ROMA LIBERATA«Roma liberata», in dieci canti, è una parodia della «Gerusalemme liberata» del Tasso ed è ispirato dall'annessione di Roma del 1870. In quest'opera, stampata nel 1877, il Poeta rivela in alcuni episodi la condizione toccata in sorte ai territori annessi allo stato italiano. Il canto riprodotto è tratto dall'edizione curata da Giuseppe Guarino. |
1) Canto l'armi pietose e il Maresciallo Che a Pietro confiscò scettro e predella. Molto a piedi egli oprò, molto a cavallo, Niente sofferse in questa parte o in quella, Pur fece, ad ogni modo, un grande acquisto Mandando a spasso il successor di Cristo! 2) 0 Musa, tu che di cornuti allori Circondasti la fronte al ministero Che un governo impiantò di percettorí E di contribuenti un cimitero. Prestami un po' dì vìn della tua botte, Giacché darmi non puoi soldi e pagnotta. 3) Tu d'Ildebrando invitto ombra onorata, (1) Se mai ti desti al suon delle mie note, Dal centro della tomba scoverchiata Fulmina questo regno di carote, 0 almeno disponi in certi dati eventi Che la mia penna un fulmine diventi. 4) Né t'ìncresca il mio stil, se in molli versi De' più duri argomenti io la discorsi; Ché siccome dì miei mai sempre aspersi Gli orli del vaso ai miscredenti io porsi, Cosi aspergo talor financo il passio Di estratto di cicuta o legno quassio! (2) 5) Ma né insania ella fia, né irriverenza, Ché avermi io spero in fra i beati stanza; Ben nel mio cor tu leggi, e in conseguenza Perdona a me l'involontaria oltranza, S'io dal dover mi scosto alquantì metri Per non farmi tradurre in domo Petri 6) Già un decennio volgea che il sir d'Italia Si annesse il regno delle due Sicilie. Quando il parer dell'aìa, e della balia Favoriva i digiuni e le vigilie Già il veneto Leon l'irta sua chioma Lieto stendeagli - ci manca ROMA. (1) Udebrando di SAONA: Nome di Gregorio VU prima di essere eletto pontefice. (2) QUASSIO: Albero il cui legno e corteccia amari sono usati in medicina. 7) Che mai non si tentò, che non si scrisse Di civiltà, di luce e di progresso? Ma il Papa tenne fermo, e maledisse Le note, fl ré, la nazione, ì messi. E a Roma intanto, ove il collar regnava, Non potendosi andar, non ci si andava. 8) Ma poiché il forte imperator dei Galli Segui il destino che tradire il volle, Omai d'uomini esausto e di metallì Su le renane insanguinate zolle Richìamate si aveva dal bel paese La già temuta guarnìgion francese. 9) Temuta un gìorno, or disprezzata e peggio, Dacché soggiacque all'alemanno oltraggio. Ed ove in pria le s'incensava il seggio, Doppio or si rende a' suoi nemicì omaggio. Ecco che cosa sono i re alleati, Ecco come si trattano i trattati! 10) Forse di tanta sconoscenza il danno Scontar dovrassi - Or s'è perduto il senno. lo vo narrarvi i fatti come stanno, E stan proprio cogi comio li accenno, Che dir dei vecchi e dei moderni Esopi. Quando il gatto non c'è ballano i topi! 11) E ì topi ch'han sdrucíto ormaì Per soverchia esitanza i patri cuoi, Al governo imponean: Se tu non vaì, Rimanti qui, ché ci si va da noi. No, no: voglio andar io, disse Cadorna, i sanculotti ci faran le corna! 12) E si armò fino ai denti, e in men che il dico Di gloria tricolor sì fe' briaco. E gagliardo intuonò al fiero nemìco: Esci tosto dì qua, brutto macaco! E a un tratto in sé svegliò gli sdegni e l'ire Perché fl monaco non voleane uscire. 