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 Scrive Salvatore Mandarini, giudice della Gran Corte Criminale di Napoli e socio di varie accademie scientifiche e letterarie, in uno dei primi opuscoli di parte borbonica che contestò le lettere del reverendo Gladstone:

“Il fervore con cui taluni de' giornali stranieri han pubblicato o contentato con maligno compiacimento due lettere dell’onorevole sig. Gladstone al Conte Aberdeen sui processi di Stato nel Reame delle due Sicilie, ha eccitato un giusto sentimento di ansietà per sapere se gli straordinarii fatti in esse allegati abbiano alcun che di veridico e di reale. Imperocché narransi di tali e tanti dolori cui soggiacciono nelle napoletane contrade gl’imputati per reati politici, di un così esagerato ed incredibile numero di essi, di tali arbitrarie forme nel giudicarli, e di sì dure pene loro inflitte, che anche coloro i quali ignorano gl’interni ordinamenti del reame, ed il modo secondo cui vi si amministra la giustizia, non possono facilmente condursi ad aggiustar fede alle notizie con tanta leggerezza spacciate come vere dal predetto scrittore, ed alle fosche descrizioni che ne va delineando nel suo lavoro.?

Ovviamente le contestazioni di parte borbonica non sortirono alcun effetto – dilagarono quelle a sostegno delle lettere, prima fra tutte quella del Massari a Torino. Copia delle lettere del Gladstone furono diffuse in tutte le ambasciate e circoli culturali d’Europa.
Il destino delle Due Sicilie iniziava a delinearsi e marciava speditamente verso il crollo del Reame.

Zenone di Elea - Novembre 2018

RASSEGNA DEGLI ERRORI E DELLE FALLACIE

PUBBLICATE DAL SIG. GLADSTONE

IN DUE SUE LETTERE

INDIRITTE AL CONTE ABERDEEN

Sui processi politici nel bearne delle Due Sicilie

NAPOLI

STAMPERIA DEL FIBRENO

1851


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Ottobre 2018

Errare, nescire, decipi et malum et turpe ducimus

Cicer. de' off. 1. 1 c. 6.

Il fervore con cui taluni de' giornali stranieri han pubblicato o contentato con maligno compiacimento due lettere dell’onorevole sig. Gladstone al Conte Aberdeen sui processi di Stato nel Reame delle due Sicilie, ha eccitato un giusto sentimento di ansietà per sapere se gli straordinarii fatti in esse allegati abbiano alcun che di veridico e di reale. Imperocché narransi di tali e tanti dolori cui soggiacciono nelle napoletane contrade gl’imputati per reati politici, di un così esagerato ed incredibile numero di essi, di tali arbitrarie forme nel giudicarli, e di sì dure pene loro inflitte, che anche coloro i quali ignorano gl’interni ordinamenti del reame, ed il modo secondo cui vi si amministra la giustizia, non possono facilmente condursi ad aggiustar fede alle notizie con tanta leggerezza spacciate come vere dal predetto scrittore, ed alle fosche descrizioni che ne va delineando nel suo lavoro.

Ma siffatto dubbio è un fenomeno ch’egli stesso presentiva nel pubblicar la seconda sua lettera. Gli uomini, ei scrive, debbono esser tardivi a credere che possono intervenire tali cose in una contrada cristiana, sede di quasi tutta la vecchia civiltà di Europa. Debbono essere inclinati ad attribuire le mie asserzioni a fanatismo e follia da mia parte anziché crederle un genuino racconto del modo di procedere di uno stabile Governo.

Noi non le ascriviamo né a fanatismo né a follia. Chiaro è il nome dell’onorevole sig. Gladstone come uno de’ capi del partito conservatore, e membro del parlamento inglese, e noti sono i suoi principii politici per dubitare ch’egli ad un tratto ne abbia potuto declinare, e farsi l’eco di bugiarde e calunniose voci. Forse un sentimento di commiserazione e di pietà verso coloro che la giustizia ha raggiunti a nome della società messa in pericolo, ha potuto fargli con facilità accogliere tutto ciò che taluno di quegli sciagurati, o qualche pietoso loro amico gli avrà suggerito; ed ei sospinto da motivi di umanità (come dice, e giova credergli) è ritornato in patria coll’animo deliberato di operare quanto ora in suo potere per alleviarne la sorte.

Bella è la pietà, ma non vuole esser disgiunta dalla giustizia e dalla verità. Intenerirsi alle altrui sventure, senza voler sapere se meritate o no, procacciare di racconsolare, è certamente un pensiero filantropico; ma lanciare delle accuse contro un Governo che ha diritto, come gli altri, all’universale rispetto, e denunziarle innanti al tribunale della pubblica opinione, è un divisamento che non sappiam dire se possa esser giustificato anche nel caso che le accuse fossero fondate su falli veri. Ma de’ fatti evidente è la falsità ove vogliasi indagare a quali fonti impure ed invelenite sieno stati attinti, il che tornerà agevole a chiunque scevro di passione si faccia a disaminare la lunga diceria del sig. Gladstone, e col lume della critica e colla scorta de’ più irrecusabili documenti ne voglia scoprire la fallacia.

Il perché a noi è paruto sano consiglio e quasi debito ufizio nell’interesse della verità e dell’umanità stessa che vuolsi cotanto oltraggiata, venir restituendo i falli esagerati alle loro vere proporzioni, additare quelli interamente falsi, e scoprire i calunniosi. E fia questa la migliore risposta agli errori ed alle accuse di cui il signor Gladstone non ha dubitato farsi propugnatore, senza che noi il volessimo imitare nel l’acerbità delle parole e ne’ vilipendii, onde con istuporedi tutti la sua scritta vedesi sparsa. La buona causa sdegna le recriminazioni e le contumelie, e si contenta di persuadere colla invincibile potenza de’ fatti e delle ragioni. L’errore e l’inganno si reputano, e sono realmente sorgenti feconde di danno e di vergogna, ma non riescono a pervertire la pubblica opinione quando, come nel caso presente, si ha tal copia di fatti e documenti da smascherare qualsivoglia ben congegnata calunnia.

I

Osservazione generale sulle ragioni dalle quali il sig. Gladstone dice
 di essere stato indotto a scrivere, ed a pubblicar per le stampe le sue lettere.

Il sig. Gladstone nell’esordire la prima sua lettera, pubblicata l’11 luglio del volgente anno, afferma di averla scritta penetralo dal sentimento di dover tentare di mitigare gli orrori dell’amministrazione del Reame. Dimostreremo qui appresso quanto falsa e calunniosa sia la supposizione de’ sognati orrori, discorrendoli tutti paratamente nell’ordine e nel modo secondo cui sono stati dal signor Gladstone dedotti; ma non potremo astenerci dal rivocare in dubbio la cagione dalla quale egli dice di essere stato mosso, senza convenire che la via scelta da lui fosse la sola conducente a fargli conseguire lo scopo al quale accenna. Ed in vero è egli presumibile, e può entrar mai in mente umana che un Governo qualunque, e sia anche il meno curante della sua dignità, potesse venir determinato a mutar sistema, gridandoglisi da taluno la croce addosso, e concitandoglisi con accuse bugiarde l’odio, e l’abbominio dell’umana generazione?

Tutta altra adunque, ed affatto opposta esser dovea la condotta del sig. Gladstone per raggiugnere il fine da esso additato, e niuno più di lui avrebbe potuto ottenere maggior successo; dacché venuto in Napoli come uno fra i più distinti conservatori della Gran Brettagna, e col prestigio di rappresentante la celebre università di Oxford nel Parlamento, e di aver fatto parte del Ministero Peel, non che da' Regii Ministri, ma dal Re stesso, se egli il voleva, sarebbe stato benignamente accolto ed ascoltato con ogni attenzione e riguardo, come amico ascoltar si suole., Ben lungi di battere il cammino che il più scarso senso comune gli additava quale unico e proprio, egli, il sig. Gladstone, nella sua dimora in Napoli, anzi di avvicinare alcun ministro o altro ragguardevole personaggio, o dimostrare, come ogni altro distinto straniero, il desiderio di vedere il Re, non visse, al dire di Lord Palmerston, che tra i detenuti nelle carceri, e tra i galeotti ne’ bagni, e dalle bocche di costoro e di talun altro che la clemenza del Re ha sinora sottratto al meritato gastigo, attinse tutte le calunnie ch’egli sparse con incredibile facilità, e delle quali qui appresso sarà fatta, come abbiam cennato, ampia ed esatta giustizia.

Oh! se egli, il sig. Gladstone, non nell’anno che volge, ma nell’infausto del 1848, o nei primi mesi dell’anno seguente, fosse venuto tra noi, non che più mesi, non vi sarebbe rimasto un giorno solo, ove non avesse preferito all’ordine ed alla pace il tumulto ed il terrore suscitato dalla furente ed implacabile demagogia. Scaduto del tutto in quei tempi il rispetto per le leggi e per le autorità costituite, rinchiusi e rannicchiati gli onesti nelle proprie abitazioni, ed in esse neppur sicuri, chiuse le botteghe addette ai negozii, non vedevansi dovunque ed in tutte le ore per le strade o nelle piazze della popolosa Napoli che i soli agitatori, né udivansi altre grida che le loro, e tutte di obbrobrii e minacce gravide, e dirette senz’alcun mistero al rovescio non già della Monarchia, ma dell ordine sociale. E lo statuto ottenuto da essi per frode e per inganno, e largito con la maggior buona fede e lealtà dalla magnanimità del Re, non veniva da essi accolto che come mezzo per recare ad effetto sì barbaro e reo disegno. Né da altro procede l’avversione dell’infinita maggioranza degli abitatori del Reame allo statuto suddetto, e l’ardente, concorde, spontaneo ed unanime loro voto in mille guise espresso e mille volte ripetuto, onde, quello abolito, si facesse ritorno alla pura Monarchia.

Questo breve cenno basta, secondo noi, a far chiara la convenienza e la giustizia dell’attuale ordine politico del Reame; né ci spenderemo altre parole dappoiché il sig. Gladstone in pari tempo che se ne fa in una certa maniera il censore, confessa di non esser quello soggetto a straniera ingerenza, ed ammette nel modo più assoluto il rispetto che devesi dagl’Inglesi come da ogni altro popolo ai Governi in genere, siano essi assoluti, costituzionali, o repubblicani, come rappresentanti dell’autorità divina, e difensori dell’ordine.

II

Fonti alle quali il sig. Gladstone ha attinto le false notizie da lui spacciate.

Lo scrittore delle lettere dichiara che fu come a forza indotto (da chi?) a trattare questo triste soggetto, che non intese punto fare una propaganda politica, e che non raccolse senza discernimento le notizie, di cui parte conosce per osservazioni personali, e le altre crede fermamente, dopo averne attentamente esaminalo le fonti. Hoc opus, hic labor est!... Se queste sono le basi sulle quali è innalzato tutto codesto formidabile castello di accuse contro il Governo napoletano da far trasecolare gl’illusi riguardanti, e dall’eccitare il fiero sogghigno dei sovvertitori di ogni civil reggimento, vuolsi indagare se le basi riposino sovra solido terreno, o piuttosto su di un monticello di arena che, in tempi di avide e dissennate passioni, le onde innalzarono in riva al mare.

E primamente qualunque è preso dalla nobile ambizione di scoprire il vero, potrebbe addimandare in qual modo ed in compagnia di chi furon fatte quelle osservazioni personali, primo sostrato delle notizie che ci dà. l’illustre scrittore. Secondariamente potrebbe chiedersi a quali fonti si sono attinte le altre notizie, ad esporre le quali vuolsi che le fonti medesime sieno state attentamente esplorate. Imperocché ben si sa che la critica non si conduce facilmente ad ammettere un fatto senza d’avere assodato tutti questi punti. Se per avventura le fonti si scoprissero limacciose, o invelenite dall’altrui perfidia, ne potrebbero mai sgorgare limpidi rigagnoli? E che a fonti men che pure siasi appressato il sig. Gladstone, non è più dubbio tosto che pubblicamente è stato annunziato ch’egli nella sua dimora in Napoli preferì di conversare co’ detenuti e co’ servi di pena anziché con persone che gli avrebbero somministrato accurate nozioni del paese; e per conseguente non ha potuto che riprodurre i lamenti di quegli sciagurati, ed improntare lo stesso loro linguaggio passionato.

