Eleaml - Nuovi Eleatici


Guerra ad oriente dalla guerra di Crimea alla guerra d’Ucraina di Zenone di Elea

SUNTO DI GEOGRAFIA DELLA CRIMEA E DEGLI STATI LIMITROFI

ILLUSTRATA

da quattro Carte diligentemente incise

CIOÈ

Crimea, la Turchia colla Grecia, la Russia europea, l'Austria colla Confederazione germanica

del Prof. F. COLOMBETTI

DEDICATA AL SOLDATO PIEMONTESE

SCELTO PER LA SPEDIZIONE D'ORIENTE

Per SERVIRGLI DI GUIDA IN QUELLE LONTANE REGIONI

2.°EDIZIONE

TORINO

TIPOGRAFIA PARAVIA E COMPAGNIA

1855
(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
LA GUERRA DI CRIMEA (1853-1856) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO
CRIMEA IL TRATTATO DI ALLEANZA L'ORDINE MILITARE DI SAVOIA
IMPERO OTTOMANO IN EUROPA DISCORSO DEL CONTE SOLARO
DELLA MARGARITA
POSCRITTA
IMPERO OTTOMANO IN ASIA BREVI CENNI STORICI E GEOGRAFICI DISCORSO CONTE SOLARO DELLA MARGARITA
IMPERO RUSSO
CENNI GEOGRAFICI SULLA CRIMEA TRATTATO DI PARIGI
IMPERO D'AUSTRIA CENNI SU SEBASTOPOLI VITTORIO EMANUELE
DISCORSO GENERALE DURANDO GUERRA D'ORIENTE E SPEDIZIONE
IN CRIMEA
VITTORIO EMMANUELE II
DISCORSO CAVALIERE L. C. FARINI QUADRO CRONOLOGICO PROTOCOLLO I - PROTOCOLLO XXIV

Ora che gli evenimenti della guerra tengono tutti gli guardi rivolti sulla Crimea, universale si fa sentire il bisogno di conoscere i luoghi sui quali fu portato il Teatro che armi. Vivissimo si fa quotidianamente il desiderio i seguitare gli Eserciti nelle loro mareie e nelle loro rivoluzioni. Pienamente si fatto desiderio può essere appagato, da coloro in ispecial maniera che sono esperti che cose militari, col mezzo della Carta geografica pubblicata recentemente dal Corpo dello Stato Maggiore. Mi parve però che la pubblicazione di un Atlante tascabile sarebbe stata vantaggiosa, sia perché si può trasportare senza imbarazzo, sia perché si può offrire ad un prezzo a cui giungono le forze anche più ristrette dell’Operaio, dell’Artigiano, e del semplice Soldato; e sia finalmente perche in esso si raccolgono oltre alla Carta della Crimea quelle della Turchia, della Russia e dell’Austria; le quali per la natura stesa della Guerra, mi sembrano sovra ogni rapporto indispensabili a chi voglia tener d’occhio tutte le operazioni militari.

Raccomandando questo mio lavoro ai miei connazionali, avvertire, che la Carta della Crimea specialmente fu fatta con tanta precisione, quanta è necessaria per dare cognizioni esatte sulle più notevoli Località, e che quantunque l'Atalantino non abbia potuto arricchirsi di molte nozioni, tuttavia quelle raccolte bastano a dare un’idea precisa delle cose principali e più necessarje a sapersi intorno alla suddetta Penisola, ed agli Stati limitrofi.




CRIMEA

CRIMEA

POSIZIONE. — Giace la Crimea fra il grado 44° 20’ ed il 46° 20’ di latitudine boreale, e tra il grado 50 ed il 35 di longitudine orientale dal primo meridiano di Parigi.

ESTENSIONE. — La sua maggior larghezza dal capo di Karam-Roun sino allo stretto di Jenickalè è all’est di circa 245 chilometri; e la sua lunghezza dall’Istmo di Perecop al nord sino al capo di Saritsch al sud è di chilometri 450. La sua intiera superficie è di 17730 chilometri quadrali.

CONFINI. — Al sud, all’est, ed all’ovest confina col mar Nero, ed al nord col mare d’Azof e col continente Russo, con cui si unisce per mezzo dell’Istmo di Perecop; lingua di terra, la quale non ha che un miriametro di larghezza.

ACQUE. — I mari della Crimea sono il mar Putrido, il mare di Azof ed il mar Nero, questi duo ultimi circondano la penisola. Il primo di essi, stante l’immensa quantità di sabbie che vi vengono depositate dai fiumi che versano in esso, quotidianamente va perdendo in profondità; ond’è che al giorno d’oggi nei siti più profondi non ha che 14 metri di fondo. Resta perciò difficile ai bastimenti di tragittarlo senza che corrano il pericolo di gettarsi in banchi di arena. Il seconde subi anch'esso notabili variazioni nel suo litorale, ma ciò non fondo permette in varii siti un sicuro sbarco ai grandi bastimenti. La Crimea non ha corsi d’acqua perenne considerevoli. Il fiume più ragguardevole è il Salghir il quale la divide in due parti. Le fiumane scaturite nella sua pendice settentrionale si perdono per lo più fra le ghiaie entra le steppe prima di giungere al mare; quelle della pendice meridionale sono quasi sempre asciutte, o s’ingrossano d’improvviso, durante i temporali, i quali sono assai frequenti in estate. Le principali fiumane che sboccano nel mar Nero sono il Boulganack, l’Alma, il Kalscha, il Belbek, il Cernia Resca col torrente Baidar che mantiene un canale a Sebastopoli, l’Alaschla, il Demilschi ed il Soong-Son che faconda colle sue fresche acque un’ampia vallea. Versa nel mare d’Azof il Don. Molti sono quelli che dalla pendice settentrionale volgono al mar Putrido, ma gran parte di essi si perde fra le ghiaie prima di giungervi. Il Salghir, il più grande de fiumi della Crimea, sbocca nel mar Putrido dopo d’aver accolti il Karassu, il Kutschukk-Karassu ed il Bojuk-Karassn Innumeri sono i laghi che esistono in Crimea: è notevole che dei medesimi la maggior parte contiene sale, il quale, traendosi abbondante, forma un oggetto apprezzabile di commercio. Dei sudetti laghi ci asteniamo dall’accennarne il nome, ritenendo però quello di Kaja-Ruhn-Oba cosi denominato di monte su cui esiste, il quale sta come perpetuo testimoni dell’Eruzione vulcanica avvenuta nel 1794 da cui venne formato. I Stagni salati quasi tutti comunicano per mezzo d'infiltrazioni nel mar Putrido. Queste filtrazioni rendono i suolo paludoso, onde il numero degli stagni o paludi è assai ragguardevole.

CLIMA. — La temperatura umida e fredda nell’inverno, caldissima nell'estate per non dire insopportabile; il che unito alle esalazioni delle paludi fa che nelle parti interne variasse poco salubre; ma essa è migliore verso il mare dove le montagne che si stendono parallelamente alla costa del mar Nero guarentiscono i siti circostanti dai venti dei settentrionale. Ond'è che si può dire essere il clima vario secondo la regione settentrionale, o meridionale; esso in questa parte però è favorevole ad ogni specie di vegetali.

SUOLO. — I due terzi della superficie di questa penisola sono nude steppe il di cui terreno è sabbioso ed argilloso, impregnato di sale. Questa vasta pianura in alcuni luoghi è cosparsa di macchie ed offre meschini pascoli. La parte del sud-est invece è montuosa intersecala da valli assai fertili. Dalle alture di Simferopoli il suolo va gradatamente inalzandosi sino alla somma Giogaja della Tauride, che cinge la penisola dal sud-ovest all’est; la maggior altezza di queste giogaje è segnata dal monte Tschadyzdagh, il quale ha un elevazione di metri 1580. Questa catena Taurica dalla parte occidentale pigliò il nome di Monte de Jaïla-Dagh, e dalla parte orientale di Karabi-Jaïla. Frequenti sono le traccie vulcaniche che lungo questa catena si riconoscono.

STRADE. — Le strade principali sono quelle che da Sebastopoli conducono a Perecop ed a Balaklava, e da Balaklava a Balkcisarai a Psakta,ed Alupka, e quelle che da Simferopoli tendono a Jenikalè, ad Eupatoria ed Aluschta; e quelle che da Arabat a Jenitsch, ed a Caffa. La maggior parte di queste sono strade postali, per cui, se il cammino non è facile, come sulle strade nostre provinciali, non è però disastroso.

POPOLAZIONE, RELIGIONE, LINGUE. —In tutta la Crimea si contano appena 200,000 mila abitanti di cui i sette decimi sono Tartari (Cosacchi, Russi) e questi seguono la religione Mussulmana e parlano i dialetti tartari; gli altri sono Alemanni, Svizzeri, Bulgari, Boemi, Armeni, Ebrei e Greci. Ciascheduna di queste razze segue la propria religione, o non ne professa pubblicamente alcuna, e parlano generalmente tutti li suddetti dialetti.

STATO E DIVISIONE POLITICA. — La Crimea fa parte del Governo Russo della Tauride, e si divide in quattro Circoli cioè di Perecop, di Simferopoli, di Eupatoria e di Teodosia. La capitale della Crimea è Simferopoli. I principali porti sono tre: Akmetschette, Balaklava, e Sebastopoli che è il più grande.

PRODUZIONI DIVERSE. — I pendii delle montagne sono per lo più coperti di boschi che forniscono eccellenti legnami da costruzione. Nel seno delle medesime rinvengonsi sostanze minerali, cave di marmi, di carbon fossile e di calce. La parte settentrionale è poco coltivata stante la sterilità del terreno, ed in quei pochi siti ove il terreno è meno ingrato le sementi e le messi sono quasi sempre divorate dalle lucuste. Nella parte meridionale la vegetazione è rigogliosa. Si coltivano le viti con ottimo successo, e tutte le piante fruttifere delle nostre riviere, come il fico, l’olivo, il noce, il persico, il melagrano ecc. I principali prodotti però sono le biade in abbondanza, olio, lino, canapa, tabacco, e tutti i legumi delle parti meridionali d’Europa. Numerose sono le mandre di buoi, camelli, capre e montoni. Vi si trovano api in gran quantità che danno un miele squisito ed assai rinomato. Abbondante è la pesca sulle coste dei mari e soprattutto quella delle ostriche.


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IMPERO OTTOMANO IN EUROPA E REGNO DI GRECIA


IMPERO OTTOMANO IN EUROPA E REGNO DI GRECIA

POSIZIONE. — La parte dell'Impero Ottomano situata in Europa, compresa insieme la Grecia, trovasi fra i paralleli 56,20’, e 48,20’ di latitudine al nord; e fra 15,20’ e 27,50’ di longitudine orientale del meridiano di Parigi.

ESTENSIONE. — La maggior lunghezza della grande penisola che abbraccia questi due Stati è di 126 miriametri dal nordest ai sud-ovest; la maggior larghezza è di 102 miriametri dall’est all’ovest La superficie totale è di 4,494 miriametri quadrati, di cm 545 appartengono al Regno di Grecia. L'Impero Ottomano è molto più esteso nell’Asia dacché abbraccia 13,827 miriametri quadrati.

CONFINI. — L’Impero Ottomano in Europa, ha per confine al nord la Russia e l'Austria; all’est il Mar Nero, il canale di Costantinopoli e il mar Marmara; al sud lo stretto dei Dardanelli, l’Arcipelago o mare Egeo e la Grecia; all’ovest ha l’Adriatico, il Principato del Montenegro e nuovamente l’Austria. La Grecia ha al settentrione la Turchia, all'est e al sud l’Arcipelago, all'ovest il mar Jonio.

MARI E GOLFI. — Bagnano questi Stati il mar Nero, il mar di Marmara; — il mar Egeo o Arcipelago che forma sulle coste turche i golfi di Saros, d’Enos, d’Orfano, di Monte Santo, di Cassandra, di Salonichio; e sulle coste greche quelli di Volo, d’Atene, di Nauplia;—il mar Jonio che forma sulle coste greche i golfi di Colochinas, di Corone, di Lepanto, d’Arta;— finalmente l'Adriatico.

STRETTI. — I più importanti sono il canale di Costantinopoli che unisce il mar Nero col mar di Marmara; i Dardanelli che uniscono il mare Marmara all'Arcipelago; il canale di Negroponte nella Grecia.

LAGHI. —L'Impero Ottomano ha parecchi laghi, i principali sono; quello di Rassein nella Bulgaria, quelli di Cadaca, e di Betschic nella Romelia; quelli d’Ochrida, e di Scutari nell’Albania.

FIUMI. — Nell’Adriatico non mettono foce fiumi importante pur menzioneremo la Moraca, il Driri, lo Scombi, la Voiussa e l’Aspropotamo che attraversa anche le provincie settentrionali della Grecia. — Mettono foce nell’Arcipelago fiumi dei pari poco importanti quali sono la Salambra, l’Indi-Carasu, la Vistritza, il Vardaz, il Carasu, la Maritza. — Nel mar Nero entra assai grosso il Danubio che riceve dai territori dell’Impero, a destra, la Sava che scende dall'impero Austriaco e quivi s’ingrossa della Bosna e della Drina; la Morava, fischer, il Tincow, il Vid; ed alla sponda sinistra o Valacca riceve il Schill, l’Aluta, l’Ardijs, la Dumbrovicza, la Talomitza, il Screlh e il Pruth.

MONTAGNE. — I Carpati a settentrione stendono le loro diramazioni nella Moldavia principalmente, e anche nella Valacchia. — Le Alpi poi girando intorno al mare Adriatico col nome di Alpi Dinariche si stendono fra la Dalmazia e la Turchia, e correndo parallele non molto distanti dalla Costa occidentale, tutta la cuoprono colle loro ramificazioni, stendendosi anche per entro al Regno Greco; e prendendo vari nomi, alcuni dei quali come il Pindo, l’Ossa, il Taigete furono celebri nell'antichità. Dalle Alpi pure si staccano i monti Emo o Balcan che fendono per mezzo la Turchia d’Europa dall’Occidente all'Oriente, e vanno a perdersi sulle coste dei mari Nero e Marmara, rendendo assai montuoso da una parte e dall’altra, ma specialmente al mezzodì, tutto il paese.

CAPI. — Sull'Adriatico si distinguono i capi San Giorgio all’ingresso del golfo di Volo. E seguendo la costa trovansi nella Grecia i capi Papa all’ingresso del golfo di Patrasso, Matapan all'estremità della Morea; quindi il capo Mallio, il capo Colonna all’oriente del golfo d’Atene; ripigliando la costa Turca, fra i molti nomineremo il Capo detto monte Atos, e nel mar Nero il capo Eminéche, e quello di Bangorad.

PENISOLE. —La Penisola più celebre è il Peloponneso, oggidì detto Morea appartenente alla Grecia; succedono la penisola di Tricheri, quella di Calcide costituita dalle tre penisole del monte Atos, di Corone, e Cassandria; e finalmente la penisola di Gallipoli lunghesso i Dardanelli.

ISOLE. — Gran numero d'isole possiede la Turchia nell’Arcipelago; principalissima è quella assai vasta di Candia; poscia le più importanti sono Thasso, Samotraki, Imbro, Lemno;—La Grecia possiede l’isola di Negroponte, quella di Sevro, di Coluri o Salamina, d’Egina, e il numeroso Arcipelago delle Cicladi.

POPOLAZIONE. — L’Impero Ottomano d’Europa conta 10,000,000 d’abitanti; il Regno di Grecia sale appena ad 800,000. I popoli che abitano la Turchia appartengono a varie razze, ma al mezzodì del Balcan prevale di gran lunga la Greca; al settentrione del Balcan e lungo l’Adriatico sono le stirpi Slave che prevalgono, miste nella Valacchia a' discendenti degli antichi coloni Romani. Trovansi dovunque Armeni, Turchi e Tartari. La Grecia per altro è quasi esclusivamente popolata di Greci.

RELIGIONE. — La gran maggioranza delle popolazioni professa la religione cristiana di rito greco scismatico; nondimeno vi sono molti Greci cattolici di tre riti greco, armeno, latino. Nell’Impero Turco però la religione dominante, quantunque professata dalla minoranza è quella dei conquistatori cioè la Maomettana,

GOVERNO. — La Turchia è soggetta a governo assoluto nelle provincie che dipendono immediatamente dal Gran Sultano, ma i Principati di Servia, Valacchia, e Moldavia soggetti solamente all’alta sovranità di lui, hanno governo monarchico temperato da forme aristocratiche. La Grecia è un regno costituzionale.

DIVISIONE POLITICA. — La Turchia si divide in 19 provincie e sono: la Servia, la Valacchia, la Moldavia, il Montenegro (soggette solamente all’alta sovranità della Turchia) la Bosnia, la Bulgaria, la Romelia, l’Albania, e la Tessaglia, e le Isole più lontane il cui centro di governo è Candia.

La Grecia è divisa in 10 dipartimenti, e sono: 1. L’Acaja e l’Elide; 2. la Messenia; 5. L’Arcadia; 4. la Laconia; 5. L’Argolide; 6. L’Attica; 7. La Locride e la Focide; 8. L’Acarnania e l’Etolia; 9. L’isola di Negroponte colle vicine isole Sporadi; 10. Le Cicladi.

CITTÀ PRINCIPALE — Capitale di tutto l’Impero Turco è Costantinopoli, l’antica Bisanzio che i Turchi chiaman Istambul; le altre città principali sono Adrianopoli, Salonichi, Scutari, Sofia, Larissa, Bosna-Serai o Serajevo; Varna, Scumla, Vidino, Nicopoli, Rustschuk e Silistria. Belgrado è capitale della Servia ma presidiata dai Turchi; Bucarest è capitale della Valacchia, dove è importante anche Giurgevo; Jassy è capitale della Moldavia, ove primeggiano anche Galacz e Brailoc o Ibraila. Capitale della Grecia è Atene; le principali altre città sono Corinto, Argo, Nauplia, Lepanto, Patrasso, Negroponte.


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IMPERO OTTOMANO IN ASIA

POSIZIONE. — Si trova la parte asiatica dell’Impero Otlomano posto tra il 50° e 42° gradi di latitudine al nord, e fra il 25 ed il 47° di longitudine all’est.

ESTENSIONE. — Dal nord-ovest si estende al sud-est per una lunghezza di miriametri 250; la sua massima lunghezza è di miriametri 150; la sua superficie intiera è di 55,000 miriametri quadrati.

CONFINE — Al nord contermina col mar Nero e la Russia; all'est colla Persia; al sud coll'Arabia; al sud-est col Golfo Persico; all'ovest coll'Arcipelago; ed al sud-ovest col Mediterraneo.

ACQUE. — Essa è bagnata dai mari: Mediterraneo, Arcipelago, Marmara, e dal mar Nero. Nel Mediterraneo tiene il golfo di Satasiéli, e quelli di Scanderéroun, e di Alessandretta. Possiede nell’Arcipelago i golfi di Smyrne, di Symia, d’Adramiti, di Sardarli, di Scala Nuova, d’Assem-Kasasi, di Eo, di Baba, di Cara-Bouronn, e di Erio. Finalmente nel mare di Marmara stanno i golfi di Mondania, d’Ismid, ed il Persico che è formate dal mare delle Indie. Lo stretto dei Dardanelli o canale di Costantinopoli separa la Turchia Asiatica dall’Europea. I suoi laghi principali sono Babr-el-Margi, il Tabaricli, l’Asphaltile o mare Morte, l’Alakieb, il Van, il Balagalzia, il Toulza e l’Aboullonia; sono notevoli i bacini del mar Nero, del mar di Marmara, dell’Arcipelago, del Mediterraneo, e del mar d’Oman dal golfo Persico. I principali fiumi sono la Sacaria, il Jechil-Emak, il Kizyl-Ermak, ed il Barlin i quali versano nel mar Nero; la Nicabilza che scorre nel mar Marmara. Il Sarabal, la Mendres (o Meandro) che sboccano nell’Arcipelago; il Seihoum, il Carason, il Djihoun, e l’Aasi (Oronte) che si scaricano nel Mediterraneo; il Chai-El-Arab che si ingrossa colla riunione dall'Eufrate e del Tigri, e che si getta nel golfo Persico; finalmente il Chari’a, il Cheri’a, e l’Arden (Giordano) i quali mettono foce nel mar Morto.

CLIMA. — Il miglior clima del mondo è quello della Turchia Asiatica; la sua temperatura è dolce e pura.

SUOLO. —Fecondissimo è il suolo di questa parte dell’Impero Ottomano. Le Montagne sono coperte da magnifiche foreste. Le pianure sono fertili ma coltivate assai male. Dall'est all’ovest si stende una catena di Montagne denominata Tauro; e quella dell’Anti-Tauro di cui il Monte Ageo è il più elevato. Sono notevoli i Monti Tcheldir; il Baba-Dagh che si elevano dall’ovest all’est; il Monrad-Dagh e l’Alma-Dagli al sud; i Monti Nimrod che si dirigono al sud-ovest ed il Djebet-Tak che separa la Turchia asiatica dalla Persia. Nella Siria si innalza la catena del Libano, e i Monti Tabor e Carmelo; e finalmente nell’Isola di Cipro sono raguardevoli i Monti di S. Croce. Sul mar Nero si nota il capo di Kerembch e d’Indjeh, sul mare Mediterraneo quelli di Khelidoni, Ainmour, Kizliman, Cavalière, Karudash, Khanzir, Ziarel, Ostanc, e del Carmelo. Le Isole principali sono: nell'Arcipelago, Renedo, Samos, Metelino, Chio, Cos, Ipsera, Calamine, Scarpanto, Radi. Nel mar di Marmara, è l’isola dei Principi. Nel Mediterraneo Cipro; Cisica e una penisola nel mar di Marmara.

LINGUA, RELIGIONE, POPOLAZIONE. —Le lingue parlate sono il Turco, l’Albanese, ed il Greco moderno. Si professano le religioni Musulmana, Ebraica, e Cristiana. Nel rito Greco ed Armeno, vi esistono anche varie selle di Giacobiti e di Nestoriani. La popolazione ascendea 12,000 d’abitanti, che stanno in ragione di 542 per ogni miriametro quadrato, dei quali parte sono Turchi, e parte Greci, Armeni, Arabi, Ebrei e Boemi.

STATO POLITICO. — Il Governo è monarchico ed assoluto; e si divide in selle Circondarii, cioè: nel Circondario di Anatolia, d’Armenia, di Siria, di Aldjezireh (Mesopotamia), di Kourdistan, d’Irak-Arabi, e delle Isole. Smirne è la capitale, e giace sul Mediterraneo, e le città principali sono Aleppo, Damasco, Bagdad, che sono poste sul Tigri: Tokal, Erzeroum, Alessandretta, Acri, Tripoli e Bajrut, le quali aprono i loro porti sovra il Mediterraneo. Brussa, Bassora, Scutari, Scala-Nuova, Trebisonda e Gerusalemme, antica capitale della Giudea. Le capitali delle Isole di Rodi e di Sio sono le città dallo stesso nome.

PRODUZIONI. — Le stesse della Turchia europea.


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IMPERO RUSSO COLL’UNITO REGNO DI POLONIA


IMPERO RUSSO COLL’UNITO REGNO DI POLONIA

POSIZIONE. — Fra 40° e 70° di latitudine nord, e fra 15, 10’ e 62 di longitudine orientale del meridiano di Parigi.

ESTENSIONE. — Lunghezza 240 miriametri, larghezza 195; superficie 55, 582 miriametri quadrati.

CONFINE — Al Nord l’Oceano glaciale, e il mar Bianco; all'est l’Asia, al sud il mar Caspio, il Caucaso, il mar Nero e quello di Azof, e la Turchia Europea; all’ovest l’impero d'Austria e la Prussia; indi il mar Baltico e i suoi golfi, finalmente il regno di Svezia e Norvegia.

MARI E GOLFI. — Al nord l’Oceano glaciale artico col mare Bianco ch'è un suo golfo, e gli altri golfi di Caca e di Ischeschaia; al sud il mar Caspio co’ suoi golfi di Bachon e Sùlian; il mar Nero col golfo di Perecop, il mar di Azof col golfo di Tangarog; all’ovest il mar Baltico coi golfi di Botnia, di Finlandia e di Riga o di Livonia.

STRETTI. — Senza occuparci di quelli che dividono le isole, ricorderemo lo stretto di Caricale per cui dal mar Nero si entra in quello d’Azof.

FIUMI. — Il Cara, la Petchora, il Meze, e principale di tutti la Dwina si scaricano nei mari settentrionali. Il Volga, il più gran fiume d’Europa va a finire nel Caspio; sono suoi principali affluenti l’Oka, la Mologda, il Kama, l’Ural o Iaich. Il Don entra nel mare d’Azof; nel mar Nero entrano a perdersi il Cuban che scende dal Caucaso, il Dnieper, il Dniester, e il Pruth; scendono nel Baltico la Neva, la Duna, il Nieraen e la Vistola.

LAGHI. — La Russia ha i più grandi laghi d'Europa, quali sono l’Onega e il Ladoga a settentrione di Pietroburgo; e vasti pur sono il Peypus, l’Ilmen, e il Saima, l’Enara, ecc.

CLIMA. — É temperato nelle provincie meridionali; è piuttosto freddo nelle centrali massimamente in quelle che s’avvicinano di più all’Asia; è gelido nelle settentrionali. L’aria v’è pura generalmente e sana, eccettoché sul Baltico, ov’è umida. Il suolo è generalmente fertile ove non ha il clima contrario, ma però vi si trovano vaste steppe deserte, e immense foreste.

MONTAGNE. — La catena degli Urali che segna all'est il confine fra l’Europa e l’Asia; il Caucaso che corre fra i due mari Caspio e Nero e divide in quel tratto pur esso l’Europa dall’Asia. I Carpati ad occidente che dividono la Polonia Russa dall’Duglieria e dalla Transilvania, provincie dell'impero Austriaco. Fra queste catene di montagne, che sono ai suoi confini, la Russia si stende in una vastissima pianura che ha per confini i mari settentrionali dell’Europa e il Nero a mezzodì, non potendosi contare come montagne le piccole e pochissimo elevate catene dei monti Waldai, e dei Volconscki, e qualche altra.

CAPI. — Menzioneremo quelli di Sviatoi e Camin nell’Oceano glaciale.

ISOLE E PENISOLE. — Nell'Oceano glaciale quelle dello Spitzberg e della Nuova Zembla, notevoli solo pella caccia dell’orso bianco di cui sono la patria; nel Baltico le isole di Ofel e Dagoes all’ingresso del golfo di Riga; l’Arcipelago di Aland all’ingresso del golfo di Botnia, e molte altre piccole isole lungo le coste della Finlandia.

La Penisola più importante è la Crimea nel mar Nero unita al continente mediante l’istmo di Perecop.

POPOLAZIONE. — La popolazione dell’impero Russo in Europa si calcola di 58,000,000 cioè di 1490 circa per miriametro quadrato. Sono la più gran parte di razza slava, suddivisa in Russi, Lituani, Rusuiachi, Polacchi, Letteni, ecc. ed in razza finnica, come sono i Livonesi, Finlandesi, Lapponi, Samojedi, e vi sono pure Tartari, Cormeni, Valacchi, Greci, Tedeschi, ed altre schiatte.

GOVERNO. — É assoluto ed ereditario. L’Imperatore è anche il Capo della religione dominante.

RELIGIONE. — La religione dominante è la Greca orientale o Greca scismatica; nella Polonia Russa per altro predomina il Cattolicismo; vi sono poi molti Ebrei e Protestanti, ed anche de' Maomettani e de' Pagani.

DIVISIONE AMMINISTRATIVA. La Russia è divisa in 54 Governi; e la Polonia a lei annessa, in 8 Palatinati.

CITTÀ PRINCIPALE — La città residenza dell’Imperatore è Pietroburgo sulla Neva in fondo al golfo di Finlandia. Mosca dee considerarsi come la città sacra dei Russi, e seconda capitale dell’impero. Città assai importanti sono Varsavia, capitale della Polonia russa, Riga, Revel, e Kronstadt, tutte tre sulle spiagge del Baltico o de' suoi golfi; Kalisch, Plock, Zamosc, Modlin nella Polonia; Orembourg negli Urali; Kasan, Astracan, Tangarog, Sebastopoli, Simferopoli, Odessa, Bender nella Russia meridionale; Arcangelo sul mar Bianco; Vilna, Kaluga, Tula, Twer, Novgorod, Saratov ed alla nell’interno.


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IMPERO D'AUSTRIA


IMPERO D'AUSTRIA

POSIZIONE. — L’impero]d’Austria è si tua to fra 40°, 10 e 51°,2’ di latitudine nord, e fra 6,14’ e 21,10 di longitudine orientale del meridiano di Parigi.

ESTENSIONE. — La sua maggior lunghezza è di 158 miriametri da Levante a ponente; la maggior larghezza è di 53 miriametri dal nord al sud; la superficie è di 6,888 miriametri quadrati, comprese le provincie italiane.

CONFINI. — A settentrione la Prussia e la Sassonia, all’est la Russia e la Moldavia; a mezzodì la Valacchia e la Turchia, il mare Adriatico, gli stati Pontifici, e i ducati di Parma e Modena; all’ovest la Baviera, la Svizzera, e gli Stati Sardi.

— Il Mare Adriatico o golfo di Venezia bagna le spiagge dei paesi italiani, e della Dalmazia, soggetti all'Austria.

GOLFI E LAGUNE. — Lo stesso Adriatico forma nella sua parte più settentrionale il golfo di Trieste; sulle spiagge orientali quello del mar Nero; e sulle coste occidentali forma le lagune di Grado, di Caorle e di Venezia.

LAGHI. — I più importanti laghi sono quelli di Balaton e Malien, e di Neusiedlen nelle provincie Ungheresi; quello di Costanza che tocca il Tirolo settentrionale; quelli di Garda, d’Iseo, di Como, di Lugano, e Maggiore nelle provincie italiane; e molti altri minori nell’Arciducato d’Austria e nelle provincie contermini.

FIUMI. — I fiumi che bagnano l’impero Austriaco sono il Vistola nello provincie polacche, e l’Oder nella Slesia,i quali volgono a settentrione e scendono al Baltico; l’Elba la quale raccoglie la Morava ed altri fiumi minori che irrigano la Moravia e la Boemia, e porta quindi il tributo delle sur acque attraverso la Germania settentrionale nel mare del Nord; il Dniester, che si getta poi per la Russia Meridionale nel mar Nero e nasce nella Polonia Austriaca. Il Danubio è il fiume più considerevole dell’impero che lo attraversa dal 1 ovest all’est, recando la gran massa delle sue acque anch’esso nel mar Nero; nel lungo suo corso riceve molti fiumi di cui i principali sono: a destra l'Inn ingrossato dalla Salza, l’Ens, Raab, la Mur, la Drava, e la Sava; a sinistra la Mardi, la Waag, la Theiss ingrossata dal Samos, dalla Maras e da parecchi altri fiumi.

