Pubblichiamo una storia da leggere che abbiamo trovato casualmente durante uno dei nostri vagabondaggi per la rete. Ne è autore Giuseppe Planelli, giornalista de L’Osservatore Romano e saggista, che nel testo in formato pdf - scaricabile dal sito https://www.magisetplus.it/ - dichiara che le dispense possono essere liberamente copiate e distribuite ma non vendute.
Invitiamo gli amici che ne vorrano fare uso, a citare la fonte sopra indicata e l'autore, ovviamente, ci pare un doveroso ringraziamento per la scelta di diffonderle gratuitamente.
Buona lettura e tornate a trovarci.
SOMMARIO PREFAZIONE 1. L'INFANZIA DEL REGNO BEN NATO
GUIDA ALLA LETTURA /1 2. I BORBONE DI NAPOLI
GUIDA ALLA LETTURA / 2 3. L'«ETÀ D'ORO» DI FERDINANDO
GUIDA ALLA LETTURA / 3 4. L'ECCLISSE DEL REGNO ILLUMINATO
GUIDA ALLA LETTURA / 4 5. L'EPOPEA DEL POPOLO NAPOLETANO
GUIDA ALLA LETTURA / 5 GUIDA ALL'ASCOLTO |
Il Regno del Sud nacque, tanto per non discostarsi da quel simbolismo sacro così caro all'uomo della Cristianità, la notte di Natale del 1130 nella cattedrale di Palermo quando, subito dopo il canto solenne del Gloria e prima dell'orazione che annunciava la nascita di Cristo, il vescovo impose sulla testa del conte normanno Ruggero la corona alla quale si sottomettevano tutte le popolazioni che abitavano dalla Sicilia fino all'antico Sannio e all'Abruzzo.
A quel tempo, la penisola italiana contava al massimo otto milioni d'abitanti, il Sud forse tre. Se pensiamo che oggi l'Italia ne conta quasi sessanta milioni e che anche allora la gran parte della popolazione si raccoglieva nei centri maggiori, possiamo immaginarci come fossero deserte e desolate le campagne e quanto dura e aleatoria la vita di coloro che ne traevano il sostentamento.
Terra di nessuno perché periferia di tutti, quella che era stata la parte più bella, più ricca, più colta e più evoluta della grande koinè ellenistica, la Magna Grecia, maestra intellettuale e poi granaio e luogo di delizie della Romanità, si era ritrovata a mezza strada fra quelle due parti dell 'Impero che sempre più s'erano divaricate.
Per interessi, per costumi, per lingua, ma soprattutto per un diverso modo di porsi davanti a Dio e, di conseguenza, per un diverso modo d'affrontare il prossimo e la vita, Occidente ed Oriente, a quel tempo, erano già non più due punti cardinali ma due mondi che ancora per chissà quanti secoli non si sarebbero più rincontrati.
Tanto quello d'Occidente che quello d'Oriente, uno con la testa fra le brume della Germania, l'altro fra le brezze del Bosforo, i due grandi imperi si proclamavano Sacri ed ambedue Romani. Fratelli gemelli quindi ma talmente diversi e già in procinto di diventare così estranei che solo qualche secolo più tardi sarebbero stati pronti a scannarsi.
Troppo lontano quel Sud, oltre le terre del Papa, per gli austeri e possenti popoli del centro Europa, troppo lontano quel Sud, oltre il mare e troppo vicino al Papa, per i pigri e raffinati "romani " dell 'Asia. Ognuno dei due, talvolta, scendeva, chi con le proprie milizie fino alla Capitanata o ai Principati, chi sbarcando con le sue galeazze sulla costa adriatica o nel golfo delle Sirene, entrambi per rimettere un po ' d'ordine, riscuotere qualche decima e gabella arretrata e proclamare: «L'Imperatore sono io». Poi ritornavano alle loro corti lontane lasciando qualche nuovo signore o qualche nuovo funzionario perché curasse i suoi interessi fino a quando l'avesse abbandonato la nostalgia del suo paese e fosse diventato del tutto, anche lui, "meridionale ".
