Tra la fine del 1839 e l'inizio del '40 si diffuse in Italia la tecnica dagherrotipica, inventata dal pittore parigino Louis Jacques Mandé Daguerre, mentre la calotipia (altra tecnica, meno precisa ma che permetteva di fare più copie) arrivò qualche anno dopo, per problemi di brevetto.
Probabilmente il primo romano a occuparsi di fotografia fu Gioacchino Belli che annotò sul suo diario la nuova invenzione facendo anche una certa confusione tra i due metodi di riproduzione.
Il fotografo romano Lorenzo Suscipj è ricordato come l'autore della più antica foto panoramica realizzata in Italia: otto grandi dagherrotipi (30 x 35), scattati nel 1841 a Roma dall'alto della chiesa di S. Pietro in Montorio e conservata attualmente al Museo della Scienza di Londra.
Tra le altre fotografie di questi primi anni, famosa è la panoramica dell'assedio della Roma repubblicana da parte dei francesi nel 1849, attribuita a S. Lecchi (considerato quindi il primo fotografo di guerra).
Sulla foto sono stati dipinti i vari personaggi della battaglia, tra cui Ciceruacchio, impossibili da riprendere fotograficamente dati i lunghi tempi di esposizione necessari. Il primo club fotografico italiano nacque negli anni '40, col nome di "Scuola romana di fotografia", tra i tavolini dell'antico "Caffè Greco" ritrovo degli artisti dell'epoca.
Intanto calavano a frotte gli intraprendenti fotografi francesi, attratti sia dalle opere da riprodurre, sia dalla luce italiana, perfetta per la fotografia. Tra questi un tale Perraud, che aprì uno studio nel 1845.
Ecco un suo avviso pubblicitario datato 29 Gennaio 1846: “a scudo uno, il ritratto al dagherrotype, fatto in pochi minuti secondi da Perraud in via dei Pontefici n. 50 primo piano in fondo al corridore a mano sinistra presso Correa oggi mausoleo di Augusto. Non domandare di Perraud al pianterreno per motivi da dedursi.”
Evidentemente c'era un altro fotografo al piano terra, da cui si intuisce che la concorrenza era già accanita. I rapidi progressi della tecnica dagherrotipica si rilevano dai pochi minuti richiesti (e vantati) per il tempo di posa: già nel 1845 bastavano "appena" dieci minuti, grazie anche alle cosiddette materie acceleranti che evitavano le lunghe sedute di posa sotto il sole.
Lo stesso Perraud vendeva un liquore di sua produzione, composto di diverse e naturalmente segrete, sostanze acceleranti: con due scudi si acquistava una bottiglia di liquore garantito per 5000 ritratti.
I fotografi romani avevano tutti lo studio nell'area del Tridente, il quartiere borghese e degli stranieri. I giovani rampolli in viaggio per il Gran Tour al pari dei ricchi mercanti o pellegrini si facevano ritrarre nel formato cartolina sullo sfondo di monumenti e acquedotti per farnr un’originale carta da visita.
La moda si diffuse a tal punto che perfino Gaetano Moroni, barbiere di Gregorio XVI, ne parla nella suo monumentale Dizionario di erudizione. Ma prima ancora dei ritratti, a Roma c'erano i monumenti, le vedute, i costumi da riprodurre e divulgare; così la nuova arte invase il campo che per secoli era stato del pennello e del bulino da incisore.
Roma, in particolare, divenne la scena naturale, il modello ideale, il dichiarato oggetto del desiderio per i tanti seguaci della nuova tecnica miracolosa: le rovine romane diventano scenari teatrali di tante vedute senza attori (siamo ancora lontani dall'istantanea che permette di fermare le immagini delle persone).
In questo periodo nasce la fotografia archeologica per permettere la indispensabile comparazione per lo studio delle antichità. I primi fotografi locali saranno gli incisori, in particolare quelli vedutisti, di cui Roma vantava una grande tradizione, già padroni dei soggetti da ritrarre; infatti le fotografie romane riprendono gli antichi temi della veduta di genere, con scene di pastori ambientate tra le rovine del foro romano o addirittura, con l'arrivo delle nuove tecniche composite, si creeranno fotomontaggi che riuniscono i monumenti più famosi.
Le più antiche foto databili di un romano, sono del pittore Giacomo Caneva (appassionato anche di aereonautica, come Nadar e altri fotografi, coincidenza forse non casuale), con studio in Via del Babuino: la sua "Tempio di Vesta " è del 1847.