Scendono nell’Adriatico la Narenta il fiume più importante della Dalmazia; e tutti i fiumi che bagnano le provincie italiane di cui sono principali l’Isonzo, il Tagliamento, la Piave, la Brenta, l’Adige, e il Po che in se raccoglie le acque( )del Mincio, dell'Oglio, dell’Adda e del Ticino.

CANALI. —Fra i canali più ragguardevoli avvi quello di Francesco in Ungheria fra il Danubio e la Theiss; e nelle provincie italiane molti ve n’ha sulla Brenta e sull’Adige, e nella Lombardia fra l’Adda e il Ticino.

MONTAGNE. — La catena de' monti Carpati circonda al nord o all’oriente l’Ungheria e la Transilvania la quale ultima ricoprono colle loro diramazioni. I monti Sudetici, i Riesen de' Giganti e l’Erzgchierge dividono l’impero degli Stati settentrionali ed occidentali della rimanente Germania; le Alpi finalmente solcano l’impero fra le provincie italiane che gli sono soggette e la Svizzera, e poscia fra esse e le provincie Tedesche e Slave.

ISOLE, —Avvi l’Arcipelago numerosissimo delle isole Istriane, Adriatiche lungo le coste di quelle due provincie; primeggia per grandezza le isole di Veglia, Kerso, Ossero, Pago, Brazza, Lésina e Lissa.

PENISOLA. — L’Istria penisola Slavo-Italiana è posta sull’Adriatico fra i golfi di Trieste e del mar Nero.

POPOLAZIONE. — La popolazione totale dell'impero sorpassa 00,000 cioè conta 5000 abitanti per miriametro quadrato. Sono popoli di razze diversissime o nemiche; la più numerosa è la razza Slava che si divide in molte schiatte tra cui primeggiano la Boema, la Valacca, l’Unghera, la Serbiana, la Dalmata, l’Illirica, la Tedesca, e l’Italiana; e si contano numerosi i Greci, e più scarsi sono i Giudei e gli Arabi. La religione cattolica è la più seguitata, ma i vari protestanti abbracciano almeno un terzo della popolarità.

GOVERNO. — E’ monarchico assoluto essendo comparse quelle ombre di costituzione ch’erano nell’Ungheria o Transilvania.

GESTIONE AMMINISTRATIVA. — L’impero si dee considerare ammasso di 15 membre che altre volte formavano porzioni di stati differenti: sei di questi fanno parte della federazione Germanica, e sono: 1. L'Arciducato 2. la Stiria, 5. L’Illirio, 4. il Tirolo, 5. La Boemia. 6. La Moravia, Gli altri Stati che non fanno parte della nazione. Sono: 7. La Polonia Austriaca o Gallizia. 8. L’Ungheria, 9. la Transilvania, 10. la Slavonia. 11. la i confini militari, 12. la Dalmazia. 15. Il Lombardo. Ognuno di questi tredici stati costituisce uno e più circondari o centri amministrativi chiamati governi, ogni governo è suddiviso in provincie, in circoli abitati.

Le CITTÀ PIÙ IMPORTANTI. — Vienna sul Danubio icato d'Austria, è la capitale di tutto l’impero; capitale della Boemia, Brunn lo è della Moravia, Lemberg lo sono della Gallizia; Buda e Pest due città divise dal Danubio sono le capitali dell’Ungheria, nel quale non di meno primeggiano anche Presborgo e Dizin; Agram è capitale della Croazia; Hermanstad della Transilvania; Gratz lo è della Stiria; Laibach e Trieste lo dell’llliria; Inspruch e Trento del Tirolo, Milano e Venezia delle provincie Italiane. Ma oltre di queste hanno le provincie dell'impero altre città di molta importanza.


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DISCORSO GENERALE DURANDO

PRONUNCIATO DAL GENERALE GIACOMO DURANDO

ALLA CAMERA DEI DEPUTATI

nella seduta del 3 febbraio 1855

sul trattato d’alleanza coll'Inghilterra e la Francia

PRESIDENTE. Il deputato Durando ha facoltà di parlare.

DURANDO. Il primo oratore, il solo che sin ora prese a difendere il presente Trattato, osservo che l’annuncio della firma del medesimo era stato ingrato al pubblico. Io mi permetto di rettificare questa asserzione. Io credo che la notizia della firma di questo Trattato produsse una impressione di stupore e di sorpresa. Infatti, o signori, clii tra noi non intese dire intorno a sé, nei giorni che corse la notizia di questo Trattato: Che andiamo noi a fare in Oriente? Quali sono i principii che vi difenderemo? E forse in pericolo l'indipendenza nazionale? Sono forse in pericolo le nostre istituzioni? Sono minacciati i nostri interessi commerciali? Oppure facciamo noi la guerra per la guerra, o siamo noi ritornati all’epoca della politica battagliera e cavalleresca dei primi secoli della monarchia di Savoia?

Queste sono le domande, questi i dubbi che si sparsero alla notizia di questo Trattato, ed io credo che questo giudizio debba richiamare fortemente l'attenzione della Camera in una maniera singolare, che cioè sia altamente necessario che la nazione sia ampiamente illuminata su questa materia, e che la questione sia studiata sotto tutti i punti di vista da cui può esserlo. È appunto perciò che in sette anni che ho l'onore di sedere in questo recinto serbando il silenzio anche nelle occasioni più solenni ed analoghe alla presente, credo mio obbligo di rompere questo silenzio.

I motivi che m’indussero ad osservarlo in questo lungo spazio sono interamente cessati, posso parlare con fiducia, posso parlare con convinzione e non ho alcun timore che per la posizione ch'io occupo nell'esercito. Le mie parole, che non suoneranno né dubbio né incertezza, possano esercitare qualche influenza perniciosa al morale delle truppe destinate a partecipare alla presente guerra.

Ritengo anzi che oltre all'obbligo che mi è imposto come deputato io debba pure parlare come militare, affinché se mai, ciò che la Camera, credo, condannerà senza esclusione di alcun partito, alcuno osasse spargere la diffidenza nel perverso intendimento di far crollare la disciplina dell’esercito, sorga una voce amica che rincuori in quei sacrifizi e lo conforti in quei pericoli cui è chiamato per l’indipendenza, per la libertà e per l’onore del proprio paese.

Si, o signori, io lo ripeto: la guerra, a cui noi siamo chiamati a partecipare, è una guerra d’indipendenza, una guerra di libertà. Aggiungo di più che questa guerra non contraddice affatto quella politica tradizionale italiana che noi pratichiamo da più di Ire secoli, e neanche quella politica più speciale che ci siamo assunta dopo la guerra del 1848.

Io intendo di provarvi, o signori, che la guerra è necessaria, utile e conveniente: 1° rispetto alla nostra posizione politica con riferenza all’Europa; 2° riguardo alla nostra posizione in relazione all’Italia. Io ho bisogno di tutta la vostra indulgenza, o signori, giacché io non vengo a parlarvi col linguaggio fervido e immaginoso, a cui siete avvezzi quando prende la parola l’onorevole signor Brofferio; io debbo tenervi un linguaggio freddo, un linguaggio severo, il linguaggio del puro e nudo raziocinio.

Io vi prego di seguirmi in una breve rassegna storica che debbo fare delle condizioni del nostro paese, per provarvi appunto che queste condizioni esigono assolutamente che noi partecipiamo a questa guerra.

Nei primi secoli della nostra monarchia, se noi eccettuiamo il grande Impero germanico e la Santa Sede, che avevano ragioni speciali di esistenza, propriamente parlando, quasi tutti gli stati grandi o piccoli non avevano una ragione politica europea di esistere; sussistevano, sto per dire, perché sussistevano. I sentimenti di nazionalità poco erano conosciuti, e quasi si può attribuire a molti Stati ciò che si dice di alcuni possessori; posseggono perché posseggono. Cosi questi stati esistevano perché esistevano; l’azione loro molto circoscritta non si estendeva guari al di là delle proprie frontiere, e tutto al più toccava alcuni stati loro conterminali.

Tali erano anche le condizioni del Piemonte. Noi propriamente non avevamo una ragione d’esistenza politica europea, la nostra azione politica era ridotta alla sfera di alcuni vicini con cui alternavamo ora l’amicizia, ora la resistenza dietro viste assai ristrette di interessi transitorii.

Ma questo stato di cose cessò affatto quando cominciarono in Europa i tre grandi antagonismi per cui ne nacque la nostra situazione politica speciale europea.

Io vi parlo dei tempi di Carlo V, quando cominciò il grande antagonismo europeo tra le case d'Austria e di Spagna riunite e la Francia, e dopo questo antagonismo l'altro non meno terribile della fusione delle due case borboniche di Spagna e di Francia, e poi finalmente il terzo grande antagonismo che tenne dietro agli altri, nato col primo Napoleonide il quale a somiglianza di tutti i fondatori delle dinastie dovette crearsi una grande preponderanza onde trovare in essa la base per edificarvi sopra la grandezza propria, e quella della sua discendenza.

Fu allora, o signori, in mezzo a questi tre antagonismi che l’Europa riconobbe nella nostra posizione speciale ragioni particolari per affidarci un mandato europeo; fu allora che ci fu conferita veramente una missione politica della maggior importanza, missione dovuta in parte alla nostra situazione geografica, poi sostenuta gloriosamente dalla sapienza che abbiamo posta nei nostri ordinamenti militari e governativi, dal valore delle nostre popolazioni, dalla lealtà e fermezza della nostra dinastia. Fummo cioè considerati come uno stato faciente parte di un tutto, come una ruota necessaria alla macchina europea, come un membro costitutivo di questo complesso di stati che si chiama Europa.

Ma, signori, le condizioni dell’Europa sono gravemente mutate. Quel grande antagonismo suscitato da Carlo I non è più quella gran lotta tra le due case borboniche, e quella d’Austria ha cessato; il tremendo conflitto sollevato pure dal primo imperatore francese, è scomparso: imperocché porto opinione che l’attuale suo successore non terra dietro alla politica del primo fondatore della sua dinastia, tentando cioè rinnovare a pro della Francia una seconda preponderanza napoleonica.

Io credo anzi che la sua grande missione sia di dividere questa preponderanza, egualmente fra le varie famiglie politiche dell’Europa, onde controbilanciare quella della Russia, cosi fatale al riposo dell’Europa: questa credo che sia la missione, e l’aspirazione dell'Imperatore dei Francesi. Voi vedete adunque da questo breve quadro, quanto siano essenzialmente mutate le condizioni del sistema generale Europeo,

Quando noi eravamo qui il teatro delle guerre, quando noi in certo modo avevamo la chiave del punto strategico di tutta Europa, noi eravamo a ragione considerati come uno Stato, non dirò necessario e indispensabile, ma molto utile all’andamento della società Europea.

Ma col mutarsi dei vincoli che la stringevano, evidentemente le condizioni politiche nostre speciali debbono pure cambiare, e guai a noi, o signori! guai a noi, se quando si trasformano tutte le relazioni politiche. d’Europa, noi non sappiamo prendere quel posto che finora abbiamo mantenuto con onore, se non sappiamo seguire colla nostra energia, col nostro coraggio quella varietà di condizioni, e di trasformazioni politiche, in mezzo a cui noi abbiamo potuto attraversare tempi cosi varii e difficili, e sorgere a potenza non dispregievole nel computo delle forze Europee. È tempo ora di dire all'Europa: durante tre secoli ci siamo dissanguati per opporci e neutralizzare quella preponderanza che sembrava più minacciosa a tutti: ora, tuttoché ancora sanguinanti di una recente guerra, non esiliamo ad offrirvi il nostro concorso, purché ci manteniate in quel posto d’onore, che abbiamo conquistato con tanti sagrifizii, e mantenuto con tanta costanza.

Come io vi diceva, le grandi preponderanze di casa d’Austria, di casa di Francia, e del primo napoleonide, sono sparite; ma dopo di esse una ne sorse, e la più temibile, la preponderanza russa.

Questo è il pericolo attuale dell’Europa, questa è la minaccia che ci pende sul capo, questo è il danno che noi tutti senza eccezione dobbiamo combattere.

D’ora in avanti, signori, l’Europa penserà seriamente e indefessamente non più a rimedi palliativi, ma si convincerà che è venuto il tempo di organizzarsi secondo le esigenze dei nuovi rapporti politici, secondo le nuove necessita, onde far argine ad una piena che a tutti sovrasta. Finora gli Stati d’Europa erano classificati in quattro categorie; vi erano gli Stati necessari, che erano come membri indispensabili e ruote costitutive, direi, del meccanismo europeo: vi erano gli Stati utili, vi erano gli indifferenti, ed infine gli Stati dannosi. Ebbene, o signori, colle nuove contingenze che si preparano in Europa, io tengo ferma opinione che questo stato di cose debba essere mutato; io credo, che l’Europa penserà che non debba più esser tollerata l’esistenza politica di certi Stati, checché indifferenti, checché innocui: molto più poi quella degli Stati inutili o dannosi; forza sarà che ogni Stato si renda necessario ed utile all’equilibrio europeo, che vuol dire alla salvezza comune. Inoltre io ritengo che al terminarsi della guerra si tenterà di lare nel senso inverso ciò che si fece nel 1815 per mezzo della santa alleanza, cioè per mezzo di quel trattato mistico, come sapete, in cui sotto all'aspetto di carità cristiana, di spirito evangelico, si celava un calcolo profondo della Russia, in cui vi era implicitamente sotto intesa l’espulsione della Turchia dall’Europa; e l’Europa cadde in quest’errore; almeno vi cadde la maggior parte delle potenze che presero parte a quel Trattato.

Ebbene converrà rifare ciò che male si fece nel 1815; converrà costituire una nuova confederazione europea contraria affatto a quel principio che era virtualmente incluso in questo Trattato; bisognerà che tutti gli Stati siano solidari, tanto i grandi che i piccoli, ed allora sarà forza che noi pure cerchiamo di trovar posto in questa solidarietà generale.

Ma come saremo noi ammessi, se ora, che il pericolo incalza, stiamo neguittosi, se quando l’Europa ci chiama in aiuto noi rifiutiamo il nostro concorso? L’Europa ci dirà: voi siete uno Stato inutile; vi abbandoniamo alla sorte degli Stati inutili alla salvezza comune. (Sensazione!).

Queste considerazioni mi conducono naturalmente a parlarvi delle conseguenze del Trattato, rispetto alla politica italiana.

E qui pure mi è d'uopo invocare la vostra indulgenza per una rassegna storica della nostra condizione, riguardo alla politica italiana.

Quasi tutti gli Stati che da una dimessa condizione di fortuna poterono compiere la loro personalità nazionale, quasi tutti ebbero a praticare due specie di politica, cioè una politica permanente e, direi quasi, obbiettiva, ed una politica transitoria ed eventuale.

Se noi studiamo lo sviluppo di tutte le moderne nazionalità, la Francese, l’inglese, la Spagnuola, e se volete anche la Prussiana, la Russa medesima, voi agevolmente vi accorgerete che i loro primordi furono sempre molto umili, ma che aumentarono sempre via via, applicando non solo una politica obbiettiva, quale era quella di allargarsi nei loro territori, ma anche a quando a quando alternando la politica incidentale, la quale pareva, a prima vista, non avere alcuna relazione coll'oggetto primitivo a cui tendevano.

Mi spiegherò meglio. lo paragono questa politica permanente che differenzio dall'eventuale alla condotta di un capitano marittimo il quale esce dal porto e si prefigge uno scopo lontano, a cui giungerà solo dopo molti anni. Sorgono tempeste, incagli, difficoltà ed ostacoli d'ogni specie al suo progredire, ora si arresta, ora volteggia, torna anche indietro, ma non perde perciò mai di vista il suo scopo principale. Finalmente dopo molti andirivieni, dopo molte vicissitudini e peripezie ottiene di raggiungere il suo intente.

Ecco o signori, applicata la politica obbiettiva. Questa, torno a dirlo, fu sempre la politica di tutte quelle nazioni che poterono sviluppare la loro nazionalità. Ora credete voi che queste nazioni abbiano rifiutato sempre quelle alleanze e quelle guerre che non conducevano direttamente allo scopo di compiere la loro nazionalità? No, signori, esse facevano alleanze incidentali ogni qualvolta v’era qualche ragione per giustificarle e talvolta anche quando non aveano vere ragioni plausibili, ma solo coll’intento di mantener viva quell'operosità nazionale, senza la quale tutte queste nazioni sarebbero cadute nell'ignavia quindi nell'impotenza, ed avrebbero perduto quel posto cui miravano. E noi abbiamo degli esempi molto recenti di questi risultati.

Noi abbiamo veduto sfasciarsi intorno a noi degli stati già fiorentissimi non già precisamente perché avessero dimenticato lo scopo a cui sempre aveano teso, ma bensì perché si erano abbandonati a quell’inoperosità nazionale che poi li condusse all’ultima rovina, o per parlarvi il mio linguaggio, neglessero la pratica della politica incidentale, sol perché pareva non essere immediatamente e direttamente utile alla loro politica permanente. Voglio dire con ciò che quelle nazioni le quali unicamente, esclusivamente esercitano una politica obbiettiva e che trasandano le altre circostanze atte a mantener viva la loro potenza, quelle nazioni perdono poco a poco il loro vigore e decadono infallibilmente.

Ora io faccio l’applicazione di queste massime alla nostra posizione. Fu un tempo che noi eravamo confinati in un angolo della valle di Stura o della Moriana; guardammo intorno a noi, e riconoscendoci piccoli e poveri volemmo ingrandirci ed arricchire; e fu allora che nacque fra noi una politica obbiettiva, quale i piccoli stati che hanno la coscienza di valer qualche cosa, sogliono mettere in opera.

Questa politica permanente però era distratta in differenti tendenze: talora si svolgeva verso la Svizzera, talora verso la Borgogna, talora verso la Provenza e qualche volta verso il Po, ma distratta quale ella era, non può negarsi, che noi anche nei primordi della formazione della nostra piccola nazionalità avevamo inaugurata e praticata una politica permanente, obbiettiva.

Per tre o quattro secoli perdurò questa altalena politica. Finalmente i fatti stessi decisero in un modo incontrastabile che la politica nostra non doveva più aggirarsi incerta al di là delle Alpi ma che doveva fissarsi al di qua.

Ma potete voi credere; o signori, che in mezzo alla pratica di questa politica obbiettiva noi abbiamo trasandato la politica transitoria? No, signori. Anzi chi ben studia la nostra storia vedrà che la nostra fortuna politica si sviluppò molto più per mezzo delle guerre eventuali, delle guerre di poesia, delle guerre cavalleresche, come quasi per derisione si suol dire, che coll'esercizio della grande politica che tende alle conquiste territoriali.

E difatti, o signori, come si è formato il vecchio Piemonte, quello cioè che ci servi di scala e d’elemento principale ai successivi ingrandimenti? Credete forse che sia stato per effetto di conquiste, vale a dire di questa politica obbiettiva di cui discorreva? Nulla di questo. Il vecchio Piemonte si formò per mezzo di aggregazioni spontanee. E queste aggregazioni spontanee quando si sono fatte? Forse quando si tentavano le conquiste e si esercitava la grande politica? No sicuramente; fu appunto colla politica transitoria, colla guerra di poesia, allorquando il conte Verde e il conte Rosso correvano in Oriente, e nelle Fiandre, che si ampliarono le basi della nostra nazione.

Fu a quell’epoca, che coll’aggregazione volontaria di molte città, e coll’espulsione degli angioini prese consistenza la regione subalpina e nacque veramente il Piemonte. (Sensazione!).

Io prescinderò dal continuare questa rassegna istorica perché credo che la Camera mi ha perfettamente inteso, e d’altronde l’ora già avanzata me lo impedirebbe.

Molte voci. Parli! parli!

DURANDO. La mia tesi è questa:

Non fu praticando esclusivamente la grande politica, permanente, la politica obbiettiva, che noi abbiamo dato maggior consistenza alla nostra nazione, ma fu appunto valendoci delle circostanze che ci si offerivano per adoperare la politica transitoria colle guerre anche di poesia. Fu con esse che noi abbiamo posto il fondamento della nostra influenza italiana, dopo che noi abbiamo costituito il vecchio Piemonte col quale in seguito abbiamo ottenuto Saluzzo, Asti, Vercelli. Quindi risultò che la nostra politica, la quale era in sulle prime transalpina passò alla condizione di essere una politica fissa subalpina, e più tardi quando col trattato di Utrecht abbiamo ottenuto l’annessione della Sicilia, quando potemmo giungere fino al Ticino col trattato d’Acquisgrana, e finalmente quando abbiamo ottenuto col trattato di Vienna l'aggregazione della Liguria e penetrammo cosi fino nel cuore dell'Italia, allora la politica che era solamente subalpina passe in modo incontrastabile ad essere politica italiana (Bravo! Bravo!)

Ma mi si può dire; anche quando imprendevamo queste guerre cavalleresche da cui ritraemmo tanti vantaggi indiretti, allora noi eravamo associati con potenze amiche; ora succede l’opposto; noi entriamo in alleanza con una potenza considerata come avente degli interessi ostili alla politica italiana che abbiamo assunta. Potrei, se volessi continuare in questo esame storico, il quale mi pare avere già abbastanza spiegato, potrei dimostrarvi che quando noi facevamo quelle guerre cavalleresche non sempre precisamente abbiamo consultati i nostri immediati interessi. Quando noi andammo in Oriente a sostenere il moribondo impero greco, in verità io non vedo il grande vantaggio materiale e diretto che ce ne sia risultato e la riconoscenza certamente dei Greci non fu molto grande. Quando noi andammo in Fiandra a sostenere Carlo VI re di Francia contro le Fiandre e l’Inghilterra, in verità anche allora forse noi abbiamo commesso un errore politico. Ma, comunque sia, gli errori dei nostri avi per questa parte certamente non scuserebbero quelli dei nipoti.

Ora però le circostanze sono interamente cambiate. Certamente non viene in capo a nessuno di supporre che noi accediamo a questo trattato per favorire anche indirettamente l’influenza e l’ingrandimento dell’Austria; ma quando mi si dice: voi non dovete assolutamente, né direttamente, né indirettamente immischiarvi in cose che possano favorire gli interessi dell’Austria, io mi immagino di vedere due possidenti vicini ad un gran fiume; questi due possidenti litigano per un terreno attiguo alle loro terre; ecco che mentre stanno querelandosi ed anche ingiuriandosi, come avviene talora nelle liti, per questo brano di terreno. quel fiume ingrossa e minaccia opprimerli entrambi colla sua piena.

I proprietari più lontani accorrono ai due litiganti, e gridano: pace! Vedete che rischiate di essere subissati entrambi, vedete che il torrente vi sta sopra; date tregua alle vostre dissensioni, facciamo argine al pericolo comune. Ma, signori, che direste se uno di questi proprietari rispondesse: oh, giammai accordarmi, anche per un momento solo, con un uomo, con cui io sto litigando da tanti anni! perire piuttosto che sottostare a questa ignominia. Che direste voi della condotta di questo uomo? E che direste di una nazione, che mentre è chiamata a difendersi da un pericolo comune. per una suscettibilità, che io altamente onoro, rifiutasse il suo soccorso, e preferisse soccombere anziché salvarsi differendo ad altri tempi la soluzione delle sue vecchie querele? (Bravo. Bene!) Questa condotta, o signori, non sarebbe per certo prudente, e la storia la condannerebbe altamente.

Ma, si dice, giacché non intendete d'allearvi direttamente coll'Austria, giacché non volete né anche indirettamente promoverne gl'interessi, non potreste voi adottare un sistema più dignitoso, la neutralità?

Questa neutralità, di cui tanto si parla, bisogna assolutamente anatomizzarla. Già lo ha fatto in gran parte l'onorevole mio amico. il sig. Torelli, io lo faro pure, ma ancor più brevemente.

Vi sono quattro partiti che propugnano la neutralità:

1.° V’è un partito che io chiamerò la neutralità Russa (non crediate, o signori, che io dica questo per derisione, lo dico molto sul serio), vi è una neutralità la quale dice: a che impigliarci noi adesso in questa guerra colle potenze occidentali? L’alleato più utile al risorgimento della nazionalità italiana è la Russia.

Parlo solamente di una parte di questo partito, perché vi è anche un’altra frazione che desidera la neutralità russa per simpatia di principii politici. Non parlo di questa; ma parlo della frazione liberale italiana che potrebbe valersi dell’alleanza russa come di un potente aiuto al risorgimento italiano. Ebbene questa opinione, o signori, io lo confesso, ha qualche fondamento nella nostra storia.

Ricordiamoci, o signori, che dopo l’impero romano non vi fu mai unificazione attuata in Italia che una sola volta, cioè sotto i Goti. Consolidiamo che le immense difficoltà che si attraversano all’unificazione italiana, forse non potranno mai vincersi compiutamente se non per mezzo di una preponderanza esorbitante, barbara, o non barbara che schiacci tutti questi elementi reluttanti tra di loro in Italia i quali non potranno mai esser domali da una piccola potenza.

Signori, questa opinione è, come suolsi dire, un'utopia, ma però, ripeto ha un qualche fondamento nella storia. Mi è d'uopo però dire che il difetto di cui pecca questa opinione si è di calcolare sopra avvenimenti i quali non si verificheranno, o se mai potranno aver luogo, sono sempre anticipati per lo meno di mezzo secolo. Si parte dal supposto che qualora la Russia trionfasse delle potenze alleate, si avvicinerebbe perciò all’Italia, e allora la nostra posizione di neutralità, convertendosi in istretta alleanza colla Russia, potrebbe servire all'unificazione italiana e cosi giungere facilmente alla soluzione di quel problema difficilissimo della ricostituzione dell’unità italiana. Ma qui, ripeto, s'anticipano gli avvenimenti fors'anco di un intero secolo.

Imperocché, o signori, la politica puramente obbiettiva della Russia non è mica quella di scendere per ora in questa prima guerra nel mezzogiorno di Europa. Quando essa riuscisse a sovrapporsi alle potenze alleate, non sarebbe verso l'Italia che essa si dirigerebbe, ma in Oriente dove è la via che le han segnato Pietro il Grande e Catterina.

Ora dunque voi vedete, o Signori, che la nostra neutralità non avrebbe più veruno scopo; giacché quando appunto l’occasione si offrirebbe di renderla proficua, essa ci sfuggirebbe, perché appunto quell'elemento con cui noi vorremmo unificare la penisola italiana si allontanerebbe per raggiungere lo scopo che per ora ha prefisso in Oriente.

Non dirò già che qualora il russo avesse raggiunto il suo scopo in Oriente, fra 50 anni, fra un secolo, esso non si rivolgerebbe all'Italia. Certo che si, ma come vedete o Signori, noi non possiamo calcolare la nostra politica su contingenze cosi lontane e problematiche. Vi ha poi un altro partito il quale proclama anch'egli la neutralità e dice: aspettiamo; che necessità vi è di pronunciarci? lasciamo che l’Austria consumi le sue forze; questo è tutto a vantaggio dell’indipendenza italiana, noi approfitteremo di questo stato di cose; allora ci dichiareremo, prenderemo quel partito che sarà più conveniente ai nostri interessi, ed allo sviluppo di quella politica italiana che noi vogliamo proseguire. Vi è anche un terzo partito, una terza opinione la quale veramente non vorrebbe aspettare a dichiararsi nel senso di muovere guerra all’Austria in tempo opportune, quando ella fosse indebolita a tale di render dubbia la guerra contro di noi, ma anzi dice: aspettiamo ancora un mese, due, tre, quattro, aspettiamo che la guerra si faccia ancora più terribile; allora le potenze occidentali avranno maggior necessita dei nostri aiuti, porremo trattare a migliori patti. Questa è un'opinione anche molto sostenibile.

Finalmente vi è, non so se in questa Camera, ma fuori certamente un partito il quale dice: ma che regno italiano, che ingrandimento di territorio, che preponderanza italiana? stiamocene nel nostro angolo, nel vecchio e buon Piemonte; noi ne abbiamo a sufficienza; consolidiamo le nostre istituzioni, pensiamo a sanare le piaghe delle finanze, adottiamo una neutralità assoluta, una neutralità ad ogni costo.

Ripeto, non so se in questa Camera vi sia un rappresentante di tale partito, ma comunque sia, a questi quattro partiti che proclamano la neutralità sotto differenti forme e con intenzioni e viste cosi differenti, io non faccio che una domanda.

Signori, la vostra politica di aspettazione sarà tollerata? Vi si presterà fede? Ditemi, non parlo dei ministri i quali hanno proclamato il loro sistema, ma di qualunque altro ministero che venisse, e protestasse di voler essere neutrale, di non volersi immischiare nella lotta attuale. sarebbe egli creduto? Io suppongo che venga al ministero l'onorevole nostro collega il conte Demargherita, che mi spiace non veder al suo posto...

Voci. C’è, c'è (Ilarità).

SOLARO DELLA MARGHERITA. Ci sono.

DURANDO. Certamente gli antecedenti del nostro collega sono tali, che quando egli proclamasse all’Europa voler essere neutrale e dicesse: fate voi la guerra, io me ne sto rincantucciato nel mio paese, l’Europa certamente. darebbe fede a questa sua protesta; perché il suo carattere, i suoi antecedenti non lasciano ombra di dubbio sulla lealtà della sua protesta; ma chi risponde, dirà l’Europa, che voi rimarrete sempre a que! posto? chi risponde che a voi non succederà un partito che non solo non vorrà la neutralità assoluta e neanche la neutralità aspettante, ma vorrà una neutralità fatale, dannosa, una neutralità che aspetta l’opportunità per gettarsi contro la potenza che nell’interesse comune si fosse affranta nella guerra? E come potrete voi supporre che in queste contingenze l’Europa vorrà restare incerta e lasciarvi la libertà di agire, o non vi imporrà o in un modo o nell’altro, o direttamente o inderettamente l'obbligo di pronunziarvi, per non lasciare dietro di sé un tale pericolo? Io per certo ritengo che giammai l'Europa accondiscenderebbe a tollerare una condizione siffatta.

E poi, signori, quand'anche fosse possibile proclamare e mantenere questa neutralità, a costo di quai sacrifici dovremmo noi sostenerne le conseguenze, al ritorno della pace? Credete voi possibile ancora dopo la guerra che si permetta ad uno stato che nulla ha fatto per l'interesse europeo, che si è rifiutato agli inviti nel pericolo comune, e si è ridotto nei termini del suo paese. mirando forse con qualche ambiziosa intenzione la tempesta scatenarsi, di continuare nelle presenti condizioni politiche che formano il più bel titolo alla nostra considerazione esterna, e alla nostra influenza in Italia? Romperemo noi la guerra a chi vorrebbe turbarci? Ma la guerra sarebbe impossibile, soli contro tutti; perche tutti sarebbero malcontenti di noi. E se non fosse grossa guerra, evitereste voi quelle continue battaglie spicciolate che vi si moveranno ora col pretesto dei dazii, ora della stampa, ora delle emigrazioni, ora della bandiera, ora di questa tribuna?

