Eleaml


Il "grido di dolore"

Zenone di Elea
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Giugno 2010

I politici, gli intellettuali, i giornalisti, i docenti che oggi appartengono alla fascia d'età compressa fra i 50 e i 70 anni sono stati formati alla scuola della oleografia risorgimentalista: "l'apostolo del risorgimento" (Mazzini), "il tessitore" (Cavour), "l'eroe dei due mondi" (Garibaldi), "il re galantuomo" (Vittorio Emanuele II), "il re bomba" (Ferdinando II), "franceschiello" (Francesco II), "la negazione di dio eretta a sistema di governo" (il governo borbonico), "il grido di dolore" (le proteste organizzate dalle varie sette sparse per la penisola), tralasciando Teano, obbedisco, e compagnia cantando.

Nei primi anni dopo la unione dei vari stati con i plebisciti di annessione, le voci stonate rispetto al coro oleografico furono soprattutto di parte borbonica - si combatté una guerra non solo sul piano militare ma anche su quello culturale, dove la propaganda liberale unitarista ebbe la meglio sia a livello interno che a livello internazionale (basta leggere le opere di scrittori francesi e inglesi del tempo che riprendono pari pari le tesi storiografiche allora e ancora oggi imperanti).

Man mano che ci allontaniamo dal 1861, anno della proclamazione del Regno d'Italia sotto lo scettro sabaudo (data infausta per noi appartenenti alle provincie napoletane e che oggi qualche politico idiota vuol rendere festa nazionale!) emergono ricostruzioni meno celebratorie e più attendibili.

Citiamo qualche esempio, tanto per chiarire meglio:

In altre parole allo scadere nel primo cinquantenario della unione del paese vi erano i presupposti per una ricostruzione non edulcorata della storia della fondazione dello stato nazionale, ma il Fascismo prima e la Resistenza poi si agganciarono alla mitologia patriottarda operando una nuova e pesante censura degli eventi unitari.

Negli anni sessanta-settanta a sinistra andava di moda osannare il risorgimento tradito, ripescare i fatti del brigantaggio come espressione di un ribellismo dovuto alla miseria secolare delle plebi meridionali e alla insipienza delle nuove classi dirigenti moderate. Oggi che molte bandiere rosse sono state ammainate o sono diventate verdi anche a sinistra si ergono fortini ricolorati e non si vuol sentir parlare di revisione storica. Infatti assistiamo e assisteremo a strane convergenze tra frange del pdl (finiani) e il partito democratico. Si inizia ad alzare il livello dello scontro e solamente per arginare il voto leghista in padania. Ad essi della verità storica non importa un fico secco, delle ex provincie napoletane ancora meno.

Come allora, quando le decine di migliaia di morti fucilati nell'ex-Regno delle Due Sicilie non suscitarono scandalo alcuno, tanto erano solo dei briganti.

Ritornando al nostro discorso, chi vi scrive si è formato negli anni sessanta-settanta ed ha continuato a studiare le solite favolette risorgimentali e non gli era mai capitato di leggere in quegli anni che il suggeritore del "grido di dolore" fosse stato Napoleone III. Ne trovammo cenno in un testo (5) del 1983, poi in questo del Cappelletti di cui ora vi proponiamo la lettura.

NOTE

(1) Giuseppe Guerzoni, La vita di Nino Bixio, Firenze, G. Barbèra Editore, 1876.

(2() Federico Donaver, La spedizione dei mille, l'idea ispiratrice Mazzini, Cavour, Garibaldi, la preparazione la partenza la campagna meridionale col testo integro del diario di Nino Bixio e illustrazioni nella ricorrenza del cinquantenario, Rocca S. Casciauo,1910. Stab. Tipografico Cappelli.

(3) Cfr. Nota 1, pag. 4, Cap. I, Vol. II, Licurgo Cappelletti, Storia di Vittorio Emanuele II e del suo regno, Voghera Enrico Tipografo, Roma, 1893.

(4) […] Garibaldi, un dì mozzo di bastimento in Liguria, oggi rivestito dell'uniforme di generale piemontese; quando fabbricatore di candele a New York, quando capitano di ventura in Lombardia ed in Tirolo; a Montevideo ieri maestro d'algebra, domani comandante della flottiglia di guerra contro gli Argentini, posdomani dittatore di Montevideo; venditore di vino a Genova, uffiziale del bey a Tunisi; cercatore d'oro in California, capitano di mare a Rio Janeiro; mercante di guano per ingrassare la terra in China, deputato al Parlamento di Torino; in America capo di corsari e di filibustieri, di gauchos e di torerost di contrabbandieri, di banditi, di cacciatori di bestie feroci, a Roma generale della repubblica di Mazzini." Cfr. pag. 276, Ernesto Ravvitti, Delle recenti avventure d'Italia, Venezia, Tipografia Emiliana, 1864.

(5) Cfr. Michele Dell'aquila, INTELLETTUALI MERIDIONALI ESULI IN PIEMONTE NEL DECENNIO 1849/59: GIUSEPPE MASSARI - La Capitanata - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia - BOLLETTINO D'INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia, Anno XX Gennaio-Giugno 1983 - Parte I - (https://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/)

STORIA
DI
VITTORIO EMANUELE II
E
DEL SUO REGNO

DI
LICURGO CAPPELLETTI
SAVOYE SUYVANT SA VOYE
Volume II
(1° GENNAIO 1859 - 31 DICEMBRE 1865)






VOGHERA ENRICO
TIPOGRAFO DELLE LL. MM IL RE E LA REGINA

ROMA

AVVERTENZA

Nelle brevi parole da me preposte al primo volume di quest'opera, io dichiarai che l'opera stessa non avrebbe ecceduto due volumi; il primo de' quali cominciava col 1 gennaio 1849, e terminava col 31 dicembre 1858; e il secondo avrebbe compreso il periodo, che va dal 1 gennaio 1859 al 9 gennaio 1878. Ma giunto quasi alla seconda metà del presente volume, mi accorsi che, stante l'importanza e la molteplicità degli avvenimenti, successi dal '59 al '78, non si potevano questi restringere in sole 450 pagine; sicché il volume sarebbe cresciuto del doppio; onde pregai il mio editore a permettere che la Storia di Vittorio Emanuele uscisse in tre volumi, piuttostochè in due. Egli vi acconsentì di buon grado; e al volume che ora licenziamo alle stampe, e che va dal le gennaio 1859 al 31 dicembre 1865, farà seguito, entro il corrente anno, il terzo ed ultimo, il quale comincerà col 1 gennaio 1866, e terminerà col 9 gennaio 1878.

