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https://www.repubblica.it/
Nel momento della tragedia non
possiamo non chiederci perché a morire sono sempre, o quasi sempre,
soldati del Meridione
Il sangue dei ragazzi venuti dal Sud
di
Roberto Saviano
Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima
strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una
notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra
lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel
territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di
luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che
restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche
modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure
Firenze, Torino o Bolzano.
Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la
parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro
regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali
emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come
di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che
cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban,
troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore
nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo
tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere
d'Italia, versano all'intero paese.
Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come
la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia
non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro
storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre
soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi
ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è
così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati
dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio
Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata.
Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide
Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in
Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico
Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma
residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino,
trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno.
Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un
paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore.
Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo
stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con
sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da
cinque anni, non ancora padre.
Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto
blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i
più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi
dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e
di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un
convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada,
sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo
quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di
altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.
E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro
involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti,
due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati,
sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una
rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il
leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad
occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra
sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la
strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati
tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma
che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a
disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia
di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si
sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche
altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della
Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto
che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il
vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali.
L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana.
Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare
contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.
E' anche questo che rende simili queste terre, che fa
sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come
là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro,
delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né
conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne
ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è
praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che
partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato
la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari.
L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban.
Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci
partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di
tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera
tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese
di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la
decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per
sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce,
sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie
usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia,
sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve,
come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio
simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile
dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il
titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui
uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non
nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord,
alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le
licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che
fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della
stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro
esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali,
quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire
lontani.
E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come
per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato
sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che
rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici
sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il
proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra
la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar
abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra
guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra
lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione
quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come
dovrebbe, come di una condizione immutabile.
Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori
e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno
entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del
soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non
avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno
gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di
finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui
partono, non le chiamano "missione di pace".
Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme
dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a
casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di
uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie
al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi
augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua
ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a
ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini
strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe
piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il
loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico
pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi
morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone.
Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano
nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma
raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa
partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una
sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui
loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale
nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e
porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese
decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore,
assuefatto ad ogni tragedia.
Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre
valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine
di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una
volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è
sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti
urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo
paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del
Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo
di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è
in guerra. Sempre.
Published by arrangement with Roberto Santachiara
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La
miseria. La guerra di camorra. Gli immigrati "che rubano il lavoro".
Gli italiani tra Napoli e Caserta si sentono assediati, e scappano:
120.000 "i pendolari della fame"
2008, fuga dalla
Campania.
Ma lo Stato fa finta
di nulla
di GIAMPAOLO VISETTI
CASERTA - I nove furgoni bianchi, senza sedili
posteriori, accendono le luci alle undici di sera. Gli uomini,
accovacciati sulla lamiera, ora ci sono tutti. Nel piazzale, fuori dal
casello dell'autostrada a Caserta Nord, le donne finiscono di
distribuire nel buio il bagaglio per la settimana. Una sporta verde a
testa: birre e sette panini con la pancetta, scottata perché si
conservi. Sembra tutto pronto e invece la carovana dei nuovi emigranti
aspetta sotto la pioggia calda. Non tutti ottantacinque hanno soldi. I
bambini che portano le sigarette li vogliono subito. Poi il primo
Ducato, senza che qualcuno saluti, si muove. I poveri che ogni notte
partono dalla Campania, a centinaia, leggono i biglietti con
l'indirizzo di fabbriche e cantieri del Nord.
Venti euro al giorno, in nero. Meno degli immigrati
africani, o dell'Est, che cuciono pellami e stoffe nei capannoni
abusivi di Casal di Principe. Se non c'è lavoro, niente. "Salire" però
è un lusso. Chi "va via", chi "lavora su", acquista il diritto di
credere in un imprevisto. "Il sottoproletariato marginale - dice
Giovanni Laino, dell'Associazione Quartieri spagnoli di Napoli - è
ormai un destino collettivo. Non ci sono più casi di riscatto: la
povertà è diventata patrimonio ed eredità tra generazioni". Il
fallimento della politica, locale e nazionale, è questa esplosiva
paralisi sociale.
