Napoli,

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scriveva per le stampe lettera a Re Francesco nepote, per la quale, querelando del non essere stato mai ascoltato, esortavalo ad abbandonare il Regno, a far si che si compiessero i destini d'Italia.

Alla nuova di così brutto errore dello zio, di quel Conte di Siracusa in cui volevasi vedere un novello Filippo Uguaglianza (e ben tosto il Signore il ritirò dal mondo, e se non per morte infame, come ebbesi l'Orleans, certo per fato non men misero), Re Francesco melanconicamente esclamava: e Se io non fossi Re, se non fossi responsabile della mia corona verso il mio popolo e verso la mia famiglia, da lunga pezza ne avrei deposto il peso!»

La lettera del Conte di Siracusa aveva gravemente contristata la Real Corte, e più che più sollevava gli animi dei rivoltuosi descritti nella Guardia Nazionale, nei dicasteri, in tutti i rami della pubblica amministrazione, nel Consiglio stesso della Corona. Nonpertanto essa disanimava men che la lettera del Generale, che capitanava nella provincia di Salerno. Conciossiaché una sola via di salute fosse pel Principe, e questa era nel campo, dove aveva deliberato combattere. E sì che la tardità ed il barcheggiare del ministro Pianel, e i timidi consigli di altri Generali non avean tanto potuto sull'animo di Re Francesco, quanto poté l'avviso di quel soldato, cui conoscea valoroso: arroge che i fatti di Calabria, non ancora bene appurati, molto facean sospettare della virtù dell'esercito.

E nel frattanto il misero Re vedeva l'armata mandata in Sicilia che, dopo aver fatto passare liberamente in Calabria i garibaldeschi, tornava nel golfo

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di Napoli senza bandiera, domandando se ancor fosse in seggio il Borbone. Ed il più di quei servitori, i quali Re Ferdinando aveva fatto potenti e ricchi sollevandoli tutti da basso stato, a furia presero a mascherare la diserzione, con mandargli loro rinuncie dei mal tenuti carichi. E sapeva giungere ogni di nuovi garibaldeschi da Livorno e da Genova, e nascondersi a Napoli, sotto l'egida di Liborio Romano, e dapprestarvisi aduna sollevazione, asserragliando le vie contro le regie milizie, dove esse volessero oppor resistenza al loro talento. E lo stesso Corpo Diplomatico veniva aggiungendo molestie al tradito Monarca. Spalleggiava i rivoltuosi il ministro d'Inghilterra, con la flotta che ogni dì faceasi grossa di nuove navi; e Francia chiedeva ammenda dell'oltraggio fatto al Brenier nei tumulti del 27 giugno; talché ben potevasi credere Re Francesco avesse a difendersi dalla Rivoluzione e dalla invasione straniera ad un tempo. Laonde il misero Principe, veggendo la debolezza ed il tradimento circondarlo per ogni dove, e volendo risparmiare alla sua metropoli gli orrori della guerra civile, deliberò uscir di Napoli, ragunar tra Capua e Gaeta le milizie rimastegli fedeli, e colà vincere o morire da re: non opponendosi così al suo destino, ma dimostrandosi di esso più nobile.

Pur, non volendo abbandonar la città nell'anarchia, vi lasciava un governo e le fortezze presidiate per la interna difesa ed esterna, e faceva vergar nota diplomatica in forma di protesta per le corti straniere, ed un proclama per i popoli del suo regno, Il quale leggendo, a tutti cadde il cuore. Ma, ad eterna vergogna del nome napoletano, niuno seppe rizzarsi e veder nella caduta del Principe quella essere della Patria.

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Laonde Re Francesco, accomiatandosi da pochi amici rimastigli e dai pochissimi servitori, ascesa piccola nave con la Regina, con la duchessa di S. Cesario, femmina insigne, e con il duca Riccardo di Sangro, il Principe di Ruffano, l'Ammiraglio del Re, Emanuele Caracciolo duca di San Vito, ed il Commendatore Ruiz (tutti di quel patriziato, che Re Ferdinando aveva sì ingiustamente calpesto nel suo vivente) e con pochissimi altri, dei quali il nome a noi ora non sovviene, salpava dalla riviera napoletana: e Francesco II di Borbone, come Ferdinando II d'Aragona, partendosi miseramente dalla sua metropoli, come quello avrebbe potuto esclamar sulla poppa: Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam!

Il Villamarina e i sicofanti del Governo Piemontese non desideravano il Garibaldi venisse a Napoli, temevano che, impadronitosi della maggiore città d'Italia, facesse novità che tornasse in disservigio dei disegni del Cavour e del Buonaparte. Però volevano succedesse anzi dello arrivo del Nizzardo un qualche tumulto, che loro desse pretesto di proclamare issofatto l'annessione al regno subalpino. Ed avvegnacché molto per ciò ottenere si arrabattassero i servi venduti e venditori del proprio paese al forastiero, non fu possibile spingere il popolo partenopense, non che a buglia, a grido. E sì che fuggita era anche la più lieve ragione di paura di una resistenza. Ma quello, indubitato é, non essere stato rivolgimento di popolo, ma mutazione operatavi di fuori e tollerata allora stupidamente, come spettacolo, da un popolo vecchio troppo, e però impedito al riottare,

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da una gente fastidita del consueto, smaniosa di vedere anch'essa alcuna novità fra tante che udia vedersene altrove.

E di botto una ne affigurò che non mai videsi in antico, e forse non vedrassi più in futuro. Vide un avventuriero, accompagnato da non più che cinque de’ suoi uomini, entrar padrone nella terza delle prime città d'Europa. Con esso, ben è vero, entrava quel Liborio Romano, che la vigilia era ancor ministro di Re Francesco, e un Generale napoletano, stato messo dalla Maestà di lui al comando della Guardia Nazionale; ma di uomini come costoro o di opere simili alle loro viddersene forse di vantaggio?

Di quella entrata del Garibaldi pur troppo sa il mondo a dovizia, ed ahi! non ignoreran gli avvenire. Ma questo sì noi possiamo asserire, che pochi furono i plaudenti che accolsero nella metropoli «rinvittissimo» (siccome addimandavalo il Romano «questa peregrina figura di traditore» al dir del gran Vescovo di Orléans, in una sua recente scrittura) e certo gli schiamazzatori furono ben meno che sarebbersene trovati altrove, e sopra tutto nelle altre città italiane. E quando a sera i minacci dei settatori della Unità d'Italia costringevano tutti i pacifici cittadini a luminane, non vedeansi a fare baldoria nelle contrade che i più vili uomini della più vii feccia del popolo, e con essi gente venuta dalle altre contrade della Penisola, e disertori dell'esercito ed affamati curiali ed avvinate baldracche, danzando ridde infernali con qualche prete e frate apostata, con galeotti cacciati dalle galere, con birri che battezzavansi unitarii, tutti agitando in aria tricolorate bandiere e fiaccole e pugnali ed ogni maniera di arme omicide.

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Il Garibaldi, non altrimenti aveva fatto in Sicilia, s'intitolò allora dittatore; ed incontanente gli uffiziali dell'armata napoletana gli si dichiararono ligi, alzando sulle navi il vessillo piemontese: salvo Roberto Pasca, cavaliere, che con la sua nave Partenope movea per a Gaeta, avvegnacché osteggiato dagli altri uffiziali dell'equipaggio. E, come l'armata, i presidii delle fortezze. I quali col ministero di pochi uomini avrebber potuto far prigioniero il Garibaldi, che solo avventuravasi in città non amica ed ancor guardata da milizie del legittimo Re; e sì potevan comporne in pace il Regno, e forse Italia, con lievissimo fatto, e risparmiarle infinita sarcina di sventure e di vergogne... Ma alla Rivoluzione vendute eran le Sicilie ben pria che vi afferrassero suoi sanculotti.

Consumato il rovinoso errore di rimanere in Napoli in quella che ne avrebbe dovuto esser fuora, ed il secondo dell'uscirne allora per appunto che vi si dovea affortificare, Re Francesco andò a Gaeta, riducendo le sue milizie sul Volturno e sul Garigliano. E quanta fu la maraviglia nel vedere ardenti d'ira guerriera e di vendicar l'onor patrio e la potestà del Monarca quei soldati, che gli si dipingean poltri, ammottinati, codardi, avidi di rapina e soltanto solleciti di tornare ai lor proprii abituri! I soldati traditi e disciolti dal cingolo militare nelle Calabrie, saputo il Re a Capua, tornavan volontari alle sue bandiere, traversando lungo e alpestre cammino scalzi, laceri, patendo la fame, ed ogni angherìa sofferendo dalla parte rivoltuosa delle provincie.

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Certo vi ebbe soldati più fortunati in guerra, che non il soldato napoletano; ma pari esempio di fedeltà e disciplina e di brama di rifarsi nell'onore, non ha riscontro nelle storie delle universali sventure dei popoli. Il maresciallo di Turenna raccontava aver detto ad un suo prigioniero napoletano, il quale aveva conosciuto terribile nella mischia: «Se il tuo signore avesse di assai soldati come te, egli sarebbe invincibile.» Ed il povero milite, il rozzo popolano (ma che era di Napoli, e però sveglio di ingegno ed arguto motteggiatore) rispondevagli: «Corbezzoli! Non sono i soldati come me che gli mancano, ma si i capitani come voi.» La storia delle milizie napoletane sta tutta sempre nelle parole di quell'umile prigioniero dell'eroe di Mulhausen.

E movendo i garibaldeschi oltra Napoli, furono lor primi armeggiamenti sotto Capoa, a Cajazzo, a Triflisco, onde venner respinti con lieve danno, massime dalla forte posizione di Cajazzo, che, occupata dai garibaldeschi, il dì seguente fu ripresa dai Regii per sanguinoso combattimento, nel quale per la prima volta videsi grande e fuormodo il numero e nei soldati napoletani fecero dei prigionieri.