Reggereste voi, isolati, sprezzali. a questa continua lotta? Quando noi fossimo caduti in questa depressione morale, quando non avessimo fatto nulla per l’Europa, accertatevi che le condizioni delle nostre politiche istituzioni sarebbero molto precarie (Sensazione).

Vediamo ora quali siano riguardo alla politica italiana i vantaggi che potrebbero risultare, se si approvasse il trattato.

lo lascio stare l'eventualità delle neutralità teste mentovate. e suppongo adottato il partito della guerra.

Non potete negare che l’Europa da un secolo in qua conosce il pericolo in cui versa relativamente alla Russia; ma forse giammai questo pericolo l’ha cosi palpabilmente toccato quanto in questa contingenza.

Da taluno si è parlato della barbarie russa. Per dir vero, io non vi credo molto; quando veggo una nazione la quale ha costrutto Sebastopoli, ha eretto e creato dal nulla Cronstadt, ha fortificato Varsavia in un modo che ben presto se ne sentirà la potenza, io dico che questa nazione è tutt'altro che barbara. Or bene, l’Europa vede appunto quella civiltà che si va insinuando nella Russia, andarsi lentamente svolgendo per rivolgersi poi tutta contro la civiltà europea. Lasciate che quei 60, 70 o 80 milioni di russi siano collegati tra loro colle strade ferrate, coi telegrafi elettrici, e formino una nazione compatta come la Francia e l'Inghilterra; allora comincierà il grande pericolo per l’Europa.

Fra cinquanta anni la Russia conterrà 100 milioni, i quali uniti sotto un solo regime politico-religioso, ne varranno 200 o 300 altri, i quali siano divisi di interessi religiosi e politici, come è il rimanente dell’Europa (Bravo!).

L’Europa attuale deve alla perfine ricorrere a qualche rimedio potente. Rimedi palliativi ve ne sono molti. I celebri quattro punti che voi conoscete la libertà del Mar Nero, la distruzione di Sebastopoli, tutte queste non sono che ferite di una spilla, ma il pericolo continuerà a ingigantire, e non vi sono assolutamente che tre rimedi efficaci: 1,° Ricostrurre una grande Polonia, e, ritenete, io dico grande, con intenzione, perché una Polonia di tre o quattro milioni non gioverebbe a nulla, e neanche la Polonia antica che contava, se non sbaglio, circa 10 milioni, più non basterebbe; 2.° Inoltrare, quasi direi, parallelamente le potenze che fiancheggiano e fronteggiano la Russia lino nell’intérim della stessa, e ciò a cominciare dalla Svezia e a terminare nella Persia; 3.° Finalmente, la spartizione della Turchia europea.

Quanto al primo rimedio, o signori, io sono dolentissimo di non poterlo trovare possibile. Io non posso a meno di venerare la memoria di una grande nazione che ha reso alti servizi all'Europa, ed ha dato prova di grande eroismo in cento occasioni; tuttavia io non ho gran fede nel suo risorgimento, neanche per parte della diplomazia; imperocché con quale ardire l’Austria e la Prussia che si sono divise le spoglie di questa nazione farebbero una guerra — e che guerra! — per ristabilire questa nazionalità? Questo, o signori, io lo credo un fatto improbabile.

Quello poi di avanzare tutte le frontiere dalla Svezia alla Persia, a spese del territorio russe, è una impresa colossale.

La spartizione dell’impero ottomane sarà quella probabilmente che scioglierà, non ora, ma più tardi, il problema; giacché, o signori, la guerra che si fa attualmente non è un fatto isolato, voi ben lo vedete, è il principio, è il primo anello di molti avvenimenti, è una prima crociata. Ma, comunque si svolgano questi avvenimenti, qualunque sia il partito a cui l’Europa si appigli, bisogna pur che si appigli ad une di questi partiti, se non ora, fra 10, 15 o 30 anni, e qualunque sia esso, voi vedete quanto non debba vantaggiarsi lo sviluppo della nostra nazionalità. Dirò più, o signori, quando anche possa la Russia essere alcun che diminuita territorialmente, ciò che è ben arduo, tuttavia, essa sempre resterà un gran pericolo per l’Europa, ed anche in questo stato di cose converrà che le due grandi potenze germaniche facciano continuamente fronte alla medesima, e ne avverrà per necessaria conseguenza un certo movimento analogo di Stati i quali si sostituiranno l’un l'altro. La Prussia avanzerà. l’Austria avanzerà, e per l’istessa forza delle cose avanzerà anche l’Italia, e per conseguenza avanzeremo anche noi se prendiamo parte alla guerra, se ci rendiamo utili e necessari all’Europa, la quale vedrà sempre in noi il solo centro, il solo elemento possibile di resistenza in Italia nelle possibili contingenze di un nuovo e più formidabile straripamento dell’impero russo.

Adunque, in ultima analisi vi sono due alternative: o la guerra attuale è causa di mutazioni territoriali fra le potenze, e noi siamo in posizione di valercene e trarne profitto: oppure rimane lo statu qito territoriale, ed allora, checché ne dirà l'onorevole deputato Brofferio. per noi rimarrebbe anche lo statu quo costituzionale.

Ma, signori non vedete voi che cresce la nostra influenza appunto per quella sola circostanza che l'Austria e le potenze germaniche dovendo far fronte non più all'occidente di Europa ma ad oriente, il loro centro di gravita politica e militare peserà più lontano da noi e la nostra influenza più immediata si estenderà maggiormente in ragione della diminuzione dall'altrui preponderanza? (Bravo! Bravo!)

In verità mi dispiace che ad ora cosi tarda...

Voci. Parli! Parli!

DURANDO. Mi rimane solo a parlare di due obbiezioni al Trattato, le quali sono piuttosto generalizzale, e che si attengono particolarmente all'assunto politico ch'io ho trattato.

Si è detto: ma voi fate una guerra impopolare: il paese non conosce lo scopo di questa guerra, il paese non avendo simpatie per questa guerra farà a rilento i necessarii sacrifizi, e quest’apatia del paese si riverserà nell'esercito: voi dunque compromettete indirettamente l’onore delle armi.

Ma, signori, se noi avessimo che fare con una popolazione riottosa, solistica e sospettosa, io certo darei qualche peso a questa obbiezione, ma la nostra storia c'insegna quanta fiducia sempre abbia esistito tra il governo e la nazione.

Voi sapete che ogni qualvolta la casa di Savoia proclamò una guerra, le nostre popolazioni non sottilizzarono in raziocinii per ricercare l'utilità più o mono grande della medesima. Quante vol le Casa di Savoia intraprese una guerra per un diritto o d'omaggio o di successioni molto contestabili, la nazione ciò non pertanto non si restà mai di accorrere alla sua chiamata.

Ed ora che essa è interrogata per mezzo de' suoi rappresentanti, correrà con doppio ardore, se voi sanzionate questo trattato; imperocché alla docilità del suo carattere si unirà ancora quella forza che darà la grave discussione e le profonde e grandi convinzioni che ne risulteranno. Vi dirò di più: se noi volessimo cercare nella nostra storia altri esempi che ci confortassero, io sarei impicciato nella scelta.

Consentitemi una sola citazione.

Ditemi, o signori, quando nel 1705 noi imprendemmo la guerra di successione di Spagna, avevamo bensì qualche ragione a quella successione, ma eravamo in quarta linea, eravamo cioè dopo la Francia, dopo la Baviera e dopo l’Austria era un diritto che aveva qualche fondamento, non lo nego; ma era egli facilmente intelligibile e popolare? Gli stessi dubbi che si muovono sul presente trattato, non erano forse più ragionevoli in quella circostanza? eppure non titubammo un momento a dichiararci per la guerra, e fu appunto in essa che le nostre popolazioni fecero maggiori sacrifizi, e fu allora che abbiamo potuto erigere Io stato, che non era che un semplice ducato, alla condizione di regno.

Mi ristringo a questo solo fatto, e ad ogni modo io dico che questa pretesa impopolarità cesserà dal momento che questa grande discussione avrà illuminato il paese. Io non penserò che l’armata sia per ricevere di mal animo questa convenzione; l’armata è troppo disciplinala, e sa che andando a combattere coi vincitori dell’Alma e d’Inkermann, difenderà in Oriente l’indipendenza, la prosperità e l'onore della patria.

Si è anche detto: ma voi avete fatto un trattato in cui sono stipulati sacrifizi, ma non sono stipulati i compensi. Per verità questa difficoltà è facile ad essere appianata. Primieramente, o signori, quale è lo scopo della convenzione a cui noi abbiamo acceduto? Certamente non è quello di abbattere il colosso russo e di dividerne le spoglie; lo scopo è di frenarne l’ambizione e di limitarlo in certi dati punti. Non si è stipulato nulla per la ragione semplicissima che sarebbe in certa maniera rinnovare la favola della pelle del leone; ma siccome noi non impiegheremo per ora che una parte delle nostre forze, qualora sia luogo ad altre convenzioni, ad altri trattati, noi abbiamo sempre da gettare nella bilancia 40 o 50 mila uomini, ed allora sarà il caso di stipulare nuovi vantaggi. E qui permettetemi che vi citi anche qualche fatto della nostra storia.

Credete voi che sia dai trattati combinati con tutte le precauzioni mercantili che noi abbiamo tratto i maggiori vantaggi? No, o signori. Verso la meta del secolo xvi, nei tempi di Emanuele Filiberto, aveva egli forse questo principe stipulai un compenso con Filippo II, con quel Filippo II con cui non era superfluo di parlar chiaro e tondo, avea egli pattuito che gli sarebbe restituito il suo regno? Nulla; egli accettò il comando dell’armata, andò a San Quintino, vinse, segui la pace di Cambresis, e gli fu restituito il regno.

Passiamo al trattato di Utrecht. Noi abbiamo acquistato la Sicilia con quel trattato, che poscia cambiammo colla Sardegna, senza aver stipulato alcun patto; e fu l'Inghilterra che, per certe sue viste (su ciò non occorre ora di fermarsi), si fu l'Inghilterra, dico, che intervenne, senza che si fosse fatto verbo in nessun trattato di questa Sicilia, e non solo ci diedero la Sicilia, ma si mantennero le condizioni che pure avevamo tassativamente convenute coll'Austria, l'acquisto cioè dell’Alessandrino ed il Monferrato. E la ragione di tutto ciò consiste in che vi intervenne una potenza con cui noi non fummo, né saremo in urto di interessi né territoriali, né politici, e neppure commerciali cioè l’Inghilterra (Sensazione!)

Vi cito ancora un ultimo fallo: credete voi che l’unione della Liguria sia stato oggetto di preventive stipulazioni' No. signori; vi fu, è vero, tra la Francia e noi, un progetto di alleanza nel 1797, ma fu semplicemente progetto, in cui si stabiliva unicamente la seguente clausola:

«La France s'engage à chercher pour le roi de Sardaigne un débouché sûr et commode vers le littoral... »

E ciò perché l’anno avanti col Trattato di Torino noi avevamo rinunciato a Nizza, e non avevamo più un palmo di terreno sul litorale, chiedevamo un piccolo porto pel nostro commercio.

Epperciò l’annessione della Liguria non fu oggetto di verun patto preventivo.

Se adunque l'Inghilterra con cui non avevamo stipulato niente in fatto di compensi, ma che ci avea soltanto promesso dei sussidi, pure colla sola intervenzione della sua volontà ci fece ottenere dall'Europa l’importantissima annessione della Liguria, quanto più dobbiamo sperare oggi che noi abbiamo trattato direttamente coll'Inghilterra, la quale è divenuta garante della nostra integrità, e implicitamente garante di quei vantaggi nostri eventuali che, armonizzano tanto colla sua politica, e colle presenti e prossime contingenze europee?

Adunque, o signori, questa difficultà non deve essere di ostacolo all'approvazione del Trattato; imperocché, ripeto, noi abbiamo ancora forze sufficienti in riserva per gettare nella bilancia, qualora occorra, non dirò ora, ma nel successivo probabile svolgimento di questa guerra.

Io conchiudo, o signori, perché credo già di avere abusato dell’attenzione della Camera. Io approvo questo trattato, perché tali sono le esigenze della nostra situazione politica in faccia all’Europa; lo approvo perché esso non ci stacca punto dalla politica nazionale italiana; lo approvo poi anche per un’altra ragione, perché, cioè, questa guerra sarà occasione di una grande rivendicazione e riabilitazione nazionale.

Noi, signori, dal 1848 in qua, epoca che città pure l’onorevole deputato Brofferio, abbiamo certamente fatto assai. Abbiamo presentato all’Europa il fenomeno quasi incredibile di un piccolo paese che malgrado la compressione di tante malevolenze, seppe mantenere il suo governo costituzionale. Non basta ancora; noi abbiamo bisogno di riabilitarci del disastro che abbiamo sofferto nel 1849.

Noi siamo ancora sotto il fatale incubo di Novara (Bene, bravo!). E qui giacché il deputato Brofferio, che vedo volontieri tornato al suo banco, cita Waterloo, io gli dirò in proposito come la Francia siasi rivendicata di Waterloo. Si è ella forse rivendicata di quel disastro facendo la guerra a quell’Inghilterra medesima da cui era stata vinta a Waterloo? No, signori, ma offrendogli la mano in una grande impresa (Movimenti!).

VALERIO. E noi l’offriamo all'Austria!

DURANDO. Ella cominciò una guerra illogica ed impolitica nel 1825 contro i costituzionali spagnuoli, poi fece la spedizione della guerra classica della Grecia, e non bastò ancora; intraprese la guerra colossale dell’Algeria, poi la spedizione di Anvers, poi quella di llloa, o tutto ciò non bastò ancora; l’attuale Napoleonide credette sua speciale missione di rialzare definitivamente la Francia, e ciò fece. lo ripeto, non muovendo la guerra agli inglesi, ma riunendosi ad essi e combattendo il pericolo comune che minaccia l’Europa.

Pertanto, signori, approvale questo trattato con fiducia, con ardore; pensate che se in tanto movimento di tutta l’Europa, quando essa vi apre le braccia, voi la respingete; se rimanete inoperosi, se proclamate una politica di neutralità, a cui nessuno presterà fede, voi forse politicamente vivrete, ma i vostri figli o i figli dei vostri figli morranno inonorati ai piedi delle Alpi, e con essi saranno sepolte le ultime speranze d’Italia (Vivi applausi).

La seduta è sciolta alle ore 6.

Torino, tip. Botta nel palazzo Carignano.


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DISCORSO CAVALIERE L. C. FARINI

pronunziato dal Deputato

CAVALIEREL. C. FARINI

nella tornata della Camera del 7 febbraio 1855

SUL TRATTATO D'ALLEANZA

COLL’INGHILTERRA E COLLA FRANCIA

(Estratto dal Rendiconto Ufficiale

N.454 e 455)



Prendendo a discorrere dopo molti e molto ingegnosi e facondi oratori, io non posso avere la pretesa, né posso pormi l’incarico di afferrare tutte le obbiezioni che sono state messe innanzi contro il trattato di lega colle potenze occidentali, per venirle combattendo ad una ad una.

È mio intendimento di dire le ragioni politiche, per cui credo doversi aderire all’alleanza colle potenze occidentali, ed approvare le convenzioni stipulate dal governo del Re. Cercherò di afferrare i sommi capi delle obbiezioni più spiccanti, e se nell’andare del discorso avverrà che me ne cadano in mente, che mi sembrino meritevoli di attenzione, procurerò, alla meglio, di venirle confutando. Certamente mi propongo di non dimenticare quella che all'onorevole preopinante è parso potere trarre da un mio povero libro: per ora lo ringrazio, delle molte cortesi parole colle quali di quel libro, e della mia persona gli è piaciuto di favellare.

Signori, alcuni oratori che hanno parlato contro la lega colle potenze occidentali hanno dichiaralo, che la guerra è ingiusta, inopportuna e dannosa; altri hanno cercalo di impicciolirne e di invilirne quasi nel vostro concetto la cagione, la natura ed il fine; altri hanno dello: che mai importa a noi dall'equilibrio europeo? Che cosa significano gli europei concerti? Che cosa valgono i congressi? Questi sono enimmi diplomatici, sono lustre e tranelli dei governi, sono inganni armali: i poveri popoli non ci hanno a vedere; l’Italia non ci ha nulla a guadagnare, il Piemonte ci ha tutto a perdere; il denaro, il sangue ed il credito.

Queste mi paiono le più spiccanti obbiezioni che sono state messe innanzi, quelle almeno che ne abbracciano molte altre accessorie.

Per vero dire, anzitutto debbo confessare, che non saprei venire a ragionamento di cose di Stato con chi intendesse affermare che non si debbe tener conto di ciò che esiste; con chi sentenziasse che i trattati ed i governi sono un fuor d’opera, che l’equilibrio europeo e le questioni che lo riguardano non riguardano né punto né poco i popoli e le nazioni. Perché, dovendo io favellare di ciò che è, di ciò che si pratica nei gabinetti, delle cause per cui si trattano le armi sui campi di battaglia, qualunque sia il giudizio che io possa portare sui governi, sui negoziati, sui trattati, io non posso sostituire i miei desideri ai fatti esistenti; io non posso pretendere di dettar leggi colla mia fantasia e col mio cuore all’Europa; si debbo considerare tutte le circostanze, in mezzo alle quali ci. troviamo, debbo vedere quali sieno i governi, quale il diritto positivo internazionale, quali le cagioni che tengono in affanno ed in guerra l’Europa, e debbo avere il solo modesto intendimento di ricercare quale sia, nelle condizioni in cui si trovano lo Stato, l’Italia e l’Europa, il modo migliore per cui noi possiamo provvedere al bene, alla riputazione, all’avvenire di questo paese di cui abbiamo l’onore di essere i rappresentanti.

Permettermi adunque, o signori, senz’altro, di tenere per pienamente dimostrato, che le quistioni di equilibrio europeo sono (almeno dall'epoca del trattato di Vestfalia in qua) le questioni che sono state la cagione di moltissime e gravi, e lunghe guerre, il fine di moltissimi negoziati, il risultamento, più o mono buono, di moltissimi trattati. E permettetemi anche di accennarvi un’opinione che ho, ed è questa, che le questioni stesse di nazionalità sono comprese molto più che non sembri nella questione dell’equilibrio europeo; e forse nel corso del mio parlare mi avverrà di dimostrarlo.

Ora, se fu mai una questione di equilibrio europeo, ella è senza dubbio la questione d’Oriente.

Voi sapete, o signori, che l’Impero turco restà fuori del diritto comune pei trattati del 1815. Al quale proposito io debbo, prima d’andare oltre, contraddire ad una sentenza che, giorni sono, fu messa innanzi dall’onorevole conte Solaro della Margherita. Egli, forse per rendere omaggio al trattato, disse parergli, che coll’aderire alla lega delle potenze occidentali si venisse, se non per diretta, per indiretta via ad aderire ai trattati del 1815.

Ora io credo di non andar lungi dal vero se affermo in contrario, che coll’aderire alla lega attuale delle potenze occidentali, si distrugge il senso e lo spirito dei trattati del 1815. Tanto manca infatti, che i trattati del 15 siano raffermi dalla lega attuale, che gli è facile il vedere, che qualunque soluzione si voglia dare alla questione attuale di Oriente, fosse pur temporanea, fosse pure posticcia, i trattati del 15 debbono necessariamente essere modificati. Imperocché, delle due cose l’una, o si voglia mantenere ed assolidare l’impero turco, e bisogna farlo entrare nel consorzio europeo, quindi bisogna che tutte le parti che formano questo consorzio, ricevendo nella compagnia propria questo nuovo Stato, modifichino i loro rapporti territoriali; osi voglia distruggere o diminuire, ognun vede che la conseguenza necessaria è un rimpasto territoriale del continente europeo.

Per la quai cosa la lega vuolsi, a mio avviso, reputare non già una adesione ai trattati del 1815, ma la preparazione certa di nuovi trattati: sicché resta a vedere quai sia e quai possa essere l’interesse nostro di concorrere alla stipulazione di questi nuovi trattati che si preparano.

D'altra parte la questione d’equilibrio europeo, per se stessa gravissima e importantissima, acquista anche un'importanza ed una gravità tutta speciale, dalla natura speciale di una delle potenze belligeranti, dico della Russia.

Nel parlare della Russia, se mi avverrà di usare le parole di civiltà o di barbarie, avverto sin d’ora, che non le uso nel senso assoluto, che non uso quella di barbarie nel senso odioso, ma nel senso, direi cosi, filosofico, ossia come termine di comparazione fra il momento civile d’un popolo e quello di un altro popolo.

Dico dunque, che quando si parla della Russia, non bisogna solo considerarla sotto l’aspetto del suo sterminato impero, del suo sterminato esercito, non paragonarla a qualche altro impero antico o moderno della stessa estensione o della stessa forza, e che quando si parla dello Czar non bisogna considerarlo né come un imperatore, né come un despota, né come un conquistatore dell’antica o della moderna stampa, ma bisogna considerare e quell’impero e quell’imperatore sotto l’aspetto del sistema, della idea, dell’ambizione, della religione, di quella ideale potenza politico-religiosa alla quale ubbidisce tutto l’impero, e lo Czar sovrattutti. Io voglio accennare alla potenza che ha preso nome di Czarismo, a quell’ente che è per eccellenza e diplomatico, e battagliero, e conquistatore ed apostolo; a quell’ente, il quale non solo pratica astutamente nei gabinetti, ma astutamente cospira nei popoli; non solo cerca di sollevare nei popoli certe passioni, di cui può fare suo pro, ma cerca stimolare gli istinti di razza; a quella potenza, la quale è, non una meteora che rumoreggia e passa, ma un vulcano che può preparare un cataclisma (Bravo).

Ed io credo, che si debba cosi considerare, perché se da una parte vi sembra essere in Russia, come avvertiva l’onorevole generale Durando, molta civiltà, d'altra parte è manifesto, che questa civiltà si va informando più degli aggiunti che degli spiriti della civiltà occidentale, e si serve della scienza nostra non già per guastare gli stromenti della barbarie, ma per renderli più efficaci.

Del resto, per ciò che riguarda i principii della civiltà nostra occidentale, non si dà nell’esagerato quando si dice, che la Russia rappresenta principii di barbarie.

E valga il vero, o signori: rispetto a religione, voi avete una pretendenza feroce ad ortodossia esclusiva, la quale non minaccia solo tutte le Chiese costituite, ma minaccia ogni libertà di religione e di coscienza; voi avete, o signori, il giure della proprietà pienamente, o quasi pienamente barbaro ancora, voi avete l’uomo servo della gleba; nessun diritto di cittadino, nessun altro diritto dell’uomo, che quello di vivere, purché serva ed obbedisca.

Questi sono i principii che rispetto a quelli della civiltà occidentale, noi possiamo a ragione chiamare barbari, e questi sono i principii, contro i quali a ragione si solleva la civiltà occidentale. Per la qual cosa io argomento, che la questione per se stessa gravissima di equilibrio europeo, si implica in una questione di resistenza della civiltà occidentale. Né vale il dire, che forse quella tal civiltà semibarbara, o barbarie semicivile, che l’impero russo porta in suo grembo, possa essere in un avvenire lontano chiamata a risanguare questa civiltà occidentale che invecchia e si corrompe. Ciò potrà essere nei reconditi disegni della Provvidenza, ma, o signori, se lo speculare nel lontano avvenire questi reconditi disegni, può essere ufficio molto utile della filosofia civile, non è ufficio degli statisti, i quali se non debbono guardare troppo corto, non debbono nemmeno guardare troppo lontano, ma debbono cercare di vedere quali siano i mali più prossimi ed urgenti, a cui si debba portare rimedio.

Ora io dico, che i mali più urgenti e prossimi, sono ed il grande disquilibrio minacciato dalla Russia, che mira a Costantinopoli, perno di ogni equilibrio europeo, ed i principii sopraccennati co’ quali minaccia la nostra civiltà occidentale.

Se voi guardate in Oriente l’impero russo, voi vedrete come dopo le guerre napoleoniche, esso abbia or coll’armi, or cogli accorgimenti, or colle sollevazioni, cercato di estendere la propria dominazione.

Ricorderete, come ieri l’onorevole presidente del Consiglio accennasse al carattere cavalleresco e generoso dell’imperatore Alessandro; ma eziandio ricorderete come si debba all’imperatore Alessandro il mistico trattato che fu detto della santa alleanza, il quale fu divisato pel trionfo di quel sistema russo che ho cercato di colorire. Diffatti a quel modo, che pel trattato politico del 1815, l’impero russo restava fuori del consorzio europeo, cosi per il trattato della santa alleanza, nel tempo in cui tutti i popoli erano dati in piena balia dei principi legittimi, veniva lasciata libertà ai greci di scuotere il giogo dell’impero, riputato illegittimo, del turco. Quindi è che nel tempo stesso, in cui l’imperatore Alessandro ad Aquisgrana faceva sancire il trattato iniquo dell’intervento armato dei grandi imperi negli Stati piccoli, ogni qualvolta fossero sollevati a novità; nel tempo stesso che a Troppau, a Leibach, a Verona, Alessandro faceva effettuare questo principio di intervenzione sancito in Aquisgrana, egli soffiava nella rivoluzione greca; e si serviva del sentimentalismo un po’ cristiano, un po’ liberale dei popoli occidentali in favore della Grecia, per accrescere la propria influenza, e la propria preponderanza in Oriente, e non già per costituire una nazione greca forte, indipendente di sua ragione, ma per acuirne la voglia nei popoli, per tenervi acceso quel fuoco che non bastasse a dar libertà, ma si giovasse a consumare a poco a poco l’impero turco. Questa era l’opera dello Czarismo nei primi anni della ristorazione (Bene).

Qual frutti cogliesse, vi sarà chiaro se considerate come succeduto ad Alessandro l'attuale imperatore Nicolò (del quale Ferdinando d’Este, mandato da Vienna a fargli complimenti, scriveva «questo non è mistico, farà quello che ha fatto quell’altro, ma lo farà più speditamente colle vie di fatto, e non cercherà tanto di servirsi delle idee») e salito al trono, castigando molto severamente quei pochi che avevano tentato di ribellarsi contro l’autocrazia, faceva tosto intendere alle potenze confederate, che egli desiderava di gran cuore la pace (poiché è vecchio stile, che si mostrino più teneri della pace, quelli che più desiderano la guerra) che egli bramava si di andare d’accordo coi federali in tutte le questioni che potessero nascere in Occidente, ma che per quanto risguardava l’Oriente, la questione russa non si poteva confondere colle altre questioni del continente europeo, e che questa questione egli voleva condurre a suo talento, senza che altri se ne mischiasse.

E quello che disse presto, presto fece: voi vedete che nel 1826 stipula il trattato di Akermann, nel 1827 quello di Londra, dopo due campagne quello di Adrianopoli nel 1829, finalmente il trattato di Unkiar Iskilessi nel 1855, per forma che l’impero turco, cui gli arbitri europei nel 1815 avevano lasciato fuori della legge europea, passò sotto la legge russa; e cosi è stato fino ai giorni nostri.

Voi sentiste ieri dall'onorevole presidente del Consiglio rammemorare quale sia stata in occidente l’influenza politica della Russia.

Io non voglio ripetere quello che egli ha detto egregiamente, perché è indubitato che questo sistema ha avuto per fine di favorire tutte le repressioni, tutte le oppressioni, tutti i despotismi. Né io voglio parlare della Polonia; è storia troppo dolorosa: si voglio prendere dalla storia intima dell’imperatore Nicolò questo fatto. Era, se non isbaglio, il giorno otto di dicembre del 1850; era la festa di san Giorgio: l'imperatore aveva dintorno a sé tutti i grandi del suo impero, tutto lo Stato Maggiore: ferveva la lotta estrema della povera Polonia.

L'imperatore si volse al suo Stato Maggiore, e con parole e contegno concitato disse loro: Nessuna pietà dei ribelli, nessuna transazione cogli eterodossi (eterodossi erano i cattolici di Polonia); andremo a Varsavia, dovessimo avere il sangue sino alle ginocchia. I polacchi sono quattro milioni, noi siamo quaranta. Erano quaranta, forse cinquanta, oggi sessanta o settanta, domani ottanta. Quello è l’uomo, quello è il sistema, l’Europa badi a sé (Sensazione).

Ma qual è il fine di questo sistema in occidente?

A me pare chiaro, o signori; si travagli l’Austria in Italia dove la sua dominazione non è ferma, non può esser ferma; nel 1825, vada la Francia a domare la rivoluzione in Ispagna, dappertutto si mantenga questo travaglio di rivoluzioni inefficaci e di reazioni forsennate; intanto, tutte le potenze occidentali afflitte da questa infermità che le consuma, si dividono, si rodono, si indeboliscono, e intanto che l’Austria si allarga in Italia, intanto che la Francia ha da pensare a' suoi travagli, nessuno pensa all’oriente, e la cupola di Santa Sofia aspetta la bandiera dello Czar! (Sensazione)

Ma io odo dire, tutto ciò sarà vero, ma che cosa ci ha a fare l’Italia?

Che cosa ci ha a fare l’Italia? Signori! nell'anno 1815 fu alterato l’equilibrio europeo, perché l’impero turco restò eslege; adunque disequilibrio europeo in oriente.

V’ha un’altra gravissima cagione del disequilibrio europeo, un'altra cagione gravissima dei mali d’Europa, delle rivoluzioni che si perpetuano, e questa cagione è il disequilibrio dell’Italia, è la servitù dell’Italia!

Due enormi mali ha portato in Europa il trattato del 1815, la servitù dell’Italia, e l'ostracismo dell’impero turco dal consorzio europeo; l’un male ha stretta attinenza coll’altro.

L’Italia è stata lasciata qui quasi lievito di rivoluzione in occidente, quasi preda all'ambizione ora dell’Austria, or della Francia; spina nel cuore dell’una, desiderio dell'altra; mezzo di divertire l’una e l’altra dall'oriente. E l’una questione ha attinenza coll’altra, principalmente perché, se si voglia fare argine robusto al torrente che minaccia dal nord, se si voglia impedire alla Russia di andare a Costantinopoli, il mezzo più efficace sarà quello di rafforzare l’impero austriaco da quella parte.

Ora, o signori, se ciò si voglia, egli è indispensabile che si pensi eziandio a stabilire un vero equilibrio dalla parte di occidente, e questo non si potrà fare finché l'Italia non sia di propria ragione, finché gli stranieri vi signoreggino e vi pre ponderino; cosicché la questione di equilibrio europeo è ora nella sua prima fase, e se la guerra duri si tirerà dietro necessariamente quella dell'equilibrio occidentale, e quindi la questione italiana.