Niuno ignora quanto sventuratamente a’ nostri tempi abbia prevalenza il funesto errore, per lo quale si attribuisce ai reati politici, che attaccano la sicurezza e la esistenza stessa delle comunanze civili, un grado di riprovazione assai inferiore a quello con cui si guardano i misfatti comuni, come se vi fosse a far paragone tra l’attentare alla proprietà o alla vita di un cittadino, e l’incitare alla guerra fratricida, scrollando i governi stabiliti per sostituirvisi il dispotismo della piazza, e le sanguinose scene che la storia ha mostrato averlo sempre accompagnato. Dalla influenza di così pernicioso errore procede che i condannati politici si reputano vittime di un destino fatale, anziché rei, e che non rifiniscono mai di gridare agli abusi ed alle crudeltà, ove non intendesi ad altro che a eseguire una legge da essi vilmente calpestata a danno della pubblica sicurezza. D’altra parte l’interesse e la compassione che i medesimi ispirano, si accresce in proporzione delle loro qualità intellettuali e della loro condizione, ed è però che molti prestano facile orecchio ai loro lamenti. Tutt’i governi, tranne qualche rara eccezione, ne han fatto un triste esperimento. L’Inghilterra stessa ebbe a sentire una critica severa per lo estremo rigore esercitato da Sir H. Ward e L. Torrington; e non ha guari ha formato l’obbietto di una mozione alla Camera de’ comuni il trattamento, che dicevasi duro ed inumano, fatto subire a molti Irlandesi condannati per reati politici.

Ma tornando onde abbiamo incominciato, l’autor delle lettere non si dissimula che la esposizione de’ fatti per lui allegati avrebbe eccitato in alcuni l'indignazione e l'orrore (se fosser veri) la incredulità in altri (questi sono tutti gli amici del giusto e dell’onesto) la indifferenza in pochissimi.

E questa incredulità non è fantastica, non è ispirata da brama di oppugnare quanto lo scrittore vien mettendo in luce per un puro sentimento di umanità, com’egli dice, e per l'onore di quel gran partito conservatore cui si pregia appartenere; ma è un risultamento delle investigazioni per noi fatte e delle notizie attinte a validi ed irrefragabili documenti. Che se egli vagheggia la dolce consolazione, onde il suo cuore sarebbe preso, se potesse prestar fede a tutto ciò che la critica ha detto, e potrà dire intorno alle sue notizie, noi confidando nelle sue parole, vogliamo presumere che sarà egli il primo a ricredersi, e smentire il racconto di sognati abusi, de’ quali non che il Governo di Napoli, ma qualunque altro, nella presente civiltà, avrebbe orrore.


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III

Ragione secondo la quale sono dalla giustizia raggiunti e giudicati gl’imputati politici: loro numero.

Compiuto il disaminato proemio, l’onorevole sig. Gladstone entra in materia, ed annunzia senz’alcuna difficoltà la seguente proposizione, né monta che egli stesso la tenga per dubbiosa. Si crede generalmente, ei dice, difettosa l’organizzazione dei Governi dell’Italia meridionale, che l’amministrazione della giustizia non è scevra di corruzione, che comuni sono i casi di abuso e di crudeltà fra i pubblici impiegati subordinati, che vi sono duramente puniti i reati politici senza che si abbia molto riguardo alle forme della giustizia. Egli fa opera di dimostrare queste ed altre più truculenti accuse del genere medesimo, non citando alcun fatto, non ponendo innanzi alcun documento, non confortando neppure di un’autorità i suoi detti, e procedendo in siffatta guisa non rifugge dallo affermare che la presente persecuzione è più grave ancora che non le precedenti, come se veramente potessero chiamarsi a riscontro i tempi presenti con quei del cader dello scorso secolo, dei quali non vi ha chi non sappia le sventure inenarrabili, ed i patiboli rizzati più che dalla propria severità dall’odio implacabile, e dalla nissuna fede altrui. Non dovea però alle informazioni mancare l’appoggio di un fatto, ed egli ne arreca in mezzo uno gravissimo, e che farebbe inarcare le ciglia se non fosse della stessa tempra delle altre notizie da lui spacciate: Credesi generalmente (notate, è sempre una credenza) che i prigionieri per reati politici nel regno delle due Sicilie ammontino a quindici, venti, trenta mila!.... Nella sola Napoli parecchie centinaia sono in questo momento accusati di delitto capitale; e quando lasciai quella città, si credeva imminente un processo (detto quello de’ 15 maggio) in cui il numero degli accusali era fra i quattro o cinquecento. Noi saremmo per troncare il filo delle idee dell’autore, o per meglio dire delle fole dategli ad intendere, e gridare: ah! se queste sono, onorevole Gladstone, le notizie che voi ci date, e di cui dite avere attentamente esplorato le fonti, lasciate di appellarvi al giudizio della colta Europa, poiché unanime sarà il grido d’indignazione contro que’ vili calunniatori ed infamatori del proprio paese che abusarono la vostra buona fede, per farvi strumento delle loro stolte passioni !.. Ma serbiamo ad altro luogo la confutazione di questa grossolana menzogna, e seguitiamo l’autore nella sua esposizione.

Vi ha una legge in Napoli, prosegue a dire il medesimo, anteriore di molto alla Costituzione, che stabilisce la inviolabilità della libertà personale, tranne per mandato di una Corte di giustizia. Ecco uno sprazzo di luce uscito dalla penna di lui a traverso le tenebre addensategli sugli occhi dall’altrui malignità. Ma questa legge si conculca, ed il Governo, ripiglia l’autore, di cui importante membro è il Prefetto di Polizia, per mezzo degli agenti di questo dicastero, insegue e codia i cittadini, fa visite domiciliari ordinariamente di notte, rovista le case, sequestra mobili e carte: tutto questo sotto pretesto di cercare armi: incarcera uomini a ventine, a centinaia, a migliaia (misericordia !) senza alcun mandato, talvolta senza pur mostrare alcun ordine scritto... Si leggono quindi le lettere del prigione tostoché può sembrare utile, e si esamina poi questo senz’atto di accusa (notate!) la quale infatti non esiste, e senza testimoni che questi pure non sussistono. Non si permette all’incolpato alcuna assistenza, né il mezzo di consultare un avvocato.

Di queste e somiglianti calunniose accuse spedito è il giudizio, e certa la sentenza di universale riprovazione sol che si consultino le leggi penali di Napoli, e si voglia essere informato da persone scevre di passioni come vi sono scrupolosamente eseguite. Grande meraviglia debbe in sulle prime desiare che un viaggiatore, dopo breve dimora in uno Stato amico, faccia sì pessimo governo degli ordinamenti di esso, e ne tratti con tanta inesattezza ed assurdità da mostrare quanto poco vi si sia versato.

Noi pertanto nulla diremo del sistema delle leggi penali delle due Sicilie, contenti solamente di accennare che furono trovate inspirate dal doppio sentimento della filosofia e dell'umanità quando in Francia intorno al 1832 si fece ad esse attenzione per alcune riforme a quel codice, e che valenti pubblicisti e giureconsulti non hanno dubitato addimostrare per le stesse molta ammirazione. In quanto al procedimento, qualunque abbia riguardato le leggi che vi provvedono, o abbia assistito alle pubbliche tornate delle Gran Corti criminali e speciali, ha potuto accertarsi quanto provvide e larghe esse sieno nel senso di tutelare la libertà personale, e preservare la innocenza da qualsivoglia abuso. Or siffatte leggi autorizzano gli ufiziali di polizia giudiziaria, e gli agenti di polizia ordinaria, i quali nella Capitale e nei capoluoghi delle provincie e de’ distretti esercitano anche le funzioni di polizia giudiziaria, ad arrestare l’imputato colto in flagranza, o quasi flagranza (1) . Fuori di essa niuno può essere arrestato se non in virtù di un mandato di deposito rilasciato dall’autorità giudiziaria, o di polizia che istruisce il processo, e ponderati gli indizii raccolti contro l’imputato (2) . Se si debbe visitare il domicilio di alcun cittadino per sorprendere oggetti criminosi, o scoprire le tracce di alcun reato, la legge proteggendo per quanto può l’asilo domestico, non permette che vi si penetri se non in speciali e designati casi, e minaccia di sospensione l'uffiziale di polizia giudiziaria che contravvenga alle sue disposizioni (3) . Ella vuole inoltre che l'uffiziale sia assistito da due testimoni, che inviti colui nella cui casa si rovista ad esservi. presente, ed in mancanza alcuno dei suoi parenti, familiari, o vicini, e che trovandosi carte o oggetti meritevoli di ricerche, gli si mostrino perché le riconosca, e le segni del proprio carattere, e si ravvolgano e raccomandino con strisce, sulle quali s’imprimono dei suggelli (4) . Poscia che l’imputato è arrestato, viene immediatamente interrogato, ed informato demotivi del suo imprigionamento. Le sue risposte come le sue discolpe sono registrate per indagarsi così sui fatti a carico che sulle giustificazioni (5) . Della esecuzione di ogni mandato di deposito tra le 24 ore si dà informazione alla Gran Corte criminale, la quale, esaminate le pruove sino a quel punto raccolte o sul processo stesso o sul rapporto dell’inquisitore, delibera se vi ha luogo a confermare o rivocare il mandato, tenendo anche presenti le memorie delle parti (6) . Nei fatti però qualificati di alta polizia, come le reità di Stato, le riunioni settarie, e le fazioni, la polizia ordinaria è rivestita ancora delle attribuzioni di polizia giudiziaria, e può procedere all’arresto delle persone prevenute di tali misfatti anche fuori i casi di flagranza, ritenerle a sua disposizione oltre le 24 ore, e compilare essa medesima le istruzioni (7) .

Qualora h Gran Corte criminale confermi l’arresto dell'imputato, compiuta che sia la istruzione delle pruove, il Procurator generale presso la medesima, se crede bene assodata la pruova, formola il suo atto di accusa, e io deposita nella Cancelleria della Gran Corte ((8) ) . Allora l’imputato è nuovamente interrogato sui capi di accusa. Questo secondo interrogatorio dicesi costituto, e non debbe confondersi col primo che segue la cattura ((9) .)Egli ha inoltre facoltà di presentare memorie scritte, affinché sieno dai magistrati valutate nel decidere sull’accusa ((10) ) . La Gran Corte esamina il processo, vede se vi sieno indizii sufficienti di reità, e delibera se siavi luogo ad ammettere o pur no l’accusa ((11) ) . Ove questa resti ammessa, è prescritto, e lo si pratica costantemente, che si notifichi in copia all’imputato l’atto stesso di accusa.

Questo è propriamente il tempo in cui l’intero originale processo e tutt’i documenti ed oggetti di convinzione che vi sono relativi, sono depositati nella Cancelleria della Gran Corte, e divengono pubblici così pel difensore che pe’ congiunti ed amici dell’accusato ((12) ) . Da tal punto questi può liberamente conferire col suo difensore, e se non ne sia provveduto, o non abbia mezzi di procurarselo, glie n’è tosto destinato uno di uffizio (13) . Gli avvocati del foro napoletano, conviene render loro questa giustizia, si pregiano di accettare con nobile disinteresse siffatte difese, e vi spiegano lutto lo zelo che si dee, come se trattassero le cause dei loro più cari. Quindi si apre un termine di cinque giorni onde allegarsi tutt’i mezzi d’incompetenza ojdi nullità di atti, e chiedersi gli esperimenti di fatto di cui può essere capace la natura del reato, e delle vestigia che il medesimo ha lasciate (14) . Appresso accordasi un altro termine di 24 ore, nel quale il ministero pubblico presenta la lista de’ testimoni, e l’accusato le sue posizioni a discolpa e la nota de’ proprii testimoni (15) . Tra altri due giorni è dato opporre l’eccezioni di ripulsa contro ciascuno de’ testimoni, indicandosene le pruove (16) e dopo che si è giudicato su tutto ciò, si destina il giorno per procedersi alla pubblica discussione (17) . Quivi, presenti tutt’i giudici che debbono pronunziare sull’accusa, aperte le porte al pubblico, e con l’intervento del Procuratore generale, dell’accusato, e del suo difensore, si procede alla disamina di tutte le pruove orali o scritte, si ascoltano i testimoni, i quali sono dapprima esortati a dire il vero sotto la santità del giuramento, e lo prestano innanzi la G. C., si leggono i documenti, e si ricevono tutte le spiegazioni e dimande che si vogliano fare, sulle quali si ha il debito di deliberare, e far palese il deliberato.