13) Strinse, vai quanto dire, d'orrendo assedio L'unte meschite e il monacal palladio. Oh! le son farse da finir col tedio: Ma ci vuoi tanto a rompere un armadio? Pur comparir si volle. - Al Pio Tetrarca Di proprio pugno allor scrisse il Monarca: 14) 0 reverito Santo Padre, dopo Di avervi le pantofole baciato, Vi fo sapere non ad altro scopo Queste poche cìappette ho scarbocchiate Se non per dirvi in umili parole Ciò che non voglio già, cìò che si vuole. 15) E qui di confidarvi è appunto il caso Ch'io reggo, o padre, un popolo rissoso: Spero perciò di farvi persuaso Da figlio ubbidiente e rispettoso, Ch'io debba in tutti i costi, almen per mostra, Venir per qualche tempo in casa vostra. 16) Comprendo ben che non mi ci volete; Tai visite oggidìì son mal gradite. Purtuttavolta consentir dovete, Se no ... ma che so io, già mi capite! Quand'io ci vengo per necessità, Potrà dolersi Vostra Santità ? 17) Restate pur nella cittade eterna. Per me, re son sul Tebro, e re son sull'Amo. Verrò a dar sesto alla baldoria interna A cui voi sol vi occupereste indarno. Questo in quanto alla sciabla; in quanto all'ostro Vestite e travestite a modo vostro. 18) lo coi cannone e voi con l'aspersorio, Vorran star freschi i rivoluzionari! lo dai castelli e voi dall'oratorio Sfido che i corvi diverran canarii! No credete a me, che il temporale, Porco accidente! che ci sta di male? 19) Di Bruto a me l'eccelsa palinodia: Di Pietro a voi l'infoderata sedia Ma il carcere mischiar con la Custodia Scusate, Santo Padre, è una commedia! E non sarebbe una commedia anch'essa, S'io mi ostinassi a celebrar la messa? 20) Piegate ormai l'elastica cervice All'esigenze di un poter fugace. Sparger cristiano sangue a noi non lice! E Dio ci mandi l'amore e la pace! Date la santa benedizione A chi v'è figlio... e vi sarà padrone. 21) Figuratevi un po' di quanta furia Si accese l'infallibile Vicario! Chiamò a consiglio la romana curia, E fu risposto senza alcun divario: Viva la bestìa! La mia armata è pronta, Tutto per tutto - chi resta la conta! 22) Ed eccoci in battaglia. Ordine espresso Al campo giunge: - Accelerate i passi: Però badate di portavi appresso Gli scanni, le lattiere e i materassi, Poiché, giusta un recente itinerario. Un mese a far tre miglia è necessario. 23) Come di fatti, in venti giorni soli Già Roma si scovria col cannocchiale. Queste son guapperìe, questi son voli Degni di registrarsi in Quirinale! 0 Moltke, Moltke! le tue strategie Di fronte a queste, son corbellerie! |
24) E procedendo poi (che c'è di strano?) Con la più esatta circospezione, Fattasi un po' di sosta immezzo a un piano, Venne ordinata la refezíone. Il campo fu diviso in due grand, ali, E diessi la vernaglia agli animali. 25) Or mentre il rancio si sta preparando, E sì soffia la stoppa. e il fuoco accende, Di bocca in bocca si va sussurrando E a un batter d'occhio si dilata e stende La strana incomprensibile notizia Ch'omai si é presso alla papai milizia. 26) Pur né di forma umana ombra appariva Ostia! ma dove l'è? Bixio diceva. Quando un araldo al gran galoppo arriva E fa saper che una coorte sveva Di dietro a un grosso cavolo appiattata Ha fatto una terribile imboscata. 27) Né questa sol, ma un reggimento intero Di così detti - franchi tiratori - Venuti dal mar Caspio e dal mar Nero, Dall'estrema Algeria, dai regni mori, Da Svizzera e da casa del diavolo Tutti nascosti son dietro a quel cavolo. 28) Caspìta! fece, e si grattò la fronte Dei pennuti drappelli, il Comandante. Qui nella terra del focoso Almonte Temer fin vuolsi dell'erbacce piante. Qui ci ponno fumar dentro a una pìoa, E voi pensate a imbalsamar la trippa? 