Impensabile, per i nuovi emigranti italiani, pagare un
affitto, o spostare la famiglia. Mangiano e dormono nei furgoni. Una
settimana di fatica e una giornata di sonno, l'unica a casa, prima di
tornare al casello. Gli altri, migliaia, fuggono dalla miseria in
treno. I vagoni della notte, senza cuccetta, finiscono di riempirsi a
Napoli. I giovani, carichi di valige di plastica e di neonati,
raggiungono parenti a Bologna, Padova, o Milano. Oltre i quarant'anni
invece sono pendolari. Camerieri, braccianti, autisti, operai, soldati:
dall'alba alla notte fino a Roma, Firenze, Bologna, nelle Marche.
Il Meridione, per sopravvivere, dopo mezzo secolo si
rimette in marcia. Il "rinascimento campano" è finito. In un anno, dal
Sud al Nord, sono emigrati in 120 mila. Cinquantamila solo dalla
Campania, più 65 mila emigrati pendolari e 26 mila finiti all'estero.
Napoli nel 2007 ha perso il 14 per cento degli abitanti. Nel resto del
Paese pochi se ne accorgono. Nessuno ne parla. Ma la massa
impressionante dei poveri, in maggioranza invisibili alle statistiche,
cresce e fa paura. "Più dei rifiuti - dice il sociologo Giovanni
Sgritta - più dei tifosi violenti, dei rom o degli immigrati".
Chi resta non ha alternative. Concetta, a Giugliano,
alleva sei figli in una stanza di dodici metri quadrati, senza
pavimento e priva di intonaco. Ha ventidue anni ed è riuscita a finire
le elementari. Quando tutti sono a letto, per qualche ora, fa entrare
chi la paga. Antonio, in giugno, ha perduto la pizzeria di Mondragone.
Strozzato dal mutuo, non ha pagato le rate all'usuraio cui lo ha
indirizzato la sua banca. "Era un amico - dice - per punirmi mi ha
fatto violentare la moglie, di cinquant'anni".
È in questo deserto che lo Stato consegna la Campania al
"Sistema". La camorra si nutre di vuoto. Ad Acerra, per dare una
lezione ai bambini che non volevano diventare "pali", in una notte ha
fatto segare panchine, alberi e lampioni. A Benevento ferma i vecchi
che rubano scatolette al supermercato. O pagano la metà, o il cibo
viene sequestrato. "Ormai - dice Gaetano Romano, direttore della
Caritas campana - solo la criminalità ha soldi da investire e lavoro da
offrire. La regione si trasforma in una holding camorristica. Migliaia
di genitori, in questi giorni, hanno potuto comprare i libri di scuola
grazie agli spacciatori. Per la prima volta la stanchezza dei poveri,
la rabbia degli immigrati e la concentrazione dei criminali, generano
una spinta inarginabile. Così, Napoli e la Campania, precipitano
nell'abisso del razzismo".
Non è, purtroppo, un'emergenza. Lo è però la novità
generata: i poveri del Sud, in crescita vertiginosa, in Italia non sono
più un argomento pubblico e nessuno si muove davanti allo scoppio della
loro disperazione. Decenni di allarmi, ingigantiti per battere cassa: e
ora che la marea sale davvero, marcita nel razzismo, nessuno che ci
badi. "I poveri sono anonimi e faticosi - dice padre Antonio Valletti
nel centro Hurtado di Scampia - e ci fanno vergognare. Per il Paese non
sono più una voce di spesa. Riconoscerli imporrebbe un intervento. Alla
pubblicità, signora dell'opinione pubblica, non piacciono: in tivù, non
esistono. Così la politica non ha interesse ad allargare lo spazio dei
loro diritti. Dobbiamo prendere atto che siamo l'Africa dell'Europa:
con più violenza e meno dignità".
I numeri confermano. La Campania è ormai la regione
europea con la concentrazione più alta di famiglie povere, di
disoccupati, di donne che non lavorano e di minorenni in miseria. Poco
meno di 2 milioni in regione, 240 mila solo a Napoli. Quasi uno su tre
non ha il necessario per sopravvivere. Due su dieci non mangiano più di
tre volte alla settimana. Otto su dieci non possono pagare l'affitto. I
disoccupati sfiorano il 40 per cento. Tra chi lavora, due su dieci
guadagna meno di mille euro al mese, uno su dieci meno di 500. Oltre la
metà dei residenti accumula almeno 200 euro di debiti al mese. Il pil
pro capite è di 16 mila euro all'anno, contro i 33 mila della
Lombardia. Un contratto su due è a termine. La dispersione scolastica è
del 45 per cento.