Seguirono allora sulle foci del Garigliano sbarchi di nuovi garibaldeschi e galeotti di Sicilia e di Apulia, cui la licenza della rivoluzione aveva vendicati in libertà. E questi rigeneratori del Regno furono medesimamente respinti e dispersi; gran mano di essi rimanendo prigioniera, rispettata dai Regii quasi di uomini di guerra, avvegnacché non fossero che sudditi ribellati e malandrini fuggitivi.

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E nella nuovamente tentata aggressione di Capoa sempre e poi sempre rimasero vincitori i napoletani, il cannone della fortezza a grande agio sbrattando dalle truppe nemiche la campagna.

Dal buon successo di cotali fazioni nacque il divisamento di dar in varii fatti novelli, massime quello di correre al soccorso del castello di Baja, che valorosamente teneasi da picciol presidio capitanato da un Agostino Livrea. E nel tempo stesso voleasi procedere all'attacco di S. Maria di Capoa Vetere, divenuta il centro delle oppugnazioni garibaldesche, e che però andavasi sempre più affortificando contro ai Regii. Laonde seguìnne il combattimento del primo ottobre tenuto sulla linea di Morcone, Caserta, Maddaloni, dove combatterono personalmente la Maestà di Re Francesco ed i Principi del Sangue, dove il Garibaldi provò gravi perdite. La vittoria permetteva dunque al Monarca di riedere a Napoli. Ma egli non volle, temendo la effusione del sangue cittadino, la quale sarebbe indubitatamente derivata dall'ira indomabile delle soldatesche: e sempre cosi sarà dei legittimi, dei buoni, dei naturali principi di una nazione, i quali non può governare la massima stessa dei rivoltuosi, quella del «riuscire e lasciar dire.»

Dopo la vittoria di Maddaloni fu una specie di tregua tra le arme regie e le bande garibaldesche. E frattanto nella superiore e media Italia fornivasi col consiglio e con l'opera la scellerata impresa che veniasi perpetrando nella meridionale. Conciossiaché il Governo di Piemonte, vedute in gran pericolo le arme del Garibaldi (siccome poi significò il Cialdini medesimo al così detto Eroe dei Due Mondi), pretestando che dove le schiere di Casa

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Savoia non fossero alla Cattolica, anzi di quelle del Nizzardo, la monarchia sarebbe perduta in Italia, deliberò venire ai ferri scopertamente e discendere con l'esercito nel Regno Napoletano, senza arresto invadendo l'Umbria e le Marche che il divideano dalla già occupata Emilia.

«Andate e fate presto», raccontasi Napoleone III avesse detto al Cialdini, al Farini, ed altri caporali della rivoluzione con lui accontatisi a Ciamberì. Ma le Arme Piemontesi, dispogliando di sue provincie il Pontefice, non dovevano invadere Roma, perocché dal cesareo libellista questa era ancor consentita alla Somma Sedia. Il generale De la Moriciére con i cattolici accorsi a difesa di Santa Chiesa ben difendeva i limiti dello Stato dalle scorrerie dei rivoltuosi; ma «esso si aveva degli uomini, e non ancor dei soldati» siccome diceva a chi scrive. E si che quegli uomini, avvegnacché fosser gente di tutte virtù e del più nobile sangue di Europa, non eran per anco addestrati al mestier delle arme, alle fatiche della guerra. E bisognava opprimerli anzi che fossero. Però il Conte di Cavour spediva al Cardinale Antonelli un ultimato pel quale richiedealo sciogliesse il povero esercito del La Moriciére: e nel tempo medesimo che la nota era data in mano al Segretario di Papa Pio, le Arme Piemontesi invadevano il rimanente Stato Pontificio, divise in due colonne, l'una procedente per la Valle del Tevere, l'altra per le Provincie Adriatiche.

La Corte di Roma avevasi avuto sicurtà dal Buonaparte che non sarebbe aggredita; talché il Cardinale Antonelli poté significare al La Moriciére, come lo Imperatore dei Francesi avesse scritto al Re di Sardegna, lui vedersi

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costretto ad oppugnarlo, dove le arme di Casa Savoia movessero negli Stati della Chiesa.

Nonpertanto il Cialdini moveva. Ma, impedito nel suo corso a Pesaro, dalla valentia di picciol presidio di soldati pontificii, capitanati dal marchese Zappi, il La Moriciére ed il marchese di Pimodan, che sotto a questo conduceva i pochi ma nobilissimi soldati della più santa delle cause, quella della Chiesa e della Società Civile, poterono raccórre le esigue lor forze, e così, aggrediti al mal passo, fra i poggi di Osimo e di Castelfidardo, poterono gloriosamente soccombere per l'onore, per la affermazione della giustizia, per la Fede; poi non era a sperare che così poca, abbenché eroica mano di uomini, potesse vincere o contenere lungamente l'impeto di schiere già addurate nelle armi e che moveano in dismisura ad opprimerli.

E sì cadea il Pimodan, e veniva fatto macello del miglior seme di Francia e dei Belgi, quasi in presenza di altro esercito francese. Il La Moriciére, per sua indomita valentia, con cinque o sei mila dei superstiti del carnaggio, poté aprirsi la via fra le schiere nemiche e riparare ad Ancona. Dove, sostenuto breve assedio, bombardata la città dalle navi dell'ammiraglio Persano (di lui, che dimostrassi si poco valoroso, quando ebbe a combattere in mare contro ad altre navi), cedé; e così le armi subalpine vennero in signoria di tutte le Provincie Pontificie, quelle eccetto del Patrimonio di San Pietro e della Campagna Romana, il giardino, in somma, cui l'opuscolo il Papa ed il Congresso avea già stabilito a diporto dei Romani Pontefici. Però, in quella che le Arme Piemontesi affaccendavansi alla riduzione di Ancona, al Console Francese che protestava,

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che avvocava la causa della città e della legittima Signoria Pontificia, tutte ragioni si aveva il Cialdini di rispondere: «Andate, ché la volontà del vostro padrone siamo più in grado noi di conoscere.»

E tosto, dopo la sì facilmente felice occupazione dallo Stato Romano, l'Esercito Piemontese passò nel Regno Napoletano. Il Cavour facevasi nel tempo medesimo decretare dal suo Parlamento i pieni poteri per accettar l'annessione dell'Italia Meridionale; e scriveva al ministro di Re Francesco, ancor risedente a Torino, che S. M. il Re di Sardegna ponevasi a tale impresa per caldeggiare la causa dell'ordine nella Penisola. Ned altrimenti, entrando lo Stato Pontificio, i Generali Piemontesi avean proclamato volervi restaurar la morale! Però i Piemontesi entrarono forti di assai arme gli Abruzzi, in quella che altra parte dell'esercito afferrava alla marina di Napoli; della quale i miseri abitatori in preda a garibaldeschi ed a mazziniani infocati dalla presenza stessa del loro profeta in quella metropoli, non credevano fossevi maggiore oscenità di uomini e di governo a potersi perpetrare in società di uomini cristiani.

Durante -quel modo di tregua, che, dopo i fatti del primo ottobre, era stata nella Campania, tra le regie arme napoletane e le masnade garibaldesche, cominciava una guerra popolare a pro della nazionale Monarchia. La quale guerra estendevasi dalla linea del medio Volturno sino agli Abruzzi. In questa lotta i combattimenti di Piedimonte, del Macerone, d'Isernia, eccetera, tornarono gloriosi ai difensori della vital causa del diritto.

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Ma, col sopraggiungere dell'Esercito Piemontese, grosso di meglio che quarantamila uomini, la fortuna della guerra mutò; ché le Arme Napoletane vidersi necessitate ad abbandonare la linea del Volturno, e raccogliersi sulla sponda destra del Garigliano, non senza aver combattuto e difeso assai valorosamente le gole di Cascano.

Capoa, fidata però a picciol presidio, oppugnata dalle fresche legioni dei piemontesi, venute in ausilio ai garibaldeschi, dopo breve resistenza cedette, priva che si trovava di viveri la città, e scarse di ogni provvedigione le milizie.

Medesimamente l'Esercito Piemontese, proseguendo suo cammino, credette poter forzare il passo del Garigliano, dopo che Vittorio Emmanuele era giunto al qnartier generale. Ma respinto e sbaragliato l'Esercito Subalpino dalle buone Arme Napoletane, esso imprese allora a procedere con doppio attacco dalla parte di terra e dal mare. Re Francesco aveva sicurtà che il Governo Francese guardasse la riviera mediterranea con le navi dell'ammiraglio Barbier de Tinan, e però tenea su quel campo il suo esercito, sul basso Garigliano cioè, sull'unica via che rimanessegli. Ma di un subito l'Armata Francese sparì, e preserne il posto le navi piemontesi e le napoletane, che avevan tradito il loro Re per la novella signoria: e queste tolsero a sbrattar facilmente la campagna dalle Arme Napoletane, facendo facilissimamente così aspro macello di gente che pur era italiana, di uomini che pure fratelli di armi erano stati agli uomini che governavano quelle navi!

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Le terre inoffensive di Scauro e di Mola di Gaeta ebbero anch'esse grandemente a soffrire per l'inumanità di quella che prendeva a dirsi Armata Italiana, perciocché pochi cannoni di campagna di picciol calibro non potessero por freno all'impeto dei marini neopatrioti. Laonde, costretto l'Esercito Napoletano a ritrarsi, una divisione di esso si raccolse sotto ai baluardi di Gaeta; e l'artiglieria, la cavalleria, con pochi battaglioni di fanti, passarono nelle vicine terre pontificie, e malgrado le profferte e i minacci del Generale Sonnaz, sdegnarono scendere a patti coi Piemontesi. Quindi, sciogliendosi dalle bandiere, deposero loro arme in mano ai Francesi, che i Napoletani raccolsero con quello onore che devesi al valor sventurato, con quella carità che ai cittadini nostri mostrarci sempre maggiore gli stranieri, che non i conterranei; ed i vincitori di Magenta e di Solferino divisero il pane di loro mensa con il povero soldato napoletano, da quasi tre giorni digiuno.