Compiuta la discussione delle pruove, sorge il Procurator generale a riassumerle, presenta le sue osservazioni, e secondo il proprio convincimento può chiedere o l'assoluzione del reo, se trovi che l’accusa non è abbastanza comprovata, o la condanna di lui. Hanno quindi la parola gli avvocati, e da ultimo lo stesso accusato, perché le ultime voci innanzi alla decisione sieno quelle della difesa. La Corte immediatamente si ritira in disparte, e va a giudicare; né può sciogliersi se non dopo che, rientrata nella sala delle udienze, avrà fatto leggere dal Cancelliere ad alta voce la sua decisione (18) .

Queste disposizioni legislative, che noi abbiamo arrecato colle parole stesse del codice di procedura penale napoletano, mostrano quali e quante garantie sono stabilite a proteggere la innocenza, forse più che a scoprire la reità. Tre volte fassi accurata disamina degl’indizii raccolti contro un imputato, e quando si spedisce il mandato di deposito, e quando se ne conferma lo arresto, e quando Io si accusa; e compiuti questi stadii, si passa alla solenne e pubblica discussione di tutte le pruove si contrarie che favorevoli all’accusato, e si decide sulla sorte di lui.

Tali salutari prescrizioni sono comuni così alle Gran Corti criminali che alle Gran Corti speciali, tranne che per le Corti speciali i termini sono più brevi tanto per prodursi il ricorso per annullamento alla Corte Suprema di giustizia avverso la decisione di competenza speciale, che per inoltrarsi le dimande di sperimenti di fatto e le difese, e darsi le liste de’ testimoni (19) . Ad assicurare però la retta amministrazione della giustizia, nelle Corti speciali intervengono otto giudici laddove nelle Corti criminali prendono parte soltanto sei giudici (20) . Nella parità dei voti prevale l’opinione più favorevole al reo così nelle dette Corti che nelle speciali (21) ; e se contro le decisioni di condanna profferite da queste ultime non si dà il rimedio del ricorso per annullamento, lo si ammette però nella sola parte che risguarda l’applicazione della legge, quante volle si tratti di condanne a pene capitali o perpetue pronunziate a sola maggioranza, e senza il concorso di sei tra gli otto giudici votanti. Né debbe supporsi, come forse crede taluno poco conoscitore delle leggi del paese, che le accennate Corti speciali (22) sieno corti straordinarie, perocché la istituzione di esse non è nuova, ma forma parte integrale così della Legge del 29 maggio 1817 sull’ordinamento del potere giudiziario che del codice penale e di procedura pubblicato nel 1819. Sono le stesse Gran Corti criminali che assumono il titolo di Gran Corti speciali ((23) )e procedono nei casi stabiliti dalla legge, cioè nei reati contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato, in quelli riguardanti le associazioni settarie con vincolo di segreto, nei misfatti di falsità di monete, di carte bancali, di decisioni delle autorità, di suggelli e bolli dello Stato, e nei misfatti di pubblica violenza, e di evasione dai luoghi di pena o di custodia (24) . Laonde esse non hanno nulla di comune coi tribunali straordinarii o colle giunte di Stato di un tempo, né colle Commissioni Supreme di poi istituite per la repressione de’ reati politici, ed abolite dalla sapienza del Re con decreto del 1° luglio 1846. Sono Corti composte di magistrati ordinarii, a’ quali per dippiù lo stesso codice conferisce il diritto prezioso di raccomandare il condannato alla clemenza Sovrana (25) .

Qualunque sia rischiarato da queste disposizioni legislative in piena osservanza, non potrà aggiustar fede a’ lamenti che indebitamente si muovono nelle lettere del sig. Gladstone sull’organamento del Governo Napoletano per ciò che concerne la giustizia. Potrete per esempio credere che si arrestano i cittadini senza ordini scritti ed a piacere del Prefetto di Polizia, quando questi ed i suoi agenti sono dalla legge chiamati ad esercitare la polizia giudiziaria nella Capitale, ad investigare e scoprire i reati, ad assicurarsi de’ prevenuti di essi? Potrete rattenere il riso in leggendo quella sperticata falsissima esagerazione, che cioè s’incarcerano uomini a ventine, a centinaia, a migliaia, come se fosser tordi o altro di peggio, mentre lo stato ultimo delle prigioni di Napoli e delle provincie non oltrepassa la cifra di 2024 detenuti per reati politici, senza diffalcarsene quelli che sono stati di poi messi in libertà sia per giudicati delle Gran Corti, sia per effetto del decreto di grazia del 30 aprile del volgente anno, o di altri atti di clemenza Sovrana (26) ? Potrete persuadervi che un detenuto sia interrogato senza atto di accusa, e senza che si sieno uditi testimoni, mentre la udizione di questi precede la cattura, tranne i casi di flagranza, e l’accusa sussiegue, e non precede l’interrogatorio? Crederete che i prigionieri politici sieno quindici, venti, trentamila, e che nel processo del 15 maggio 1848 gli accusati ascendano a quattro o cinquecento, mentre l’autore stesso mostra la incertezza delle sue notizie, non facendo alcun conto se i detenuti per reati di Stato sieno quindici o trentamila (non oltrepassano i 2024 come testé si è accennato) e mentre tutti ormai conoscono che gli accusati del processo del 15 maggio non sono più che trentasette? (27) Ma l’autore afferma su questo particolare essere una credenza generale che il numero de’ prigionieri politici nel reame delle due Sicilie possa variare da’ quindici a trentamila. E quale n’è la giustificazione? Nessuna altra che le asserzioni di coloro che si compiacciono parlare a nome della pubblica opinione, a nome del paese, com’è proprio di tutt’i demagoghi, quando non esprimono che i loro odii e disfogano in nere calunnie il loro fanatismo politico. L’autore ha quindi il merito di avere pubblicato le più false notizie, e di avere messo in non cale tutto ciò che avrebbe potuto illuminarlo sulla reale condizione e sul numero de’ prigionieri politici. Se si fosse indirizzato al Governo, gli sarebbe stato agevole consultare anche il registro delle carceri, ed accertarsi co’ proprii occhi della vera cifra de’ detenuti. Allora soltanto avrebbe potuto dire: io ho veduto e toccato con mano.

Che dire del modo come l’autore travolge la istituzione delle Gran Corti speciali? Suppone che dovendo giudicare una Corte speciale, si abbrevia il processo colla omissione di molte forme, la maggior parte utili per la difesa dell’accusato. Perciò in questo caso ben quaranta persone furono private de' mezzi di difesa per lo scopo di far presto. Davvero può dirsi in sul serio che subitamente fu trattata la causa della setta denominata l’Unità Italiana, cui allude l’autore, mentre vi s’impiegarono meglio che otto mesi, e furono consacrate venticinque intere tornate alle aringhe degli avvocati, ed alle perorazioni di taluni degli stessi accusati che vollero la parola! Con fatti così bugiardi no non potrassi mai preoccupare la pubblica opinione, e meno spargere la credenza che pessimamente nelle due Sicilie si amministri la giustizia!


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 IV

Del trattamento de’ detenuti nelle carceri di Napoli.

Tra la cattura di un imputato ed il pubblico giudizio intercede un periodo di tempo, talvolta non breve, nel quale o si dà opera alla istruzione delle pruove, non reputandosi sufficienti le prime raccolte, o alla riunione di altri processi, e di altri imputati, quando trattasi di un avvenimento stesso cui molti hanno partecipato. In questo frattempo la sorte de’ prevenuti è indecisa, poiché non si sa s essi risulteranno rei od innocenti, ed essa forse per tal rispetto richiama le cure e la filantropia dell’autor delle lettere. Il quale si rattrista e si conturba ripensando allo squallore ed al sudiciume delle prigioni di Napoli. Sa de’ gamorristi, uomini i più famigerati per audacia nel misfare, e che esercitano una specie di autorità: non nega che il pane che loro si dà, comunque ordinario, è però sano, e dice la minestra, che forma l’altro elemento di sussistenza, nauseabonda. Noi vogliamo per poco concedere che trista e non del tutto monda sia quella dimora dove molti, e di condizione la più parte plebea, sono obbligati a vivere, ma non possiamo che respingere tutta altra supposizione. Il sig. Cochrane che volle improvvisamente visitare le prigioni di Napoli, fecesi più favorevole idea della tenuta delle medesime. Ed in fatto al reggimento interno di tali luoghi sovraintende una Commessione preseduta dall'intendente della provincia, e che prende ogni cura del nutrimento e della salute de’ detenuti; ai quali se il Governo somministra un alimento abbondante ma non squisito, vuolsi intendere di coloro trai prigioni che sono privi di altri mezzi, perocché gli agiati possono aversi quel pranzo e quei reficiamenti che meglio loro talenta, e sono in ciò largamente secondati dai custodi. Mal poi potrebbe credersi, senz’alcun fatto positivo, che i medici di ufizio non si recano a visitare i prigioni malati, e che i medesimi colla morte sul viso si arrancano sulle scale di quel carnaio della Vicaria? L’onoranda classe de’ medici Napoletani si è mai sempre distinta per sapere, per disinteresse ed umanità. Coloro che sono destinati ad aver cura della salute degl’infelici prigioni, compiono scrupolosamente il loro ufizio senz’altro impulso che il sentimento del proprio dovere, la compassione per l’umanità che geme, e se vuolsi ancora, un sublime pensiero di religione, che in Napoli forse più che in ogni altro luogo nobilita ed eleva le più comunali azioni ad un’alta sfera di virtù. E questa religione medesima, la quale non ha più bel precetto di quello della carità fraterna, muove tanti pii sacerdoti e claustrali a visitare a quando a quando il voluto carnaio, arrecandovi il conforto di quella parola che ha il potere di mutare i cuori, e di far soffrire con rassegnazione le pene della vita. Quivi, non sono molti mesi decorsi, che vi penetrava anche quel venerando Pastore, il Cardinale Arcivescovo di Napoli, del quale è gran ventura che lo scrittore, acerbo verso tutti, dica voler credere che egli è lungi dal partecipare, od anche dall’approvare degli atti indegni del suo carattere. Egli spandeva sul cuore di quei detenuti il balsamo de’ precetti evangelici, e quello delle sue beneficenze, e colla sua presenza in quella pretesa bolgia smentiva innanzi tempo le bugiarde descrizioni dell’autore delle lettere.

Ma a costui che tanto di falso e d’iniquo si è detto contro l’onore del proprio paese, doveasi tacere un umanissimo provvedimento del Regnante Sovrano. Il quale come ascese sul trono degli avi suoi, volse le prime sue cure ad immegliare gli alberghi della pena, e fece tostamente chiudere e colmare quei dolenti sotterranei cosi detti criminali, che appo noi ed altri popoli (che forse li hanno ancora) faceano brutta testimonianza della rozzezza e barbarie de’ tempi feudali ((28) ) . La Vicaria una volta palagio del Vicario del Re, ed ora luogo ove si amministra la giustizia civile, penale e commerciale è il convegno in tutt’i giorni delle prime notabilità del foro, e di tutti coloro che vengono a trattarvi affari. Essa non asconde più alcun luogo di buia e sotterranea detenzione, onde tanto si addolora l’autore, né il potrebbe accessibile com’è agli sguardi di tutti ed in luogo popoloso della capitale.

