Nel 1859 la Banca contava due sedi, Genova e Torino, e cinque succursali: Alessandria, Cagliari, Cuneo, Nizza e Vercelli. Quell’anno, già prima che gli austriaci fossero battuti da Napoleone III, il capitale sociale venne portato a 80 milioni, in modo da concederne un quinto al padronato lombardo[1].
I trentamila caduti a Solferino e San Martino erano ancora insepolti,
quando fu istituita la sede di Milano. La minaccia del dissesto,
conseguente al run dei possessori di banconote, si dissolse fra i
vapori agostani della Palude Padana, mercé l’oro che i lombardi
portarono in dote.
Non so se Wagner si sia mai interessato alle banche, certo è che
il dilagare della Banca Nazionale per le cento città d’Italia
ricorda l’impeto incalzante de La cavalcata delle Valchirie. Bombrini
corse più veloce dei bersaglieri. Tra il giugno del 1859 e il
settembre 1860 venne praticamente realizzata l’occupazione
dell’Emilia, delle Romagne, dell’Umbria, delle Marche. Crollate anche
le Due Sicilie, furono immediatamente istituite altre due sedi, Napoli
e Palermo. Ma non la Toscana.
Nel 1860, Bombrini inaugurò succursali ad Ancona, Bergamo,
Bologna, Brescia, Como, Messina, Modena, Parma, Perugia, Porto Maurizio
(l’attuale Imperia) e Ravenna;
Nel 1865, i toscani scesero a patti, cosicché Bombrini poté aprire la sede di Firenze. Quell’anno inaugurò succursali anche ad Ascoli Piceno, Carrara, Lodi, Macerata, Pesaro, Reggio Emilia, Siracusa e Vigevano.
Nel 1866 s’insediò a Caltanissetta, Cosenza, Girgenti
(Agrigento), Novara, Salerno, Teramo e Trapani.
Nel 1867, acquisito il Veneto ai Savoia, comprò una banca
veneziana e la trasformò nella propria sede di Venezia.
Aprì inoltre le succursali di Padova, Mantova, Udine e Verona.
Al Sud inaugurò la succursale di Avellino. La penetrazione
locale proseguì dopo l’annessione di Roma (1870).
Una diffusione così ampia, ad opera di una banca privata, che si
era messa in campagna con appena cinque milioni d’oro in cassa,
si spiega soltanto con la fanfara dei bersaglieri. Questa espansione
privata, e tuttavia munita del sigillo dello Stato, fu una cosa da
Compagnia delle Indie, indegna di un Regno che si autoproclamava
fondato sulla volontà della nazione, oltre che sulla
grazia di Dio.
Evidentemente in quel momento il Sud era coperto di nubi e sfuggiva
alla vista e alla grazia di Dio! Per giunta, la consorteria
cavour-bombrinesca inchiodò al remo gli altri istituti di
credito esistenti, alcuni dei quali - sicuramente il Banco delle
Due Sicilie e la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde –
avrebbero potuto fare d’essa un solo boccone. Persino l’accomodante Di
Nardi è costretto ad ammettere che
"l'espansione [della Banca
Nazionale] non avvenne senza contrasti e difficoltà. Negli
antichi Stati italiani esistevano altre banche […] e potenti
istituti di credito radicati nella tradizione locale, che mal
volentieri vedevano l'insediamento nelle loro città di un
istituto concorrente, che sembrava [sic, zucchero patriottico!, ndr]
godesse appoggi e protezioni del governo. Alcune di quelle banche si
arresero subito alla rivale piemontese, convinte di non poter reggere a
lungo alla lotta con essa sulle stesse piazze. Fu il caso della Banca
Parmense e della Banca delle Quattro Legazioni a Bologna, entrambe [da
poco, ndr] autorizzate all'emissione di biglietti, che
concordarono presto la loro fusione con la Banca Nazionale, per
cui già nel marzo 1861 le rispettive sedi erano trasformate in
succursali della Banca Nazionale. Atteggiamento di resistenza assunsero
invece la Banca Nazionale Toscana ed i banchi meridionali. A Firenze la
Banca Nazionale ci andò solo nel 1865, quando la sede del
governo sì trasferì nella capitale toscana. Nelle
provincie meridionali si insediò più presto, ma
dovè vincere forti resistenze locali e procedè con
ritardo nella fondazione di alcune succursali, per le precarie
condizioni dell'ordine pubblico in quelle provincie, che per
alcuni anni furono infestate dal brigantaggio borbonico" (Di
Nardi, pag. 46 e sgg.)[2].
Come annotato da Di Nardi nel passo riportato, la Banca Nazionale
entrò in Toscana soltanto nel 1865, cioè sette anni dopo
l’annessione del Granducato, insieme al re, al governo e al parlamento,
allorché la capitale d’Italia venne trasferita da Torino a
Firenze. La città dei Bardi e de’ Medici fu l’ultima e sofferta
conquista di Bombrini prima della terza guerra cosiddetta
d’indipendenza e della conquista del Veneto.
