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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa»

ovvero dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu

Zenone di Elea (Dicembre 2021)

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Le discussioni sul Risorgimento come rivoluzione mancata per me sono inconsistenti. Come la rivoluzione francese – seppur meno cruento – il risorgimento fu una rivoluzione borghese e come tutte le rivoluzioni borghesi usò il popolo come forza d’urto per conseguire i propri obiettivi. Bastano a dimostrarlo le promesse non mantenute del Garibaldi – vedi i proclami di Marsala (1)e di Salemi in Sicilia e di Rogliano in terra calabra (2). In Sicilia furono disapplicati dai prodittatori che gli succedettero e in Calabria da una serie di provvedimenti firmati dal Governatore Generale, il barone Donato Morelli, appena una settimana dopo!

Che Garibaldi fosse inconsapevole di tutto ciò lo raccontino a qualcun altro. In Italia – la cui storia recente è solamente una grande mistificazione – la sinistra è riuscita finanche a farne una icona socialista (3).

Quando è evidente che aderendo alla società nazionale (4) egli aveva fatto la sua scelta di campo: stare dalla parte della casa sabauda, che vedeva come unica possibilità per la unificazione dell’Italia, vista la inconsistenza dei vari moti (mazziniani e non) che si erano succeduti nei decenni precedenti.

La Masa(5) – vero artefice della conquista della Sicilia – aveva aperto la strada ai garibaldini precedendoli e rassicurando i baroni sul possesso delle terre. Scrive a tal proposito Aldo Servidio:

Le contraddizioni fra proclama di Marsala e “patto di ferro” con i Baroni siciliani costituiscono, forse, l’aspetto più illuminante di quello strano modo di concepire il progresso attraverso la libertà, perché vanno ben oltre la contraddizione fra contenuto “apparente” del proclama, nella forma immediatamente percepibile dai naturali destinatari (i contadini), e quello del patto “La Masa-Baroni”, ed investono il contenuto “in sé” del proclama di Marsala.

Stando, infatti, a quel testo del proclama di Garibaldi la terra “promessa” era solo quella di proprietà ecclesiastica e non quella demaniale e/o promiscua e/o latifondista.

Non andava toccato, cioè, il potere baronale (che controllava quasi la metà ma solo in Sicilia della terra coltivabile, essendone divenuto proprietario effettivo solo da circa mezzo secolo), ma esclusivamente la “mano morta”, e per incrementare “anche e solo” come di fatto avvenne il potere latifondista.

I poveri contadini siciliani non avevano gli strumenti per comprendere tanta sottigliezza: sentirono parlare di terra ai contadini, e ci credettero. La loro buona fede venne uccisa così; prima ancora che dalla disillusione sull’introduzione della leva obbligatoria e dai brogli elettorali che azzerarono fino al desiderato anche quei pochi NO al plebiscito di annessione al Piemonte che qualche temerario snob era riuscito a depositare nelle urne presidiate dalle camicie rosse in armi.

Il patto di ferro tra vecchio potere agrario ed unitari non è né un’invenzione postuma né la trasposizione fantasiosa in fatto storico della realtà “letteraria” (tutto deve cambiare, perché tutto resti come prima) icasticamente fotografata dal principe di Salina nel romanzo che Tomasi di Lampedusa scrisse un secolo dopo.

Infatti, fu lo stesso La Masa a sostenere di aver arruolato “da solo” (il buon Rosolino Pilo fece altrettanto, ma non ebbe il tempo di vantarsene) oltre 6mila picciotti, per la sola prima fase dell’operazione dei Mille, attraverso i contatti presi nell’aprile 1860 con i baroni siciliani che non avevano altro interesse che quello di tutelare i loro feudi/ latifondi; fu lo stesso La Masa ad ammettere, quando la situazione italiana s’era un po’ stabilizzata, che noti “galantuomini” come i capibanda Scordato e Miceli (prima e dopo i Mille, conosciuti da tutti per la loro ferocia) furono determinanti per il successo dei Mille in Sicilia, e come è ovvio i capibanda non si muovevano senza l’impulso dei Baroni. Ed ancora: i picciotti che combattevano con Garibaldi, al momento del passaggio in Calabria del generale furono sostituiti totalmente dai “disertori ufficiali” dell’esercito sardo sbarcati lungo le coste settentrionali della Sicilia e poterono così tornare secondo il patto con La Masa alla cura degli affari ordinari, la difesa, cioè, sia dei feudi/latifondi sia degli “affari cittadini” che si erano aggiunti alle precedenti “cure” proprio grazie all’Unità.”