Ho inteso dire che nel 1815 noi avemmo il mandato di bilanciare in Italia la preponderanza dell'Austria e della Francia.

Mi dispiace di contraddire all'onorevole oratore che mise innanzi questa idea, ma per me è chiaro che tale non fu il di segno degli arbitri europei. Questo Stato fu ingrandito ed allungato non già per tenere il mezzo tra Austria e Francia, ma per fare un baluardo contro la Francia. Vel dicano, o signori, le nostre frontiere aperte ed Alessandria smantellata da una parte, e le Alpi irte di fortezze dall'altra; che ciò sia vel pro vano gli stessi ministri sardi che allora avevano voce e mano nei consigli dei potenti.

Allora essi reclamavano, ed a ragione, che le condizioni del Regno Sardo, rispetto all'Italia e rispetto all'Austria, fossero peggiorate dal trattato del 1815, quantunque la stu penda provincia della Liguria fosse unita alle altre provincie del Piemonte; e quei richiami erano giusti. Noi nel 1816 (e bisogna pure che l'Europa se ne persuada), noi nel 1815 in Italia rispetto all’Austria siamo restati molto più deboli che non fossimo prima della guerra della rivoluzione francese. La preponderanza austriaca è tanto cresciuta in Italia, che quel go verno non ha servito, ha sopportato fremendo. E si renda giustizia agli uomini che hanno governato questo paese, i quali se hanno sopportata talvolta quella preponderanza l'hanno sopportata fremendo.

E qui mi piace rendere questa giustizia particolarmente ad un uomo di Stato, il quale siede in questa assemblea. Egli mi ha fatto l'onore di scrivere che dissente da me in tutto; ed io gli rendo lo stesso onore; ma mi recherò a debito di dire che mi onorerei di avere firmato certe sue scritture, in cui si di fendevano e la dignità della corona e l'indipendenza del paese, e si protestava contro la preponderanza austriaca in modo degno di un ministro di casa Savoia e di un generoso italiano (Ilarità).

Io ho voluto adunque dimostrare, o signori, che la guerra ci riguarda, perché è guerra d’equilibrio europeo, perché è guerra di resistenza dei principii della nostra civiltà a quelli della semi-civiltà, o semi-barbarie della Russia, infine perché è guerra, per indiretto, di equilibrio italiano.

Ma io ho pure udito dire: Quali ragioni speciali avete contro la Russia? E l’onorevole conte Solaro Della Margherita, che ora nominava a cagione di onore, ricordava, giorni sono, i beneficii che la Russia ha fatto alla casa di Savoia. E l’onorevole deputato Cabella or ora introduceva ad egual fine la testimonianza di documenti che io ho pubblicato.

Prima di tutto, io credo che ai pretesi o veri benefizi della Russia si debba, come suol dirsi, dare un po’ di tara.

Quando il Sowaroff portava le sue armi a sostegno del trono dei reali di Savoia, forse aveva la generosa idea di difendere questa gloriosa dinastia, ma il fatto è che per offendere Francia, e per potervi resistere, egli era necessario ristaurare e tener in piedi questa dinastia, quindi si può senza malignità supporre che, piuttosto che cavalleria, quella fosse strategia.

Cosi, quando si facevano uffici, perché fosse afforzato il nostro Stato contro Francia, si potrebbe dire che era scienza di fortificazione militare, anziché simpatia per questo Stato.

Ma voglio far buona la opinione di questa simpatia per lo Stato e per la casa di Savoia; tuttavia non trovo che importasse simpatia per l’indipendenza d’Italia. So bene che Capo d’Istria veniva in Italia e specialmente nella Venezia, e là lasciava intendere, che l'imperatore delle Russie favoreggiava le idee di libertà e d’indipendenza. Avea bisogno Capo d’Istria di muovere i sentimenti italiani pe’ suoi fini greci. Ma sapete che cosa rispondeva Nesselrode a Giuseppe Demaistre, quando gli parlava di sentimenti e di spiriti italiani e di Italia?

Rispondeva: Non parlatene: questo guasta i disegni del mio padrone, guasta i disegni dei confederati.

Voleva la Russia, il concedo, uno Stato forte sotto casa di Savoia per far fronte alla Francia, ma non voleva preponderanza del Piemonte in Italia; la preponderanza era data all’Austria, ed era data all’Austria pei fini orientali.

La più grave obbiezione alla lega è per me, il confesso, quella per la quale si dice: il Piemonte ha iniziato nel 1848 una politica italiana, oggi la rinnega.

Signori, se avessi questa convinzione, il mio voto cadrebbe irrevocabilmente nero nell’urna.

No! io ho convinzione contraria, ho convinzione che è una fortuna per l’Italia, che il Piemonte entri nella lega.

Ve ne dirò le ragioni.

Innanzi tutto, senzaché io spazii nei campi della storia antica, attenendomi alla storia contemporanea, credo potere asserire, che quella che si chiama politica italiana effettiva, non intenzionale forse, se volete, ma politica italiana effettiva, non data solo dal 1848. Non bisogna darsi ad intendere che l’abbiamo inventata noi questa politica; no, essa esisteva già,e nel 1814 i ministri del primo Vittorio Emanuele difendevano questa politica con uno zelo, con un coraggio, con una sollecitudine che io auguro ai ministri di Vittorio Emanuele II (Segni di approvazione).

Ma questa politica andava per vie per le quali non poteva riescire, pur troppo, al suo fine; si credeva di preparare la risurrezione di un popolo con mezzi i quali, checché altri pensi (ché io rispetto tutte le convinzioni), erano acconci a snervarlo; si credeva di dover fare assegnamento soltanto sugli ufficii diplomatici, sulle astuzie più o meno efficaci, e niente sull’opinione pubblica, su questa nuova potenza europea che andava crescendo, e che, volere o non volere, finirà per trascinare e domare tutti i governi. Perciò non si riusciva ad ottenere dalla politica intenzionale italiana quell’effetto che era nel cuore dei principi e dei ministri di casa Savoia.

Nel 1848, che cosa è egli avvenuto? È avvenuto che la politica italiana di casa Savoia si fece politica italiana rivoluzionaria, perché tutta quanta l’Europa, e l’Italia con essa, essendo in rivoluzione, sarebbe stato ben poco sagace consiglio il mettere a pericolo la monarchia per resistere a quell’impeto a cui non resistevano i più forti imperi dell’Europa. Di che io credo si debba gratitudine al venerato Cesare Balbo che iniziò allora la guerra rivoluzionaria in Italia, ed ai suoi colleghi, tre dei quali sono oggi in questa Camera, ed il quarto, me ne spiace, è assente.

Allora era sagace consiglio entrare risolutamente in quella via per afferrare la novissima occasione, ma appunto perchè allora era sagace consiglio l’afferrarla per avanzare i destini della casa di Savoia e migliorare, se non compiere, quelli di Italia, cosi oggi, o signori, la stessa sagacia comanda, che si colga l’occasione nuova che è porta dalla questione e dalla guerra d’Oriente.

Oggi, o signori, la questione e la guerra si trattano da governi regolari per mezzo di eserciti regolari; piaccia o no, si desiderino o no quei casi che nel 1848 fecero palpitare tutti i nostri cuori delle più calde, delle più santa speranze, noi non possiamo a nostra posta crearli, e se pur si rinnovassero, non so se tutti si porrebbero sulla stessa via colla stessa confidenza colla quale vi si gittarono nel 1848. Oggi, o signori, se non vogliamo mancare al debito nostro verso la dinastia, verso la monarchia e verso l’Italia, noi dobbiamo con ogni nostra possa cercare di prender parte a quella guerra, la quale è sicuramente la preparazione di un nuovo assetto Europeo, e quindi d'Italia.

Questa è per me la ragione principale, la quale mi fa rendere il partito favorevole all’alleanza divisata dal Governo.

Ma e l’Austria, voi mi dite? L’Austria! Signori, io ho sempre creduto, e molti amici potrebbero fare testimonianza che l’Austria entrerebbe, nella prima fase almeno (badate bene), nella prima fase, certamente entrerebbe in lega colle potenze occidentali.

L’ho creduto, perché io ho imparato a fare stima del senno politico dei ministri austriaci, quella stima che in altri tempi anch’io non faceva, seguendo il vezzo di disprezzar troppo i nemici; l’ho creduto perché conosco l’animadversione tradizionale della politica austriaca contro la politica russa, avversione tradizionale, la quale era alimentata specialmente dal principe di Metternich; l'ho creduto, perché l’Austria ha sul Danubio i suoi principali interessi; ed io dovrei supporre assai poco accorti i ministri di Francesco Giuseppe, se dovessi credere che fossero indifferenti alla soverchianza russa in Oriente; infine l’ho creduto, perché, o si voglia, o non si voglia, dopo il 1848 l’impero austriaco in qualche parte si è trasformato; ed è certo che nei consigli di quell’impero non prevalgono più le idee di quell’oligarchia semi-feudale che puntava a Pietroburgo.

Io dunque tengo per ferme, che l’Austria trarrà la spada contro la Russia. E che per ciò, o signori? Per ciò, io dico urgente e indispensabile che la tiriamo anche noi; e noi prima dell’Austria. Infatti se voi lasciate l’Austria farsi merito di un poderoso soccorso alle potenze belligeranti, e voi acquistate il demerito di rifiutare il vostro piccolo soccorso, egli è indubitato, che necessariamente cresce la preponderanza austriaca nei consigli europei, cresce durante la guerra, cresce e raddoppia quando questa guerra sia finita, e sia conchiusa colla vittoria delle potenze occidentali. Allora, o signori, su chi farete voi assegnamento? Voi direte: il nostro concorso a ragguaglio di quello dell’Austria è ben poca cosa, quai peso possiamo noi portare nella bilancia dei consigli europei dopo la guerra? Sia pur poca cosa questo peso, sia quello di una piuma, ma volete voi avere il rimorso che nessuno sia che pronunci il nome d’Italia nel concilio in cui si prepareranno i nuovi destini europei? (Bene!). Vorrete voi venire in termine di dire: noi potevamo mettere una piuma che poteva dare il tratto alla bilancia, e non l’abbiamo voluto fare, e per nostra colpa la influenza austriaca in Italia è cresciuta? Imperocché questo sarà il risultato, se voi non intervenite in Oriente.

Quai partito vi resta se non prendete parte alla lotta? La neutralità! Dopo che vi è stata chiesta l’azione, disarmata a che cosa è buona mai la neutralità? Forse armata? Ma dopo le dichiarazioni che qui si sono fatte pubblicamente la credete voi possibile? Se ponendosi a partito di accettare o non la convenzione si deliberasse la neutralità armata, che s’intenderebbe con ciò? Che manteniamo nel cuore, come diceva l’altro giorno un onorevole oratore, quelle aspirazioni, quelle tendenze che abbiamo avuto nel 48, che aspettiamo la buona occasione di di far che? dite la parola! di dare addossò all’Austria! E credete voi che vi lascierebbero stare in armi? Dopo le vostre dichiarazioni la neutralità sarebbe spacciata; tanto varrebbe prender le offese domani (Bravo! bene!).

No, o signori, noi dobbiamo prender parte alla guerra; perche è guerra dei principii della civiltà occidentale, perché è guerra di equilibrio europeo, e per indiretto, è guerra d’equilibrio italiano.

Noi, portando le nostre armi sui campi orientali, vi portiamo le forze di uno stato libero e ferino nella sua libertà, nel mentre che altri stati infermi per assolutismo se ne stanno paurosi ed appartati; noi vi portiamo, o signori, la riputazione e la forza di uno stato italiano costituito, e fortemente costituito; noi vi portiamo un simbolo nazionale costituente: oh! lasciatemelo dire! (Con forza) noi andiamo col Piemonte vessillifero a battezzare l’Italia in mezzo al fuoco del cannone europeo.

Questo è il mio fermo convincimento, perciò dichiaro altamente, che non ho mai preso un partito con più sicura coscienza nazionale, come in questo momento, in cui di gran cuore approvo il trattato d’alleanza stipulato dal Governo del Re colle potenze occidentali (Vivi segni di approvazione). 


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IL TRATTATO DI ALLEANZA COLLE POTENZE OCCIDENTALI


È proprio vero che per conoscere gli uomini quanto valgano ci vogliono le occasioni. E per verità, tutti sapevano che il nostro Parlamento nazionale abbonda di elettissimi ingegni e di esperimentati politici, ma non a tutti era nota l'eloquenza maschia di cui non pochi fecero mostra nella discussione del Trattato politico-militare colle Potenze occidentale La materia era degna di quell’alto Consesso, e fu degnamente discussa. Ed io fra tanta disparità di sentenze rispettabili, ho raccolto onde tessere il ragionamento che segue:

È principio sanissimo in politica quello di mostrarsi spontanei nelle concessioni che ci possono essere imposte dalla forza. Non altrimenti si consigliarono i sovrani di Vienna e di Napoli quando diedero la loro effimera costituzione. Applicando la massima al Piemonte, noi ripuliamo prudente la pronta adesione del nostro Governo alla lega offensiva e difensiva colle potenze occidentale La prova rifulge in gran parte dagli stessi oppositori. Imperocché se è vero, come dai più si tiene per indubitato e come pure ragionava nella Camera il facondissimo Tecchio, che Francia ed Inghilterra per assicurarsi la tanto amoreggiata collegazione austriaca avevano bisogno di quel Trattato per attutare il timore che Francesco Giuseppe ha di un movimento italiano alle spalle è ragionevole il pensare che Londra e Parigi dopo avere esaurito le lusinghe e le preghiere, non avrebbero tollerate una ripulsa che loro toglieva il libero aiuto di cinquecento mila baionette. In una parola; se Luigi Napoleone, come asserisce anche Kossuth, voleva ad ogni costo la compagnia dell'Austria, ne segue per diretto che ogni ad costo avrebbe pure voluto la piemontese alleanza con tutti i suoi accessorii.

Ora supponiamo che i nostri statisti l’avessero ostinata. — mente negata colla miccia accesa sui cannoni. Che cosa avrebbero risposto esempligrazia alla intimazione anglo-francese di spararli contro o in favore della Russia? che è quanto dire: Noi non vogliamo neutralità; o unità una parte delle vostre armi alle nostre, o vi dichiariamo la guerra?

Fra î casi ex-cogitabili vi era anche questo. Or bene; il Governo accettando quello che testé fu conchiuso, avrebbe per lo meno perduto il prestigio dell'amicizia e il merito della spontaneità, la quale in qualunque negozio vale sempre qualche cosa. Battersi contro tre formidabili Potentati che si danno la mano, sarebbe non pure sventatezza, come conchiudeva l'onorevole Casaretto nella tornata dell'8 febbraio, ma l’ultimo tracollo delle nostre finanze e della nostra egemonia.

Non è egli un fatto che per mantenere quindicimila combattenti ci necessita l’imprestito di venticinque milioni all’estero? Come e dove si troverebbe una somma di gran lunga maggiore per condurre una guerra grossa abbandonati a noi soli? Caricheremo noi torse di nuovi per non dire impossibili, balzelli i popoli già intorati sulle imposte presenti? Niuno potrebbe saviamente consigliarli. «Un appello all'amor nazionale, un appello alla santa indipendenza d'Italia e tutto è fatto, rispondono alcuni. »

Cosa veramente desiderabile! Ma a soffocare un tale appello, volerebbero tosto le bombe degli alleati sopra Genova e sopra la Sardegna, che forse non sarebbero più nostre. Tanto più che mi corrono al pensiero le parole profonde del ragguardevole deputato Pareto nella tornata del 10 febbraio:

«Concorrono a formare la monarchia sarda elementi e provincie d’indole differente alcune di queste provincie riconoscevano la «sola forza delle baionette come arbitra dell'imposta riunione. »

A soffocare si fatto appello sorgerebbe il grido calunniatore di quella fazione arrisicata che ha sempre tentato di sfatare il nostro sistema costituzionale, di svisare le provvidenze che non mirano a repubblica, e di persuadere ai semplici che sulla terra piemontese non può fallire la pianta della libertà.

Sorgerebbe l'anatema dei puritani che non vogliono nemmeno la repubblica se non è da loro soltanto indirizzata.

Finalmente a soffocare un simile appello uscirebbero gli intrighi di quegli intolleranti qualificati nelle seguenti parole dell'egregio Tecchio:

«Furono dessi, che calunniando le menti e i cuori di chi non giurava ciecamente il loro vangelo, scompigliarono quella meravigliosa unanimità per la quale gli Italiani del 48 sorgevano a fronte del comune. nemico, cimentavano comuni rischi, aspiravano a comune trionfo.»

Oltre tutto questo, crederemo noi forse che il detto appello sarebbe salutato dalla esultanza popolare, e seguito da tutta la nostra armata ardente di battaglie come nel 48? Errore, funestissimo errore! Le suggestioni dei tristi, i sinistri di Lombardia e di Novara hanno disamorato il nostro esercito da quella impresa, e la moltitudine che giudica solo dagli effetti, non ama che il bene presente, e maledice a chiunque si trova nella dura necessita di assoggettarla a qualche gravezza, ancorché temporaria. Arrogi che fra gli stessi democratici più caldi e più accreditati molti cominciano a sentire che questo fare da sé per liberare l’Italia compressa da tanti battaglioni al dispotismo devoti, è una santa cecità consimile alla venuta del Messia che aspettano i discendenti di Heber. Nel che i detti democratici seguono, l'opinione di uomini chiari per intelletto, per liberi sensi e per altissimi maneggi. Tali sono il Sismondi, l'Armandi, il Marochetti e l'Orioli. Insomma noi il 48 non Io vedremo più. Esso era quel giorno divino che si compone di mille anni. In quel giorno Iddio ribenediva l'Italia tutta guerra e tutta pace ad un tempo. Fu allora che il vessillo sventolante della sua redenzione mise un mortale spavento nei tiranni della terra. Ma i popoli ingrati e voltabili non seppero approfittarne.

Alcuni non ammettono la probabilità di una seria rottura quando bene si fosse rifiutata la lega. Per rispondere a tali oppositori basta vedere se agli alleati tornerebbe meglio privarsi di cinquecento mila ausiliari, o far guerra al Piemonte diviso nelle opinioni e non ben preparato ad una valida resistenza.

In presenza delle esposte ragioni, senza quelle che si andranno svolgendo, si può logicamente convenire che la tante biasimata alleanza fu un alto di prudenza governativa, la,quale informandosi dagli eventi probabili, e non da quelli che sono unicamente possibili, dee sempre portare ne’ suoi calcoli le disposizioni interne e morali dello Stato che amministra.

Fra le deplorate conseguenze del Trattato in discorso, vi è il regresso della nostra politica che da italiana si è fatta gretta e municipale. Suppongo per un momento che ciò sia vero. Che cosa può significare pei nostri statisti questa politica italiana che in vista di qualunque sacrificio si vorrebbe conservare da chi avversa il Trattato? Forse il governarsi a disegno di realizzare quando che sia la nostra riunione coi fratelli lombardi? Ottimamente. Ma siffatta politica benché utile e benedetta, non sarebbe italiana, si bene di puro ingrandimento territoriale, come vanno mormorando coloro che non pensano che il camminare con foga obbliga talvolta a retrocedere.

Se, poi politica italiana significa prepararsi di cheto affine di prorompere un giorno a capitanare una grande rivoluzione intesa a riunire tutta la nostra penisola in un sol regno, allora io dico che si vasto divisamento senza l'accordo operoso di una grande potenza sarebbe un delirio.

Ora questo accordo non può essere colla Francia, la quale tremerebbe al pensiero di avere una vicina ritornata a quella potenza che signoreggiava il mondo. Non può essere coll’Austria che ci fa sempre il viso dell’armi, e n’ha ben donde. Non può essere coll’Inghilterra la quale, benché propensa alla causa dei popoli, non ignora di quali prodigi sarebbe effettrice per terra e per mare questa Italia rassettata nell’elmo della sua indipendenza.

Dirò tutto in poco. Quasi tutti i belligeranti attuali non sono che despoti. La sentenza è di Cobden, e Brofferio ornatissimo dicitore ce la ripete. I despoti vogliono regnare a tutto costo, e la storia sta li per chiunque voglia saperlo. Per conseguenza, se questi despoti vedessero sorgere una nazione gigante come l’Italia, la quale a breve andare potrebbe schiantarli, che non farebbero per essere tutti uniti a schiacciarla? — Anche un’umile riverenza alla Russia, anche una pace disonorante.

Se le ragioni sin qui addotte hanno qualche valorem possiamo inferirne che la politica progressiva è la più confacente alle condizioni presenti del nostro paese, vogliamo dire la politica consistente nello accrescere i mezzi e nel diminuire gli ostacoli che si frappongono al compimento delle riforme e ad ogni possibile allargamento di territorio.

I correttori de' popoli deggiono imparare da Hobes che il diritto nasce dalla forza, e che anche i più vasti imperi somigliano ai fiumi, i quali originando da un’umile sorgente, ingrossano nel loro corso. La legge di progresso è legge di natura, la. quale non fa mai niente ad un tratto. Dio stesso poteva creare con una parola l'ordine mondiale, e volle spendervi sei giorni, ossia una successione di tempo.

Ora è da vedere se dal Trattato in questione possiamo sperare qualche allargamento territoriale. Sono certo che agli oppositori rispondono ricisamente di no; ma io la discorro cosi: L’articolo che esclude ogni futuro compenso è prova irrefragabile che nelle trattative si è parlato di compensi. Né io voglio essere tanto ingiurioso alla dignità ministeriale da crederla annuente, ove le potenze le avessero detto: Voi dovete accettare la nostra alleanza offensiva e difensiva, e senza speranza di futuro vantaggio dovete mantenere a vostre spese buon polso di armati sui nostri campi di battaglia. Linguaggio di tal fatta avrebbe superato l'insolente pretensione di Carlo VIII verso la Signoria di Firenze. Perciò stimo invece che Francia ed Inghilterra le avranno detto: Noi mettiamo questo articolo per togliere qualunque bruscolo di su gli occhi all'Austria sospettosissima; ma chiunque si batte ha diritto ad un premio, e nel congresso della pace sapremo rimunerare il servigio che ci rendete, i sacrifici che fate, e i vostri confini saranno senza fatto dilatati. Questo mio parere si corrobora nel discorso del conte Cavour ove accenna di partecipare ai frutti della vittoria, ma più di tutto si corrobora nella storia, in cui trovo che la Casa di Savoia in tutte le guerre ha sempre avuto degli utili o stipulati prima o sottintesi dopo. Sia pure cosi diranno taluni, ma quanto durano e quanto valgono le promesse che non sono documentate? Io rispondo: Alla diplomazia che non vuol stare in fede, poco importa che le promesse siano fatte a voce od in iscritto.

Quale solennità mancava ai capitoli del 15? E pure chi non li ha violati? Ben sa la Polonia! Il ministro di Luigi Filippo nella conferenza di Londra segna coi plenipotenziari di Europa il non intervento; ma poco dopo l'Austria corse da padrona sui moti di Modena e di Romagna; la Francia bombardava Anversa, toglieva al papa la fortezza di Ancona.

Lasciando da un lato tutto questo, io porto opinione che il nostro ingrandimento sarà pure dettato dalla convenienza e da quel certo equilibrio che è richiesto alla pace europea. Per giungere a persuadersi di ciò è mestieri innanzi tutto esaminare i mezzi e lo scopo precipuo che hanno nella contesa orientale i due colossi che si stanno di fronte. — Nella Casa di Romanoff la guerra e la conquista sono il testamento di tutti i suoi antenati. Essa le matura nel silenzio del suo scaltrito Gabinetto, e poscia le intraprende con immutabile risoluzione e con terribile perseveranza. I suoi mezzi sono numerosi e potenti, né va molto lungi dal vero chi dice, che movendo la Russia, movono i battaglioni di mezzo mondo. Essa lo sente, e giubila alla voce de' suoi bardi che cantano: Dio solo è più forte di noi.

Dunque la mira della Russia è quella di acquistar qualche cosa, e questa cosa, senza dubbio, è una parte dell’impero ottomano. Con ciò, geograficamente parlando, toccherebbe l'apice della sua possanza europea; imperocché spingendosi più avanti, dovrebbe poscia cadere, come l'antica Roma, sotto il peso della propria grandezza.

Però in tanta solidità di potere, non le sarebbe difficile voltarsi alle Indie e impadronirsi di quei cento milioni di abitanti che lavorano come schiavi pel fasto inglese. Questo pensiero è la molestia che non lascia dormire il governo della regina Vittoria, è la causa motrice della grande spedizione in Crimea, dove gli uni si battono per aumentare il regno, gli altri per non perdere quello che hanno. Di chi sarà la vittoria?

Gli alleati possono allestire tali eserciti e tali flotte da fracassare il mondo; gli alleati hanno la simpatia delle colle nazioni che è pure una forza; hanno milizie che s'infiammano nell'amor della gloria. Per la qual cosa la Russia. benché tutta in armi e fidentissima nel Dio che ha coronato i suoi padri, la Russia dico, è impare all'urto di tanta, possa, e quindi o più tosto o più tardi le sarà forza indietreggiare. È vero che i casi della guerra sono molti e fatali è vero che sui campi di battaglia non tutto dipende dalla forza e dall'astuzia umana, ma vi è qualche cosa di più alto che accieca ed illumina, che affila e rende ottuse le spade; è vero tutto, ma dato anche e non concesso che lo Czar vincesse, dovrebbe sempre calare agli accordi, perché guai e poi guai se per una rotta decisiva, Francia ed Inghilterra già piene di mali umori fossero costrette a favorire le aborrite rivoluzioni.

Dietro l'esempio dell'eroica Polonia, che lo fece impallidire sul trono, l’Imperatore delle Russie è uomo da comprendere l'onnipotenza dei popoli che si levano a libertà, e piuttosto che vedere il mondo a soqquadro, si rassegnerà ai sacrificii dell'equilibrio europeo.

Dell'equilibrio proclamato singolarmente dall'Inghilterra, la quale verserà sempre in gravissimi pericoli finché i sovrani di Pietroburgo non saranno impotenti a far impeto sulle regioni orientali. Al quale effetto è necessario allontanare la loro dominazione dalla Turchia e dalla Polonia, è necessario spaventarli col rinforzato impero dell'Austria, e coll'Italia riunita almeno in pochissimi governi confederali.

Uno di tali governi sarebbe al certo il distendimento del Piemonte sino all’Adige; distendimento già proposto da lord Bentingh a Vittorio Emanuele purché desse una costituzione; distendimento che anche Carlo Alberto di gloriosa memoria poteva ottenere nella guerra dell'indipendenza; ma quel Magnanimo aveva sfoderalo la spada per un più vasto disegno.

Adesso le circostanze sono mutate e le calamità politiche aumentano. Laonde sarebbe una rea spensieratezza il non; fare tutto quello che dipende da noi per avere il regno dell’Alta Italia. A questo nome rideranno tutti quelli che lo stimano impossibile per la indispensabile condiscendenza dell’Austria.

L’Austria non ha perduto il senno e, in vista dei larghi compensi che possono darle altrove le amiche potenze, non può dispiacerle gran fatto la perdita di un paese che non può più gratuirsi né tenere in rispetto senza leggi statarie e senza un esercito dispendiosissimo. Anzi non credo di errare giudicando che l'Austria stessa dal 48 in poi pensi allo smembramento di quelle contrade, poiché le tratta come un fittaiuolo che non solo dibruca, ma scavezza, e sfrutta il podere che deve presto lasciare.

Dunque il regno dell'Alta Italia, anche nel linguaggio diplomatico, è giusto perché solennemente voluto dalle popolazioni. che lo compongono. È utile, anche nel senso democratico, perché una stabilisce forza preparatoria alla confederazione italiana, unico sistema attuabile nelle difficoltà dei tempi presenti. È facile ad ottenersi perché necessario ad un ragionato equilibrio, e perché un tal regno, estinguendo il fomite principale delle rivoluzioni italiane, concorrerebbe allo stabilimento della pace europea impossibile a durare senza il favore delle nazionalità.

Se a questi validi argomenti uniamo la volonterosa alleanza e la spedizione dei nostri quindici mila soldati, il nostro ingrandimento non può fallire, se non vogliamo disdire le conseguenze ad un principio che non si può negare.

Oibò, esclamerebbe qui l’esimio deputato Cabella, le nazioni non fanno mai nulla per gratitudine. Ed io soggiungo: Se non dobbiamo sperare riconoscenza ben meritando di esse, quali danni non dovremmo temere contrariandole colle armi alla mano? Chi porrebbe movere lagnanza se nel nuovo assetto dell'Europa invece di dare la Lombardia alla Sardegna ne facessero un principato a parte coll'unione dei Ducati della Toscana?

Però il nostro vantaggioso avvenire svanisce nel giudizio di coloro che non hanno fede nella durata dell’unione anglo-francese, massime, dicono essi, se alla Francia venisse un giorno da parte della Russia proposte altre volte già fatte.

Noi vorremmo che il valente Oratore conciliasse questa sua opinione con quella che racchiudono le parole eseguenti: «La Francia ha sempre pensato dal 1814, ed oggi piucché mai, a distruggere i risultati del trattato di Vienna».

Se la Francia adopera continuamente per annullare quel trattato che umilia il suo amor proprio, con quale intendimento potrà stringere la destra all’autocrate che lo propugna? D’altronde Luigi Napoleone conosce che tanta ignominia sarebbe importabile alla Francia, la quale è pur sempre un leone che dorme. La Francia sconfitta a Mosca dalle proprie vittorie, sconfitta dall’inclemenza del cielo e da un alto della più selvaggia barbarie, rammenterà sempre con dolore il miserabile scompaginarsi di tante schiere e di (anti cavalli guidati da quel fulmine di guerra che si chiamava Napoleone.

Né la contraddizione che implicano le su riferite parole è la sola che io trovo nei biasimatori della stipulata alleanza. Chi, a mo’ d’esempio, troverà logico il ragionare di coloro che risguardano la convenzione militare come rovinosa all’erario, e poi voterebbono allegramente per una neutralità armata la quale costerebbe almeno due cotanti, senza contare le tante braccia tolte inutilmente al lavorio dei campi?

A chi non parrà strano il giudizio di coloro che veggono il risorgimento italiano lontano due passi, e poi hanno la più intima persuasione che tutti i potenti e tutta l'aristocrazia europea sono congiurati ad impedirlo?

Dunque ben si apponeva il Presidente del Consiglio ministeriale dicendo che la neutralità è un assurdo, e per necessaria conseguenza ragionevole il trattato, il quale essendo ragionevole, è anche giusto, avvegnaché Dante dimostra che dove è 'la ragione vi è pure la giustizia. Con tutto questo replicano gli avversarii che se la neutralità è possibile a Napoli,. alla Toscana, alla Svizzera, e via dicendo, debb’essere possibile anche a noi. Rispondo: Nessuno di tutti quegli Stati ha i nostri antecedenti politici, nessuno ha una situazione eccettuativa come la nostra dirimpetto all’Austria, che pone la nostra alleanza quasi per condizione alla sua colle potenze occidentali.

