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Questo articolo di Scialoja è un capolavoro di ipocrisia e di funambolismo politico. L'autore si contorce nei ragionamenti, cercando di dimostrare le grandi trasformazioni conseguite a Napoli sotto il novello regno, con esempi patetici tipo quello di mettere a raffronto l'aumento della popolazione nell'ultimo decennio borbonico e nel primo decennio sabaudo-italiano.

Altra perla del nostro: la sottolineatura dell'aumento del volume delle merci importate nel porto di Napoli!

Per il 'grande economista' tale aumento è un altro dato positivo.

Questo, uno degli uomini che hanno fatto l'Italia e disfatto le Provincie Napolitane.

Zenone di Elea – Gennaio 2012

NUOVA ANTOLOGIA - Vol. XIV. - Firenze, Luglio 1870 - Pag. 441

LA CITTÀ DI NAPOLI

IL SUO PASSATO ED IL SUO PRESENTE.

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I.

L'Italia nuova è ancora avviluppata dal guscio dell'Italia vecchia. Essa non ha peranco la coscienza chiara e distinta di se medesima. Ha compiuto e va compiendo fatti che possono senza superbia dirsi prodigiosi; ma li compie quasi poeticamente, come per lo appunto si compiono le grandi cose, avendone, cioè, il sentimento piuttosto che il concetto, e lasciando agli avvenire lo studio delle cause e de' modi onde que' fatti furono generati.

Nulladimeno se la troppa vicinanza abbaglia ancora e confonde lo sguardo della mente, e toglie a noi la possibilità di ben comprendere questa Italia nuova, non è da credere che sia opera di poca utilità ajutarci tutti scambievolmente, noi italiani, ad acquistare di mano in mano una coscienza meno oscura e meno imperfetta della nuova vita civile, sociale e politica, che l'unità nazionale compie e corona con la unità di Stato.

Quantunque combattuta dal regionismo, ch'è il sentimento della vecchia Italia, inasprito dal contrasto della nuova vita, ed alimentato dagli inevitabili inconvenienti che l'accompagnano, questa nuova coscienza comincia a formarsi: ma comincia appena.

V'eran due vie per riuscire a formarla e a tradurla in fatto estrinseco e reale; il che è tutt'uno nella storia de' popoli.

Quella tracciata in Germania; e quella seguita effettivamente in Italia.

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L'ordinamento regionale ci avrebbe condotti per una via presso a poco simile a quella che ha preferito il genio tedesco, all'acquisto lento e graduato della coscienza di quella unità di vita nazionale, la cui ultima effettuazione consiste nell'unità statuale, e nel suo organismo. Il genio italiano ripugnò a mettersi per cotesta via tortuosa, ed entrò di slancio nell'altra. E fu fatto così per sentimento dell'universale: perché veramente la riflessione de' caporioni o lor consigliava l'opposto, o li rendeva in gran parte tentennanti.

Questo prova irrefragabilmente che il sentimento dell'unità era più profondo che non si crede. Fu spontaneo e per tanto più vero.

Il sentimento va per salti. Tanti Stati distinti avevano di necessità conservate artificialmente tante distinte coscienze di sociali convivenze separate tra loro: queste distinzioni diventando di mano in mano più convenzionali che reali, furono sopraffatte dal sentimento di una sostanziale unità di nazione, e gli cedettero, quasi inneggiando, il campo: cosi l'unità di Stato nacque, può dirsi, in un giorno.

Ma il sentimento ancora indistinto di una sostanziale unità non può distruggere interamente le tracce delle antiche distinzioni, né annullare le diversità secondarie che le alimentavano, né spegnere la vecchia coscienza, che se non per altro, almeno per abito resiste. Anzi il nuovo sentimento, mosso da un prepotente e dirò poetico intuito del vero, avendo originato un gran fatto quasi inatteso, cioè l'unità di Stato nell'unità nazionale: questa per l'indole sua medesima uscì dal campo del sentimento. Il nuovo Stato, parto quasi poetico di quel sentimento, richiedeva un nuovo e proporzionato ordinamento. Questo però per difetto di preparazione, per impossibilità di precedente esperienza, e per poco agio di meditazione, doveva necessariamente riuscire imperfetto in sé medesimo e poco adeguato alle nuove esigenze. Né queste erano esse medesime, né sono in gran parte formulate: ond'è che si rivelarono e si rivelano ancora sotto una forma menzognera e contraddittoria che è data loro dalla vecchia e convenzionale coscienza delle distinzioni passate. Codesta forma è quella del regionismo, il quale piglia talvolta dalla tavolozza delle rimembranze colori rettorici tanto più esagerati per quanto esso medesimo sente ch'è una larva del passato vuota di realtà e di vita.

Chi si sgomenta di codeste esigenze, e crede di farle cessare, risuscitando le divisioni regionali, non se ne intende.

La verità di codeste esigenze è in ciò, che nell'ordine economico,


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come nell'ordine morale e politico (prendendo queste tre parole - economico, morale e politico - nel senso più largo, e non nel senso loro usuale e ristretto), la vita del nuovo Stato, il suo nuovo spirito non ha ancora conseguito un organismo estrinseco proporzionato e corrispondente.

Quest'organismo nella vita moderna di popoli non consiste soltanto in istituzioni e leggi pensate ed introdotte nello Stato da pochi e sommi uomini; ma risulta altresì dalla spontanea attività dell'universale, ed ha per condizione precipua la libertà. Esso non è l'opera d'un giorno, né si perfeziona altrimenti che acquistando la coscienza sempre più distinta e concreta di quella vita e di quello spirito che deve acquistar forma concreta e certa in esso organismo estrinseco.

Né è da credere che queste due cose sieno poi tanto distinte, che l'una preceda e l'altra segua nel tempo. Il loro effettuale svolgimento è sincrono: anzi il nuovo spirito che informa l'Italia e la sua nuova vita, si rivelano per gli effetti delle nuove istituzioni, e pei risultamenti delle nuove condizioni morali o economiche che sono il portato necessario e talvolta inconscio di quella nuova vita, e di quel nuovo spirito.

Raccogliere i più notevoli fra questi effetti e tra questi risultamenti in mezzo alla congerie de' fatti comuni, scernere in essi la impronta del nuovo spirito; contrapporli a' lamenti che si sollevano; e senza negar questi né contrariarli, perché in gran parte sono fondati, provare con fatti e con numeri accertati che la materia degli uni vince quella degli altri, è opera utile. Perciocché, mediante quel poco di riflessione che basta per ragionare bene quando è appoggiata alla esperienza, si riesce per codesta via a rivelare in parte ai meno veggenti la verità effettuale di quella nuova vita sociale, e di quel nuovo spirito che la informa; e la cui realità s'appunta nell'unità di nazione e di Stato.

II.

Se non che non si è ancora abituati in Italia a considerare nel suo insieme ciascuno de' risultamenti pratici ai quali alludo; o per meglio dire non si considera ancora come indifferente a questa o a quella contrada il ricercare qual parte di que' risultamenti spetti ad essa e quale alle altre: tant'è che la nuova Italia unificata guarda ancora i suoi interessi ed il suo sviluppo a traverso le forme consuetudinarie della vecchia Italia divisa.

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Avviene perciò che se tu enunci anche i più generali e i più comuni tra codesti risultamenti, accertati in complesso, in tutta Italia, non ottieni l'intento: anzi puoi involontariamente stuzzicare le passioni regionali. Perciocché i più, quando si parla d'un bene o d'un vantaggio conseguito dalla nuova Italia, si piacciono ad astrarre da essa la propria regione, e contrapporre a quello che per difetto di riflessione e per abito antico non apprendono ancora come lor proprio bene o lor proprio vantaggio, le sofferenze e i malumori locali, dando a questi un maggiore e più stizzoso risalto.

Parlate, a cagion d'esempio, della intera rete delle strade ferrate italiane; e vi accorgerete che prima che riusciate a chiarire come essa sia uno de' mezzi e nel tempo stesso degli effetti più rilevanti della nuova civiltà d'Italia; il Piemonte per esempio pensa che ne aveva già di molte prima della unione, e lamenta che Napoli e Sicilia ne abbiano fatte dopo a spesa comune, e pretende che abbiano a continuare a farsele da per loro, senza chiedere il concorso del bilancio comune; e per lo contrario Napoli e Sicilia lamentano che, in raffronto di altre contrade italiane, esse sono dotate d' uno scarso numero di chilometri di ferrovie.

Quest'urto di interessi regionali dispone malamente gli animi ad accogliere con calma, ed a convertire in intima persuasione, che l'unità sia non solo un fatto splendido e grandioso, ma anche un fatto utile a ciascuno de' popoli uniti, e che data l'unità ne derivi per conseguenza la solidarietà. Seguendo questo modo di ragionare, si può riuscire al punto opposto a quello al quale si mirava: e persuadere il regionismo ch'esso è nel vero quando si contrappone all'unità.

Questa persuasione non può altrimenti essere combattuta e vinta nel campo de' fatti, che studiando questi localmente. La vita nazionale, il nuovo spirito, l'unità hanno da per tutto arrecato i loro frutti. Ma questi o non sono avvertiti; o non sono intesi e sono essi medesimi, cosa strana ma vera, materia di lamento. Distinguerli, metterli in luce, legarli alla vera loro causa, e ciò per via non dottrinale, non di deduzioni troppo peregrine, ma per via di raffronti, di appunti critici, di ravvicinamenti che mettano in moto l'intelligenza altrui ed ajutino a far intendere quel che spesso non si discerné, perché avvolto in una specie di nebbia di male prevenzioni o di erronee credenze, ecco il metodo che mi pare più sicuro e più efficace a raggiungere l'intento.

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Questo non è regionismo, anzi l'uccide. Dicendo ad una delle cento città italiane: - Tu eri parte principale o capo di ano statuitolo, ed avevi certamente una importanza relativa che non hai: ma bada bene che questa importanza di cui tu serbi memoria, era poca cosa a fronte dell'esser tuo presente, come parte d'una nazione libera e grande; - difficilmente lo intende. Ciascuno de' cittadini che la compongono, secondo i diversi precedenti suoi privati o politici, sente a suo dispetto o con sua interna compiacenza che un gran mutamento è avvenuto. Ma, sia perché mosso da interesse personale, sia perché offeso dallo spettacolo d'ingiustizie o di errori innegabili, sia perché padroneggiato ancora suo malgrado dalla vecchia forma del giudicare delle cose, egli di tempo in tempo, or con rammarico ed ora con risentimento, si crede decaduto, ricorrendo con la memoria a rimembranze parziali o imperfette d'un passato che spesso è creato dalla fantasia più che rappresentato dalla memoria.

Nove su dieci di costoro, pensandoci posatamente, non vorrebbero punto rinunciare al presente, ma sarebbero contenti di vederlo congiunto col passato, astraendo dall'uno e dall'altro quel che loro non piace, e non accorgendosi della contraddizione. Di qua il regionismo teorico, che è l'eco dottrinale de' lodatori del tempo passato, secondato dalle lamentazioni della nuova Italia, che non sa ancora, affermando se stessa, negare risolutamente la vecchia.

Se invece tu dici a quella medesima città: - Nota che non ostante il tuo lamentare, e le molte cagioni che tu ne hai, in te si avvera questo fatto sociale, economico, o morale, e quest'altro ancora e poi un terzo, ed un quarto; i quali non può da alcuno mettersi in dubbio che non sieno risultamento d'uno stato di civiltà, di agiatezza e di progresso più o meno considerevole. E bada che questo risultamento si è ottenuto da che tu hai cessato d'essere capo o parte di uno de' vecchi Stati, e sei diventata parte del nuovo; - puoi più direttamente eccitare l'attenzione del maggior numero e riuscire a confortare in essi il sentimento del nuovo. E puoi nel tempo stesso aiutare a far nascere la coscienza di ciò che può il nuovo; e del come opera la virtù rinnovatrice.

