"Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti.
Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena,
quella della deportazione, tantopiú che presso le
impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione
colpisce piú le fantasie e atterrisce piú della stessa
pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti dall'idea di
andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col
piú grande stoicismo incontro al patibolo".
Le parole di cui sopra sono del Ministro degli Esteri del Regno
d’Italia, il milanese Emilio Visconti Venosta, indirizzate al
Ministro a Londra, il piemontese Carlo Cadorna, in data 19 dicembre
1872 da Roma neonata capitale (Documenti Diplomatici Italiani
[d’ora in poi, con la sigla D.D.I.], 2a Serie, Vol. IV, n. 235).
Esse danno un’idea abbastanza luminosa del clima di terrore
ancora imperante nelle Due Sicilie: nonostante fossero trascorsi ben
dodici anni dal cataclisma del 1860, le prigioni erano zeppe di
prigionieri politici, 11.635 nella sola città di Napoli, mentre
gli ultimi fuochi di resistenza andavano spegnendosi.
UN MANUTENGOLO MORALE
Il Visconti Venosta, come gli altri personaggi che incontreremo nel
corso del presente studio, la cui ossatura sarà costituita
principalmente da estesi documenti diplomatici monotematici, era un
esponente di spicco della Destra storica "italiana", di quella Destra
della quale il Croce ebbe a tessere, forse in un momento di depressione
intellettuale, nel 1927, il seguente elogio: «…di rado un
popolo ebbe a capo della cosa pubblica un'eletta di uomini come quelli
della vecchia Destra italiana, da considerare a buon diritto esemplare
per la purezza del loro amore di patria che era amore della
virtú, per la serietà e dignità del loro abito di
vita, per l'interezza del loro disinteresse, per il vigore dell'animo e
della mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sin da
giovani e serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il
Sella, il Minghetti, lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro
non discordi, componenti un'aristocrazia spirituale, galantuomini e
gentiluomini di piena lealtà. Gli atti loro, le parole che ci
hanno lasciate scritte, sono fonti perenni di educazione morale e
civile, e ci ammoniscono e ci confortano e ci fanno a volte arrossire;
sicché deve dirsi che, se cadde dalle loro mani il fuggevole
potere del governo, hanno pur conservato il duraturo potere di
governarci interiormente, che è di ogni vita bene spesa ed
entrata nel pantheon delle grandezze nazionali» (Benedetto Croce,
Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Adelphi, 1991, pag. 16), cioè
il panegirico di spietati fucilatori come, nel Reame, non se ne erano
visti prima se non in epoca giacobina francese.
AFFANNOSA RICERCA DI UN ANGOLO DI TERRA
La lettera del Venosta aggiunge particolari a particolari:
«…Ora,
in quest’ordine di idee, e intorno ai nostri progetti di colonia
penitenziaria, io La prego di avere sollecitamente una nuova
conversazione con Lord Granville [Ministro degli Esteri di Sua
Maestà Britannica, ndr]. Ella fu incaricata, or sono molti mesi,
di chiedere al Governo inglese se per parte sua non vi fossero state
obbiezioni alla cessione all'Italia, per parte di un capo indipendente,
d'un territorio posto sulla costa Nord Est di Borneo. Questo capo
indipendente aveva degli impegni col governo dell’India; noi non
volevamo quindi procedere nelle pratiche senza prima prevenire il
Governo inglese ed avere la sua morale adesione. Finora non abbiamo
ottenuto una risposta. Lord Granville avrà dovuto certamente
consultare i dipartimenti competenti ed anche il Governo
dell’India. Lo spazio di tempo trascorso però è
tale che abbiamo dovuto supporre che questo scambio di comunicazioni
abbia già avuto luogo, e che il loro risultato essendo
sfavorevole, si abbia preferito il silenzio ad una risposta
negativa…In questo stato di cose, io La prego di avere, colla
maggiore sollecitudine possibile, una aperta e leale spiegazione con
Lord Granville e anche parmi opportuno che Ella interessi in questo
argomento il Signor Gladstone, il quale ha tante volte portato con
predilezione il suo pensiero sulle condizioni politiche e sociali
dell'Italia e ci ha, da tanti anni, abituati a contare sulla sua
simpatia. Lo scopo che perseguiamo non può che essere approvato,
il sentimento che ci muove è quello di un Governo che vuole
adempiere ai suoi doveri. I nostri rapporti coll'Inghilterra e la
convinzione della solidarietà di interessi che esiste fra i due
Paesi ci consigliano di non agire se non d'accordo con essa e colla sua
morale adesione in quelle contrade dove la politica inglese ha tanti e
tanto potenti interessi. D'altronde non si può supporre che noi
abbiamo l’interesse di fare amministrativamente una razzia di
malviventi e di gettarli a caso su una spiaggia remota. Ella sa che si
tratta per noi di introdurre la deportazione nella scala penale dei
nostri codici e di regolare, col concorso del Parlamento, il piano di
uno stabilimento penitenziario di deportazione, ma regolare e dietro
tutti i suggerimenti della esperienza e della scienza. Ma prima di
tutto questo, bisogna che il Governo possa offrire la
possibilità di trovare un luogo non troppo lontano dalle grandi
linee della navigazione, in condizioni di clima compatibili
coll’umanità e colle altre condizioni richieste.
L'Inghilterra ci potrebbe rendere senza alcun suo sacrificio, un vero
servizio, dandoci prova di buona volontà e prestandoci un certo
concorso morale nel raggiungere il nostro scopo.
La prego dunque innanzi tutto di chiedere una risposta relativamente al
territorio nord-est di Borneo, risposta che, a quest'ora, non
può a meno d'essere pronta.
In seguito La prego di accertarsi se noi possiamo contare su qualche
buona disposizione da parte del Governo inglese. è abbastanza
nella natura degli ufficj e delle autorità coloniali d'essere
diffidenti alquanto ed esclusive. Se quest'affare, dunque in ogni
circostanza, sèguita le vie burocratiche, si potrà
attendersi sempre a difficoltà e ad ostacoli. Le ragioni, per
esempio, che consigliarono il rifiuto per l'isola di Socotra la quale
non pare che appartenga ora all'Inghilterra, non furono indicate nella
lettera particolare di Lord Granville, e forse se fossero state
esaminate non sarebbero parse sufficienti per motivare un definitivo
rifiuto. La prego, anche a nome del Presidente del Consiglio, di
occuparsi colla maggiore sollecitudine, e col maggiore interesse, di
questo affare. è da molti anni ormai che cerchiamo un angolo di
terra, ma col desiderio e coll'intento di non metterci attraverso delle
vedute e degli interessi inglesi, anzi col desiderio che lo scopo ci
fosse agevolato dai consigli e dall'accordo morale del Governo
britannico. Oramai ci preme di uscire dai dubbii a questo riguardo e di
accertarci delle disposizioni reali che possiamo trovare».
ROMAGNOLI TRA I BRIGANTI
La stessa lettera ci informa che il Visconti Venosta, alcuni giorni
prima, aveva avuto un incontro col Ministro d'Inghilterra Sir Bartle
Frere, "una delle persone piú competenti nelle questioni della
politica inglese nelle colonie indiane", che si recava a Brindisi
all’imbarco per Zanzibar in missione antischiavitú.
Con lui toccò l’argomento dei progetti del governo
"italiano" per la costituzione di una colonia penitenziaria,
cioè un campo di concentramento lontano dagli occhi di tutti in
un territorio remoto della Terra, in particolare nel Borneo.