In precedenza i toscani, avendo capito tutto, non avevano permesso che
aprisse una delle sue prosciuganti sedi nella loro capitale e delle
succursali nelle loro città, insofferenti di dominio forestiero.
I banchieri toscani erano consapevoli che per loro sarebbe stato
impossibile resistere all’aggressione di un concorrente ammanicato con
lo Stato, perciò si difesero sul terreno politico.
Gli storici patrii non sono riusciti a tenere nascosto il contrasto tra
toscani e piemontesi. E’ persino divertente il visibile affanno per
cercare di addolcirlo con parole melliflue. Non si possono offendere i
toscani, perché nessuno in Italia è più italiano
dei toscani, ma neppure si può dire male dei piemontesi, essendo
essi i padri della patria. Tuttavia fra le contorsioni lessicali,
emerge chiaramente che qualcuno, capace di imporre la sua
volontà persino al colendissimo e venerato Cavour, vietò
a Bombrini di calcare una terra rinascimentale, sacra a ogni forma di
usura. E all’usura come opera d’arte.
Infatti la Toscana, fra tante primogeniture, vanta quella d’aver
tenuto a battesimo la banca moderna. Tuttavia, spenti gli antichi
splendori, una sua banca d’emissione era arrivata ad averla
soltanto nel 1858: la Banca Nazionale Toscana, che era il
prodotto della fusione tra la Banca di Sconto di Firenze e la Banca di
Livorno. Plebano e Sanguinetti, gli storici di cose finanziare
più accreditati dell’epoca, considerano la Nazionale Toscana una
copia della Nazionale Sarda (pag. 114), che l’aveva preceduta di un
buon decennio.
Si tratta di un giudizio che mi appare tarato di sabaudismo, in quanto
sorvola sul fatto che i biglietti della Banca Toscana erano garantiti
dallo Stato, allo stesso modo delle fedi di credito duosiciliane; cosa
che non è di poco conto, se si ha presente la funzione sociale e
politica della dalla Banca ligure-piemontese, consistente nel
drenaggio del circolante metallico.
Qualche anno dopo la morte di Cavour, si mise a fare la ruota del gran
ministro delle finanze il napoletano Giovanni Manna, uno dei tanti
utili idioti che il sistema padano andava mobilitando al suo servizio.
E’ probabile che alquanto ingenuamente questi considerasse l’Italia-una
una specie di Tavola Rotonda di tutti gli italiani, cosicché
immaginò di poter creare un istituto unico d’emissione,
più o meno controllato dal padronato di tutte le regioni.
Ovviamente Bombrini, sulle idee dei ministri, specialmente se
napoletani, ci faceva la pipì. D’altra parte, piegata la Cassa
di Risparmio delle Provincie Lombarde, non aveva altro avversario degno
d’essere veramente temuto se non il Banco delle Due Sicilie, al cui
confronto la Banca Toscana era un ringhioso botoletto aizzato da
Ricasoli e dal suo avido contorno. I giochi di Bombrini ormai erano
fatti: Firenze si sarebbe data per amore o per altro, e Napoli, prima o
poi, si sarebbe arresa per fame. Comunque, alle insistenze del ministro
Manna il governatore della Nazionale non poté opporre un aperto
rifiuto.
Fu così che tra la Banca Nazionale ex sarda e la Banca Nazionale
Tosacana si arrivò a un reclamizzato accordo. Manna portò
in senato il disegno di legge governativo. Dopo lunghe e
ampollose discussioni, il senato lo approvò, ma, quando
passò alla camera, questa lo lasciò dormire fra le altre
scartoffie, finché non sopraggiunse la scadenza della
legislatura.
In apparenza, sia alla camera sia al senato, la maggioranza era
contraria alle bramosie della Banca Nazionale; nella sostanza era
Bombrini a fomentarle perché si perdesse tempo, in attesa
che la Banca Toscana gli cadesse in grembo come una pera matura.
Bombrini voleva mangiare, e non accordarsi sul menù.
Tra attacchi e resistenze, la partita tra Juventus e Fiorentina si
protrasse dal 1859 al 1865 - cioè un incalcolabile numero di
tempi supplementari. Alla fine la cosa ebbe la sua naturale
conclusione: il governo, spostando la capitale del Regno da Torino a
Firenze, pretese che la sede centrale della Banca bombrinesca (che era
sempre una banca privata) lo seguisse nella nuova capitale.
Bombrini assorbì la Banca Toscana in cambio di 15 milioni di
azioni della Banca sarda: 10 a copertura del capitale sociale e 5 come
regalia, per tappare la bocca ai verbosi discendenti di Savonarola.
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