Egli però non ha potuto vedere che provvisoriamente nel carcere della Vicaria i detenuti politici, de’ quali vivamente s’interessa. Costoro da più di un anno sono stati separati dai prevenuti di reati comuni, ed allogati nella casa di custodia detta di S.(a)Maria Apparente, la quale è sita nel più pittoresco luogo di Napoli, cioè in cima della collina di S. Martino, prospettando da una parte il mare, e dall’altra la vaghissima città che le sta come a piedi. Soltanto in tempo in cui si trattano le cause, gl’imputati politici che ne sono l’obbietto, rimangono alla Vicaria ove siede la Gran Corte speciale, perché molto tornerebbe loro incomodo venirvi ogni dì da S.(a)Maria Apparente; e que’ che sono infermi o di vacillante salute si stanno nell’ampio Ospedale di S. Francesco presso la porta Capuana.

Né più esatta di quelle finora discorse è la notizia che Michele Pironti dal 5 dicembre al 3 febbraio del volgente anno abbia passato le intere giornate e le lunghe notti in una cella della Vicaria della superficie di due metri e mezzo sotto il livello del suolo di essa, e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non poteva veder nulla. Il sig. Gladstone, il quale annunzia di avere assistito a parecchie tornate della Gran Corte criminale e speciale di Napoli nel giudizio a carico del detto Pironti e di altri accusati di partecipazione alla setta della Unità Italiana, dovea sovvenirsi d’una circostanza che seguì le ultime parole, colle quali il Procurator generale chiedeva la condanna nel capo del Pironti e di altri cinque individui. Levatosi costui in piedi, chiedeva al Presidente ed alla Gran Corte che si dassero ordini ond’egli dopo la capitale requisitoria non fosse ristretto in modo da mancare de’ mezzi a preparare la sua difesa. Gli fu risposto che la direzione delle prigioni, pei regolamenti da lunghi anni in vigore, dipendeva da una speciale Delegazione retta da uffiziali di Polizia ordinaria, i quali sapevan conciliare i riguardi per l’esercizio del sacro dritto della difesa colla maggior vigilanza che suole spiegarsi su coloro che sono sotto giudizio capitale. Né Pironti fu rimosso dal luogo ove trovavasi nel corso della discussione della causa, né mancò di mezzi per preparare una elaborata aringa in risposta alla requisitoria del Procurator generale. Egli lesse riposatamente, com'è suo costume, il preparato lavoro, ed i Giudici furono religiosi nel seguirlo in tutti i suoi argomenti, comeché quasi tutti fossero stati già annunziati e svolti dall’egregio suo avvocato. L’autor delle lettere ha il merito di aver tramutato un timore del Pironti in un fatto compiuto, e che non poteva avvenire stante la inesistenza di qualsivoglia cella sotterranea; e sì che sillogizzando egli in così strana guisa potrà dare per esistenti tutt’i possibili!

Se non che egli arreca a conforto de’ suoi detti un altro esempio di buia e sotterranea detenzione di un certo Barone Porcari, rinchiuso nel maschio d’Ischia posto ventiquattro piedi, o palmi (non sa più che cosa dire) tolto il livello del mare. Ma questo così detto maschio non è mica al di sotto del livello del mare, né può esserlo se facciasi attenzione al significato che dassi a questa parola. Il maschio di un castello costituisce la piazza ove i soldati si esercitano al maneggio delle armi nell’interno del forte. Or si sa da quelli del paese che nella parte più elevata del Castello d’Ischia sorge il luogo denominato maschio, ove permettesi a’ condannati di passeggiare. Dall’un de’ lati poi vi sono delle capaci stanze, nelle quali rinchiudonsi quei condannati che van soggetti a misure disciplinari come violatori de’ regolamenti del bagno. L’esempio quindi arrecato dall’A. non ha neppure il pregio di corrispondere alla naturale situazione de’ luoghi. Dal che è agevole argomentare di quali svarioni e granchi sieno zeppe le famose lettere.

V

Condanna di Carlo Poerio e degli altri accusati di appartenenza alla setta denominala l’Unità Italiana.

L’Autore delle lettere passa poi di proposito a toccare del caso di Carlo Poerio, e di qualche altro. Egli ne discorre lungamente non togliendo altra guida (credereste quale?) che la difesa stessa dell’accusato. E perché ci si creda senz’alcuna esitazione, vogliamo arrecare le parole stesse dell’autore: merita attenzione, ei scrive, la storia del suo arresto quale ce la narra egli stesso (cioè il Poerio) nella sua allocuzione ai giudici agli 8 febbraio 1850. E conchiude cosi; raccolsi questi particolari dal Poerio stesso nella sua difesa. Ogni uomo di buon senso a qualsivoglia nazione si appartenga, sotto qualunque forma di Governo ei viva, si sarebbe ricordato di certi dettami di giustizia universale, anzi diremo meglio, di buon senso, secondo i quali non puossi giudicare del buon diritto dell'uno senza sentire le ragioni dell’altro, e senza farvi intervenire un terzo che decida sulle opposte pretensioni delle parti contendenti.

Nel caso presente, chi non sarà preso di maraviglia e di stupore nel vedere che si accusa un Governo di arbitrarii giudizii, ed un collegio di magistrati d’iniqua sentenza sul fondamento delle assertive dello stesso accusato? Ma non vedete che questa è propriamente la difesa? Che dovete porci a riscontro l’accusa? E che ponderar pur vi conviene il giudicato, che non interamente ammise l’accusa, ma segnò la linea che la giustizia esigeva, dichiarando il Poerio settario, ed escludendo per la dubbiezza delle pruove l’altro più grave carico di cospirazione contro il Governo, comeché non lievi indizii se ne avessero? Ovvero ci sarebbe una nuova ragione, per la quale dovesse aggiustarsi fede alle parole ed ai sottili argomenti di un imputato, e non ritenere il giudizio di uomini esercitati nell’arte di giudicare, avvezzi a discernere i colpevoli dagl’innocenti, ammaestrati anche per l’esperienza a scoprire le arti subdole e tenebrose onde i settatori si sono sempre celati, e infinti uomini onesti? Ma voi, onorevole sig. Gladstone, vi sbarazzate di tutte le obbiezioni che non avete potuto dissimularvi, chiamando schiavi i giudici napoletani, e fate lor grazia a non crederli mostri: li ponete per dottrina e per morale al di sotto dei membri del foro; li dite mal pagati ed esposti al capriccio di esser rimossi a talento del Governo, e per tutta prova citate l’esempio di un magistrato ottogenario dismesso, e di taluni giudici di Reggio gastigati, perché dovettero decidere sopra qualche caso, come voi dite, relativo alla malagurata costituzione.

Se le glorie della magistratura napoletana vi si fossero un poco narrate, non avreste serbato questo linguaggio, la cui infamia ricade unicamente su coloro che ve l'hanno suggerito, e cui troppo ciecamente avete voluto prestar fede. La magistratura fedele alle sue tradizioni accorda la sua stima all’onorando ceto degli avvocati, e sovente accoglie nel suo grembo quelli che sono degni del sacerdozio di Temi per sapere e per virtù, e però non discende a paragonarsi con. coloro che reputa suoi ausiliari.

Essa sa che, seguendo i dettami della propria coscienza, e non cedendo alle passioni del tempo o all’influenza di perniciosi errori, il Governo rispetterà sempre questa prima garantia delle società civili, la giustizia. Quel magistrato ottogenario cui alludete, non fu rimosso di ufizio per aver deciso di una causa di contravvenzione alla legge sulla stampa, come supponete, ma per altre e ben gravi e giuste ragioni che fia meglio non ridire, e ciò nondimeno gli fu conservata buona parte degli averi. Tre solamente de’ giudici di Reggio furono messi in attenzione di destino con la metà dello stipendio. Essi decisero non già di alcun caso relativo alla malagurata costituzione, come voi dite, ma di taluni gravissimi fatti occorsi nelle Calabrie agitate da’ demagoghi, i quali dopo la sconfitta del 15 maggio recarono colà la guerra civile. Ma questi speciali provvedimenti, che il Governo ha creduto adottare, non possono fornire la dimostrazione della schiavitù in cui osate dire che gema la magistratura. Fatti recenti e troppo luminosi vi avrebbero dovuto far meglio apprezzare quanto essa ubbidisca alla propria convinzione, anziché ad alcuna estranea influenza. La solenne decisione della causa sulla setta dell’Unità Italiana ve ne oltre il più splendido argomento. In questa causa, che vi fu detto esser opera della Polizia, e per la quale tanto vi addolorate sino a scrivere molte carte, avreste dovuto osservare che di otto giudici, quattro ebbero la fermezza, non già di assolvere parecchi degli accusati, ché noi potevano dove le pruove erano parlanti, ma di seguire i dettami del proprio criterio morale e della scienza legale, dando alla reità di essi la conveniente definizione, e tale che loro salvava la vita e li assoggettava ad altra pena. E per venire ai particolari della rammentata causa, vogliamo notarvi che gli otto giudici componenti la Gran Corte speciale di Napoli furono concordi nel proclamare la esistenza della settaria associazione sotto il titolo dell’Unità Italiana, perocché non potea loro offrirsi maggior pruova di quella degl’impressi catechismi, e de’ dissepolti diplomi co' nomi ancora degli affiliati. Dichiararono quindi all’unanimità colpevoli di appartenenza alla stessa Faucitano, Agresti, Settembrini, Barilla, Nisco, Pironti ed altri. Ne convinsero anche Poerio con sei voti, e non cinque, come erroneamente dite nelle vostre lettere; e se voi che vi mostrate a parte delle segrete cose, bene o male riferitevi, foste stato più accurato nel versare sulla faccenda, avreste conosciuto che niuno de’ due giudici dissenzienti pensò mai di assolvere il Poerio, dappoiché essi che dubitavano della forza delle pruove per la sua partecipazione alla setta, trovarono però validi elementi per ritenerlo, come il dichiararono, colpevole d’intelligenza nell’ordita cospirazione contro il Governo, e di omessa rivelazione, fatto che le leggi penali di Napoli puniscono di reclusione (29) .

Per le accuse capitali a carico del Pironti e del Nisco, quattro de’ giudici opinavano per una reità minore e per la pena de' ferri, anziché per l’ultimo supplizio, e siffatta parità, stante la umanità delle leggi, si risolveva a favore de’ rei, e formava la decisione. Per la parità medesima Barilla anziché soggiacere alla pena del capo, incontrava quella dell’ergastolo, e Settembrini escluso dalla qualifica di capo della setta, veniva per un voto dippiù dichiarato cospiratore e dannato all’ultima pena. Agresti, con la maggioranza di cinque voti, e come capo della setta e come cospiratore, andava incontro alla pena medesima. Solo Faucitano richiamavasi sul capo il concorso di sei voti per l’ultimo supplizio. Or non è questa la pruova la più irrecusabile che i giudici han seguito le ispirazioni della propria coscienza, anziché quelle che calunniosamente si attribuiscono al Governo? Il quale seguendo sempre le vie della giustizia, che forma il vero sostegno dei troni, lungi dal chiamare ad esame una votai difformità di voti, ha reso omaggio al delicato sentire dei magistrati che così hanno opinato, pubblicando sul Giornale uffiziale i risultamenti del giudizio stesso (30) . Né questa è la sola causa in cui i magistrati han dato pruova di esser fedeli alla propria coscienza. L’Autore che tanto sa addentro nelle cose di Napoli, tace di altre cause politiche nelle quali a sola maggioranza di voti parecchi imputati sono andati soggetti a pene più miti, ed altri del tutto assoluti, e rimessi in libertà.