Livorno, 31 marzo 1893.

L'Autore.

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CAPITOLO I.

IL «GRIDO DI DOLORE»

Sommario. — Parole dirette da Napoleone III al barone di Hubner. —Impressione che esse producono in Europa, e specialmente in Italia. — Maneggi dell'imperatore Napoleone per attenuare questa impressione. — Dichiarazione del Moniteur. — Apertura della nuova sessione del Parlamento subalpino. — Discorso del re Vittorio Emanuele. — II grido di dolore. — Matrimonio del principe Napoleone colla principessa Clotilde di Savoia. — Partenza degli sposi per Francia. — Pubblicazione dell'opuscolo Napoléon III et l'Italie, —Contenuto del medesimo. — Effetto da esso prodotto in tutta l'Europa. — Apprensioni del gabinetto di Londra. — Armamenti del Piemonte e dell'Austria. — Sforzi del governo inglese per impedire la guerra. — Dichiarazioni dell'imperatore Napoleone. — Sue pratiche presso lo czar. — Proposte di un congresso europeo. — Opposizione dell'Austria. — Nuove proposte del gabinetto di Vienna,modificate dal gabinetto di Londra, — Stato della pubblica opinione in Francia. —Apertura della nuova sessione legislativa. — Discorso dell'imperatore. — Articolo del Moniteur. — Critica situazione del governo piemontese. — Dubbiezze del conte di Cavour. — Sua partenza per Parigi — Suoi colloqui col conte Walewski e coll'imperatore Napoleone. — Ritorno di Cavour a Torino. — Dimostrazione popolare in suo onore. — Parole a lui dette dal re Vittorio Emanuele. — Maneggi della diplomazia. — Ansie di Vittorio Emanuele e dei suoi ministri. — L'Austria rompe gl'indugi. — Suo ultimatum al gabinetto di Torino. — Convocazione della Camera dei deputati. — Discorso memorabile del conte di Cavour. — Napoleone III si prepara alla guerra. — II governo sardo respinge l'ultimatum austriaco. — Proclama dell'imperatore d'Austria ai suoi popoli —Proclami del re Vittorio Emanuele al popolo e all'esercito. — Rottura diplomatica tra la Francia e l'Austria. — Proclama di Napoleone III ai francesi. — Gli austriaci passano il Ticino. — Situazione dei tre eserciti belligeranti. — Proclama del maresciallo Giulay alle sue truppe. — Altro suo proclama alle popolazioni piemontesi, appena varcato il Ticino.

CAPITOLO I.

Il primo giorno dell'anno 1859, l'imperatore Napoleone III, circondato dalla sua Casa civile e militare, ricevè, nella sala del trono del palazzo delle Tuileries, gli auguri del corpo diplomatico accreditato presso la sua persona. Dopo aver risposto alle parole del nunzio pontificio che, secondo il costume della Corte di Francia, è il decano del corpo diplomatico, e che, in nome de' suoi colleghi, gli aveva presentati gli auguri dei sovrani e capi degli Stati esteri, l'imperatore, voltosi al barone di Hübner, ambasciatore d'Austria, gli disse: «Mi duole, signor ambasciatore, che le nostre relazioni col vostro governo non sieno più così buone come per lo passato; però vi prego di dire al vostro sovrano che i miei sentimenti personali per lui non sono punto cambiati» Queste parole, telegrafate subito a Vienna, vi cagionarono la più grande emozione. Anche in Francia, in Inghilterra e in Germania vennero interpretate giusta la brama degli uni e il timore degli altri II fatto sta che da per tutto suonarono minaccia di guerra (1).

(1) Nel Proemio vol. X degli Scritti editi e inediti di Mattini (pag. LVI), Aurelio Saffi scrive: «Quando Mazzini lesse, me presente, nel Times parole indirizzate dal Bonaparte all'ambasciatore d'Austria, uscì contristato in questa esclamazione: Il dado è tratto, siamo spacciati!

IL «GRIDO DI DOLORE» 3

Al conte di Cavour la notizia giunse inaspettata e gradita, «Sembra che l'imperatore voglia andare avanti,» egli esclamò nel leggere il telegramma di Parigi; che la gravita delle parole indirizzate da Napoleone III al barone di Hùbner a niuno meglio che a lui non poteva sfuggire. Però, a quanto sembra, l'imperatore non aveva dato a quelle parole una grande importanza; tant'è vero che quando seppe l'impressione che avevano prodotta in Europa, ne rimase sorpreso; e nella sera stessa studiossi di dissiparla, usando le maggiori cortesie possibili al barone di Hùbner che, insieme agli ambasciatori delle altre potenze, ara stato invitato a un gran ricevimento nelle Baie dell'imperatrice (1). Intanto l'opinione pubblica manifestavasi avversa alle idee bellicose dell'imperatore dei francesi, e favorevole al mantenimento della pace. Napoleone, allora, fece inserire nel Moniteur del 7 gennaio, la dichiarazione seguente: «Paris, 6 janvier.

