Tutto e nulla era cambiato con l'unità della Nazione e i briganti tornarono a riorganizzarsi in agguerrite bande armate. Ancora una volta queste "nacquero da un comune bisogno: la protesta brutale e selvaggia della miseria" e il clero "non indugiava a incitare al brigantaggio anche dal pergamo39" .
Capostipite e vero cavallo di razza del grande brigantaggio
post-unitario è ormai unanimemente considerato Angelo
Pugliese, detto don Peppino il Lombardo, di origine calabrese e
siciliano di adozione. Il suo erede fu Alberto Riggio, che
operò nel territorio di Girgenti.
Uscito di scena, il bastone di comando passò al suo aiutante
in campo Vincenzo Capraro di Sciacca. La mattina del 28 settembre 1875,
Capraro rimase ucciso in un sanguinoso conflitto con gli agenti di P.S.
e i Militi a cavallo.
La guida della superstite e rinnovata banda Capraro passò a
Gaudenzio Plaja. Ma l'autorità del nuovo capobanda non fu
riconosciuta dal suo socio Domenico Sajeva di Favara, che decise di
formare un suo gruppo composto da otto elementi.
La banda Sajeva pare fosse ben tollerata nel territorio di Favara: "I
loro reati - dichiarò il colonnello comandante della zona
militare di Girgenti - li consumano nei comuni di Grotte, di Racalmuto
e Canicattì, sino a Licata e Girgenti, ma quei di Favara non
li toccano, o se toccano qualcuno di Favara é per fare
vendetta per conto di Tizio e Sempronio40" .
La nuova promessa del brigantaggio siciliano poteva avvalersi di
prestigiose quanto insospettabili coperture e di "siti" e "ville"
signorili che, in quasi 2 anni (ottobre 1875 - giugno 1876), gli
permisero di portare a termine una sequenza impressionante di delitti.
Secondo lo storico Salvatore Bosco, "l'amicizia di signori facoltosi ed
influenti" di Favara (il barone Antonio Mendola e il sacerdote Cibella)
e di Agrigento (il marchese Salvatore Specchi e il Barone Celauro)
consentiva al Sajeva di trovare "un sicuro asilo ove nascondere la
propria banda, le armi e le cose rubate41.
Questo brigantaggio così coperto, organizzato, diffuso e
violento, che come araba fenice rinasce continuamente dalle sue stesse
ceneri, suscita degli interrogativi: quale realtà sociale ed
economica lo produceva?
Quali soluzioni adottarono il governo, l'opposizione e le classi
sociali interessate alla sua sconfitta? Tennero conto le forze
politiche e sociali della lezione della storia?
Delle risposte si possono trovare ripercorrendo gli anni turbolenti
della Sicilia nell'età della Destra storica.
Nei primi tre lustri unitari, l'area agrigentina dello zolfo - secondo
le inchieste di Franchetti e Sonnino, del Parlamento e del prefetto
Giorgio Tamajo - era una realtà sociale di miseria,
ignoranza e violenza: il tasso d'analfabetismo era altissimo (dagli
iscritti nella lista di leva della classe 1860 risulta che Favara aveva
133 analfabeti su 172, Aragona 137 su 161, a Racalmuto 124 su 142, a
Canicattì 183 su 222). Fanciulli e giovani lavoravano nelle
miniere in condizioni sub umane (a Favara 75 su 184 iscritti alla leva
esercitavano il mestiere di zolfataro, ad Aragona 64 su 175, a
Racalmuto 152 su 90, a Canicattì 11 su 282). Le miniere
erano "covi di delitto, e spesso ricettacolo alla gente della
più triste specie42" .
I minatori, nei periodi di crisi delle zolfare, trovavano
un'alternativa nell'attività criminale organizzandosi in
bande di briganti: "tanti che non lavorano - dichiarò un
proprietario alla Commissione d'Inchiesta - si mettono assieme in
quattro, cinque giornalieri: di estate fanno furti di campagna, e
d'inverno vanno ad assassinare43.
In questa realtà socioeconomica la diffusione del
brigantaggio fu tale da diventare una quotidiana urgenza non solo per i
magistrati e le forze di polizia, istituzionalmente addetti alla sua
repressione, ma anche per i rappresentanti degli enti locali (i
prefetti, emanazione del potere statuale centralista, e i sindaci, cui
erano delegate funzioni di ordine pubblico) e per il ceto politico.