La credenza quindi che il Poerio, il cui caso (secondo l'autore delle lettere) era pur bello per giudici Napoletani, sarebbe stato assoluto in una divisione di quattro giudici contro quattro, è fondata sopra falsi supposti. Sempre il Poerio sarebbe stato condannato: ai ferri per voto de’ sei giudici decidenti, alla reclusione per voto degli altri due, a meno che per lui non avessero dovuto prevalere quelle simpatie, alle quali non si mostra estraneo lo scrittore quando dice: né dei nomi da me mentovati avvene alcuno più caro alla nazione inglese, forse ninno così caro, com è quello di Carlo Poerio a suoi concittadini Napoletani. (31) Ma le simpatie come gli odii non debbono penetrare nel santuario della giustizia e turbarne la serenità. Anacarsi derideva Solone, tutto inteso a far leggi, quando le paragonava alle tele di ragni acconce a rattenere i piccoli insetti, facili ad essere infrante da quelli più grandi (32) . Sarebbe tornato per avventura gradito che si rinnovasse cotal riso pei caso di Poerio? ma avrebb’egli avuto maggiori diritti innanzi alla giustizia al paragone di tanti sciagurati da lui tratti in ruina? O nei tempi in cui si predica l’eguaglianza, e si fa tanto rumore sui diritti dell’uomo, vi sarebbero due pesi e due misure?-..

Ma lo scrittore non per questo desiste dal suo proposito, ed afferma essere il Poerio strettamente partigiano della forma costituzionale, e non averlo udito mai accusare di altro errore politico, che di quelli che si potrebbero imputare ai più leali, intelligenti e degni statisti Inglesi. Non fu per questo desiderio delle forme costituzionali che venne il Poerio raggiunto dalla giustizia, e molto meno per la corrispondenza col Marchese Dragonetti della quale si parla nel corso delle lettere. Egli fu imprigionato, accusato e condannato a’ ferri per avere occultamente partecipato ad una criminosa associazione, la quale sotto il prestigioso nome della Unità Italiana aveva per iscopo di attentare al Governo; e non si tenne conto dai giudici di altre sue delittuose pratiche, e dell’appostagli qualità di uno de’ capi della setta, dacché le pruove non erano bene assodate. Lo scoprimento di cotal rea appartenenza non risale punto al tempo in cui il Poerio fu da’ circoli gridato Ministro della Corona, ed il fu (lo sappian tutti) per ventotto giorni dal 6 marzo al 2 aprile del 1848, e del solo dipartimento della pubblica istruzione, ma é un fatto che si scontra nell’epoca posteriore a quella in che, conquisa la ribellione nelle strade della Capitale, gli agitatori non avendo più coraggio di mostrarsi alla svelata, si rifuggirono tra le ombre e nel mistero della setta. E dunque falso che l’accusa del Poerio si riferisca ai pochi giorni del suo così sovente invocato ministero. Né egli ebbe mai l’alto ufizio di primo ministro, come il qualifica Lord Palmerston, né pervenne a quello stesso della pubblica istruzione per splendidi servigi renduti allo Stato o per opere date alla luce, ché innanzi al 1848 ei modestamente visse in mezzo al foro penale tra gli avvocati non di primo grido, e poi subitamente ascese al potere per l’imperio di ineluttabili e momentanee circostanze.

Le pruove raccoltesi a carico dell’anzidetto Poerio non restringonsi a quelle additate dallo scrittore, e delle quali egli fa sì pessimo governo. Esse sono non poche, e tutte di grave momento per chi si faccia attentamente a considerarvi leggendole distesamente nella decisione a stampa, ch'è alle mani di tutti. Soltanto non possiamo passarci dal far notare che quella Polizia, ch'è tanto acremente combattuta nelle lettere, fu sì generosa e longanima verso il Poerio da non imprigionarlo sulle prime deposizioni di Luigi Jervolino, e soltanto il raggiunse quando per la scoverta presso del tipografo Gaetano Romeo di parecchi esemplari del catechismo della setta, di molti proclami ed altre carte criminose, non vi fu dubbio alcuno che la setta vivea e tendeva insidie al pubblico riposo. Aggiungi che lo stesso Romeo veniva ad aggravar la situazione del Poerio, dichiarando che in casa dell’Arciprete Antonio Miele, avea udito a parlare dell'appartenenza di Poerio, di Settembrini e di altri alla setta medesima. E più tardi il siciliano Margherita, tratto da Siracusa in prigione a Napoli, ed ignaro de’ processi che si erano già formati, veniva con spontanee rivelazioni a dar conferma alle Cose tutte già registrate nelle carte processuali, e a dichiarare specialmente come il Poerio avea partecipato alle riunioni che tenevansi in casa dell’Agresti.

Né regge alla critica la circostanza che il Jervolino non avrebbe potuto svelare nel 29 maggio 1849 alcuna colpa del Poerio quando costui era già in possesso sin dal 22 dello stesso mese di una sua denunzia scritta, perocché se il Poerio da tale epoca in avanti rimase avvertito di guardarsi dalle visite del Jervolino per sconcertarne le investigazioni, non potè però distruggere e le precedenti dichiarazioni del Jervolino medesimo, ed i fatti avvenuti nell’anno anteriore, cioè ne’ mesi seguenti al maggio del 1848, tempo in cui esso Jervolino gli fece la inchiesta di essere ascritto alla setta, e così scoprì lui e gli altri comproseliti.

Ma l’onorevole sig. Gladstone assicura aver egli stesso udito discutersi molte ore nel Tribunale la testimonianza del Jervolino, il che prova quanta cura si ponga nelle Corti di giustizia di Napoli a sceverare il vero dal falso. Ei però tace con quale aggiustatezza il testimone rispose alle reiterate interrogazioni direttegli dagli accusati, e segnatamente dal Poerio, e come si tenne fermo non pure ai loro sarcasmi, ma anche ai mezzi adoperati per trarlo in errore. Se Jervolino è uomo senza grado e carattere secondo l’autor delle lettere, s’è un chieditor frustato di basso impiego, come spiegarsi che quest’uomo di poca intelligenza è sempre uniforme alle diverse sue dichiarazioni, non cade in alcuna contraddizione, disvela come s’introdusse nella casa del Poerio, sin dacché questi era al potere, come conobbe i particolari della vita di lui, e per quali vie pervenne a scoprire le tracce della criminosa associazione. No, non è possibile supporre che alcuno deliberatamente mentisca e calunnii quando con tante circostanze particolareggia i fatti, e non ha alcun motivo di odio, e men sete di vendetta!

La deposizione del Jervolino non è il solo elemento su cui riposa la condanna del Poerio, ché oltre gli argomenti dianzi accennati, molti altri possono riscontrarsi nella sua sentenza anziché nella difesa, dove con esempio tutto nuovo lo scrittor delle lettere ha supposto poter trovare tracce d’innocenza. Oltreaché egli stesso il Poerio improvvidamente arrecava in mezzo le pruove della sua reità, discorrendo i precedenti della sua vita politica, che riteneva come onorevoli (33) , e che lo saranno sol quando il cospirare tacitamente contro i Governi costituiti sarà una gloria anziché un reato de’ più esiziali alla sicurezza interna. I nostri tempi, comeché abbiano addotto un fetale travolgimento d’idee su questo proposito, non hanno però potuto elevare ad eroismo l'attentare al pubblico riposo; e quegli accusati pe’ fatti delle giornate di giugno in Francia, i quali nel difendersi pretendeano impudentemente fare l'apologia del diritto d’insurrezione, furono così essi che i loro avvocati severamente ammoniti da’ giudici, e venne loro ricordato che la difesa comeché libera non può trascorrere in un campo di massime sovvertitrici di ogni civile reggimento.


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VI

Legalità ed umanità con che fu eseguita la decisione nel discorso processo della unita' italiana.

Tutt’altroche regolare e conveniente ad un popolo cattolico e civile suppone lo scrittore delle lettere che sia stata la esecuzione data alla decisione nella causa della setta dell’Unità Italiana, ch’egli ama meglio chiamare causa del Poerio, tanta è la simpatia per lui anziché per gli altri sciagurati dannati a pene più dure, sia perpetue, sia temporanee. De’ 42 accusati per cotale associazione due, com’è noto, cioè il Leipnecher ed un certo Brancaccio pagarono il tributo all’umana natura nel corso del giudizio, i tre per nome Faucitano, Agresti e Settembrini furono dannati all’ultimo supplizio; Barilla e Mazza all’ergastolo; Nisco e Margherita, quegli che fece tante rivelazioni a danno de’ suoi coaccusati, a trentanni di ferri; Catalano, Vellucci e Braico a 25 anni di ferri; Poerio, Pironti, Romeo a 24 anni di simil pena; altri dieci accusati a 19 anni di ferri; due a sei anni di rilegazione; cinque ad un anno di prigionia; uno a quindici giorni di detenzione, un altro a ducati cinquanta di multa; ed otto furono messi in libertà provvisoria. Questa gradazione di pene per un uomo scevro di passioni è grande argomento della giustizia serbatasi da’ giudici; ma l’autor delle lettere non vi bada, e solo è vago di annunziare che quelli assolti erano tuttavia in carcere— Menzogna come le altre imboccatagli da quei che sono usi a sconoscere i beneficii! Non vi ha in Napoli chi non sappia essersi dopo due giorni data piena esecuzione alla decisione. I tre sciagurati condannati nel capo ottennero la grazia della vita, e furono invece spediti all’ergastolo, ch'è un luogo di reclusione a vita nel forte di una isola. Quelli ch'ebber condanna ai ferri, partirono pel loro destino nel tempo medesimo che ricuperarono la loro libertà quelli assoluti. I cinque poi dannati ad un anno di prigionia, cominciarono appena ad espiare siffatta pena che loro fu condonata dal Re col decreto di grazia del 30 aprile di questo anno, decreto che a. tanti altri detenuti o condannati ha dischiuso le prigioni. Laonde di quaranta accusati già quindici sono in libertà, venticinque espiano la loro pena, ma con quella umanità ch'è propria del Governo Napoletano. A comprovar la quale, basta accennare che niun patibolo ha fatto sinora innalzare dopo le memorande rivolture del 1848, e che ha dato non uno ma molti generosi esempi di magnanimità e di clemenza. Né per Napoli possonsi addurre, come per altri Stati travolti dal turbine delle procelle politiche, gli stati di assedio, i giudizii statarii, o le deportazioni in massa di migliaia di cittadini, e neppure i consigli di guerra, co’ quali la Francia repubblicana giudica di presente del complotto di Lione.

Ma suo malgrado lo scrittore delle lettere convien che riconosca l’umanità del Governo Napoletano — Ei dice sembrargli che una legge od usanza napoletana provvegga umanamente che quando tre persone sono condannate nella vita, non si esegua la sentenza che sovra una; che però ciò si era dimenticato dai giudici, e scoperto solo dal Procurator generale, o da talun altro dopo che la causa era finita, I giudici non potevano obbliare ciò che sarebbe stato una delle prime nozioni del loro ufizio, né il Procurator generale additò loro alcuna legge od usanza cui allude l’autore. Se non che nello statuto penale militare si prevede il caso della condanna di molti all’ultimo supplizio, e se ne restringe umanissimamente la esecuzione a pochi con prestabilite norme che in quella legge sono descritte (34) . Nel caso presente un Sovrano Rescritto dato sin dal 30 novembre 1850 annunziava esser benigno volere del Re che, ove la Gran Corte avesse dannato alla pena estrema più accusati come capi della setta o come cospiratori, la Corte stessa avesse designato se sovra uno o due di tali sciagurati dovesse cadere la fatale esecuzione, secondo i varii casi figurati in quell’atto sovrano. Ciò comandava il Re mosso dall’animo suo clementissimo, aborrente dal sangue, ed inteso a prevenirne la effusione. Ma i giudici convocati a deliberare sopra ciò erano ripugnanti, per quanto udimmo, a fare alcuna designazione, manifestando che la scelta nell’esercizio prezioso dell’eminente diritto di far grazia era superiore alle loro ordinarie attribuzioni. Nulla di meno vinti dall’autorità del Sovrano comando, e rispondendo alla fiducia che il Re poneva nella loro religione, espressero concordemente il parere che se, a correggimento de’ tristi e per pubblico esempio, dovesse sopra alcuno alzarsi la scure del carnefice, il Faucitano sarebbe stato il più gravato come quegli che, secondo esprimevasi la Corte nella decisione messa a stampa, dagli atti immateriali era trapassalo a que’ materiali e di esecuzione. Ed in vero egli fu quell’ardito settatore che dopo di aver tentato con bottiglie incendiarie di riprodurre in Napoli le sanguinose scene di Vienna e di Roma, diede di propria mano opera all’esplosione di un apparecchio a guisa di bomba in giorno sacro a religiosa ceremonia, innanzi alla reggia, ed in mezzo ad una calca di popolo tuttavia trepidante per la memoria delle perturbazioni del 1848, onde ingenerare un tumulto, ed eccitare la guerra civile e la strage negli abitanti di popolosa capitale.