In una maniera o nell'altra nel Sud d'Italia c'erano arrivati un po' tutti: greci europei e dell 'Asia minore, goti, longobardi, ebrei e saraceni, e continuarono ad arrivarci normanni, provenzali, francesi, ungheresi, albanesi, slavi, catalani, castigliani e chi più ne ha più ne metta. Tuttora visi, capelli, incarnati, stature e complessioni, oltre che i cognomi, rivelano le più disparate origini di quei popoli che, in breve tempo, incantati da quel pontile in pieno Mediterraneo che fu sempre considerato il paradiso in terra di tutta l'Europa, di tutta l'Asia e di tutta l Africa affacciate sul mare, divennero, appunto, "meridionali".
Mentre nel resto d'Italia, oltre le terre del Patrimonio di Pietro, si formavano stati e staterelli, molti non più grandi della loro cerchia di mura comunali, il Sud divenne una nazione, l'unica della penisola che potesse vantarsi di questo nome. Eppure vi si parlavano idiomi diversi, si pregava con riti differenti, e differenti erano i caratteri e i modi di vivere fra popoli e popoli delle sue valli, delle sue montagne e delle sue isole.
Cosa mai unì così strettamente per settecento anni i forti e gentili abruzzesi abituati alla solitudine dei pascoli di montagna agli spensierati campani delle fertili pianure e a quelli intraprendenti delle marine? e come si legavano fra loro i destini dei ricchi levantini pugliesi da sempre abituati al viavai delle genti e quelli dei rudi calabresi arroccati fra i boschi e le serre a contendere aspramente la vita e il cibo ad una natura selvaggia? Senza contare la Sicilia, essa stessa una miscela di lingue, di razze e di temperamenti che, nonostante ben presto ebbe un destino tutto suo particolare, pure riuscì ad esser solidale con il resto del reame.
Qui ci limiteremo a narrare del Regno di Napoli, di quello che si ebbe la fama, per tanti secoli, di più bel regno del mondo, e quando diremo Napoletani intenderemo tutti coloro che, dal Tronto a Terracina fino alla punta di Scilla, per oltre settecento anni furono fieri di questo nome, finché la loro capitale fu ridotta ad «una carta sporca», come dice un suo cantautore, a immagine di tutto il degrado del Sud invaso, derubato, umiliato e beffeggiato.
Non parleremo delle bellezze che tutti conoscono, dei paesaggi da leggenda in cui i meridionali vivono da sempre, delle delizie della terra, della clemenza del cielo, del suo mare e del suo sole: si sa che ognuno è affezionato alla sua terra e che per ciascuno il suo paese, quale che sia, è sempre il più bello del mondo. Non parleremo di sangue, di razza, di particolari talenti dei meridionali né di un particolare cuore meridionale, nemmeno di quel «core napulitano», grande sì purché straccione e sottomesso come nelle dolenti commedie di Eduardo, miserabile e pazziariello come nei gag di Totò, spudorato e osceno come nelle infami allegorie di Malaparte.
Non crediamo a popoli buoni o cattivi o a stirpi che, da Cristo in poi, abbiano particolari missioni di far luce sull 'umanità. Vogliamo narrare invece di gente né più buona né più intelligente di altra che, senza sapere del futuro del mondo, si mise insieme per vivere in pace fino a quando Dio l'avesse voluto cercando, per quanto fosse possibile a uomini e donne di questa terra, di attendere con pazienza che si realizzasse quel Regno promesso agli umili e ai pacifici di tutti i tempi.
E già: perché è inutile cercare di capire il Sud, come è inutile cercare di capire tutta la storia del mondo se si perde di vista ciò che la guida e dove si propone di arrivare, se si conquistano tutti i regni e poi si perde l'anima propria. Sui testi dottissimi degli storiografi, dei politologi, degli ideologi, dell 'anima non se ne parla né mai venne in mente ad un 'intellettuale di citare in bibliografia le Beatitudini.