A questo modo, si può a poco a poco abbattere localmente l'idolo della regione e spegnere allo in tutto il suo culto.

I miglioramenti municipali, ossieno veramente locali e non già regionali, - che son due cose distinte, anzi diverse, - ottenuti

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o che possono ottenersi, dopo che ciascun luogo, provincia o municipio, cessò d'esser parte d'una regione-Stato, e diventò parte d'Italia-Stato, sono potenti mezzi per conseguire che nella coscienza degli Italiani questa Italia-Stato sia affermata in modo così definitivo, che non resti ombra del regionismo; il quale oggi è ridotto ad una forma amministrativa vuota di contenuto per chi non vuole che sia la negazione dell'unità.

Ma i miglioramenti locali a traverso di cotesta larva disturbatrice del giudizio, non sono bene avvertiti. Da' municipii giungono al centro di preferenza i lamenti: e dal centro non si sa ancora ben giudicare la condizione locale de' municipii.

È dunque opera eminentemente nazionale, non dirò la statistica in genere de' municipii, ma lo studio statistico-critico delle condizioni locali, fatto sotto il rispetto che ho sopra accennato; ed in modo comparativo tra il passato ed il presente.

In Italia il sentimento municipale, e dirò la coscienza del municipio, di ciò che è e di ciò che può diventare nel nuovo Stato, è destinato a sposarsi al sentimento ed alla coscienza dell'unità di Nazione e di Stato; anzi questi sentimenti e queste coscienze possono reciprocamente rafforzarsi, e, dirò meglio ancora, compiersi a vicenda, e spegnere il regionismo, che è la corrotta immagine della loro negazione.

Il vero municipalismo è destinato a raggiungere questo fine se verrà bene inteso e secondato, non come contrapposto o dissolvimento del potere dello Stato, ma come complemento della effettuazione del governo del paese per mezzo di sè medesimo. Il qual governo può e deve essere nello Stato per tutto ciò che è dello Stato, come nel Municipio per tutto ciò ch'è del Municipio; senza intendere per questo che il governo centrale non debba più immischiarsi di nulla che avviene localmente, o che l'amministrazione locale possa andare a ritroso dello spirito che informa il governo centrale.

Tra' moltissimi che cinguettano di centralismo e di discentramento, quanti pochi hanno un concetto chiaro sia del l'effgovernment inglese, che invocano, sia di quelle forme di esso governo che possano meglio convenire all'Italia? Fanno quindi opera egregia e patriottica coloro che specialmente occupandosi di questo argomento, lo trattano in dotte disquisizioni, alcune delle quali, e certo fra le più importanti, sono state pubblicate dalla Nuova Antologia.

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Ma la poca preparazione degli spiriti anche più cólti eia una delle ragioni per le quali altra volta scrissi che non mi pareva giunto il tempo di fare del riordinamento amministrativo una bandiera politica. Ed un' altra ragione è che io reputo impossibile risolvere in modo ragionevole il problema dell'ordinamento amministrativo locale separatamente dal riordinamento del sistema generale delle imposte, il quale deve presso di noi essere la principale condizione del self-government, se non vogliamo presso di noi innestare in modo innaturale e fuori stagione l'Inghilterra alla Francia, per avere una Italia ibrida ed assurda, che non sia né francese né inglese e molto meno italiana.

III.

Ma ritorno al mio proposito, e dico, che per dare un saggio di quel modesto e difficile studio al quale ho accennato, sceglierò Napoli.

La più grande delle città italiane, anzi più che due volte più popolata dalla più grande fra tutte le altre città d'Italia; antica sede di governo, e capo d' uno Stato di mezzana grandezza, il quale nella storia d'Italia è per antonomasia detto il Regno, e veramente poteva pur contare qualche cosa nel mondo degli Stati di secondo ordine. Centro d'un movimento che diramavasi a grosse e ricche provincie, e che da codeste provincie rifluiva in esso, e vi recava con le ricchezze che sfoggiavano nella corte d'un Re e nel suo numeroso seguito, le controversie e i reclami che alimentavano un fòro splendido per dottrina ed influente per aderenze, gli affari che occupavano una burocrazia numerosa e potente, e quelli che procacciavano altrui lucri d'ogni natura, leciti ed anche illeciti, come portavano le condizioni de' tempi, ne' quali la corruzione medesima poteva servire, e serviva il più delle volte, ad evitare una persecuzione ingiusta o ad ottenere giustizia. Ond'è che a memoria nostra più d'un Catone del domani era stato il giorno innanzi manubrio palese o segreto di quella specie di corruzione: e forse anche senza aver la coscienza di far male, siccome suole avvenire quando la società è in uno stato anormale.

In somma, alludendo a Napoli piuttosto che alla Firenze dei suoi tempi, avrebbe potuto con verità il Giusti parlare del maremagno della Capitale. E molta gente viveva già dell'agitazione artificiale di codesto maremagno.

Tutta codesta gente soffre della trasformazione avvenuta pel

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gran mutamento politico del 1860: e se si lagna, ne ha ben d'onde.

Ma questa gente non è Napoli: essa non pertanto è abbastanza numerosa perché i loro lamenti e quelli delle loro famiglie abbiano un certo eco, in una popolazione facilmente impressionabile e querula.

E s'uniscono a' gridanti coloro che men furono danneggiati direttamente; ma che essendo educati al vecchio modo, e ritrovandosi, senza saper come, in mezzo al mondo nuovo, che surse per essi inaspettato, ne furono come sopraffatti e sbalorditi; e lo maledissero, perché non lo intesero; né vollero affaticarsi ad intenderlo, e continuarono a maledirlo. Questa è la parte elevata de' fautori del malcontento; tra' quali sono i barbassori che lo innalzano a dottrina, non con animo di rimuoverne le cause vere che pur vi sono, e di concorrere a migliorare il presente, ma con quello di combatterlo e di imprecare ipocritamente contro l'unità d'Italia, e vaticinare contro il suo avvenire.

I più poi de' gridanti sono quelli che gridano per la medesima ragione per la quale un ricco signore a Torino ricusava nel 1860 ad una povera vedovella la liberalità che soleva farle, non riscuotendo da lei la piccola pigione d'una casetta che le aveva data in affitto: «Buona donna, le diceva egli seriamente, come puoi tu pretendere che io continui a rinunciare a cencinquanta lire di pigione, se per feste e per pranzi in questo anno sono stato costretto a spendere diecimila lire di dolci, come apparisce da queste fatture del confettiere Bass Le spese e le imposte, mia cara, crescono e ci schiacciano.»

Ascoltate i commercianti napolitani. Lascio parlare gente non sospetta, dalla quale ho udito più di cento volte questa geremiade: «Non se ne può più: la provincia è morta, Napoli è posta da lato; fu gran torto non pensare alle strade nell'atto di stabilire l'unità. La piazza è sconfortata.»

Così verso le otto o le nove del mattino, alle ore dell'attività dello spirito, e dell'espansione del desiderio.

Alla sera, nelle ore della stanchezza poi ho da' medesimi udito quasi altrettante volte ripetere quest'altro lamento: «Non se ne può più. Gli affari sono triplicati: bisogna pur risolversi a lasciarne stare una parte. Veramente i lucri non sono aumentati in proporzione: per guadagnare il doppio, bisogna lavorare tre volte tanto, perché si perde su' cambi, si è frodati da' debitori che non temono più la prigione, e si è colpiti da imposte eccessive. E poi il governo non ajuta in nulla il commercio.

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Vedete, l'edifizio de' magazzini in Dogana è diventato vergognosamente angusto. Da per tutto manca lo spazio al cresciuto movimento.»

Questi lamenti della sera fanno a' cozzi con quelli del mattino: ravvicinati e generalizzati diventano una vera contraddizione.

Ma la contraddizione non si avverte, neppure da que' medesimi che si lamentano; e che sono in perfetta buona fede. La qual cosa è molto peggiore, per certe conseguenze.

Dirò di più; la contraddizione ne' fatti singoli non e' è neppure: la gente che si lagna non filosofa; essa vive in mezzo allo attrito di cotesti fatti e non va più in là.

L'avvocato che si lagna, ha ragione. I tribunali hanno scapitato. L'impiegato, il cortigiano, il frate, il mestatore, che prendeva il nome aulico di avvocato di ministero, ed il nome volgare ed espressivo di spiccia-faccende, hanno ragione: sono in perdita o in disagio.

E i commercianti anch'essi han ragione: lo spazio è angusto al cresciuto movimento; e questo è disagio. Il commercio delle vecchie Provincie regionali è in parte distolto da Napoli; ed inoltre il brigantaggio lo sconforta; e questa è una diminuzione relativa di affari.

Ed han ragione ben altri che si lamentano con tutt'altro intento. Quelli, per esempio, che si fanno per fini proprii l'eco de' lamenti locali, e che inasprendoli, acquistano ascendente e simpatie plateali, han ragione di farlo, perché riescono a mettere a profitto in alto questo loro ascendente, per farsi valere ed ottenere favori, ed a mettere quindi a profitto in basso i favori ottenuti, per accrescere le loro aderenze locali; e acquistare a questo modo una importanza alla quale non occorre né sapere né altro merito personale.

Né hanno torto que' medesimi che di ciò si disgustano, e certo la ragion loro è la migliore, benché non sia quella de' più forti.

Ma tutte queste ragioni sono buone, benché tutte non sieno lodevoli per se medesime, se si vogliono considerare come motivi del lamentare, e come cause sufficienti a spiegare la origine e la natura de' lamenti. Esse sono tutte pessime, se voglionsi considerare come sufficienti a conchiudere che Napoli stava meglio prima, e che l'unità ne abbia peggiorate le condizioni.

E prima ch'io proceda oltre, è necessario che mi spieghi chiaro su questo punto. Esso anzi è destinato a gettar luce su tutto il resto; esso è il centro dove risiede lo spirito che deve animare,

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e render vivi ed efficaci i fatti materiali, i numeri statistici, ed i raffronti critici che nelle varie parti di questo Saggio andrò mettendo in luce, cosi come vengono alla spicciolata e con un fare sciolto da ogni metodo prestabilito, e libero da ogni altra preoccupazione che non sia quella di tener sempre dirizzata l'attenzione di chi legge al mio precipuo intento.

Io dunque affermo che anche quando tutti i napolitani si lamentassero, e quando i loro lamenti considerati uno per uno si trovassero fondati sopra fatti certi ed innegabili, pure sarebbe falso conchiuderne che il nuovo ordine di cose abbia arrecato danno alla città di Napoli.

Perché que' lamenti si riducono a tre grandi categorie.

Alcuni si riferiscono a danni realmente avvertiti da coloro che vivevano del vecchio ordine e che sono effettivamente sacrificati al nuovo.

Altri si riferiscono a mali o inconvenienti il più delle volte reali: ma che sono mali o inconvenienti i quali non possono concepirsi indipendentemente dallo avveramento di certi fatti d'una grandissima importanza, i quali sono cagione di cento beneficii, che non si notano, perché la natura dell'uomo è così fatta che de' beneficii si loda poco e pel disagio strepita. Tale è, per esempio, il lamento per esser diventati angusti i magazzini doganali; giusto in sé, ma che presuppone un grande incremento d'affari. Spesse volte questi mali lamentati sono strettamente connessi a' fatti benefici, come nell'esempio ricordato; altre volte sono prodotti occasionalmente, e per indiretto, dal nuovo movimento non ancora ordinato, dalla nuova vita che non si è ancora sviluppata nelle varie sue parti.