Nel frattanto che cotali fatti passavansi nel campo, grandissimo era il disordine nella metropoli ed in tutte le città e terre delle Sicilie, più che più soffiando nella bragia della discordia la divisione che era pure fra gli uomini della rivoltura: fra quelli che tenevano pel Cavour e dicevansi moderati e davan promesse di quiete e di assetto, e quelli che, seguitando il Garibaldi e il Mazzini, volevan tutto della vecchia società capovolgessesi e presto e radicalmente. Ed allora venne in mezzo un antico liberale italiano, il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio. Questi, avvalorato dal prestigio della sofferta prigionia dello Spilbergo,

Dei cinque Regni d'Italia —Vol. II.

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e dalla mira costantemente seguitata nel voler franca l'Italia dallo straniero, ma più dall'odore della onestà della vita e del disinteresse (virtù rare negli uomini della sua parte), compose pace tra il Garibaldi ed il Cavour. E, che che si volessero il Mazzini ed i suoi, fece sì che il Dittatore Nizzardo decretasse l'annessione delle Sicilie, convocando il popolo a plebiscito che dovea dichiararsi per voto pubblico di sì e di no, rispondenti alla dimanda dettata da Torino: «Volete l'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emmanuele Re Costituzionale e suoi discendenti legittimi?»

E sì quel popolo delle Sicilie, che gli uomini del Governo Piemontese e la lor setta non dismisero mai dal dir corrotto ed incivile, e colman d'ogni contumelia, onde una schiatta infame o selvatica possa venire infamata, dagli stessi uomini del Governo di Piemonte veniva chiamato al più difficile, al più nobile atto che possa farsi da popolo adusato a tutte le arti della civiltà, forte di tutte le virtù che possan farne capaci di libertà, il disporre cioè di sé medesimo e de’ propri eredi.

Lo amore di novità, che sempre e più che altro governa il più degli uomini, la speranza di miglior fortuna, che scaldava il petto di assai fra i sicofanti vecchi e nuovi della rivoluzione, la cupidità di una gente famelica e che già accaneggiava i novelli occupatori della pubblica cosa, il terrore di molti fra i caduti dell'antico reggimento e lo stato importabile dell'anarchia garibaldesca debaccante per tutte contrade della Italia meridionale, maravigliosamente servivano a che un popolo di nove milioni di uomini abdicasse alla propria esistenza, né si desse pensiero veruno dello abisso nel quale veniva di per sé stesso a profondarsi.

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Conciossiaché tale fosse lo stato tormentoso nel quale agitavasi il paese, per la baldoria dei suoi occupatori e loro assassinamenti e rapine, che molti fra gli stessi amatori della indipendenza ed autonomia napoletana, e servitori della Dinastia Borbonica, e federalisti e cattolici ed ogni fatta di uomini onesti e timorati, corsero cogli stessi unitarii a dare loro sì per la Signoria piemontese, solleciti come eran di uscire del brago in che vedeansi caduti, bramosi del necessario bene d'un governo qualunque che fosse governo, fidenti che ciò che avesse a seguire di tal voto, libero reggimento o tirannide, autonomia o servitù colonica, sarebbe stata sempre più portabile della signoria della bordaglia1. Ed ahi! non sapevano che la potestà che succedeva a quella della piazza, non poteva non tener da essa sua genitrice; perocché il governo che succedeva al gavazzar della masnada garibaldesca, altro non doveva essere che l'ordinamento a sistema di suo smodato operare, e la libertà di tutto per la setta imperante; ma per chi geme, neppur quella del maledirla e del dichiararsene diviso.

Il 21 ottobre adunque, il popolo delle Sicilie, convocato nei comizii, accettò la Signoria degli Insubri con, dissesi, un milione e trecentomila si. Ma anche qui la Rivoluzione diede nuovo saggio della sua lealtà. In parecchi municipii del regno, non accorso il popolo a dar suo voto, fu gettato nell'urna tutto il mazzo dei sì, mandati da Napoli o da Palermo; e però quei sì trovavansi ventimila e meglio in paese dove maschi non erano neppur quattro mila.

(1)Sì vero è ciò, che lo stesso Adolfo tley apologista della rivoluzione italiana, nella sua storia della Renaissance de l'Italie è costretto a dire, che le gros de la population, effrayé du désordre et mècontent de la continuation du provisoire, faisait det demonstrations en faveur de l'annexion.


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Gente forestiera era invitata a votar le sorti degli uomini del paese: e taluno di essi fu veduto deporre anche di più sì, ed in più comizii. Uomini della plebe, richiesti del dir che fosse l'Unità d'Italia per che andavano a votare, rispondean la grascia, l'abolizione di ogni balzello, della pigion della casa, eccetera. Vittorio Emmanuele ad alcuni del volgo gli Unitarii dicevano esser discendente di S. Gennaro, ad altri un viceré che Re Francesco voleva mandare, ad altri un legato del Papa che dovea venire a prosciogliere il regno dalla scomunica, in che era caduto per gli scandali dei garibaldeschi, e via discorrendo.

Ma in quella che a Napoli, a Palermo, a Messina e nelle principali città dei due nobili regni delle Sicilie e dell’Umbria e delle Marche la Rivoluzione trionfava, nelle provincie napoletane il Cialdini proteggeva la libertà del vóto combattendo la riazione, massacrando popoli, incendiando città e borgate, calpestando armati ed inermi. Così sollevati i rei ed abbattuto ogni ordine stabilito, la umanità conculcata con ogni generazione di crudeltà, dava egli principio a quella guerra di circa sei anni, che i rivoltuosi chiamano del brigantaggio, ma che la storia chiamerà d'indipendenza, non certo glorificando i vincitori di cotal lotta.

Strombazzatosi il buon successo del plebiscito, Vittorio Emmanuele, che già stava ad aspettare nel regno, entrò in Napoli subitamente: e vi entrò in carrozza con il Garibaldi vestito di camicia rossa, e certo avvocato per nome Mordini. Il popolo non gli fe' festa: e neppure il cielo volle mostrargli quel sorriso di che è si lieto per Napoli;

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conciossiaché non un sol giorno di quelli che il Monarca Sabaudo vide nella metropoli delle Sicilie, il ministro maggior della natura osò mostrarsi in suo splendore, ned in lor venustà il mare e la terra di questa, che è la più leggiadra spiaggia del mondo.

E di quei giorni imprendevasi l'assedio di Gaeta, o veramente il bombardamento di questa fortezza: fatto che sarà sempre di infinita vergogna per chi l'operò, e gloria imperitura di Re Francesco II. Il quale, se per quella oppugnazione non salvava la napoletana indipendenza, ne salvava non pertanto l'onore: l'onore, che è pur la vita morale dei regni come degli uomini. 01 Tacciò dimostrava per essa, Lui e la sua Dinastia non cessar di regnar per fatto d'interno rivolgimento o per animavversione di soggetti, sì bene per orditi ed inganni e per la aggressione di altro potentato; e lo stabilire la verità e l'evidenza di essa fu sempre mai profittevole ai buoni.

Dopo le fazioni del Volturno e del Garigliano, l'ognor misero e tradito Monarca delle Sicilie, ma non mai domo nell'animo, riparava, come dicemmo, fra le mura di Gaeta, dove era l'eroica sua Consorte ed il Corpo Diplomatico ed alcuni ministri e consiglieri della Corona; a capo dei quali, dopo l'uscita di Napoli, era venuto il marchese Pietro Ulloa. Anzi il porto ancorava l'Armata Francese che prometteva impedirne il blocco. E Re Francesco, disposte le sue milizie e le difese della terra, a modo di poter resistere il più e meglio che sapesse un pugno di eroi, scriveva ai Potentati d'Europa lettere solenni, per le quali dichiarava la causa che egli difendeva dagli spaldi di Gaeta non esser solamente

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quella della sua corona, ma sì della monarchia in generale, aggredita dalla rivoluzione cosmopolita. Quindi mandava un editto ai popoli delle Sicilie, per il quale tutti venìan perdonati i loro falli e commiserate loro sventure, e promessa ogni provvidenza di buono stato dove la Divina Misericordia, cessando dal flagellare il Bel Paese, vi riconducesse la giustizia e l'indipendenza con la ristaurazione della legittima monarchia. Ma questo insigne documento della sapienza e della grandezza di animo di Re Francesco, questo editto contro al quale non trovò parole di oltraggio né di dubbio neppur la calunniatrice e spudorata stampa della rivoluzione, venne con molto studio celato agli abitanti delle Sicilie dalla setta degli Unitarii ormai imperante, debaccante per Italia quasi tutta; né poi i Potentati di Europa potean scuotere le epistole del valoroso Re Napoletano, perocché da lunga pezza non vi avesse più Europa, e pochissimi da dovvero i Re che sien della dignità monarcale senzienti e di sé stessi.

Nel frattanto i Piemontesi che erano all'espugnazione di Gaeta, tra per la poca loro virtù e la valentia degli assediati, non facean passo che potesse coronar di vittoria l'impresa. E domandarono armestizio, mezzano l'Ammiraglio Francese. Re Francesco, cui la pugna facea sempre più forte dell'animo, ma non mai poteva ad offuscarne la serenità, e però farlo capace di sospetto, facea pieno il dimando dell'Ammiraglio Francese; e fu tregua a patti che gli assedianti non si servirebbero di quel tempo per affortificare lor batterie, per costruir le parallele, mercé le quali dovevasi giugnere a batter le mura della fortezza.

