Nel primo pomeriggio del 13 agosto 1851 uno spaventoso terremoto colpì la Lucania, radendo al suolo la città di Melfi, tale fenomeno fu avvertito anche in Capitanata ed in Terra di Bari.
Calabria e Basilicata furono flagellate, prima di
allora nel 1783, da un terremoto che sconvolse persino
l’orografia di quelle terre. Anche allora, tenendo conto delle
ben diverse condizioni di viabilità, si mobilitò
l’intero Regno per soccorrere le popolazioni colpite.
Nel 1826 un altro sisma distrusse interamente la
città di Tito, ma mai la furia devastatrice sconvolse come nel
1851 quei disgraziati paesi. I morti furono 671, dei quali 444 nella
sola Melfi; i danni alle proprietà pubbliche e private
ammontarono a 1180000 ducati, cifra enorme per l’epoca,
considerando che l’intero bilancio dello stato contava su 30
milioni di ducati di entrate.
Il sottintendente di Melfi, De Filippis, fu il primo
ad avvertire del disastro la Capitale con un dispaccio inviato al
Ministero dell’Interno, Salvatore Murena: immediatamente fu
inviato a Melfi, dove giunse il 18, un intendente, oggi prefetto, per
coordinare i primi soccorsi, ma già sul posto tutti concorsero
per disseppellire i vivi dalle macerie e dare sepoltura ai morti.
Tutti gli ingegneri civili della Provincia furono
mobilitati, ed i fondi disponibili per opere di assistenza vennero
distribuiti ai più poveri. Ferdinando II, che si trovava con la
famiglia a Gaeta, emanò subito una serie di provvedimenti:
liberò 4000 ducati dalla sua cassa privata, ed altri 6000 li
fece assegnare dai ministeri delle Finanze e dei Lavori Pubblici;
nominò una commissione incaricata dell’esatto computo dei
danni e del buon esito delle spese occorrenti, composta
dall’Intendente, dal vescovo di Melfi Monsignor Ignazio Sellitti,
e da due proprietari di Melfi che in passato avevano dato prova di
efficienza e solidarietà nei confronti del prossimo, don Luigi
Aquilecchia e don Francesco Pocchiari. Infine deliberò di aprire
una colletta in tutto il Regno, tutto questo al fine di evitare il
ricorso alle tasse.
Le autorità locali si misero al lavoro: un
ospedale da campo fu allestito col concorso delle truppe che
stanziavano in Puglia e Basilicata, i medici furono dirottati sulla
zona dall’intera Provincia, e da Napoli giunsero i migliori
specialisti dell’ospedale degli Incurabili.
I carcerati di Melfi, fuggiti il giorno del sisma,
rientrarono tutti in città per offrire volontariamente le loro
braccia. Molti di loro furono poi graziati dal Re, ed a tutti fu
diminuita la pena. Il Re, che per un mese aveva coordinato
l’avvio di tutto il programma di aiuti, il 14 settembre, con il
fratello Conte di Trapani, ed il quindicenne Duca di Calabria (questo
era il titolo spettante all’erede al trono), partì per
Lacedonia accompagnato dal Ministro Giustino Fortunato, nativo di
Rionero pure colpito dal sisma, e da Salvatore Murena allora direttore
del ministero dell’Interno, vero responsabile di tutta
l’organizzazione degli aiuti. Il 16 giunse nella martoriata
città lucana.
Così disponeva il Sovrano: “I soccorsi
alimentari devono limitarsi ai veri poveri che non possono lavorare.
Alimentare gli oziosi significherebbe sprecare le somme raccolte. Dove
il lavoro mancasse sarà compito dell’autorità
crearlo in qualunque modo con i fondi stessi di soccorso. Nel caso i
lavoratori avessero perduto gli strumenti di lavoro, e non avessero i
mezzi per riacquistarli, saranno loro forniti direttamente. Mai
consegnare loro denaro per farlo. In caso di assegnazione di case
all’uopo costruite, dovranno essere consegnate completate senza
dare il denaro per farlo”.
L’intera popolazione superstite si strinse
intorno al Re, che per sei giorni e sei notti percorse tutta la regione
colpita, occupandosi personalmente anche dei casi dei singoli cittadini
che volevano parlare con lui.
Prima di lasciare Melfi, il Re ordinò che
fossero censiti i terreni demaniali e che subito vi fossero costruite
80 abitazioni in legno, che si iniziasse la costruzione della strada da
Melfi a Bisaccia, “perché fosse immediatamente dato lavoro
agli operai dei comuni danneggiati”.
Rientrato a Napoli stabilì
l’istituzione di 5 consigli edilizi, modernissime commissioni che
sovrintendevano tutte le costruzioni nelle città seguendo
criteri di rispetto ambientale ed architettonico, in altrettanti comuni
danneggiati.
Con un decreto del 15 aprile 1852 istituì a
Melfi una banca per prestiti agrari e commerciali, che permettessero
all’economia disastrata di riprendere il suo cammino.
Il 24 maggio venivano assegnati gratuitamente a 704
famiglie di poveri contadini 2266 tomoli di terra fertile, e per quella
data i paesi colpiti furono completamente ricostruiti.
I fondi della colletta nazionale ammontarono a
142000 ducati, che furono spesi con intelligenza ed onestà, ed
il resoconto fu pubblicato sul Giornale delle Due Sicilie. Il Re e la
famiglia Reale donarono 10000 ducati tratti dal patrimonio personale,
il Papa 4000, 23000 furono tolti dai fondi di varie amministrazioni,
20000 giunsero dai funzionari ed impiegati dello stato, quasi 50000
dalle province, 33000 da singoli cittadini.
Non un ducato fu imposto sulle già poche
tasse che si pagavano nel regno.
Come disse Giacomo Savarese, liberale ma tenace
meridionalista del tempo, “giorno verrà che la storia
farà giustizia di un Re che volle la prosperità del suo
popolo, e che fu condannato alla più acerrima denigrazione
accomunato, nei luoghi comuni e nelle menzogne, proprio ai suoi
amatissimi sudditi”.
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