Depuis quelques jours, l'opinion publique est agitée par des bruits alarmants, auxquels il est du devoir du gouvernement de sentiva pur troppo che la guerra napoleonica chiudeva il periodo degli eroici conati del risorgimento italiano, e suggellava l'abdicazione della virtù nazionale nelle mani dell'arbitrio straniero». Queste ultime parole sono un'esagerazione: i fatti hanno dimostrato quanto fossero infondati i timori del Mazzini. Se non era l'intervento francese, cosa sarebbe oggidì l'Italia?

(1) Vedi Chiala, Lettere di C. Cavour . Ili, pag. XX. 

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et mettre un terme, en declarant que rien dans nos relations diplomatiques n'autorise les craintes que ces bruits tendent a faire naìtre».

Questa dichiarazione partorì un effetto contrario a quello che l'imperatore si riprometteva. La pubblica opinione si manifestò chiara e netta su tale proposito; tutti si domandavano come mai il linguaggio usato dal

Moniteur

fosse cosi artificiosamente riserbato; e se poi era vero che la pace non verrebbe turbata, perché il governa imperiale non dava al paese assicurazioni più positive de' suoi intendimenti pacifici?

Intanto, il 10 gennaio, si apriva in Torino la seconda sessione delia quarta legislatura. Il re Vittorio Emanuele lesse un discorso, rimasto celebre nella storia, e che non potrà essere dimenticato giammai. Questo discorso fu compilata d'accordo coll'imperatore Napoleone III (1).

(1) Lo schema del discorso della Corona era - asserisce il Ghiaia - scritto dal conte di Cavour sino dal 30 dicembre 1858. Esso finiva così: «L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno; ciò non sarà per voi argomento di accingervi con minore alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dall'esperienza del passato, aspettiamo prudenti e decisi le eventualità dell'avvenire. Qualunque esse siano, ci trovino forti per la concordia, e costanti nel fermo proposito di compiere l'alta missione che la Divina Provvidenza ci ha affidata». Su questo discorso, che a taluno dei ministri parve assai ardito, fu deciso di chiedere il parere dell'imperatore Napoleone. La risposta giunse la sera del 7 gennaio. L'imperatore approvava il discorso nel suo insieme; ma dopo le parole eventualità dell'avvenire,

IL «GRIDO DI DOLORE»

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L'aula del palazzo Madama era piena di senatori e di deputati: tutte le tribune pubbliche e quelle riservate erano stipate di gente di ogni grado, di ogni condizione. In mezzo al più profondo silenzio, con voce alquanto velata dalla commozione, ma che a poco a poco si andò facendo più calma e sonora, Vittorio Emanuele pronunziò il suo discorso, il quale terminava nel modo seguente:

scriveva di suo pugno col lapis: Je trouve cela trop fort, et je préférais quelque chose camme dans le gente de ce qui suit; difetti seguivano queste parole, che erano scritte coll'inchiostro dal signor Mocquard, capo del gabinetto privato dell'imperatore: «Cet avenir ne peut étre qu'heureux, car notre politique s'appuie sur la justice, sur l'amour de la libertè, de la patrie et de l'humanité: sentiments qui trouvent de l'écho dans toutes les nations civilisees. Si le Piémont petit par son territoire compte pour quelque chose dans les conseils de l'Europe, cest qu'il est grand par les idées qui représente, et par les sympathies qu'il inspire. Cette position sans doute nous crée bien de dangers, et cependant, tout en respectant les traités, nous ne pouvons pas rester insensibles aux cris de douleur, qui viennent à nous de tant de points de l'Italie Confiants dans notre union et dans notre bon droit, comme dans le jugement impartial des peuples, sachons attendre avec calme et fermeté les décrets de la Providence».

Appena il re Vittorio ebbe nelle mani le correzioni e le aggiunte fette dall'imperatore al discorso reale, prese la penna, e di suo proprio pugno fece le varianti al discorso stesso; e così venne fuori quello da lui letto dinanzi alle due Camere riunite. - Veggasi il prezioso facsimile, dal Vayra nel Museo storico della Casa di Savoia. , Fratelli Bocca, 1880.

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«Signori senatori! Signori deputali!

«L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno: ciò nondimeno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari.

«Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risolutamente incontro alle eventualità dell'avvenire.

«Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria.

«Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira.

«Questa condizione non è scevra di pericoli giacche nel mentre che rispettiamo i trattati,

NON SIAMO INSENSIBILI AL GRIDO DI DOLORE, CHE DA TANTE PARTI d' ITALIA SI LEVA VERSO DI NOI.

«Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon dritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza».

Queste parole del re furono accolte da un uragano d'applausi. Molti fra gli astanti piangevano. La parola reale scendeva questa volta come un balsamo consolatore sulle piaghe sanguinanti delle altre regioni della penisola. In tutta Italia, non ostante i conati della polizia per impedirlo, si leggeva e si commentava per le vie, nei pubblici ritrovi,

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nelle abitazioni private, il discorso del 10 gennaio. Esso era causa di timore ai governanti, di speranza ai popoli.

Due giorni dopo che il re aveva aperta la nuova sessione, cioè il 12 gennaio, fa annunziato improvvisamente in Torino il matrimonio della principessa Clotilde di Savoia col principe Napoleone Gerolamo, cugino dell'imperatore dei francesi. Il principe giungeva in Piemonte il giorno 16; il 23, il generale Niel e il principe La Tour d'Auvergne facevano al re la domanda formale della mano della giovine principessa; e il giorno appresso ne veniva data cognizione ai due rami del Parlamento. Discussa e approvata la legge per la dotazione della principessa, il 30 gennaio furono celebrate le nozze. Quindi gli sposi, accompagnati dal re, partirono alla volta di Genova; e il 1° febbraio, per la via di mare, si recarono a Marsiglia, seguiti, in segno di onoranza, da numerose navi da guerra francesi e sarde. Questo matrimonio assicurava l'appoggio validissimo dell'imperatore alla questione italiana, la quale stava per essere finalmente risoluta colle armi.