Qui invece cercheremo di scrivere, noi del Sud, la nostra storia che è vicenda di un popolo che non si sognò mai di allargare i propri confini, che non impose mai ad altri le proprie usanze, che non si ritenne mai modello per nessuno e che, quindi non tentò mai di scrivere la storia degli altri.
A dir la verità noi meridionali (quelli che non se ne sono mai vergognati) non pensammo a raccontare mai neppure la nostra di storia, convinti che la vita è molto meglio viverla che scriverla. Ma ora che, ineluttabilmente, la vicenda del Sud appartiene ad altri tempi, bisogna che qualcuno si prenda la briga di metterne giù la memoria almeno per evitare che continuino a scriverci la storia addosso con lo stesso zelo di un carabiniere che stende il verbale di un pregiudicato.
Quando Napoleone si mise in mente di ridisegnare l'Europa a modo suo, non lo sfiorò nemmeno l'idea che il Regno di Napoli potesse far tutt'uno con il resto d'Italia. Eppure era uno che se n 'infischiava della geografia, dei papi e delle dinastie: la storia era convinto che cominciasse da lui ma, anche da imperatore, non se la sentì di cancellare con un decreto quello che fra tutte le nazioni vecchie e nuove rimaneva «il Regno» per antonomasia.
Si scriveva e si diceva infatti proprio così, «il Regno», dentro e fuori d'Italia, come dire che fra tanti, più antichi, nobili e vasti, proprio quello incarnava l'idea di perfezione.
Vecchio "napoletano " ormai per sempre espatriato e senza nessuna illusione che venga restaurato il bel reame, non temo l'accusa di campanilismo se ripeto, senza esagerazioni, che il Regno del Sud fu il capolavoro della Cristianità.
C'era una volta..., è proprio il caso di dire, anche se non si tratta d'una favola, in cui gli uomini erano convinti che non si vivesse di solo pane. Ma una volta assolti tutti gli altri doveri verso Dio, gli uomini di quel sud di cui parliamo sapevano di avere il diritto, quel pane, di mangiarselo in pace.
C 'era una volta in cui gli uomini avevano le idee semplici, fatte di pane e vino, e quando pensavano a una comunità perfetta si riferivano a quel Regno che ogni domenica contemplavano nelle loro chiese.
Rozzi e cisposi, né più né meno di tutte le plebi d'Europa, dai loro tuguri di pietre, fango e paglia, lasciando per qualche ora il fumo della legna e i muggiti degli animali, i villani la domenica e le feste entravano nel silenzio splendente delle chiese, fossero pievi di campagna, abbazie o cattedrali, nella luce riverberante dei ceri, nel profumo inebriante d'incenso, poggiavano i piedi scalzi abituati al fango e al letame sulle pietre lustre delle navate e s'immergevano, fra i marmi delle colonne, nella luce filtrata dagli alabastri, si libravano col canto solenne dei chierici nei gesti calmi e precisi del sacerdote, adoravano stupefatti il segno che univa tempo ed eternità rendendo concreto l'invisibile, mangiabile e bevibile lo spirito increato.
L'oro, l'argento, i tessuti ricamati, le tovaglie di bisso sulle quali si ripeteva il miracolo di quel qualcosa che diventava Qualcuno erano lussi favolosi anche per i rudi baroni devoti, nei loro panni di lana grossa, gente di mazza e spada, con fibbie di ferro e calzari di cuoio, abituata a dividere pasti non meno frugali di quelli dei villani insieme a cani, cavalli e gregari. Grossolani alla stessa maniera, nulla sapevano di classi sociali se non che tra famigli (così si chiamavano fra loro gruppo per gruppo) ognuno aveva un compito con il quale servire Dio e fratelli perché la paglia e lo strame si tramutasse in oro, perché il tufo e il calcare si tramutasse in marmo e il fumo acre del cerro profumasse come incenso, il rude bofonchiare divenisse canto angelico e infine il grezzo desinare pane bianchissimo e vino prelibato.