La questione dell'ordine pubblico fu affrontata in particolare dagli
esponenti politici più rappresentativi della provincia:
Vincenzo Macaluso44 e Salvatore Gangitano (Canicattì),
Saverio Friscia (Sciacca), Luigi La Porta45 (Girgenti), Antonio Riggio
(Cattolica Eraclea), Giusepe Cafisi (Favara), Gabriele Colonna Romano
duca di Cesarò (Aragona), Domenico Riolo (Naro), Gaspare
Matrona (Racalmuto). Si trattava di un ceto politico, impregnato
d'ideologia sicilianista46 e in cui "prevalevano gli elementi
massonici", che si era formato in parte nei decenni della cospirazione
risorgimentale47 .
Buona parte di questi politici - come vedremo più avanti -
pur invocando una legislazione statale volta allo sviluppo economico
della Sicilia, subordinarono la questione sociale alla soluzione del
problema dell'ordine pubblico.
La loro idea di sviluppo consisteva essenzialmente in una generica
dichiarazione di progresso volto alla difesa degli interessi del ceto
proprietario cui appartenevano e di cui erano espressione elettorale e
politica.
Solo una piccola parte di loro si pose la questione sociale, ma in
termini meramente mutualistici. Agli inizi degli anni settanta, a
Canicattì il repubblicano Macaluso, il liberale Gangitano e
l'internazionalista Nicola Narbone (con obiettivi evidentemente
diversi) avviarono i primi tentativi, mal riusciti, di organizzazione
proletaria di mutuo soccorso48 .
Qualche anno prima, una parte dei democratici, fra cui il Narbone,
aveva aderito al movimento internazionalista anarchico e posto per la
prima volta con Friscia e Riggio la questione dell'emancipazione delle
classi subalterne in termini politici.
Delineati, nei tratti essenziali, il fenomeno, la realtà
socioeconomica che lo aveva determinato e le forze interessate a
risolverlo, si tratta ora di conoscere come queste forze si mossero per
affrontarlo fin dai giorni delle grandi speranze della dittatura
garibaldina.
Caduta la monarchia borbonica, i primi atti di Garibaldi furono
l'abolizione della Gendarmeria a cavallo e l'istituzione (con decreto
dittatoriale) dei Militi a cavallo cui fu affidata la repressione della
criminalità.
Alla fine del 1861, la situazione dell'ordine pubblico si presentava
apparentemente calma, in realtà uno stato di profondo
malessere sociale serpeggiava specialmente nell'area dello zolfo, la
più difficile e delicata di tutta la provincia.
Ottimista era invece la relazione del Governatore della Provincia di
Girgenti, inviata il 21 settembre al Luogotenente del Re49 . In
effetti, dallo "Stato dei reati" del 1861 in provincia di Girgenti, si
evince una situazione di relativo ordine sociale: Canicattì,
Grotte e Favara nessun reato e "spirito pubblico tranquillo", Racalmuto
due reati e spirito pubblico tranquillo50 .
Fin dai primi anni post-unitari l'area attorno a Canicattì
era infestata di briganti dediti alla grassazione e al sequestro di
persona. Racconta Angelo La Vecchia che, a causa della coscrizione
obbligatoria, "molti bravi giovani, i figli delle famiglie
più povere, coloro che non potevano essere nascosti e
protetti nei campi dei proprietari o nel feudo della Mafia, diventavano
briganti51!" .
Attorno al 1863, fra questi si distingueva il temibile Giuseppe
Tulumello di Racalmuto, dedito principalmente alle rapine. Di fronte a
questa situazione d'insicurezza sociale lo Stato reagì
adottando la soluzione militare.
Il 17 aprile 1863, l'onorevole La Porta presentò un'accorata
interpellanza parlamentare al ministro dell'Interno sullo stato della
sicurezza della provincia. Egli riteneva che la sicurezza pubblica si
dovesse riordinare e ricostituire "con un personale il quale abbia
l'energia necessaria ed il prestigio indispensabile per l'esercizio di
quella missione che è la più sacra per la vita e
la proprietà dei cittadini".