Altri lamenti infine hanno un fondamento che dirò subbiettivo. Sono psicologicamente giusti; ma non hanno vera realtà. Sono effetto del diverso punto di vista dal quale si colloca chi si pone a contemplare il quadro degli avvenimenti che si succedono da dieci anni. Gli ottomila impiegati centrali ch'erano in Napoli, ora in gran parte dispersi, i cinquemila monaci e monache disturbati nella loro pace, la corte disfatta, il fòro scemato d'importanza, le provincie in parte emancipate, e simili casi, guardati dal punto di vista regionale della importanza artificiale di Napoli, sono, qual più qual meno, cause di rammarico per molti che non sono direttamente danneggiati.

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E perché questo punto di vista è quello dal quale per forza di abito la mente de' più è disposta ancora a guardare le cose; la forma che costoro danno a' propri giudizi, è quella che quasi universalmente, ma senza distinta coscienza si fa prendere anche agli altri lamenti: la forma, intendo della decadenza regionale. Entrano in questa specie di lamentazioni quelle che sono dirette da taluni contro tutto ciò che essendo nuovo, spiace loro, solo per questo ch'è vizio imperdonabile per le menti pigre, e perciò pe' vecchi. Intorno al 1840 io abitavo in via Corsea allato ad un vecchio colonnello, gentiluomo di antica tempra, patrigno d'uno de' più vecchi generali viventi. Questo buon vecchio era desolato da che il governo d'allora aveva ordinato che i venditori di commestibili cessassero d'ingombrare le vie e si riducessero ne' mercati: «Povera Napoli, esclamava il brav'uomo, eri l'immagine dell'abbondanza: a' tempi della mia gioventù non si poteva circolar per le strade senza urtare in un asino carico d'ortaggi, in un carretto pieno di frutta, e da per tutto pesci, quadrupedi, volatili; a poco a poco tutto questo è venuto scemando, ora si vuol nascondere interamente. Napoli da oggi innanzi avrà lo aspetto della carestia.»

In ogni modo sieno i lamenti fondati sopra fatti innegabili, siccome è pur certo che sia in molti casi, ed io medesimo ne noterò parecchi, sieno fondati sopra fatti alterati da falsi giudizii e malamente estimati; e questi fatti di entrambe le specie sieno effetto inevitabile del nuovo ordine, sieno concomitanti di altri fatti che ne sono la occasione, e che derivano da questa medesima universale cagione; certa cosa è che quando si riesca a provare che Napoli nuovo è in condizione migliore di Napoli vecchio, a me sembra che questo basti a cavarne tre conseguenze, le quali pongo qui per anticipazione, appunto perché restino come forme generali di conclusione applicabile ad ogni particolare di questo saggio statistico.

La prima conclusione è che coloro che si lagnano per danno personale derivato loro dal nuovo ordine, sono dall'interesse privato spinti a maledire il nuovo ordine; ma esso avendo giovato in genere a quell'insieme d'interessi e di persone che dicesi città di Napoli; questa non ha ragione di imitarli.

La seconda, che i mali o i danni che accompagnarono il mutamento, o derivarono da' suoi medesimi effetti benefici, ovvero quelli che consistono nel non essersi ancora saputo o voluto fare tutto ciò che si sarebbe potuto e, se pur vi piace, dovuto fare,

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per ajutare e favorire lo svolgimento della vita novella, provano che le lagnanze mosse per essi sono vere, sono giuste ed hanno ragione di vedersi accolte per quanto è possibile; ma non valgono punto a farne inferire che il vecchio stato di cose, facendoli evitare, sarebbe stato preferibile. Dacché se questo avesse continuato, non si sarebbero avverati quegli altri molti e benefici effetti, i quali hanno nel loro insieme vantaggiato le condizioni della città.

La terza è che di Napoli, come d'ogni altra città e di ogni altra contrada d'Italia, ed in genere del mondo, non si misura il benessere e l'avanzamento civile ed economico co' criterii artificiali di essere o non essere centro o capo di regione, e di avere al suo governo un ufficiale più alto o più basso e altre simili vanità, alle quali mette importanza una gente che ha certe abitudini e certi pregiudizii rispettabili, ma che non sono destinati a prevalere nel mondo. Invece la prosperità e la civiltà si argomentano da altre prove, e si attestano con altri fatti, che ne sono l'indizio e la misura. Quando questi indizii sono accertati, si può aver ragione a deplorare la perdita o la distruzione di quel che fu; ma il mondo nuovo non può tardare a far plauso a quello ch'è. S'è visto già in tante cose: si vedrà anche in questa.

E però d'ora innanzi basterà al mio assunto provare come in Napoli, dopo il 1860, si sieno avuti, nel triplice ordine economico, sociale e civile, de' risultamenti che non si sarebbero altrimenti ottenuti, i quali provano un progresso ed un miglioramento tale, che qualunque sia la verità de' danni e de' maleficii lamentati, questi restano nella proporzione di fatti speciali, ed in ogni modo inefficaci non che a vincere, neppure a bilanciare la maggior parte de' beneficii ottenuti, che pur sono la menoma parte di quelli che si preparano alla generazione che ci segue.


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IV.

La popolazione è il fatto statistico più comprensivo di tutti.

Il suo aumento non pertanto dev'essere commentato, per acquistare una significazione.

Ma senza essere né economista né statista di gran forza, si comprende facilmente che se in una città non si è punto contratto l'abito di vivere più miseramente di prima, il progresso della popolazione è prova di accrescimento d'agiatezza.

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Le sottili analisi sono a tal riguardo soperchie.

Nel 1849 la popolazione stabile era in Napoli di 430,549 abitanti: dopo dieci anni montava a 465,1527. Non parlo della mobile, perché fa meno al caso; questa nel 1869 era di 128,453 anime, che unite alla popolazione stabile, danno la considerevole somma di 593,980 abitanti.

Anche questa parte mobile è enormemente accresciuta, non ostante l'artificiale attrattiva che offrir doveva la capitale alle sue Provincie, ed il richiamo degli affari al centro del governo. In una statistica compilata dall'Officio del Censo annesso alla Polizia generale, leggo che questa popolazione mobile era nel 1845 di circa 32 mila anime; cioè di appena un quarto dell'attuale.

Ma lasciando stare questa parte, che si lega meglio ad altri fatti economici, è notevole che la popolazione stabile, dopo l'unificazione si accrebbe di 28,978 abitanti, nel corso di 9 anni.

Se l'unificazione avesse fatta scadere realmente quell'antica capitale, la popolazione non sarebbe aumentata. Leggete le storie, viaggiate per l'Italia, e troverete esempii di decadenze di città per grandi fatti economici o politici del tempo andato. Non ve n' è un solo di decadenza che non abbia lasciato le sue tracce ne' ruderi di antiche abitazioni diventate deserte per scemata popolazione. Dove questa aumenta, dite pure che il disagio della mutazione ha potuto facilmente essere avvertito da molti, ma che non ne ha punto sofferto l'intera città: anzi il progresso d'una popolazione, non ostante il disagio inevitabile di molti, prova in modo positivo che questo è di gran lunga superato da un aumento di prosperità comune al maggior numero.

Ma intendiamoci bene. Una città può diventar più prospera, in parte per aumento effettivo, e dirò quantitativo di prosperità, ed in parte per aumento qualitativo di essa prosperità. Quest'ultimo è di ordinario l'effetto di riforme o di provvedimenti i quali pe' mezzi adoperati o per altre ragioni sogliono riuscire penosi a molti di coloro medesimi cui giovano, ad eccitare in altri o la cupidigia di avanzamenti maggiori o la stanchezza de' presenti ottenuti in modo troppo repentino, le quali cose sono quasi sempre fastidiose, e non pertanto sono segno di progresso. D'onde un convocio di lagnanze prodotte per lo appunto dallo star meglio e di questi e di quelli.

Per esempio, le presenti imposte, per ciò che concerne il ceto alto e medio, sottraggono a' cresciuti guadagni una parte che

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nel confronto del passato è molto maggiore di quella che le precedenti toglievano a' guadagni minori, ma relativamente meno aggravati. Queste imposte però, sieno statuali o comunali, come proveremo in seguito, servirono in gran parte ad accrescere per mezzo di opere e d'istituzioni pubbliche il benessere nel popolo più minuto. Le classi più agiate e le meno si giovarono del nuovo stato di cose. Le prime col più che spesero, acquistarono beni morali e politici dalla libertà, che sono una parte da esse maggiormente avvertita e stimata del loro benessere: ed accrebbero anche le fonti di que' guadagni co' quali fecero fronte alle maggiori spese. Le altre addormentate dal dispotismo ed oppresse dalla ignoranza, cominciarono a pena a destarsi a nuova vita; ma sono nella condizione in cui è posto un membro intorpidito quando comincia a riacquistare col movimento il senso leggermente doloroso di sé medesimo.

Così queste come quelle si lagnano, cosi le une come le altre nella vivacità del loro sentire presente vagheggiando la immagine del passato corrotta dalla memoria, credono, senza molto rifletterci, che poteva diventar accettabile con poche mende, e che il meglio sia proprio in fatto nemico di quel bene vago ed indefinito di cui hanno indistinta e spesso illusoria coscienza. Ma sono velleità che si dileguano appena che sottentra la calma e la riflessione.

Nel 13j7, esule dal mio paese nativo, e tra mille timori e mille speranze scrissi un libercolo, mentre ero a villeggiare sulle sponde del Lago maggiore. In quel libercolo tra le altre cose scrissi queste profetiche parole: «Se fossero chiamati tutti gl'Italiani a comizio per eleggere tra il governo sardo co' suoi debiti e le sue imposte o il napolitano, non dirò già con minori debiti e con minori imposte, ma senza imposte e senza debiti, non credo che sarebbe dubbio per alcuno il risultamento del suffragio. Gli altri governi italiani il negheranno: ma il miglior mezzo di smentirmi sarebbe il farne la prova.» 1

Il governo napolitano si sentì ferire nel cuore. Per sei mesi continui su' giornali soporiferi che allora si pubblicavano nel regno, fece combattermi, e non sempre con armi cortesi. In quelli ed in libri separati fece levare a cielo la beatitudine che i suoi governati godevano. Un tale, diventato più tardi articolista di un giornale repubblicano, pose più specialmente in canzone le parole qui sopra trascritte, e lepidamente mi sfidava alla prova.

1 I bilanci del regno di Napoli e degli Stati sardi.

455

Passavano appena trenta mesi e la prova era fatta.

Que' napolitani che si dicevan beati, mi dettero ragione; e preferirono il governo che loro si dipingeva come più dispendioso e più pesante.

E bene, non ostante le querimonie di molti, le quali spaventano talvolta anche i più disinteressati e i più esperti, ancora oggi affermo con la persuasione medesima, che la popolazione napolitana presa in massa, se avesse a riflettere una intera giornata per quindi scegliere tra il presente ed il passato, spenderebbe ventitrè ore a lagnarsi del presente, ed alla ventiquattresima voterebbe contro il passato.

I molti perché li vedremo meglio in seguito. Ma qui ho voluto in sulle prime esprimere quel mio convincimento; perché spiccia ad un tratto, senz'analisi minuta e con la spontaneità propria del sentimento da certi risultamenti complessi e generali del nuovo ordine di cose, tra' quali è questo dell'aumento di popolazione.

E notisi che si avverava in un decennio nel quale la epidemia colerica ha tre volte travagliata la città. 1

Uno de' più moderati e de' più intelligenti amici del passato mi diceva non ha guari, quando io richiamava la di lui attenzione su questo, e molti altri notevoli avanzamenti di quella grandiosa città: «E chi vi dice che anche senza la mutazione dello Stato non sarebbe avvenuto il medesimo?»

Questo è il vieto argomento di coloro che negano la medicina. «Chi vi assicura, dicono essi, che il malato non sarebbe guarito anche senza il medico?»