Fra i dispiaceri che ostentano quelli che intendono a disservire il governo negli ultimi negoziati con Francia e Bretagna, vi è la partenza dei nostri quindici mila guerrieri destinati a far parte di una lotta in cui finora fecero mala prova duecento mila tra francesi, turchi ed inglesi.

Prima di tutto osserviamo che gli errori sono i più efficaci maestri a far meglio. In secondo luogo le cose orientai sono a tale che, prima di giungere il nostro aiuto, o sulle mura di Sebastopoli sventoleranno le bandiere della vittoria occidentale, o la guerra avrà un nuovo indirizzo in cui il nostro tricolore stendardo sarà auspice di più pronto trionfo, benché taluno avvisi che un corpo di quindici mila uomini sia rinforzo di poco momento dove cozzano eserciti poderosissimi. Molle prove in contrario se ne possono addurre. I prodigiosi allori di Bonaparte a Marengo, si debbono alla resistenza di sei mila uomini condotti da Dessaix, il quale suggellò la vittoria col proprio sangue.

Nella memoranda giornata di Waterloo se il generale Nev con simil corpo fosse accorso, giusta l’ordine avuto, dove tuonava il cannone, forse le sorti di Francia non cadevano in mano agli imperatori boreali, e Vienna non avrebbe veduto il nefando mercato delle nazioni. Nell'ultima guerra polacca i quindici mila prodi lasciati discosti e inoperosi, dal traditore Ramorino, bastavano ad impedire la caduta dell’eroica Varsavia. Nella nostra guerra del 49, quindici mila uomini alla Cava erano più che sufficienti a. ributtare qualunque assalto tedesco. Finalmente un numero poco maggiore di quindici mila combattenti quanta strage di austriaci non ha fatto a Novara? Ah, se altrettanti almeno avessero rinfrescato la pugna, chi sa quanta diversità di destini!

Ho voluto citare questi fatti affinché i quindici mila dei nostri eletti abbiano la coscienza della loro importanza e del nome che portano; affinché sappiano di non meritare che voci di conforto e di applauso, poiché alla fin fine non vanno che a campeggiare coi più forti del mondo dove s’impara Parle vera della guerra. Arte tanto più necessaria, imperocché fu detto da qualche deputato che nella causa italiana i l'incapacità dei condottieri fu quella che rese vittorioso il, decrepito maresciallo. Arte indispensabile in uno Stato che vuol mantenere un esercito non inetto a fronteggiare il nemico; un esercito come il nostro che, guidato da un grancapitano, è capace di attraversare l’Europa.

È vero che questi eserciti, con tutte le loro seguenze, ormai sono cose da smettere. Conciossiaché «non dipende più né dal volere, né dai principi, né dagli intrighi, né dalla. forza delle armi il decidere la sorte dei popoli. Il Governo non appartiene più alla forza, all’astuzia, alla routine, ma alla ragione, alla scienza, al pensiero. »

Queste magnifiche parole furono pronunciate da un deputato che splende fra i più rinomati giureconsulti della Liguria, e queste parole ci descrivono in breve l’ultima perfezione dell'umano consorzio, che noi con vocabolo antico chiameremo il secolo d’oro.

Faccia Dio che non ritardi a venire. La terra ha bisogno di giustizia e di pace. Ma dove prendere questa fiducia?

Se io discorro nei regni eziandio più vantati per civile sapienza, e non incontro che l’impronta dell’oppressione del soffrire, mi è giuoco forza conchiudere che il regno della ragione e della scienza è ancor lontano. Due nemici più tremendi delle baionette e dei cannoni rendono quasi impossibile la sua venuta. Intendete l’ambizione e l’oro.

Quanto la prima sia crudele e commettitrice di scelleraggini non fa duopo di riandare le storie che ne sono piene. Ogni generazione, ogni città, ogni paese ha i propri esempi. Essa è il vero tarlo delle anime, e difficilmente dai più sordidi cenci sino al diadema ed al triregno trovi chi ne sia illeso. Essa infine è la molla principale di tutte le azioni umane, si che la gloria stessa, se ben l’esamini, il più delle volte non è che una sublime ambizione.

Che non diremo dell'oro, qualificato assai bene nelle parole di Virgilio: quid non mortalia pectora cogis aitri savra fames? Ma meglio ancora in quelle del Guicciardini circa il pontificato di Roderigo Borgia: «I cardinali disprezzatori dell'evangelico ammaestramento, non si vergognarono di vendere la facoltà di trafficare, col nome dell’autorità celeste, i sacri tesori nella più eccelsa parte del tempio. »

Con questi esempi non dobbiamo meravigliare se anche a di nostri si vendono gli amici, i fratelli e le intere nazioni. Né pochi ambiziosi, né pochi avari, né pachi di questi venditori si trovano fra quegli stessi democratici che rimpiangono le miserie dei popoli, imprecano alle violenze dei Governi, e non lodano che gli estremi partiti.

Voi pertanto, instancabili agitatori dei popoli, prima di avventurare il sangue de' vostri proseliti, pensate all'ambizione e all’oro capaci da sé soli a frustrare qualunque conato. Pensate che il martirio è una voluttà divina, ma a poche anime è dato di sentirla, principalmente nelle cospirazioni che troppo spesso rovinano le famiglie degli ullusi, e ribadiscono le catene della schiavitù.

Le grandi rivoluzioni non nascono dai conventicoli né dai catechismi di un comitato, ma dalla forza degli avvenimenti preparati dalla pubblica opinione, la quale cresce come pianta al tacito trapassare degli anni. Il cadavere di Lucrezia provocò la cacciata dei Tarquini, e la cimentosa parola di Balilla fu segnale alla memorabile disfatta degli Austriaci in Genova. E chi non sa quale incendio rivoluzionario non produssero le ordinanze di Carlo X, a cui non fu poca sorte il poter campare la vita?

Agitatori de' popoli, pensate finalmente alle savie parole di Proudhon: «Ciascuna rivoluzione, checché si faccia per giustificarla, porta seco un certo che di sinistro, che ripugna alla coscienza del popolo e all’istinto dei cittadini non altrimenti che la guerra e il patibolo. » (Le Peuple de 1850)

Torniamo al Trattato per fare qualche riflesso sui danni possibili che esso può cagionare al commercio di Genova, giacché intorno ai danni certi fu già risposto anche troppo dal Ministero.

Si teme che durante la guerra il nostro commercio nel Mar Nero possa soffrirne assai più dei neutrali.

Contro tale supposizione primamente è da osservarsi che le condizioni strategiche e morali degli eserciti sono tali che la contesa di Sebastopoli non può più stare lungamente indecisa. In secondo luogo le flotte alleate possono molto adoperare che le bandiere neutre non abbiano vantaggi che siano negati alla sarda. Terzamente la tratta di quelle derrate che sono ricca vena alle sue rendite, dovendo importare maggiormente alla Russia che a' suoi nemici, essa non può a meno di seguire il principio insegnalo dai migliori economisti, che chi porta moneta è sempre il ben venuto, in qualunque modo egli venga. Anche il Muratori parlando di commercio raccomanda questo principio ai governi. Per ultimo se è vero, come si disse nella Camera, che l'asportazione dei grani russi è un commercio quasimente esclusivo alla Liguria, d'onde verranno i capitalisti e le navi che per un effimero privilegio ne facciano improvvisamente le veci?

Se poi disaminiamo la questione come a guerra finita, ripugna ad ogni buon senso il credere che nello stabilimento della pace gli alleati vogliano consentire alla Russia un atto qualunque di rappresaglia, come sarebbe una parziale gravezza imposta alla nostra bandiera. Né può cadere in mente al Gabinetto previdentissimo di Pietroburgo di vessare i mercatanti genovesi coi quali da gran pezza è stabilito il più favorevole avviamento allo smercio delle sue biade.

Né può con savia politica disgustare il governo sardo, il quale in pochi anni, mediante buone leggi annonarie e tutto il favore possibile all’agricoltura, potrebbe fargli una vittoriosa concorrenza nell’abbondanza dei cereali.

Se alcuno avesse per erronea questa opinione, legga Lucio Floro.

Esso chiama la Sardegna e la Sicilia pignora annonae dell’impero romano, in cui la sola capitale numerava più abitatori che tutto il Piemonte e la Lombardia insieme. Dal che si deduce la maravigliosa quantità dei raccolti che si facevano nelle due isole, capaci in allora di alimentare due terzi della presente popolazione italiana, benché a que’ tempi l’agricoltura mancava di due preziosissimi prodotti, voglio dire lo zeamais e i pomi di terra, considerati da Carlo Botta come una guarentigia contro la carestia.

Per tutte queste ragioni sembra evidente che il nostro commercio marittimo negli scali del levante non possa temere incagli dalla Russia dopo la guerra.

Ora tornando a bomba e riepilogando il discorso, risulta che il Trattato si doveva accettare quand’anche fosse un male per iscansarne un maggiore; ma il Trattato è un bene perché ci apre la via più giusta, più facile e più dignitosa al nostro ingrandimento.

Non è contrario al pensiero della nazionalità italiana, perche mira ad accrescere i mezzi per aiutarla.

Non è cattivo dal lato dell’economia, perché la neutralità sarebbe molto più dispendiosa.

Non è intrinsecamente cattivo pei soldati, perché la guerra è il loro elemento, e perché girando il mondo si sviluppa l'ingegno, si fa tesoro di cognizioni, si guadagnano onori e quattrini.

Non tronca il nostro migliore avvenire, perché la politica è cosa mutevole, e la presenza delle circostanze forma sempre il supremo consiglio di un provvido Governo.

Se nelle esposte considerazioni andiamo errati, esca fuori chi ci corregga, e noi faremo la parte dello scolaro.

Francesco Rovelli.


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DISCORSO DEL CONTE SOLARO DELLA MARGARITA

PRONUNCIATO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI

nella tornata del 5 febbraio 1855

SUL TRATTATO D'ALLEANZA COLLA GRAN BRETAGNA E LA FRANCIA


Prima di sanzionar col voto la Convenzione militare conchiusa colla Gran Bretagna e la Francia, il pensiero si volge al trattato per cui le armi del Re furon chiamate a dar prova del loro valore in Oriente. Il pensiero indaga quali ne saranno le conseguenze; se utili, se funeste alla nazione.

Tanto più trepida l’animo, dacché l'onorevole Torelli parlando a favore della presa determinazione, e la rappresentò come un inevitabile necessità, come i minor dei mali cui possiam soggiacere. Gravi parole on queste: né in affare di tanta importanza, da cui l’avvenire del paese forse dipende, potrei decidere a' qual urna debba deporre il voto, se prima non sente le spiegazioni del Ministro degli affari esteri. Espongo dunque l'impressione che in me produce la conclusione del trattato; il mio discorso non sorti che una serie di osservazioni e di dubbi.

Le risposte, che dalla cortesia del Ministro attendo, determineranno il mio voto.

Memore de' rapporti di alleanza e di amicizia per tanti secoli mantenuti fra l'Augusta Casa di Savoia e la Corte Britannica, il primo sentimento è di applaudire ad un atto che li rinnova e conferma. Più volte fummo alleati della Francia; più voile le nostre schiere pugnarono a fianco de' prodi di quella nazione; ad essi uniti sotto il comando del Re Carlo Emanuele si vinse nella gloriosa giornata di Guastalla, Tal rimembranza è di conforto ai nuovi cimenti; inclina l'animo a rallegrarsi per la pattuita alleanza, Duolmi nondimeno che si abbia a combattere una potenza, i cui beneficii, fin da quando la Corte di Sardegna stabili con essa diplomatiche relazioni, non posso dimenticare. Sappiamo pur tutti che in tempo di luttuose circostanze scese l'esercito russo in Italia per difendere i diritti della Real Casa di Savoia l’indipendenza nostra.

Severa e fredda la ragion di Stato fa tacer le memorie dei benefizii quando l’onore della Corona chiama altre considerazioni; quando il ben del paese lo richiede, la giustizia lo comanda; e poiché i ministri hanno consigliato il Re di aderire all'alleanza delle Potenze occidentali contro la Russia, conviene che l’onore, il bene del paese, la giustizia della causa che andiamo a propugnare, imperiosamente lo esigano; d’uopo è però che ci sia dimostrato onde il nostro voto sia una conferma di questi veri, e non sanzioni mai un principio contrario.

Mentre la Danimarea, i Paesi Bassi, il Belgi mentre la Svezia, che avrebbe pure più d’ogni al Potenza a sperar vantaggio si mantengono neutrali mentre le Corti germaniche, malgrado l'influenza dell’Austria, vanno cosi a rilento a pronunciarsi non dubito che i Ministri non hanno preso, neppure indirettamente, l’iniziativa ed offerte le nostre armi agli alleati. Al tempo stesso vo scrutinando per qual motivo mai la Francia e l'Inghilterra hanno chiesto a noi, cosi lontani dal teatro della guerra, di aderire al trattato, e non piuttosto alla Danimarea che ha le chiavi del Baltico, e non piuttosto insistito a Stoccolma, ove la speranza di ricuperar la Finlandia doveva certamente arridere: tanto più potendo la Svezia disporre d’un esercito non men del nostro agguerrito, e di una ragguardevole flotta. La Svezia si schern finora dal prender parte alla lega, e non adontarono le Potenze; perchè dunque noi ci affettammo di prontamente aderirvi? Alle considerazioni, io conchiudo, hanno mosso il Ministero.

Noi entriamo a parte di una lite gigantesca; saremo avvolti in una guerra europea; il sangue dei nostri soldati sarà sparso in Crimea, e sulle rive del |éler; per la prima volta la Croce di Savoia si darà sostegno dell'ottomana luna. Mentre ci auguriamo allori, l’uomo di stato demanda quali saranno i vantaggi pel nostro paese, e consulta nelle pagine della patria storia le tradizioni degli avi. Carlo Emanuele nel 1610 stringeva alleanza con Arrigo IV, ivi si stabiliva che avrebbe in compenso della guerra ossa alla Spagna il Ducato di Milano. Vittorio Amedeo nel 1651 si univa a Luigi XIII contro la stessa potenza, ma fu determinato qual parte avrebbe nelle conquiste Vittorio Amedeo II nel 1705 conchiuse il trattato di Torino coll'imperatore Leopoldo, e gli fu ceduta una parte del Monferrato, ancor tenuto dall’imperatore, Colle provincie della Lomellina, di Alessandria e Valsesia. Aderendo il medesimo nel 1704 alla grande alleanza fra l'Inghilterra, l’Impero e le Provincie Unite contro la Francia e la Spagna, altri considerevoli vantaggi gli furono assicurati; non si parlò, è vero, della Sicilia, che in Utrecht fu al Duca assegnata, ma non prese parte all'alleanza senza la certezza d'un grande utile per la Corona. Mi spiace di contraddire quanto ieri l'altro pronunciò nell'ingegnoso suo discorso l'onorevole Generale Durando; ma se consulta attentamente il testo di tutte le transazioni diplomatiche della Corte di Sardegna, aventi per oggetto alleanze e partecipazione attiva alle guerre, non ne troverà una sola in cui clausole di acquisti e compensi non siano state stipulate.

È vero, la Gran Bretagna e la Francia, nel trattato del 10 aprile 1854, dichiararono di rinunciare a qualunque vantaggio derivante dagli avvenimenti; mai esse, in ciò generose, ebbero pur sempre in vista quello massimo d'impedire la preponderanza della Russia, di stabilire il loro ascendente a Costantinopoli Concorrendo le nostre armi a tale scopo, giusto è il desiderio che qualche utile ci compensi dei sacrifici cui andiamo incontro. Se a ciò si è, come spero, pensato, è impossibile che le alte Potenze non abbian apprezzato così ragionevoli istanze. Chiedo pertanto al Ministro degli affari esteri se furono fatte e quale ne sia il successo. Non fo l'indiscreta ed inutile domanda di conoscere, se ve ne furono, gli articoli secreti; desidero soltanto essere dalle sue parole tranquillato, non togliermi il timore che il sangue piemontese si sparga in Oriente senza alcun pro per la patria nostra.

Ogni guerra può divenir contesa di principii, l'attuale può divenirla; ma non son d'accordo e chi crede che tal sia fin d'ora. Essa fu intrapresa nell'interesse dell'equilibrio europeo, e dal 1791 la prima che abbia tal carattere; essa è una conferma dei trattati del 1815, cui son lieto di vedere il Ministro dar manifesta adesione. Che tal sia questa guerra, n’è prova lo scorgere come, mentre si combatte, non si tralasciano i negoziati, né ciò accade quando i principii sociali sono argomento di contesa; le passioni hanno allora il predominio e soverchiano ogni considerazione di materiali interessi. Un accordo è sempre possibile quando questi sono in campo; se si contende pei principii, se la civiltà viene flotta colla barbarie, nessuna transazione è possibile, decide la forza. Chiamar barbara la Russia, è far eco a chi vede la barbarie in ogni luogo ove la libertà non è in balia delle mutabili idee del popolo; mi dolse che per approvare il trattato siasi data tal taccia alla Russia, tal colore alla guerra; e ben a proposito accortamente osservava l'onorevole generale Durando, che più dalla civiltà che dalla barbarie della Russia ha da temere l'Europa. Io non temo, per ora, né l’una né l’altra, né credo si temano a Parigi e a Londra, ove ben si apprezzano le condizioni degli Stati: anzi, non mi perito di affermare, che quando la pace sarà conchiusa rimarrà la Russia quello che è, quando alle Potenze che la combattono di aver delle guarentigie contro il suo predominio in Europa. L’onorevole generale Durando ha fatto menzione gloriosa de' nostri valorosi antichi principi, ma aggiunse che le loro guerre furono sempre guerre cavalleresche, anzi di poesia. Mi ha ciò sorpreso, poi né quando si contendea con Arrigo IV pel marehesato di Saluzzo, né quando Emanuele Filiberta, perduti i suoi Stati, capitanava l'esercito di Filippo II, né quando Vittorio Amedeo e Carlo Emanuele presero l’armi nelle guerre di successione della Spagna e dell'Austria, poetico era il sentimento che l’’animava a combattere per la salvezza e l'incremento della propria corona. Guerra cavalleresca fu soltanto quella di Amedeo VI quando mosse in Oriente a difesa del greco Imperatore. Un sentimento religioso in quei tempi spinse più volte l’Europa in Asia, e i conti Savoia, nel cui petto fervea l'eroica idea di combattere per la santa guerra, non badavano a pericoli, i pensavano a terreni acquisti per si generose imprese.

La politica di quel tempo non ha analogia i quella dell'epoca nostra che segue le massime ad tate nel trattato di Vestfalia, confermate durante il lungo regno di Luigi XIV e riconfermate con qualche modificazione nel congresso di Vienna. La politica che dee seguirsi non può sortir da queste vie senza errare. I Ministri, io non dubito, ne sono persuasi.

La condizione di neutralità, che equivale all’isolamento, è difficile per gli Stati di second'ordine anzi pericolosa quando trovansi vicini alle Potenze belligeranti, ma quando trattasi di guerre lontane e d'interessi ne’ quali la nostra politica non ha parte, la neutralità non pone in istato d'isolamento, né i nostri antichi Sovrani cosi bellicosi, cosi accorti onde crescere in considerazione e potenza, si credettero mai astretti a prender parte alle guerre di Gustav Adolfo, né poscia a quelle del gran Federico di Prussia.

Guerre vi furono in Europa dopo quella della successione alla corona d'Austria, ultima cui abbiamo preso parte, fino all'epoca della rivoluzione di Francia, e non perciò la Corte di Sardegna fu considerata mai come isolata dalle altre Potenze, colle quali anzi ogni dì aumentava le sue relazioni. Seguire via diversa, rompere la pace con una Potenza non ci ha offeso mai, non si può, senza che qualche cagione poderosa vi spinga; io prego il signor Ministro ad accennarla, perché possa risolvermi a dare il mio voto alla Convenzione militare.

Ne basta, intraprendendo una guerra, calcolare i vantaggi di sperati trionfi, convien prevedere i pericoli d'un disastroso fine; prevedere le eventualità d'un cambiamento di condizione, ove avvenisse che le Corti che ora vediamo unite alle Potenze occidentali, adottassero un'altra via, e poiché a ragion ci sta a cuore l'Italia, convien pensare se noi non ne poniamo in certi casi, non impossibili, la quiete in periglio. Inevitabilmente ciò accadrebbe, se mentre i nostri soldati combatteranno nella Crimea o sulle rive del Pruth, tuonassero i cannoni tedeschi nelle itale pianure e con essi quelli dello Czar delle Russie. lo parlo di pericoli remoti, l'Austria credo solidamente unita alle Potenze occidentali; ma quante volte nelle lunghe guerre tali avvenimenti accaddero, per cui fu cambiata l'attitudine politica delle Potenze! A queste eventualità si deve pensare, e vi avranno, io i Ministri pensato.

Fu savio avvedimento de' Principi dell'Augusta Casa di Savoia, nel prender parte a tante guerre, che quelle non riuscissero a danno degli interessi generali dell'Italia, di cui erano, come custodi dell'Alpi, i difensori; se a seconda delle circostanze ora uniti all'Impero, ora alla Spagna od alla Francia, la dominazione di qualche provincia italiana era sempre in contesa, né potean essi rimaner neutrali. Ben diversa è l'attuale condizione delle cose; estranea è Italia alla guerra d'Oriente, ma unita la nostra bandiera a quella delle Potenze belligeranti, non il Piemonte solo, tutta la nostra penisola è esposta ai inni delle future contingenze, cui non è dato prevedere nelle sorti della guerra se seconde o avverse.

Tali idee affollandosi nella mia mente mi rendono perplesso assai. Da un lato col voto alla Convenzione militare si concorre e implicitamente si approva un nuovo patto d’alleanza oltre ogni dire apprezzato se si considera le Corti con cui si strinse; dall’altro timore che non siasi provveduto al decoro della Corte né all'utile del paese, rende l’animo incerto. Riassumo con brevi parole il discorso; da quelle del Ministro verranno, io spero, i miei dubbi dileguati e i miei timori. Importa a tutti i Deputati della nazione di giustificare la decisione che siam per prendere, di conoscere la via per la quale c'innoltriamo, e se l’attual condizione è frutto d’altissimo consiglio, e mai di politica imprevidenza. Un oratore amico del Ministero accennò le conseguenze del rifiuto dell’alleanza ove le Potenze avessero detto: siate per noi, o contro noi; e prendo la forza dell'ingiunzione, ma importa sapere se fu fatta, se vi fu luogo a temerla. Importa insomma a tutta la nazione di rimaner persuasa qualunque fosse il Ministero onorato dalla fiducia Re, ugualmente inevitabile sarebbe stata la necessità dell’alleanza, e che l'indipendenza da noi sempre gelosamente serbata, fu riconosciuta, né fu pensiero delle alte Potenze d’unirci a loro per porre freno a non ben celate idee d’intempestive aggressioni.

Sia chiarito come l’onor della Corona e l’utile paese ci chiamino alle armi; si dimostri che nessun principio di giustizia è leso, e non avverrà mai alcun di noi, immemore di ciò che gl’incombe verso il Re e la patria, il suo voto ricusi. Siano pur gravi i pericoli, siano pur grandi i sacrificii, gli animi nostri non sono avvezzi a calcolarli quando i nomi del Re e della patria stanno a fronte.



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BREVI CENNI STORICI E GEOGRAFICI

SOPRA LA GUERRA D'ORIENTE

LA CRIMEA E SEBASTOPOLI

illustrati da due apposite Carte Geografiche

IL MAR NERO LA CRIMEA

TORINO 1855

TIPOGRAFIA DIRETTA DA VASSALLO

via della Basilica, N. 8.

IL MAR NERO LA CRIMEA


CENNI SULL'ORIGINE DELLA GUERRA D'ORIENTE

E SULLE INTRAPRESE OSTILITÀ

I

Questa guerra che mette in agitazione trecento milioni di popoli, e minaccia di avvolgerli in una lotta generale ebbe certamente la sua origine quale si volle far credere.

Quando la Russia diede fiato alle trombe desiderava altra cosa: e nutriva altre speranze, che non erano quelle che manifestava. Essa velò la questione dandole un aspetto puramente religioso; ma non si curò, o non seppe si bene farla che non trasparissero le sue mire ed i suoi disegni.

La diplomazia pare che ancora non siasi perduta di coraggio. Dopo d'aver esercitata tutta la sua arte, e messi campo tutti i suoi giochi di scaltrezza in cinque o sei congressi dove ora tre, ora quattro, ora dieci Plenipotenziari torturarono il cervello a fabbricar note e contronote, progetti e contro progetti: dopo tanti maneggi pure ancora vuole, o le piace far credere che sia possibile di venire ad accomodamenti onorevoli. Intanto giornatmente vediamo annunziata una nuova spedizione di armati per la Crimea, e poi quotidianamente udiamo che la morte mena stragi ora sul campo di battaglia, ora sotto la tenda del misero soldato colpito da morbi terribili. A tanto lutto, a tanta desolazione, per quanto la diplomazia possa essere creduta senza che, tuttavia, se le sue forze avessero potuto influire, la pace sarebbe già stata conchiusa. Ma la quistione non già, come si tentò di far credere di religione, o di razze; essa è tutta geografica, epperciò si ribella a tutte le frasi delle cancellerie. Il solo cannone la può comporre; e forse non sarà cosi presto; perchè chi ci assicura che la guerra, la qual fu bandita sotto un pretesto religioso e che ora si combatte in una angusta penisola, non venga sotto più degna aspetto ad estendersi improvvisamente, ed ardere minacciosa e terribile in tutti gli angoli d'Europa? Dio voglia che le nazioni si sveglino a pacifiche imprese; ma potrebbe succedere altrimenti; che da qui ad un anno, a sei mesi, anche prima il rimbombo del cannone le scuotesse colle armi alla mano. Quello che si può asserire si è, che i popoli non hanno nulla a temere nell'avvenire, anzi vi debbono sperare confidentemente, perchè i semi onde si propaga il progresso civile più spesso vengono gettati da passion furibonde, che dall'opera tranquilla delle menti illuminate. Tra i Greci ed i Latini fuvvi sempre contesa relativamente al possesso dei santuari di Gerusalemme, Betlemme e Nazaret. Sotto Francesco I re di Francia venne con Trattato confermato a favore dei latini il possesso d'adorazione dei luoghi che da tempi remoti avevano occupati. Questa disposizione fu rinnovata nel 1740; ma non si determinarono in verun trattato, in modo preciso, i santuari che esclusivamente dovessero appartenere ai cattolici. La Turchia, come è ben naturale, propenderà in siffatta quistione a favorire i Greci i quali erano, ed anche adesso sono, in gran parte suoi sudditi; donde le dissensioni furono continue, e gli accordi duraturi.

E qui giova ritenere che la Porta appunto perchè conosceva esserle conveniente di non scontentare i Greci, maneggiò in questa quistione in modo che, evitando di stabilire precisamente i Santuarii che dovessero appartenere a Greci ed ai Latini si conservò nel summenzionato trattato posizione svincolata ed indipendente: conservò nel tempo una piena libertà di far valere sempre quando le piacque e meglio le tornasse a conto i suoi diritti di sovranità sui suddetti luoghi. Col citato trattato 1740 la quistione venne, per modo di dire, assopita, ma non già definita e risolta.

Nel 1846 il luogo della Grotta ove vuolsi che sia nato C. apparteneva ai Greci. I Latini fondandosi sul possesso anteriormente avuto, vi collocarono una stella d'argento, la quale portava nel mezzo un'iscrizione latina. Una notte questa stella scomparve; essi ne incolparono i Greci; la rexmarono, e per ottener giustizia invocarono il protettorato della Francia. Questa per mezzo dei suoi rappresentanti dimandò che al clero latino fossero restituiti dodici santuari, i quali la gran cupola del sepolcro, la Chiesa di Betlemme e parte degli annessi giardini, e la tomba della Beata Vergine; e che al suo luogo fosse rimessa la stella. Queste domande furono infruttuosamente oggetto di negoziati particolari; ed invano la Francia dopo la caduta di Luigi Filippo si appellò ai Governi cattolici, onde determinarli ad appoggiarle.

Allora fu che la Repubblica Francese instò acciocché fosse dato ad una commissione mista l'esame dei diritti e delle xxioni dei due riti. Mentre la commissione compiva il suo incarico l'Imperatore di Russia tolse da ciò pretesto per rimproverare alla porta d'aver riconosciuto il trattato del 1740.

Quantunque non fondato fosse questo rimprovero, tuttavia il Sultano deferendo alla Russia, che erigevaşi a protettrice della regione Greca sciolse la commissione e ne creò un'altra composta di Ulema e di ufficiali ottomani. Ciò nemmeno poteva appagare Nicolò il quale mirava a diventar capo della Chiesa greca in Oriente per farsi scala a più alta meta; perciò pose al Governo Francese che le due potenze Francia e Russia trovassero modo di intendersi tra loro relativamente la quistione sui luoghi santi; ed una volta stabilito un accordo, se ne dovessero imporre le condizioni alla Turchia, allora che la Francia cominciò a travedere le intenzioni dello Czar; fatta accorta delle sue mire, dichiarò che alla Russia solo spettava di risolvere queste quistioni, non potendo le altre potenze senza ledere i diritti della medesima avervi parte se non officiosameute. Intanto cominciò a guardare con maggiore attività e prudenza i maneggi della Russia. E come la Porta avvisava che a bene le tornasse di finir le cose in modo da non compromettersi né in faccia alla Russia, né presso le altre potenze Europee e specialmente riguardo alla Francia; prima di convocare la seconda commissione proponeva un accomodamento in cui manifestava il suo desiderio, che si rendessero comuni a tutti i culti i Santuari che stavano fra essi divisi. Ma la Francia scorgendo che la quistione invece di risolversi avrebbe sempre sporti alla Russia nuovi pretesti a nuovi reclami; e bramando di porre questa potenza in una situazione, in cui fosse obbligata a svelare i suoi pensieri nascosti, od a rinunciare all'impresa che da lungo tempo meditava, respinse la proposta della Turchia. La Russia però non perdevasi di coraggio: continuava le sue pratiche verso la Francia, cercando di persuaderla ad unirsi a lei; pratiche che ogni giorno erano dal gabinetto Francese sempre meno apprezzate. Intrigava pure con tutti i sforzi per separare l'Inghilterra dalla Francia; la qual cosi avrebbe forse ottenuta, se questa potenza fosse stata men accorta.

