Tratto da:
www.sosed.it
Nr. 12 Dicembre 1997
E SE LA SECESSIONE LA FACESSE IL SUD?
di Antonio Orlando
In molte parti del Sud si stanno sviluppando interessanti iniziative di
carattere “indipendentistico”. Il Meridione continentale, a differenza
della Sicilia e della Sardegna, non ha storicamente avuto tendenze di
tipo autonomistico o secessionista.
Il fatto che adesso spinte in tal
senso provengano dalle regioni meridionali è argomento che
merita una certa attenzione. In alcuni casi si tratta di singoli
intellettuali, come per es. Nicola Zitara a Siderno o Tommaso Di Ciaula
a Bari, mossi da un’autentica e forte passione meridionalistica.
In
altri casi si assiste alla ripresa di antichi movimenti autonomistici
come il Movimento Meridionale, guidato dall’avv. Franco Tassone a Vibo
Valentia o come il più conosciuto Partito Sardo d’Azione,
fondato in anni lontani da Emilio Lussu.
Oppure, e siamo al caso
più recente, ci troviamo di fronte ad un rilancio del
legittimismo di stampo neo-borbonico, che ha nel settimanale “Il SUD
quotidiano” il suo punto di riferimento più significativo.
Immaginare una possibile saldatura tra tutti questi movimenti ed altri
ancora che sono “statu nascenti”, è idea abbastanza difficile.
Troppo diverse sono le ispirazioni e troppo diverse le basi
storico-cultural-politiche dei vari movimenti ed organizzazioni. Anzi,
a dire il vero, si può parlare di organizzazione soltanto per
quel che riguarda il Movimento Meridionale ed ora anche per i
neo-borbonici che stanno dando vita all’Unione per il Sud, la quale ha
aperto sedi in Puglia, a Benevento ed in Irpinia.
Sicuramente
c’è un filo comune che lega questi movimenti e che spinge
intellettuali come Zitara, tradizionalmente di matrice marxista e
terzomondista, a collaborare con un giornale come “Il SUD quotidiano”.
Questo elemento comune, nel quale si possono riconoscere, in
verità, tutti quei meridionali che non vogliono più
credere alle favole risorgimentali, è da individuare nella
rilettura critica della nostra storia nazionale, che è stata
mistificata, manipolata, occultata e costruita secondo precisi canoni
politici.
Un’operazione di tal genere era stata iniziata già da
Gramsci, da Gobetti e da Francesco Saveri Nitti; ma anche da Amadeo
Bordiga e, sul versante anarchico, da Camillo Berneri e da Luigi
Fabbri. Come andarono le cose e perché questa gigantesca opera
di revisione non fu condotta a termine lo sappiamo.
Gramsci venne
santificato e trasformato in una specie di icona laico-comunista;
Gobetti venne celebrato come martire del liberalismo italiano; Nitti,
perseguitato dai fascisti, non riuscì a reinserirsi nella vita
politica repubblicana; Bordiga venne isolato ed emarginato, considerato
un traditore dai comunisti, finì relegato nel limbo dei vecchi
vaneggiatori; Berneri fu ucciso in Spagna e le sue opere disperse al
vento; Fabbrì morì in esilio a Montevideo nel 1935 ed il
suo nome è stato cancellato dalla storia patria.
Se si vuole
rileggere la storia questi autori rappresentano altrettanti passaggi
obbligati. Le falsificazioni della storiografia ufficiale e
tradizionale non reggono più di fronte all’accurato esame delle
fonti ed al cospetto di un’analisi corretta ed approfondita. Il volume
di AngelantonioSpagnoletti “Storia del Regno delle Due Sicilie”, edito
non a caso da Il Mulino di Bologna, ha suscitato scalpore, scandalo, ma
anche tanti consensi, tra cui quello di Paolo Mieli (V. La Stampa del
16 novembre 1997).