29) Su su, tritate il lardo e la cipolla, Prendete la farina e le padelle, Fatevi presto presto un po' di colla Empitevene i sacchi e le gamelle. Gli eroi di Solferino e di Magenta Diventarono eroi con la polenta, 30) Nembo, signon miei, baleno o strale Mai non scoppia co§ì1, così non vola Come al maschio arrìngar dei Generale Che neppur compie l'ultima parola, Ratta levossi l'itala falange Pronta a marciar dal Rubícone al Gange 31) Di battenti tamburi e di nitriti S'ode un guerresco fragor da tutti ì lati, E ad assalir gli assalitori arditi Si slanciano i cavalli ed i soldati, Finché presso una siepe alta e silvestre Eccoli vis a vis con le minestre. 32) Là - là, per Dio! là sotto, a quanto pare, Dovrebbero appiattarsi i traditori: Fuoco sul teocratico alveare, Mirate dritto al centro, o caccìatori. Cosi, dicea Cadorna: e in questo mentre Sentì il bisogno di sgravarsi il ventre. 33) Si spara intanto, e rapida e precoce Corre a cui s'accennò la palla ultrice. Oh di guerra crudel, scempio feroce! Segnalato trofeo, pianta infelice! Tutte le foglie se ne vanno al suolo, e all'erta non riman che il torso solo. 34) Alzassi allor della vittoria il grido, E chi è morto e chi no punto si bada. Marce di qua, di là, di lido in lido, Suona d'armi e d'armati ogni contrada. Ma già sen vien la notte e ì tirafumi Diceano al mondo: Accomodate i lumi. 35) Qui fa spiegar le tende il Capitano, E qui con gli altri bivaccar dispone. Scorge un paese, e (con la carta in mano) Non sa se sia Velletri o Frosinone Pure, alle imposte ed al color dei vetri Dovette giudicar che era Velletri 36) Notate, era già notte, e fu per questo Che chiaro ei non distinse a prima vista. Ma omai d'appollaiarsi era un po' presto, E il tempo che passò mai non si acquista, Ond'ordìna ai più allegri i noti canti Che spesso han fatto entusiasmare i santi. 37) Oh quai dolci concetti a poco a poco Riproduceansi allor per l'aer cieco! Che ripetea quei carmi in più d'un loco. Soavissimamente emula l'eco. Ma rotta poi tra gli antri e tra i canali, Sol profferia le sillabe finali. 38) Andremo, per esempio, al Campidoglio, Cantavasi in giu, quasi a risveglio; Ma l'eco ripetea soltanto - l'oglio - Ma in sostanza non potea dir meglio. Roma d'Italia sei la Capitale e tosto l'eco rispondea: - pitale - 39) Cantossi una nottata, e finalmente Pur s'è costretti ad inchinar la fronte. Ma come apparve in ciel l'alba lucente Ed inostrò la cresta al Celio monte, Come si udir della vendemmia i magli, Ripresero i soldati armi e bagagli. 40) Formarono un trapezio, e fecer'altro; Ma ognun verso Velletri era rivolto. Quindi fu detto: A prenderla d'assalto Questa bicocca qui non ci vuol molto, Ma per usar riguardo a Santa Chiesa, Ci converrebbe d'intìmar la resa. 41) Così fu stabilito. - Un caporale Di tratti cortesissimo e gentile Fu incaricato di salir le scale Del Comandante dei sagrato ovile. Gìunse costui ben presto immezzo ai schiavi, Immezzo ai mercenari ed ai zuavi 42) Introdotto dappoi, com'è l'usanza, Del Comando di Piazza alla presenza, Espose il tutto con cìvil creanza. Ed ebbe per risposta (oh che impudenza) - Lasciate almen che si raccolga il mosto, E poi ce n'anderemo al nostro posto. 43) Ma l'uva, allor riprese il messaggero, Da queste parti non è ancor matura, Dunque aspettar dovremmo un mese intero Coi pendolo in saccoccia alla frescura? Dunque dovria questo popolo oppresso La vinaccía serbar pel nostro ingresso? 