L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il manifesto funebre

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Siderno, 16 settembre 2006

Quand’ero giovane, il manifesto mortuario, in paese era un rito, una regola del costume. E era onorevole osservarla per “rispetto” degli amici, dei conoscenti, dell’intero paese, non dissimile da altre comunicazioni formali a stampa. Ma la notizia della morte arrivava prima del manifesto, attraverso il passaparola.

Oggi il paese è come se si fosse ingrandito, benché non sia più grande di prima. Solo che la comunicazione sociale si è allentata e gli individui sono a sé stanti, slegati dalla loro famiglia, discendenza e casato. Colpa o merito del nuovo modo di lavorare, delle automobili con le quali ci muoviamo, delle strade che un tempo erano larghe e adesso sono strette, nonostante i metri siano sempre quelli.

Luca Fedele, morto ventinovenne in Lombardia, non credo di averlo mai visto, Giuliano, suo padre, lo ricordo appena nel suo aspetto di ventenne. Se lo incontrassi adesso, forse lo riconoscerei, forse no. In senso anagrafico, il manifesto funebre affisso al cantone non mi comunica che un cognome: Fedele.

Per me “Fedele” non è un’astrazione convenzionale. Dietro il cognome, dentro il cognome, ci sono uomini e donne di un tempo. Don Gino, il ragioniere del Comune, seduto dietro uno di quei bei, lunghi tavoli, con le quattro gambe tornite e il piano coperto di panno verde, intento a fare addizioni e moltiplicazioni, in modo che sottraendo i due totali del bilancio comunale il risultato fosse zero.

Il famoso Piripiri, dal piede veloce, don Sarvu, la vecchia Capillara, donna Marietta, don Gatanu, ‘A bbocatu, gli immensi scaffali che sopportavano il peso di centinaia di “pezze” di stoffa, i colori infiniti dei tessuti, i diversi tipi di stoffa – la lana, il cotone, il lino, l’organza, la seta, il taffetà, il velluto, il fustagno – gli svergognati manichini di uomini e donne spesso senza abiti, quelli della testa, per la mostra dei Borsalini e dei Panizza, le “canne”, un antico nome per il metro di legno con il bollo dello Stato sabaudo, i lunghi, interminabili banconi su cui le pezze venivano srotolate, affinché il cliente, o meglio la cliente, potesse apprezzare il colore e la qualità del tessuto, le tacche di ottone infisse sul medesimo, lontane un metro una dall’altra, in modo che l’operazione di misurare “il taglio” richiesto fosse agevole e spedita, le lunghe forbici con cui la pezza veniva incisa sulla cimosa e poi uno strappo deciso, millimetrico, e i metri venduti venivano rapidamente incartati.

I Fedele sono alle origini della storia della Marina, come, o forse più dei decurioni e dei sindaci che si sono succeduti nei secoli, sicuramente non meno delle famiglie illustri dell’aristocrazia fondiaria, quelle ancora possidenti e quelle decadute.

Ho una lunga pratica di cimiteri. Anzi, se fossi ancora giovane, mi raccomanderei con il sindaco in carica per un posto di camposantaro. Quand’ero ragazzino trascorrevo una parte dell’anno con i nonni, a Maiori, un paesino della Costiera Amalfitana, ogni santo pomeriggio accompagnavo il nonno al cimitero dove riposava il fratello maggiore di mio padre, morto nel 1918, proprio qualche giorno prima dell’armistizio del 4 novembre.

Il nonno era più che ottantenne. Era nato nel 1850, regnante Ferdinando II. Il cimitero era meno vecchio di lui. Ogni tomba, ogni lapide, era per lui un ricordo umano, per me un capitolo di storia locale e nazionale.

C’era il generale, traditore del giuramento fatto, c’era un nipote del nonno, medaglia d’oro alla memoria - che “la morte se l’era chiamata” - c’era il capitano di un veliero, un vero lupo di mare, c’era un cognato del nonno, a cui i briganti avevano tagliato un’orecchia. C’erano cento altri, che per lui erano persone e che per me erano la millenaria storia di quel paesino.

Da lui ho avuto una doppia eredità. Quella patrimoniale è volata via nel volgere della vicenda sociale, l’altra l’ho conservata. E’ l’inclinazione a ricostruire la storia locale dai nomi, specialmente da quelli incisi sulle lapidi. La cosa mi appaga (anche se non mi paga, e non per colpa mia, ma della storia, infatti la nostra storia è una contro storia della storia italiana, velenosa con i malcapitati meridionali).