L'onorevole non precisa chi doveva essere questo prestigioso personale,
ma riguardo "all'amministrazione delle provincie" auspica che "siano
chiamati uomini i quali conoscano le condizioni di quel paese e
sappiano apprezzare i difetti e i grandi pregi di quelle popolazioni52"
. Se ne potrebbe dedurre che l'ordine pubblico in Sicilia dovesse
essere affidato ai siciliani stessi, e cioè all'aristocrazia
e alla borghesia, le uniche in grado di gestirlo e le uniche ad essere
gravemente danneggiate dal diffuso brigantaggio, denunciato peraltro
dagli stessi elettori di La Porta.
Intanto, in seguito alla applicazione della legge piemontese sulla
coscrizione obbligatoria alla Sicilia, i renitenti alla leva che
andavano ad ingrossare le bande di briganti erano tantissimi,
cosicché il 25 aprile del 1863 iniziarono le azioni militari
contro briganti e renitenti, condotte dal Generale Govone.
Il 5 novembre, si conclusero le manovre militari e, a dicembre, il
generale relazionò in Parlamento sulla missione militare
dichiarando che "la Sicilia non è sortita dal ciclo che
percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla
civiltà".
Per tale operato ed idee il Govone fu promosso luogotenente generale.
Era il colmo e l'opposizione democratica, di fronte ad una
così palese offesa all'onore della Sicilia, reagì
duramente.
Il primo a protestare dimettendosi da deputato fu Giuseppe Garibaldi,
Gran Maestro del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Palermo,
seguito da uno stuolo di deputati massonico-democratici. Ma la
repressione militare di Govone non riuscì ad estirpare il
brigantaggio, che era di continuo alimentato dal persistente malessere
socioeconomico.
Di fronte all'escalation criminale l'opposizione liberale e democratica
si servì di diversi giornali, il "Precursore" (Palermo),
"L'Operajo" (Agrigento), il "Progresso effettivo" (Favara), come
strumenti di denuncia e di lotta al brigantaggio e al governo, ritenuto
responsabile del disordine pubblico.
Finanziata dal marchese on. Giuseppe Cafisi, il 7 settembre 1867
iniziò a Favara la pubblicazione del "Progresso Effettivo",
una gazzetta ebdomadaria di ispirazione liberale e monarchica.
Fin dagli esordi il giornale si preoccupò di rompere
l'isolamento prima locale e poi regionale e nazionale attraverso una
fitta rete di corrispondenze con Canicattì, Racalmuto,
Grotte, Naro, Castrofilippo, Ravanusa, Girgenti, Catania, Firenze.
Sulla questione scottante dell'"eterno brigantaggio" e dell'ordine
pubblico i redattori denunciavano: "La sicurtà (del
galantuomo) sparita, qui nel Mezzogiorno: malsicure le campagne,
perigliose le strade, accessibili gli abitanti e le città
all'assassino, malgrado il lusso d'infiniti guardiani e processanti".
Sulle responsabilità e le soluzioni si asseriva: "Non
accusiamo soltanto le povere plebi; accusiamo un po' tutti, e pensiamo
tutti i rimedi".
La sua cronaca settimanale è piena zeppa di atti criminali:
omicidi, grassazioni, assalti a mano armata, scontri a fuoco con le
forze dell'ordine, abigeati, ecc. Già il primo numero
riporta una serie di recenti delitti contro le persone e le cose fra
cui quello "commesso in Canicattì a danno del barone
Agostino Lalomia, a cui fu involato un ricco servizio di argento,
penetrando i ladri dall'ultimo piano del palagio ed aprendosi un varco
alla tettoia; due altri assassinii consumati nel cuore del Comune nel
breve periodo di cinque giorni; per cui un povero contadino ed un
infelice operaio Scrimali e Fama cadevan freddati da parecchi colpi di
fucile e crivellati dal pugnale con tale ferocia da far rabbrividire.
Eppure Canicattì piuttosto ha goduto di una certa
tranquillità: i malfattori pareano avviliti e
l'Autorità balda e fidente; ma deh! mutarono le sorti53..."
. Ma la soluzione, coerentemente con la storia passata e con le recenti
posizioni del barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro e dell'avvocato
Macaluso, degli onorevoli La Porta e Cafisi, veniva affidata
più che alle istituzioni dello Stato, per la sfiducia che si
nutriva nelle forze dell'ordine e nella magistratura, alla autodifesa
armata attraverso polizie private.
