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CONTROSTORIA DEL PISACANE

di Marco Cappetta



pisacane


Con la bella stagione nella nostra provincia [di Salerno, N.d.R.] si possono assistere ad interessanti rievocazioni storiche, favorite dalle particolari tradizioni che ogni singolo paese può vantare, dalla mitezza del clima e dalla naturale bellezza dei paesaggi.

Le iniziative più interessanti si svolgono senza dubbio a Cava e Teggiano, poi vi sono rappresentazioni folkloristiche un po’ dovunque: ognuno tira fuori il suo personaggio, che sia un Santo, un patriota o un brigante poco importa, l’importante è rievocare il proprio passato, le proprie origini e memorie.

Sapri, ad esempio, è rinomata, oltre che per l’insito fascino del paesaggio, per essere stata il luogo prescelto dal patriota risorgimentale napoletano Carlo Pisacane per tentare un’impresa rivoluzionaria e qui si commemora ogni anno la sua sfortunata spedizione. Ci sembra giusto soffermarci su questo episodio storico e su questo personaggio perché, diciamolo subito, il Pisacane lo conosciamo tutti sin da bambini, quando ci viene precocemente inculcata la leggenda romantica dell’eroe e dei suoi circa trecento compagni d’arme venuti a liberare il Sud dall’oppressione e sbarcati per l’appunto a Sapri, sotto gli occhi stupefatti di una contadinella cilentana (la spigolatrice naturalmente), che ne canta le gesta ed il tragico destino.

Un destino crudele che si compie a Sanza, dove, a causa dei preti e degli ignoranti (così ci viene fatto capire dai libri di storia) i nostri trecento fanno una bruttissima fine. Questa è la leggenda o la favola. La storia, invece, ci presenta qualche sfaccettatura che sarebbe interessante approfondire, a costo anche di scalfire la limpida figura del Nostro eroe “ingegnere e militare, buon teorico … la cui figura può essere associata a Che Guevara” (Il Sele, Numero 11, pag.3).

Analizziamo innanzitutto i soggetti protagonisti, a cominciare dal Pisacane stesso, che era sì un militare, ma ci si dimentica troppo spesso di dire che era un disertore, in quanto ex ufficiale borbonico fuggito nel 1846 a Genova per gravi motivi … di “corna”: aveva scelto come compagna una gentile signora partenopea sposata con tre figli, tale Enrichetta Di Lorenzo, e dal marito di costei il nostro eroe scappava …

Due anni dopo il Pisacane, però,  si faceva apprezzare sui campi di battaglia prima a difesa della Repubblica Romana e poi a Velletri, quando prese le armi contro i suoi connazionali ed ex commilitoni napoletani. Da sottolineare che la sua condotta destò grave imbarazzo nel fratello Filippo, anch’egli ufficiale borbonico ma rimasto fedele al trono napoletano fino alla fine, quando seguì re Francesco II sia a Gaeta che in esilio a Roma. Era una famiglia di militari dunque, cresciuti in quella splendida realtà che era la Nunziatella, l’accademia militare voluta dai primi re Borbone, un’istituzione che poi i piemontesi, una volta “liberato” il Sud, provvidero subito a declassare a semplice scuola militare, onde favorire le accademie nordiche.

Dunque, se proprio  il Nostro non era uno stinco di Santo, vediamo di conoscere gli altri trecento: quasi tutti delinquenti comuni raccolti nel bagno penale di Ponza (…”all’isola di Ponza si è fermata…”), dove furono liberati affinché liberassero il Sud. Ma prima di procedere a questa operazione i novelli eroi si diedero a qualche ruberia e depredarono per bene le case dei malcapitati abitanti isolani di Ponza, cosicché questi furono contenti nel vederli partire per Sapri, dove giunsero il 28 giugno 1857 a bordo del piroscafo “Cagliari” e dove, naturalmente, non trovarono nessuno ad accoglierli, perché la triste fama di predoni li aveva preceduti e la plebe aveva preferito rintanarsi sui monti.

Le cose non andarono meglio a Torraca: anche qui l’opera di proselitismo rivoluzionario non diede frutti ed allora i nostri trecento, che ricordiamolo, erano “giovani e forti”, si diedero con spirito giovanile e vigoroso al saccheggio. Avviatisi verso Sala furono protagonisti di un increscioso e poco conosciuto episodio, raccontatoci dallo storico Giacinto De Sivo: scambiarono un gruppo di contadini intenti alla mietitura per spie borboniche e fecero fuoco, uccidendo una tale Rosa Ferretti, di professione spigolatrice! Questo avvenimento, oltre ad anticipare di qualche anno il costume piemontese di ammazzare sul posto cafoni, contadini, manutengoli o briganti che fossero senza processo (i fratelli d’Italia non sottilizzavano molto su queste cose), ci pone di fronte ad un atroce interrogativo: ma allora i trecento ammazzarono la spigolatrice? Che cosa avrebbe dovuto cantare, questa sventurata: “eran trecento, eran giovani e forti e sono morti … peccato che prima di morire mi hanno piantato una pallottola in fronte…”.

Tutti, comunque, conosciamo come andò a finire: le guardie urbane e i paesani di Sanza, che non volevano essere liberati, accolsero i liberatori con aste, roncole ed altri strumenti  utili a farne piazza pulita, il Pisacane che da disertore e rivoluzionario diventava eroe risorgimentale e il re delle Due Sicilie Ferdinando II, già conosciuto come “re bomba” (perché aveva bombardato Messina, mentre Vittorio Emanuele che aveva bombardato Genova era “re galantuomo”) restava il tiranno più odiato dai patrioti italiani.

Il piroscafo Cagliari, intanto, che aveva cordialmente accompagnato la comitiva sin dalla partenza, aveva aspettato tutta la notte a Sapri, fin quando non fu catturato dalla marina borbonica e considerato preda di guerra. Il minimo che potesse succedere ad una nave che aveva portato uomini armati in uno Stato pacifico. La questione però risulto subito molto complicata: il piroscafo apparteneva alla compagnia Rubattino di Genova (Regno sardo piemontese) e per giunta aveva i due macchinisti inglesi. Ne scaturì una difficile controversia diplomatica, dalla quale il “tiranno” re Bomba uscì “cornuto e mazziato”: per quieto vivere le finanze meridionali dovettero pagare 3000 sterline di indennizzo agli inglesi e restituire la nave (che era venuta a portare guerra) ai fratelli piemontesi…Incredibile!

Per la cronaca, la Rubattino, a titolo di ringraziamento, tre anni dopo provvide al trasbordo di Garibaldi e soci da Quarto alla Sicilia e quando l’Italia “fu fatta” ebbe in concessione, insieme ad altre compagnie piemontesi, l’appalto per i servizi postali marittimi per l’intera nazione. Da notare che alla gare per le suddette concessioni il governo italiano non invitò neppure una compagnia meridionale, nonostante a Napoli vi fosse la Compagnia delle Due Sicilie, una fra le più attrezzate d’Europa…E poi si parla del malgoverno e del clientelismo borbonico – meridionale…ma questa è un’altra storia!

 

Marco Cappetta

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