Apprendiamo, con una certa meraviglia, che anche la Romagna dava
grattacapi politici di non poco conto, se questi venivano equiparati a
quelli che procurava l'ex Regno delle Due Sicilie:
«Spiegai a
Sir B. Frere qual’era la nostra situazione. Noi non abbiamo
alcuna volontà né alcuna ragione di metterci ora a fare
della politica coloniale. Anche uno stabilimento di deportazione non
sarà forse per l’Italia un'istituzione permanente. Ma
abbiamo in alcune parti d’Italia alcune piaghe sociali triste
retaggio del passato. Queste piaghe vogliamo guarirle a qualunque costo
- è per noi una questione di dovere e di onore nazionale. Noi
non vogliamo transigere con questi disordini e rassegnarci a fare
menage con essi. Abbiamo passato questi anni a fare grandi sforzi per
metterci in misura di far fronte ai nostri impegni finanziari; un
sentimento analogo di dovere ci impone di porre un termine alle
condizioni anormali della Romagna, del Napoletano, della Sicilia, di
ristabilire colà una sicurezza pari a quella delle altre parti
di Italia e degli altri paesi civili d'Europa. Questo dovere, i
giornali inglesi ce lo fanno spesso sentire in un modo certo piú
sincero che obbligante».
ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI
Le sottigliezze diplomatiche del Venosta, le sue false argomentazioni,
la sua finta innocenza, che servono a coprire il suo ruolo odioso di
invasore, che con tutto il suo governo aveva inviluppato il Sud in un
immenso grumo di sofferenza e di sangue, non devono trarre in inganno.
Appena due anni prima un alto ufficiale operante in Calabria in
funzione antibrigantaggio dava ordini lapidari: "Atterrite queste
popolazioni", terrore in nulla diverso da quello imposto, già
negli anni 1808/1810 sempre in Calabria dall’accoppiata di
criminali di guerra Charles Antoine Manhès e Pietro Colletta,
quest’ultimo lo storico esaltato nei libri di scuola, colà
inviati dall'ambizioso e folle "re" Gioacchino Murat per reprimere le
insorgenze antinapoleoniche. Importante in proposito il carteggio tra
il colonnello Milon, ex ufficiale dell'esercito duosiciliano
passato nelle file del governo di occupazione, e il generale Sacchi di
Pavia, carteggio raccolto con gran diligenza dal professor Eugenio De
Simone (Atterrite queste popolazioni, Editoriale Progetto 2000,
Cosenza, 1994).
Il piano di deportazione del Venosta coincideva quasi alla lettera con
quello che il generale Sacchi di Pavia esplicitava al colonnello Milon
in data Agosto 1868 da Catanzaro (pag. 93 del carteggio), segno di
perfetta intesa tra militari e governo :
«Esposi al
Ministero con dettagliata relazione l’opportunità e
l'urgenza di adottare provvedimenti pei numerosi arrestati per ragione
di brigantaggio; prevedendo difficile l'ottenere misure eccezionali che
vogliono essere autorizzate dal Parlamento insistetti nel reclamare un
provvedimento di traslocazione ad altre carceri di un buon numero di
detenuti; si verrà cosí a conseguire il risultato per noi
importante di allontanarli dai loro luoghi natii e cosí
impressionare le popolazioni».
1862: QUI COMINCIA L'AVVENTURA…
Circa "l'angolo di terra" in cui relegare la parte del popolo
duosiciliano riottosa al nuovo ordine e sopravvissuta alle fucilazioni,
i documenti da noi raccolti spaziano dal 1862 al 1873. Il piú
antico è un telegramma, il n. 640, in francese!, del 17 novembre
1862, inviato dal Ministro piemontese a Lisbona, Della Minerva,
al Ministro degli Esteri, Durando:
«La
pubblicazione d’un dispaccio telegrafico da Parigi in data 6 dove
a seguito lettera da Torino si parla di negoziazioni tra l’Italia
e il Portogallo per cessione isola nell'Oceano, col fine di relegarvi
briganti, ha talmente commosso opinione pubblica e la stampa che il
ministero ha già fatto smentire tale notizia. Penso che per il
momento sarebbe meglio sospendere ogni tentativo se si vuol farne
piú tardi con successo» (La publication d'une
dépêche télégraphique de Paris du 6
oú d'après lettre de Turin on parle de
négociations entre l'Italie et le Portugal pour cession
île dans l'Océan, afin d'y réléguer coquins,
a tellement ému opinion publique et la presse que le
ministère a déja fait démentir cette nouvelle. Je
pense que pour le moment il serait mieux suspendre toute
démarche si l'on veut en faire plus tard avec
succès». (D.D.I., 1a Serie, Vol. III, 1862).
Guido Po, uno storico di cose marinare, aggiunge, senza citarne la
fonte, che il Ministero degli Esteri aveva fatto richiesta al
Portogallo anche per una località nel Mozambico o
nell’Angola (Il giovane Regno d'Italia alla ricerca di una
colonia oceanica, in Nuova Antologia, fasc. n. 1339, anno 1928, pp.
516/528, affermazione riconfermata dallo stesso nella Rivista di
Cultura Marinara, gennaio-febbraio 1942, pp. 3/13), ma di tale
affermazione non s’è da noi trovato riscontro nei
documenti diplomatici.
Quali considerazioni avevano spinto il governo italiano a rivolgersi,
nella ricerca di un angolo di terra straniera a fini di deportazione,
in primo luogo al Portogallo? La risposta va individuata nel legame
parentale instauratosi nel mese di luglio di quell’anno 1862 in
seguito all'avvenuto matrimonio tra la figlia del Savoia II, Maria Pia,
e Luigi I di Braganza, Re di quel Regno da appena un anno. Il sire
savoiardo e il suo entourage governativo volevano evidentemente trarre
profitto da quella alleanza dinastica per trasformarla in
un’alleanza di malaffare dai contorni abietti, malaffare che
suscitò però ripugnanza e indignazione nel popolo
portoghese. L’accorto sovrano non volle rendere il suo popolo e
se stesso complici di un crimine che la storia avrebbe giudicato
severamente.
UNO SCIENZIATO PAZZO AL GOVERNO
Il progetto di una colonia di deportazione di Duosiciliani fu ripreso
nel 1867 dall'allora Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri,
Luigi Federico Menabrea, savoiardo di Chambery. Questi in data 30
novembre rivolgeva al Ministro a Londra, Emanuele D'Azeglio, la
seguente nota il cui contenuto doveva rimanere segreto:
«Vengo a
farvi carico di una comunicazione particolarmente delicata e segreta.
Da molto tempo il Governo cerca un luogo di deportazione per i
condannati. Informazioni recenti ci indicano come molto adatta a tale
scopo una regione situata sulla costa del Mar Rosso presso il paese dei
Galla [Eritrea, ndr] in contiguità dell’Abissinia e che
attualmente, per la verità, non appartiene ad alcun sovrano. Noi
vorremmo occuparla; ma prima di intraprendere alcunché, sarebbe
essenziale essere certi che da parte dell'Inghilterra non ci sarebbe
opposizione. Vi prego dunque di sondare l’opinione di Lord
Stanley [Ministro degli Esteri britannico, ndr] su questo argomento.