Alla vigilia della rivolta de “Lu Setti-e-menzu” non vi era soltanto il malcontento delle classi povere buggerate dal garibaldinismo, ma anche tutti coloro che si erano illusi che abbandonando i Borbone al loro destino per lasciarsi abbracciare dai Savoia la Trinacria sarebbe risorta.

Cosi non era stato.

Nelle aule parlamentari diversi oratori, dopo il 1860, avevano rimarcato le ragioni del malcontento crescente nell’isola. A partire dallo stesso Crispi, il quale in un suo intervento durante la TORNATA DEL 10 DICEMBRE 1861 denunciava la situazione della sua isola:

Io non enumererò singolarmente tutti gli atti del Governo nella sua febbre unificatrice. Io vi osserverò che a partire da Messina, dove il conte Bastogi viene di abolire le bonifiche dell'antico portofranco, sino a Palermo, che vede ogni giorno mancarsi senza alcun compenso tutte le preminenze, lo scontento è grandissimo. E notate, signori, che l'agitazione si fa più viva, non tanto per quello che è stato perduto, come per quello che è in pericolo di perdere. In Palermo l'abolizione della tesoreria generale suscitò gravi rumori, ma gli animi sono concitati perché è in pericolo il governo interprovinciale, perché la Corte dei conti è minacciala, perché è incerto l'ordinamento dei tribunali.

L'inscienza delle leggi e delle cose locali e l'incertezza del Governo nelle misure a prendere sono altre cause gravissime di malcontento. Il 18 ottobre ultimo, il ministro della guerra, annunziando al sindaco di Messina la distruzione problematica della cittadella, gli dichiarava di voler vendere o dare in affitto alta città i terreni che si sarebbero sbarazzati, i quali appartengono al municipio. Sul finire di agosto il ministro dei lavori pubblici e quello delle finanze regalarono alle provincie siciliane che cosa? La sovrimposta del 3 per cento sul contributo fondiario, di cui l'uno e mezzo già apparteneva alle provincie ed era da loro amministrato; e l'altro uno e mezzo era stato abolito con decreto dittatoriale del 17 maggio 1860, il quale ristabiliva la fondiaria nelle condizioni in cui era il 5 settembre 1848 per un decreto del Parlamento. Vedete quindi che le generosità del Governo sono state tali e tante, che parrebbero una ironia.

Vi ripeterò in proposito una frase del mio paese. Quando quei provvedimenti furono promulgati, si disse: Il Governo ci regala il vento dell'Africa.

Il 18 maggio 1860 Garibaldi aveva decretato che sarebbero rifatti i danni cagionati dalle truppe borboniche. Con un altro decreto del 9 giugno destinava a quest'uso le rendite delle opere di beneficenza.

In questo decreto, all'articolo 2, era scritto: «Tutti i monti di famiglia, fidecommissarie ed altre istituzioni non abolite o conservate in vigore, dietro le leggi eversive dei fidecommessi, sono ancora essi tenuti al versamento di tutte le somme, delle quali è parola nel precedente articolo. Essi verranno rimborsali delle somme in tal modo impiegale nelle forme e nei tempi, come sarà con analoghe disposizioni prescritto.»

I danni della rivoluzione, o signori, non furono rifatti, ed i proprietari, a cui furono tolte le rendite, aspettano ancora il provvedimento per sapere in qual tempo e secondo quali forme debbano essere rimborsati di un danaro che loro è dovuto. Alquanti individui della famiglia Vanni, che hanno una ricchissima fidecommissaria, mi dicevano un giorno: «Noi siamo stati leverò vittime della rivoluzione!» E sapete perché? perché da due anni non possono godere le rendile che la dittatura avea destinato a quel servizio pubblico.