In questo mentre la commissione emise il suo giudicio dichiarando che la gran cupola del Santo Sepolcro, fosse comune fra i Greci ed i Latini; la piccola cupola si possedesse dai Greci; che i latini fossero ammessi a praticar i loro atti religiosi nel santuario ove sta la tomba della Vergine; ma che compiti i riti trasportassero gli arredi e quanto avesse servito al culto; che sebbene la Chiesa di Betlemme fosse stata edificata dai Latini, tuttavia si occupasse dai Greci che ne avevano il diritto per il lungo possesso e finalmente siccome la grotta della Natività è posta xxxl'altare di questo santuario, i latini ritenessero una chiave della Chiesa e due dell'altare.

Queste decisioni furono convalidale con un firmano quantunque i Greci energicamente vi si opponessero ed invocassero assistenza e protezione dalla Russia, tuttavia in modo definitivo restò fermo che ai latini fosse rimessa la chiave della Gran Chiesa di Betlemme e che alla stella, xxxnto stata tolta ne sarebbe sostituita un'altra cisellata per cura ed a spese del Governo Ottomano.

Appena queste deliberazioni furono convalidate dalla Porta, il Gabinetto Ottomano ne informava la Russia, ed il Sultano coglieva quest'occasione per rispondere alle lagnanze fatte dalla medesima; scriveva all'imperatore che un sovrano xxale non avrebbe dovuto fargli il rimprovero d'aver approvato il trattato del 1740, mentre conosceva che la Turchia aveva sempre proceduto lealmente in tutti i suoi impegni.

Con sfarzo regio e con contegno minaccioso e fiero giungeva a Costantinopoli il principe Menschikoff ambasciatore della Russia non soddisfatta delle determinazioni della Porta, ferma di cogliere quest'occasione per mandar ad effetto i progetti di Pietro; la di cui politica Nicola avea costantemente seguita. Faceva entrata in Costantinopoli il 28 febbraio, seguito da tutti gli impiegati della legazione Russa, e un imponente corteggio di otto o dieci mila Greci, che mandavano appoggio e protezione dalla Russia nella quistione dei luoghi Santi. Questa specie di scena comica fu guardata dagli agenti delle altre potenze come un ridicolo mezzo che il talento della diplomazia Russa impiega per intimorire. Il 2 marzo in semplice paletot e cappello rotondo, senza veruna decorazione, come un semplice privato recossi alla Porta; ed ebbe una conferenza col Gran Vizir. Essendo io invitato, secondo l'uso diplomatico, a fare una visita al ministro dell'estero Fouad-Effendi, il quale costantemente alle ingiuste pretese della Russia aveva con coraggio resistito, rispose superbo ed altiero: «Non voglio vedere Fouad-Effendi cui il mio governo, e specialmente il sig. Oxeroff ministro russo presso la Porta debbono rimproverargli la più volte beata fede». Con queste parole il principe Menschikoff ottenne quanto desiderava, la dimissione del ministro dell'estero, il quale per quanto abbiano instato i suoi colleghi, non riuscirono a far si che accettasse un altro portafoglio.

Fuad -Effendi è uno dei personaggi più distinti della Turchia, il quale conosce perfettamente le instituzioni del suo paese e i sentimenti dei diversi popoli che compongono l'impero.

Fu lungamente incaricato d'affari presso le potenze estere ed in questa carriera vi acquistò tanta esperienza che giustamente fu riputato l'uomo di stato più dotto e più progressista della Turchia. Fu lieto il principe russo della caduta di Fouad-Effendi, ne menò vanto, e si inorgoglì. Credé che giunto fosse il momento di aprirsi la via per ispingere avanti i nascosti progetti della politica russa.

Sottopose quindi alla Porta un abbozzo di trattato contenente sei articoli, in cui, lasciata a parte la quistione dei luoghi santi, poneva direttamente sotto la guarentigia del Russia i diritti e le immunità della Chiesa e del Clero Greco. Svelava questo progetto intieramente le mire dell'Imperato Nicolò. Chiamava diffatti colla proposta convenzione sotto la sua protezione dieci milioni di Greci sudditi della Porta ed erige un impero sacerdotale in Oriente, onde stabilirvi un’autocrazia politica ed aprirsi la via a maggiori imprese. La Turchia fu minacciata di morte ed il Mediterraneo di diventar più tardi un porto russo.

In tali frangenti, che si rendevano più gravi perché l’Inghilterra dimostrava di non accorgersi dei maneggi della Russia, il Sultano credette opportuno di comporre un nuovo Gabinetto. Rechid-Pacha pigliò il governo degli affari esteri. Dotato di acuto ingegno e di un’onestà inconcussa avrebbe forse avuta nella carriera diplomatica e governativa una fama assai più romorosa e splendida, se avesse potuto persuadersi che in politica si corre maggior strada, si arriva più alta meta e si conchiude più facilmente colla bontà e fermezza del carattere che colla prontezza e facilità dell'ingegno. Rechid-Pacha avrebbe potuto avere, qualora se le fosse proposte fermamente, l'una e l'altra cosa. Devo al consiglio ed alle pratiche attivissime di questo Ministro la celebrata riforma del 5 novembre 1839, che la posterità ricorderà con riconoscenza attribuendogliene giustamente merito. La posizione della Turchia rimpetto alla Russia è sempre stata questa: 0 cader martire dei suoi diritti, o colla forza dell'eroismo e della giustizia farli trionfare impegnando le occidentali potenze a prestarle il loro concorso. Rechid-Pacha l'aveva compresa in tutta la sua estensione, epperciò le ambasciate a cui fu spedito in Parigi e Londra impiegò tutto lo studio e tutta l'arte del suo penetrante ingegno, maneggiò con si rara prudenza e si comportò con tanta umanità, che giunse ad acquistare alla Turchia le simpatie le due potenti nazioni Inghilterra e Francia.

Il principe Menschikoff aveva fissato per la risposta soli cinque giorni. La Porta rispondeva, che stante le mutazioni presi nel Ministero, non poteva il nuovo segretario dello stato per gli affari esteri trovarsi in grado di deliberare nel breve spazio di tempo fissato intorno il proposto progetto di statuto; ma che però entro altri cinque giorni avrebbe provato di dare una soddisfacente risposta.

L’Ambasciadore Russo conchiudeva, che la Porta rifiutava di accettare la proposta di guarentigia al Culto Greco-Russo Ortodosso, e che perciò il suo Governo doveva cercare questa guarentigia nelle proprie sue forze; annunziava che egli e tutti gli Ufficiali addetti alla legazione di Costantinopoli sarebbero senz’altro partiti.

Credeva Egli con siffatta minaccia concepita in termini xxxxeri e sdegnosi di intimorire la Turchia; ma non produsse l’effetto che desiderava. Avrebbe dovuto ricordarsi che solamente tre anni prima, nel 1850, la Russia unita all'Austria quando pretendeva dalla Turchia lo sfratto dei rifugiati politici, dovette ritirare le sue inumane pretese a fronte resistenza che la Porta vi oppose appoggiata dall'Inghilterra e dalla Francia. L'istessa unione che si stabili ora poteva. con più forte ragione rinnovarsi in questa quistione, in cui erano complicati gli interessi di tutta Europa. Se il principe russo meglio avesse ricordato il passato non si sarebbe lasciato trascorrere a tanta intollenza, ed a cosi amare minaccie. La Russia avendo voluto pretendere colle intimidazioni precipitò gli evenimenti. Il plenipotenziario Russo volle però prima di partire tentare di intimidire anche il Sultano. Instò in modo imperioso, affinché questi gli accordasse un'udienza. Quantunque sdegnato per la sua audacia Abd-ul-Megiil, tuttavia diede ordine ai suoi ufficiali di introdurlo dicendo: volere che egli sapesse per bocca sua propria essere i suoi ministri fedeli organi della sua volontà immutabile. Fu certo dal Sultano mantenuto il propostosi contegno; perchè, appena lasciata la Regia, il principe Menschikoff con tutti gli ufficiali diplomatici la Russia abbandonò Costantinopoli.

La Francia, edotta di questi fatti, pubblicò nel Moniteur che questa quistione, affatto diversa da quella dei luoghi santi riguardava i soli interessi della Turchia, di cui essa particolarmente doveva calcolarne il valore; e che, se dalla medesima fosse stata per nascere qualche complicazione, allora la quistione diventerebbe europea, e la Francia e le altre potenze avrebbero dovuto prendervi parte. La Porta intanto diriggevasi ai rappresentanti Francese, Inglese, Austriaco e Prussiano annunziando loro ufficialmente le pretese della Russia, e dichiarando, che dopo la partenza del Principe Menschikoff, doveva senza indugio prepararsi alla difesa contro qualunque aggressione possibile.

Quantunque la squadra inglese restasse immobile a Malta, tuttavia la Flotta Francese del Mediterraneo ricevette ordine di recarsi in osservazione nell'Arcipelago Greco e di mantenersi pronta ad ogni evento. Ciò significava che il Governo Francese voleva sostenere, non ostante le esitazioni della Inghilterra, i diritti della Turchia.

Era allora ministro per gli affari esteri in Inghilterra Lord Aberdeen, il quale forse troppo confidente nella buona fede dello Czar, si ostinava a non vedere nella quistione d'Oriente che quella dei Luoghi Santi, o per meglio il pretesto, e non la causa. Conosceva le opinioni del ministro l'Ammiraglio Dundas, perocchè invitato dall'Inviato Inglese a Costantinopoli di portare la sua flotta nelle ad Turche rifiutavasi; ed intanto ne informava il Lord Aberdeen che lodava il dato rifiuto. Ciò diede luogo a supporre che impossibile fosse un'alleanza tra l'Inghilterra e la Francia o quanto meno un'unione per intraprendere insieme guerra. Ora questi sospetti cessarono affatto. Sta solo a vedersi quali saranno i frutti di tale alleanza.

L'una e l'altra però fecero delle rimostranze alla Russia, tentarono con tutta l'efficacia dei mezzi diplomatici di indurla a ragionevoli accordi: ma invano. Essa passato il Pruth invase i Principati Danubiani. I Consoli di Francia Inghilterra levarono le insegne del loro Governo e parlarono protestando contro l'improvvisa occupazione.

Contro una tale invasione reclamando con tutta ragione nella pienezza dei suoi diritti la Porta, partecipo per mezzo di Omer-Pacha al Generale Russo comandante l’Armata di occupazione, che se entro quindici giorni o avesse abbandonati i Principati, la guerra sarebbe stata la conseguenza del suo rifiuto. I quindici giorni fissati spiravano al 23 ottobre 1853, ed essendo trascorsi senza veruna risposta, nel suddetto dì ebbe luogo il primo scontro tra i Turchi ed i Russi presso Issatcha luogo fortificato sulla riva sinistra del Danubio, appartenente ai Turchi, situato tra Ismail e Rheini..

II

Omer-Pacha ricevette ordine di passare il Danubio, e di conseguire coll’armi quanto si rifiutava diplomaticamente, l'evacuazione della Moldo-Valacchia. Calcolando il vantaggio che ebbe ottenuto occupando fermamente la posizione di xxxafat nella piccola Valacchia, mediante la quale sarebbe stata tagliata ai Russi la via per la Servia, ne progettò l'impresa; se le sue forze per isviare l'attenzione del nemico; mentre Corpo d'armata Russo avanzavasi nella piccola Valacchia xxxrajowa e Salatina egli tentò dalla parte Giorgewo il passaggio del Danubio ad Oltenitza, che trovasi distante da Bucharest tre giorni di cammino. Quando i Russi si accorsero del disegno dei Turchi provarono di opporvisi, ma era troppo tardi. Questi s'impadronirono di un edificio destinato alle quarantene sulla sponda del fiume e vi si fortificarono con molta celerità ed assennatezza meravigliosa. Stando i Russi appoggiati sul villaggio di Oltenitza, ed i Turchi ai loro trinceramenti. Quelli attaccarono i primi, risposero questi col fuoco delle loro batterie energicamente; poscia si scagliarono intrepidi alla baionetta sul nemico; il quale dopo quattro ore di lotta terribile e sanguinosa, stordito dell'avversario coraggio e della disciplina costantemente osservata fu obbligato a cedere il campo lasciandovi morti un colonnello, in tenente-colonnello, ventiquattro ufficiali e trecento settanta soldati, oltre ad ottocento cinquantasette feriti tra cui un generale, sei maggiori e venti ufficiali. Perdettero pure una gran quantità di armi; locchè dimostra a quale disordine e scompiglio si fosse abbandonato l'esercito Russo. La notizia di questa vittoria produsse un entusiasmo in Costantinopoli indescrivibile. Il desiderio di guerra nei Mussulmani diventò una passione furibonda; Omer-Pacha ebbe da tutta Europa encomi di valentissimo generale; tutte le speranze dei Turchi si riposarono sovra di lui, riputandolo guerriero formidabile ed invincibile. Ma in Russia fu tanto l'avvilimento e lo sdegno, che lo Czar per lavar la macchia caduta sulle sue armi meditò l'orribile macello di Sinope. Anche in Asia erano cominciate le ostilità con buon augurio, perciocché nello stretto di Iakortola nel Daghistan, attaccati i russi simultaneamente all'Est, ed all’Ovest furon battuti da Abdi-Pacha e Selin-Pacha, i quali tentavano di congiungersi a Schamyl. Venti mila Russi, stando allo notizie dei giornati austriaci che non poterono mai smentire sarebbero stati pienamente distrutti. Se quindi i fatti d'armi turchi non furono più coronati da eguale prospero successo devesi piuttosto che alla mancanza di perizia dei Generali di bravura nei soldati attribuire alla difficoltà di porre l’insurrezione del Caucaso in comunicazione col mare per poter fornire a quegli indomabili e fieri Montanari armi e munizioni.

Lo Czar irritato dalle diverse sconfitte che la sua armata aveva toccato sul Danubio ed in Asia, sfogossi con una vergognosa ed inescusabile carnificina: a Sinope. La flotta di Omer-Pacha non incrociava sul mar Nero, ma secondo le istruzioni ricevute attendeva a mantenere le comunicazioni tra Costantinopoli e l'Anatolia. Egli riposava sulla fede dello Czar, il quale aveva dichiarato di star, non ostante lo stato di guerra, in quelle acque sulla difensiva finché i negoziati colle potenze alleate non si fossero resi infruttuosi; e tanto egli vi si fidava che avendo il 27 novembre visto approssimarsi due vascelli ed un brich russi fino al tiro delle batterie di terra di Sinope, non ordinò di farvi fuoco contro e non spedi per soccorso alle squadre alleate.

Comparve il trenta del suddetto mese la squadra comandata dal Vice Ammiraglio Nakimoff composta di tre vascelli a re ponti, tre vascelli di second'ordine, due fregate, e di tre battelli a vapore; questi legni entrarono nella baja di Sinope. Quattro altre fregate rimanevano fuori con alcuni bastimenti incrociandosi verso il capo di Indighè per sorvegliare se giungesse soccorso da Costantinopoli. I bastimenti Turchi in Sinope erano undici e portavano 460 cannoni.

Questa città è posta sulla riva asiatica a cento leghe dal Bosforo, quasi in faccia di Sebastopoli. Ha un’importanza considerevole sia per il cantiere di costruzioni navali, che per il suo porto, o meglio, la sua baja che è difesa da alcune batterie, sotto la protezione delle quali Osman sperava ad ogni evento di potersi riparare. È però da osservarsi che esso stando fiducioso sulla fede Russa non aveva collocate le sue navi in modo che esse potessero ricevere tutto il soccorso possibile dalle batterie di terra.

I sei vascelli russi entrati nella baia portavano 690 cannoni, oltre a 160 che avevano le navi d'osservazione, in tutto contavano 760 bocche da fuoco. L'Ammiraglio Russo schierò sue navi a traverso i bastimenti turchi, quindi spedi un ufficiale del suo Stato maggiore ad Osman-Pacha, che gli intimò d'abbassare la bandiera ottomana. Questi rispose l'insulto ordinando che si tirasse sul vascello Ammiraglio Russo. Allora cominciò il fuoco su tutta la linea. I Turchi combatterono con disperato coraggio, con un ardimento eroico; ma tanta loro virtù non valse; le batterie di terra giovarono poco a proteggere le loro navi. In sulle xxx ore circa, dopo il meriggio, la flotta Turca era totalmente distrutta, eccettuato un battello a vapore che ebbe tempo di fuggire per recar la trista notizia a Costantinopoli. Quattro mila cinquecento cinque uomini perirono; trecento, quantunque feriti non mortalmente, per mancanza di soccorsi pure perirono. Osman-Pacha fu fatto prigioniero con cento venti marinai e condotto a Sebastopoli. Questo atto feroce che la storia a perpetua infamia della Russia registrerà caratteri di fuoco e sangue è tanto più barbaro in quanto che non si contentarono i Russi di ardere le navi Turche, abbandonare spietatamente i feriti; ma incendiarono gran parte della città di Sinope senza altro scopo, che quello di vendicare una sconfitta che essi avevano sofferto in campo aperto, senza tradimento, e nelle forme onorate della guerra Quest'alto fu dalla Francia e dall'Inghilterra considerato come un assassinio; e fu loro di eccitamento a prender parte attiva alla guerra. Tutta Europa lo condanno; gli armamenti delle suddette due potenze furono sollecitati con ardore, quasi spinte dal grido universale delle nazioni civilite.

In sul far del giorno 5 gennaio 1854, le squadre alleati entravano nel mar Nero. La Francia con 14 navi portando 914 bocche da fuoco; l'Inghilterra con 20, armate di 112 pezzi d'Artiglieria; in tutto trentaquattro navi, con 2034 bocche da fuoco.

Mentre gli alleati si inoltravano nel mar Nero, nuove vittorie dai Turchi si riportavano sul Danubio. I Russi si preparavano ad attaccare Kalafat. Ibmed-Pacha senza fer conoscere i suoi divisamenti disponevasi anch'esso a dare battaglia, e conduceva le sue truppe verso Citrate per cui passa la strada che conduce a Kalafat. In sul far del giorno del 6 gennaio, il nemico era attaccato sopra una collina da cui fu obbligato di sloggiare. Le artiglierie comandate Ismail-Pacha lo fulminavano con meravigliosa destrezza, chè costretto ad indietreggiare, si ritirò dentro il villaggio di Citrate; allora i Turchi partirono alla baionetta. I Russi contendevano loro ogni casa, ogni camera, ogni muraglia, si apri una carnificina terribile: non si chiedeva e non si accordava quartiere da ambe le parti; il sangue scorreva. In ogni lato e si moriva coll'armi alla mano combattendo.

Furono visti ufficiali Russi vergognosi della sconfitta precipitarsi forsennati sulle baionette nemiche. In sul meriggio villaggio era in potere dei Turchi. Ritiravansi i Russi verso la strada, ma trovandosi minacciati dalla cavalleria urca la quale gli sbarrava il cammino, si ripiegarono in una ridotta sopra un'altura, che previdentemente avevano co rutta. Stavano già i Turchi pronti ad attaccarla, quando viddero che giungevano da Motzcizei, da Božlechti e dai circonvicini villaggi numerosi rinforzi. Fu impegnata con le truppe che s'avanzarono in soccorso ai fuggienti la zuffa, dopo un accanita lotta verso sera la vittoria si mostrò dole ai Turchi. Soppragiunta la notte, da ambe le parti cessò il combattimento. Ahmed-Pacha credette prudente di tirarsi; locchè fece senza contrasto e comodamente, lasciando però sul campo trecento trent’otto morti e conducendo con sé settecento feriti. Più grave perdita ebbero i russi, i quali valendosi della notte abbandonarono la ridotta dopo aver sepolti i morti che suonanavano a millecinquecento, e fatti trasportare i feriti in numero di duemila abbandonarono anche Citrate. A Sinope i Turchi dimostrarono di saper morire valorosamente; a Citrate dimostrarono sapere vittoriosamente combattere. Sia morendo, che vincendo l'Europa ammirò il loro coraggio e la loro disciplina.

Non si dimenticavano intanto le pratiche per la pace.

Mentre dalle due potenze facevansi armamenti e davansi disposizioni grandissime per porsi ad ogni evento in istato di sostener la guerra, e mentre le armi Turche facevano prove di valore con prospera fortuna in sul Danubio, e con meno felici risultati, ma con eguale ardore e disciplina combattevano in xxia, la diplomazia non lasciavasi sgomentare dal cannone; piegavasi ora in congressi, ora con note, ora con pro ti per combinare un accomodamento. L'Austria si era unita in queste pratiche alla Francia ed all'Inghilterra; essa si propose mediatrice e paciera; e non una sola volta, ma a riprese presentò progetti di pace. Con qual intenzione interponesse l'opera sua, se per far protrarre le ostilità e dar tempo alla Russia di provvedersi, ovvero si intrommettesse lealmente colla brama di ritornar la tranquillità all'Europa, chi potrebbe indovinarlo? È certo che per quanto abbia fatto onde conciliarsi la confidenza della pubblica opinione, questa le fu sempre costantemente negata. Il diffidare del l'Austria non è solo prudenza, ma diventò una necessita degli intelletti sani. Ove essa intriga il sospettar tradimenti quando promette temer vendetta e spergiuri diventò regola di chiunque abbia a fare con essa. Va forse non è lontano il momento, in cui anche dalla testa birostrata dell'aquila cadrà la maschera. Nel vero il fatto sta che i suoi progetti di pace non furono cagione che di ripetuti congressi e di ripetute discussioni; la conclusione è tutt'ora riservata alle bombe ed alla mitraglia.

Non accettati i progetti fatti dall'Austria, inutile tornata la lettera autografa che Napoleone scriveva allo Czar, onde persuaderlo a ragionevoli trattative non rimaneva più probabilità di accomodamento. Allora il Governo Francese nel foglio officiale avvertiva la nazione, che era prossimo i giorno in cui essa avrebbe dovuto sostenere la propria causa con mezzi più efficaci, i quali non erano quelli della diplomazia; e che l'Imperatore faceva assegnamento sul patriottismo francese. Diresse una circolare agli agenti diplomatici in cui respingendo la risponsabilità degli evenimenti d'oriente si dichiarava, che tanto Francia quanto Inghilterra non intendevano, entrando nella lotta, di sostenere l'Islamismo, di proteggere la Turchia contro la cupidità Russa. L'opinione pubblica intanto, per la pubblicazione che fece il ministero di Francia dei documenti relativi alla quistione d'Oriente restava pienamente illuminata sulle ambizioni della Russia voler essa gettarsi su Costantinopoli dominare sul Mediterraneo e sul Baltico, abbracciare l'Europa dal Mezzodì e Settentrione, e preparare su tutto il continente la dominazione del knut.

Anche in Inghilterra ogni giorno maggiormente cresceva la simpatia verso la Turchia; la sua causa era propugnata dai giornati di ogni colore con molta energia. Venuto al potere Lord Palmerston, aveva al Parlamento sostenuto vivamente i diritti minacciati della Porta. Le cose si erano condotte al punto che la dichiarazione di Guerra alla Russia per parte Belle potenze occidentali non poteva più sospendersi senza compromettere la loro dignità ed i destini d'Europa. Perciò il tredici febbraio 1854, si firmava un trattato di alleanza offensiva e difensiva tra le suddette potenze e la quelle si impegnavano a sostener la Turchia colla forza delle armi fino alla conclusione di una pace, che assicurasse l'Indipendenza dell'Impero Ottomano e l'integrità dei diritti del Sultano. E la Turchia impegnavasi a non firmar atti di pace senza il consenso delle suddette due potenze; le quali obbliavansi dal canto loro, conchiusa la medesima, di ritirare le oro truppe da ogni luogo dell'Impero. Cominciarono dopo la ratifica del trattato suddetto le spedizioni delle truppe alleate.

III

Lasciammo di accennare come la Russia per rendere ai Turchi maggiormente difficile la guerra suscitasse la insurrezione dei Greci soggetti alla Turchia, e la favorisse con armi e con danaro; e come pure insorgessero la Bosnia e Servia ed altre provincie dei Principati Danubiani dietro influenti mene della Nordica potenza.

Il grido di Indipendenza e di Libertà aveva corraggiosamente risuonato, e trovato eco spontaneo in Grecia, terra Hassica per virtù, per scienze, per arti, per gesta gloriose.

Quantunque nella maggior parte della Grecia soggetta alla dominazione ottomana i sentimenti di amor patrio e di indipendenza siano stati soffocati dall’abrutimento sotto un giogo di molti secoli; e che degli antichi costumi e carattere, e della antica grandezza non si trovi altra impronta che nei Monumenti, i quali sfidarono il tempo; tuttavia tanto on potè il servaggio da cancellare in quel popolo la mem oria della sua prisca origine. Un popolo che come il greco abbia avuta un'origine gloriosa e che la mantenga nel suo pensiero inobliata non può prescrivere sui suoi diritti, non può morire al civile progresso. Alla minima scossa si desta; ad una voce generosa risponde col vigore di tutte le sue forze; e tardi o tosto tornerà ad occupare fra le nazioni incivilite l'antico suo seggio. La Russia comprendeva come fosse facile in un popolo simile con piccola scintilla destare un grande incendio. Fece suonare in mezzo alla generazione schiava la parola magica, ed essa si scosse; ne aiutò i moti col danaro e coll’armi; in un momento gran parte della Grecia si trovò sul campo a combattere per la propria indipendenza. Il forte di Riniassa sulle coste d'Epiro si arrese agli insorti: quello di Platanos e la città di Fanari nella Tessaglia si diede pure agli insorti; i Distretti di Paramigia e di Chimara si levarono in armi, insomma la rivoluzione progrediva ogni giorno e vittoriosamente la sua bandicra scorreva la Grecia. Credevasi che il re Ottone, oltre all'aver incoraggiata la rivolta, per accrescerle vigoria fosse disposto di recarsi in persona a combattere contro i Turchi.

Ciò si credeva con qualche fondamento perchè correra voce che non solamente la Russia, ma secretamente anche l'Austria secondasse l'insurrezione; e si confermò per vero che il Re coi rappresentanti di Francia ed Inghilterra che lo invitavano ad impedire gli aiuti che dal suo regno si portavano agli insorti si esprimesse in questi termini: «piuttosto che comprimere questi moti mi lascierei troncare le mani».

Per quanto la Turchia cercasse di frenare i movimenti dell'insurrezione greca, tuttavia essa abbracciò tutto l'Epiro, e la Tessaglia ed altre provincie; e forse avrebbe acquistato intieramente il terreno, se la Francia non fosse intervenuta a favore della Porta colle armi alla mano; perchè questa in pegnata, come si trovava a far fronte alla Russia in sul Danubio e nell'Asia, non avrebbe potuto disporre di forze sufficienti per arrestarne l'impeto. La qual cosa sarebbe stata tanto più difficile in quanto che, come si disse, il re Ottone apertamente, dietro le raccomandazioni dello Czar e forse anche dell'Austria permetteva che dal suo regno uomini, soldati e Generali partissero al soccorso degli insorti. Fecero in quella lotta prove di coraggio i Greci; e guidati dai Generali Grivas, Zervas e Botzaris, Zavellas ed altri bravissimi, batterono alla testa degli insorti indisciplinati e mancanti di tutto fuorché di coraggio non poche volte i Turchi in ordinanza, bene provvigionati, esperti nell’armi e sottomessi ad una buona disciplina.

L'insurrezione dei principati Danubiani infastidiva anche l'Austria, la quale ha ragione di temere ad ogni grido di rivolta; e l'infastidiva tanto più, in quanto che quel grido partiva da un suolo limitrofo. Essa aveva dichiarato che non potendo permettere, senza suo danno, che si propagasse un insurrezione ai confini del suo Stato, sarebbe stata obbligata di intervenire colle armi per sedarla. Ma il suo intervento armato in quelle regioni poteva dar sospetto alle potenze alleate e rompere le relazioni amichevoli colla Russia, che essa studiavasi di conservare colla sua neutralità negli affari d'Oriente; o, quanto meno, toglierle quella influenza che le era necessaria di conservare, onde non perdere la sua posizione di mediatrice, che si era procurata con tant'arte e che tanto le era utile per mantenersi neutrale. Onde evitare tutti questi inconvenienti si valse della dichiarazione che le potenze alleate avevano fatta: non voler trattar pace intanto che i principati non sarebbero stati abbandonati all'armi russe. E dando peso a questa condizione presso lo Czar insisteva per l'abbandono dei medesimi, osservandogli, che in caso di persistenza essa sarebbe stata costretta d’unirsi a Francia ed Inghilterra. Proponeva per tutelare le armi russe in quelle contrade dagli eserciti alleati e restringere la guerra in altra regione, finché sarebbesi trattata la pace, di occupare essa medesima provvisoriamente i principati; pronta ad abbandonarli, sia quando le trattative suddette si fossero rese infruttuoso, sia che avessero avuto lo scioglimento favorevole. Questa proposta fu accettata all'Imperatore delle Russie, e dalle Potenze occidentali, e Austria occupò i principati con ottantamila uomini. In questo modo ottenne un doppio scopo, quello di guarentire proprio territorio delle conseguenze d'una insurrezione che alzava la forze ai suoi fianchi, e quello di conservarsi mediatrice fra le potenze belligeranti; e forse anche quello di poter più comodamente servire quando che l'occasione si presentasse ai disegni della Russia.

Eransi ribellati anche i Montenegrini, ma poscia venuti trattative ritornarono all'antica loro soggezione della Turchia.

Le flotte alleate sotto il comando degli Ammiragli Dundas inglese, ed Hamellin francese si incrociavano sul Mar Nero onde impedire ai nemici di prestarsi soccorso per le vie di mare; intese però a vendicare l'atroce misfatto di Sinope spedirono alcune navi sopra Fokciani città trincerata, popolata di trenta mila abitanti; e divisa dal fiume Milkow in due parti. Le navi appressatesi all'imboccatura del porto cominciarono il bombardamento. Invano le batterie delle trincere opposero resistenza, ogni difesa fu inutile; in poche ore città fu distrutta. La parte inferiore della medesima, in cui abitavano i due terzi della popolazione ed esistevano migliori edilizii, gli ospedali militari ed i magazzeni amplissimi di vettovaglie, di munizioni e dei varii oggetti di armature fu incendiata quasi intieramente; sole sei case rimasero salve; i magazzeni, le provvigioni, andarono in fiamma. Quasi egual sorte ebbero Odessa, ed il Porto di Batum. Da prima è città marittima considerevolissima per il suo commercio e per la sua industria, numerosa di oltre sessanta mila abitanti. Le flotte alleate chiusero l'imboccatura del suo vasto porto, e quindi imposero che loro si consegnassero le navi russe ivi ancorate; fu risposto con rifiuto allora fulminarono contro la città. La batteria del porto distrutta; nove navi russe incendiate; molte case rovinate. Priva ora del suo commercio Odessa è città squallida e deserta. Dopo il bombardamento le navi fecero vela e si allontanarono.