Fate valere questa ragione: che il paese in questione da noi non viene
occupato, lo sarà probabilmente da parte della Francia che
certamente si affretterebbe a piantarvi la sua bandiera dopo l'apertura
dell’istmo di Suez e potrebbe cosí creare
difficoltà all’Inghilterra. Del resto questo desiderio, da
parte nostra, non è affatto il risultato di una politica di
conquista che non è nelle nostre mire, ma un bisogno di
sicurezza interna di cui l’Italia non potrà gioire
finché non ci sarà un luogo remoto per trasportarvi i
numerosi criminali che affollano le sue prigioni. Noi contiamo sulla
buona volontà che, a tutt’oggi, l'Inghilterra ha
dimostrato verso l'Italia perché essa, l'Inghilterra, non sia un
ostacolo ai nostri progetti» (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n.
631) (Je vais vous charger d'une communication
particulièrement délicate et secrète. Depuis
longtemps le Gouvernement cherche un lieu de déportation pour
les condamnés. Des renseignements récents indiquent comme
très adaptée à ce but une région
située sur le bord de la Mer Rouge près du pays des
Gallas en contiguité de l'Abyssinie et qui, actuellement
n'appartient réellement à aucun souverain. Nous
voudrions l'occuper: mais avant de rien entreprendre, il serait
essentiel d'être assuré que de la part de l'Angleterre il
n'y aurait pas d'opposition. Je vous prie donc de sonder l'opinion de
lord Stanley à ce sujet. Faites valoir cette raison que le pays
en question n'est pas occupé par nous, et il le sera
probablement par la France, qui certainement s'empresserait d'y planter
son drapeau après l'ouverture de l'isthme de Suez et pourrait
ainsi créer des embarras à l'Angleterre. Du reste ce
désir de notre part n'est point le rèsultat d'une
politique de conquête qui n'est nullement dans nos vues, mais un
besoin de sécurité intérieure dont l'Italie ne
pourra jouir tant qu'elle n'aura pas un lieu éloigné pour
y transporter les nombreux criminels qui encombrent ses prisons. Nous
comptons sur le bon vouloir que l'Angleterre a toujours
démonstré envers l'Italie pour qu'elle ne soit pas un
obstacle à nos projets»..
LA PRUDENZA INGLESE
Il Ministro a Londra D’Azeglio, contrariamente alla storica
burocratica lentezza tutta italica, rispose con inusitata
rapidità, due giorni dopo, 2 dicembre 1867 ore 16,50, con
telegramma n. 875 (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n. 643):
«Circa la
deportazione, Stanley non ha detto né sí né no, e
non è sembrato affatto troppo contrario. S’è
riservato di dare una risposta; ma egli desidera che il progetto sia
differito, in ogni caso, a dopo la guerra dell'Abissinia, altrimenti
questo farebbe nascere delle complicazioni sollevando i nativi contro
gli europei. Gli ho detto di ricordarsi della Francia» (Stanley
n’a dit ni oui ni non quant à la déportation et il
n'a point paru trop contraire. Il s'est réservé de donner
réponse; mais il désire que le projet en tout cas soit
differé après la guerre de l'Abyssinie, sinon cela ferait
naître des complications en soulevant les naturels contre les
européens. Je lui ai dit de se souvenir de la France».
LA PATAGONIA ARGENTINA
Il Menabrea, uno dei carnefici di Gaeta, prototipo degli scienziati
criminali - esperto di balistica, aveva diretto, nel 1860, i cannoni
contro la fortezza e soprattutto contro l'ospedale - non demorde dal
progetto, decide di battere strade al di fuori dell'influenza o
presenza inglese. Dall’Africa orientale all'America meridionale,
obiettivo la Patagonia, estremo limite meridionale dell'aspro cono
argentino, un territorio all'apparenza terra di nessuno.
Circa un anno dopo infatti, in data 16 settembre 1868, sempre da
Firenze, affida un dispaccio riservato (D.D.I., 1a Serie, Vol. X, n.
523) al Ministro Della Croce in partenza per Buenos Aires, documento
stilato stavolta in italiano, ché dopo 4 anni di soggiorno in
Toscana aveva cominciato a masticare un po' di dantesco idioma:
«Fra gli
interessi gravissimi ai quali il Governo del Re deve porgere ogni sua
cura, tiene un luogo distinto quello che si riferisce all'efficacia dei
sistemi punitivi onde migliorare la condizione morale del nostro paese.
La S.V. non ignora certamente in quali tristi condizioni queste versano
in alcune parti d'Italia, ed Ella ben conosce come piú volte
già il Governo del Re abbia dato opera a ricercare se, col mezzo
di stabilimenti penali in lontane contrade e colla deportazione dei
rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento che, nelle condizioni
presenti, è pressoché impossibile ottenere col sistema in
vigore della reclusione e dei bagni.
In tempi addietro furono fatti studi per fondare uno stabilimento di
simil natura nelle regioni dell'America del Sud e piú
particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano
come limite fra i territori dell'Argentina e le regioni deserte della
Patagonia. Quel progetto benché sia rimasto allo stadio di
semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente essere coltivato
quando difficoltà d'indole politica non venissero ad
attraversarlo. Epperò il Governo del Re vorrebbe che la S.V.,
assunte quelle informazioni che Le sarà agevole procurarsi al
suo giungere in Buenos Aires, subito si adoperasse a scandagliare le
disposizioni del Governo della Repubblica Argentina per ciò che
potrebbe riguardare l'effettuazione da parte nostra del progetto sovra
indicato. Le terre che da noi si potrebbero occupare a
quest’effetto sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate
e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcun
Stato. Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l'occupazione
territoriale non avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia
destinata ad acquistare una importanza politica: quindi è che
come assolutamente prive di fondamento si dovrebbero ritenere le
apprensioni che da quel nostro progetto potrebbero sorgere nelle
repubbliche meridionali dell'America. Noi facciamo assegnamento
particolare sulla sagacità della S.V. per tutto ciò che
può agevolare il compimento di un disegno che, ove potesse
attuarsi, riuscirebbe di molto vantaggioso al nostro paese.
Ella vorrà pertanto, appena avrà raccolto le necessarie
indicazioni, riferire al R..Governo il risultamento delle di Lei
investigazioni».
RIFIUTO DELL’ARGENTINA
Giunto in Argentina, il Ministro Della Croce, espletate le indagini di
rito, in data 10 dicembre 1868 risponde con un lettera riservata, il
cui contenuto non lascia dubbi in proposito: il progetto era destinato
a naufragare perché il Ministro degli Esteri di quel paese aveva
lasciato "chiaramente intendere" che il suo Governo vantava "diritti
chiari e incontestabili" sul territorio patagonico e pertanto non
avrebbe mai acconsentito allo stabilimento di una colonia straniera di
deportazione su una terra che esso considerava sua a tutti gli effetti
anche se sussisteva contesa col governo del Cile che a sua volta
accampava diritti di sovranità territoriale:
«Appena
giunto a Buenos Aires mi sono immediatamente occupato della quistione
che formava l'oggetto del dispaccio riservato dell'E.V. … Non
ebbi difficoltà a conoscere che la Repubblica Argentina ha
preteso in ogni tempo e pretende tuttora ad un assoluto diritto di
neutralità sulle terre tutte di Patagonia al di là e al
di qua dello stretto di Magellano. Ho pure saputo che alla foce del Rio
Negro indicata da V.E. la sovranità di fatto della Repubblica
è incontestabile esistendo colà al luogo appunto ove
sorgeva l'antica missione del Carmen, un forte occupato da soldati
argentini. Dopo questi ragguagli poca speranza mi rimaneva che ai
disegni del governo Italiano potessero essere favorevoli gli animi di
questi Governanti tanto suscettivi per ciò che si riferisce ai
veri o pretesi loro diritti di sovranità. Non di meno ne parlai
jeri al Ministro degli Affari Esteri. Questi mi confermò quanto
ebbi l'onore di esporre piú sopra aggiungendomi che i diritti
della Confederazione sulla Patagonia e sullo stretto di Magellano erano
chiari e incontestabili, che il Governo Argentino aveva è vero
una quistione pendente a questo riguardo colla Repubblica del Chili la
quale aveva da varii anni fondato una colonia nello stretto
summentovato, ma che egli non dubitava menomamente che sottoposto il
litigio a qualsiasi arbitro la Repubblica Argentina ne uscirebbe
vincitrice; che quanto al possesso o dominio di fatto la Repubblica
intendeva di estenderlo ogni giorno maggiormente per respingere sempre
piú le tribú indiane e mettere un termine alle loro
incursioni, che a tale oggetto in questi giorni stessi si dovevano
occupare nuovi punti verso il Sud. Sulla proposta poi del Governo
Italiano che io gli feci in via di semplice e privata conversazione
egli riservossi di conferirne col Presidente ma mi lasciò
chiaramente intendere che il Governo Argentino non vi avrebbe
aderito».