Il 17 ottobre 1860 furon dichiarati debiti dello Stato i debiti dei comuni. I comuni non pagarono più, perché discaricati dalla legge; lo Stato non ha pagalo, perché non vuol riconoscere la legge, ed i creditori muoiono di fame in mezzo ai due rifiuti.

Vi è l'ospedale civico di Palermo, istituzione che non dirò comunale, ma di uso generale dell'isola, che ha un credito sa quel comune di 200,000 ducati, ed è alla vigilia di essere chiuso.”

Il malcontento era stato alimentato ovviamente anche da altri elementi, quali la leva obbligatoria e l’invio a Palermo del generale Govone (6), invio su cui Mordini aveva fatto una interrogazione parlamentare nel maggio del 1864 (7). Ovviamente il suo ordine del giorno era stato messo ai voti ma respinto dalla Camera, esito scontato visto che un deputato della maggioranza governativa, Brignone, aveva affermato di sperare che le sue parole fossero ben intese a Palermo, e che i palermitani si convincessero che “non è in questo modo che si fanno gl’interessi d'Italia”. Una argomentazione, questa, che con toni e parole diverse era echeggiata decine di volte nell’aula parlamentare, a commento degli interventi dei deputati meridionali, quando essi sollevavano questioni sulla gestione delle provincie meridionali del paese da parte del governo (8).

A leggere le analisi di taluni storici – anche di rango – il governo giunse impreparato allo scoppio della rivolta del sette-e-mezzo di Palermo, ignorando le poche voci che mettevano in guardia sulla situazione esplosiva che stava montando.

A nostro avviso la verità appare molto più semplice – e su questo ci conforta il cosiddetto errore delle truppe richieste e non inviate anzi inviate ma in Calabria (9)! - e riteniamo che uno scontro serviva per sistemare diverse cose, ovvero sia il malcontento generale (10) per l’andamento della terza guerra di indipendenza (20 giugno 1866 - 12 agosto 1866) che il malcontentoche serpeggiava nell’isola – dove fra l’altro il popolo palermitano da giorni faceva provviste perché qualcosa bolliva nell’aria.

Battuto il brigantaggio – grazie ai plotoni di esecuzione militari affiancati dalla guardia nazionale – occorreva stroncare definitivamente qualsiasi velleità o sogno di restaurazione dell’antico regime. Palermo ne fornì la occasione: 40mila soldati per circa 30mila insorti!

Il numero dei soldati da la dimensione della posta in gioco, andava mandato un segnale preciso a tutti i moderati di quello che stava per diventare definitivamente il mezzogiorno d’Italia: “o state con casa Savoia o col caos”. Cadorna infatti usò il pugno di ferro, decretando uno stato d'assedio illegittimo e la rivolta nei resoconti ufficiali fu liquidata come un atto delinquenziale fomentato da legittimisti (11).

La conta dei morti non è mai stata fatta nonostante una commissione di inchiesta.

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I documenti pubblicati riguardano non solo la Sicilia ma anche l’Italia in generale nei decenni precedenti la rivolta del sette-e-mezzo.