Il più strano è che, siccome questi ultimi, quando il malato muore, ne dan colpa al medico; cosi i primi non ristanno dallo incolpare il nuovo ordine di cose di qualunque danno o magagna venga lor fatto di notare. Il bene è il prodotto del tempo, il male è il prodotto dell'unità. Con un chi sa! dimostrano il primo assunto; con un'affermazione tengono per dimostrato il secondo.

Volta per volta, e senza molti ragionari, cercherò di far uscire dal riscontro dei numeri o dal raffronto de' fatti, qualche lampo che rischiari il buio lasciato nella mente de' più da quel chi sa! malizioso e da quell'affermazione appassionata.

Innanzi tutto, credete che Napoli borbonica senza sconcertare i cortigiani, né spostare gl'impiegati; né restringere il campo

1 Circa 3 mesi nel 1865. Sei mesi nel 1866, e quattro nel 1867.

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a certi mestatori, per aprirlo sventuratamente a certi altri, avrebbe, verbigrazia, avuto in questi nove o dieci anni i suoi circa 30 mila abitanti di aumento?

Voi vi stringete nelle spalle e profferite quel tale: chi sa! State attenti.

Nel principio del 1859 Napoli aveva la popolazione stabile di 436,349 abitanti.

Dalla pubblicazione fatta dall'officio del Censimento, che ho più sopra citato, raccolgo che nel 1845 quella popolazione era di 412,330.

In 14 anni dunque la popolazione aumentò di 24,219 anime: cioè in ragione del 5, 87 per cento sulla cifra del 1845.

Dal 1859 invece al 1868, vale a dire in soli nove anni, è venuta crescendo di 28,978, cioè in ragione del 6, 63 per cento sulla cifra del 1859.

Tenendo ragione della differenza de' due periodi di tempo, e considerando che prima del 1859 aumentò in 14 anni del 5,87 per cento, e dopo aumentò in soli 9 anni del 6, 63 per cento, si scorge che nel secondo caso, non ostante le tre epidemie, l'accrescimento fu molto più rapido e più notevole. La Capitale borbonica, sotto questo rispetto, come sotto altri molti camminava assai più lentamente della città del nuovo Stato. Volete supporre forse che rimanendo qual era avrebbe proprio gettato via le grucce e si sarebbe spontaneamente posta a correre dal 1860 in poi, ancorché non fosse avvenuto il gran mutamento che avvenne? Questo è pretender troppo.

Alcuni pretendono invece che più di mille famiglie si sieno venute ricoverando in Napoli per fuggire il brigantaggio; e presentano quasi questo aumento di popolazione come effetto simile a quello che produsse la fondazione di Venezia. La fuga dei popoli superstiti dinanzi alla distruzione dei barbari.

Certo il brigantaggio è un male enorme. Ma la critica di questo male non è stata ancora fatta. Essa scoprirebbe più piaghe del passato, che ferite presenti. Ma lasciamo stare questo tasto per ora.

La gente che avendone i mezzi ha potuto per codesta ragione ricoverare in Napoli temporaneamente, è tra la popolazione mobile, della quale non ho tenuto ragione. Quella parte che potuto compenetrar si nella stabile è cosi poca cosa, che ne' grandi confronti può essere trascurata. Anche mille famiglie non arrivano a cinquemila individui. La qual somma non sarebbe un gran che.

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Certo è che l'aumento della popolazione stabile diventò più rapido dopo il grande mutamento di Stato, a prescindere da temporanee ragioni. Cotesto aumento non fu accompagnato a segni manifesti di desolazione o miseria; come sarebbe stato se fosse avvenuto in parte considerevole per effetto di violenta cauzione. Esso fu dunque l'effetto di crescente prosperità che solo produce in modo permanente e stabile simigliante fenomeno.

Questa è illazione che dirò sommaria d' un primo fatto statistico.

Ma due o tre altre informazioni della stessa specie ne forniranno una prova più immediata e diretta.

Vedremo in seguito poi quali sono i principali fatti elementari che più specialmente spiegano la nuova vita nazionale in Napoli, e ne fanno prevedere il suo prossimo e maggiore sviluppo.

V.

Napoli aveva il più gran porto dell'antico regno continentale.

Pare proprio a prima giunta che perduto l'essere di Capitale, e di centro quasi necessario del movimento commerciale del regno, il suo porto avesse avuto a risentirne danno; e rimanere deserto.

Vedete invece, cosa meravigliosa a dire, come quasi per incanto si avverò il contrario.

In un prezioso e voluminoso documento ufficiale pubblicato nel 1860, si legge uno specchio delle importazioni relative al porto della città di Napoli dal 1853 al 1858 inclusivamente.

Risulta da questo documento che la media della importazione dall'estero pel quinquennio, montò a tanti ducati, quanti corrispondono a lire 76 milioni e 597 mila allo incirca.

Oggi, nel 1869, questa importazione nel porto di Napoli fu di nientemeno che 146 milioni e 407 mila lire incirca: e nell'anno precedente fu minore di un paio di centinaia di mila lire.

E notisi che l'unificazione d'Italia avendo fatto diventare parti del medesimo Stato le varie provincie che formavano Stati distinti; nella importazione del 1869 non è compresa quella parte

1 Relazione comparativa della gestione finanziaria del 1859, per le province napolitane.

Questa notizia ufficiale mi è stata somministrata dalla Direzione generale delle Gabelle. Le cifre precise sono pel 1808 lire 146,189,000, e pel 1869 lire 146,407,340.

Vol. XIV. - Luglio 1870. 31

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relativa alla provenienza di codesti Stati cessati, che pure è compresa nella importazione precedente.

Che se ne fa di codesta roba?

Dicono i queruli che le provincie dell'antico regno non si provvedono più tutte da Napoli: tanto meglio, se ciò non ostante ci entra tanta roba di più; perciocché si ha il vantaggio di quelle se trovano a provvedersi altrove, ed il meglio di Napoli.

Sia che se ne consumi di più dentro, sia che se ne spacci di più d'attorno, il fatto sta che quel movimento accresciuto è prova di maggiore agiatezza e di maggiori lucri. Non dico già che in ogni genere ed in ogni specie il movimento sia accresciuto. Può essere che per alcuni rami di commercio sia scemato, per qualcuno spento del tutto. Ciò non monta quanto al movimento in genere; e riman sempre vero che quando in un porto il movimento raddoppia, non si può mica supporre che la città stia a vedere soltanto, e non ci guadagni.

Ed anche su quest'altro punto non sarà discaro un po' di raffronto con parecchi anni precedenti al 1859.

Estraggo dal solito antico documento ufficiale il movimento del porto di Napoli del 1845. Esso fu per la importazione dall'estero di tanti ducati quanti uguagliano 79 milioni e 361 mila lire e poche centinaia: cioè tre milioni di più della media dal 1853 al 1858.

Può dunque affermarsi che in questa tanto rilevante materia non vi fu quasi variazione notevole, e non vi fu progresso in 14 anni, cioè dal 1845 al 1859, e vi è stato un raddoppiamento di attività in 10 anni, cioè dal 1859 al 1869.

Questo rapido incremento per l'indole speciale del subbietto è più che qualunque altro strettamente connesso all'unificazione delle varie parti d'Italia in un grande Stato, come è tutto quello che si riferisce a traffichi e commercii, che occasionano quel movimento generale di cui l'importazione è una parte. E qui è d' uopo d'un tantino di critica statistica. Ho preso la media della importazione nel porto di Napoli dal 1853 al 1858; ma in questo ultimo anno l'importazione giunse a 21,711,646 ducati, cioè, a più di tre milioni di ducati in più della media.

È vero: ma oltre che fu un anno di eccezionale affluenza, ho già notato che io non ho tenuto conto che nella importazione di quegli anni era la parte giunta di Toscana e di Sardegna, allora Stati esteri, la quale pure fu nel 1858 di 1,799,159 ducati. Né ho tenuta ragione dell'altra parte che si riferisce alle provincie pontificie,


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ed austriache ora diventate italiane. L'importazione che nel 1858 fu fatta dagli Stati pontificii e dall'Austria fu di 2,065,823 ducati.

Su per giù dunque può affermarsi che nel 1858 la importazione veramente paragonabile a quella del 1869, quantunque eccezionalmente alta, non superò quella da me presa a termine di confronto, senza diffalco.

E quanto al raffronto col 1845, regge meglio la media: e se anche si volessero aggiungervi i tre milioni di ducati superanti essa media per la importazione del 1858, ossieno circa 13 milioni di lire; l'incremento del 1858, rispetto al 1845, sarebbe di soli 10 milioni di lire in 14 anni; mentre che, tenendo da una parte ragione di codesto aumento, e dall'altra sottraendo la parte d'importazione che da estera diventò nazionale, si avrebbe dopo il 1859. ed in meno di un decennio, un aumento annuale di circa settanta milioni di lire.

Non ho parlato della esportazione per l'estero, fatta dal porto di Napoli; e ne dirò il perché.

In apparenza sarebbe diminuita confrontando la media del quinquennio precedente al 1859 con quella del 1869: e diminuita di 14 milioni ed 892 mila lire. Ho detto in apparenza: perché nel citato documento trovo registrato che l'esportazione pe' luoghi sopra indicati, i quali hanno cessato per intero, come Sardegna e Toscana, di essere Stati esteri, o in parte come lo Stato romano e l'austriaco, monta a nientemeno che 18 milioni e 530 mila lire, che dovrebbero per ciò essere almeno in massima parte tolti dal conto.

Stando a questa sola sottrazione può dunque affermarsi che la diminuzione non esiste.

Ma oltre di ciò si ha un altro fatto notevole, ed è che in Napoli nel 1823 fu abolita la scala franca, e si tolse del tutto il diritto di riesportare in franchigia le merci che portate nel regno non trovavano da esservi collocate.

Di modo che per poca che fosse la parte delle merci entrate la quale, non trovando da venderla, era necessità riesportare, questa veniva ad ingrossare la esportazione. Perciocché il governo napolitano, maestro di simulazione, soleva spesso dare alle cose un nome che illudeva: e chiamava quindi deposito della gran dogana, quello delle merci,

1 Vedi, come sopra, Relazione comparativa della gestione finanziaria del 1859, pag. 69.

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sul quale concedeva che il pagamento del dazio fosse fatto mediante cambiali che la Cassa di sconto, governativa ancor essa, scontava; ma non aveva un vero deposito commerciale nel senso dell'entrepót francese.

Infine, io credo che essendo oggi scevre da dazio quasi tutte le merci alla esportazione; la statistica per questa parte, non avendo più il riscontro accurato del peso, del numero e del valore nello interesse della dogana, è assai meno meritevole di fede.

In ogni modo sta che la somma in complesso del movimento commerciale con l'estero è notevolmente cresciuta. E ciò importa assai più in genere per coloro che sanno come le pretese bilance commerciali valgano poco: e per Napoli soprattutto non vale codesta bilancia, perciocché le cose esportate, in massima parte, non sono punto prodotte dalla città.

Ed è pure da osservare che buona quantità di merci, la quale spedivasi prima direttamente per l'estero, ora se le si offre l'occasione di toccar prima un porto dello Stato, allora estero, per quindi cercare spaccio presso lo straniero, facilmente piglia questa via indiretta che la fa uscire dalla categoria di esportazione doganale, ma che non cessa pertanto di essere una esportazione commerciale dal porto, sebbene non sia esportazione commerciale dal Regno.

E per questa e per molte altre ragioni il concetto del vero movimento marittimo della città non può formarsi altrimenti che unendo a questa prima parte relativa alle merci anche quella relativa alle navi, non tanto pel numero quanto pel tonnellaggio loro, cosi per la navigazione che dicesi generale, come per quella speciale di cabotaggio.

Ho con molta fatica raccolti e criticati i documenti imperfetti che si hanno relativamente al tempo del cessato governo: e per procedere a raffronti sicuri, ho prescelto i più autentici.