Quando vado al cimitero di Siderno Superiore, la prima cosa che mi colpisce è la sua bruttezza e volgarità. Eppure era così aristocratico, bello, dolce, mesto, chiuso nel perimetro murario di poche balze e ornato da svettanti cipressi! Lindo, armonioso, essenziale, rispettato. I poveri finivano in una specie di alveare, che se non ricordo male chiamavamo “il cellulare”, credo una derivata da celle, quelle precedenti la telefonia mobile. La rivolta dei poveri. Ogni morto ha diritto a un marmo, a volte a un tempio.

Cammino per l’odierna metropoli mortuaria, rifuggendo dai percorsi privi di verde. Vorrei usare un aggettivo forte, ma chi abita lì non ha più colpe. Ha soltanto i meriti lasciati nell’animo dei sopravvissuti. Una lapide ricorda la nonna di mia madre. “I suoi sedici figli posero a memoria mpeitura…”. Mia madre non la conobbe, né conobbe il nonno, prestigioso capostipite di una famiglia industriosa, modernizzatrice e ricca.

Ovviamente neanche io l’ho conosciuta, ma, attraverso le parole di mia madre, ho il vivo ricordo del suo magistero familiare. Dietro quella lapida c’è anche la grande famiglia: mio nonno e mia nonna materni, due miei fratellini morti in fasce e chissà quanti prozii.

Soltanto io lo so. La storia degli umili, di coloro che non hanno conquistato la Gallia o non sono sbarcati a Marsala muore con la morte dei loro discendenti. I quali, anche loro, non lasciano che un passeggero ricordo. Ho visto un film, “Ritorno al futuro”, in cui c’è un andirivieni tra il presente e il passato. E’ una fandonia, ma sarebbe bello che tutto fosse vero.

Nel passaggio dal vecchio cimitero sidernese alla situazione attuale c’è scritta la fine di una datata civiltà dell’uomo, quella dell’uno parte di una storia familiare, e conseguentemente il trionfo dell’attuale anonimistica civiltà dell’uno-denaro, del marmo costoso e opulento, delle cifre in ottone dorato.

Noi figli ti onoriamo con il ricordo (è ancora un sentimento non cancellato) ma ancor di più ti onoriamo con il fasto.” Il fasto al posto del verde, della mestizia, del cespuglio fiorito, del lumino di cera che arde dentro la sua plebea guarnizione di carta oliata.

Foscolo! I sepolcri! L’eredità di affetti! I Fedele, venuti da Napoli o dintorni, su una bordeggiante goletta, con le loro mercanzie, con le “pezze” a colori che Napoli fabbricava, portando con sé la “canna vidimata dal finanziere borbonico. ‘A Capillara’, il conflitto sociale a Siderno, al tempo della prima guerra mondiale.

La nascita del socialismo, la sua incapacità a organizzare qualcosa più dell’incendio dei municipi. Il vaniloquio degli apprendisti di una “Rivoluzione passiva”, importata da fuori. Appassiti apprendisti in eterno, in saecula saeculorum, fino ai nostri ineffabili Adamo e Pacenza.

La nostra storia non conosce che la storia degli altri, Pietro Micca e il Conte Biancamano. Quella vera equivale al commettere un peccato.

Le lapidi degli amici e dei conoscenti defunti mi “ritornano” al passato, al vecchio paese. L’intonaco di calce, che nasconde l’armacera, è l’attestato di un passato in cui la mano operava su comando del cervello. Oggi c’è un amerikano vorticare di manovali del capitalismo.

Gli uomini non hanno un posto, una casella della storia che sia loro, un nome, un cognome, una famiglia, una gens. Uno vale l’altro, salvo che non abbia la BMV. L’uguaglianza mortuaria è un diritto naturale. Ma facciamo in modo che il diritto s’incontri con l’armonia. E’ triste immaginare che quando la mia generazione sarà completamente estinta, i morti continuino a essere costose lapidi di marmo con dentro uomini che sono vissuti soltanto come Codice fiscale.

Riordiniamo il cimitero, se vogliamo – non dico essere – ma sembrare civili. Diamo un senso umano alla vita del paese, che mi pare abbia imboccato una strada storta. Facciamo in modo che le attività locali salgano di livello, affinché i giovani migliori non siano costretti a emigrare per incontrare la civiltà.


Nicola Zitara







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