Nell' Elenco Generale degli oggetti spediti dal Governo Pontificio all'Esposizione Internazionale di Londra del 1862, i fotografi comparivano insieme agli incisori, e presentavano lo stesso tipo di materiale: vedute di antichità, riproduzioni di dipinti, ecc.
Tra i più importanti professionisti romani va senz'altro ricordato Don Antonio d'Alessandri il quale, di ritorno da un viaggio a Parigi, nel 1852 portò a Roma, insieme all'ultimo modello di macchina fotografica, anche la nuova tecnica del collodio, la fotografia su vetro.
Il sacerdote si era appassionato immediatamente alla fotografia, ma dovette chiedere il permesso ai suoi superiori, che lo autorizzarono purché non indossasse l'abito talare durante il lavoro.
Impiantò un gabinetto fotografico sulla terrazza di un palazzo, per avere la massima illuminazione, ma ben presto si trasferì al Corso in uno studio acquistato con i proventi del suo lavoro.
Di lui si ha un autoritratto del 1858, colorato a mano, come spesso si usava all'epoca. La sua posizione di sacerdote gli permise di ottenere l'esclusiva (allora si diceva privativa) dei ritratti di Pio IX, della corte pontificia e dei Borboni.
Questo monopolio delle immagini se da un lato lo arricchì, lo coinvolse anche in uno spiacevole e incredibile avvenimento. Intanto il proliferare di studi fotografici aveva messo in allarme il Governo Pontificio che li avversò con il pretesto di provvedere perché “Niun danno provenga all'onestà dei costumi”.
Il 28 Novembre 1861 il Cardinal Vicario Costantino Patrizi firma il primo atto legislativo al mondo per regolamentare l'attività fotografica professionale.
Nonostante questo controllo nel febbraio 1862 circolarono improvvisamente e contemporaneamente a Roma, Napoli, Torino, Vienna e Monaco varie fotografie della bellissima regina Maria Sofia di Borbone in atteggiamenti pornografici.
Il volto della regina, acquistato in varie copie nello studio d'Alessandri era stato applicato e rifotografato con grande cura, sul corpo nudo di una giovane scuffiara lavorante in una fabbrica di cappelli a via del Pozzo delle Cornacchie, somigliante vagamente alla regina, la quale aveva accettato per la notevole somma di cento scudi, di posare in atteggiamenti equivoci.
La polizia pontificia individuò immediatamente gli autori del grave delitto nei coniugi fotografi Antonio e Costanza Diotallevi, i quali dichiararono di aver agito per conto del Comitato Nazionale o Partito Piemontese, che vedeva nella regina colei che tramava per riavere il suo regno, finanziando il brigantaggio del Sud Italia.
Al processo, di cui si conservano gli atti, don Alessandri riuscì a dimostrare la sua estraneità e a continuare tranquillamente la sua attività.
Sono sue anche le rarissime foto della battaglia di Mentana, che comportarono anche notevoli rischi personali, dovendo preparare sul posto, le lastre al collodio umido e portarle velocemente, tra due fogli di carta assorbente bagnata, al punto di posa.
D'Alessandri è indicato anche come l'autore delle foto della Breccia di Porta Pia su incarico del generale Raffaele Cadorna, un'ora dopo che vi erano passati i bersaglieri.
Esprimo su questo attribuzione i miei personali dubbi, visto lo stato sacerdotale del fotografo e la critica situazione che si creò a Roma tra il papato e gli occupanti italiani. Inoltre è quasi certo che la famosa istantanea fu scattata … il giorno dopo.
Quasi tutti i fotografi avevano origini casuali e a volte curiose, come i fratelli Lais con studio a Campo Marzio, uno pittore e l'altro cuoco del Principe di Piombino; Gustavo Chaufforier, tra i primi fotografi ad arrivare a Roma dopo l'unità, aveva girato l'Europa come fotografo da baraccone per vari anni.
Una guida di Roma del 1862 riporta l'elenco dei fotografi d'arte più noti: Tommaso Cuccioni in via Condotti 18, l'inglese Macpherson a vicolo Alibert 12, Dovizzelli in via del Babuino 136 (conosciuto soprattutto per le sue ottime riproduzioni degli affreschi di Raffaello alla Farnesina), Ferrando in via Bocca di Leone, Suscipj al 182 del Corso e d'Alessandri, definito " The first in Rome. "
I prezzi praticati a Roma variavano a seconda del taglio delle foto: da due paoli a uno scudo per i pezzi di grande formato; le vedute di Cuccioni formate da più fotogrammi congiunti costavano anche dieci scudi. Giacomo Anderson, già editore di opere d'arte, forniva vedute fotografiche di Roma e dintorni, nella sua libreria Piale a piazza di Spagna.
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