Tra le 80 regioni europee più arretrate, occupa la
posizione numero 68. I poveri, nel Meridione, sono ormai poco meno di 6
milioni. "L'agghiacciante verità taciuta - dice Luigi Tamburro,
presidente del banco alimentare di Caserta, il più grande d'Italia - è
che migliaia di persone e di bambini ormai fanno la fame. La società
della competitività, fondata sul consumo, ha esaurito il proprio
serbatoio di umanità. Siamo soli davanti ad una tragedia italiana di
cui si ignora la pericolosità". Centinaia di dibattiti, politici,
storici e letterari: retorica sulla "questione meridionale", nessun
aiuto concreto. L'Italia, con la Grecia, è l'unica nazione europea a
non avere un piano di lotta contro la povertà. L'unica ad aver
cancellato ogni sostegno.
Finiti i soldi anche per l'assegno, 350 euro al mese,
della Regione Campania. Il rapporto annuale della Commissione contro
l'esclusione sociale, è ignorato.
Il nuovo governo non l'ha mai nemmeno riunita. Per
questo nel giorno di San Gennaro, patrono di Napoli, la mensa di piazza
del Carmine scoppia. In fila, tra anziani e immigrati, anche genitori e
figli. Parlano della strage degli africani, nella notte, a
Castelvolturno. Condannano la rivolta degli immigrati contro gli
omicidi. "Questa volta - dice Gaetano, disoccupato con due bambine in
braccio - i Casalesi hanno fatto bene. I negri andavano puniti: rubano
i lavori e noi finiamo a mangiare dai preti".
Una guerra nuova: non solo tra i poveri, ma tra questi e
la criminalità che, sconfitto lo Stato, deve difendersi dalla rivolta
dei propri sicari, o di nuovi concorrenti. "La Campania - dice Alex
Zanotelli, missionario alla Sanità - non è più un serbatoio
significativo di schiavi per il Nord. Il Paese ha scelto: musulmani e
neri, per pagare ancora meno la mano d'opera clandestina e ammorbidire
l'islam. Lo scontro esplode qui: italiani poveri contro stranieri
poveri. Vincono i secondi, perché la Campania ormai è la piattaforma
logistica per le scorie non smaltibili dell'Europa. Solo un africano
accetta di vivere in una discarica e riconosce l'affare spietato tra
politica e criminalità, il patto massone per la "somalizzazione" del
Sud. Lo Stato ci mette terra, uomini e miseria, la camorra soldi e
controllo. Non si capisce che siamo prossimi all'esplosione. Chi può
scappa: nelle strade si agita una massa di disperati che non ha più
nulla da perdere".
Dopo trent'anni di rifiuti tossici che hanno distrutto
l'agricoltura, qui si aspettavano i soldati per bonificare i terreni.
Invece i militari arrivano per presidiare nuove discariche e nuovi
inceneritori. "L'immagine-simbolo - dice Maurizio Braucci, tra gli
sceneggiatori di "Gomorra" - è quella di Ponticelli. Una folla di
poveri, stracciati e sporchi, nascosti dietro montagne di immondizia,
che prende a sassate famiglie di zingari in fuga. È il simbolo della
Campania, ma pure del Paese che ha scelto la militarizzazione sociale.
Indifferenti all'evidenza dello scandalo: perché i mediatori della
miseria vivono di paura, perché chi ha voce e potere appartiene al
sistema che trasforma l'emergenza cronica in povertà".
Eppure l'Italia in recessione, che nega o minimizza, con
questa miseria che straripa deve fare i conti. L'abisso non è più
costruito di casi estremi, ma di normalità. Lucia, a Sant'Angelo dei
Lombardi, ritira ogni mese una pensione di 580 euro. Ne spende 360
d'affitto e 100 per aiutare il figlio disoccupato. "Per cibo, bollette,
medicine e vestiti - dice - mi restano 4 euro al giorno". Ad Aversa
decine di bambini vanno a scuola lunedì, mercoledì e venerdì. Martedì,
giovedì e sabato lavorano per la criminalità: 50 euro al giorno, per
pagarsi vitto e alloggio in famiglia.
"Il Paese - dice don Luigi Merola, ex parroco a
Forcella, costretto a lasciare per le minacce di morte e oggi sotto
scorta - alla povertà si è arreso. Taglia i fondi all'istruzione, finge
che l'occupazione sia una questione del mercato, condanna i poveri alla
delinquenza. L'accelerazione della deriva di Campania e Meridione nella
miseria, sotto gli occhi di tutti, è spaventosa. Se non diventa il
problema centrale del Paese, il federalismo si tradurrà in una
scissione nordista di fatto. L'unico esercito che al Sud faceva paura
era quello degli insegnanti: toglierli significa ammettere di mirare al
consenso attraverso il controllo della camorra".