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1849SICILY AND ENGLAND - A SKETCH OF EVENTS IN SICILY IN 1812 & 1848
1849July 14  THE SPECTATOR - ITALY
1849The Quarterly Review - Revolutionized Italy
1849THE SPECTATOR - March 10 - BRITISH INTERVENTION IN SICILY
1849THE-SPECTATOR - Italy Debates in Parliament
1861THE ILLUSTRATED LONDON NEWS - Gift of land for a protestant church at Naples
1863Regime eccezionale in Sicilia  - parole di Francesco Crispi
1864CAMERA DEI DEPUTATI - Interpellanza del deputato Mordini sull’invio del generale Govone a Palermo
1866I CASI DI PALERMO - Cenni storici sugli avvenimenti di settembre 1866 per Giuseppe Ciotti
1866STORIA DI SETTE GIORNI ossia cenni storici degli avvenimenti seguiti a Palermo nel settembre 1866
1866Nuova-Antologia - I fatti Palermo
1866Relazione dell'Arcivescovo di Palermo
1866RELAZIONE di CORRADO TOMMASI - Cholera di Palermo nel 1866
1866TORELLI - Rapporto al Ministero dell’Interno relativo agli avvenimenti di Palermo (16-22 settembre 1866)
1867Palermo - Governanti e governati prima e dopo il tumulto di settembre pensieri di Giuseppe Fazio Bua
1867POCHE PAROLE alla commissione parlamentare
1867NUOVA ANTOLOGIA - LA SICILIA - ISTITUZIONI POLITICHE di Celestino Bianchi
1867NUOVA ANTOLOGIA - Le condizioni della Spagna, dell'Italiia e della Grecia
1867NUOVA ANTOLOGIA - Michele Amari- L’apostolica Legazia di Sicilia
1867GIACOMO PAGANO -Sette giorni d’insurrezione a Palermo
1867La reazione di settembre 1866 ed il bisogno di una Chiesa Nazionale
1867Storia di sette giorni ossia cenni storici degli avvenimenti seguiti a Palermo nel settembre 1866
1867THE QUARTERLY REVIEW - The Week's Republic Palermo
1867VINCENZO MAGGIORANI - Il sollevamento della plebe di Palermo
1869OPERE DI VINCENZO MORTILLARO MARCHESE DI VILLARENA
1876LA VITTIMA AUTORITARIA di Luigi Appel
1880Salvatore Salomone Marino - Leggende popolari siciliane in poesia
1895GAZZETTA MUNICIPALE di Palermo - Ricordi storici a proposito della quistione siciliana
1912NUOVA ANTOLOGIA - L’opera di Francesco Crispi in Sicilia dal 1861 al 1866

NOTE

(1)Cfr. L'imbroglio nazionale: unità e unificazione dell'Italia (1860-2000), Aldo Servidio, Guida Editore, 2002.

(2)DECRETO DEL DITTATORE GARIBALDI

Ordina provvisoriamente l’esercizio gratuito degli usi civici di pascolo e di semina nei demani della Sila a favore degli abitanti poveri di Cosenza e Casali.

Fu pubblicato col n. 1. del Monitore Bruzio, giornale uffiziale della Calabria Citeriore.

IN NOME DELL’ITALIA, ecc.

Gli abitanti poveri di Cosenza e Casali esercitino gratuitamente gli usi di pascolo c semina nelle terre della Sila. E ciò provvisoriamente sino a definitiva disposizione.

Rogliano, 31 agosto 1860.

Il Dittatore

Firmato, GARIBALDI

(3)“Nella sua campagna contro l’intervento di Mussolini a sostegno di Franco nella guerra civile spagnola, Carlo Rosselli, capo del movimento Giustizia e Libertà, lanciò il grido «Oggi in Spagna, domani in Italia», e i volontari che andarono a combattere con il Fronte popolare repubblicano contro Franco e i suoi alleati vennero organizzati nelle «Brigate Garibaldi». Il «secondo Risorgimento» (1943-45) vide poi all’opera anche le «Brigate Garibaldi» comuniste, che combatterono nella Resistenza in Italia e in Iugoslavia.

In seguito, nei primi anni della Repubblica, Garibaldi riuscì ancora a svolgere un proprio ruolo come padre fondatore della democrazia, e la sua figura venne incorporata in una «religione» repubblicana che collegava il mito della Resistenza e l’antifascismo al Risorgimento. Garibaldi diventò una figura unificante, sulla quale sembrava esservi un consenso generale, e dopo il 1948, nei lunghi decenni del governo democristiano, il suo estremo anticlericalismo venne occultato alla vista dell’opinione pubblica. Lo si ricordava il 2 giugno di ogni anno, in occasione dell’anniversario della Repubblica, che fra l’altro coincide con la sua data di morte, mediante simboli e rituali esplicitamente riferiti all’iconografia risorgimentale, e lo si commemorò in occasione di vari centenari — nel 1949 (Repubblica romana), nel 1959-60 (unificazione italiana) e nel 1982 (centenario della morte). Negli anni Ottanta del Novecento, due delle principali figure politiche italiane — il repubblicano Giovanni Spadolini e il segretario del Partito socialista Bettino Craxi — fecero a gara nel riproporre la sua figura sulla base delle personali immagini idealizzate che ne avevano, rispettivamente come simbolo della virtù repubblicana e fondatore del socialismo italiano.” (Garibaldi: L'invenzione di un eroe - LucyRiall, Editori Laterza, 2017)

(4) Vedi documenti pubblicati.