Intanto pubblicavasi in Parigi un opuscolo, intitolato: Napoléon III et l'Italie, ispirato dall'imperatore stesso, e scritto dal valente pubblicista, visconte de la Guèrronnière. Era questi molto addentro ai segreti di Napoleone; onde l'opuscolo suscitò molto rumore in Europa. La questione italiana vi era chiaramente posta, e ampiamente discussa. Si riconosceva che l'Italia

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rappresentava nella storia qualche cosa più che la nazione, la civiltà. Posto quindi lo scioglimento della questione italiana come necessità ineluttabile pel riposo di Europa, ne accennava il modo nel sistemare federalmente l'Italia sotto la presidenza del pontefice, escluso lo straniero; e questo non già per opera di rivoluzione o di guerra, ma per accordi sentiti e voluti dall'opinione pubblica di tutta Europa, e col sussidio della diplomazia.

Quest'opuscolo, tradotto nei diversi idiomi e sparso per tutta Europa, ridestò le speranze nei liberali d'ogni paese, e grandi timori nei clericali e nei sognatori della pace universale. La Civiltà Cattolica, organo dei gesuiti, ne scrisse una violenta confutazione; e lo assali pure in Francia Emilio de Girardin in un suo opuscolo intitolato: La Guerre. Gl'italiani però, sebbene le idee dell'autore di quelle pagine fossero più favorevoli alla federazione che all'unità, lo accolsero con giubilo, e lo considerarono come il precursore della guerra contro l'odiato straniero, che teneva soggette la Lombardia e la Venezia, e spadroneggiava a suo talento nelle altre terre della penisola.

L'Inghilterra guardava intanto con occhio sospettoso ciò ohe tacevasi al di qua della Manica. Essa non voleva in alcun modo la guerra; onde lord Malmesbury incaricò lord Cowley e sir James Hudson di stare guardinghi su quanto si stava operando a Parigi e a Torino. Il gabinetto di Londra aveva veduto nel matrimonio del principe

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Napoleone colla figlia di Vittorio Emanuele un preludio di alleanza offensiva e difensiva tra la Francia e la Sardegna; e le accoglienze fatte a Genova al re ed agli sposi lo avevano raffermato nelle sue paure (1). E come ciò non bastasse, il governo sardo aveva fatto votare dal Parlamento in cinque giorni (dal 4 al 9 febbraio) un imprestito di 60 milioni, destinati alla difesa del Piemonte.

E subito dopo cominciarono gli apprestamenti guerreschi. Si richiamavano i contingenti; si ordinavano nelle file dell'esercito i volontaria ohe continuavano ad accorrere numerosissimi, non solo dal Piemonte e dalla Sardegna, ma ancora dagli altri Stati dell'Italia centrale.

L'Austria non aveva aspettato fino allora per prendere le sue precauzioni militari. Molti reggimenti, posti sul piede di guerra, erano stati spediti nel LombardoVeneto. Questi bellicosi apparecchi erano una spina negli occhi del governo

(1) Agostino Bertani scriveva da Genova, il 1 febbraio, ad Antonio Panizzi a Londra: «Qui il re fu accolto con grandi dimostrazioni di simpatia e con significazione politica assai marcata; Viva V. E. re d'Italia Viva la guerra! Viva l'indipendenza italiana i gridi più sentiti in «e teatro. Gli studenti colla loro bandiera non l'abbandonarono mai, e sempre con quel grido. Stasera in teatro mi dicono che ebbe nuovi e clamorosi applausi. Cavour rimorchia a gran forza il ministero, l'aristocrazia, il piemontesismo e il paese alla guerra»... Vedi Lettere ad Antonio Panizzi ., pubblicate da . Faoan. Firenze, Barbèra, 1882, pag. 285.

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britannico; il quale, per mezzo dei suoi legati a Parigi, Vienna, Berlino, Torino e Pietroburgo, nulla lasciava d'intentato perché la guerra non iscoppiasse. Persuasioni, blande promesse, altiere minacce, tutto fu posto in opera da lord Malmesbury onde la pace in Europa non venisse turbata. Mentre egli con lugubri vaticini cercava d'intimorire il governo sardo, teneva coll'Austria un contegno minaccioso Lord Loftus si portò dal conte Buoi per dirgli, a nome del proprio governo, che se l'Austria non rinunziava al suo intervento negli Stati del papa, e non consigliava i principi italiani ad accordare le necessarie riforme, la guerra si sarebbe resa inevitabile ed avrebbe avute incalcolabili conseguenze. Per buona fortuna d'Italia, il gabinetto aulico non volle accettare i benevoli uffici dell'Inghilterra; che anzi il conte Buoi rispose seccamente all'ambasciatore britannico: «Noi non vogliamo abdicare al nostro diritto d'intervento; e se saremo chiamati, aiuteremo colle nostre armi i principi italiani. Noi non consiglieremo ai loro governi alcuna riforma. La Francia sostiene la parte di protettrice delle nazionalità; noi siamo e resteremo protettori dei diritto dinastico (1) .

L'imperatore dei francesi, il quale non voleva irritare contro sé il governo della regina, fece sapere a Londra che la Francia non sarebbe venuta

(1) Dispaccio di lord Loftus a lord Malmesbury. Vienna 15 gennaio 1859.