Tutto ciò significa che l’opera di revisione
(che parola scandalosa per le orecchie degli stalinisti!) coinvolge
oramai una platea abbastanza vasta di studiosi delle più diverse
tendenze. Un processo di tale portata non può certo essere
fermato e tutta questa attività finirà per travolgere,
come un fiume in piena, il ciarpame retorico ed il cumulo di menzogne
che ci trasciniamo dietro da oltre un secolo. Ben venga quest’opera di
pulizia.
Sulla base di questa meritoria attività di
riedificazione della storia, c’è, però, chi pretende di
costruire un’azione politica per l’oggi. Alcuni di quei movimenti
meridionalisti prima citati propugnano il totale cambiamento degli
assetti istituzionali e politici del nostro Stato.
E così
c’è chi vuole instaurare il federalismo ; chi, invece, sic et
simpliciter, vuole una restaurazione legittimista neo-borbonica; chi
una completa autonomia regionalista, sul modello dei Lander tedeschi;
chi allearsi con la Lega Nord per una riforma complessiva dello Stato;
chi la formazione di tre o cinque entità nazionali, magari poi
federate sull’esempio americano.
Quest’uso strumentale e finalistico
della storia è l’aspetto che più di ogni altro preoccupa
ed è quello che appare il più sfrontatamente, ed al
contempo, autorevolmente legittimo, valido e fondato. Infatti, “deve”
far scandalo che vogliano dividersi dall’Italia i piemontesi e i
lombardo-veneti, i quali hanno ricavato tutti i benefici possibili
dall’Unità ; appare, al contrario, politicamente “ragionevole”
che il Meridione, la Sicilia e la Sardegna pretendano di staccarsi da
uno Stato impropriamente chiamato Italia.
Allora perché sono i
vignaioli astigiani, i montanari bergamaschi, i calzolai del varesotto,
gli allevatori della bassa ed i parvenu del triveneto a voler staccarsi
dall’Italia?
L’impulso che muove una parte della popolazione del
Nord-Italia è molto materiale ed egoistico. Si tratta della
difesa del peculio, faticosamente accumulato nel corso degli anni
grazie ad una rete di complicità, di connivenze e di
opportunità.
Ora che mamma D.C. (leggasi :Democrazia Cristiana)
non c’è più a coprire le magagne, a proteggere i poveri
allevatori, a garantire prebende, a mungere le mammelle europee, ad
assicurare finanziamenti, mutui a tasso agevolato e quant’altro, il
Nord si scopre secessionista.
Qui sta il punto : la Storia, come la
Natura, non fa salti! Il fatto che, finalmente, i meridionali vengono
messi a conoscenza delle reali vicende storiche non significa
automaticamente l’acquisizione di una “nuova” coscienza nazionale.
Ammesso poi che questa presunta coscienza nazionale meridionale sia mai
esistita. Il Sud non è mai stato né la Catalogna,
né la Corsica, né l’Irlanda, né i Paesi Baschi e
neppure, per fortuna, il mosaico balcanico.
A noi si addice una
identità non di tipo nazionalistico, bensì di tipo
cultural-federalista. Il nostro senso di appartenenza etnica si collega
ad un localismo minuto e frazionato, esasperato da un individualismo
anarchico, e trova poi una certa unificazione solo nel momento del
bisogno e del pericolo.
L’espressione dialettale “chiamu patri a cu’ mi
duna pani” sintetizza benissimo il senso politico di appartenenza. La
disgregazione territoriale (“lo sfasciume pendulo”) è il pendant
della nostra disarticolata organizzazione sociale.
A differenza degli
Ebrei e, quindi, del movimento sionista, considerato, a giusta ragione,
“questione nazionale”, unificato dall’elemento religioso e culturale,
il Sud non ha, né l’ha mai avuto, un elemento di riunificazione.
Non vanno dimenticati, tuttavia, i guasti prodotti dalla famosa
“Dichiarazione Balfour”: agli Ebrei fu dato “un focolare” ed ai
Palestinesi furono tolte le loro terre.
Gli effetti si vedono ancora!
Riproporre i Borbone significa riportare indietro le lancette della
Storia, non costruire un nuovo Stato italiano.