44) Noi dobbiamo, Eccellenza, in tutti i modi Francar per sempre la Tribù di Giuda. Già il nostro Sella ha preparato i chiodi, Già assiduamente sui registri ei suda. Producete piuttosto altra ragione, oppur rendetevi a discrezione. - 45) Qui il comandante la pazienza perde, E ripiglia con voce alta e gagliarda: - Pria che la sorte ci riduca al verde, Lo zibìbo vogliamo e la mostarda, Se ciò non si conviene a chi ti manda Dì' che siamo pronti a dissipar la ghianda. 46) Noi pur due braccia abbiamo, abbiani due piedi. Abbìam polvere e piombo in quantitate, Possiani lavar nel sangue i nostri spiedi. Possiam dì membra lastricar le strade E s'è fatal che il numero ci vinca Lode al delfin che inghiotú la tinga! 47) Riedì, riedi al tuo Campo, e in nome mio Digli che gli dirai? digli che vuoi, Digli ch'ai giusti li difende Iddio. Che si adatti a schermaglia e venga a noi. - Tacquesi. Il Caporal pensoso e tetro Venne, vide, non vinse e tornò indietro. |
Gli stralci e
le
immagini seguenti sono tratti da:
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1. Setticient'anni arretu, o pocu minu nascìu nu zurieddu nta Rianu, Ccu la vuccuzza com'a lu Bamminu Chia mbrazza la Maronna ri Viggianu Rirììa quannu la menna si zucava E ccu quir'ucchicieddí ti parlava. 2. Pò quannu lu purtàuni a battiani, E, binirica, lu chiamàuni Conu, Si rivutàuni tutti li bammani Pp'ess'ammitati a quera funzionu Chiunca lu virìa, uarnitu tuttu: ‑ Crisci, crisci ‑ ricìa ‑ ppù, ppù, si bruttu. 3. Nta pocu tiempu si rija a la l'erta E camminava senza ri i stuortu; Nei ristavani tutti a vocca aperta, Paria nu arofalu nta l'uortu; Quannu a la finistredda s'affacciava A quiru vicinanzu n'ci addurava. 4. Nu bellu piezzu pò n'era passatu, E ngrazia ri Diu s'era crisciutu, Quannu a la casa nnu ci foi truvatu E nisciunu sapìa ddo era jutu. Dummanna ncoppa, sotta, a quiru e a quistu.... Era scintatu.... nuddu l'avìa vistu! 5. Li ginituri soi, tannu ppi tannu, Tuttu Rianu ìuni virenni: La mamma arravugliata nta lu pannu, Ppi tutti li pintuni ja chiangenni: ‑ Oi bona genti, oi fèmmini ri Diu, Ràtimi nova ri Cunucciu miu! ‑ 6. Nu juornu si truvava nta lu Sieggiu L'attanu. e ognunu riali curaggiu; Ma nu frustieru, ccu lu peru. lieggiu, Li ressi: (e foi na chiòppita ri maggiu) ‑ Non chiangi, rianesu povirieddu, Ca figliutu s'ja fattu munacieddu ‑ 7. E si ri lu virè tu tieni pressa Vattinni a lu cummentu ri Carossa E mittiti 'n viaggiu nnanti messa Ca hiddu, ccu na faccia janca e rossa, Ddà hinta, com'ogn'autu Cilistinu, Si corca priestu e s'auza a matutinu ‑ |
1. (Settecent'anni addietro o poco meno, nacque un Bambino in Teggiano, con la boccuccia come il Bambino, che è in braccia alla Madonna di Viggiano. E quando succhiava le mammelle, ti parlava con i piccoli occhi). 2. (Poi quando lo portarono a battezzare, Dio lo benedica, lo chiamarono Cono, si diedero da fare tutte le ostetriche, per essere invitate a quella funzione. Chiunque lo vedeva, tutto guarnito, diceva: « Cresci santo ... »). 3. (In poco tempo si reggeva all'impiedi e camminava diritto; ne restavano tutti a bocca aperta: pareva un garofalo nel giardino. Quando poi si affacciava alla finestra, odorava per quel vicinato »). 4. (Era passato un bel po' di tempo ed era cresciuto in grazia di Dio, allorchè non fu trovato a casa e nessuno sapeva dove era andato. Domandano, sopra, sotto, a questo, a quello..., era scomparso, nessuno l'aveva visto). 