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Fonte:
https://www.destrapopolare.org/

QUANDO PER I POVERI C’ERA UN PALAZZO – CITTA’

di Alfonso Di Sarno

A chi cercasse qualcosa che non solo in termini di “simbolo” sia capace di dimostrare quanto “grandi” fossero le strutture sociali esistenti al tempo dei Borboni, c’è il “Reale Albergo dei poveri” (RAP) sul proprio in questi giorni si sta tanto discutendo a Napoli.

Vi ha dedicato, sul “Mattino”, un articolo bellissimo Chiara Graziani, che ha visitato personalmente “quei corridoi monumentali e inaccessibili”, là dove c’erano “cento laboratori per imparare un’arte…”.

C’è tutto un <<combattimento>> da sostenere perché il RAP riemerga dal degrado e dall’abbandono; e anche su questo si sofferma la Graziani. Leggiamo insieme il suo articolo: “Bisogna immaginarsi un uomo che sogna una città a nove piani, attraversata da luce, acqua e aria in orizzontale ed in verticale, insieme trasparente e segregata, divisa in strade assegnate ai vari percorsi della vita: mangiare, lavarsi, dormire, pregare. E migliaia di individui, tutti i giorni, a scorrere lungo quelle vie monumentali e obbligate.

L'uomo poi si sveglia e disegna qualche cosa che la sua vita e le casse del regno delle due Sicilie non basteranno a edificare. Il sogno incompiuto di Ferdinando Fuga, architetto dei papi, è il Real Albergo dei Poveri di Napoli; ossia la città di geniali rovine su nove livelli, proprietà del Comune dall'80, che ha rischiato la morte per disfacimento lento a partire dal terremoto che aveva fatto crollare un'ala uccidendo alcuni fra i suoi ultimi ospiti. Vent'anni e quarantamiliardi (di lire) dopo il terremoto il Real Albergo, o Rap secondo l' acronimo settecentesco, inizia una nuova vita. Anche se non è detto che abbia definitivamente invertito la marcia verso la disgregazione.

Il Mattino è voluto entrare in quei corridoi monumentali e inaccessibili per i quali il numero delle idee (città della musica, sede istituzionale europea, borgo artistico) è inversamente proporzionale alla disponibilità di fondi per realizzarle. Troppo geniale, troppo grande, troppo fuori dagli schemi, troppo patrimonio dell'umanità, il Rap non è catalogabile.

È una sorta di Pompei a piazza Carlo III, in bilico fra la disgregazione definitiva e salvezza. Questo, paradossalmente, non aiuta a trovare finanziamenti. Rocco Papa, da assessore prima e da vicesindaco poi, si è sempre scontrato con la fatale obiezione: e che ne facciamo poi?

La lotta per i fondi, ha capito Papa, andava fatta, e sarà fatta, passo passo. Braccio del Comune - voluto nel'99 dall'allora sindaco Antonio Bassolino e confermato oggi da Rosa Iervolino - è l'ufficio Progetto recupero del Real Albergo dei Poveri, affidato all'architetto Carmela Fedele.

Dal'99 ad oggi tanto si è fatto con la politica del passo dopo passo. Il degrado micidiale è stato almeno arginato, grazie a tre cantieri che stanno risanando i crolli dell'80. Occorrono, però, altri 70 milioni di euro per completare il risanamento, completo di impianti e infissi.

Ed almeno altrettanti per renderlo adatto ad un nuovo uso. Da aprile sono cominciati i sopralluoghi al Rap dei vincitori del concorso internazionale, un consorzio italo-francese guidato da Giorgio Croci e Didier Repellino. Il loro incarico, firmare un progetto per l' «intera scatola» (come si dice in linguaggio tecnico). Un progetto che restituisca a Napoli la città dei poveri, con i suoi cento laboratori per imparare un' arte, i suoi confessionali per la redenzione dell'anima, i suoi dormitori immensi, la basilica incompiuta che, nel sogno di Fuga, doveva sormontare la facciata monumentale e che sopravvive come proiezione di quelle mura interrotte che seguono il profilo di una stella al cui centro doveva sorgere l'altare.

L'incarico è: rifarlo come Fuga lo lasciò. E rifarlo incompiuto. I fondi? Al momento bastano a pagare il progetto, il che è moltissimo.

Per il resto occorrerà combattere. Viaggiare in questi luoghi trasformati in un bosco dai regali del vicino Orto Botanico, qua e là disboscati e sondati da un robot telecomandato e calato con la gru, è entrare in un sogno geniale ed inquietante. Ottomila poveri, duemila addetti, nove chilometri di corridoi larghi cinque metri (varrebbe dire la larghezza di una strada con marciapiedi), volte a perdita d'occhio, finestre che infilano la luce di altre fila di finestre, di porticati e cortili, perché l'albergo dei poveri non era nè cupo nè spettrale.

Era un circuito senza uscite in cui - maschi da un lato femmine dall' altra - una gran mano sospingeva il poveretto da mattina a sera lungo la via migliore tracciata dal sovrano: lavoro, igiene del corpo e dell'anima. E le mura avevano, letteralmente, occhi. Occhi che consentivano dai corridoi dei sorveglianti la vigilanza sulle vie, più in basso, dei sorvegliati.

Videosorveglianza del secolo diciottesimo. Occhi, finestre, canali di scorrimento delle acque e di ventilazione dovranno essere liberate dagli interventi di secoli. Interventi di chi ha abitato, a vario titolo, la città di Fuga in 250 anni: operai, artigiani, tintori, soldati americani, garagisti, gestori di palestre, scuole automobilistiche, licei, baraccati, oltre ai poverelli ed ai ciechi.

I progettisti italo-francesi stanno valutando come salvare la meravigliosa incompiutezza del sogno di Fuga che continua a sopravanzare la stessa genialità di quel che è stato costruito: il tufo esposto da due secoli e mezzo alle intemperie è risultato, ai sondaggi, molto fragile. Alla fine architetti ed ingegneri hanno dato una prima valutazione: due tre anni per riaprire alla città la sua Pompei di piazza Carlo III. La battaglia dei fondi può riprendere”.





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