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Ma i Piemontesi non tennero lor fede; e però, elasso il tempo dello armestizio, essi scovrironsi forti, e mostraron aver costruite quelle parallele, che il cannon di Gaeta loro impediva di rizzare.

Ed allora il Cialdini, facendosi anche galante, mandava a domandare al Governatore della fortezza che piacessegli palesare il luogo che era stanza della Regina, perciocché esso sarebbe risparmiato dai proiettili degli espugnatori. Ma la nobilissima Regina ricusò, e disse che i segni di salvezza sarebber messi solamente sullo spedale. Ed allora (per malvagità del caso, indubitatamente, o per imperizia degli artiglieri piemontesi) presero a cader più bombe sullo spedale, che non sugli altri edifizii della città. E sì che bene spesso la Regina Sofia era alla cura dei feriti, ed essa aveva valorosamente preso il posto di una Suora della Carità, morta dalle scheggie di bomba caduta nello spedale1.

Pur riottavano forti i Napoletani. Scorati e malconci erano i Piemontesi e procedean di poco. Re Vittorio Emmanuele, dalla reggia di Napoli, impaziente stimolava più che più il Buonaparte perché rimovesse la sua flotta da Gaeta, permettesse all'Armata Italiana il poter aggredire anche essa la fortezza. Laonde il terzo Napoleone acconsentiva: e partitasi l'Armata Francese, le navi italiane entrarono pur finalmente il porto di Gaeta. Ma non vi stettero: perocché, malconce dai cannoni della fortezza, lesto svignarono, e, preso il largo,

(1)La Nobiltà Francese, acquistato il rosario di questa Suora della Carità, della quale la Regina Sofia prese il posto, lo mandò poscia in dono alla Maestà di Lei, in una grande urna d'oro e di argento e di gemme, sulla quale sono maestrevolmente scolpiti i fatti di Gaeta e le virtù dei regali suoi difensori.

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 cangiossi in blocco l'assalto che dovea riportar la vittoria di un subito.

E l'assedio mutossi in bombardamento. Nella tenda del Cialdini era la pianta della fortezza di Gaeta, presa a Napoli nell'uffizio topografico. Oltracciò eranvi uffiziali napoletani che avevano già presidiate quelle mura, ed era un Guarinella che, regnante Re Ferdinando 11, aveva munito di nuove opere la fortezza, e però tutte ne conoscea le parti e le più segrete. Con l'opera di costoro presesi dunque ferocemente a bombardare quella Missolungi della Monarchia Napoletana, ed a far saltare in aria le polveriste con infinite morti di valorosi e con pericolo dell’eccidio di tutta intera la città. Arroge che all'immanità ed alla viltà del bombardamento si aggiunse presto la carizie dei viveri e delle munizioni, ed il tifo prodotto dall'aere ammorbato dal mal vivere e dai tanti cadaveri che giacevano mal sepolti sotto alle ruine delle polveriste e degli spaldi, e di una città già quasi tutta dilaccata e cadente per la pioggia delle bombe che notte e dì flagellavala. Periti del tifo erano il Duca Riccardo di Sangro ed il Duca di S. Vito ed il general Ferrara, stato precettore del Re. Atterrato dallo scoppiar delle polveriste il general Traversi, e il colonnello Paolo di Sangro e tanti prodi il cui nome ora a noi non sovviene. Però l'animo di Re Francesco, compreso dall'orror della strage, vide salvo, glorioso ormai star l'onore degli assediati; e però pensava la resa.

Tremenda, memorabile lezione per qualunque popolo della terra sarà sempre il racconto dell'ora suprema di una monarchia o repubblica.

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 Laonde noi non vogliamo laconizzare in descriver la caduta di Gaeta e la partita di Re Francesco dal Regno Napoletano: nel discorso delle quali, meglio che le parole nostre, opiniamo abbiano a tornare gradite quelle d'insigne scrittore, che pur fu testimone e parte di cotai fatti: e togliamole da una lettera, che scriveva al Barone di Beust quel Pietro Ulloa...  l'Azzio Sincero del nostro novello Re Friderico.

«Il 9 febbraio (scriveva dunque l'Ulloa il dì 14 di quel mese dalla nave francese La Mouette) non ancora batteva l'ultima ora di Gaeta; ma una cerchia di ferro circondavala e cadeva una pioggia di proiettili, che scoppiavan per ogni dove. Un principio d'incendio minaccia la riserva delle munizioni: gli artiglieri accorrono solleciti e l'estinguono. La dimane il foco degli assedianti parea ne dovesse distruggere; ma gli artiglieri e marinai battonsi come leoni. Eglino stanno là tutti, neri dalla polvere, bruttati di sangue, deliberati di morire piuttosto che di rendersi. Tutti, tutti si affollano al posto del pericolo. I templi, le case, gli edifizi tutti sono crollanti, la città soffre orribilmente. Donne e fanciulle sono schiacciate sotto le ruine di loro abituri, per le contrade, nelle case. Sul cader della notte inostri cessaron dal trarre, barcollanti per la stanchezza, ma non però scemi di ardore.

«Ma dopo il 4 febbraio era evidentissimo, come tutto ciò fosse un far getto di valore. L'esplosione di quattro polveriste, l'apertura di due breccie, la distruzione di gran numero di soldati per il fuoco e per le febbri, la carizie delle munizioni e dei viveri, indicavano la necessità di piegare. Il presidio, lungo dal dimostrarsi scorato,

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pel mezzo dei suoi uffiziali domandava si prolungasse la resistenza. La saldezza del suo valore non venia meno. Ma questo era abbandonato a sé medesimo, conciossiaché nessuna luce di speranza confortasselo. Però fu il Re, che, cedendo ai sensi di sua umanità, volle imporre un termine a così doloroso sacrifizio di suoi fedeli: sacrifizio glorioso, ma che chiarivasi inutile ormai. Egli assembrò il suo Consiglio nel seguente giorno: la Regina, i suoi Fratelli e due ministri; perocché egli voleali consultare come in assemblea di famiglia. Melanconica era la faccia di tutti, ed i cuori eran gonfi di quel dolore che tarpa le ale alla parola. I due Principi, che erano stati sempre sugli spaldi, e che soventi avean riottato contro alla fraterna sollecitudine del Re, ora sedean fieri e taciturni. Sarebbesi detto che ciascuno presentisse l'ultima ora della monarchia e della indipendenza nazionale.

«Il più degli uomini, signor Barone, possiede quella dote di coraggio, che è necessaria a condursi bravamente. Ma il Re era stato provato a più doppi dalla perdita della corona, dalla guerra, dal tifo, dal dilacerante spettacolo delle pene durate dai suoi soldati. Egli aveva mostrato un valore ed una energia, che sublimavano la resistenza: ed ora in modo tranquillo prese ad esporre lo stato della fortezza, e domandava se, nelle presenti condizioni, dovesse egli consentire ad una capitolazione. I ministri, comprendendo come la fortezza non potesse più resistere, e che i giorni eranle contati e le ore, emisero la opinione della resa, e ruppero in pianto. I due Principi, fortemente commossi, assentirono piegando il capo.

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«Durante i due giorni dedicati al discettar le condizioni della capitolazione, l'assediante, rifiutando di conceder tregua (e sì che non ne avea d'uopo, perocché non gli fosse mestieri di costruir novelle parallele), continuava a flagellar la fortezza con il bombardarla. Di quei giorni doveasi assembrare il Parlamento di Torino, e vi si voleva annunziare la presa di Gaeta. Ma temeasi non l'impedisse la valentia degli assediati. Però il fuoco, in poco di ora, prese una violenza maggiore di quella si aveva avuta per innanzi; il cielo stesso parca di bragia. Quale spettacolo di orrore! Le casematte minacciano ruina, quella della Regina è sul punto di avvallarsi. Le cannoniere sono livellate allo spianato, le bombe scoppiano sulle case, sui templi, sugli spedali, e mietono infinite vittime fra gli abitatori i più miseri. Tutto crolla, le contrade sono disastrose, non vi ha più securo ricovero. Ma tutti i soldati sono sulle loro batterie, ciascuno tiensi presso il suo cannone, e contende per aversi il posto d'onore, quello cioè di maggior periglio. Discerno fra essi valorosissimi tre o quattro giovinetti di 15 a 16 anni, scappati dal collegio militare di Napoli per venire a dividere i perigli dell'assedio. In questo momento la riserva delle munizioni ed il laboratorio con orribil fracasso s'incendia. Parecchi soldati ed un giovane uffiziale di artiglieria sono lanciati in aria e caggion quindi nel mare. Una casamatta sprofonda, soldati e artiglieri sono schiacciati sotto alla macerie. I Piemontesi, in presenza dei plenipotenziarii, che trattavano della capitolazione, mandano grida di gioia e batton le mani come a spettacolo da teatro.

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Questa è l'ultima lotta, ma una lotta disperata. Infine il sacrifizio è consumato: segnata è la capitolazione.

«Il 13, a sera, la casamatta reale era ingombra di uffiziali d'ogni grado, che venivano ad inchinare il Re: omaggi renduti allora ben meno all'altezza di suo grado, che a quello di sue virtù personali. Eglino eran taciturni, mesti, abbattuti. Il Re disse a tutti parole di mercé, di lode, di conforto, e eoo dignità ricordò in tal frangente ciò che aveva fatto esso, e ciò che fare avrebbe voluto per la felicità del suo paese. Egli ricordò come fossesi tutto dedicato alle cure del governo, senza neppure un momento concedere al riposo; ma che alla fortezza della gioventù egli non aveva potuto congiungere l'esperienza che apporta la maturità degli anni. Aggiunse che egli conserverebbe viva in eterno la gratitudine della loro fedeltà e devozione, e che un cotal ricordo il seguirebbe nell'esilio e nella solitudine, e ne sarebbe la consolazione più dolce. «Miei ultimi voti, disse Egli fornendo la dicerìa, non domanderanno alla Provvidenza che la prosperità del mio Regno e la felicità dei miei prodi.» In quella che il Re così parlava piangevano tutti, quale per l'ammirazione della grandezza di suo animo, quale per la tenerezza che veniasi da quelle vivaci parole d'amore, che usciansi dal petto del Monarca per il suo popolo.