5. (1 suoi genitori subito ne andarono in cerca per tutta Teggiano: la mamma, avvolta nello scialle, andava piangendo: « 0 buona gente, o donne di Dio, datemi notizie del mio Conuccio... 6. (Un giorno il padre si trovava nel seggiolone a casa ed ognuno gli dava coraggio. Ma un forestiero, dal piede leggero, gli disse (e fu provvidenziale come una pioggia di maggio): « Non piangere, povero teggianese, perchè Cono si è fatto monaco »). 7. (E se hai fretta di vederlo, vai al Convento di Cadossa. Mettiti in viaggio prima della Messa, perché quello, con una faccia bianca e rossa, là dentro, come ogni altro Celestino, va a letto presto e s'alza a mattutino »). |
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(tratta da:
San
Rufo e la nostra storia, Don Giuseppe
Ippolito, Edizioni Cantelmi, Salerno, 1971, pagg. 121 - 125)
Tra i figli più illustri di questa terra è da annoverarsi NICOLA BENIAMINO MARMO, poeta dalla vena limpida e scorrevole, in italiano ed in dialetto. Nacque il primo gennaio 1838 dal dott. Daniele e dalla nobildonna Teresa Celio da Teggiano, insigne latinista. Divise la sua vita fra San Rufo, suo paese natale, Teggiano, paese natìo della madre e Salerno, animando dovunque ogni lieta brigata. I versi gli fluivano spontanei nelle circostanze più varie, specie se eccitati da un buon bicchiere di vino e dalle note di qualche chitarra o mandolino. Non fu un cristiano praticante, anche se apparteneva ad un casato, che aveva dato alla chiesa sanrufese insigni sacerdoti per pietà e dottrina; giammai però abbandonò completamente la fede.
Una notte, illuminata da una splendida luna, tornava a casa dopo molte ore di baldoria con amici. Passando davanti alla Chiesa si fermò, poi, guardando gli amici della comitiva, quasi per invitarli alla preghiera e facendo cenno al mandolinista dell'allegra brigata, cominciò a cantare:
«Vergine bella, mattutina stella, Tu rifugio sei del peccatore. Del Paradiso la delizia sei e dell'inferno l'intimo terrore Voglio cantar di Te da mane a sera finchè nel petto mio palpita il core, e quando il labbro mio più non favella accogli l'alma mia Vergine bella ».
Ai suoi tempi si pubblicava a Milano la rivista letteraria « Il secolo », cui il poeta aveva chiesto di collaborare. Alla richiesta del Direttore della Rivista di stendere un pezzo di saggio, lo fece con estrema disinvoltura ed in versi, fra la sorpresa di tutti i redattori, male impressionati dall'abito trasandato e dall'aspetto mingherlino del Nostro. Ben presto però, stanco della vita cittadina, ritornò a San Rufo, che lo festeggiava calorosamente ad ogni suo ritorno.
Il nostro poeta scrisse liriche di gran pregio nelle quali, a volte, par di sentire un sospiro d'innamorato, a volte un ràntolo di moribondo, a volte un esasperato gorgheggio e un singhiozzo d'usignuolo ! Ma gran parte della sua produzione andò perduta perchè annotata su fogli volanti, su margini di riviste e giornali ...
Oltre alla « Storia ri Santu Comi », scritta nel caratteristico idioma materno e che riportiamo alla fine, scrisse anche un poema satirico giocoso intitolato: « Roma conquistata », in X canti, parodia della « Gerusalemme liberata » del Tasso ed ispirato dall'annessione di Roma al giovane Stato Italiano nel 1870. In quest'opera, stampata nel 1877, il Poeta rivela tutta la sua elegante arte, specialmente in alcuni episodi, magistralmente scolpiti in quadretti d'inestimabile valore (1).