Appresso a questi fatti, come potrebbe menomarsi al Re del Regno delle due Sicilie la lode di aver data la vita al Faucitano non meno che agli altri due Agresti e Settembrini? Come credere che l’onorevole sig. Gladstone sia stato bene informato su questo del pari che sugli altri fatti dinanzi esaminati? Egli scrive avere udito (notate, ma da chi?) che certe minacce di privare il Governo di Nespoli di un utile sostegno, anziché l’umanità dettassero in quegli ultimi momenti la commutazione della pena. Ma chi potea sino a tal segno interessarsi della sorte dell’oscuro Faucitano? o meglio chi avrebbe avuto il diritto d’immischiarsi nell’amministrazione della giustizia di uno Stato? Ed è forse questa la prima grazia fatta dal Re agli sciagurati condannati per attentati contro la sicurezza interna dello Stato? Senza ricordare gli esempi precedenti al 1848, che sono molti e splendidi, diremo che le poche condanne capitali profferite dopo questa infausta epoca sonp state tutte commutate in altre pene; e dopo tanta perturbazione, dopo le tremende cospirazioni sventate o represse, ed i civili conflitti, niun luogo del reame è stato contristato da’ patiboli che in altri Stati han dovuto elevarsi a terrore de’ sovvertitori di ogni ordine sociale (35) . Questa è gloria unica del Re delle due Sicilie, contro cui le vane e bugiarde parole di qualche giornale più o meno rosso sono come nebbia al vento, o come vapori che si dileguano al sorgere del sole.

Ma se voglia chiedersi della faccenda a qualunque o delle classi medie, cui il Faucitano apparteneva, o anche delle alte, tutti vi diranno concordemente che gli avvocati di lui e degli altri due condannati a morte si recarono tosto alla Reggia di Caserta per implorare la clemenza Sovrana; che ne tornarono soddisfatti all’udire che il Re avrebbe provveduto sulle petizioni; che tosto si divulgò per la capitale un non so quale presentimento della grazia, e taluni la diceano già accordala; e che la numerosa famiglia del Faucitano in abiti di duolo e di mestizia trasse anche colà ad impietosire l’animo reale. E se fosse permesso spingere lo sguardo nell’interno della Reggia, noi diremmo che il Re fu lungamente dibattuto nell’animo suo tra i doveri di supremo imperante che provveder debbe alla sicurezza dello Stato ed alla repressione di quei che la conturbano, e la pietà onde spesso dette magnanime pruove. Vinse questa anche un’altra volta, e la sua corona adornossi di novella fulgida gemma, onde un periodico, napoletano nell’annunziare la grazia scrisse le seguenti belle parole:

«Il cuore e la mente sono conformazioni divine, ed esse non possono mutare per fatti terreni.

«Nel 1848, un grave delitto di Stato portava a morte Longo e delli Franci: l’attentato certo, il giudizio imparzialissimo, la pena fa volta in grazia dal solo e principale offeso. I maligni alludevano a necessità di tempi… Aspettate.

«Un altro non men grave giudizio si risolve nel principio del 1851. Tre sono condannati a morte. I tempi sono rassicurati, gli animi in calma; le menti ravviate; il potere consolidato. La grazia stessa arriva più magnanima, più generosa!

«Il cuore e la mente sono conformazioni divine, ed essi non possono mutare per fatti terreni ((36)».

Ma il discorso, che or ora si era composto a miti pensieri, convien che novellamente si turbi nel rispondere alle tante e sì sperticate fallaci esagerazioni che l’autore delle lettere accumula in parlando del come i condannati per la causa dianzi cennata espiano la loro pena. Egli descrive il bagno di Nisida presso il Lazzaretto, ove dapprima furono menati Poerio ed i suoi compagni, la stanza nella quale furono collocati alquanto umida e priva di vetri, gli abiti di che far vestiti, e le catene onde furono gravati, e qui si spazia a numerarne le anella, a dirne la lunghezza, e sinanche il peso. Ah! sì questo è un riguardar dappresso la triste condizione di chi soggiace ad una somigliante pena, e fare il paragone tra gli agi e le comodità della vita precedente colle ristrettezze, e se vuolsi, colle sofferenze del luogo per sé doloroso. Ma, dimanderemo, si è fatto alcun che per aggravare la sorte degli sciagurati Poerio e compagni? No, ché l’autore stesso sente la forza dell’obbiezioue, e così la esprime: Si dirà che l'usanza è barbara e non dovrebbe sussistere, e che sussistendo, egli è difficile l’esentarne alcune persone perché più raffinale. Ma questa non è la spiegazione; anzi egli è per questi due signori che s introdusse nel bagno di Nisida l’uso d'incatenare insieme i carcerali... e che per lo innanzi questi doppii ferri erano sconosciuti — Quindi un usanza, ma non nuova, o meglio direbbe fautore, una legge da molti anni in osservanza in tutt’ i bagni del reame prescrive in qual modo i condannati a’ ferri debbano assoggettarsi a sì dura pena. E questa stessa legge, se fosse stata consultata dall’autore, gli avrebbe fatto schivare l’altra falsa supposizione, che cioè si fosse di recente ed a danno del Poerio introdotto l’uso di congiungere a due a due i condannati a’ ferri per trascinare la catena (37) . La quale supposizione è così veridica come se taluno pretendesse che la pena della deportazione nelle colonie fosse stata inventata per martirizzare Smith O’ Brien, e gli altri cospiratori del 1848 che l’Inghilterra dové severamente punire.

Né più veridica è l’altra pellegrina notizia che per ordine di S. A. R. il Conte di Aquila si fosse recato in Nisida il Brigadiere Palumbo ad esaminare i ceppi del Poerio e de’ compagni, e renderli più gravi. Quell’onorando Principe non dette, né potea dare alcuna disposizione sul proposito, lasciando stare che l’animo suo nobilissimo rifugge da ogni pensiero men che benigno, perocché i bagni, questi alberghi de’ condannati a' ferri, non dipendono dall’Ammiragliato né dal Ministero di Marina, ma sono governati unicamente dal Ministero de’ lavori pubblici, diretto dall’egregio signor Generale Carascosa, il cui valor militare gareggia colle pregevoli qualità del suo umanissimo cuore. E se vuolsi sapere il netto di questa faccenda, debbe dirsi che il Brigadiere Palumbo nella qualità d’ispettore de’ rami alieni della Real Marina recossi nel 12 febbraio di questo anno in Nisida per compiere il suo uffizio, ed osservare in qual modo i condannati testé colà arrivati per la causa della setta l’Unità Italiana fossero custoditi. Ei trovò ch’erano riuniti in un locale, separato dal rimanente de’ condannati, e che molti di essi, e spezialmente quelli di condizione più agiata usavano di materasse ed altri arnesi per comodo della vita, e non si oppose punto a farli loro ritenere. Veggasi come si travolge il fatto più onesto per farne il subietto di calunniose accuse!

Il Settembrini condannato nel capo, e per grazia del Re, come si è detto, fatto degno della vita, era riservato scrive il sig. Gladstone, a ben più dura sorte, a doppii ferri a vita sopra una remota ed isolata rupe. Vi è inoltre ogni ragione di credere ch’egli venga assoggettato a fisiche torture. Rispettabili persone mi accertarono (prosegue l’autore) che gli si conficcassero acuti strumenti sotto le ugne delle dita. I doppii ferri si spesso ripetuti dallo scrittore non possono affliggere un condannato all’ergastolo come Settembrini, il quale comeché a vita debbe star rinchiuso nel forte di un’isola. Quella di S. Stefano né remota, né distante dalla terra ferma accoglie lui, e gli altri suoi compagni dannati a simigliante pena (38) . Se anco belve e non uomini fossero alla loro custodia, qual ragione mai avrebbero di seviziarli? Egli il Settembrini non si dolse di alcuna crudeltà nel tempo del processo, lasciando stare che in Napoli si abborre da mezzi inumani, e ne sarebbe poscia stato vittima? perché, o per compiacere a chi, se a lui generosamente si dava la vita? Ma l’autore ne fu accertato da persone rispettabili !... ah! tacciano costoro, che essi soli sono gl’infamatori del proprio paese, i più implacabili nemici di ogni bene pubblico, que’ che di continuo soffiano nel fuoco della discordia per non render possibile alcuna conciliazione!

L’autore delle lettere crede che dopo la sua partenza da Napoli il Poerio fosse precipitalo in più orrende calamità, perché condotto da Nisida ad Ischia, e dice essere convinto che trattandosi di una persona sì intelligente da esser temuta, si cercò il fine del patibolo con mezzi più crudeli che il patibolo, e senza il clamore che avrebbe questo eccitato. Ma quali sono queste orrende calamità cui accenna l’autore? Vorremmo anche noi saperlo, s’egli ha pubblicato le sue lettere per destare sentimenti di compassione nell’universale. Il cangiamento di località ha potuto ed è stato consigliato da motivi che risguardano la disciplina de' luoghi di pena, e da circostanze di più opportuna stanza. Ma non è questa una buona ragione per supporre che siasi desiderato il fine del patibolo con mezzi più crudeli che il patibolo. Incommensurabile è la distanza tra la pena de’ ferri e quella dell’ultimo supplizio, per quanto la vita si discosta dalla morte. Né questa volle alcuno de’ giudici del Poerio, o chiunque altro che, suppone l’autore, abbia potuto bramarne la persecuzione; e la più bella prova ne dà lo scrittor medesimo quando dice essere stato suggerito al Poerio da persone autorevoli che sua madre, di cui era solo sostegno, od egli stesso potessero ricorrere al Re per implorare perdono, ma egli costantemente ricusò. Noi nulla sappiamo di questa particolarità, ma possiamo dire che la è per lo meno una voce che addimostra quanto generale fosse la confidenza nella clemenza del Re. Se il Poerio paga alla società, minata dalle pratiche di una setta criminosa, il tributo di una pena, convien ch’egli ed i suoi amici si sottomettano alla legge del paese, in cui nacque, ed ove volle rimanere malgrado i pericoli che vi correva pel suo reo operare, e tuttoché ne fosse stato avvertito. L’iliade de’ suoi dolori non scaturisce mica dal suo amore per la costituzione, come crede l’autore delle lettere, perché di siffatto pensiero niuno è stato punito, e sono parlanti testimoni coloro che, benché amici di tal sistema, rimangono tranquilli in loro casa, e parecchi sono anche in ufficio, ma perché fu sospinto a ricorrere alle favorite sue arti antiche onde addimostrarsi per Napoli capo di un partito, qual fu Mazzini per l’Italia tutta.

Vogliamo però racconsolare il sig. Gladstone, innanzi di chiudere il presente articolo. S’egli ha con incredibile facilità raccolte e divulgate tante dolorose notizie, vere o false che sieno, poco a lui importa, per contrario vogliamo dargliene delle piacevoli. Dopo la sua partenza, la condizione del Poerio e degli altri suoi compagni è di molto divenuta più comportabile, non perché il Governo (si badi bene) avesse dato ordini onde derogarsi a’ regolamenti concernenti i luoghi di pena, ma perché la pietà in questa buona pasta della gente napoletana col tempo sa tutto mitigare. Noi siamo stati informati non già dalle persone rispettabili consultate dal sig. Gladstone, ma da taluno che al bisogno può giustificare i suoi detti anche con una corrispondenza uffiziale, che né tutt’i condannati né sempre vestono gli abiti della pena, che Poerio e Pironti hanno avuto l’agio di passare all’ospedale per prendervi i bagni, ed il primo vi è tornato non come infermo, ma perché desiderava di rimaner quivi più comodamente; che in talune ore del giorno depongono le catene, ed in altre vanno a respirare l'aere salubre di quell’isola; che il Nisco è sovente visitato dalla moglie, dalle sue figliuolette, e da un suo germano, e tutti questi suoi parenti in un bel dì vollero con lui starsene e desinare insieme, e già s’intende che Nisco non avea a’ fianchi l’inseparabile compagno di pena, né trascinava alcuna catena al piede.