«Ma era giunta l'ora della partita e dell'addio. Alle otto del mattino la vanguardia piemontese cominciava ad entrare la fortezza ed a salire sulle batterie. Né la Monette, piroscafo da guerra francese, né le altre navi che dovevano menar via il Re, si mostravano. Il Re deliberò dunque recarsi sulla Partenope,

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nave napoletana che stava disarmata nel porto, alloraché fu segnalato l'arrivo della Mouette. Il Re e la Regina uscironsi allora dalla casamatta seguiti dai Principi, dai ministri, dai generali, dai gentiluomini e da gran numero di uffiziali d'ogni arma e d'ogni grado. Il presidio era schierato in battaglia sino a Porta a Mare. I soldati laceri, stremi dalla fatica, livida la faccia, gli occhi smorti, presentavano le arme; la musica militare suonava l'inno reale. Quest'inno, opera del Paisiello, sempre avean suonato nell'ora del bombardamento; e la melodia di esso faceva contrasto dilacerante con l'orrido fracasso delle artiglierie, con le ruine della morte. Ma in questo momento solenne quelle note sì armoniose e sì tenere ricordavano di ben altri giorni! Però la commozione divenne generale ed il pianto ruppe da tutti gli occhi. I soldati, gridando viva il Re! non mettean che suono rauco e singhiozzi. Il popolo, sì crudelmente provato dalla ferocia del bombardamento, si precipitò sul cammino del Re, prendendogli le mani, le vesti, e baciavale. Dall'alto di loro veroni i cittadini tutti gli dicevano gli ultimi addio, agitando bianche pezzuole. Non pochi soldati rompeano loro file, gettavano a terra i moschetti e prostravansi dinnanzi al Re singhiozzando. Gli uffiziali abbracciavansi piangendo o gettavansi fra le braccia dei loro militi, vinti come essi nel dolore. Altri uffiziali, disperati, strappavansi le spallette o spezzavano furibondi loro arme. L'ambascia era sì generale, sì profonda che non sapeasi per che altro modo disfogarla.

«E del dolor generale era commosso il Re: ma egli serbava la più perfetta serenità di spirito, non parendo sollecito che di consolare suoi uomini, e di moderarne le angoscie.

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A gran pena poteva egli aprirsi la via in mezzo a quelli che gli si affollavano di attomo per ogni dove. La giovane Regina avea per la prima volta le lagrime sul ciglio. Infine il Re, uscendo per la Porta a Mare, salutò con la mano un'ultima volta suoi eroici soldati. Egli s'imbarcò con il suo corteo, con questi francesi che sino allora mostraronsi a lui devoti con una abnegazione ed una valentia spinta sino alla temerità. Alloraché la Mouette salpò, una batteria rese gli ultimi omaggi al Re. Il bombo del cannone si levò nell'aere come il rantolo di un moribondo... Le grida di Viva il Re, esclamate dai cannonieri in quella che veniva abbassata la Bandiera Napoletana, ci serrarono il cuore; questa bandiera parca la sindone funerale gettata sulla monarchia di Carlo III. I Francesi della Mouette erano altrettanto commossi che i Napoletani.»

Re Francesco, italiano, non volle abbandonare la terra italiana; e però una con la Regia Famiglia riparò a Roma, presso a quel Pio che la sventura più che la buona fortuna trova benigno, che la giustizia e la probità rinvengon sempre terribile alla difesa, presso a quella potestà che ai vinti sta sopra ed ai vincitori.

L'invasione dello Stato Pontificio e del Reame di Napoli avea suscitato molto fracasso di parole fra i diplomatici, ma di assai profonda indegnazione fra gli onesti d'ogni terra e d'ogni classe. La Francia, la Prussia, facendo le parti di probi governi, ritirarono loro legati da Torino. L'Imperatore Austriaco volea approfittare dell'evento, ma non sapea. Dicea la rivoltura italiana essere il primo anello di una catena,

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che dovea trascinare Ungaria e Polonia e quindi tutti gli Stati d'Europa. Però proponeva all'Imperatore Russo un abboccamento, il quale successe poco dopo a Varsavia. Ma il Buonaparte, che sapeasi della mente dello Czar, fece a fidanza, e solo dichiarò che, dove i Subalpini aggredissero la Venezia, egli non correrebbe in lor soccorso. Quindi propose un congresso per ordinar le cose della Penisola, e che dovesse stipulare la cessione della Lombardia irrevocabile, e l'astenersi della Francia dal venire ai ferri, subordinata al non intervento dei potentati della Magna. Ma l'Austria, scorata dalla indifferenza dell'Imperatore Alessandro e del Reggente di Prussia, dismise; laonde il Governo di Torino poté compiere a suo grande agio il suo desiderio, tenendogli bordone Inghilterra, perocché sapessero suoi politici, come l'Unità d'Italia, stabilita, avrebbe pur sempre a tornare in disservigio di Francia, e, declinata in rivolgimento repubblicano, strascinerebbe col trono italiano quello bensì del Buonaparte.

Vittorio Emmanuele, dimorato alquanto a Napoli, mosse per a Palermo, e quindi facea ritorno alla sua Torino, con tale impazienza che parea la terra occupata bruciassegli le piante. In quella i collegi elettorali eran convocati per eleggere i deputati, che doveansi assembrare nella metropoli del Regno Sardo, per intitolarsi il Primo Parlamento Italiano; e non è a dire quali arti e quant'oro venisse dispeso, perché da quei comizi mandassersi uomini tutti della setta Unitaria. L'opera corruttrice del Cavour sortì mirabil successo, e tali furono i partigiani deputati all'assemblea novella,

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che spiritosamente da un bizzarro spirito toscano venian detti taglierini fatti in casa: ned il popolo italiano, celiando, gli addimandava altrimenti; e si che il lutto della miseria italiana non più permetteva tenere il lazzo.

La novella assemblea ragunossi il 18 febbraio di quel fatale 1861, e proclamò Re d'Italia Vittorio Emmanuele, conservandogli il numero di secondo, avvegnacché altro Re d'Italia non fosse mai stato di questo nome; ma ciò fu per non dispiacere al Monarca, che ne mostrò viva brama; perocché la vetusta sua gentilezza facessegli preferire l'esser secondo tra i Principi di Savoia, già illustri, che primo di una serie novella.

Con l'unificazione della Penisola accettavansi leggi e statuto piemontesi, tuttocché men liberali ed indubitatamente men civili di quelle delle altre parti d'Italia; ma non di libertà vera né di civiltà la Rivoluzione in generale, e ben meno le rivolture italiane sen danno pensiero. Pacifico era stato il discorso della Corona, pacifiche le parole del Cavour, e però anche quelle dei suoi servi deputati. Della Venezia poco dicevasi o nulla, ché la paura mai non cessava delle baionette austriache; ma molte e bravone le parole perché il poter temporale dei Pontefici dicevasi cessato, e Roma venia proclamata Capitale d'Italia. «La quale Italia, se deve andare a Roma, diceva il Cavour, bisogna ci vada di accordo con Francia, e senza che la grande massa dei cattolici possa temere la servitù della Chiesa. Sono i mezzi morali (veduti in processo sì immorali, e si ridevol parola addivenuti), sono i mezzi morali, diceva, che ci condurranno a cotal meta, ed il convincimento che la Religione non ha nulla a temere dalla libertà.

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Bisogna che il Papa comprenda ed accetti questa posizione novella, che gli darà una libertà giammai ottenuta dalle potenze cattoliche; e l'Italia è presta a vendicargliela ed a proclamar la massima della Chiesa libera in libero Stato.»

La quale massima, se poteva allora abbindolare alcuni spiriti facili ad accomodarsi a parole con tanta solennità strombazzate, non tardò a chiarirsi come in bocca ai rivolutosi italiani significasse la schiavitù e persecuzione di nostra sacrosanta Religione, l'invasione dello Stato del Papa, lo spoglio di censo dei religiosi istituti, lo sperpero, l'evaporazione dei beni di tutta la Chiesa italiana, la propagazione del mal costume, la protezione della propaganda acattolica e delle dottrine panteistiche, lo imprigionamento, il confine, l'esilio dei sacerdoti e dei presuli più venerandi, il sacrilegio premiato, la violazione delle sacre immagini, dei templi, di ogni santo o pio luogo, gli insulti e gli assassinamenti dei ministri della divina parola, la impunità e la difesa degli oltraggiatori della patria religione, e perfino, nella cristiana terra d'Italia, Cristo in Sacramento rovesciato per terra e calpesto!

Ma tra i festeggiamenti e le baldorie della conseguita unificazione d'Italia, sia che al Signore Iddio piacesse dar principio al castigo dell'opera rivoluzionaria, con il colpire colui che ne fu infatigabile manovale, e n'era consiglio e braccio principalissimo; sia che lo spirito d'abisso, il quale è solerte amico dei suoi ministri, volesse risparmiargli l'onta e la confusione del confessar la propria impotenza, la finale debilità del male,

Dei cinque Regni d'Italia —Vol. II

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 e il vedere andarsi in dileguo il disegno empio dello abbattimento del Papato, e crollare il castello da sé ideato, il Conte di Cavour, tocco da ferocissima malattia nel cervello, in termine di pochi dì usci di vita, lasciando ricchissimo censo ai suoi congiunti, ai popoli italiani la tirannide di quella sua oscena fazione, cui suol d'ordinario infamarsi per il nome di Consorteria.