Da uno specchio pubblicato nel volume più volte citato 1 apparisce che dal 1853 al 1859 il movimento della navigazione in tutti i porti delle provincie continentali, fu in media di 5631 legni entrati, con 401,175 tonnellate, e 5328 usciti con 407,357 tonnellate.

Vale a dire un movimento di 10,956 legni e 808,532 tonnellate.

In questo movimento, siccome apparisce da un altro specchietto stampato in detto volume, è compreso anche il movimento della navigazione con la Sicilia.

1 Relazione Comparativa della gestione finanziaria, pag. 76.

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Nella media sono tre anni scarsi, e tre anni di maggior movimento; i quali ultimi sono il 1854-56-58. Sostituiscasi ora alla media il movimento di uno di codesti anni e sia quello del 1858, che fu di 11,823 legni e 877,069 tonnellate.

Si ha questa cifra pel movimento di tutti i porti dell'antico regno continentale, per la navigazione con l'estero, che allora comprendeva gli altri Stati italiani, e per quella con la Sicilia.

Nel 1868 il movimento del solo porto di Napoli è di 1,358,667 tonnellate. In questo, è vero, è compreso il cabotaggio: ma si rifletta che la maggior parte di esso è composta dalla navigazione con la Sicilia e co' porti di quelle provincie che si consideravano come estere nel 1859.

Questo già fa presentire quanto debba esser grande l'aumento.

Ed è pur grande la diminuzione contemporanea del numero de' bastimenti, i quali sono 8,633 in confronto di 1,358,667 tonnellate, invece di 11,822 in confronto di 877,069. Coloro che s'intendono di queste materie sanno come non vi è indizio più diretto e più notevole di questo per provare il vero progresso della marina.

Ma trovo un altro documento ufficiale, e ne debbo l'indicazione alla cortesia dello Ufficio di statistica. Gli annali civili delle due Sicilie, pubblicazione che facevasi in Napoli per cura del governo, riportano uno specchio del movimento della navigazione nel porlo di Napoli, del 1852.1 Da esso risulta che fu per quell'anno di 7,408 navi e di 811,521 tonnellate, compresa la navigazione generale e quella di cabotaggio. È pure specificato il movimento del cabotaggio e quello della navigazione con l'estero: quest'ultimo è di 286,870 tonnellate, depurandolo della parte che rappresenta il movimento tra le provincie oggi diventate nazionali; e l'altro, accresciuto di altrettanto, è di 524,651 tonnellate.

Dal 1853 al 1858 non vi fu notevole sviluppo di navigazione nell'antico regno, siccome è provato dallo specchietto più sopra ricordato, e compreso nella Relazione già menzionata: sul quale risulta che la media di que' sei anni corrisponde al movimento del 1853 aumentato del 5 per cento.

Ond'è che ammettendo quello autentico del 1852 pel porto di Napoli, come poco discosto dal movimento medio precedente al 1859 si ha che questo può ritenersi per circa 300 mila tonnellate

1 Volume del 1853, pag. 185 a 194.

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relativamente alla navigazione generale, e per circa 550 mila relativamente al cabotaggio. 1

Ma nel 1868 quello della navigazione generale era già di 632,16-2 tonnellate, cioè più che raddoppiato, e quello del cabotaggio era di 726,505, cioè cresciuto della metà più di quello che non era.

Questi due grossi fatti, l'aumento della popolazione, accelerato dopo il 1849, anziché arrestato nella città di Napoli; ed il movimento di merci e di navi fatto due o tre volte maggiore, dicono già molto da per sé.

I numeri che rappresentano codesti due dati statistici sono poco acconci a servir di misura alla decadenza deplorata da' gufi del passato, a' quali si compiacciono di far bordone le cicale dell'avvenire.

Ma saran forse due scherzi della Fortuna; due frutti cavati per caso dal suo cornucopio scosso dal violento mutamento di Stato?

Che non sia così risulterà chiaro dall'armonia di altri fatti e di altri numeri, più particolari ma non meno eloquenti: i quali attesteranno che in fatto di progresso nulla avviene per caso, nulla è sconnesso e nulla arbitrario. 2

1 Sarebbe il movimento del 1852, aumentato del 5 %.

2 Nel seguito mi gioverò più specialmente di molte informazioni e di molti dati statistici raccolti a mia preghiera e cortesemente fornitimi dall'Amministrazione municipale di Napoli; la quale, effetto pur essa del mutato ordine di cose, ha influito non poco a migliorare la città ed a preparare il suo intero rinnovamento per la generazione avvenire. Essa però, del pari che il governo, non sfugge a molti ed anche giusti rimproveri: ma che per ciò - Chi non fa non falla - dice il proverbio. Ma il proverbio non dice che pertanto valga meglio astenersi dal fare.

SCIALOJA.

(Continua)

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NUOVA ANTOLOGIA - Vol. V. -Firenze, Dicembre 1870 - Pag. 787

LA CITTÀ DI NAPOLI

IL SUO PASSATO ED IL SUO PRESENTE.

VI.

L'argomento post hoc, ergo propter hoc suol essere il fondamento di molti raziocinii che si fanno intorno alla statistica; i quali perciò sono talvolta incompleti o falsi, e sempre incerti, se una critica d'ordine più elevato non viene a confortarli.

Nulladimeno quando fatti sociali ed economici, svariati ma congeneri, tengono contemporaneamente dietro ad uno di quei grandi avvenimenti che per la indole loro e per la loro grande importanza hanno attenenza a tutti gli elementi costitutivi della società, ben si può affermare, senza tema d'errore, che da cotesto avvenimento presero origine ovvero ebbero occasione que' fatti, sicché tutti direttamente o indirettamente da esso derivano.

Il mutamento di Stato che si è verificato a' tempi nostri nella intera Italia, non è soltanto un mutamento di forma del governo; ma una vera trasmutazione intima e sostanziale della sua civile esistenza; simile a quelle che avvengono chimicamente ne' corpi, allorché, per forza di affinità, varii elementi si uniscono tra loro per comporre una materia, che ha indole e qualità del tutto diverse da quelle che avevano le sostanze elementari, quando erano disgregate tra loro o variamente commiste con altre.

L'unirsi delle varie parti d'Italia, ciascuna delle quali era a suo modo ordinata, ha dato origine ad una vera creazione novella: a quella cioè, d'una nazione che si è splendidamente affermata mediante l'unità dello Stato; e che perciò appunto è uri corpo in cui è mutato in una sola volta l'essere e l'organismo, la vita e i suoi strumenti, lo spirito e le sue forme estrinseche.

1 Vedi il fascicolo di luglio 1870, Vol. XIV, pag. 441.

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Simili mutamenti alterano sostanzialmente anche quello che in apparenza lasciano intatto: la qual cosa non intendono coloro che rimpiangono certe consuetudini, certe leggi e certi ordini del vecchio reggimento. Le une e gli altri facevano buona prova, e rispondevano al fine loro, quando funzionavano in un diverso ambiente, e quando l'azione loro si accordava con quella di tutti gli altri elementi costitutivi dell'organismo politico del tempo loro.

Le varie provincie diventando membra di un nuovo corpo, parteciparono ad una nuova vita, ad un nuovo essere, e le leggi e gl'istituti loro propri, per lo meno i più importanti, sarebbero stati trasmutati, ancorché non fossero stati trasformati. Essi non avrebbero di antico altro che il nome; sebbene con sentimento inverso di quello che prova il corpo umano, quando perde un membro, il quale pare che continui ad appartenergli, anche dopo che ne fu staccato, le varie provincie italiane, per abito non ancora smesso continuassero quasi a credersi viventi da per loro, anche dopo che entrarono a comporre, come elementi varii ed affini, un tutto essenzialmente uno, un sol corpo dotato d' una sola vita e d'un solo spirito.

Tutto che dunque si attiene alla vita ed agli organi del nuovo Stato, è rinnovato o in via di rinnovazione: sicché i risultamenti di questo immenso avvenimento si rivelano così nel tutto come nelle sue parti: così nello Stato come nelle cento città che lo compongono e che tutte si rinnovarono in tutto. E per vero le città principalmente, come centri di vita, avvertono gli effetti di simili rinnovazioni politiche e sociali.

I fatti statistici che seguono codesto grande e sostanziale rinnovamento nell'ordine economico, politico e civile, sono senza dubbio originati da esso; anzi i più notevoli quando non sieno pochi, sconnessi ed accidentali, sono una parte integrale del rinnovamento medesimo. Cosi, a cagion d'esempio, abbiamo già notato che dopo il 18G0 la popolazione di Napoli si accrebbe assai più celeremente di prima, e che il movimento delle navi nel suo porto, e quello delle merci triplicò: ecco due risultamenti, che dirò naturali, delle funzioni economiche della nuova vita sociale.

Ma perché ognuno possa convenire che sieno realmente tali, è necessario che si provino concordi e contemporanei effetti in tutti i fatti congeneri, cioè in tutti i fatti economici di generale importanza:

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e variazioni sincrone, e non rispondenti allo andamento precedente de' fatti medesimi. Tali sono, fra gli altri, il risparmio ed il credito nell'ordine economico; e perché tratto specialmente di Napoli città, cioè, d' un centro che può dirsi più di consumazione che di produzione, dirò che sono tra' principali fatti economici tutti quelli che provano in modo generale e concorde il più agiato vivere del maggior numero. La quale agiatezza suol essere accompagnata al suo contrapposto, che nel tempo stesso è suo complemento, cioè il vivere a più caro prezzo.

VII.

Un primo momento del capitale è l'accumulo, un secondo è l'impiego produttivo de' valori accumulati.

L'accumulo presuppone il risparmio, il quale dal canto suo presuppone la possibilità di sottrarre una parte dell'entrata alla consumazione quotidiana richiesta da' bisogni ordinarli della vita.

Questa possibilità è prova d'agiatezza incipiente, che il risparmio tende ad accrescere, e che lo accumulo ed il capitale accrescono realmente.

Ha più del necessario cosi colui che risparmia la parte esuberante, come colui che la dissipa o che la gioca al lotto.

Se non che l'uomo che gioca al lotto è piuttosto intollerante risparmiatore che vero dissipatore. Egli è smanioso di acquistare un capitale; ma invece di accumulare piccole somme risparmiate, avventura i suoi risparmii con la speranza di raggiungere in un giorno ciò che potrebbe conseguire forse in parte soltanto nel lento corso di lunghi anni. Non è sempre cosi: talvolta gioca chi sta per naufragare nella miseria o per fallire, sperando di salvarsi. Ma queste sono eccezioni che spariscono nel numero grandissimo de' casi ordinarii.

Sicché le somme giocate, come le risparmiate hanno un medesimo presupposto; vale a dire la possibilità di risecare qualche cosa dalla consumazione quotidiana.

La quale possibilità cresce naturalmente col crescere dell'agiatezza. E che nella città di Napoli quella vada crescendo, è attestato da varii raffronti statistici.

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Nel 1858 e nel 1859 le poste al lotto nella città di Napoli furono di tanti ducati che corrispondono alla somma di 10,012,257 lire pel 1858, e di 11,680,708 pel 1859. 1

Nel 1868 e nel 1869 le somme giocate hanno un notevole aumento, massime nel secondo di questi due anni, confrontato all'ultimo del decennio precedente: essendo state nel 1868 di lire 11,399,748 e nel 1869 di lire 16,326,967. 2

La differenza tra l' uno e l'altro di questi due ultimi anni, è in gran parte spiegata da variazioni introdotte nelle giocate.

Difatti i regolamenti antichi relativi al lotto nel Napolitano furono in vigore sino a tutto il 1863. Secondo questi regolamenti il prezzo di ogni singolo biglietto poteva scendere sino a due grana, vale a dire, sino a centesimi 9 allo incirca.

Nel 1864 il prezzo minimo del biglietto fu elevato a 20 centesimi.