Poiché fu Crimea fatta teatro di guerra la flotta si impadronì di Eupatorii, poscia di Balaklava; più tardi porlo di Kerici, e di Jenikalè nello stretto del mare di Azof, e di Genizzi tra questo mare ed il mar putrido, come avverrà di accennare più appresso.

Mentre tali fatti avvenivano nel mar Nero, nel Baltico un'altra flotta con maggiori forze veleggiava sotto il comando del celebre Ammiraglio Napier e dell'Ammiraglio Paraguai di Alliers. Il primo in questa spedizione vuolsi che non abbia soddisfatto alla aspettative, che si erano sulla sua abilità e sul suo valore concepite; epperciò fu chiamato a render ragione del suo operato. Il fatto sta che nessuna intrapresa d'importanza fu segnata degna di essere annoverata fra quelle che fecero cosi glorioso il suo nome. Poiché bombardamento e la presa di Bomarsund, quantunque abbia fruttato onore ai valorosi che presero parte al combattimento e specialmente a cacciatori di Vincennes che grandemente si distinsero, tuttavia non può considerarsi come una impresa nei fasti navali straordinaria. La Russia saputo l'arrivo delle nemiche flotte nel mar Baltico, ordinò nelle sue squadre si mantenessero nei porti ed evitassero battaglia. Per la qual cosa non rimaneva a Napier di attaccare, e di abbattere le fortificazioni di Cronstad e Revel, che i Russi tengono nel suddetto mare, dove si trovavano ancorate flottiglie russe; ovvero limitarsi a dar la caccia a quelle navi mercantili o di guerra, che per ragion di commercio, per qualche speciale ordine avessero dovuto abbandonare porti. Si tenne, a quanto pare, a quest'ultimo partito; imperocchè le fortezze di Cronstad e di Revel essendo guarnite di ogni mezzo di difesa, forse non credette di avventurar flotta al pericolo di essere distrutta. Per mezzo della prima queste due posizioni marittime, qualora gli fosse stato dato abbatterla, avrebbe potuto penetrare fino alla capitale della Russia a Pietroburgo e distruggere tutto il miglior materiale delle squadre nemiche; pensiero che egli aveva concepito prima di porsi al comando della flotta inglese, e e in pubblico banchetto disse di voler mandar ad esecuzione. Ma quando conobbe la difficoltà dell'impresa dovette mutar proposito; ed attenersi piuttosto ad un sistema di ecco che sfidare il nemico dentro le proprie fortificazioni.

Siamo sicuri che egli potrà giustificare il suo operato, ma non sappiamo se meglio di lui potrà il suo successore maneggiarsi in quel mare. Già da alcuni mesi parlasi che questi intendesse di attaccare Revel; ma fin'ora non furono che voci e supposizioni dei giornatisti. Nessuna operazione rimarchevole venne fatta nel mar Baltico dai nuovi Ammiragli. E però vero che la campagna non è ancor chiusa e che loro rimane tempo ad operare prima che il gelo li costringa ad abbandonare quelle acque.

V

Fino dal mese di aprile i soccorsi delle Potenze occidentali erano giunti a Varna. Più di ottanta mila armati tra fanti e cavalieri, ed artiglieri sbarcarono alle bocche del Danubio, e quasi giornatmente arrivavano nuovi rinforzi sicché vuolsi che l'armata alleata in sul finire di settembre contasse ducento mila uomini; cinquanta mila spediti dal l'Inghilterra, e cento cinquanta mila mandati dalla Francia li quali uniti ad altri cento cinquanta mila messi in arme e dalla Turchia componevano un esercito forte di trecento cinquanta mila combattenti. Opponeva la Russia, se vuole tener conto delle asserzioni che leggevansi nei giornati pi disinteressati, un'armata considerevolissima e molto più superiore in forze. Il principe Giorgiakoff comandava nelle Volacchia settantacinquemila soldati tenendo il suo quartier generale a Buckarest. il Generale Luders guardava con quarantacinque mila combattenti gli sbocchi del Sereth del Pruth. Liprandi con quarantadue mila soldati investir Kalafat. Osten-Sachen si teneva tra il Pruth ed il Dniester sessanta mila uomini. Seinchnikoff organizzava un corpo trenta mila armati nella Volinia. Le truppe mobili che avanzavano verso Odessa, la Tauride, la Crimea erano numerose di quarantacinquemila combattenti. Il principe Woronzoff stava nel Caucaso con cento ottantadue mila armati, senza la riserva, e teneva il suo quartier generale a Tiflis. Occupavano l'importante posizione strategica di xxxaciem quaranta mila soldati. Questo esercito opponeva la Russia contro la Turchia e gli alleati dalla parte di Costantinopoli forte di cinquecento mila combattenti, e so tenuto da settecento cannoni da campagna.

In una guerra che si estende in cosi vaste dimensioni è difficile il tener conto di tutti i fatti militari. Ci basterà accennarne i principali.

Il 23 marzo 1854, i russi avevano passato il Danubio su tre punti; presso Braila, Galaiz e fra Tuleia ed Isàcika. Questo passaggio loro fu contrastato vittoriosamente sei volte; sempre furono respinti con grandissimo danno. Il giorno dopo ritornarono all'impresa, ma Omer-Bascià sia perchè credesse di non poter più a lungo sostener le prove dell’armi nemiche, le quali avevano ricevuti molti rinforzi; sia perché stimasse opportuno di concentrarsi sovra Mancin e quivi spettare il nemico e dargli battaglia, ordinò la ritirata su detto luogo, e recò il nerbo delle sue forze fra Turuckai lo sbocco d'Argis, in vicinanza Olsteniza. Riaccesasi quivi battaglia dopo che i russi ebbero passato il Danubio, toccarono una sconfitta tale, che più grave non avevano sopportata in tutte le antecedenti fazioni di guerra. Altra battaglia di non minor importanza e con egual fortuna, oltre ella di Kalafat, vinsero i turchi il 29 aprile presso Cerna da in cui i russi non erano in numero minore di 120 combattenti. Battuti da tutte parti, inseguiti furiosamente sciarono sul campo immenso numero di morti e di feriti.

Dopo questa battaglia un movimento generale di truppe si e sovra tutta la linea del Danubio. Le evoluzioni militari ero scomparire dal suolo ogni segno di opere agricole, ne se mai vi fossero stati abitatori in quelle contrade.

Manifestossi dal concentramento imponente delle soldatesche i russi facevano nelle vicinanze di Silistria la loro inazione di assediarla e batterla. I Turchi diedero mano con xxxnde energia a costrurre nuove trincere ed armare i punti maggior importanza; e dal loro canto su tre punti i i cominciarono il bombardamento.

Una fra le condizioni per trattare la pace imposte alla Russia, come si è detto, era l'abbandono dei Principati. Notammo essere stato stabilito che provvisoriamente venissero occupati dall'Austria: ma intanto né questa Potenza entrava od occuparli; né la Russia si curava di abbandonarli. Forse l'Austria d'accordo colla Russia, voleva lasciarle aggio di prendere Silistria, affinché lo Czar potesse tener posizione sovra una linea che cominciava da questa fortezza e che si sarebbe la Obrugia lungo il Sereth fino al confine austriaco della Bukovina. Cosi gran parte dei Principati rimanendo evacuati, l'Austria sarebbe rimasta soddisfatta; in faccia alle Potenze occidentali avrebbe potuto conservare la sua attitudine di paciera, ed appoggiare alla seguita evacuazione le sue mediazioni di pace favorevoli alla Russia. Intanto questa Potenza tenendosi ferma su Silistria e conservando la linea sovra indicata restava guarentita per le successive operazioni militari. Ma queste combinazioni vennero distrutte dalla resistenza che faceva Silistria. Essa teneva fermo, e le armi russe invano sforzavansi di espugnare quel baluardo Varie battaglie state date in quei dintorni furono colla loro peggio. Il valore ottomano veniva confortato dall'arrivo delle truppe alleate a Varna. Omer-Pacha prese un'attitudine offensiva, ed obbligò le armi russe a levar l'assedio di Silistria; quindi ripassato il Danubio le sconfisse a Giurgevo.

Il combattimento fu sanguinoso. I russi si ritirarono nel massimo disordine sino a Fratesti sulla strada di Bukarest.

Qui ad una parte riuscì di raccogliersi senza però poter far testa. Il resto dell'armata continuò in fuga sino a Calugereni e verso Argis. I Russi lasciarono il campo seminato di morti e di feriti; anche ai Turchi costò cara questa vittoria, perdettero mille e settecento uomini. Il combattimento ebbe luogo sovra tre punti della riva del Danubio, nella città di Giurgero, al disotto della medesima e verso il Nord colle truppe della Divisione Chruleff che vi perdè un braccio. Questa battaglia rindonderà ad eterna vergogna dei Russi, giacchi superiori in forza di gran lunga agli ottomani sovra un piano in cui poteva agire vantaggiosamente la loro cavalleria che formava il nerbo principale dell'esercito; padrone di un terreno che lo tenevano da un anno fortificandolo nelle migliori posizioni, potevano considerarsi in proporzione dicci volte più forti dei Turchi. Questi invece dovevano, come arditamente fecero, impossessarsi delle isole in faccia a Giurgevo, prendere d'assalto le formidabili batterie erette sulla spiaggia; conquistare palmo a palmo il terreno con accanito combattimento, por piede a terra, ordinarsi e di sporsi a battaglia sull'opposto terreno. Ebbero perciò onori del trionfo non contestati, anzi resi dagli istessi nemici.

Veramente gloriosa per gli alleati, degna della storia fu la battaglia d'Alma. Il venti settembre i Russi avevano concentrate le loro forze sul fiume per impedirne il passaggio.

Il Principe Vensikoff: in persona comandava a più di cinquanta mila combattenti oltre a seimila cavalli e cento ottanta cannoni. Il Generale Busquet francese sostenuto dal Generale Canrobert avviluppò la sinistra dei Russi o con questo. movimento, assicurò la vittoria; gli Inglesi comandati dall'intrepido Lord Raglan minacciavano la destra. De Saint Arnaud manovrava al centro per distogliere l'attenzione dei Russi sulle operazioni che facevansi ai loro fianchi.

Quando Lord Raglan e Boquet si trovarono in posizione di attaccare il nemico, De Saint Arnaud che dirigeva la guerra diede il segno dell'attacco generale. Il fiume Alma fu traversato a passo di carica. Il principe Napoleone si impadronì del Villaggio. Allora il fuoco si estese terribile sovra tutta la linea, la lotta diventò sanguinosa e mortale alle quattro della sera le truppe alleate erano padroni del campo. L'esercito Russo fu volto in fuga e se gli alleati avessero avuta sufficiente cavalleria sarebbe stato pienamente disfatto. Il Principe Hensikoit tenendosi sicuro della vittoria aveva lasciati nella sua tenda la carrozza, il portafoglio e la sua corrispondenza; costretto a fuggire abbandono ogni cosa, se ne impossessò il Maresciallo de Saint Arnaud. Più di cinque mila uomini e più di diecimila fucili perdettero i Russi; gli alleati tra morti e feriti ebbero due mila soldati. Le posizioni dei russi furono tutte prese alla baionetta. Questi gettavano a Terra i fucili ed i sacchi per essere più celeri alla fuga. Al valore dei turchi devesi in gran parte l'esito fortunato della giornata. Essi avvilupparono il Generale Russo e girarono le batterie. In questa battaglia furono segnati la disciplina ed il coraggio degli Inglesi; gli allori del trionfo però debbonsi egualmente compartirsi al valore degli eserciti alleati; chè ognuno compi il dover suo con entusiasmo e bravura indescrivibile.

Il pensiero dei Generali alleati era di battere Sebastopoli ed impossessarsi della Crimea. A questo fine era stato la battaglia d'Alma, ed era stata presa Balaklava. De Saint Arnaud a cui si vuole attribuire questo piano di Guerra non poté godere a lungo i trionfi della descritta vittoria. Molestato da un anno da aneurisına, e di fresco attaccato dal colera al 28 settembre, cioè otto giorni dopo la battaglia d'Alma mori. Prese il comando dell'esercito francese il Generale Canrobert, giovane valoroso, ma non troppo dalla fortuna favorito; il quale più tardi o perché diffidasse delle proprie forze, o perchè glielo imponesse il suo Governo, abbandonò la Direzione della Guerra al generale Pellissier venuto d'Africa con onorata fama. Il Piano d'operazione era di concentrarsi in piena forza nella Baja di Kalamita per impadronirsi delle sorgenti d'acqua della Crimea scacciarne i Russi, e gettarsi su Sebastopoli; perciò le armate appena questi lasciarono Belbek si avanzarono sino al di là del Katcía, e la flotta a Balaklava spingeva a terra le artiglierie d'assedio. Il Generale Mensikoff conosciuto il pensiero dell'inimico si affrettò ad occupare le alture di Bakci-Serai la strada di Simferopoli. Se gli alleati avessero riuscito scacciare i Russi prima che si fossero rinforzati in quella zona colle truppe arrivate da Perekop l'assedio di Sebastopoli sarebbe stato assai facilitato, perchè un esercito il quale non si trovi in possesso della regione dove hanno sorgente i fiumi che si scaricano nel mar Nero, ed in quello d'Azof, non potrebbe tenersi in Crimea più di tre o quattro settimane.

Gli alleati fermi nel disegno di impadronirsi di Sebastopoli avevano sloggiati i Russi da Eupatoria ed avevano spinto avanti i loro eserciti verso questa fortezza dalla parte d'Inkermani, ove ebbe luogo un terribile conflitto che durò una giornata con grave danno degli Inglesi che vi perdettero molti uomini ed alcuni Generali. Questa battaglia che costò si cara ai Russi, quantunque sia stata gloriosa per gli alleati, tuttavia la vittoria non fu, per quanto fu asserito nelle relazioni degli uomini periti nelle cose della guerra, coronata di importanti risultati. Intanto l'inverno appressavasi, E gli alleati non ostante le nevi ed il freddo rigorosissimo continuavano le operazioni militari per approssimarsi a Sebastopoli. Francia ed Inghilterra facevano nuove leve d'uomini per averli pronti alla primavera; e facevano pratiche presso Governi amici per averli alleati nella guerra. Pare che queste pratiche siano riuscite infruttuose meno presso il Governo Sardo, il quale cedeva alle loro instanze, lusingato forse da secrete promesse di futuro ingrandimento di territorio. Fu stabilito che il Piemonte avrebbe procurato un contingente di quindici mila uomini compresi i cavalli e le artiglierie convenienti; e che lo avrebbe mantenuto effettivo sino al fine della guerra. La nazione è informata come questo trattato abbia trovato opposizione alla Camera dei Deputati, e come sia stato difeso dal centro, e dalla sinistra combattuto ugualmente con rara facondia, con grandissima copia di argomenti. Il Paese, che riverente alla maggioranza ella Camera seppe rispettarne il voto facendo sacrificio generoso dei proprii figli, ora è ansioso di poter proferire il suo giudicio. Il tempo chiarirà se meglio prevedessero gli nomini del Governo, o gli oratori dell'opposizione. Fu scelto dell'esercito nostro il fiore della soldatesca e degli ufficiali, sotto il comando del Generale La Marmora fu spedito verso il finire d’aprile 1855 in Crimea; non però con buoni auspici; chè il Croesus vapore inglese carico delle cose più necessarie alla guerra dopo un'ora di cammino s'incendiò.

Appena si conobbe l'impossibilità di spegnere il fuoco che investiva furioso il legno da tutte parti il valente Comandante si sforzò di afferrar la spiaggia onde salvare l'equipaggio, e vi riusci, Alle grida dei soldati impazienti di sottrarsi all'incendio accorsero con barche coraggiose due donne: i soldati vedendo appressarsi un nuovo mezzo di scampo vi si gettarono precipitosi in mare per afferrarlo; e fecero capovolgere le barche. La qual cosa costò la vita ad una delle generose donne, tutto l'equipaggio ad eccezione di tre soldati potè salvarsi. Il prode capitano fu l'ultimo, ad abbandonar la nave.

Dopo la morte di Nicolò Imperatore di tutte le Russie che avveniva, al due di marzo, la diplomazia credette di poter ripigliare con migliori risultati, le pratiche per la pace; e queste tornate vane perchè il nuovo imperatore Alessandro si mostrò fermo a seguire la politica del di lui padre, l'Austria dopo un lungo tentennare finalmente dichiarò voler rimaner neutrale, sgombrò i principati, e per non dar sospetto alle potenze occidentali d’unione colla Russia, ridusse il suo esercito.

Le opere d'approccio venivano in Crimea spinte con grande attività; varii fatti d'armi succeddettero o per la difesa delle medesime, o per abbattere quelle del nemico. Succeduto Pelissier a Canrobert fece ultimamente prova di attaccar Sebastopoli. I francesi spinsero le forze al Mammellone Verde, gli inglesi sul Redan. Quelli riuscirono ad impadronirsi del Mammellone, ma non poterono mantenervisi; questi battuti dalle artiglierie delle navi del porto furono costretti a lasciar l'impresa. La giornata fu sanguinosa tanto per il nemico, che per gli alleati. Sebastopoli resiste ancora; e già si pensa a provvedere, affinché le truppe possano passare l'inverno in quelle lontane regioni in cui il freddo al pari del caldo è eccessivo e doloroso.

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CENNI GEOGRAFICI SULLA CRIMEA

SOPRA LA GUERRA D'ORIENTE LA CRIMEA E SEBASTOPOLI

VI

Dopo che la Crimea diventò il teatro della guerra non pochi studi si fecero sovra questa penisola; ma fin'ora perciò che riguarda le opere militari gli studi riuscirono incompiuti poiché lo medesimo furono sempre accuratamente dalla Russia e con somma gelosia custodite; o tanto più riesce difficile il descrivere le opere che furono fatte dopo che fu dichiarata la guerra, in quanto che non fu più possibile di poter visitare quei luoghi dove i russi intesero a fortificarsi. Del resto quantunque ci siamo proposti di limitarci a soli cenni, tuttavia compieremo questa nostra fatica con tanta accuratezza, quanto valga a dare una cognizione esatta delle principali località geografiche e militari, sicché non inutile torni coloro che vogliano seguire gli avvenimenti della guerra. La Crimea è una delle migliori provincie che la Russia possegga in Europa. Giace fra il grado 44º. 20. ed il 46 10 lat. N. e fra il 50° 20, e 34, 10 di long. E ha una superficie di 6500 miglia quadrate sulle quali è sparsa una popolazione di 200,000 abitanti, i quali sono di diverse nazioni; cioè sette decimi sono tartari (cosacchi-russi) e gli altri xxxmarrni, Svizzeri, Bulgari, Boemi, Armeni, Ebrei, e Greci.

Ciascuna di queste razze segne la propria religione, o non professa pubblicamente alcuna e parla il proprio dialetto. È bagnata da parecchi fiumi; il Salgyr o Salghyr, il quale il maggiore di tutti la divide in due parti; quella del S. O. è una vastissima pianura raramente coperta di macchie il cui suolo sabbioso impregnato di sale giace infecondo e non offro che scarsi pascoli. Le fiumane che scaturiscono pendice settentrionale perdendosi in gran parte fra xxxhinje lasciano in molti luoghi il terreno paludoso, o formano frequenti stagni d'acqua, onde l'aria nell'estate per esalazioni mefitiche delle paludi è nociva. La parte del S. E. è montuosa ed intersecata da valli assai fertili. Quivi l'aria è più salubre, massime verso il mare dove le montagne stendonsi parallelamente alla costa del mar Nero guarantiscono i siti circostanti dai venti del settentrione.

In questa parte cresce rigogliosamente ogni sorta di piante, le quali forniscono frutta eccellenti, e legnami adattatissimi alle costruzioni. Il suolo è fecondo di biade di lino di canapa di tabacco; numerose sono le mandre di buoi, camelli, capre e montoni; È rinomato il miele che abbondantemente danno le api.

Essa governativamente è divisa in quattro circoli, in quello di Perekop, di Simferopoli, d'Eupatoria e di Teodosia; ed ha per capitale Simſeropoli.

Il circondario di Perekop al Nord confina col territorio Russo, all'Est col Mar Putrido, all’Ovest col Mar Nero, ed al Sud col circondario di Simferopoli. La città è situata verso il fine dell'Istmo; ha un forte chiamato Casteldoro, il quale non è certo la miglior opera militare che la Russia abbia nella penisola. È composta di case mal costrutte ed il suo soggiorno è malinconico e mal sano sia per le vicine Steppe saline, sia per le esalazioni perniciose del Mar Putrido, che si trova poco distante. Da Perekop parte una strada postale la quale traversando i villaggi di Jaschan, Djarmen, Aibar ed altri di minore importanza, si inoltra fra le Steppe e conduce a Simferopoli.

Dal Nord partendo dall'Istmo e costeggiando verso il Sud si incontra il Golfo di Perekop, il capo di Ssaribulat, da cui parte una strada che passando per Aip si congiunge a Jascan colla grande strada postale sovra menzionata, e quindi si entra nel circolo di Eupatoria. Questo circondario confina al Nord, all'Ovest ed in gran parte al Sud col Mar Nero, all'Est con il Circolo di Simferopoli. Eupatoria capo luogo di questo circondario è una città marittima edificata sovra terreno arenoso. Nulla offre d'importante; le case sono basse, ed irregolari e strette le vie. Una strada postale mette capo ad Eupatoria dirigendosi verso l'Est va a congiungersi con quella sovra della di Perekop a Ulan Eli; un'altra partendo dal medesimo luogo si dirige verso il Sud e mette a Simferopoli; finalmente una strada verso la costa all'Ovest guida ad Akmetschetsk porto frequentato da bastimenti che vengono da Odessa.

Il circondario di Simferopoli confina al Nord col circolo di Perekop, all'Est con quello di Teodosia, all'Ovest con quello d'Eupatoria ed al Sud col mar Nero.

Simferopoli è la capitale della Crimea; bagnata dal Salghir e da varii ruscelli. La vegetazione è rigogliosa, le piante crescono. prosperosamente ed i vigneti sono ubertosi. Essa si divide in città vecchia, e nuova. La prima è fabbricata sovra un piccolo promontorio e la seconda giace al piano. Nella prima le case sono mal fabbricate e le vie strette; nella seconda le case sono edificate con mediocre gusto e le strade percorrono diritto. La sua popolazione ascende a cinque mila abitanti; ma è continuamente visitata da gente che accorre per ragion di traffico e per faccende governative da ogni parte della Crimea. La sua posizione centrale l'ha fatta Sede del Governo e di tutte le autorità superiori della penisola. L'acqua potabile è buona e viene somministrata da varii pozzi Artesiani. Al Nord della città si estende la valle del Salghir, la quale è popolata di alberi notevoli per la loro bellezza. Da Simferopoli parte una strada maestra o postale, che passando per Bakci-Serai conduce a Kostantinovskoi, ed un altra che senza deviare quasi diritta tocca la costa marittima meridionale a Jalta; e da questo luogo dirigendosi verso l'Ovest tocca Balaclava e mette a Sebastopoli; finalmente un'altra strada postale da Simferopoli dirigendosi verso il Sud Est per Kara Bou-Bazar, ed Eski Krim scende a Kalfa o Teodosia.

Sulla costa Sud Ovest trovasi il piccolo porto di Balaclava quale è riparato dalle montagne adiacenti. Angusto è il suo ingresso, e pericoloso per gli scogli sottomarini; e contiene solamente da 33 a 40 navi al più. Da Balaclava una piccola strada conduce ad Inkerman, il quale elevasi in mezzo ad un boschetto di piccole quercie. Questo luogo si rese famoso per battaglie date dagli alleati, trovandosi il medesimo presso Sabastopoli da cui dipende.

Belbek è un villaggio all'Ovest d'Inckerman. Anche questo meschino villaggio solamente prese rinomanza per la guerra che fu portata in quei luoghi. Occorrerebbe qui parlare di Sebastopoli, ma di questo forte considerevolissimo per le sue fortificazioni e per la sua posizione dominante il Mar Nero, abbiamo voluto farne una particolare descrizione.

Finalmente il circolo di Teodosia confina al Sud ed all'Est col mar Nero, al Nord col Mar d'Azoff e col Mar Putrido, ed all'Ovest cul circondario di Simferopoli.

Il capo luogo di questo circolo è Karfa, cinta di vecchi muri guardata da torri diroccate. Ha un porto con una baia semi circolare frequentato solamente dalle navi che vi approdano per far acquisto di cereali. Sia per il luogo dove è costrutta, sia anche per la disposizione delle case, si trova in essa aggradevole soggiorno. Ila una strada che scorre parallela al mare fiancheggiata di portici di architettura genovese, ai capi della quale vi esistono due grandissime piazze. Considerata militarmente non offre ora altro di riguardevole, che le vastissime caserme munite di gallerie coperte dove i soldati stanno al riparo di tutte le ingiurie del tempo. Una strada maestra o postale conduce ad Arabal, ed un'altra staccandosi da questa verso Jactodoro declina verso l'Est e mette a Kertci e Jenikalė; quella che giunge ad Arabat continua parallelamente al mare d'Azoff e fa termine allo stretto di Genizzi. Arabat possiede una fortezza costrutta sulle sabbie fra il Mar Putrido ed il Mare di Azoff, difesa da buoni rivestimenti, ma rovinata nell'interno. Il villaggio è meschino e non ha che poche case, forse solamente in numero di dieci. Kerlci è una penisola che prende il nome dalla città di Kertci la quale si avanza in parte sul mar d'Azoff ed in parte sul Mar Nero sino a lenikali, dove questi due mari si congiungono. La città di Kerici ha il suo ingresso per mezzo di una via assai larga fiancheggiata da edifizii e da archi. Le sue vie sono regolarmente tracciate e diritto, le case vi sono fabbricate con buon gusto, relativamente però a quelle delle altre città della Crimea. Lungo la baia avvi un quai in pietra. I navigli si riparano in fondo alla medesima il suo commercio è fiorente; ogni giorno più la città va prosperando ed acquistando un posto distinto fra le città maritime. Non è da dimenticarsi il Museo Numismatico che è uno dei migliori d'Europa. I ghiacci durano nel porto quattro mesi dell'anno e ne chiudono la navigazione. Nel 1827 fu dichiarato porto di prima classe.

Jenickalė è un stretto fra il Mar Nero ed il Mare d'Azoff.

Pigliano pure questo nome la città ed il forte, che difende questo passo. La città è posta sovra una rocca madreporita di forma bizzarra ora cavernosa, ora leggermente arcata, di natura spongiosa. Il forte è situato al Vord, ha una forma irregolare nella quale non si veggono osservati i principii della scienza militare. Osservasi una gran torre quadrata fiancheggiata da quattro piccole torri alla guardia; la quale sembra opera non turca, ma genovese. Il passaggio di questo stretto per quattro mesi è coperto di ghiaccio, ed è assai pericoloso per i banchi di sabbia che vi si incontrano.


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CENNI SU SEBASTOPOLI

VII

SEBASTOPOLI, o Sevastopol come viene chiamata dai Russi sorge dove anticamente esisteva il villaggio Tartaro Akthiar, per cui in prima portava questo nome. È posta sulla costa occidentale della Crimea ai gradi 49, 50, 51, di Lat. Set. ed al 51, 11, 00 di long. orient. dal primo meridiano di Parigi.

La parte della Crimea ove si trova Sebastopoli, era dagli antichi chiamata Tauride. Dopo di essere dai Romani caduta in mano dei Persi e da questi ai Turchi, venne in potere di Pietro I imperatore delle Russie. Sebastopoli offre un aspetto veramente pittoresco. Esso è costrutto sulla cima di un alto colle come un anfiteatro, all'entrata della Baja Yujuata-Burxxata in luogo sano e riparata. È divisa in tanti quartieri strade simmetricamente disposte assai larghe; le case sono soli due piani e molto distanti le une dalle altre. Fra i edifizi più notevoli devono annoverarsi la Cattedrale che è di architettura elegante, la torre dell'ammiragliato, gli arsenali, il lazzaretto, le caserme, e qualche albergo.

Questa città, prima che la Crimea fosse stata conquistata dai Russi giaceva sovra una rada deserta, oggi stante le immense opere di fortificazione di cui è munita si considera come la prima fortezza di quella penisola, ed una delle migliori che si trovi in Europa.

ll'pensiero di fortificare questo porto marittimo, il quale è dai Russi considerato come la prima tappa per marciare su Costantinopoli, fu concepito da Pietro I. I suoi successori scorgendo come importante riuscisse il munirla di sode opere di fortificazione continuarono con summo studio e con le arti più raffinate di guerra sino ai giorni nostri a renderla sempre meglio difesa. Sia perché la natura, la quale si mostrò prodiga nel circondare quel luogo di mezzi di difesa; sia perchè le sue fortezze sono tante, e tali che non sarebbesi potuto distrurle, fu fin'ora Sebastopoli creduta inespugnabile.

Vicino è forse il momento in cui questo problema sarà sciolto. È ciò non ostante da notarsi che questo posto non fu mai da considerevoli forze attaccato; e che va sprovvisto del più essenziale mezzo di difesa, di una buona marina.

La baja di Sebastopoli è vicina al capo Chersonese e si apre dalla parte meridionale della città con una larghezza di un chilometro circa stendendosi internamente dall'Ovest all'Est per la lunghezza di forse 400 metri. Essa si divide in quattro baje, di cui i Russi ne fecero quattro porti; cioè quello detto della quarantena, quello dell'Artiglieria, il porto Militare, ed il porto di Carenaggio.

Il forte di Costantina chiude la Gran Baja. Esso è costrutto in pietra da taglio e si stende dal capo detto di Costantin sopra una piccola penisola che si protrae all’Ovest della Baja stessa e si congiunge alla terra con altre opere di fortificazione in forma quasi semicircolare. Ha un doppio ramo di case malte con Batteria in barbetta ed è armato di 100 cannoni. Sul monte che alzasi dietro il forte stanno appuntati attorno al telegrafo otto pezzi di cannone, ed altri quattordici disposti a guisa di ferro da cavallo guardano l'entrata della baja. Attorno alle suddette batterie i Russi fecero altre opere di fortificazione e le munirono di molte bocche a fuoco. Oltre a questo forte sovra un capo più stretto vi esiste quello chiamato Caterina, il quale è guerniito di 120 cannoni.

La suddetta baja contermina con un monticello su cui è situato il villaggio ed il forte di Sieverna. Questo forte e costrutto pure in pietra da taglio; dalla rada presente l'aspetto d'un quadrilatero ed è armato di altri cento cannoni.

Dall'apertura del porto si estende un colle sino alle alture d'Inkermaon sulla cresta del medesimo fu costrutto il forte del Nord, il quale protegge le batterie che difendono la rada e incrociando i fuochi col forte di s. Paolo, che gli stà dirimpetto, con due batterie di 34 cannoni contrasta l'entrata al porto militare. Attorno al suddetto forte e specialmente nella direzione del Nord verso Belbek si fecero dai russi in questi ultimi tempi grandissimi lavori di fortificazione, i quali si estendono fino al mare. V'ha chi pretende che tali nuove opere siano munite di 400 cannoni di grosso calibro.