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in soccorso del Piemonte, se questo si fosse fatto iniziatore di ostilità. Napoleone III avrebbe dunque aiutato colle sue armi il re di Sardegna, soltanto nel caso che l'Austria lo avesse assalito. Per impedire poi che le pratiche officiose dell'Inghilterra si mutassero in una mediazione formale, l'imperatore, valendosi delle intime relazioni esistenti fra il suo governo e quello dello czar, indusse il gabinetto di Pietroburgo a convertire la questione italiana in una questione europea, e a proporne lo scioglimento in un congresso (1). Questa proposta non piacque all'Inghilterra; ma fu caldeggiata dalla Prussia, la quale desiderava l'abbassamento dell'altiera sua emula; mentre la Russia, serbando rancore all'Austria per il contegno da questa tenuto nella guerra d'Oriente, non nascondeva il proprio modo di pensare sulla questione italiana. Infatti l'Invalido russo, interprete officioso della politica del principe Gortschakoff, diceva che la questione italiana non procederebbe verso alcuna buona soluzione, finché non si togliesse la Lombardia dagli artigli dell'Austria Questa intanto, a cui non piaceva l'idea del congresso, sulle prime vi si oppose; poi mise fuori nuove proposte, le quali, se fossero state accettate, l'avrebbero data vinta a lei; quindi chiese che, prima di aprire il congresso, il Piemonte dovesse disarmare; poscia consenti a un disarmo

(1) Vedi N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia; . Vili, pag. 41 e segg.

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generale simultaneo, a patto ohe il Piemonte fosse escluso dal congresso. Alla fine, dopo un lungo tenzonamento, l'Inghilterra propose il disarmo generale simultaneo, e l'ammissione di tutti gli Stati italiani al congresso. Queste proposte erano state accolte da tutti, fuorché dall'Austria, della quale si attendeva la decisione.

In Francia l'opinione pubblica non era sul principio favorevole alla guerra; bisognava dunque prepararvela. L'imperatore, aprendo il Parlamento, il giorno 7 febbraio, aveva cominciato il suo discorso con queste parole: «La Francia, voi lo sapete, ha veduto da sei anni a questa parte aumentare la sua prosperità, accrescersi le sue ricchezze, estinguersi le sue intestine discordie, rialzarsi l'autorità del suo nome; e ciò non ostante sorge ad intervalli, in mezzo alla calma e alla prosperità generale, una vaga inquietudine, una sorda agitazione che, senza una causa ben definita, s'impadronisce di certi spiriti, e altera la pubblica fiducia». Dopo aver dichiarato che la sua politica era stata costantemente, pacifica, e che le odierne sue relazioni coll'Inghilterra, colla Russia e colla Prussia erano soddisfacenti, soggiunse: II gabinetto di Vienna e il mio, lo dico con dispiacere, si sono invece trovati spesso in dissidio sulle questioni principali; e c'è voluto un grande spirito di conciliazione per pervenire a risolverli... In questo stato di cose nulla havvi di straordinario che la Francia si riaccosti di più al Piemonte, ohe ci fu così affezionato durante la guerra, così fedele alla nostra politica durante la

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pace. La felice unione del nostro amatissimo cugino, il principe Napoleone, colla figlia del re Vittorio Emanuele non è dunque uno di quei fatti insoliti, ai quali sia d'uopo cercare una ragione nascosta, ma è la conseguenza naturale della comunione d'interessi dei due paesi e dell'amicizia dei due sovrani». L'imperatore alluse quindi alla situazione anormale dell'Italia, in cui l'ordine non veniva mantenuto che da truppe straniere; e disse che un tale stato di cose inquietava giustamente la diplomazia. Concluse quindi colle sperare che la pace non sarebbe turbata; assicurando i rappresentanti della nazione francese «che egli rimarrebbe sempre incrollabile nella via del diritto, della giustizia e dell'onore nazionale».

Le dichiarazioni del sovrano di Francia furono variamente interpretate: ad alcuni parvero pacifiche, ad altri bellicose. Un mese dopo, il 5 marzo, il Moniteur pubblicò un notevole articolo, diretto a dissipare i sospetti d'ambizione, ohe taluni attribuivano a Napoleone III. L'articolo del giornale ufficiale terminava colle seguenti parole: € Lo stato delle cose in Italia, quantunque già antico, ha preso negli ultimi tempi agli occhi di tutti un carattere di gravita, che doveva naturalmente colpire l'animo dell'imperatore; non essendo permesso al capo di una grande potenza, come la Francia, isolarsi dalle questioni che interessano l'ordine europeo. In presenza delle inquietudini, le quali hanno commosso gli spiriti in Piemonte, l'imperatore ha promesso al re di Sardegna di

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difenderlo contro ogni atto aggressivo dell'Austria (1)».

Intanto il gabinetto di Torino si trovava in una posizione abbastanza imbrogliata. Il conte di Cavour, sebbene non dubitasse delle promesse dell'imperatore dei francesi, era tuttavia assai preoccupato per l'attitudine quasi ostile dell'Inghilterra e per la freddezza dell'opinione pubblica francese riguardo alla guerra contro l'Austria. Il primo ministro di Vittorio Emanuele sapeva altresì che il conte Walewski era risoltissimo a porre ogni ostacolo dinanzi all'imperatore per impedirgli d'intraprendere la guerra. Bisognava dunque prendere una risoluzione, e fare in modo che le speranze fino allora nutrite dai patriotti italiani non svanissero proprio nel momento in cui stavano per divenire realtà. A tal uopo, il conte di Cavour parti per Parigi, dove giunse il 25 marzo. La mattina seguente ebbe un lungo colloquio col conte Walewski, il quale gli disse che l'imperatore aveva finalmente risoluto di accomodarsi coll'Austria e di non inframmettersi nelle cose d'Italia, altrimenti che con intenti pacifici. Il conte di Cavour rispose al Walewski, dimostrandogli come fra lui e l'imperatore erano corsi accordi preventivi, e che egli era stato invitato premurosamente a prendere l'iniziativa. Soggiunse quindi che non era mai stato un intrigante, né voleva essere accusato di trascinare

Vedi Moniteur, mare 1859.