Il Chiaramonte Bordonaro, che a Canicattì aveva notevoli
interessi poiché nel 1819 la sua famiglia aveva ereditato
dai Bonanno la baronia di Canicattì (e con essa la lotta al
brigantaggio), della sua scorta armata non ne faceva mistero, lo
scrisse, infatti, in una sua lettera di protesta indirizzata al
ministro Lanza: "Un anno fa bastava per garantirsi personalmente, la
scorta di pochi armati, mentre oggi occorrono intere bande di bravi ad
uso medioevo; che prima si ricattava ed or si ricatta e si uccide; che
in altri tempi il delitto cercò favore nelle tenebre ed oggi
sfida impunemente la luce del sole. Onde si ribadisce sempre
più la convinzione che ogni cittadino debba provvedere da
sé alla personale sicurezza, come al bando d'ogni
civiltà54" .
Gli fece eco il Progresso Effettivo: "Avete tolto le armi alle persone
dipendenti dal signor Dulcetta, onesto e cospicuo proprietario di
Favara, che colle sue grandi coltivazioni dà pane a migliaia
di operai. E giusto ier l'altro furongli rubate tre mule, e la guida
inerme, datasi alla fuga, poté per miracolo salvar la vita
dalle schioppettate! Lasciate per Dio! che si possa almeno difendere da
se stesso il cittadino, se, malgrado la corrisponsione delle imposte,
non può sperare nella difesa sociale [...]. E' troppo chiara
la recrudescenza dell'inquietezza pubblica in Favara e nel d'intorno55"
.
Qualche anno dopo, intorno al 1870, a Favara i fratelli Calogero e
Giuseppe Sanfilippo Rinelli, due piccoli proprietari disturbati dalle
scorrerie dei briganti, "formarono quella specie di mafia" chiamata
Cavalleria56 , che alcuni anni dopo confluirà nella prima
organizzazione mafiosa a carattere provinciale dell'agrigentino, i cui
centri nevralgici erano Favara, Agrigento e Canicattì57.
Un altro caso emblematico è quello dei fratelli Matrona di
Racalmuto, i quali credettero opportuno curare anche loro il male con
il metodo omeopatico del similia similibus curantur. Poiché
da tempo il territorio di Racalmuto era infestato dalla presenza di
briganti, il 4 dicembre 1873 le vittime, l'avvocato Gaspare Matrona,
sindaco del Comune, e i suoi fratelli, utilizzando persone al loro
servizio e attribuendosi arbitrariamente funzioni di pubblica
sicurezza, ripulirono il territorio dai briganti e per ciò
ricevettero delle medaglie d'oro dalla Giunta locale.
Anche un'alta autorità dei RR.CC., il colonnello comandante
della zona militare di Girgenti, ne tessé sfrontatamente le
lodi: "Racalmuto era un paese tristissimo dove tutti i giorni
succedevano reati di sangue, furti e grassazioni.
Questi cinque fratelli [Matrona] si sono messi d'accordo e hanno detto
- non vogliamo più questi delitti -; montavano a cavallo
armati fino ai denti, ed in pochissimo tempo hanno reso quel paese il
modello non solo della Sicilia ma anche del continente.
Sulla strada per andare a Canicattì o a Caltanissetta
troveranno un bel palazzo dove ci sono scuole, locale per carabinieri,
telegrafo, teatro; insomma hanno fatto di quel paese qualche cosa di
buono58" . In tempi relativamente recenti è stato Leonardo
Sciascia a tessere gli elogi ai Matrona, alimentando così un
mito che ancora resiste fra i racalmutesi.
L'elogio andava in particolare a Gaspare Matrona, sindaco di un "comune
amministrato con tanta dedizione, coraggio e generosità che
il colonnello propone a modello non solo della Sicilia ma dell'Italia
intera. E si capisce che nel giro di mezzo secolo i Matrona furono
poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col
conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia,
delle usurpazioni e prevaricazioni59.
D'altra parte, come denunciava La Porta, lo Stato, eccetto qualche raro
successo come l'arresto, nel 1869, del capo banda Riggio, non riusciva
a garantire neppure una parvenza di legalità (è
l'anno in cui a Canicattì tre banditi uccidevano per
derubarlo il padre francescano Serafino La Vecchia), e per riportarla
proporrà nel 1874 non la presenza e l'affermazione delle
leggi dello Stato, bensì il rafforzamento degli "zelanti"
militi a cavallo e la loro guida da parte dell'aristocrazia fondiaria.