Il Porte di Soukbaja si lega per case al forte del Nord e si compone di tre opere, delle quali una sola batteria conta non meno di 50 cannoni.

La baia dell'arsenale è sbarrata nella sua apertura con una catena di ferro sotto marina ed è difesa dal forte Nicolò, il quale ha due ranghi di case matte, una batteria in Barbetta sovrapposta, e termina in ferro da cavallo dalla parte dell'entrata della Baja, e con una torre rotonda dal lato d'ingresso nell'arsenale; esso è armato di 200 cannoni.

È pure difesa dal Porto di S. Paolo, il quale ha una triplice batteria di 80 cannoni ed una quantità di caserme dietro una spianata armata di una gran quantità di bocche la fuoco. Oltre a queste opere vi è ancora la Torre di Malakoff, che chiude affatto l'altipiano sino alla baja del Carenaggio. Il numerare tutte le opere di fortificazione che a difesa della città o della baja sonosi innalzate dai Russi non lo consentirebbe il piccolo formato di questo nostro libretto ci basta l'accennare li principali; tanto perchè il lettore possa avere un'idea di questa formidabile fortezza marina, la quale ha sfidata fin ora tutta la scienza militare delle truppe alleate. Del resto quando si volesse minutamente descrivere tutte le opere di fortificazione da cui è circondata si farebbe cosa imperfettissima, essendo che le medesime non si conoscano intieramente, e nessuno finora ha potuto numerare i mezzi di difesa.

Il porto dell'artiglieria è custodito dal forte Alessandro che ha 84 pezzi d'artiglieria, e le sue opere sono legate col forte della quarantena. La batteria inferiore di questo forte conta più di cento cannoni ed altrettanti ne ha la batteria superiore.

Finalmente il porto della baja della Quarantena è difesa dalla fortezza di questo nome sopra accennata e dal forte del Lazzaretto. facendo il giro della città dal forte della quarantena sino al lato opposto si trovano le seguenti opere il Bastione della quarantena, il Bastione centrale della torre, il Bastione del Mat, il Parco d'artiglieria con il Bastione Redan, ed il Bastione di Malakoff. Si sosteneva che l'insieme dei pezzi di artiglieria dei quali è armata Sebastopoli sia di 1500 i quali possono lanciare simultaneamente da 500 a 400 palle senza contare le bombe e le palle infuocate. E però da credersi che il numero sudetto sia attualmente aumentato essendo che si calarono dai russi a fondo varie navi e si servirono dei cannoni per armare ai forti, oltre quelli di grosso calibro che ricavarono dal disarmo di molti bastimenti che stavano in porto.

Debbonsi aggiungere alli sovra accennati mezzi di difesa da cui è circondata Sebastopoli anche le navi che tutt'ora sono armate nel porto, delle quali quantunque non si conosca il numero preciso, tuttavia vuolsi supporre che esse non abbiano meno di 500 bocche da fuoco a bordo.


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GUERRA D'ORIENTE E SPEDIZIONE IN CRIMEA

MEMORIA INDIRIZZATA AL GOVERNO DI S. N. L'IMPERATORE NAPOLEONE III

da un

OFFICIALE GENERALE

TORINO

STAMPERIA DELL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

1855

Nel Monitoredel 22 febbraio di quest’anno 1855 leggevasi:

«Il governo francese ha sporto querela ai tribunali belgi contro un opuscolo pubblicato recentemente a Brusselle ed intitolato:

«De la conduite de la guerre d’Orient: Expédition de Crimée: Mémoire adressé au gouvernement de S. M. l’empereur Napoléon III, par un Officier Général.

«Non fa mestieri che affermiamo non essere questa Memoria stata indirizzata al governo dell'imperatore.

«Questa scrittura, che tende a calunniare i capi del nostro esercito, ad esagerare le nostre difficoltà e le nostre perdite, a dar confidenza ai nostri nemici, non è che un libello pubblicato nell'interesse russo o bugiardamente attribuito ad un ufficiale francese».

«Quest'avviso, che fu subito ripetuto dai giornati di Parigi, si direbbe quasi fosse stato pubblicato dal Monitoreper far conoscere l’opuscolo ed eccitare la curiosità di leggerlo. Esso ha infatti prodotto una viva sensazione, e deve avere anco inquietato la polizia francese, perché si parte di mene republicane, di combriccole, di cospirazioni; si fecero delle visite domiciliari, si sparsero diverse voci, e si trovò poi asservi niente altro che un opuscolo stampalo a Brusselle, e cosi difficile a trovarsi in Francia, che da Lione e da Marsiglia si scrisse a Torino per averlo.

«A Parigi ne fu creduto autore Emilio de Girardin, a Brusselle il principe Napoleone. Il lettore però non ha bisogno di molta perspicacia per conoscere chi egli ha, tanto si caratterizza da sé stesso quasi ad ogni pagina.

«L’opuscolo, a quanto pare, fu scritto in fretta e di memoria; lo che spiega alcunI sbagli in cui è incorso l’autore. Cosi, per esempio, in sul bel principio, ove dice Delacourdeve dire Delavalettee viceversa; essendo stato quest’ultimo il ministro francesea Costantinopoli, che ottenne il firmano a favore della Chiesa latina, e che èpoi richiamato dall'imperatore de' Francesi e sostituito dal signor DelaCour, accreditato presso la Porta il 13 aprile 1853, cioè dopo l’arrivo di Mengikoff inCostantinopoli.

«Anco le date relative a quest’ultimo sono erronee. Il principe Mengikoff arrivò a Costantinopoli l’ultimo di febbraio 1853; il suo ultimatum è del 5 maggio, e al 91 maggio, non al 23 febbraio, dichiarò rotte le relazioni diplomatiche tra la Russia e la Porta, e lasciò Costantinopoli.

«Il manifesto di Nicolò, col quale dichiara di voler occupare i principati, è del 26 giugno, e i Russi passarono il Pruth il 3 luglio.

«Vi sono altre di simili inesattezze, che sembrano procedere da errori di stampa; come sono da imputarsi a falli di memoria alcune non forse troppo esatte particolarità relative alla battaglia di Alma, e alla parte che l’autore assegna agli Inglesi.

«Anche ciò che dice di lord Lucan e della sua carica di cavalleria, che sorti esito tanto funesto, non si accorda appieno con quanto di recente ne scrisse lo stesso lord Lucan, abbenché la sostanza sia la medesima.

«Ma questi ed altri lievi trascorsi, facili a commettersi a chi scrive di memoria, e in uno scritto in cui le circostanze di rilaglio sono di una importanza secondaria, non scemano punto il merito dell’insieme, e sopra tutto la giustizia delle osservazioni sopra fatti generali e più reconditi, e che sono il vero scopo che si è proposto l’autore. Il quale, supposto altresì che ceda qualche volta alla passione, figlia dei contrasti ch’egli ebbe a soffrire, e dello sdegno che eccitarono in lui tanti errori politici e militari, la verità non ne soffre perciò. Questa anzi traluce con una ingenuità singolare, ed è confermata dalle conseguenze che sono oramai visibili a tutto il mondo, e sulle quali non vi e più che un solo giudizio.

«Ed ora che noi pure siamo direttamente impegnati in questa tanto complicata questione di Oriente, non è di picciol momento il sapere se si va a fare la guerra per la causa della giustizia e del diritto, o se per servire ad una politica subdola ed egoistica.

«L’opuscolo di cui offriamo la traduzione ci puòinsegnare qualche cosa.


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GUERRA D’ORIENTE E SPEDIZIONE IN CRIMEA

Non è nostro intendimento di discorrere partitamente le cause primordiali della guerra impegnatasi fra la Russia da una parte, e la Francia e Inghilterra dall’altra, stanteché g sia no esse conosciute. Ci ristringeremo perciò ad epilogare alcuni tra i fatti che precedettero la guerra, aggiungendovi alcune considerazioni politiche e diplomatiche, che specialmente si acconciano coi limiti di questa memoria.

In sul principio trattavasi di una lotta, d’influenza a Gerusalemme tra i riti greco e i latino. Il governo francese, coll’organo del suo ambasciatore a Costantinopoli, signor Delacour, ottenne dal Sultano un firmano che faceva pendere la bilancia a favore del rito latino. Quest’era un mezzo politico adoperato dal giovane impero per aquistar diritti alla stima del mondo cattolico e conciliarsi le buone grazie del Santo Padre, di cui l’imperatore poteva aver bisogno per farsi coronare nel tempio di Notre-Dame. L’uso di questo mezzo era legittimo assai ed aveva inoltre il ‘merito di dare una nuova consecrazione all’influenza francese in Oriente.

Quel firmano fu però il motivo addotto dal gabinetto di Pietroburgo per fare al Divano domande tendenti a stabilire un piede di eguaglianza fra i due riti. Esse furono accolte con una premura mal dissimulata non pure a Costantinopoli, si anche a Parigi. Lo Czar era stato l’ultimo ira i sovrani dell’Europa a riconoscere l’impero e a salutare l’imperatore; a fronte del nuovo governo egli aveva presa un’attitudine priva di benevolenza; in onta di ciò desideravasi di provargli che non solo non si conservava rancore pel ritardo che aveva frapposto nel rispondere alla notificazione del ristabilito impero, ma che anzi si era disposti a compiacerlo e a riannodare con lui buone e fraterne relazioni.

Ell’era una proposta, non una debolezza. Per malaventura lo Zar non intese in questo senso la premura con cui il governo francese inclinava a rinunciare alle concessioni fatte dalla Sublime 'Porta, e nemmanco la condiscendenza del Divano verso le di lui pretese. Credette all’incontro essere giunta l’ora di coronare l'opera intrapresa dai Zar, cominciando da Pietro il Grande, e le circostanze per ridurre a buon fine i suoi progetti gli parvero al sommo favorevoli.

Infatti durante i tre o quattro anni che perturbarono l’Europa, lo Zar con una consumala prudenza non aveva dalo segno di vita. Per fermo egli non temeva lo spirito rivoluzionario che scuoteva ovunque il principio d’autorità; non ne paventava la propagazione a suo danno, ma non voleva provocarlo, né fornirgli un alimento col prendere parte ad una lotta che l’avrebbe sommamente irritato. Pertanto non cercò, con un’azione immédiata e decisiva, di riannodare la vecchia coalizione del 1815; evitò la grossa guerra che una sua imprudenza avrebbe infallibilmente suscitata; e la sua astinenza tornò più utile ai principii e agl’interessi minacciati dalla rivoluzione che non la sua intervenzione, il primo effetto di cui sarebbe s lato forse una coalizione di popoli che avrebbe cominciato colla rovina dell’impero d’Austria e della monarchia prussiana. Aspettò ad intervenire quando vidde la rivoluzione scemare e le sue forze indebolirsi; egli la persegui quando ella già indietreggiava, e in Ungheria la percosse con un colpo clamoroso.

L’impero d’Austria, il regno di Prussia, le sovranità tedesche erano fuori di pericolo; e Nicolò recossi a gloria, per dir vero, giustamente, di aver posta l’ultima mano al ristabilimento dell'ordine, nel modo che lo intende e lo fa regnare ne’ suoi Stati.

Dopo questo segnalato servizio reso generosamente all'Austria, alla Prussia e a tutti i sovrani che per un istante si trovarono minacciati, lo Zar rientrò nel suo riposo e nel suo silenzio.

Egli toccava l’apogeo della potenza e della gloria. Egli ebbe la destrezza di non urtare bruscamente né violentemente la rivoluzione, da cui forse sarebbe stato vinto, e di darsi l’aria di tutore delle monarchie e di protettore dei principii d'autorità e di governo.

Dopo il 2 dicembre l’influenza dello Zar divenne irresistibile. La rivoluzione, il suo più serio avversario, era scomparsa; la republica francese, propagandista per indole, si era trasformata in un governo pressoché assoluto; la tribuna e la stampa non esistevano più; né più speravano le nazionalità. Nissuna cura preoccupava lo Zar nell’Occidente; il silenzio succeduto al fragore ed alle agitazioni dei quattro ultimi anni era assicurante e salutare più che mai. Insomma l’occasione era buona per riprendere definitivamente in Europa il disopra già occupalo dalla rivoluzione e per racconciare la catena dei tempi che essa aveva spezzato. Contro i progetti dell’imperatore di Russia nissuna opposizione potevasi prevedere dall'Austria e neppure dalla Prussia. Quanto all'Inghilterra, bisognava sedurla e assegnarle all’uopo una parte nel dislocamento dell’impero ottomano. Tale fu l’opera a cui lo Zar consacrò tutti i personali suoi seducimenti e tutta la sua perizia diplomatica nelle conversazioni che ebbe con lord Seymour, ambasciatore britannico a Pietroburgo.

Tutt'altro per ciò che concerneva la Francia. Già nel luglio 1840, allorché trattossi appunto la questione d’Oriente, dalle quattro potenze riunite a congresso ella era stata esclusa dal concerto europeo. Una nuova esclusione non poteva disgradire a quelli che la rivoluzione dei 1848 aveva tanto minacciati e che nel ristabilimento dell’impero vedevano una suprema infrazione ai trattati dei 1815. La republica e l’impero erano due minaccie da reprimere, due gravami da punire, due fatti da cancellare dalla storia. Il primo di quei fatti era scomparso, bisognava attaccare il secondo. L’impero d’altronde non teneva alle sue promesse di modestia; ci se la prendeva con un tuono provocatore verso l’Europa, massime al tempo dcl matrimonio di Napoleone colla contessa di Theba, egli affettava il titolo di parvenu, in molte circostanze rivendicava il principio popolare donde egli era sortito; si faceva passare per un impero elettivo; in circostanze memorabili, a fronte degl’imperii e dei reami ereditari stabiliva fra lui e le dinastie antiche un contrasto che doveva colpire lo spirito dei popoli. Era un contegno offensivo e pericoloso.

La sua politica interna piaceva allo Zar; e diciamolo di passaggio, la tolleranza dello Zar era la condanna di quella politica; i suoi mezzi di governare aggradivano ai sovrani, e n’ebbe più di una volta le loro congratulazioni. Ma i suoi sforzi per assimilarsi a loro ed innalzarsi al loro livello; la sua pretesa di trattare con loro da pari a pari, e di riceverne il titolo di fratello; poi i suoi molti amari, le sue sfide agro-dolci, e lo sue affettazioni di popolarità spiacevano singolare mente a Pietroburgo, come anco a Vienna e, a Berlino.

In fondo lo Zar che aveva abilmente indietreggiato da una lotta colla rivoluzione e non avrebbe fatto lo stesso a fronte di una coalizione contro il nuovo impero. Tale era forse il suo segreto pensiero. Le sue impazienze non si tradivano al di fuori, gl’importava di non darsi il torto di una provocazione; ma era pronto a cogliere la circostanza, qualunque ella si fosse, per impegnare coll’impero e l’imperatore un conflitto donde poteva risultarne la guerra. Tale circostanza l’offri la questione de' luoghi santi, e lo Zar non se la lasciò sfuggire.

II

Con una perspicuità che lo onora, Napoleone III sentì il pericolo. Indietreggiò senza una troppo apparente debolezza e consenti all’abbandono delle concessioni ottenute a pro dei Latini. Lasciò cadere il peso di quell’affare sul suo ambasciatore di cui riprese lo zelo eccessivo, sebbene non avesse fatto che attenersi alle istruzioni statele date a Parigi; e per evitare ogni pretesto di conflitto, Delacour fu bruscamente richiamato, e Delavalette lo sostituì.

Ma questo buon volere dei governo francese e questa condiscendenza dei Divano nella questione de' luoghi santi, non tornavano a conto della Russia. Soddisfatte pienamente le sue prime domande, ella divenne più esigente; e lo Zar che contava, forse a torto, sulla connivenza dell’Austria e della Prussia e sulla adesione interessa la dell'Inghilterra, giuocò l’ultima posta e rischiò la missione dcl principe Mengikoff, che fu in certo quai modo il suo alea jacta est. L'apparente missione data al principe, confidente dell’intimo suo pensiero, era di ottenere una nuova consecrazione de' privilegi di cui godevano ab antiquo i cristiani greci, sudditi della Turchia. Ma la missione reale e rimasta alcun tempo segreta, consisteva nel domandare ed ottenere il protettorato dello Zar sui cristiani; ciò che equivaleva ad una dislocazione dell’impero ottomane. Sulla prima missione dei principe Mengikoff il governo francese cedette ancora; e diede prova in quella circostanza di buona fede ed anco d’ingenuità. Lavalette a Costantinopoli credette alla moderazione delle preteso moscovitiche; Drouyn de Lhuys a Parigi se ne congratulò col sig. di Kisselef, che aveva il sorriso sulle labbra, della felice piega che prendeva un affare presentatosi sotto un aspetto minaccioso. L’orizzonte, coperto per un istante di nubi, si era rasserenato, quando tutto ad un colpo il principe Mengikoff spiattellò tutte le pretese dello Zar e depose il suo ultimatum.

Correva allora il febbraio 1853. Il principe Mengikoff concedette dieci giorni al Divano per risolvere; e al 23 febbraio, in seguito al rifiuto definitivo di quello, egli lasciò Costantinopoli dichiarando rotti i negoziali e trasportando li archivi dell’ambasciata.

Era difficile che questa volta il gabinetto di Parigi s’ingannasse sulla portata della querela che lo Zar moveva al Sultano. Tuttavia i due governi di Occidente, che pure allora avevano contratta un’alleanza onde viepiù stringere le loro relazioni al cospetto di prossime eventualità, sognavano ancora di pare. I Russi varcarono il Pruth dal 20 giugno al 3 luglio, e i due governi negoziavano ancora. A Vienna si rifacevano le note vergale a Parigi e si spedivano al gabinetto di Pietroburgo che le rifiutava.

In questo momento non si smenti punto la perspicuità di cui l'imperatore Napoleone aveva dato saggio fin da principio. Capi a meraviglia lo scopo che lo Zar si proponeva, e come egli intendeva d’isolarlo. Per questo si applicò con gran cura ad assolidare l’alleanza inglese; l'opera non era difficile; perché la sveglia era stata data all’Inghilterra, l’allarme era ovunque: e li organi della pubblicità, indecisi alcuni mesi prima, suonavano a stormo contro la Russia, e ad alte voci domandavano la guerra.

A malgrado le tergiversazioni dei suoi ministri che male intravedevano la questione, e non indovinavano il motore che spingeva lo Zar, Napoleone era a quel tempo deciso per la guerra. Egli sapeva che colla guerra dava un divagamento all'attività francese, compressa dal colpo di Stato; dava una gloriosa occupazione all'esercito, compromesso nella guerra civile; dava una soddisfazione a sé stesso e in pari tempo al gran nome ch’egli porta; e per ultimo, egli prendeva al cospetto dell’Europa una posizione ammirabile, col correre a difesa dell’indipendenza di uno Stato debole contro l’avidità e l’ambizione di uno Stato potente e temuto.

Per operare gli faceva mestieri dell’alleanza inglese, che con premura aderì. Fin qui la sua politica non aveva fatto verun passo falso. La nazione poteva rimproverargli di essere, col suo nome e colla sola sua presenza a capo del paese, l’autore della perturbazione che la guerra trae seco; ma la nazione non aveva voce in capitolo, e si lasciava trascinare dalla corrente degli avvenimenti. AI di fuori poi gli impazienti potevano tutto al più rimproverargli una longanimità che andava un po’ di conserva coll’illusione e la debolezza. Ma ogni di egli faceva qualche passo in avanti, procedendo colla circospezione che lo distingue, e nulla rischiando a casaccio.

Passato il Pruth, la guerra fu risolta; e da qui incomincia la serie fatale dei fatti, l’ultimo risultato di cui fu la nullità e l’impotenza cosi al settentrione come al mezzodì dell’Europa, cosi sul mar Baltico come sul mar Nero.

La speranza di attaccarsi l’Austria, come si era attaccato l'Inghilterra; il desiderio di formare contro lo Zar una coalizione di sovrani, anziché di formare contro il dispotismo una coalizione di popoli, furono le cause che traviarono quella politica abile e circospetta, e che rovinarono in una campagna le forze occidentali.

L’Austria doveva essere un inciampo, e la sua alleanza un ostacolo insormontabile.

La guerra era dichiarata e cominciata con accanimento sul Danubio e nel mar Nero fin dall’autunno del 1853. Si conoscono già i particolari di quella guerra; le battaglie di Olteniza e di Citate, il disastro di Sinope, ecc. L’imperatore, il cui segreto pensiero era tutto alla guerra, ne fece la dichiarazione sei mesi dopo, stanteché le potenze occidentali datassero quella dichiarazione il 27 marzo 185-4, quando i Russi avevano già valicato il Danubio da vari punti, quando devastavano la Dobrucia e minacciavano la Bulgarie.

Questo ritardo giustificò le accuse che si affibbiavano a quel tempo al governo imperiale.

Ê certo che l’imperatore si attaccò alla chimera dell’alleanza austriaca come ad un'ancora di salvezza. La posizione era buona, ma egli la guastò; egli compromise a capriccio il frutto che doveva ritrarre dalle forze morali e materiali che aveva accumulale intorno a sé ed alla causa del Sultano; si assorbi nelle conferenze di Vienna; ne segui i lavori con un’attenzione sterile; passò il suo tempo a voltare e rivoltare le frasi de' protocolli, a collocare le virgole dei memorandum, ingegnandosi a tessere le maglie della rete da cui sperava che Austria e Prussia non potrebbero sortire.

Ma egli vide come la Prussia scappasse dalla fragile sua rete; né perciò egli è convinto ancora degli imbarazzi cagionatici dall'Austria, della impotenza a cui ci hanno ridotti la sua buona volontà o i suoi terrori, e dei pericoli infine a cui ella ci espone.

Si sa quanto costasse all’illustre capo della famiglia imperiale l’alleanza austriaca, che fu il principio della sua rovina. Napoleone lll,che conosce tanto a fondo la storia dell'impero, sembra tuttavolta essere il solo che l’ha dimenticata. Questa pagina di storia è scritta per lui in caratteri geroglifici; egli né la capisce né vuole capirla. Si è perciò separato dal suo più abile consigliere, da uno dei suoi amici i più devoti, dal conte di Persigny; e su quest’argomento, ove fia d’uopo, si separerà da tutti i membri della sua famiglia, e li pregherà anche, se forse non l’ha già fatto con alcuni, di non opporgli veruna osservazione in proposito.

Questo acciecamento si fonda tuttavia, bisogna dirlo, sopra motivi plausibili in apparenza. Il primo di essi è il suo vivo desiderio di finir la col titolo di parvenu, chi prese egli stesso un giorno con una felice arditezza, e di rientrare a piè fermo nelli famiglia delle vecchie dinastie e nei consigli diplomatici dell’Europa. L’altro motivo poi dipende dalle sue idee esagerate di ordine di conservazione. Egli ha volto alla democrazia un odio mal fondalo; ha giurato ali rivoluzione una guerra senza tregua; ed i suoi occhi il ridestarsi delle nazionalità che i tre sovrani del Nord hanno vinte senza spxxxxx, questo ridestarsi è rivoluzione per insurrezione in Ungheria, in Italia, in Polonia; non può appoggiarsi, a creder suo, xxxxx non sui principii della democrazia: per ragione egli la condanna colla stessa veracità e la stessa risolutezza, come se si trattasse di una sommossa in Parigi per balzarlo dal trono.

Si potrebbero citare molti membri della famiglia imperiale che sono lungi dal comprendere questa opinione assoluta, la quale costituisce una rottura tendente ad allargarsi oggidì tra la dinastia napoleonica e i fondamentali istinti del popolo francese. Ma non fu questo il momento di far risaltare dissidenze che l’avvenire pur troppo metterà in chiaro.

III

Alla dichiarazione di guerra del 27 marzo 1854, il governo aveva fatto precedere sull’estensione dell’impero considerevoli preparativi militari. I reggimenti destinati a fermare l’esercito d’Oriente erano stati designati, i battaglioni posti sul piede di guerra. L’Africa teneva pronte le sue truppe meglio agguerrite, e tra le altre i Zuavi e i bersaglieri indigeni che avevano reso preziosi servigi.

L’11 marzo, dopo la partenza dei signori xxxsselef e Brunow (ambasciatori russi, quello Parigi, questo a Londra) e il richiamo del Signor Castelbajac e di sir Hamilton Seymour, il decreto imperiale organizzava il personale dell’esercito e stabiliva i diversi servigi. Il totale delle forze sommava a circa 40 mila uomini, venuti da ogni guarnigione di Francia e dell’Algeria. Era il fior dell’esercito, era quanto conteneva di più fermo e più sperimentato sotto il comando di eccellenti ufficiali inferiori. Bello e grande spettacolo il vedere l’imbarco di quelle truppe, anche dal più puro patriottismo, e impazienti misurarsi con quel nemico lontano che vogliamo punir di presente, e di cui avevano vendicarsi pel passato.

Tutti i piroscafi disponibili, accompagnati da oltre 200 navi onerarie noleggiate dal governo, trasportarono quasi simultaneamente quell’esercito sulle rive ottomane. Alla fine di aprile esse sbarcavano a Gallipoli, ove non si aspettava che il maresciallo Saint-Arnaud, che doveva arrivare sul Berthollel.

Alcuni reggimenti inglesi ci avevano preceduto a Gallipoli; e le altre truppe inglesi arrivarono in seguito, animale come le nostre dal più vivo entusiasmo, e mescolando il loro God save the queen (Dio salvi la regina) colla nostra Marsigliese.

O quante speranze che poi non si effettuarono! Quale brama di combattere e certezza di vincere! Tutti li sguardi erano tesi al Danubio, ove continuava la lotta con eventi diversi fra li eserciti russo ed ottomano, e ciascuno aspirava al momento in cui si schiererebbe contro li autori dell’atto brutale di Sinope, e che avevano in pari tempo violati i trattati europei e il territorio di un popolo amico e degno del più serio interesse.

Ma che femmo noi per due mesi? Anche oggidì sarebbe difficile di addurre una causa seria della nostra inazione. I due eserciti stavano sotto il comando del generale Canrobert pei Francesi e del luogotenente generale Brown per gl’lnglesi. I comandanti in capo erano a Costantinopoli; il 19 maggio recaronsi a Varna, ov’ebbero il 21 un colloquio con Omer Pascià, in cui si fissò un piano di campagna, stando al quale i tre eserciti dovevano operar di concerto e combinare le loro operazioni.

In quella riunione del 21 maggio si calcolarono le forze dei tre eserciti, si designarono le posizioni da occupare e da difendere; si determinarono le vie e i mezzi; per ultimo fu fissato un piano generale fra i comandanti di terra e di mare alla cui esecuzione tutti dovevano contribuire. Il maresciallo Saint-Arnaud fu nominato generalissimo dell’esercito combinato. Ba Varna i Ire generali andarono a Sciumla ove passarono a rassegna le truppe di Omer Pascià, che sommavano a 45 mila uomini ben disciplinati e ben disposti, ma insufficienti sia per sbloccare Silislria o sia per difendere i Balkani. Finalmente lord Baglan e Saint-Arnaud ordinarono alle truppe inglesi di Scutari e alle truppe francesi di Gallipoli di recarsi a Varna per mare. Il distaccamento francese era composto di due divisioni comandate dai generali Canrobert e Bosquet.

Il 1° giugno arrivò il primo convoglio di truppe delle due nazioni: i Zuavi aprivano la marcia. Varna e Sciumla stavano per diventare la base delle operazioni delle forze combinate.

Sgraziatamente vi furono nuovi indugi e nuovi ritardi, che sarebbero inesplicabili se non si riferissero alle cause diplomatiche da noi indicate di sopra. Ciò che avvi di più strano si è che il maresciallo Saint-Arnaud pareva essere il solo tra tutti che fosse perfettamente al corrente di quanto succedeva nei gabinetti. Egli affettava di tenersi fuori il circolo dei generali, e a certe obbiezioni fattegli più di una volta, rispondeva con un’aria di mistero, con cui stimava di darsi dell’importanza.

IV

Fa mestieri che diciamo qui tutto che noi pensiamo del maresciallo, senza fermarsi superstiziosamente davanti alla morte che lo ha prosciolto a tempo della più grave responsabilità.

Egli aveva portato da Parigi istruzioni per tutti gli eventi. Attaccato alla fortuna personale dell’imperatore, per gravi ragioni, sulle quali torna inutile d’insistere, egli aveva in certo quai modo forzata la confidenza di quest’ultimo, e penetrato molto addentro ne’ suoi disegni. Condivideva le sue viste politiche in punto all’alleanza austriaca, e al paro di lui si maneggiava per rappresentare la parte di un uomo imbevuto dei principii d’ordine, e riconciliato colle sane idee monarchiche e religiose. A Costantinopoli si era applicato a convincere l’internunzio d'Austria (barone de Bruck) della buona fede del governo francese, e ad assicurarlo del suo personale desiderio di vedere i gabinetti di Parigi e di Vienna camminare d’accordo ed inaugurare una politica comune a fronte della Russia. Queste proteste erano tali da sedurre l’internunzio che le accolse con favore e le partecipò al suo governo che fino allora si era mantenuto con una tal quale riserva.

L’ambasciatore francese a Costantinopoli (generale Baraguay d’Hilliers); era stato richiamato pel momento in cui il maresciallo doveva arrivare in Oriente, e s’ebbe ragione. Un ambasciatore era inutile; il maresciallo bastava a tutto. Egli scendeva persino a denunzie di polizia; si faceva render conto delle relazioni che tenevano i generali ed ufficiali superiori, e biasimò severamente certi uni di loro perché ricevevano tale o tale profugo ungarese, tale o tale celebrità polacca, il contatto di cui coll’uniforme francese offuscava il pudore dell’onorevole de Bruchxx. Egli professava un disdegno manifesto pei generali Klapka e Wisowski; e un giorno li permise di prendere una misura generale di proibire che qualsiasi persona appartenente all’ordine civile frequentasse cogli stati maggiori o coi gradi dell’esercito. Questa misura gli era stata imposta dall’internunzio d’Austria; ed era stata preventivamente approvata dall'imperatore. Lo scopo era di colpir il conte polacco Branicki, amico personale del principe Napoleone. Il principe, con lettera, chiese delle spiegazioni, e il maresciallo rispose: non altro far egli, che obbedire agli ordini del governo dell'imperatore Saint-Arnaud, consacrando il suo tempo e le sue fatiche a questa sorta di cure, neglesse l’esercito, e da quell’epoca le truppe cominciarono a sopportare privazioni, le( )responsabilità delle quali non conviene far pesare sull'amministrazione del dipartimento della guerra, bensì sullo stato maggiore ge