TERRORE NELLE CALABRIE
Intanto negli stessi mesi il colonnello di Stato Maggiore Bernardino
Milon ex alto ufficiale delle Due Sicilie divenuto camerata del
generale Presidente Menabrea, in perfetta consonanza di intenti
col governo "italiano" composto, come visto, da uomini "virtuosi"
secondo le oblique vedute del Croce, spargeva terrore nelle
Calabrie e ne riferiva al suo superiore generale Sacchi nei termini
seguenti: "il mio arrivo qui ha prodotto terrore, e difatti ieri a
notte in Sorbo quasi tutti gli abitanti dormirono in campagna per tema
di essere da me arrestati" (Eugenio De Simone, ibidem, pag. 111),
arresti a cui seguiva inesorabilmente, per tentata fuga, la
fucilazione. Merita di essere qui riprodotto un manifesto terroristico
di codesto colonnello, traditore del suo popolo:
COMANDO DELLA ZONA MILITARE DELLE CALABRIE CITRA ED ULTRA 2a
L'attuale stagione permettendo di attuare altre misure per la totale
distruzione del brigantaggio, questo Comando determina quanto appresso:
1° - Tutte le mandrie, di qualunque specie esse siano, dovranno essere al piú presto concentrate;
2° - Tale concentramento dovrà essere per contrade;
3° - I posti armati delle varie mandrie, della medesima contrada,
saranno tutti riuniti in punto centrale, intorno al quale sarà
solo permesso di tenere i pagliai;
4° - Nelle ore del giorno le mandrie potranno liberamente pascolare
entro il terreno della rispettiva contrada, ed è severamente
proibito ai Mandriani, foresi o qualsiasi persona, che le custodiscono,
di asportare seco, nelle ore del pascolo, pane od altri generi di
vittitazione, dovendo tali generi essere custoditi presso il posto
armato centrale, ove è solo permesso di consumarli. I posti
armati saranno direttamente responsabili di ogni contravvenzione a tali
disposizioni.
I Signori comandanti degli scompartimenti, Distaccamenti, RR.
Carabinieri e Guardie Nazionali sorveglieranno per lo esatto
adempimento delle suaccennate determinazioni, e questo comando
punirà con inflessibile rigore tutti coloro che non vi si
conformeranno strettamente.
Rossano, 30 Dicembre 1868.
Il Luogotenente Colonnello Comandante B. MILON.
Erano gli stessi metodi terroristici che, esattamente sessanta anni
prima, aveva inaugurato il Gauleiter di Napoleone, "re" Gioacchino
Murat, nelle varie regioni del Reame, in particolare in Calabria, per
mezzo del Manhès, per domare i tenaci insorgenti
antifrancesi, già allora bollati come briganti (P. Colletta,
Storia del Reame di Napoli, 7, XXVII) sí da far esclamare al
Colletta, che gli teneva degnamente la mano: "Non vorrei essere stato
il generale Manhès, e non vorrei che il generale Manhès
non fosse stato nel regno negli anni 9 e 10".
Sicché fu, allora, sacrosanta vendetta della Calabria la
fucilazione del tiranno giacobino a Pizzo, non volgare tradimento,
come, con scarsa anima storica, vuole il magistrato Pietro D'Amico nel
suo recente libro apologetico "Il re Gioacchino Murat" edito dalla casa
editrice Monteleone di Vibo Valentia. Il D'Amico, nel poscritto al
libro, ha perfino l'audacia di invitare la cittadinanza di Pizzo ad un
atto di pubblica "resipiscenza", elevare cioè un monumento
al Murat, nella stessa piazza che lo vide, secondo codesto autore,
"martire ed eroe"! (La Gazzetta del Sud, 3 maggio 2002, pag. 10)
TUNISIA: DEPORTIAMONE DIECIMILA
Lo stesso mese di dicembre 1868, da Firenze, il generale Presidente e
Ministro degli Esteri Menabrea, sempre per il fine della costituzione
di una colonia di deportazione in una terra remota, invia un dispaccio
circostanziato all'Agente e Console Generale a Tunisi, Pinna. Viene
concretizzato per la prima volta il numero di prigionieri duosiciliani,
altissimo, da deportare: almeno diecimila. Nessun "tirannico" governo
preunitario si era mai infangato in tal maniera:
«Il governo
del Re desidererebbe che la S.V. studiasse se vi sia modo di stabilire
sul territorio della Tunisia una colonia penitenziaria italiana.
Le condizioni che sarebbero richieste per fondare uno stabilimento di tal fatta sarebbero le seguenti:
1° trovare un territorio nelle condizioni volute di
salubrità, fertilità ecc., il quale sia separato dalla
costa abitata almeno di tanta estensione di deserto, quanta
è necessaria perché uno o piú viandanti non
possano traversarla, se non organizzati in carovana.
Il territorio dovrebbe essere capace di almeno diecimila coloni.
2° ottenere dal Governo tunisino la Concessione per poter
colonizzare quel territorio. La proprietà del medesimo dovrebbe
essere ceduta al Governo Italiano mentre invece la sovranità
rimarrebbe al Bey sufficiente alla tutela delle autorità che il
Governo del Re invierebbe per esercitarvi la giurisdizione penale e
civile sovra i suoi sudditi, ed ottenere inoltre che il Bardo consenta
al governo del Re la facoltà di applicare le leggi penali del
regno nella località sovrindicata.
3° entrare col Governo Tunisino in accordi per tutto quanto
riguarda le particolari questioni riflettenti il transito dei coloni,
la loro forzata dimora, i rapporti dei coloni stessi
cogl’abitanti della reggenza, lo stabilimento di
un’autorità tunisina nel territorio che si vorrebbe
colonizzare ecc. Sembra che la presenza di un’autorità
tunisina, almeno da principio, allontanerebbe il sospetto che in questo
negoziato, che d’altronde vuol essere tenuto segretissimo, si
asconda una cessione formale di territorio all’Italia.
4° ottenere dal Governo di Tunisi la facoltà di creare nella località prescelta un corpo di guardie
Fatte che Ella
avrà le indagini necessarie, e prese le preliminari informazioni
sulle disposizioni che si incontrerebbero, la prego Signor
Commendatore, di volermi riferire l'esito delle pratiche ch'Ella
avrà fatte» (D.D.I., 1a Serie, Vol. X).