(5)Cfr. Salvatore Romano il soldato napolitano o da Napoli a Gaeta- Dal suo testo emerge un La Masa come il vero stratega della conquista della Sicilia a fronte di un Garibaldi a cui erano completamente ignoti luoghi e persone.

(6)“Il generale Govone, siccome quegli a cui ben s’adduceva il sapere la storia contemporanea della Sicilia, e che mostrava di farlo con la più severa imparzialità, giustificò l’operato delle truppe che erano sotto i suoi ordini, svelò le esagerazioni dei consueti lamentatori di quelle provincia, e lasciò l'uditorio assai convinto di quanto vantaggio fossero state a quelle provincie le operazioni da lui dirette, e di quanto fosse stato regolare ed ammirabile il contegno dei militari in quelle occasioni.” (Cfr. IL SOLDATO ITALIANO, N. 11 – 10 Dicembre 1863)

(7)Cfr. ATTI del Parlamento Italiano - Sessione del 1863-64 - Roma, 1888, Tipografia Eredi Botta.

(8)Sulla gestione delle provincie napolitane evitiamo di ripeterci e preferiamo riportare quanto scrive Guido Melis: “Nel 1866, a Palermo, uno dei cosiddetti prefetti dell’unificazione, Luigi Torelli, ripristinò l’usanza borbonica di tenere udienza pubblica, in giorni prestabiliti della settimana, nell’ex sala del trono che abitualmente utilizzava, per lo stesso scopo e nella stessa giorno della settimana, il viceré. Come il suo predecessore mantenne — lui, prefetto del regno — l’uso di ricevere i cittadini seduto sul trono.”(L’amministrazione tra centro e periferia,Guido Melis - "Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206)

(9)“Di questo solo non sappiamo capacitarci che un battaglione di Bersaglieri, il quale avea scontato—a quanto affermasi — la contumacia a Nisida, e che era stato promesso a questo Prefetto, abbiasi invece mandato in Calabria, in nome di non sappiamo quali emergenze superiori alle nostre.” (Cfr. I casi di Palermo cenni storici sugli avvenimenti di settembre 1866, Giuseppe Ciotti, Tipografia di Gaetano Priulla, 1866.)

(10)Lamarmora e Cialdini, incontratisi a Bologna poco prima dell’inizio degli scontri, non erano riusciti a coordinare l’intervento delle divisioni schierate sul Mincio e sul Po, portando così l’esercito alla sconfitta di Custoza. A cui si aggiunge poi la sconfitta di Lissa (e l’affondamento della corazzata “Re d’Italia” e della cannoniera “Palestro”), disperato esito del tentativo di rispondere alla umiliazione della comunicazione alla Francia da parte dell’Austria della sua intenzione di cedere il Veneto all’Italia, mediazione accettata dalla Prussia.

(11)“Adesso la Sicilia, che sino al 1862 era stata risparmiata dalle critiche, veniva portata sul banco degli accusati al pari di Napoli e il suo patriottismo scambiato per un’istanza rivoluzionaria dalla quale occorreva in ogni modo difendersi.

[...] Con questi presupposti, che individuavano nel legame tra associazionismo criminale e dissidenza politica le possibilità di crescita della mafia, la rivolta di Palermo del 1866, quando per oltre sette giorni la città rimase alla mercé degli insorti, venne subito catalogata quale una prova di forza direttamente orchestrata dai gruppi delinquenziali.

La riduzione della protesta a una mera dimensione criminale era certo sbrigativa, perché la sommossa fu l’ultimo atto di una stagione insurrezionale e, nonostante le autorità subito parlassero di un mostruoso connubio tra repubblicani e legittimisti, i principali testimoni, pressoché tutti di parte governativa, suggerirono invece una lettura più risolutamente spostata a sinistra, che riuniva sotto lo stesso anelito di rivolta le squadre di facinorosi giunte in armi dalla provincia, gli elementi mafiosi e gli immancabili sostenitori di Garibaldi.” (Cfr, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Antonino De Francesco, Feltrinelli 2020.)






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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