La quale di vero non è novella nelle istorie delle rivolture di tutti i popoli, e massime in quella di Italia. 1 cosi detti consoni d'oggiorno altro non sono che i Ciompi della Repubblica Fiorentina, Michele di Lando e suoi seguaci, che, servitisi del popolo minuto per cacciar la signoria dei nobili, fannosi a lor. volta nobili e signori, alzando insegne ed armandosi cavalieri e manomettendo la cosa pubblica; perocché, reggendosi a popolo la patria, saravvi pur sempre il popolo grasso che tesorizzerà della miseria della moltitudine grama. Gli Italiani adunque della rivoluzione, facendo querela della setta dei Consortieri, non hanno che a maledirne sé stessi e le loro opere; conciossiaché essi figliasserla, e la terra non dia che di quelle frutta di che accolse la sementa entro il suo seno; e se vero è che corrotto era il Bel Paese, la consorteria ne sarebbe, la novella non solo, ma sì la legittima aristocrazia; poi gli ottimi tra i corrotti hanno a ritenersi pur sempre i corrottissimi.

I quali non è a dire che scellerato governo facessero della misera terra italiana. Tali e cotanti furono e sono i loro delitti, che torna oggimai impossibile il farne registro ed il raccontarli. Parvero essi naturati a bollar d'ogni vergogna il nome latino,


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di cui veniano, non solamente scovrendo le piaghe infistolite, ma rivelando vergogne cui il manto di una vetusta civiltà palliava, o la mano di ordinati reggimenti teneano celate. Nella guerra d'indipendenza che combattevano ancora e per cinque anni combattettero nel Regno Napoletano i soldati del disciolto esercito e gli uomini del contado, né pochi dei cittadini più ardenti, manifestaronsi crudelissime le genti abitatrici di un paese che Iddio piacquesi far sì venusto. La guerra d'indipendenza combattuta nelle Calabrie a tempo del quarto Regno d'Italia, e che poi francescamente veniva addimandata brigantaggio, lasciò celebre per immanità ed ogni fatta di scelleratezze il nome del francese General Manés, che quella fu mandato a combattere. Ma oggimai i nomi dei Pinelli, dei Galateri, dei Cialdini, dei Fumel, eccetera, han maravigliosamente onestato quello del Manés; ché circa trentatré città e borgate, date al sacco ed alle fiamme, ed un ventimila di uomini fucilati (e tra questi gran parte riconosciuti anche innocenti di quel voluto delitto di osteggiar l'invasione della patria), saranno terribile ricordo di questo tempo fra le genti italiane, illavabile onta della Penisola nelle istorie delle genti civili. E tanto discorsero a crudeltà gli uomini della novella consorteria, che vidersi bruciate le case con entro lor miseri abitatori, per punire i renitenti del servire alla bandiera dell’Italia Unificata, e furono tormentati e spenti giovani infermi, e torturati con ferri roventi i sordo-muti per tema non s'infingessero per isfuggire a quel balzello di sangue, di che regalavano la liberatrice Rivoluzione Francese, la leva militare.

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Famosi vennero questi fatti ed in Italia e fuori; e però non è mestieri noi ricordassimo i nomi ed i luoghi. Laonde, rotti i freni della morale e della giustizia, abbattuto il supremo sostegno della società degli uomini, la Religione, turate le orecchie della coscienza pubblica, e la sua voce accoppata dalle quisquiglie di una stampa oscenissima e dal vociare dei circoli rivoltuosi, la umanità dismagata od ogni suo senso compresso, all'amor di patria succeduto quello dell’utile e lo spirito delle sétte e l'epicureismo individuale dei settatori, non è maraviglia che tutto trovassesi socquadrato sulla terra italiana ed il governo dello Stato e quello del municipio, e quello della famiglia; e ladroni ed assassini trovandosi tra i capi, in ladroni ed assassini tramutassersi assai Ira gli uomini soggetti, e pel naturale discorrere al peggio della gente ima, venissero briganti da dovvero e cannibali quelli del contado. Birri e ladruncoli e falsatori e bari e lenoni e contrabbandieri e manutengoli di ladroni e falsi monetieri sedendo tra gli uffiziali dello Stato, al brigantaggio della verità, doveva di santa ragione tener dietro quello dei popoli e l'infallibile miraglio delle loro opere.

Il quale brigantaggio non veniva poco infocato dalla miseria in che cadevan le genti per lo sperpero di ogni antica e natural ricchezza della Penisola. Conciossiaché, vendute allo straniero l'industria ed il commercio italiano, per la misera boria di ottener dai potentati d'Europa il riconoscimento del Regno d'Italia, l'agricoltura, la pastorizia tribolata e spenta dalla guerra civile e dalle importabili tasse, onde venne sopraccaricata la proprietà

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fondiaria, non pochi diedersi a risicare le galere ed il patibolo per isfuggire alla lurida inopia od al morir per inedia; e sì che nelle ricche città italiane, sull'uberifera terra di Saturno, vidersi, la prima volta, in meglio che tremilanni di vita, cadere spenti dalla fame od intirizziti dal freddo uomini, cui natura avea fatto ricchi d'ogni sua benignità. Il terzo barbarico dei Goti, e la servitù fondiaria ai Gasindi Longobardi, furono lievezza al paragone degli spogli e delle tasse imposte nel Quinto Regno di Italia. Durante la dominazione dei Barbari, in quella età tetra per ignoranza e per ferro, sursero pur non pochi dei monumenti di che ancora si abbellano le nostre città; ma durante il Regno dei Bonaparteschi, non che mettersi pietra di nobile edifizio, gli Italiani dismentavano anche le antiche arti, i gentili esercizii per che conservavansi ancora in onore fra le nazioni. Non si odon più nuove rime, non novelli concenti furon più musicati, non più commendevole tela fu dipinta, non più scolpita una statua, ed il tesoro degli studii, e quello della pecunia, ammassato da tanto secolo, per virtù degli antichi reggimenti della Penisola, venne sprecato in men del tempo che noi spendiamo in vergar queste pagine. Il popolo italiano fatto è misero di sei miliardi di debito, per accattare che cosa...? le glorie forse di Custoza e di Lissa?...

E se miserrime doventavano le condizioni dei commerci e delle arti, non rinveniamo epiteto abbastanza lagrimevole per significare quello delle scienze e delle lettere. Conciossiaché, sbandito lo elemento religioso dalla pubblica educazione, la gioventù a ben altro applicasse l'animo,

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che all'esercizio dei buoni studii ed alla salutevole ricerca del vero, dell'onesto, del bello; e veggonsi imberbi garzoni corrottissimi più che uomini adusati nella pratica di ogni vizio o d' ogni delittuosa compagnia, ed odonsi bestemmiar delle più sacre cose e tutto niegare, che la povera umana mente non sa comprendere, e gli abbandonati od imperfetti studii non possono persuadere. Laonde se laido è lo stato presente di nostra civiltà, oltra ogni dire bruttissimo possiamo prognosticar l'avvenire di essa; ché le genti italiane, educate alla scuola della Rivoluzione che ne socquadra, sapranno trar di coltello e rubare e falsare ed assassinar meglio e più che in antico; ma delle antiche arti di nostra civiltà non sapranno diversamente di quello, che un musulmano di Smirne sappia essere nato Omero nella sua città.

Inoltre ogni nostro italiano fu sempre un mezzo filosofo, tra per il suo natural genio cattolico e per le grandi e salutevoli verità che appara da quel grandissimo libro che è il breve Catechismo di nostra Religione. Ed ora la propaganda eterodossa e chi le tien bordone, vengono dibarbando dal Bel Paese anche queste piante di ogni virtù che son la Fede ed il Sapere Cattolico, e dei popoli dell'Ausonia e della Insubria non farannosi già protestanti né scismatici, ma belve atee e salvatiche; e però affannando per l'unità dello Stato, vienesi abbattendo anche l'antica, l'unica, la naturale unità dei popoli nostri, l'unità della Fede.

Irrequieta, siccome di ordinario è l'infermo, la setta imperante in Italia credea far schermo a' suoi malori con lo appetire il possedimento della Venezia e di Roma, e gridare la necessità di tanto acquisto.

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Ma la vista delle arme austriache facea sì che i suoi piati per la Regina dell'Adria in catene fosser più fiochi e più celati gli orditi, cui mulinava per annestarla al nuovo regno; nel tempo stesso che sonori, petulanti e pieni di arroganza erano e son per contrario suoi gridori pel conseguimento di quella Roma, che i rivoltuosi moderni tengono imbelle, perocché difesa da Cristo Salvatore. E la stimavan facile ad assoggettare e far si che il presidio francese ne uscisse per minacci a quel Buonaparte, che dovea pure ottemperare ai disegni e ai comandi della setta onde usciasi. Roma è la mira suprema della rivoluzione italiana; perocché in Roma, dove non sien Pontefici, non è più loco neppure per re od imperatore od altra qualsiasi signoria. E Roma è la mira bensì della rivoluzione cosmopolita; perciocché col crollare della Somma Sedia, crollerebbe la massima dell'autorità e i troni di ogni altro monarca, come quelli che ne son corollario.

Però i Mazziniani e tutti gli altri Unitarii (ché consortieri e repubblicani son tutt'uno, e solo si differenziano in questo, che i secondi son leali e combattono con arme palesi, i primi ipocriti ed agguatano al varco), tutti, qual più apertamente, qual meno, presero a minacciar Roma di assalto, e lasciavasi il Garibaldi facesse la massa dei suoi masnadieri. Ned altrimenti i Longobardi di Astolfo e di Desiderio Re, gridavano «Roma o morte», e come essi morte si aveano per Roma ed avrannosi; perocché la rócca del Beato Pietro sarà ad ogni modo lo scoglio al quale romperassi la Rivoluzione le corna.