IL BEY NON CI STA
Evidentemente la risposta del Bey era stata negativa, dato che il tema
della deportazione "con ineluttabile necessità" veniva
ereditato da un altro Ministero, quello del Lanza, in cui figurava come
Ministro degli Esteri il Visconti Venosta, le cui parole hanno formato
l’inizio della presente esposizione.
Ma, ancora nel 1868, 10 agosto, in piena estate, prima che le mire del
generale Presidente Menabrea si volgessero verso la Tunisia, altra idea
- inviare una nave in esplorazione per il mondo - aveva preso corpo
nella mente del diabolico savoiardo, ossessionato da furore
antibrigantesco. Si era ormai convinto che i governi stranieri non
avrebbero mai ceduto una fetta di territorio per quel fine
abietto.
LO ZAMPINO DELLA MARINA
A tal fine si rivolge al Ministro della Marina, August Antoine Riboty,
originario di Puget-Théniers, nel dipartimento di Nizza (Ufficio
Storico Marina Militare, lettera riservata, n. 457):
«Oggetto:
colonia penitenziaria. è gran tempo che il Governo del Re
riflette ai vantaggi che molti fra i rami della Pubblica
Amministrazione, e segnatamente quello della punitiva giustizia,
risentirebbero dalla possessione di un territorio oltremare, situato a
ragguardevole distanza dalla madre patria, ove possa aver sede sicura e
salubre una colonia penitenziaria. Né andrà molto che
siffatto possesso diverrà pur anche un bisogno assoluto, quando
cioè fosse introdotto il nuovo codice penale italiano, di cui
già conoscesi il progetto, essendo in esso stabilita qual pena
principale la deportazione.
Gli sforzi fatti insino ad ora per scegliere una località
conveniente all'oggetto indicato non riuscirono ad utile effetto. Il
Ministero degli Affari Esteri che si occupò principalmente di
questa bisogna, pose, in piú d’una circostanza, lo sguardo
sopra diversi punti dell'uno o dell'altro emisfero, ma senza alcun
frutto fin qui perché considerazioni politiche od altre di varia
natura posero ostacolo all’attuazione dei concetti ideati prima
d’ora a questo riguardo.
è però necessario che si ponga mano, quanto
piú presto sarà possibile, al compimento di un tale
disegno. A questo scopo il provvedimento piú vantaggioso ad
essere prescelto, sarebbe quello di un viaggio di speciale
esplorazione, intrapreso da una nave della R. Marina, al cui comandante
fossero impartite particolari istruzioni riflettenti l'oggetto,
compilate di comune accordo fra i vari dicasteri piú
particolarmente interessati in quell'argomento.
Il sottoscritto crede suo debito di chiamare su questo punto tutta
l’attenzione del Ministero della Marina. Egli è persuaso
di non aver d'uopo di ricorre a piú estese argomentazioni in
proposito, per trasfondere in esso il convincimento della
necessità dell’indicata spedizione, e quindi dei concerti
per ottenere che in tempo prossimo possa tradursi efficacemente in
realtà. Starà quindi aspettando le comunicazioni che il
Ministero della Marina vorrà essere compiacente di fargli a tale
riguardo, assicurandogli dal canto suo tutto il concorso che possa
essere in grado di prestargli».
LA REGIA MARINA NON HA LA FLOTTA
Sennonché la Regia "Italiana" Marina, dopo la sonora batosta
portata a casa da Lissa nel 1866, 20 di luglio, per merito del
Persano, esisteva quasi solamente sulla carta. Là infatti il
fior fiore del naviglio da guerra era stato affondato dall'Ammiraglio
dell'Impero danubiano Wilhelm Tegetthoff che già due anni prima
aveva dimostrato la sua grande perizia strategica distruggendo la
flotta danese nel Kattegat.
Sfortuna per il Menabrea volle che egli inviasse la sua nota al
Riboty in ritardo rispetto alla partenza di una nave, la pirocorvetta
Principessa Clotilde, di 2182 tonnellate, a vela e a vapore, lunga 66
m, dotata di 20 cannoni calibro 16, impostata da appena due anni (1866)
in un cantiere di Genova dopo un lavoro di ben 5 anni, essendo stata
impostata nel 1861, con quali soldi pagata non sappiamo o forse li
sospettiamo. Due giorni dopo l’invio della richiesta, al Menabrea
perviene fulminea, deludente, la risposta del Riboty (U.S.M.M., lett.
n. 32300/2792). Egli è:
«oltremodo
dispiacente che le condizioni del bilancio della Marina gli vietino in
modo assoluto di destinare una nave appositamente per la spedizione di
cui è caso.
Come è noto a codesto Ministero se gli avvenimenti ultimi del
Giappone non avessero influito a dar ordine alla Principessa Clotilde
di recarsi direttamente in quella contrada, al Comandante di tale R.
Legno dovean darsi istruzioni nel senso che ponesse ogni cura alla
ricerca di un sito per stabilirvi una colonia penitenziaria.
Se pertanto codesto Ministero crede che fra qualche tempo la presenza
della Principessa Clotilde nelle acque del Giappone non sarà
piú necessaria alla protezione degli interessi nazionali, lo
scrivente nel far proseguire al detto R. Legno il viaggio ch’era
in progetto, sarà ben lieto di dargli istruzioni nel senso che
in seguito ad accordo fra i vari dicasteri sarà stabilito per lo
scopo che fanno oggetto della nota a cui si risponde».
Il dialogo tra i due Ministeri continua. Il generale Presidente del
Consiglio e Ministro degli Esteri Menabrea, tenace fucilatore di
Meridionali, con successiva lettera avente sempre per oggetto una
colonia penitenziaria (U.S.M.M., 21 settembre 1868, prot. 490), preso
atto delle condizioni del risicato bilancio della Marina, non è
in grado di fornire una previsione circa il termine del viaggio di
quella pirocorvetta nelle acque del Giappone perché:
«la presenza
di una forza navale italiana nell'Estremo Oriente, desiderata vivamente
anche in addietro, ed oggidí resasi indispensabile ed urgente,
può considerarsi siccome stabilmente necessaria anche per
l’avvenire, affinché il prestigio del vessillo nazionale
ed il sicuro sviluppo del nostro commercio con quelle regioni, possano
rimanere inviolati.
In vista di ciò ed in presenza dell’altro bisogno, pur
rispettabile ed urgente, di cui è parola, la R. Amministrazione
non potrebbe certamente esimersi dal fare in modo che si provegga ad
entrambi quei fini senza reciproco danno, e possibilmente senza troppo
ritardo per quanto riflette il nuovo proposto viaggio di esplorazione.
Al sottoscritto parrebbe che la soluzione piú semplice di questo
oggetto, possa trovarsi nel disporre in anticipazione una nave che vada
a surrogare a suo tempo al Giappone la Principessa Clotilde, alla quale
sarà pur necessario dare presto o tardi lo scambio, e
nell’affidare in parte alla nave medesima nel recarsi a quella
volta, ed in parte alla Principessa Clotilde nel ritornarsene,
l’incarico di eseguire le ricerche che ora interessa di condurre
ad effetto.
Lo scrivente saprà grado [sic] al Ministero della Marina di
fargli conoscere il proprio avviso a questo riguardo, indicandogli
l'epoca in cui possa, nel caso, effettuarsi il divisato progetto,
affinché vengano presi in tempo i necessari accordi circa
l’importante missione di cui si tratta».