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assolutamente la Francia in una lotta per l'Italia; e terminò dicendo che se egli avesse rifiutata la magnifica profferta di aiuto fattagli dall'imperatore, avrebbe tradito l'Italia, e sconfessata la sua propria politica (1).

Dopo lasciato il conte Walewski, il conte di Cavour voleva partir subito da Parigi senza vedere l'imperatore; ma un amico, che ivi lo aveva accompagnato da Torino, ne lo distolse. Egli vide dunque Napoleone III, il quale si valse di tutti gli argomenti più efficaci per indurre Cavour ad accettare il disarmo. «Io sarò accusato di slealtà, gli disse l'imperatore, perché niuno vorrà credere che la Sardegna operi contro i miei desideri». Ma il primo ministro di Vittorio Emanuele fu irremovibile. Egli pertinacemente rispondeva che tanto lui quanto il suo sovrano sarebbero irremissibilmente perduti se assentivano a una proposta così umiliante (2).

Il conte di Cavour, durante i pochi giorni in cui rimase a Parigi, vide parecchi personaggi politici francesi e stranieri (3), Egli cercò di far entrare nel pensiero di ciascuno dei suoi interlocutori la necessità di aiutare il Piemonte contro

(1) Vedi Chiala, Lettere di C. Cavour;vol. , . XCV e segg.

(2) Dispaccio di lord Cowley a lord Malmesbury. Parigi,5 aprile 1859.

(3) Parlò di nuovo coll'imperatore e con Walewski; poi col barone James Rothschild, con Szarvady, con Alessandro Bixio, col generale Klapka, con lord Cowley, ecc, ecc.

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l'Austria, nell'interesse dell'Italia non solo, ma anche dell'equilibrio europeo. Trovò da per tutto buone accoglienze, e proteste di simpatia per la causa italiana. La mattina del 1° aprile, il conte di Cavour faceva ritorno a Torino. Gli studenti e gli operai organizzarono tosto una dimostrazione in suo onore. La sera si radunarono in piazza Castello, donde si avviarono verso il palazzo Cavour, seguiti da una folla immensa, ohe gridava: Viva il re! Viva Cavour! Viva l'Italia! Viva la Francia! Il conte accolse una deputazione mista di operai e di studenti, ohe ringraziò commosso per l'affettuosa e spontanea dimostrazione; quindi li esortò a stare uniti e concordi, in attesa dei grandi eventi che stavano per succedere.

Il giorno appresso - narra il Massari - il conte di Cavour intrattenne il re intorno a quella dimostrazione; e già stava per narrargliene i particolari, quando Vittorio Emanuele lo interruppe ridendo allegramente, e gli disse: «È inutile che mi dia questi ragguagli. Li conosco meglio di lei, perché quando ella era sul balcone, io era in istrada confuso colla folla, e gridavo anch'io: Viva Cavour! (1) .

Nel mese di aprile, le ansietà divennero più pungenti; i maneggi e gli sforzi della diplomazia incalzavano, speoialmente quelli dell'Inghilterra; le proposte per un congresso prendevano piede

(1) Massari, la vita e il regno di Vittorio Emanuele II . 256.

IL «GRIDO DI DOLORE» 17

ogni giorno più; ma la riunione del medesimo era subordinata ad una condizione preliminare, a quella cioè del reciproco disarmo.

Il re ed il suo ministro passarono dei giorni davvero tristi; essi vedevano sparire dinanzi ai loro occhi la tanto sospirata occasione di poter finalmente vendicare Tonta di Novara. Ma fortunatamente, l'Austria, fidente nelle sue forze, fu quella che ruppe gl'indugi. Il 23 aprile, il barone di Kellersperg e il conte Cesohi di Santa Croce (1) giunsero a Torino latori di un ultimatum del conte Buoi, il quale assegnava, per dare una risposta, il termine di tre giorni, e intimava minacciosamente il rinvio dei volontari e il disarmo. Il conte di Cavour ricevè gl'inviati austriaci alle 5 l4 dello stesso giorno 23; lesse la lettera del conte Buoi (2»; poi cavò di tasca Formolo, che segnava le 5!t; quindi diede ritrovo al barone di Kellersperg fra tre giorni a quell'ora medesima.

Senza perdere un minuto di tempo, il conte di Gavour convocò la Camera dei deputati, e due giorni dopo il Senato del regno; e, in mezzo agli applausi dell'uno e dell'altro consesso, propose di conferire al re i pieni poteri durante la guerra. U discorso del grande ministro, pronunziato alla

(1) II primo di questi due signori era vicepresidente della luogotenenza di Lombardia; l'altro, cioè il conte Ceschi, era provveditore generale delle armi austriache.

(2) Vedi Documento I.

18 CAPITOLO I.

Camera dei deputati, terminava con queste parole: «Confidiamo pertanto che la Camera non esiterà a sanzionare coi suoi voti la proposta di conferire al re i pieni poteri che i tempi richieggono. E chi può essere miglior custode delle nostre libertà? Chi più degno di questa prova di fiducia della nazione? Egli, il cui nome dieci anni di regno fecero sinonimo di lealtà e d'onore? Egli, che tenne sempre alto e fermo il vessillo tricolore italiano; egli, ohe ora si apparecohia a combattere per la libertà e l'indipendenza? Siate certi, o signori, che affidando in questi frangenti la somma delle cose a Vittorio Emanuele, il Piemonte e l'Italia faranno plauso unanime alla vostra risoluzione».

Intanto era stato subito telegrafato a Parigi il testo della lettera del conte Buol al conte di Cavour; e l'imperatore, appena avutane cognizione, adunò d'urgenza un consiglio di ministri; terminato il quale, fu subito dato ordine che incominciassero immediatamente i movimenti delle truppe francesi (1).