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Conciossiaché il Buonaparte, tra per non inimicarsi i cattolici di Francia e per tema di una repubblica in Roma, interdicesse al Governo Subalpino lo andarvi. Questo, credendo poter rattenere il dardo scoccato (come a Sarnico aveva fatto con poco spargimento di sangue, perocché non fossersi ancora mossi gli armati), divisò fare anche tra i monti di Calabria, onde incedeva il Garibaldi, raccogliendo uomini e danaro per la impresa del Campidoglio.

Ma il Garibaldi non volea dismettere per cenno del Buona parte e del novello Aniceto, il Rattazzi. E questi, che (come dissesi allora per ogni dove e certo più tardi appurerassi) aveva sino a quei di caldeggiata la mossa dei garibaldeschi, mandò immediate a combatterla; e seguinne la rotta di Aspromonte, che fu la peggiore che in campo aperto toccassero non i garibaldeschi solamente, ma la Rivoluzione Italiana tutta quanta, vinti e vincitori di Aspromonte; ché l'Eroe Nizzardo ferito, come la madre dell'ultimo Enobarbo, agli uccisori malcauti avrebbe dovuto gridare: Vcntrem ferì!

E fu tratto prigioniero alla Spezia egli, la spada della Rivoluzione Italiana; e l'ingratitudine e l'ingiustizia dei reggitori, e la paura e servilità a Francia giunse sino a far fucilare quelli dei soldati del regio esercito, che avean lasciato loro file per accorrere in quelle dei garibaldeschi. E questi miseri erano spenti in vita da coloro che, per aver fatto, men che tre anni innanzi, lo stesso, si avevano avuto guiderdone di oro e di loda e grado maggiore nella milizia: e sì che sempre starà fra i malvagi la terribile sentenza dell’Alfieri, che il «traditore fia il vinto.»

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Ma non per la rotta d'Aspromonte, né per la ormai mal celata debilità delle forze italiane e la sempre meglio chiarita soprassovranità di Francia nella Penisola, i settatori dell'Unità d'Italia dismettevano dal gridar Roma o morte. Il fondamento del valor delle bestie sta principalmente nell'incocciare. Laonde non cessavano dal far ressa al Buonaparte, perché i suoi Francesi sbrattassero Roma; e, temendo che Re Francesco di Borbone caldeggiasse la guerra civile, che ardeva il Regno Napoletano, e vi mantenesse lo scontento che tutti conquidea gli animi dei suoi soggetti, perfidiavano nello stimolare l'Imperatore dei Francesi, perché sì facesse che il Monarca delle Sicilie abbandonasse la metropoli della Cristianità, o fosse da quella bandito dal Sommo Pontefice. Ed il terzo Napoleone, che non potea cosi di leggieri acquiescere alla gran richiesta degli Unitarii e dei rivoltuosi d'ogni setta, cioè al dar loro in preda la santa Roma, divisò baloccargli col metterne fuora il Borbone. Però, dismentando lui aversi avuto ospitalità nella città medesima, all'ombra del trono nobilissimo e misericordiosissimo dei Vicari del Cristo, quando eran banditi da tutta Europa i Buonaparte, osò pur fare così vile richiesta al Papa, a Pio IX, ed a Re Francesco medesimo non una volta.

Nauseò il Sommo Pontefice all'osceno dimando, schifò anche rispondere; e nobilissimamente rifiutò uscir dei confini d'Italia il Re di Napoli, cui in prezzo di sua acquiescenza promettevasi la restituzione del confiscatogli censo privato, la dote materna, un lascito di Re Ferdinando.

Dei Cinque Regni d'Italia Vol. II.

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Ma non per questo vergognavano il Buonaparte e suoi legati; perocché continuassero a molestare il misero Principe col volerlo respingere anche da quell'onorato ricovero di Roma. Pure, frustrato in questa sua mira Napoleone, prese a barcheggiare con il Governo di Torino e gl'impazienti di galoppare al Campidoglio; e divisando non dispiacere affatto agli onesti di Francia ed alla Corte di Roma, scrisse od affazzoné quella concordia che dicesi del Settembre 1865. Mercé la quale fermavasi che i soldati Francesi sarebbersi usciti di Roma in termine di due anni, ed il Governo Italiano avrebbe rispettato il presente confine pontificio ed impedito che altri il violasse, avrebbe pagato la quota del debito Romano per le provincie già tolte al Papa, la sedia del Governo sarebbe trasportata da Torino a Firenze od a Napoli, secondo che il Parlamento avrebbe stabilito, ecc.

Questa Convenzione (siccome era a prevedersi) non accontentò persona fra i buoni, né fra i malvagi. Offesasi Roma per l'insolenza del disporsi di sue faccende senza sua saputa, e però non mai discesa a farne parola, per quanto venissene stimolata dal Buonaparte e dai suoi servi, arrovellavano gli Unitarii per ciò che vedessersi allontanati dal possesso della Città di Bruto, e perfidiavano nel dire che altre e più umilianti condizioni segrete avea quella concordia e cessione di altre terre italiane; tutti comprendevano gli equivoci di quella scrittura, imperocché non vi si facesse motto della rinunzia a Roma come metropoli del nuovo regno; Torino tumultuava per ciò che cessasse dallo ingrassare, siccome capo di tanto regno.

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Ondeché i ministri che avean stabilita la novella convenzione, martiri che dicevansi dei passati governi di Napoli, di Toscana, di Roma, di Lombardia, eccetera, non peritaronsi di diventare a lor volta martirizzatori, e con la strage d'inermi cittadini, composero in pace la grave città dei Taurini.

La quale fu sola a comprendere che divenisse un paese destituto di un subito d'ogni stabilimento di governo, d'ogni grandezza di corte, d'ogni commercio delle provincie; e però, se Alboino scelse Pavia a metropoli del suo regno, come quella che sola aveva ossato oppugnare le sue armi, mostrando comprendere che fosse l'invasione di gente forastiera; Torino, in questa, avrebbe dovuto confermarsi sedia del Governo, perciocché solo essa fra le città italiane, nel secolo che dicesi dei lumi, mostrasse saper discernere il privilegio acquisito di metropoli, che solo i secoli possono stabilire e la storia, e solo i secoli togliere o le ruine di una conquista.

Se non che ridicolissimo pareva a tutti che quella città, che tanto aveva spasimato d'amor d'Italia, allorché trattavasi di pigliare ed ingrossare, quella Torino che gridava municipali tutte le altre terre italiane, ed alla quale tutte le genti della Penisola sapean fiacche di civismo, sì che non volessero mai abbastanza sagrificare alla grande idea dell'unità; quella Torino che malediceva a Napoli vituperandola con ogni calunnia ed insolenza, perciocché non si accomodasse a morire, né a piegar l'altiera, la colossale sua cervice innanzi alla fantina divenuta padrona, a sua volta dimostrassesi a più doppi governata dalle passioni, che gridava ree; e se peccato fosse il municipalismo (il quale noi teniamo nobilissima virtù),

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davasi essa a divedere un mostro di fellonia, poi che tanto si svelava fradicia e deturpata di esso.

I Ministri della Convenzione, come quelli che troppo eransi polluti nel sangue dei cittadini torinesi, cessero il loco al Lamarmora, che fu prescelto, non per lo ingegno, del quale è affatto digiuno, ma perché la Convenzione per entrare il Parlamento avea bisogno di essere accompagnata da carabiniere. Però fu accettata. La Real Corte acconsentiva a lasciar la Reggia dei suoi avi per quella di Firenze. Il Parlamento, gli uomini di governo tenevano non essere impediti di violar la Convenzione quando e come potessero coi mezzi morali, perocché non rinunciassero a Roma come metropoli, nel nero della scrittura: gli uomini del Governo Francese e le loro gazzette dicendo pur sempre e pubblicando che per quell'accordo intendevasi salvo e guarentito sempre il dominio temporale dei Romani Pontefici e Roma rispettata come spirituale e temporale sedia di essi, padrona di sé la Francia, dove il Governo Italiano o la Rivoluzione violassero i dettami di quella concordia.

Poi fu fermo Firenze dover essere la capitale provvisoria della nuova Italia: la tappa, come dissesi, del pur sempre continuato viaggio per a Roma. La mercé delle dicerie e dei brogli di deputati napoletani fu impedito che la città di Partenope si avesse temporaneamente la riparazione dei suoi danni, per aver cessato di esser capo di un regno potente meglio che nove milioni d'Italiani. E Napoli continuò ad essere spogliata di ogni sua ricchezza a pro delle altre genti della Penisola.

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Di questa efferata nimistà di quei deputati napoletani per la loro città, maravigliavano per Europa tutte genti. Pure non noi ne stupivamo, non quelli conoscevan che gente si fosse il più degli uomini usciti dai comizii delle Sicilie. Però che lo amore fosse virtù e nobilissima quella dell'amor di patria. Il quale non potea capire in cuore a quei sciagurati, che per vil lucro od altra malvagia passione dell'animo avean venduto agli Unitarii ed allo straniero la terra natale, e, pigmei della bestemmia, fan guerra a Cristo Signor nostro, né pensier generoso o carità di congiunti o di conterranei potea vincere quella canaglia, dei quali pochi potevansi avere amore o coscienza di famiglia, veruno l'amistà dei cittadini suoi. Questi son settatori e soltanto; ed i settatori sono ben altra gente che i patrioti, stranieri essi ad ogni loco che non, fosse la lurida stanza di lor conventicole.

La gente subalpina e quella della media Italia indubitatamente non avean durato molto a tornare esose agli abitatori delle Sicilie, tra per lo avere tutto invaso e il voler tutto divorare, e per la boria ridicola del credersi o volersi far credere vincitori, dove era a tutte genti palese che le Sicilie erano loro state tradite. Pure, duce e consiglio il nullissimo Poerio, dimostravansi così nimici a nostra gente i fuorusciti, quelli diceansi vittime del caduto governo, e tutti di queste contrade che venivan brigando cariche o mestolando nella pentola governativa, che declinava la paura e l'odio degli uffiziali del Governo Italiano nati in altre provincie che le nostre; tremavasi come allo avvicinarsi di barbaro in udir minacciarsi di sopracciò conterraneo!