IL PARLAMENTO NON DEVE SAPERE
Tre giorni, dopo 24 settembre, perviene sollecita la risposta del
Riboty (prot. 37410/3260): la pirocorvetta dovrà rimanere nelle
acque dell'estremo Oriente fin verso la fine del 1870 e per il
1869 "non fu
portata sul bilancio la spesa d’una nave che vada a surrogare la
medesima… dovendo per regola le navi stazionarie
all’estero rimanere assenti almeno 3 anni, come usasi da tutte le
nazioni marittime…e qualora si voglia eseguire [il viaggio di
esplorazione] bisognerà chiedere un fondo suppletivo per questa
missione al Parlamento, ma adottando questa proposta [il Ministero
della Marina] prevede le difficoltà cui si avrebbero ad
affrontare se mai la delicata quistione venisse ventilata nella Camera,
che stima superfluo di enunciare a codesto Ministero".
La pulce messa nell'orecchio dal Riboty circa la "delicata quistione"
induce il Menabrea a rifarsi vivo (U.S.M.M., 7 ottobre 1868, lettera
riservata prot. 529). Egli è:
«dolente…di
scorgere come le condizioni del proprio bilancio e le norme adottate
riguardo alle stazioni navali all'estero, gli impongano di rimandare
sin verso la fine dell'anno 1870 il provvedimento proposto per la
ricerca di una località adatta alla creazione tanto necessaria
di una colonia penitenziaria italiana. Lo scrivente ammette senza
difficoltà che la richiesta di fondi speciali al Parlamento per
l'oggetto in discorso, presenterebbe gravi inconvenienti e pertanto,
nell’impossibilità, a quanto sembra, di trovare pel
momento un mezzo di esecuzione di quel progetto, deve suo malgrado
limitarsi a raccomandare vivamente al Ministero della Marina di tenersi
presente il progetto medesimo pel caso in cui si verifichi qualche
straordinaria spedizione di navi in epoca per avventura piú
vicina a quella della normale surrogazione dell'uno o dell'altro dei
regi legni stazionarii all'estero affinché si possa, in termine
fattibilmente poco lontano, provvedere all'urgente bisogno di cui
è parola».
SI RIPROVA NEL BORNEO
Dopo aver tentato a piú riprese, collezionando smacchi
diplomatici, di ottenere un’isola portoghese del Pacifico, o un
lembo di Mozambico o di Angola, l’isola di Socotra
nell'Oceano Indiano, un angolo di costa dell’Eritrea sul
Mar Rosso, un fazzoletto di terra nella sperduta Patagonia, un
po’ di sabbia del deserto tunisino, l’occhio del Ministro
degli Esteri si volge ancora al Pacifico, per la precisione a
un’isola dei Sette Mari: Borneo.
Gliene dà il destro la notizia che la pirocorvetta Principessa
Clotilde si trova da quelle parti. Il 6 di gennaio 1869 quindi nuova
iniziativa: il Menabrea, sempre ossessionato da patologia
antimeridionale, decide di scrivere direttamente al comandante di
quella nave, il capitano di fregata Carlo Alberto Racchia, torinese,
futuro Senatore del Regno d'Italia (1/11/1892) e Ministro Segretario di
Stato della Regia Marina (1892/1893), ma ne dà previa
comunicazione al Riboty (U.S.M.M., prot. 14, Reg. Giappone) nei termini
seguenti:
«…L’importanza
dell'argomento segnatamente per ciò che concerne la
possibilità di formare uno stabilimento sulle coste di Borneo ha
deciso il sottoscritto di scrivere direttamente al Comandante della
Piro-corvetta Principessa Clotilde per avere dal medesimo una relazione
ragguagliata delle condizioni del paese dove si potrebbe impiantare
quello stabilimento. Sin d’ora, ed anche soltanto dietro le
informazioni avute sembra che il R. governo dovrebbe frapporre il minor
indugio possibile ad inviare a Borneo un legno della R. Marina per
esaminare minutamente ogni cosa ed anche per entrare in trattative
positive e concrete per l’acquisto del territorio che ci è
necessario per lo stabilimento che è in animo del R. Governo di
fondare.
Se l’invio di altra nave dello Stato dovesse essere molto
ritardato, converrebbe forse che la Principessa Clotilde ricevesse
istruzione di recarsi di nuovo a Borneo allo scopo sopra
indicato».
AUMENTA IL NUMERO DEI PRIGIONIERI
E, senza frapporre indugio, lo stesso giorno il Menabrea scrive al
Comandante Racchia rivelando, in quelle che sono per noi, pronipoti di
eroici Briganti, le sante reliquie dei documenti, il numero dei
prigionieri da deportare, numero che stavolta sale incredibilmente a
quindicimila:
«Dal
Ministero della Marina mi vennero comunicate le osservazioni
interessantissime che Ella ha fatto al suo passaggio a Borneo.
Bramerei che quelle osservazioni fossero da Lei completate ed esposte
in una relazione a questo Ministero circa la facilità che
presenterebbe lo stabilimento di una colonia penitenziaria sulle coste
di quell'isola.
Il rapporto che io Le domando dovrebbe contenere una descrizione della
località che si vorrebbe scegliere e ciò avuto riguardo
tanto alle condizioni geografiche ed idrografiche, alla situazione
politica attuale del territorio, alle sue condizioni economiche ed alle
difficoltà che si dovrebbero vincere per istabilirsi e
mantenersi.
Lo stabilimento che l’Italia vorrebbe fondare dovrebbe essere
capace di almeno dieci o quindicimila deportati e dovrebbe per la
fertilità o per altre produzioni naturali del paese fornire alla
numerosa colonia i necessari mezzi di sussistenza.
Anche la quistione della salubrità del paese da scegliersi vuol
essere tenuta in conto acciocché la deportazione non
divenga pena piú grande ed inumana pel condannato a causa di
mortalità deplorevole nei funzionari e nelle truppe destinate
alla custodia dello stabilimento.
Gradisca, Signor Comandante, i sensi della mia distinta considerazione».
È IL TURNO DELLE ISOLE DELLA DANIMARCA
Un mese dopo, esattamente il 23 febbraio 1869, con lettera "urgente e
riservata" (U.S.M.M., n. 2 del Reg. Danimarca), il Presidente
Menabrea ricontatta il Ministro Riboty comunicandogli che
fin dal 1848 la Danimarca aveva abbandonato le isole Nicobare situate
nell’Oceano Indiano a nord dell'Indonesia di fronte alla penisola
di Malacca. Come al solito anche qui si fece sentire la longa manus
della superpotenza mondiale, la Gran Bretagna, che, come il Menabrea
comunica al collega della Marina,
«malgrado la
dichiarazione di abbandono esitò di prendere possesso di quelle
isole e stimò prudente di farsene cedere regolarmente il
possesso dal Gabinetto di Copenaghen… [il quale] aderí a
siffatto desiderio, mediante una dichiarazione del 2 dicembre 1868, non
senza osservare, però, che codesta dichiarazione, fatta dopo una
precedente dichiarazione d’abbandono, non avrebbe potuto
pregiudicare il diritto di terzi che nel frattempo si fossero
impossessati delle isole Nicobare come di res derelicta.
Nel caso, dunque, che le esitazioni della Gran Bretagna si protraggano
ancora, e nel caso soprattutto, che quelle isole fossero giudicate di
conveniente e vantaggioso possesso, nulla osterebbe a che dal R.
Governo di procedere [sic!] alla occupazione.
Epperò il sottoscritto prega l’Onorevole Collega della
Marina di voler considerare se alla Principessa Clotilde attualmente di
Stazione al Giappone, si possa commettere l’incarico di visitare,
nel piú breve termine possibile, le isole Nicobare, e di
riferire al R. Governo intorno alla convenienza o meno di acquistarne
col possesso il dominio».