Nel 1866 fu portato a 40.

Queste riforme avrebbero potuto essere salutari, se avessero avuto per effetto lo scopo a cui miravano, cioè quello di allontanare dal giuoco le classi più povere, e sostituire per esse al botteghino del lotto la Cassa di Risparmio o quelle delle Società di Mutuo Soccorso.

Ma le abitudini di una generazione non si modificano facilmente. Ond'è che quando il popolino trovò impedimento ad avventurare all'alea del giuoco legale i pochi centesimi risecati alla sua consumazione, continuò a giuocare in contrabbando. I cosi detti gallinai, ossieno le imprese di giuoco clandestino, estesero di molto la loro occulta clientela.

E però il nessun aumento tra il 1859 ed il 1868 era più apparente che reale.

Col solo ritornare al regolamento del 1864, cioè, abbassando di metà il prezzo minimo del biglietto, il giuoco clandestino scemò a poco a poco; ed a capo al secondo anno il prodotto lordo del giuoco legale potè accrescersi di que' tanti milioni ch'erano con maggiore immoralità investiti in una impresa condannata dalle leggi e fatta con l'intento manifesto di commettere una frode al Governo, di arrecare danno morale ed economico alla popolazione, e di non pagare le vincite esorbitanti.

1 Relazione comparativa della gestione finanziaria, ecc.

2 Queste cifre sono estratte dagli Specchi ufficiali.

791

Il fatto sta che nel 1869 le somme giuocate legalmente superarono di 4,700,000 lire quelle giuocate nel 1859, con un deplorabile accrescimento del 40 per cento in dieci anni.

E quando si considera che questo aumento fu, per così dire, smascherato mediante l'abbassamento del prezzo minimo del biglietto da 40 a 20 centesimi, si può ben supporre ch'esso sarebbe stato molto maggiore, se si fosse ritornati all'antica tariffa di due grana, cioè, di poco più che 9 centesimi. E per vero non mancano indizii per credere che il giuoco clandestino, sebbene scemato, abbia tuttavia una certa importanza nella città di Napoli.

Tutto questo prova che l'abito virtuoso del risparmio non è diventato ancora comune in Napoli; il che non fa meraviglia, quando si pensa che le buone abitudini sono effetto della buona educazione, la quale può molto sulle generazioni avvenire, e presso che nulla sulla generazione presente. Oltre di che la condizione finanziaria del regno non permettendo l'abolizione del giuoco del lotto,-costringe lo Stato a tener vivo questo pernicioso seduttore della povera gente, il quale con la lusinga d'un arricchimento istantaneo fiacca lo spirito d'intrapresa, distoglie dal lavoro assiduo e pertinace, ch'è l'unica e sola fonte della pubblica e privata agiatezza, ed impedisce il risparmio, non tanto perché assorbe le somme risparmiate, quanto perché ne isterilisce le fonti che sono da una parte la solerzia e dall'altra la previdenza.

VIII.

Ma ciò non ostante essendosi dal nuovo Governo introdotto in Napoli quel che l'antico non volle mai, una Cassa di Risparmio, questa ha dal 9 febbraio 1863, giorno della sua istallazione sino al 30 settembre del 1870, cioè in poco più di sette anni e mezzo ricevuto 41,373,519 lire, che ingrossate degli interessi sulle somme non ritirate, montano a circa 42 milioni, de' quali sono stati di mano in mano rimborsati 38,146,633 lire.

Sventuratamente alla Cassa di Risparmio della città di Napoli accorre quasi più la classe che può dirsi media, che la infima. Lascio stare i primi due anni della sua istituzione: ma a cominciare dal 1866 si scorge un progressivo aumento nella media de' depositi: la quale in codesto anno fu di 177 lire per ogni deposito, e nel 1868 salì a 193, per montare nel 1870 a 269. Queste medie provano la mia affermazione.

792

Però il 30 settembre di questo anno 1870, i libretti rimasti in circolazione essendo 11,364, e le somme con gl'interessi capitalizzati, rimaste in deposito, montando a lire 3,688,147, la media del credito rappresentato da ogni libretto è di sole lire 325. Il che prova che una parte delle somme depositate, la quale certamente, non è molto considerevole, ma che pure ha una qualche importanza, appartiene a gente poco agiata e che vive del suo lavoro quotidiano.

In ogni modo può senza tema di errare affermarsi che una buona parte de' 16 milioni all'anno che oggi si spendono al giuoco del lotto, con l'aggiunta di altri milioni che l'accresciuto lavoro frutterebbe, se il giuoco cessasse, sarebbero impiegati nella Cassa di Risparmio o in altre istituzioni di previdenza; tra le quali non esito ad annoverare anche le Banche popolari bene ordinate, perché esse ajutano col credito il lavoro, e concorrono ad accrescere la possibilità del risparmio, e l'impiego riproduttivo dei piccoli accumuli.

IX.

Questa opinione oltre che per se medesima è tanto ragionevole che può tenersi come evidente, è pur provata dalla esperienza.

In effetto se si eccettui il 1866, che fu anno di guerra e di crisi, la sola annata in cui i rimborsi della Cassa di Risparmio superarono considerevolmente la somma di deposito, fu quella del 1869.' Codesta eccedenza fu di 1,038,730 lire, non ostante che nessuna causa perturbatrice della produzione e della circolazione siasi avverata in quell'anno altra che quella febbre di guadagno manifestamente aleatorio ed immorale delle banche-usura.

Nessuno ignora la triste storia di codeste banche, le quali attirarono a loro i risparmi della povera gente e gli accumuli di parecchi o illusi o furbi della classe più agiata, pagando col denaro degli uni interessi favolosi sulle somme depositate dagli altri.

È strana cosa, ma vera, che gl'illusi furono di gran lunga più numerosi dei furbi: ed io medesimo rammento aver incontrato parecchie persone, le quali sebbene d'ordinario siano savie e dotate

1 Anzi solo in quest'anno avvenne che i rimborsi superarono i depositi per un milione e 39 mila lire, essendo i primi montali a 7,101,641, ed i secondi a 6,062,891: mentre nel 1866, quelli sommarono a 4,048,161 e questi a 3,119,616, con una differenza di lire 937,545.

793

di giudizio retto e di onesto sentire, pure in quel tempo credevano che realmente qualche mirabile e nuova escogitazione si fosse trovata dai primi introduttori di quelle banche, per ottenere che il denaro producesse enormi profitti.

Certamente questa supposizione era per lo meno arrischiata; perché l'impiego produttivo del denaro suppone un commercio, un negozio, un'industria qualsiasi;1 anche quando la ipotesi di enormi guadagni si fosse voluta ammettere, bastava verificare che i famosi banchieri non impiegavano il loro denaro in alcuna nuova impresa, per esser sicuri del loro ciarlatanismo. E che non lo impiegassero se non in piccola parte in imprese ordinarie e poco lucrose, era noto a tutti: nulladimeno ciascuno andava fantasticando arcane spiegazioni; ed alcuni non si adoperavano a respingerle, solo' perché desideravano palliare la loro propria coscienza nel concorrere cogli altri ad alimentare quella frode audace e nello sperare di esser tra coloro che ne avrebbero approfittato, e non tra coloro che da ultimo erano destinati a far le spese degli altri.

Il che era in sostanza una vera alea, come quella che si corre giocando al lotto.

La sola differenza consisteva in ciò, che coloro i quali affidavano le loro somme alle banche-usura, erano allettati da speranza di minori guadagni; ma per comune opinione, reputavano immensamente minore il pericolo di perdere.

1 A questo proposito rammento che Senofonte, in uno de' suoi libri, nella Entrata dell'Attica, se mal non ricordo, propone agli Ateniesi una certa impresa mista di escavazione di miniere e di non so quali impieghi marittimi, che avrebbe renduto più del 20 ed anche più del cento per cento. Se mai Senofonte avesse accattato danaro per quelle sue disegnate imprese, avrebbe ben potuto senza malizia alcuna promettere ingenti frutti. Egli forse ingannavasi; ma il suo proponimento essendo noto, ci non sarebbe stato ingannatore.

È vero altresì che ci ha e ci sono stati a centinaia de' falsi Senofonti, cioè, de' progettisti truffatori, i quali illudendo i meno esperti, han fatto credere a lucri abbaglianti per cavar da loro o promesse di poste sociali, o somme vistose. La storia finanziaria inglese e americana, principalmente, offrono di simili esempii.

Ma almeno in questi casi la speranza di fare guadagni favolosi era effetto di una falsa estimazione della proficuità di certe imprese. Le banche usura di Napoli erano invece fondate sulla fede cieca de' mutuanti d' impieghi ignoti: vero risultato del connubio dell'ignoranza con la fantasia. Codesta fede quando si spande nelle moltitudini diventa una vera malattia popolare; una epidemia morale, dalla quale mal si difendono anche le più robuste intelligenze.


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794

Chi dà a mutuo, non impiega il suo capitale a fondo perduto come nel gioco, e gl'ignoranti, vedendo come i creduti accorti davano a mutuo il lor danaro a quelle banche, vi accorrevano con la certezza di non mettere a gran repentaglio il loro peculio.

Questa differenza, secondo me, spiega un fatto abbastanza curioso, quello cioè, di un aumento istantaneo nel prodotto lordo del lotto durante il secondo semestre del 1869. Difatti, nei primi sei mesi, questo prodotto fu di 7,330,483 lire, e nei secondi fu di 8,996,483, con un aumento di 1,666,001 ch'equivale a più del 22 ½, per cento sul prodotto del primo semestre.

Si giocò più alacremente con la lusinga di guadagnare una sommetta che poi le banche-usura (secondo la comune credenza) avrebbero con certezza in pochi anni decuplata.

Le banche-usura quindi distolsero dallo accumulo i risparmii, in modo non diverso da quello del gioco del lotto: e provarono nel tempo stesso che di accumuli ce n'era più che non credevasi; come ce ne ha d'inoperosi, i quali per essere convertiti in capitali, vale a dire in materia o strumento di produzione, altro non attendono se non di essere animati dallo spirito d'intrapresa, il quale non si risveglia se non quando entra negli animi la persuasione che il solo lavoro può accrescere la ricchezza, e che l'intelligente ardimento del commercio e dell'industria può solo offrire l' alea onorata di una grande fortuna.

X.

Tra' più utili risparmi della classe meno agiata sono da annoverare quelli che gli operai impiegano nelle società di mutuo soccorso.

Queste associazioni erano ignote alla città di Napoli: e sarebbero state vietate prima del 1860.

Ora ve ne ha alcune: la centrale operaia napolitana, quella dei sarti lavoranti, de' cappellai lavoranti e de' cocchieri padronati, ec.

La centrale è la più numerosa. Essa conta 700 membri. Le altre unite insieme non raggiungono il terzo di codesto numero.

In ogni modo, questo migliaio di uomini che vivono del lavoro delle braccia versa mensualmente nelle relative casse circa un migliaio di lire, essendo la contribuzione di ciascun socio tassata ad una lira per mese. È piccola certamente questa somma disputata alla bettola ed al lotto; ma se si considera che il precedente governo

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non solo impediva la formazione di simili società, ma coadiuvato in ciò dal clero in parte ignorante ed in parte impegnato malamente a sostenere il dispotismo, adoperavasi a spegnere ogni germe di quelle virtù morali che sono necessarie ad alimentare simili associazioni, non è punto da meravigliare se non si è finora fatto meglio e più che non siasi potuto fare.

Anzi a questo proposito dirò che è debito di buon cittadino onorare quegli operosi e bravi napolitani, che in parte usciti anch'essi dalla classe popolana, e fatti agiati per frutto di virtuoso ed assiduo lavoro hanno promosso associazioni popolari e si sforzano di preservarle dal soffio avvelenato de' partigiani politici, i quali abusando di cose sante, come sono la libertà e la patria, e diventando corruttori non meno perniciosi de' cattivi preti da loro avversati, vorrebbero giovarsi della facile credulità di gente che vive stentando, per farne zimbello a' loro ambiziosi e non sempre onesti disegni.