Ma per covrire sempre più di fosche tinte il quadro de’ luoghi di pena, l’autore delle lettere ricorre ad un fatto non recente, e lo narra in modo così difforme dal vero, che non gli si può aggiustare alcuna fede. Ei dice che tempo fa esasperati dal modo con che si trattavano i reclusi nella prigione di Stato d’Ischia, si rivoltarono, e si sforzarono d’impadronirsi di essa. Il modo come si sedò la sollevazione fu il seguente. I soldati cui era affidata la guardia di essa gittarono colla mano delle granate tra i prigioni, e ne uccisero 175, e fra questi 17 invalidi ch’erano nell’infermeria, e non aveano preso parte alla rivolta. Ecco in poche parole molte false o esagerate notizie. Il fatto non avvenne nella prigione d’Ischia, come scrive il sig. Gladstone, ma nel bagno di Procida. Non era quella una prigione di Stato, ma un luogo di pena per sciagurati condannati a’ ferri, e tra essi non ve nera alcuno per reato politico, ché l’affare risale al mese di giugno del 1848, tempo in cui ferveano ancora le agitazioni demagogiche, e non si era intrapreso alcun processo contro la sicurezza dello Stato. Non fu una mera ribellione di que’ condannati che obbligò la forza che li custodiva ad impugnare le armi, ma l’impeto e le violenze da loro commesse per evadere sino a prosciogliersi dai ceppi, abbattere un muro ed i cancelli, di tal che un altro solo facea schermo alla loro fuga. Essi lungi dal quietare in vedere l’attitudine della milizia, si slanciarono furiosamente contro della stessa, e ne avrebbero fatto scempio se quella non avesse fatto fuoco per contenerli. È a deplorarsi che vi furono delle vittime, ma non mica tra quelli ch'erano nell’infermeria. L’autore stesso riconosce che una rivolta in prigione è cosa orribile ed esige energia; e però senz’alcun frutto, è evidente ch’egli abbia dissepolto un vieto fatto, avvenuto in tutto altro modo da quello per lui narrato, e comandalo dalla vera e legittima necessità della repressione de’ ribellatisi servi di pena.


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VII

La seconda lettera del Gladstone è la conferma della prima tranne qualche altro errore in più

L’onorevole sig. Gladstone, non pago della prima lettera al conte Aberdeen, ne ha pubblicato un’altra nel corso della quale si esprimi cosi: non intendo di aggiungere fatti a quelli che sono contenuti nella mia prima lettera, quantunque non siano essi che una parte, e neppure i più considerabili.

E più innanzi: il mio scopo presente è sostenere la probabilità generale delle mie asserzioni col riferirmi a fatti fuori di quistione occorsi a Napoli come in altre parti et Italia — Ma quali sono questi fatti indubitati? uditeli! Ei narra il caso di un poliziotto di Milano detto Bolza, e dice che al tempo della rivoluzione del 1848 furono scoperte le note private del Governo sul carattere di lui e di altri agenti di polizia, nelle quali il Bolza è ritratto come individuo rozzo, falso, tutt’altro che rispettabile, capace di ogni cosa per denaro, tuttavia mollo intendente degli affari e pieno di abilità. Aggiunge che, venuto a morte il Bolza, impose col testamento a suoi figli di non chiedere alcun impiego nella polizia esecutiva; tanto egli si aveva opinione poco favorevole del suo mestiere! Che vuole l’autore da ciò conchiudere? Sarà una sventura che nei bassi ufficii della polizia esecutiva non si abbiano sempre uomini virtuosi, e questa è piaga forse comune a molti Stati che per la indole e pe’ costumi degli abitanti non possono porsi a riscontro delle abitudini e delle tradizioni inglesi, ove il Constabile (uffiziale di polizia) secondo egli scrive, è oggetto di rispetto generale. Ma in Napoli come in altri paesi, se n’eccettui i subalterni esecutori di polizia, gli altri ufiziali godono presso il Governo ed i loro concittadini di un grado di considerazione, che sempre più si eleva a misura de’ loro talenti e delle loro virtù. Leggasi a conferma di questo vero il Regolamento del 1(0)dicembre 1839, col quale si provvede agli esperimenti che debbono subire coloro che vogliono iniziarsi nel dicasterio di Polizia. Debbono essi dar pruova di loro perizia nelle materie penali e nelle istruzioni ed ordinanze di polizia, addimostrare di aver serbato una condotta irreprensibile, ed anche di aver mezzi di decente sostentamento. Giustificati cotali requisiti, sono ammessi nel primo scalino dell’ordine gerarchico, e nominati Ispettori aggiunti di polizia. Successivamente a misura che si mostrano degni del posto loro affidato, fanno i loro ascensi.

L’autore tocca poscia di alcune ordinanze e regolamenti emanati dalla Corte di Roma, e dal Ducato di Modena in epoca anteriore al 1848, e senz’aver altro che dire sulla polizia, ritorna sul prediletto argomento della posizione politica del presente Governo di Napoli. Ricordava egli però aver dal bel principio protestato di voler evitare una discussione su tale tema; ma ora dice esser necessario toccarne alcuni punti, perché nessun Governo potrebbe arrivare a tal estremo di terrore crudeltà e viltà quale fu suo doloroso dovere descrivere, a meno che non fosse già pervertito da una mala coscienza. Noi opponemmo a queste parole il cenno degli orrori, che funestarono la capitale, e le provincie alcun tempo dopo pubblicata la costituzione del 1848, e dicemmo che non ci avremmo speso altre parole, dappoiché l’autore riconosceva che la era una materia nella quale niuno straniero avea dritto d’immischiarsi. Ma s’egli vi torna sopra, è perché sente troppo pena del terrore e della crudeltà che afferma colà regnare, é vorrebbe scoprire le cause di sì inesplicabile fenomeno, poiché egli stesso non può negare alla gente napoletana costumi semplici, cuore espansivo, e molta religione, e bisognerebbe che quelli preposti al Governo dal più alto posto sino all’imo fossero di tutt’altra pasta. E riconosce pure che il Monarca ha fama di essere molto regolare e stretto nelle pratiche religiose; 'ed in ciò egli dice assai meno del vero.

Or queste stesse cose rendono inverosimili le accuse di crudeli persecuzioni e di feroci pene presso chiunque ha fior di senno, poiché la pietà e la ferocia non furono giammai viste albergare sotto lo stesso tetto, né la religione cattolica partecipò in alcun tempo ai sacrificii delle vittime umane. Ma il filantropico scrittore delle ledere, creda a noi, potrà rimettere del suo dolore, e racconsolarsi ove rifletta che le idee di terrore e di crudeltà sono parto d’inferme fantasie, e gli furono suggerite da quegli sciagurati che, gemendo sotto il peso delle proprie colpe, non sanno che disfogare nell’odio contro quelli che credono loro persecutori, e non furono che giudici benigni. Or se impure sono le fonti cui quelle idee sono attinte, come nell’esordire dicemmo, torbidi, per necessità debbono essere i rigagnoli.

Ma l’autore delle lettere a sempre più rifermare le sue asserzioni, e già s’intende che gliene correva l’obbligo, ricorre ad unaltra fonte di prove, com’egli dice, che spiegano nella forma più penosa e rivoltante la continua compiuta perfetta organizzazione del sistema da lui descritto. Da cotal fonte di pruove però non altro attingesi che la pubblicazione di un’operetta d’ignoto autore col titolo Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori, impresso dal tipografo Raffaele Miranda nel 1850, e col motto ridete ne quis vos decipiat per philosophiam. Lo scrittore reputa censurabile in molti luoghi un tale opuscolo, e per tutta dimostrazione ne riassume e riporta parecchi brani, trovandovi, secondo lui, false vili ed immorali dottrine, talvolta ridicole, ma più spesso orribili... né ha ribrezzo nell’affermare che in cotal libro si contiene una compiuta filosofia dello spergiuro ridotto a sistema ad uso de' Monarchi. Noi ci dilungheremmo dallo scopo stesso del lavoro del sig. Gladstone se volessimo imprendere a discutere il merito delle dottrine esposte nel male intcrpetrato catechismo. Né il sig. Gladstone, né noi siamo giudici competenti di cosiffatto libro: troppa è la materia religiosa che si dovrebbe andare svolgendo per poterlo sottilmente disaminare, né vorremmo trasportare sopra altro campo una quistione che lo scrittore presentava ristretta alle forme più o meno regolari secondo le quali erano stati giudicati pochi sciagurati, ed al modo come essi stavano espiando la pena loro inflitta. D’altra parte s egli si fonda sovra questo libro unicamente per appoggiare la proposizione chesso è consentaneo ai fatti della storia Napoletana degli ultimi tre anni e mezzo, rimarrà preso egli stesso di stupore e di giustissimo sdegno quando sentirà che questo libro non è un’opera degli ultimi tre anni e mezzo, cui allude, ma è un vecchio opuscolo, che piacque alla pietà di un ecclesiastico pubblicare molti anni innanzi al memorando 1848, e che l’erede di lui nel 1850 ha creduto fare ristampare per suo utile privato, e senza che il Governo ne abbia conosciuto nulla, e meno autorizzata la diffusione. L’antica edizione, che abbiamo consultata, vide la luce nel 1837, e si compone di pagine 70 oltre l’indice, in fogli cinque di stampa in ottavo. Essa corrisponde perfettamente all’edizione del 1850, la quale è stata anche pubblicala innanzi che si fosse emanata la legge sulla censura preventiva della stampa, per cui né la Pubblica Istruzione né l’autorità di Polizia ha potuto approvarne e neppure permettere la impressione. Il titolo ad uso delle scuole inferiori è lutto arbitrario, di tal che nell’altra edizione del 1850, che porta in fronte le iniziali C. M. L., non è adatto adoperato.

Da siffatti schiarimenti l’egregio scrittore lorrà nuovo argomento onde persuadersi come sia stato tratto in errore dall’altrui malignità, e dal deliberato proponimento (questo sì ch'è sistema) di tutto travolgere, se fosse possibile, a disdecoro del Governo Napoletano.


 CONCLUSIONE

Non rimane che seguire lo scrittore delle lettere nella conchiusione ch’ei pone in fine della prima di esse, dove la somma degli errori e delle calunniose accuse è tutta racchiusa; e noi il faremo volentieri, dappoiché molte cose della seconda lettera sono state innanzi toccate. Egli ringrazia Lord Aberdeen di avergli permesso d’indirizzargliela, senza di che si sarebbe trovato senz’alcuna speranza di potersi efficacemente adoperare per correggere gli atti del Governo Napoletano. E protesta di aver intrapresa questa faticosa e penosa opera colla speranza di contribuire a scemare una quantità di dolori umani così grande e così acuta, per non dir più, come qualunque possa contemplare il cielo. Lodevole e santo pensiero di cui ogni uomo onesto gli deve saper grado ! ma la giustizia ha pure le sue ragioni, in guisa che mal pretenderebbe taluno di predicare umanità calpestando gli altrui dritti, e massime se sieno quelli della società minacciata nel suo riposo. Se non che l'analisi per noi sinora fatta sulle lettere di lui può fare accorti i più schivi quanto egli sia andato lungi dal vero.

1° coll’elevarsi in certa maniera ad ingiusto censore di un Governo, tuttoché riconosca non averne il dritto, e senz’arrecare altra pruova che le bugiarde e calunniose voci de’ nemici di ogni ordine sociale;

2° col deplorare la condizione degl’imputati politici, ed esagerarne a dismisura il numero, mentre per testimonianza di altri illustri viaggiatori, e per documenti irrefragabili è noto come quelli sieno umanamente trattati, e come nel giugno di questo anno non oltrepassavano i 2024, senza diffalcarne i molti che di poi hanno ottenuto la loro libertà;

3° col supporre ingiuste le condanne di taluni tra’ più notabili cospiratori, attingendone i falsi elementi dalla loro bocca q dalle loro difese a stampa, senza voler consultare le valide pruove raccolte a loro carico, anche divulgate per le stampe, e la stessa pubblica opinione, la quale è concorde nel dire che la sentenza fu inspirata dall’umanità anziché dal rigore;

4° coll’immaginare crudeltà e ferocia nell’esecuzione di siffatte condannementre per la clemenza del Re, niuna condanna di morte è stata eseguila, e quelle allo ergastolo o a’ ferri si fanno espiare con tanta mitezza da parte de’ preposti a’ bagni che piuttosto da dirsi eccessiva.