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Trasportata la sedia del Governo nella, civile non già, ma corrottissima Firenze (che per tale considerazione noi la reputiamo adatto, naturale, legittimissimo capo di cotale corpo, dove abbia a stare cotal Regno d'Italia), non però volgevano in meglio le sorti del Bel Paese, travagliato dal mal governo, e dalle furie della parzialità e dalla guerra civile, fatta sempre più triste per la crudeltà e gli arbitrii della soldatesca e i rigori del Parlamento, irrogati per la cosi detta Legge Pica. Però sempre più spasimando il popolo, la setta imperante sempre più gridava doversi rompere guerra a Roma ed all’Austria per trionfare con lo acquisto della Venezia, o cessare nobilmente per fatto di guerra.

Laonde Napoleone Imperatore, cui sapea sempre reo la Concordia del 1815, come quella che gli ricordava la disfatta del Primo Impero, divisò lacerarla pur finalmente del tutto, non prevedendo che i patti di essa verrebber distrutti a maggior suo danno, segnando la finita dell'Impero Secondo. E compose l'alleanza della sua mancipia Italia con la Prussia contro Austria. Sperava lunga sarebbe la guerra, ed esso avrebbe ad esserne arbitro e pacificatore quando, spossati e lassi i combattenti; e sì togliere le provincie del Reno a Prussia e la Venezia ad Austria, per annestarla ad un Regno Subalpino, che lascerebbe ai Napoleonidi libera ed aperta la dominazione dell'Italia Meridionale.

Per questa società con la Prussia, la setta che dicesi Italia, ruppe guerra ad Austria, e con infinita vergogna fu rotta in terra ed in mare appena passato il confine od uscita dal porto d'Ancona.

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E con ciò dimostrò quanto ella valesse al buon governo del paese. Conciossiaché nel 1848, divisa Italia in piccioli Stati, né congiunti questi peranco da patti federali, inermi le genti italiane od affatto dissuete dalla guerra, per la lunga e felicissima pace d'Europa, pure videsi il Piemonte combattere nobilmente e vincere gli Austriaci in parecchie fazioni; i Napoletani difendere lungamente e valorosissimamente Venezia; genti italiane, avvegnacché perdutissimi uomini, durar sulle mura di Roma con allontanarne e sbattere il più valoroso soldato del mondo, il francese; e le milizie di Re Ferdinando di Napoli comporre in pace ed in sede il reame e senza straniero soccorso riacquistar Sicilia, dove accorrea l'armata democrazia di tutta Europa. Ed ora, dopo sei anni di unificazione e di esercirazioni di guerra, dopo congiunti ventitré milioni di uomini di una sola terra, dopo dispersi sei miliardi per un esercito di quattrocento mila uomini e una armata, che teneasi di santa ragione prima dopo quella delle grandi potenze marittime, si ebbe a patir la vergogna di veder fuggito dal campo il soldato italiano, dello udir il Governo medesimo manifestare di non esser certo se l'esercito potessesi mettere oramai sulla difensiva, e videsi sbellicar dalle risa l'Europa per un'armata, irta di ferro e maggiore al doppio che l'avversa, rotta da poco e vecchio navile; e sì che il marinaro italiano è sempre il più sperto del Mediterraneo!

Quei pochi valorosi atti, i quali temperarono di un qualche onore la vergogna di tal guerra, furono opera quasi tutti di quei poveri e disaccetti soldati napoletani,

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i quali tenevano a dimostrare come nei fatti del 1860 traditi fossero stati essi dagli uomini, non già dall'animo. Epperò quei militi, che venner prigionieri degli Austriaci, come vedevansi nei trinceramenti nemici, prendevano tutti a gridar viva Francesco II, facendosi così di dichiarare essi per l'onor delle armi aver combattuto, ma il core dei napoletani ardere sempre della stessa fede.

Gli Unitarii poi, per palliare l'onta della disfatta, divisarono sagrificare i condottieri della guerra. Ma di quella terrestre non potevano a Firenze. Potranno a Roma. Laonde si tennero al giudicare l'eroe del bombardamento di Ancona, il Persano. Il quale, in un giudizio letale alla militar disciplina ed all'onor della nazione, riuscì condannato per colpe, che non eran sue solamente. Però, mentre il Senato, costituito in alta Corte di Giustizia, deponeva il Persano come incapace di comandare, il popolo di tutta Italia e l'opinione di Europa bollava d'incapacità e d'inettezza i sopracciò della Nuova Italia, vuoi di quelli veston militare divisa, vuoi di quelli imperiano nella toga civile.

Malgrado la sconfitta di Custoza e di Lissa, Austria vinta crudelissimamente a Sadova dai Prussiani, per farsi amica la Francia, cedé a questa la Venezia, acciocché a sua volta ne regalasse Italia, come aveva fatto per la Lombardia. Sdegnavano un cotale ontoso modo di acquisto gli unitarii di parte Mazziniana, e di vero gli Italiani quasi tutti; ma vi si acquietava il Governo e la sua setta dei Consortieri. Il Garibaldi incedea per il Tirolo con badalucchi, ma era sbattuto pur sempre e respinto alla pianura.

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E nel frattanto maledizioni levavansi da tutte le ragunate, da tutti i ritrovi dei rivoltuosi contro il Buonaparte, che sì umiliavagli col dono della Venezia. E veramente notevolissimo è questo infinito odio di parte unitaria in Italia per il terzo Napoleone. Facitore esso della guerra del 1859, e sol i suoi Francesi vincitori, per esso poggiati a possanza i rivoltuosi, e sol per esso mantenutivi, non è persona fra gli uomini che dai settatori della nuova Italia venga più infamata e maledetta del Buonaparte. Assai egli è osteggiato dagli onesti d'Italia e fuori, maledetto dai cattolici dell’universa terra, e forse più che si convenga cristianamente; ma l'animavversione di costoro doventa benignità al paragone dell'ira e del livore che contro esso travagliano i petti dei rivoltuosi. Forse avvien ciò perché esso è tenuto vero principe del novello Stato, e gl’impazienti di signoria maledicono in lui la potestà e l'addentano: forse è perché i malnati non hanno amore di padre, e il misconoscono; forse punito è bene spesso dalla sua malfattura medesima il malfattore: ma indubitato è il Signore Iddio, per tal fatto, ne ponga negli occhi uno esempio costante della infelicità di quelle opere che non Egli condusse, e della confusione di quelli operai, che non a gloria di Lui si governano, ned a conforto della umanità costruiscono!

Eccetto il Tirolo e l'Istria e Nizza e Corsica e Malta, franche dallo straniero tutte le altre terre italiane (però che in Roma imperiano i Pontefici, e ninno oserebbe dire non essere il Papa il primo ed il maggiore degli Italiani), costretto in un solo Stato il Bel Paese quasi tutto, non per tanto quietano i rivoltuosi nostri,

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né le città ed i popoli diversi di questa terra si sobbarcano pazienti al mal governo che ne affama e ne divide. Conciossiaché, nel frattanto che gli uni smaniari sempre di Roma, bramosi di coronar in Campidoglio una impresa che fecer per sé e pei supremi fini della Rivoluzione, non per altra signorìa o parte della civile società; tanti altri più che più maledicono all'opera loro ed alla unificazione, ed ardono e studian di sciogliere il mal legato. Palermo però, non scorse l'anno, e sorgeva in arme. Vinta fu con grandissimo spargimento di sangue: le milizie del plebiscito, della civiltà, del libero reggimento bombardando la metropoli dei Ruggieri e di Federico ben più e più ferocemente, che non avesser fatto i soldati del Borbone; avvegnacché gli Unitarii chiamasser spazzare il loro bombardare. E, vinta Palermo, cercossi affogare in mille e mille supplizii lo spirito di autonomia che avvalora quella città e serpe per tutta l'Isola. Ma esso non spegnesi, che per contrario dimostrasi ogni giorno più vivo in petto agl'Italiani.

Conciossiaché, dopo la strage di Torino, non solo in quella sorgessero a rimpiangere l'antico stato gli onesti cittadini, ed allo associarsi per aspirarvi con quei modi e le opere che, non violando le leggi, non possono non tornare a salute della repubblica; ma sì quasi tutte le altre città italiane vennero in simile divisamento. Però i molti che erano stati abbindolati dalle lustre di una felicità non raggiunta, dall'orpello di una grandezza da proscenio, vengon vincendo la vergogna del confessarsi ingannati, e danno addietro.

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Il Buonaparte, padre e signore e sostegno, declinato di onore e di possanza, solitario ed abbandonato in Europa e barcollante in Francia; i Ministri della Corona spingenti i rivoltuosi a Roma in segreto, e nel cospetto delle altre nazioni giuranti di non volersi iscellerare con il violar la Convenzione di Settembre e detronizzare il Pontefice; i consortieri viventi alla giornata e trascinando lor vita con l'infame pane del furto e dello spoglio della Chiesa, che non durerà molto a cessare; e solo glorioso e forte nella Penisola ed Oltralpe il Successore del Sommo Piero, noi cessiamo dall'ingrata fatica del discorrere delle odierne cose d'Italia; perocché il registrare i fasti di cotai Regno meglio si venga ad altri, che agli studi benigni di-gentiluomo e di filosofo. Iddio stabilì Roma ed Italia per il loco santo: ed Egli non le vorrà più lungamente flagellate. E noi preghiamo, che rimburchiato dalla Navicella del Beato Pietro, il vecchio vascello della Gente Latina, possa pur finalmente entrare nel porto di salute, che quello è solamente dove spira l'aura vitale e paciera della Ragione Divina.

FINE











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