Sentì profondamente la nostalgia dei suoi campi ed al ricordo di
essi esultò, come innamorato, durante le non brevi assenze dal
paese, che gli aveva dati i natali:
«0 felici contrade, o
sacre valli, tacite rupi mie, dolci miei colli s'unqua al fragor di
cocchi e di cavalli già per lunga stagion pospor vi volli, ben
n'ebbi poscia pentimento al core vivendo ognor di splendido dolore!...
Ed io verrò ! Se il mio retaggio è il pianto, voglio
versarlo alla mia madre accanto; verrò con l'alba e i mattutini
rai ad inaffiar soletto i prati miei: voce altra al mondo non
udrò più mai che del fido mio can, che degli
augèi, cacciando, in fra le stoppie ed i ginepri, astute volpi e
paurose lepri ».
Il triste e freddo inverno fu sempre un acerrimo nemico del Poeta, che
in molti versi se ne duole, finchè, sopraffatto dalla sventura,
esclama mestamente:
« Sempre in cerca d'un ben, sempre delusa, come sei mesta povera mia Musa! ».
Ma, al ritorno della primavera, sente rifiorire il limpido canto della
natura e piange la sventura, che gli fu sempre vicina:
« L'uccello canta, l'albero fiorisce, ciascun dal sonno dominar si lascia sol la vita mia piange e appassisce ... ».
E' lo stesso Poeta che in precedenza aveva scritto versi
piacevolissimi, che venivano canticchiati da molti, come « Il
Testamento », « Quaresima e Carnevale»
«Lo avvicinammo nei tempi ormai lontani, nell'ospitale casa dei nostri parenti in San Rufo; e, nelle lunghe sere d'inverno, lo vedemmo, accanto al focolare, non lontano dalla dipartita, sempre a capo piegato, sempre muto. Dominato da un rimorso, che mai lo abbandonava, aveva cantato nel Diseredato:
Perché gelo d'està, d'inverno io sudo, non ho diritto all'aria che respiro né delle donne agli innocenti amori » (2).
Mori a San Rufo il 25 giugno 1904 a soli 66 anni.
(1) Le due predette composizioni del Marmo si trovano alla
Biblioteca
provinciale di Salerno, per interessamento dell'ing. Luigi Spinelli,
che le ha sottratto così alla dispersione ed alla fine. La
« Roma Liberata » comincia:
« Canto l'armi pietose e il Maresciallo che a Pietro confiscò scettro e predella, molto a piedi egli oprò, molto a cavallo, niente sofferse in questa parte o in quella Pur fece, ad ogni modo, un grande acquisto, mandando a spasso il successor di Cristo.
0 Musa, tu che di cornuti allori circondasti la fronte al ministero, che un governo impiantò di percettori e di contribuenti un cimitero, prestami un po' di vin della tua botte, giacché darmi non puoi soldi e pagnotte ... ».
(2) Vedi Luigi SPINELLI: Bollettino « San Rufo nostra »dei
giugno 1961 pagg. 4 5. Lo stesso ing. Spinelli ha curato una raccolta
di composizioni di Nicolino (come amava firmarsi) Marmo, che spero
riesca a stampare.
Nta pocu tiempu si rija a la
l'erta
Oggi ci permettiamo
un ricordo personale:E camminava senza ri i stuortu; Nei ristavani tutti a vocca aperta, Paria nu arofalu nta l'uortu; Quannu a la finistredda s'affacciava A quiru vicinanzu n'ci addurava. dedichiamo questi versi del poeta Nicola Marmo di San Rufo (SA) tratti da "La storia ri santu Conu" ad una persona che ci ha lasciato e che si chiamava pure lui Nicola Marmo - un parente, ma soprattutto un amico di infanzia. Ce lo ricordiamo ragazzo, indomito, sciupafemmine, vagabondo, emigrante, ribelle. A sedici anni iniziò un corso da sottoufficiale ma dovette lasciare: la disciplina non gli si confaceva. Quando oltre una ventina di anni fa gli parlammo di un altro Sud e di una altra storia, i suoi occhi brillavano per il rimpianto di un diverso destino. Webm@ster - 11 Aprile 2008
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