Era la linea politica del "far da sé" di un coerente
sicilianista. Su quest'ibrido corpo di polizia (legale sulla carta, ma
nei fatti malavitoso) si era soffermato, con opinioni diverse da La
Porta e senza gli "enigmi" che assillavano Viollet Le Duc, l'avvocato
Macaluso. Fin dal 1861, l'avvocato aveva denunciato i tanti errori e le
incomprensioni del giovane Governo italiano nei confronti della Sicilia
e su quella linea condurrà diverse battaglie politiche60 .
Egli, nella lotta al brigantaggio siciliano, si avvalse della notevole
esperienza accumulata nel 1967, quando, in qualità di
sottoprefetto di Lagonegro, "in testa alla guardia Nazionale e alla
truppa regolare, eseguiva delle perlustrazioni, sormontando valli e
monti a piedi per essere di eccitamento agli altri, premuroso com'era
della distruzione del brigantaggio.
Tutto ciò in un mese61. Deludente fu, invece, l'impegno del
governo nell'estirpazione del brigantaggio siciliano, anche per
l'inquinamento delle forze preposte a combatterlo: e Macaluso non
mancò di denunciare inefficienza e compromissioni.
Il 28 novembre 1869, in un lungo e appassionato appello agli elettori
di Canicattì, egli denunciò ancora il Governo,
ritenuto responsabile primo dei mali che affliggevano la Sicilia: "La
Sicilia non ha più nome.
Ogni ladrone vi dice la sua, ma non si astiene dal rubarla. Vengono
nudi e pezzenti e ripartono colle azioni sulla banca camorristica
– Ecco i detrattori della Sicilia62. Sul Giornale "La Pietra"
del 10 maggio 1871 parlò addirittura di "Mafia ufficiale",
del Governo che "mantiene e protegge quella aborrita istituzione dei
Militi a cavallo", della "autorità pubblica che "scende a
patti e non isdegna associarsi con i grassatori, coi ladri, cogli
assassini63.
In un suo scritto del 1872 Macaluso si soffermava ampiamente sulla
pericolosità dei militi a cavallo, sui loro protettori e
sulle relative colpe del Governo: "I militi a cavallo, impasto di
ergastolani e di assassini in trionfo, non daranno che furti in
permanenza; e tutto il sistema governativo, modellato in Sicilia sul
tipo dei militi a cavallo, non sarà che quel che si
manifesta da per tutto, causa permanente di proditorii a danno
dell'onesto cittadino e della società intiera!
Se è così la faccenda pubblica, come non
può mettersi in forse chi non vede ove stia e donde provenga
la vera causa del permanente sociale disordine?
E chi non si persuade ch'è matematicamente impossibile
sperar mai sicurezza e tranquillità in Sicilia?
Io scrivo in una provincia, ove non evvi cittadino che non sappia il
suo doloroso racconto di fatti avvenuti sotto i propri occhi! Io scrivo
in mezzo ad un popolo che ha visto cadere sotto il pugnale
dell'assassino impunito i più probi ed esemplari cittadini!
Ci accusino nel continente di esagerati o di barbari; ma sillaba di Dio
giammai non si cancella!
La mafia è padrona da per tutto del campo in Sicilia, e lo
stesso governo, se non per complicità per codardia, ne
subisce le sue leggi di sangue. Per opera della mafia abbiamo il furto
in trionfo; per opera della mafia abbiamo la fustigazione e la tortura
in trionfo! [...] Perché i militi a cavallo trovano
più difensori fra le persone che circondano il ministro
dell'interno64?" .
Ed ancora, due anni dopo, in una lettera insisteva sull'argomento: "I
più famigerati assassini e traditori, furono reclutati
nell'ormai famoso Corpo dei Militi a cavallo, ironicamente inteso dei
"briganti purificati", che la Sicilia subisce e gli italiani sono
violentati a nutrire sul lauto banchetto del bilancio dello Stato65.
In questa paradossale realtà, secondo i proprietari non
restavano che due soluzioni alternative: o avere assegnata la direzione
dei militi o continuare sulla strada dell'autodifesa illegale. Con
tutti i rischi che questa seconda strada poteva comportare. Le risposte
antitetiche del Governo e della opposizione massonico-sicilianista alla
insostenibilità dell'ordine pubblico sarebbero arrivate da
lì a poco.
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