LA CONFERMA CHE I PRIGIONIERI SONO MIGLIAIA
Trascorso un altro mese, con scambi epistolari di poco o nessun valore
ai fini del presente scritto, il Menabrea riscrive altra lettera al
Ministro della Marina Riboty (U.S.M.M., 19 marzo 1869, lett. n. 7 del
Reg. Danimarca), lettera da cui apprendiamo essere molte migliaia i
detenuti politici rinchiusi nelle carceri della penisola :
«…
L’epoca fissata per il viaggio della Piro-corvetta Principessa
Clotilde nei mari della Cina sembra a chi scrive molto lontana per
un’esplorazione come sarebbe quella delle isole Nicobar e delle
coste di Borneo ad uno scopo utile ed urgente quale sarebbe quello di
trovare una località dove stabilire una colonia penitenziaria
per le molte migliaia di condannati che popolano gli stabilimenti
carcerari del regno. L'invio di una altra nave forse sarebbe stato il
partito migliore da adottarsi se i fondi stanziati in bilancio per
l’anno corrente lo avessero permesso…
Se però il Ministero della Marina possedesse qualche suo
uffiziale il quale avesse già visitato i paraggi dove sono
situate le isole Nicobar, converrebbe forse lo interpellasse
segretamente sulle vere condizioni di quelle terre e sulla maggiore o
minore probabilità di riuscita che potrebbe avere uno
stabilimento italiano che si volesse fondare in quella
regione…»
INTERVENTO DELL’INGHILTERRA
Ma, quasi beffa a quel lungo lavorio sotterraneo, di cui il sedicente
parlamento costituzionale italiano era tenuto pervicacemente
all'oscuro, le informazioni, che quel Presidente bramava, erano a
portata di mano in un libro pubblicato dalla Imperiale Marina
Austriaca. Risponde infatti il Ministro della Marina con lettera
riservata (U.S.M.M., prot. n. 684 del 23 marzo 1869):
«Non v'ha
alcun uffiziale nel caso di poter fornire al R. Governo dati precisi
sulle isole Nicobar e meno ancora sull’opportunità di
stabilirvi o non una colonia penitenziaria. Cotesto Ministero
potrà però rilevarne notizie dettagliate dal 2°
volume del viaggio intorno al Globo eseguito dalla Fregata austriaca
NOVARA negli anni 1857-58-59 a pag. 100 ove la descrizione politica
geografica in delle dette isole è degna di tutta fiducia, per
l’esattezza e l’imparzialità con cui è
redatta».
L'obiettivo delle Nicobare di lí a poco venne però a
sfumare, perché nello stesso anno 1869 l'Inghilterra, per
l'importanza strategica di quelle isole sullo stretto di Malacca,
procedette alla loro occupazione, mettendosi cosí in grado di
controllare tutto il traffico marittimo per la Cina, il Giappone,
l'Indonesia e l'Australia.
ANCHE IN AUSTRALIA
Intanto il comandante della Principessa Clotilde si moveva con la sua
fregata lungo le coste asiatiche dal Giappone a Bangkok, per
sottoscrivere trattati diplomatici, tra cui uno con la Cina per "meglio
regolare l'emigrazione dei coolies", sulla quale emigrazione, in
realtà tratta di schiavi, tempo prima ci aveva fatto il
suo bel gruzzoletto anche colui che la retorica patriottarda ha
trasformato in "eroe dei due mondi".
Ma con lettera riservata (U.S.M.M., 28 settembre 1869, prot.
44912/2476) il Ministro Riboty fa sapere al collega degli Esteri che,
adempiute il comandante Racchia le missioni assegnategli, avrebbe
potuto procedere all'esplorazione a Borneo e fino ad Est
dell'Australia:
«…Qualora
l'esplorazione a Borneo e isole adiacenti al NE non dasse [sic] il
risultato che si ripromette, l’unica altra zona interessante da
esplorarsi con speranza di successo sarebbe quella all’Est
dell'Australia…Urge avere una risposta poiché si
correrebbe il rischio, aspettando, di far trascorrere nelle acque del
Giappone alla Principessa Clotilde una parte del prossimo inverno,
stagione preziosissima per recarsi nelle regioni tropicali ed eseguire
la esplorazione di cui è stato incaricato il comandante di quel
R. Legno».
L’affacciarsi sul Pacifico, dove già altri vantavano
diritti di primogenitura, causava però sospetti e scontri
diplomatici. L’Oceano sconfinato era appannaggio
dell'Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Olanda, della Spagna,
della Francia: trovare qualche terra non ancora colonizzata idonea alla
deportazione risultava impresa alquanto difficile, se non impossibile.
Quelle potenze ravvisavano, nell’intrusione del nuovo
venuto, un fastidioso potenziale concorrente nella spartizione del
bottino coloniale, anche se si presentava, almeno in linea di
principio, in veste di agnello alieno da mire colonialiste. Conferma
infatti Sergio Angelini (Il tentativo italiano per una colonia nel
Borneo, 1870-1873, Rivista di Studi Politici Internazionali, n. 4,
ott./dic. 1966, p. 527): "In realtà questo motivo della
deportazione… non poteva essere considerato… fine a se
stesso ma invece, sull’esempio di altrui esperienze, avrebbe
dovuto significare il primo nucleo di una successiva piú vasta
espansione coloniale". Cosa che si verificherà puntualmente nel
1884 con l'acquisto della baia di Assab in Eritrea da parte della
società di navigazione Rubattino, la stessa già in
precedenza fornitrice della nave Cagliari al Pisacane e di due navi al
Garibaldi per lo sbarco a Marsala.
RIPUGNANZA INGLESE
Il padrone primario del Pacifico restava in ogni caso
l’Inghilterra, verso cui il governo italiano si mostrava molto
ossequente se non addirittura servile. Sull’affare di Borneo, il
Ministro Cadorna da Londra riferiva, dopo un incontro con Lord
Granville, al Ministro degli Esteri Visconti Venosta in data 3 gennaio
1872 (D.D.I., 2a Serie, Vol. III, n. 282):
«…il Governo Inglese, qualunque ne sia il motivo, non vede
molto volontieri il nostro progetto di occupare una terra nei grandi
lontani mari per farvi uno stabilimento di deportazione. Ma
l’opposizione non fu finora per sua parte aperta, sibbene
indiretta, fatta caso per caso, senza ragionamenti e motivi;
soprattutto non fu mai ostensivamente basata sopra considerazioni
politiche…[da] questa lunga conversazione traspare una non
celata riluttanza al nostro progetto, appoggiata a ragioni
insussistenti, e non applicabili al caso, le quali (dette da Lord
Granville uomo molto fino, e di molta intelligenza) danno il diritto di
credere, che i veri motivi di questa riluttanza non si vogliono dire, e
che non si vuole perché ragionevolmente non si può. Ora
tutto ciò mi conferma nella presunzione che le difficoltà
non sono nel caso particolare di Borneo, e che nol furono negli altri
casi consimili che l’hanno preceduto; ma che hanno base in una
ragione politica di carattere generale…».
Dal rapporto emerge infine la parola (ripugnanza) che dà
finalmente la misura della sporca, abietta, operazione che quel
Ministro "virtuoso" era intenzionato a portare a compimento:
“Se questo contegno di Lord Granville non fosse stato
già preceduto da molti fatti che indicano la ripugnanza
dell’intero Governo ai nostri progetti si potrebbe dubitare se il
contegno di Lord Granville in questa circostanza possa considerarsi
proveniente da un partito preso…”.