Ho detto che 12 migliaia di lire all'anno a fronte di milioni arrischiati al gioco sono povera cosa. Ma anche quando la somma di queste contribuzioni fosse dieci volte maggiore, non sarebbe utile accrescere di molto il numero delle casse di mutuo soccorso: perciocché il gran numero di queste casse non giova alla loro buona riuscita. Vi ha certe esigenze speciali, che giustificano certe distinzioni; e però certe diversità negli statuti di alcune associazioni, le quali non possono per conseguenza esser confuse tra loro. Ma quando si può con qualche transazione allargare il numero de' socii ed avere una cassa comune, le istituzioni di mutuo soccorso possono con sicurezza attendere a parecchie operazioni utili, che rendonsi o pericolose o impossibili quando il numero degli associati è scarso.

Le pensioni per la vecchiaia, a cagion di esempio, diventano un vero gioco, se il numero de' contribuenti non è grande abbastanza per sottrarre ad eventualità puramente aleatorie l'amministrazione del capitale che deve rispondere a codesto servizio. E lo stesso può dirsi de' soccorsi per malattie o per accidenti; ovvero anche de' piccoli mutui e di altre simili operazioni che possono con profitto de' socii essere innestate su quelle più immediatamente proprie di una cassa di mutuo soccorso.

E stato quindi avveduto consiglio quello d'istituire un' associazione centrale nella città di Napoli: la quale, per quanto io ne sappia, ha pure una banca cooperativa: la quale io spero che faccia buona prova,

796

ed incoraggi in quella città che ancora si risente del torpore del dispotismo, molte altre istituzioni dello stesso genere.

Il che non si otterrà, se la gente onesta non riesce a fare entrare nel convincimento dell'universale che sono meritevoli di pubblica onoranza, non coloro che consumano il loro tempo a maledire o criticare, ma coloro che si sforzano di fare; anche quando i primi abbian ragione ed i secondi s'ingannino. Perciocché nel mondo operativo non si riesce ciarlando e riciarlando, ma provando e riprovando, secondo la bella ed efficace epigrafe dell'Accademia del Cimento.

XI.

Ritornando ora alle cifre, continuo dicendo che oltre del lotto e della cassa di risparmio, anche le società di mutuo soccorso fanno testimonianza che in Napoli la possibilità del risparmio è in via di progresso, non cosi rapido, come sarebbe a desiderare, ma al certo notevole.

E poiché ho detto molto male del gioco del lotto, del che non mi pento; e poiché nel maledirlo ho quasi dimenticato che io ne faceva menzione per uno scopo determinato e speciale, aggiungerò pure, che sotto l'aspetto dal quale io lo avviso presentemente, può affermarsi che il giuoco del lotto equivalga a due cose in una; cioè, al pagamento d' una imposta e ad una specie di tontina. Difatto, de' 16 milioni che si giocano in Napoli poniamo che una metà sia guadagnata, e l'altra vada allo Stato; questa è certo una imposta pagata volontariamente da' giocatori; e l' altra è una somma composta della metà di tutte le poste, e distribuita a pochi vincitori. Costoro quindi acquistano la metà della somma risparmiata da tutti coloro che giocarono nell'anno. Sicché a rigore non può dirsi che il lotto sia la dissipazione della somma risparmiata. In realtà esso nuoce più al lavoro ed alla previdenza che al risparmio ed allo accumulo, più alla sorgente che al rivolo.

Nè reputo dissipata la parte che va allo Stato sotto fqrma d'imposta. In sostanza se il lotto non fosse, egual somma avrebbe a pagarsi da altri. Questa sarebbe forse altrimenti distribuita fra' contribuenti; ma rappresenterebbe in ogni caso una parte dell'entrata sottratta all'accumulo privato.

797

XII.

Ed a questo proposito delle imposte, è pur notevole che, mentre nelle classi meno elevate si vede in Napoli resa più generale quella condizione di cose per la quale chi lavora può, senza soffrir la miseria, sottrarre alla consumazione quotidiana una parte della sua entrata; si vedono altresì accresciute notevolmente le imposte, le quali, in ultima analisi, sono una spesa, e perciò sono o una parte della entrata di chi le paga, o una parte di que' valori che sono destinati ad essere distribuiti a più individui sotto forma di entrate, sicché nell'uno e nell'altro caso assottigliano l'entrata.

Non istarò a ricordare gli aumenti delle imposte dello Stato, che pur sono considerevoli molto. Mi basterà soltanto confrontare la media dell'entrate comunali prima e dopo il 1860.

La Comunità di Napoli sotto il cessato governo faceva un quinquennale stato di previsione, che allora chiamavasi stato discusso, ed oggi bilancio. Questo metodo di prevedere le spese e le entrate per un intero lustro basterebbe da sé solo ad attestare quanto fosse fondata la proverbiale immobilità delle condizioni economiche della città di Napoli. Cinque anni nell'età nostra sono mezzo secolo delle età passate: ma cinque anni pel governo borbonico erano come un giorno rispetto al progresso civile, che sotto tutte le sue forme gli faceva spavento.

Nel bilancio dal 1853 al 1857, la cui gestione fu l'ultima esaurita per intero, sotto il caduto reggimento, l'entrate montavano ad 11,645,710 lire; e nel quinquennio dal 1865 al 1869 sommarono 98,550,752. Ed a differenza del primo di codesti due periodi, nel quale le entrate avevano una misura costante, quella cioè di 2,329,142 lire all'anno, il secondo segna un continuo aumento: da 12 a 28 milioni.1

Quest'aumento di circa 26 milioni dev'essere, mi pare scemato d' una parte, e per lo meno di quella che rappresenta il canone dovuto al governo pel dazio di consumo; il quale dazio era, sotto il cessato governo, riscosso dall'amministrazione dello Stato che ne pagava una parte alla Città.

1 Estraggo questi numeri dallo Specchio A, che il lettore troverà in fine dell'articolo. Tanto quello come gli altri che vi fanno seguito, e che verrò mano mano richiamando, mi sono stati forniti dall'Amministrazioni' municipale, ne' primi mesi di quest' anno.

Vol. XV - Dicembre 1870.

798

Questa sola parte poteva essere preveduta nel bilancio quinquennale. Oggi invece nel bilancio annuale si comprende l'entrata lorda. Poniamo dunque l'aumento in grosso a 20 milioni. E dacché le spese superano l'entrata, questo aumento dovrà necessariamente diventare maggiore.

So ben io che queste accresciute entrate e le altre che forse dovranno essere procacciate per far fronte alle spese notevolmente maggiori, sono una parte delle entrate de' cittadini, che non è cavata dalla loro borsa e dissipata: so anzi ch'essa è né più né meno che una spesa fatta per utile di ciascuno de' contribuenti, e per decoro della città da loro abitata: né ignoro che una porzione di codesta spesa è quindi un vero risparmio impiegato in lavori pubblici o in miglioramenti igienici o morali - come proverò in seguito - i quali sono in realità investimenti di capitali, e capitali ancor essi.

Quando però gli abitanti d'una città possono fare simili spese o destinare a simili investimenti una parte delle loro entrate, mentre aumenta la spesa sotto le altre forme che dirò private, e mentre cresce anche la possibilità del risparmio; non è chi possa asserire che l'agiatezza generale non sia notevolmente aumentata.

XIII.

Alcuni invece, non potendo impugnare questi fatti generali, né potendo asserire che la condizione economica del più gran numero degli abitanti di Napoli sia peggiorata, - perché quest'asserzione sarebbe contraddetta dalla più superficiale ispezione della città, e dal più sommario confronto del presente modo di vivere delle classi meno agiate con quello di dieci anni or sono, - si contentano di opporre che, se il popolo minuto ha tratto qualche vantaggio, ed altri né ritrarrà per lo avvenire, questi sono compensati da' pesi e dalle privazioni delle classi più agiate.

Vedremo in seguito che ciò non è. Ma se il nuovo ordine di cose non avesse prodotto altro beneficio che quello d'una migliore distribuzione di agiatezza, avrebbe gran merito economico, morale e politico.

Oltre di che la libertà e la civiltà procacciano alla gente più agiata, più istruita e più educata infinite soddisfazioni, alle quali per difetto di mezzi e d'istruzione, non può prender parte la meno agiata,

799

che versa in fatiche più o meno penose ed in occupazioni grossolane o poco elevate.

Le arti, le scienze, la cultura generale, il governo e l' amministrazione del proprio paese, sono fonti di meritati onori, e sorgenti di piaceri ignoti al più gran numero. La libertà féconda queste sorgenti, ed apre quelle fonti al concorso di tutti coloro che possono attingervi: i quali perciò è giusto che facciano maggiori sforzi e sottostieno a maggiori pesi. Maggiori, in confronto di quelli che sono sostenuti da coloro che non possono partecipare a que' beneficii morali, ma non certo sproporzionati a codesti beneficii. Anzi codesta- semplice proporzione non basterebbe a giustificare la esclusione degli altri, se questa non fosse puramente di fatto e non di diritto; e se coloro che per la maggiore agiatezza e la più elevata educazione sono attualmente in grado di godere di que' beneficii, non si adoperassero a migliorare la sorte degli altri, e ad aprire a' migliori fra loro agevoli vie, perché possano sollevarsi a condizione meno umile. Dove il piccolo pecoraio, o il figlio del tintore possono ascendere all'altezza cui ascesero i Cobden e i Peel, o dove i fabbricanti di rocchetti o i legnaiuoli possono diventare i Lincoln e i Grant, volentieri si ammettono le ineguaglianze economiche. Esse diventano il riflesso necessario ed inevitabile delle ineguaglianze naturali, e di quelle che dipendono dalle qualità morali degl'individui, dal loro sapere e dalla loro volontà di lavorare.

XIV.

Ripigliando adesso la concessione fatta più sopra a guisa d'ipotesi, io reputo poter essere ragionevolmente negato che nella città di Napoli la sola classe più numerosa siasi economicamente vantaggiata del nuovo ordine di cose. E poiché lo argomento di cui più specialmente ho trattato in questo luogo è la cresciuta possibilità del risparmio, sulla quale principalmente si fondano il capitale ed il credito della classe meno agiata, cioè di quella che comprende gli operai e coloro che vivono prestando servigi o poco elevati o retribuiti in ragione del tempo che si spende a renderli; io toccherò questo punto medesimo in relazione alla classe più agiata, la quale comprende, sotto il rispetto economico, numerose gradazioni.

Molti sono gl'indizii da' quali argomentasi come le entrate della gente dedita a commerci, ad industrie o a lavori di ordine più

800

elevato che non sia il lavoro delle braccia, sieno anch'esse aumentate, generalmente parlando.

Innanzi tutto acquista, rispetto a questa classe, più efficacia quello che ho già più sopra ricordato, delle cresciute imposte comunali e statuali e del contemporaneo migliorato modo di vivere.

Questi due fatti e più specialmente il secondo, non si prestano ad una minuta analisi: ma sono entrambi notorii ed innegabili. La classe media spende forse il doppio che non ispendeva prima: non solo perché le cose utili alla vita sono rincarate e di molto, ma anche perché vuole procacciarsi maggiori comodità e vivere assai meglio di quel che non faceva prima.

In altro luogo noterò i miglioramenti generali della città sia per opera del Municipio, come sarebbero i giardini, le piazze, le strade larghe e pulite, e simili; sia per ampliazione di alcuni pubblici servigli, come sarebbero le poste e l'insegnamento; dai quali tutti si può, tra molte illazioni, trarre anche quella della spesa maggiore de' privati, non solo perché obbligati a contribuire a que' miglioramenti, ma anche perché questi sono effetto e diventano occasione del maggior desiderio eccitato nella classe media di prender parte a spese che non si fanno, se non quando nel più gran numero delle famiglie e de' privati individui sorgono certe necessità o certi gusti che prima erano solo il retaggio di pochi.