La gente, resa apatica da una storia di prepotenze e
umiliazioni, è scossa da una paura nuova. "Anche la solidarietà - dice
la sociologa Enrica Morlicchio - è allo stremo. Città e paesi sono in
mano agli usurai, che riciclano denaro sporco ricattando i poveri. Le
case della Campania sono depositi di armi e droga: unica fonte di
sostentamento anche per le famiglie oneste".
Nei salotti ci si consola ricordando la miseria del
dopoguerra. Ma lo spettro ormai ha un profilo preciso: "l'assalto ai
forni", la rivolta dei poveri contro lo Stato assente che li ignora.
"Il governo - dice Antonio Mattone della comunità di Sant'Egidio - non
lotta più contro la povertà, ma contro i poveri. La violenza di
quest'anno a Napoli, contro le discariche, contro i rom e contro gli
immigrati, è stata premiata. La lezione è semplice: se è filmata dalle
tivù, in base alle opportunità elettorali, la violenza della piazza
decide. Un cortocircuito civile che in Campania può travolgere tutti. I
poveri ormai sono la maggioranza, non rispondono più a nessuno,
cominciano a unirsi. Il Sud in miseria, fondato su emigranti, immigrati
e criminali, sta spazzando via la politica ostaggio della finanza:
l'Italia rischia di smarrire la fiducia non nella ripresa, ma nella
democrazia".
Come Marina. Da trent'anni vive in un sottoscala a Villa
Literno grazie ai 600 euro concessi alla figlia colpita da
un'encefalite. È mezzogiorno e il figlio più grande, disoccupato, dorme
davanti al focolare spento. L'altra figlia, separata, oggi non ha cibo
per i tre bambini. Questa notte l'hanno presa mentre stava per tuffarsi
dal balcone nel vicolo. "Se l'assisto - dice - non posso lavorare. Se
lavoro, perdo il diritto al suo assegno".
Una frattura storica, la rottura del vincolo tra
miserabile, favore e potere. Migliaia di fantasmi, in Campania, si
chiedono cosa significhi, se ancora abbia una valore, essere liberi.
"La scure che sta tagliando il Paese - dice Marco Rossi Doria, maestro
di strada - è la fine dell'interesse della politica per chi ha bisogno
di giustizia. La vigliaccheria dell'italietta, la rimozione collettiva
della povertà, consente alle istituzioni di confrontarsi esclusivamente
con l'economia. I tagli alla scuola, che ricacciano i bambini del Sud
nelle strade, sono il simbolo di una condanna definitiva alle mafie.
Questo accanimento particolare contro i poveri, con l'arma
dell'istruzione negata nel nome del rigore, è il via libera pubblico
alla criminalità".
Nessuno, in Campania, invoca il fallito assistenzialismo
clientelare del passato. In una terra divisa tra fuga e guerra, non ci
si vergogna però più di lanciare un "allarme nazionale sui poveri".
"Ogni settimana - dice il sociologo Enrico Rebeggiani - se ne vanno
centinaia di donne sole. Non era mai accaduto. La regione, come il
resto del Sud, si svuota di giovani intraprendenti. La politica è
ridotta a reclutamento dei leader prepotenti delle moltiplicate
ribellioni possibili: solitamente accade quando i regimi autoritari
sono al tramonto".
Per questo, affrontare il cambiamento con l'emergenza
che mobilita esercito, polizia e ronde, alimenta la ritirata. "Il Paese
- dice Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus - deve riconoscere
una responsabilità nuova verso i poveri. Sacrificare la Campania e il
Meridione alla paranoia della sinistra contro Berlusconi, non legittima
solo la corruzione del potere: distrae una coscienza civile e trascina
l'Italia dalla povertà regionale alla cultura nazionale
dell'arretratezza armata". In via S. Maria Ante Saecula 109, rione
Sanità a Napoli la casa grigia di Totò, chiusa e quasi introvabile, è
abbandonata. Sembra crollare. Nel "basso" hanno aperto un'officina
abusiva. Il Comune aveva promesso al mondo un museo. È stata venduta a
un anonimo privato. Un vigile tira un lenzuolo blu, steso ad asciugare
dalla casa di fronte. Copre anche la targa, sporca e illeggibile. Forse
vuol cancellare chi, anticipando una tragedia, faceva ridere. Ed è
stato confuso con un comico.
(27 settembre 2008) |