Laonde tutti' gli esagerali dolori ed i sognali abusi sono unicamente nella niente feconda dello scrittore delle lettere, e se volete, nella simpatia ch’egli prova verso coloro che raggiunti dalla legge, e convinti in solenne giudizio di pratiche sediziose e di attentati all’ordine pubblico, gemono sotto il peso delle pene cui volontariamente si sono esposti. Una scuola di massime infernali, egli è vero, tenta andar spargendo anche in Italia potersi impunemente turbare il riposo de’ popoli, scrollare le fondamenta dei Governi, contrastare loro il diritto di raggiugnere quelli che ne insidiano la stabilità, e non doverci essere inquisitori, non testimoni, non giudici che possano trovare rei questi cupi sovvertitori delle comunanze civili. Ma il senno della immensa maggioranza di coloro che rigettano e condannano sì falsi ed iniqui principii, e propugnano in tutti gli Stati di Europa la causa dell ordine e del riposo sociale, che ormai è causa universale, saprà dar giusta sentenza tra gli errori e le false accuse a larga mano sparse nelle lettere del sig. Gladstone col mantello di vedute filantropiche, ed i fatti e i documenti da noi messi in luce con la semplicità di chi sente aver ragione.

Napoli, 25 agosto 1851.

(N° 1)

STATO NUMERICO


Degl’imputati politici presenti in giudizio, in carcere, o con modo di custodia esteriore presso le Gran Corti speciali de’ Domini continentali del Regno delle due Sicilie.



PROVINCIE
IN
CARCERE
CON MODO
DI CUSTODIA
ESTERIORE

OSSERVAZIONI

Napoli 223 28

Le controscritte cifre, desunte dagli ultimi stati rimessi al Real Ministero di Grazia e Giustizia, hanno già subito una diminuzione; perciocché varie cause, dopo lo invio degli stati medesimi, sono state esaurite, e la Sovrana Indulgenza de' 19 scorso maggio a favore di una determinata classe d’imputati politici relativi a 212 cause, ne ha ridotti molli in libertà.

Non pochi giudizii vanno poi ad espletarsi nel volgere del corrente mese di giugno, e nei principii dell'entrante luglio.

Napoli 18 giugno 1851

L'Uffiziale Capo del 3° Ripartimento del Ministero di Grazia e Giustizia firmato — Cav. Giov. Pasqualoni.

Terra di Lavoro 80 6
Principato Citra 381 12
Principato Ultra 4 «
Molise 43 «
Basilicata 156 11
Abruzzo Citra 6 «
Abruzzo Ultra 2° 94 «
Abruzzo Ultra 1° 1 «
Calabria Citra 293 7
Calabria Ultra 2(a) 54 «
Calabria Ultra 1(a) 344 «
Capitanata 112 15
Terra di Bari 20 «
Terra d’Otranto 8 «
Totale 1819 79


NOTA

Alla indicata cifra di detenuti politici presso le G. C. speciali ascendente a 1819 Se si aggiunga quella de' detenuti per conto della Polizia, giusta lo stato n° 2 che segue

205

Si ha la somma di detenuti politici in

2024

Dal qual numero debbonsi poi diffalcare que’ che sono stati ammessi alle Sovrane Indulgenze del 30 aprile e 19 maggio 1851 giusta lo stato n° 3, non che coloro che sono stati giudicati dalle G. G. Speciali dal mese di giugno, epoca della compilazione del premesso stato, sino al cader di agosto di questo medesimo anno 1851.


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(N° 2)

STATO NUMERICO

Degl’individui che trovansi in carcere a disposizione della Polizia per reati politici nelle diverse provincie de’ Dominii continentali del Regno delle due Sicilie.

1 Napoli 77

L’arresto de' controscritti detenuti è stato sempre eseguito per gravi ed imperiose considerazioni d’ordine e di sicurezza pubblica, non a capriccio e senza forme legali, ma in virtù di mandati emanali dalle autorità rivestite della Polizia ordinaria, le quali per espressa disposizione di legge hanno la facoltà di arrestare per vedute di alta polizia,e possono anche compilare processi, quando trattasi di reati di Stato, giusta le istruzioni del 22 gennaio 817 (a) solennemente riformate con altre posteriori disposizioni legislative.

(a) «Art. 10 — Oltre le facoltà espresse nei due articoli precedenti, la Polizia ordinaria nei fatti di alla polizia, indicati nell’art. 3°, è rivestita ancora delle attribuzioni di Polizia giudiziaria In questa qualità può procedere all’arresto delle persone prevenute de’ suddetti misfatti, anche fuori «il caso della flagranza e quasi, può ritenere gli arrestati a sua disposizione e oltre le 24 ore, e può compilare essa medesima le istruzioni su tali reali Ciò però non impedisce agli altri agenti della Polizia giudiziaria di occuparsi anch’essi allo scovrimento de’ reati medesimi, e perseguitarne gli autori».

N B Secondo che pervengono le dimandate informazioni sul conto de’ detenuti compresi negli elenchi,se ne dispone l’abilitazione di giorno in giorno, come si è costantemente praticato.

L’Uffiziale Capo di Ripartimento del Ministero dell’’Interno ramo di Polizia firmato — Giuseppe Bartolomucci

2

Pozzuoli e Castellamm.

2
3

Caserta

2
4

Salerno

19
5

Avellino

17
6

Potenza

6
7

Foggia

9
8

Bari

4
9

Lecce

10
10

Cosenza

6
11

Catanzaro

2
12

Reggio

10
13

Campobasso

7
14

Chieti

12
15

Aquila

19
16

Teramo

3

Totale n°

205


__________________

1 Art. 50 e 101 LL. di proc. penale.

Art. 10 delle Istruzioni sulla Polizia de’ 22 gennaio 1817.

Art. 20 della L. organica dell’ordine giudiziario del 29 maggio 1817.

Art. 19 del R. Decreto del 16 giugno 1824.

2 Art. 13 104 151 e 187 LL. di proc. penale.

3 Art. 233 LL. penali.

4 Art. 71 e 72 LL. di proc. penale.

5 Art. 108 LL. di proc. penale.

6 Art. 110, 111, e 112 delle LL.

7 Art. 10 delle Istruzioni del 22 gennaio 1817.

8 Art. 138 LL. di proc. penale.

9 Art. 131 dette LL.

10 Art. 143 ivi.

11 Art. 148 ivi.

12( ) Art. 166 e 167 ivi.

13 Art. 169 e 170 LL. di proc. penale.

14 Art. 175 delle LL.

15 Art. 195 ivi.

16 Art. 201 ivi.

17 Art. 214 ivi.

18 Art.218 a 271 LL. di proc. penale.

19 Art. 431 e 432 LL. di proc. penale.

20 Art. 428 delle LL.

21 Art. 81 della L. del 29 maggio 1817.

22 Art. 434 LL. di proc. penale.

23 Art. 86 L. del 29 maggio 1817.

24 Art. 426 LL. di proc. penale.

25 Art. 436 dette LL.

26 Veggasi in fine lo stato numerico degl’imputati politici distinti per ciascuna provincia.

27 V. l’atto di accusa pubblicato dal Procurator generale sig. Angelillo nell’11 giugno 1851.

28 V. il Sovrano Rescritto dell’11 gennaio 1831.

29 Art. 11 leggi penali.

I condannati alla reclusione sono chiusi in una casa di forza ed addetti a' lavori.. La durala di questa pena non sarà minore di sei anni né maggiore di dieci.

30 Veggasi il Giornale uffiziale delle due Sicilie dei 13 maggio 1851.

31 Caro!... a chi? forse a que’ che con le sue criminose macchinazioni ha tirato nella stessa sua ruina,o a coloro che veggono in esso la insegna di un partito? Noi noi diremo, ché fia meglio udire la vita e la colpabilità di lui dalla bocca di un altro inglese. «Les écrivains sont unanimes dans leurs convictions de' la culpabilité de' Poerio. Tai cause avec des Anglais qui avaient résidé dans le royaume de' Naples, non pas un petit nombre de' a semaines, comme M. Gladstone, mais un grand nombre d’années, et je les ai trouvés parfaitement convaincus de' la culpabilité de' l’avocat républicain. Permettez-moi de' vous donner un aperçu de' la vie de' Carlo Poerio. Il parait que l'ami constitutionnel de' M. Gladstone trouva que le climat de' son pays était trop chaud pour lui en 1830, qu'il emigra à Paris, où il fraternisa avec Mazzini; qu’il écrivit des articles dans son recueil. La Jeune Italie; qu’à son retour à Naples, il reprit sa profession de' révolutionnaire, et que tout le ministere dont il faisait partir; était compose de' républicains avérés, tels que Pepe et Saliceti. Comme preuve à l’appui, je vous engagé à lire les Mémoires de' Guillaume Pepe récemment publiés. Ce live est aussi stupide quìi est mauvais; mais il doit être étudié par ceux qui veulent savoir comment on fait les révolutions. Pepe affirme ouvertement que le Roi de' Naples devoit dire détrôné par la Constituente, la quelle devait dire formée au mojen de' la nouvelle chambre en mai 1848. Personne n’en doutait à Naples. Tout le monde était persuadé que si les révoltés des barricades avaient réussi, la République aurait été proclamée, et le Roi et sa famille assassinés».

Lettera del sig. Mac Farlane al Conte Aberdeen inserita nella Patrie del 46 a 18 agosto 1851 n. 228 e 230.

32 Leges aranearum telis similes sibi videri. Quemadmodum enim illae inttrmiora ammalia retinenl, valentiora transmittunt: sic pauperes et huroiles legibus constringuntur, divites et praepotentes eas perrumpunt.

Plut. In Solon.

33 Quali sieno siffatti precedenti non vi è chi noi sappia in Napoli e fuori: essi fruttarono al Poerio per tre volte l’onore del carcere politico, secondo ch'egli stesso diceva, e sono compendiati nella indicata lettera del signor Mac Farlane —V. la Patrie del 16 e 18 agosto 1851 num. 298 e 230.

34 Art. 370 dello statuto penale militare del 30 gennaio 1819.

Se più individui dell'esercito incorrono nella pena di morte per lo stesso reato militare commesso in complicità, i Consigli di Guerra dovranno condannarli secondo la legge, e la sentenza sarà eseguila quante volte i condannali non fossero più di due. Oltrepassando questo numero, da due sino a sei, la condanna sarà eseguila contro un solo, da sette a dieci la condanna sarà eseguila contro due, da dieci a quindici sarà eseguila contro ire, e così successivamente. Per gli altri condannali si sospenderà l’esecuzione, e saranno raccomandali alla Sovrana Clemenza per una commutazione di pena.

35 Veggasi in fine il quadro delle condanne capitali, cui abbiamo accennato.

36 Omnibus —Giornale politico letterario del 5 febbraio 1851 —ann. XIX, n.° 11.

37 Art. 9 LL. penali

«La pena de’ ferri sottopone il condannalo a fatiche penose a profitto e dello Stato. Essa è di due sorte per gli uomini. La prima si espia ne' bagni, ove i condannati trascineranno a’ piedi una catena o soli, o imiti a due, secondo la natura del lavoro cui verranno addetti — La seconda si espia nel presidio — Per questa pena è sottoposto il condannato a' lavori interni di un forte, con un cerchio di ferro nella gamba destra, secondo i regolamenti».

38 Art. 7 LL. penali.

La pena dell’ergastolo consiste nella reclusione del condannalo pei tutta la vita nel forte di un'isola.

























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