Anche la facilità di entrare in relazione con gente di altre città, e la necessaria comunanza delle varie parti d' un grande Stato, alcune delle quali erano sotto certi aspetti innanzi alle altre, dà occasione a ciascuna di esse di avvertire quel che le manca, e di cercare i mezzi per supplirvi. Ma codesta grande spinta a progredire, si traduce in ispese maggiori, le quali se non fossero precedute da maggiori guadagni, o sarebbero impossibili o condurrebbero in brevissimo tempo alla rovina, convertendo la impotenza di migliorare, in una reale e visibile sofferenza.

Questa non essendo, è da concludere che la possibilità dello spendere sia per lo meno accresciuta in proporzione della spesa, il che già sarebbe una prova dell'aumentata agiatezza, e dell'incremento delle entrate.

Trattandosi d'una città, e specialmente d'una città come Napoli, che non è luogo principale di produzione, ma dimora di una popolazione

801

che in gran parte è composta sia di proprietarii che vivono con rendita ricavata da' loro beni stabili, urbani e rustici, sia di capitalisti, che impiegano i loro denari da per tutto, cioè cosi dentro come fuori della città, sia di altra gente numerosa che presta servigi personali o che esercita industrie destinate a soddisfare i bisogni immediati degli abitanti, come sarebbero i sarti, i calzolai, i parrucchieri, i bottegai, e simili; trattandosi, dico, di una città così composta, è assai difficile rintracciare le prove dell'aumento dell'entrate nell'aumento locale delle industrie, de' commerci e delle altre fonti a cui si attingono esse entrate.

D'ordinario in simili città l'agiatezza di una certa classe, di quella più delle altre favorita dalla fortuna, aumenta per riflesso del movimento generale della produzione, e per effetto delle migliori condizioni economiche del Regno, piuttosto che di quelle particolari di esse città. E perché costoro spendono in città le loro entrate provenienti di fuori, e danno più largo alimento a quella specie molteplice di produzione locale che direi quasi di immediata consumazione, ed ai servigi personali a' quali attende una gente numerosa; la popolazione è in massa meglio fornita di mezzi d'esistenza. D'onde deriva un accrescimento generale d'agiatezza, prodotto da un movimento economico cagionato da spinte esterne, ma intimo e poco appariscente: il quale malamente si potrebbe tradurre in numero ed in misura.

Ciò non ostante da uno Specchietto ufficiale somministratemi dal Municipio, e che riproduco originalmente,1 risulta che nella città di Napoli dal 1861 al 1869 furono istituiti quaranta nuovi stabilimenti industriali, alcuni di lieve importanza, altri di qualche momento.

E dallo Specchio del movimento del porto, col quale mostrai già lo incremento del traffico propriamente detto, si può argomentare direttamente quello de' maggiori guadagni delle Case e degl' individui che attendono al commercio coll'estero.

Né dico delle opere pubbliche, di cui toccherò più innanzi, nè delle private costruzioni che appariscono a chiunque percorre le sezioni di Napoli meno centrali; e che stanno per attestare anche sotto questa forma l'investimento de' capitali.

Ma non tacerò di quell'accrescimento di circolazione che partendo da Napoli, come suo centro, si espande all'intorno, ed è prova

802

immediata di quella attività economica ch'è inseparabile dallo incremento del capitale; e perciò dalla progressiva e reale agiatezza.

Il credito e le sue istituzioni essendo strumenti di attività e prova di energia e di vita, incutevano sospetto al cessato governo, che si proponeva come ideale di perfezione la stabilità e l'inerzia.

Quei commerci e quelle industrie poche e scarse che erano nel Regno, venivano in gran parte esercitate da stranieri; e la banca come professione individuale distinta da ogni altro negozio, era quasi del tutto ignota; come istituzione o stabilimento di capitali associati poi era interamente bandita. Il Banco di Napoli, corpo morale posto sotto la mano immediata del governo, e suo cassiere, riceveva depositi privati, e li pagava in vista delle sue fedi di credito, che potevano esser girate, o mediante mandati riferibili ad un credito intestato al depositante con una madre-fede. Esso alimentava, con una parte de' depositi, una Cassa di Sconto anche governativa, perché dotata in parte da un capitale fornito dallo Stato. Esso destinava a imprestiti sopra pegni un'altra parte de' suoi depositi.

Di sorta che il Banco di Napoli poteva dire in Napoli: il credito som, io: e dacché in sostanza era un'amministrazione governativa, sebbene autonoma, quella divisa del Banco poteva diventare la divisa dello Stato.

Nessuna Banca di circolazione: e se qualche raro sconto facevano sia qualche altra istituzione, sieno privati capitalisti, quella non era Banca se non in guisa accessoria, e questi non erano propriamente ed esclusivamente banchieri. Solo qualche straniero versava quasi esclusivamente in operazioni bancarie. Né fra queste operazioni erano comprese quelle che costituiscono propriamente l'alta Banca.

Fuori del Rotschild, che non ha veramente una patria determinata, perché estende le sue operazioni a tutta Europa ed anche fuori di essa, non credo che ci fosse in Napoli né una società né un banchiere in grado di assumere, a ragion di esempio un grosso imprestito, o di lanciare, siccome dicono con linguaggio di banca, un affare pel quale occorresse la sottoscrizione di parecchie diecine di milioni di lire ripartiti in azioni o in poste.

Il governo non avrebbe veduto di buon occhio tanta potenza, ed il pubblico, non abituato a questa maniera di operazioni, non le avrebbe neppur credute possibili.

1 Vedi. Specchio 13, in fine dell'articolo.

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Anche oggi i capitalisti napolitani sono tra' più fiacchi e i più inerti d'Italia tutta. Non vi è impresa grandiosa, come sarebbe quella delle strade ferrate, o mezzana, come quella dei mercati, o dell'imprestito comunale e simili, nella quale facciano da loro, o per lo meno concorrano largamente. Sono come quegli ammalati che anche dopo la guarigione, non possono agevolmente muovere le membra lasciate in lunga inerzia.

Nulladimeno il Banco di Napoli, per mezzo della Cassa di Sconto, unico stabilimento di questo genere prima del 1860, effettuò in sei anni, dal 1854 al 1859 inclusive, una somma di sconti che equivale a 367,902,388 lire, ossiano 61,317,065 all'anno in ragion media. 1

Nel 1863 il Banco di Napoli fu convertito in vero Banco di Circolazione. Le sue polizze che prima rappresentavano una somma effettiva di deposito metallico, diventarono vere banconote, da poter essere emesse in ragione ora del triplo ed ora del doppio della riserva metallica, e la Cassa di Sconto cessò d'avere una esistenza separata da esso Banco.

Questa riforma avveniva dopo che la Banca Nazionale Sarda, aveva istituita una sede in Napoli, dove operava, per conseguenza, come una banca di circolazione e di sconto.

Ebbene, nel 1869 il Banco di Napoli scontava per 91,507,286 lire di cambiali, 2 con un aumento di quasi il 50 per cento sulla somma media degli sconti precedenti al 1860; e la sede della Banca nazionale scontava nello stesso anno per 38,438.154 lire, oltre 18,174,891 lire di anticipazioni. 3

Sicché i soli sconti delle due grandi Banche nel 1869 montavano

1 Vedi Specchio C, idem.

1 Ecco l' attestato ufficiale:

«Per effetto di orali disposizioni del Commendatore Carlo Giorello Consigliere di amministrazione del Banco, funzionante da Direttore Generale per l' assenza del titolare,'

» Certifico io qui sottoscritto che lo ammontare delle cifre per sconti di semestri di rendita e cambiali si compone delle seguenti cifre a tutto il 1869.

» Per sconti di cambiali a tutto il 31 dicembre 1869:

L. 91,507,286. 73

» Per semestri di rendita come sopra: » 450,746. 32

Totale...L. 91,958,033. 05

» Il Ragioniere Generale

» Anton De Luca »

3 Estraggo queste somme dal Prospetto delle operazioni di ciascuna sede e succursale nell'anno 1869 annesso alla relazione annuale messa a stampa.

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al triplo degli sconti che dal 1854 al 1859 erano stati fatti annualmente dal solo Banco allora esistente, quasi senza progresso di sorta. E ciò senza mettere a calcolo gli sconti fatti dalle minori istituzioni, come per esempio della sede della Banca del popolo, e quelli de' privati banchieri che comparativamente son di certo anch'essi aumentati.

Incrementi cosi enormi non sono certamente casuali. Essi provano con evidenza che le forze produttive operano assai più potentemente di una volta. Perciocché quando le banche, le quali sono macchine mosse dal credito, allargano la loro azione, si ha una prova evidente che il credito è diventato più robusto e più efficace: ed il credito, come la fiducia che lo alimenta, è un effetto della garanzia che gli offrono il proficuo impiego de' capitali e i buoni risultati del lavoro.

Le quali cose non sono punto separabili da due altre, di cui sono causa immediata e sicuro strumento, - la crescente agiatezza, e l'aumento dell'entrate.

Questi sono due elementi di prosperità economica: ma molti altri che concernono più specialmente il benessere fisico, ed il progresso morale ed intellettuale della città di Napoli, verrò di mano in mano notando; e li metterò in luce non tanto per misurare i risultamenti già ottenuti in confronto del passato, quanto per isvelare i germi de' miglioramenti che se ne ritrarranno certamente in un prossimo avvenire.

Antonio Scialoja.

Specchio A.

Stato delle entrate comunali prima e dopo dell'anno 1860.


DETTAGLIO

RENDITA PER

ANNI

QUINQUENNI


Lire

C.


Lire.

C.


Giusta lo stato discusso quinquennale dal 1853 al 1857.



2,329,142


31

Dal 1853

al 1857


11,645,710

55




Giusta i Bilanci annuali

1865

12,056,916

11



Dal 1865

al 1869




98,550,752




01

1866

16,640,819

13

1867

16,020,478

63

1868

25,727,265

23

1869

28,105,272

91

Specchio B.

scialoja napoli passato presente 1870

Specchio C.
Ammontare degli sconti effettuati
dal Banco di Napoli dal 1854 al 1859.




ARGENTO.

RAME.

TOTALE.

I


EPOCA.


Ducati.

Gr.

Ducati

Gr.

Ducati.

Gr.

Osserva-

zioni.

4619

279

4780

274

5117

247

4471

285

5010

152

5768

1854 Dicembre 31

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1854 detto di

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1854 detto dì

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1854 detto di

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1854 detto dì

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1854 detto di


14,782,659


14,718,084


12,865,519


13,643,958


14,529,848


15,996,205

76


51


61


58


62


76


7,325


6,331


5,606


6,487


3,239


52


59


26


86


86


14,789,985


14,724,416


12,871,125


13,650,446


14,533,088 15,996,205


28


10


87


44


48

76






Al conto 

rame

non 

vi sono 

sconti 

nel 1859.

86,536,276

84

28,991

09

86,565,267

93

L'ammontare degli Sconti eseguiti per cambiali, giusta i risultati ottenuti dietro la verifica sul Giornale di Cassa, è di Ducati ottantasei milioni cinquecentosessantacinquemila duecentosessantasette e gr. 93; pari a Lire Trecentosessantasette milioni novecentoduemila trecentottantotto e cent. 70 dal 1854 al 1859.

Napoli, 1° luglio 1870.

Visto - Il Ragioniere Generale

ANT. DE LUCA. L'Incaricato dell'Archivio

della Contabilità Generale del Banco

RAFFAELE DE LILLO.






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