Il 26, alle 5 precise, il barone di Kellersperg e il oonte Ceschi si recarono dal conte di Cavour; il quale consegnò loro la lettera contenente la risposta all'ultimatum del oonte Buoi. «J'espère, monsieur le baron (disse Cavour a Kellersperg), que nous nous reverrons dans des circumstances plus heureuses».

(1) Dispaccio di lord Cowley a lord Malmeabury. Parigli 24 aprile 1859.

IL «GRIDO DI DOLORE» 19

Il Piemonte accettava la sfida dell'Austria.

Il giorno 28, l'imperatore Francesco Giuseppe indirizzò un proclama ai suoi popoli, nel quale chiamava giusta la propria causa, e non nascondeva la speranza di essere coadiuvato nella lotta dalla Confederazione germanica. Nel pomeriggio di quel medesimo giorno, le truppe austriache passarono il Ticino.

Il 29, Vittorio Emanuele pubblicò anch'egli un proclama diretto ai popoli del regno e a quelli del rimanente della penisola; proclama memorando, che ebbe un'eco sì profonda nell'animo di tutti gl'italiani. «L'Austria (così concludeva il proclama reale) assale il Piemonte, perché ha perorato la causa della comune patria nei consigli dell'Europa; perché non fui insensibile ai vostri gridi di dolore. Così essa rompe oggi violentemente quei trattati che non ha rispettati. Così oggi è intero il diritto della nazione; ed io posso in piena coscienza sciogliere il voto fatto sulla tomba del mio magnanimo genitore! Impugnando le armi per difendere il mio trono, la libertà dei miei popoli, l'onore del nome italiano, io combatto pel diritto di tutta la nazione. Confidiamo in Dio e nella nostra concordi, confidiamo nel valore dei soldati italiani, nell'alleanza della nobile nazione francese, confidiamo nella giustizia della pubblica opinione. Io non ho altra ambizione che quella d'essere il primo soldato dell'indipendenza italiana».

20 CAPITOLO I.

Contemporaneamente indirizzò il re un altro proclama all'esercito sardo, in cui diceva « All'armi, o soldati! Vi troverete a fronte di un nemico ohe non vi è nuovo; ma se egli è valoroso e disciplinato, voi non ne temete il confronto; e potete vantare le giornate di Goito, di Pastrengo di Santa Lucia, di Sommacampagna, di Custoza stessa, in cui quattro sole brigate lottarono tre giorni contro cinque corpi d'esercito. Io sarò vostro duce Avrete a compagni quegl'intrepidi soldati di Francia, di cui foste commilitoni alla Cernaia Movete dunque fidenti nella vittoria, e di novelli allori fregiate la vostra bandiera; quella bandiera che coi suoi tre colori e colla eletta gioventù, qui d'ogni parte d'Italia convenuta e sotto ad essa raccolta, vi addita che avete a missione vostra l'indipendenza d'Italia: questa giusta e santa impresa, che sarà il vostro grido di guerra».

L'ambasciatore francese presso la Corte di Vienna, fino dal giorno 26, aveva dichiarato al conte Buoi che il governo dell'imperatore Napoleone avrebbe considerato come una dichiarazione di guerra il passaggio del Ticino, effettuato dalle truppe austriache. Perciò, il 29, le relazioni diplomatiche fra i due imperi furono interrotte.

Napoleone III ne diede avviso ufficiale al Senato e al Corpo legislativo, e indirizzò ai francesi un proclama, in cui diceva che «l'Austria, facendo entrare il suo esercito nel territorio del re di Sardegna, alleato della Francia, dichiarava a questa la guerra.»

IL «GRIDO DI DOLORE» 21

Poi continuava così: «Che la Francia si armi e dica risolutamente all'Europa: Io non voglio conquiste; ma voglio mantenere, senza debolezza, la mia politica nazionale e tradizionale: io osservo i trattati, a condizione che essi non siano violati contro di me; io rispetto il territorio e i diritti delle potenze neutre, ma confesso altamente la mia simpatia per un popolo, la cui storia si confonde colla nostra, e che geme sotto l'oppressione straniera» Dopo di aver detto che la Francia odiava l'anarchia; die il suo esercito andava in Italia non per fomentarvi il disordine, né per iscuotere il potere del sommo pontefice, riposto sul trono dalle armi francesi, ma sibbene per sottrarlo a quella straniera pressione che gravava su tutta la penisola; il proclama imperiale concludeva con queste parole: «Coraggio dunque ed unione! Il nostro paese sta per mostrare di nuovo al mondo che esso non ha degenerato. La Provvidenza benedirà i nostri sforzi; perché agli occhi di Dio è santa la causa ohe si appoggia sulla giustizia, sull'umanità, sull'amore della patria e dell'indipendenza».

Mentre gli eserciti di Francia stavano per venire in Italia a combattere gli austriaci, questi, sotto il comando del feldmaresciallo conte Giulay, avevano varcato il Ticino ed erano entrati in Piemonte. L'esercito sardo, dal La Lamarmora riordinato, anzi rinnovato in ogni sua parte, all'entrare in campagna contava 56,000 fanti, 4,000 cavalli e 114 cannoni. Esso, posto sotto il supremo

22 CAPITOLO I.

comando del re, era formato da cinque divisioni di fanteria, una di cavalleria, e una brigata di volontaria detti Cacciatori delle Alpi, capitanati dal generale Giuseppe Garibaldi. L'esercito francese contava 128,000 uomini, de' quali 10,400 di cavalleria, e traeva seco 130 cannoni: era diviso in cinque corpi d'esercito e nella guardia imperiale. Comandante in capo l'imperatore Napoleone, il quale teneva altresì il governo della guerra e il comando supremo delle armi confederate. Il suo capo di stato maggiore era il maresciallo Vaillant, portante il titolo di maggior generale dell'esercito (1).