SOCOTRA NON SI TOCCA
Il 3 maggio 1872 giunge intanto da Londra al Ministro Visconti Venosta
la risposta negativa dell'Inghilterra circa l'isola di Socotra di
cui si è già detto (D.D.I., 2a Serie, Vol. III, n. 496).
Il governo inglese, in previsione dell’apertura del canale di
Suez, predisponeva i picchetti per il dominio del Mar Rosso, dominio
che sarà poi completo con l'acquisizione del pacchetto di azioni
del Canale di Suez ad opera del Ministro Disraeli.
Riferisce infatti il Ministro Cadorna:
«…
intorno all’eventuale occupazione per parte nostra dell'Isola di
Socotra…poiché essa [la risposta] è sfavorevole
è da sperarsi che non sia per essere dello stesso tenore quella
che sto ancora attendendo, e che ho già piú volte
sollecitata relativa alla occupazione di una parte della costa
dell'Isola di Borneo. Veramente per quest’ultima non potrebbero
esservi gli ostacoli che hanno potuto ravvisarvi per Socotra la quale
si trova sulla nuova linea di navigazione tra l’Europa e i
possedimenti inglesi nelle Indie pel canale di Suez».
1872: LA RESISTENZA CONTINUA
Intanto dal dispaccio 1136/348 datato Londra 11 settembre 1872 inviato
dall'incaricato d'affari Maffei al Venosta apprendiamo "della
recrudescenza del brigantaggio nelle nostre provincie meridionali"
(D.D.I., 2a serie, Vol. IV, n. 117) su cui il Times aveva pubblicato
"un articolo di fondo in cui, sebbene si esprima molta simpatia per il
Governo Italiano, tuttavia non gli si risparmiano biasimi per non agire
con piú energia per estirpare una piaga cosí
grave”. Questa notizia è da tenere nella dovuta
considerazione, perché dilata ancora di qualche anno il limite
temporale di opposizione dei Duosiciliani al governo unitario,
normalmente fissato dai cattedratici all'anno 1870.
Sullo stesso argomento tornava il 10 aprile 1873 il Segretario Generale
all'Interno, Cavallini, in una nota al Venosta (D.D.I., 2a Serie, Vol.
IV, n. 453): “Da qualche mese si diffondono voci con qualche
insistenza nella Sicilia e nelle Calabrie di prossimi movimenti
insurrezionali”.
Nel 1873 il Cadorna ha un ultimo incontro con Lord Granville. La
lettera che ne riferisce gli esiti (D.D.I., 2a Serie, vol. IV, n. 271)
è della massima importanza storica perché demolisce
l'artificiosa, interessata, suddivisione storiografica in voga che
vuole un brigantaggio politico fino al 1862/63 e un brigantaggio
banditesco da quegli anni al 1870.
Dalle parole di quel Ministro piemontese a Lord Granville emerge in
tutta la sua unicità l'aspetto politico della resistenza
duosiciliana, purtroppo acefala, all'invasore nordista e ai suoi
collaborazionisti, iniziata nel 1860. Ne riportiamo le parti piú
significative:
«… La
criminalità in Italia è diversissima nelle sue varie
parti. Le parti in cui essa è poco soddisfacente son la Sicilia,
il Napoletano, ed alcune provincie delle Romagne. Sebbene in questi
luoghi siamo immensamente lontani dallo stato in cui i precedenti
Governi ci lasciarono quelle provincie, quando i Tristany, ed i
Borjés capitanavano bande di 300, e piú briganti, pure
è deplorabilmente vero, che lo stato della sicurezza pubblica
è lungi dall'esservi soddisfacente. Noi siamo deliberati di
metter fine a qualunque costo a questo stato anormale, e di fare a tale
scopo tutti i possibili sforzi. Per noi è questa non solo una
questione del massimo interesse, politica, e quasi sociale, ma è
questione di dovere, e di onore…Quale può essere il
rimedio? La pena della morte? No. I gravi reati sono ancora frequenti.
Il numero dei manutengoli che sono la vera base, ed il quartiere
generale dei briganti, e senza la cui distruzione è impossibile
la distruzione del brigantaggio, è assai grande. Piantare il
patibolo ad ogni passo, ad ogni momento è cosa altrettanto
impossibile!… Si dovrebbero fare delle carneficine… solo
la deportazione, come pena, può, in Italia, essere applicata
largamente, ed efficacemente; essa soltanto può reprimere la
numerosa classe di manutengoli. I briganti… avvezzi a mettere la
vita in pericolo, resi piú feroci dalla stessa lor vita, salgono
spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le
popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle
popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della
deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodí, ove è
grande l'attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di
non vedere piú mai il suolo natale, la moglie, i figli, di
passare, e di finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto,
e da tutti, è pensiero che atterrisce. Non v'ha piú
né speranza di grazia né di fuga, né di ajuto
esterno. La pena della deportazione è per noi una vera
necessità… Noi non abbiamo alcun pensiero di fare delle
colonie; lo scopo che ci proponiamo è abbastanza giustificato
dalle circostanze, perché ci si possa supporre una
volontà che non abbiamo; vogliamo applicare un sistema penale.
Non vogliamo neppure fare delle colonie penali; ma sibbene degli
stabilimenti penali, un penitenziario lontano…l’effetto
sui malfattori italiani, e sulle loro famiglie, e massimo per la parte
meridionale d'Italia, sarebbe grandissimo».
Lord Granville ascoltò il lungo monologo senza batter ciglio,
poi esclamò: “Non sarebbe egli meglio portare i malfattori
italiani del Sud a scontare la pena nel Nord
dell'Italia…?”.
E il Cadorna: “Risposi, che ciò già si faceva da molto tempo…».
ANCHE L’OLANDA SI OPPONE
Anche per l’insediamento nell'isola di Borneo il governo italiano
conseguí dunque uno smacco diplomatico. Al diniego inglese si
era sommata anche la tenace opposizione olandese, dato che
l’Olanda ne possedeva quasi tutto il territorio, ma ne attendeva
il riconoscimento britannico proprio in quegli anni. Il governo
italiano però fin dal 1869, in previsione di altri smacchi
diplomatici, aveva deciso di seguire strade non ortodosse per
conseguire l’obiettivo deportazione: affidare a un privato il
compito di ricercare una colonia nelle isole intorno alla Nuova Guinea
per deportarvi almeno ventimila prigionieri (v. Guido Po).
Fu incaricato un certo Giovanni Emilio Cerruti. Costui aveva firmato
una convenzione col Sultano delle isole Batchiane, a nord della grande
isola di Ceram. Quel Sultano concedeva il diritto di sovranità
su alcune di quelle isole in cambio di un canone annuo in gilders
olandesi. Lo stesso risultato il Cerruti conseguiva col Rajah delle
isole Key e coi due Rajah delle Arú. Ma le ulteriori opposizioni
britannica e olandese consigliarono al governo italiano di desistere
definitivamente dall'impiantarsi da quelle parti.
Agli schizofrenici fucilatori di Duosiciliani non rimaneva dunque che
rimandare a tempi piú favorevoli (colonia di Eritrea) il
compimento dei loro piani distruttivi della nazione duosiciliana che,
per sopravvivere alle fucilazioni sommarie, ai lutti, alla pesantissima
pressione fiscale, alle rapine, si era già incamminata sulla
strada dell’emigrazione, cioè dell'autodeportazione,
risolvendo cosí, senza rumore politico, il problema dello
scienziato pazzo e dei suoi "fratelli."
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