L'Austria, sin dal gennaio 1859, aveva detto mano agli apprestamenti di guerra, accrescendo a poco a poco i presidi del LombardoVeneto; tanto che a metà d'aprile vi campeggiavano cinque grandi corpi d'esercito e una forte divisione di cavalleria; nel maggio, aumentati di altri due, e nel giugno portati a dieci con due divisioni di cavalleria di riserva; nei quali si contavano da 198,000 uomini a piedi, 19,300 a cavallo e 824 cannoni, ordinati in due grandi eserciti, il primo comandato da Wimpffen, maresciallo di campo, l'altro da Schlick, generale di cavalleria.

(1) Il maresciallo Vaillant era un soldato di molto valore, ed un perfetto gentiluomo. Nelle sue ore d'ozio si occupava di botanica e di giardinaggio. Aveva maniere distinte, ed un animo disposto alla conciliazione. Mori di 82 anni, nel 1872»

IL «GRIDO DI DOLORE» 23

Teneva il supremo comando il feldmaresciallo conte Francesco Giulay, di nobile famiglia ungherese, il quale € non godeva la fiducia né del paese né dei soldati (1)», e che doveva, come per lo più succede, diventare il capro espiatorio non solo dei propri errori, ma anche di quelli degli altri.

Il 29 aprile dunque, il maresciallo Giulay, dal suo quartier generale di Pavia, dopo di aver diretto un guerresco proclama alle sue truppe, ordinava ai suoi luogotenenti di passare il Ticino e di penetrare negli Stati del re di Sardegna, il quale, egli diceva, «e ha dimenticato la generosità usatagli già per due volte dall'austriaco monarca» Le truppe imperiali entrarono nella Lomellina per quattro punti, cioè da Pavia, Bereguardo, Vigevano e Cassolnuovo. Il generalissimo austriaco, appena varcato il Ticino, emanava un proclama ai popolo piemontese, che cominciava cosi: «e Nel varcare i vostri confini, non è a voi, o popoli della Sardegna, che noi volgiamo le armi nostre; bensì a un partito sovvertitore, debole di numero, ma potente per audacia, ohe, opprimendo per violenza voi stessi, ribelle a ogni parola di pace, attenta ai diritti degli altri Stati italiani e a quelli pure dell'Austria. Le aquile imperiali, quando vengano salutate da voi senza ira e senza

(1) Cantù, Cronistoria, . Ili, pag. 244.

24 CAPITOLO I. IL «GRIDO DI DOLORE «

resistenza, saranno apportatrioi d'ordine, di tranquillità, di moderazione; e il pacifico cittadino può fare fondamento che libertà, onore, leggi e fortune saranno rispettate e protette come cose inviolabili e sacre». I nostri lettori vedranno fra poco in qual modo il maresciallo Giulay ed i suoi luogotenenti mantenessero le belle promesse, fatte ai popoli nei loro altisonanti proclami.

[...]

INDICE

Avvertenza


Pag.

v

Capitolo

I. — II grido di dolore

»

1


II — La rivoluzione

»

25

»

III. — Magenta e Solferino

»

51

»

IV. — Villafranca

»

7G

»

V. — Le conferenze dì Zurigo

»

98

»

VI. — L'Italia centrale

»

119

»

VII. — Cessione della Savoia e di Nizza

»

143

»

Vili. — La spedizione dei mille

»

173

»

IX. — Castelfidardo e il Volturno

»

«03

»

X. — Fine del regno delle Due Sicilie

»

234

»

XI. — Morte del conte di Cavour

»

263

»

XII. — II ministero Ricasoli

»

293

»

XIII. — Aspromonte

»

318

»

XIV. — La convenzione di settembre

»

349

»

XV. — II trasferimento della capitale

»

377

»

XVI. — II ministero La Marmora

»

400


Documenti.

Docu

mento

I. —

Lettera del conte Buoi di Shauenstein al conte di Cavour, per intimare al governo sardo il disarmo e il licenziamento dei volontari

Pag.

425

»

II —

Proclama del generale Giuseppe Garibaldi,col quale annuncia agl'italiani di essersi dimesso dall'ufficio di comandante le truppe nell'Italia centrale

»

427

»

III —

Lettera di Vittorio Emanuele a Pio IX, e risposta del pontefice al re

»

428

»

IV. —

Lettera di Vittorio Emanuele al generale Garibaldi per dissuaderlo dal passare in Calabria, e risposta del generale al re.

»

432

»

V. —

Proclama del generale Garibaldi ai suoi volontari, nel quale prende commiato da essi,dopo l'annessione delle provincie meridionali

Pag.

434

»

VI. —

Ordine del giorno del generale Enrico Cialdini, indirizzato alle sue truppe, dopo la resa di Gaeta

»

436

»

VII. —

Lettera del generale Garibaldi al presidente della Camera dei deputati, per protestare contro l'accusa mossagli di aver pronunziate parole irriverenti verso la persona del re e la rappresentanza nazionale

»

438

»

VIIL —

Nota circolare del generale Giacomo Durando, ministro degli affari esteri del regno d'Italia, alle Legazioni italiane presso le potenze straniere, sulla politica del governo del re e sulla questione romana

»

440

»

IX. —

Testo della Convenzione stipulata a Parigi tra il governo francese e l'italiano per la redazione dell'occupazione francese in Roma, e per il trasferimento della metropoli da Torino in altra città del regno.

»

443

»

X. —

Dichiarazione che proroga il termine posto al trasferimento della metropoli del regno d'Italia

»

445

»

XI. —

Lettera di S. S. il papa Pio IX a S. M. il re Vittorio Emanuele intorno alla vacanza di parecchie sedi vescovili in Italia

»

447

»

XII. —

Lettera di S. M. il re Vittorio Emanuele aS. S. il papa Pio IX, in risposta alla precedente

»

449



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