A quel tempo gli uomini vivevano in capanne e i più ricchi in rozzi caste llacci ma nessuno si scandalizzava d'innalzare splendide cattedrali che svettavano come montagne ricamate nella pianura di piccoli tuguri. Tutti avevano chiaro in mente che anche la loro vita era una perenne liturgia.
A quel tempo gli uomini avevano poche idee ma chiare, solide e svettanti come le loro cattedrali né li sfiorava il sospetto che altri, tanti secoli dopo, li avrebbe chiamati medioevali per dire che vivevano un tempo di trapasso, secoli d'ignoranza, a cercare di raccapezzarsi fra una città scomparsa e un città da inventare. Loro, è vero, non sapevano nulla d'idee luminose e progressive che sarebbero venute in testa ad uomini speciali ma, incuranti di essere uomini normali, andavano dritti con il cuore e la testa alla luce del Creatore.
Principio d'analogia si chiamava quel modo di costruire il pensiero insegnato dai riti sobri e solenni che dall 'elementarità dei sensi innalzavano la creatura umana ai massimi sistemi, Dio, la sua Legge, la Trinità, l'Incarnazione, la Sacra Famiglia, l'uomoDio che moltiplica il pane e si fa pane: quanto bastava ai semplici di cuore per sapere quel che da sempre e per sempre sta nascosto ai sapienti di questo mondo.
Un altro napoletano ci avrebbe costruito, su quel principio d'analogia, il più grandioso monumento del pensiero umano. Ma anche se Tommaso d'Aquino non era ancora nato e non aveva ancora spiegato il come ed il perché della sapienza, quegli uomini, come tutti gli altri cristiani sparsi per l'Europa, anche se analfabeti, erano già filosofi e teologi. E grandi mistici anche, giacché, senza sognarsi di camminare sull 'acqua e levitare sul selciato, sapevano vivere con i piedi in terra e la testa in cielo, sapevano contemplare cioè, con in mano la zappa o la mazza ferrata, l'universo, il tempo e i suoi misteri. Infine erano santi giacché, senza sognarsi un'umanità di buoni, s'industriavano d'accettarsi l'un l'altro, nobili e plebei, deboli e prepotenti, come figli d'Adamo e come figli di Dio. Soavemente o a muso duro non soffrivano certo d'incomunicabilità.
Forse qualche ragione in più dovevano avercela i meridionali visto che abitavano quelle terre e quei cieli dove, come d'incanto, qualche millennio addietro, era nata la stessa filosofia. Ma noi, qui, non vogliamo neanche stare ad esplorare per quale disegno il Creatore seminando semi di popoli e di sapienza per la terra aveva fatto crescere la pianta del vero, del giusto e del bello nel Mediterraneo, un pezzettino di mondo che sull 'atlante scompare fra i grandi oceani e i continenti. È azzardato dire che in certe cose, anche magari sull 'attitudine a pensare, c'entrasse in qualche modo l'ereditarietà? non quella della biologia, s'intende, ma quei passaparola e passasilenzi che fanno la trama della religione e danno senso alla vita.
Analogia per analogia, sull 'immagine divina della Chiesa e sulla lezione sapiente degli antichi, si costruirono le famiglie dei popoli, gli imperi, i regni, i principati. La Chiesa di Roma, il Papato furono i modelli delle abbazie, delle diocesi, dei comuni, delle corti baronali, dello stesso focolare domestico.
Dopo lo sfacelo dell 'Impero romano, dopo il rimescolarsi delle genti e delle lingue, gli uomini lasciarono i nascondigli nelle selve, gli anacoreti scesero dalle montagne, i nomadi si scelsero un territorio dove seppellire i loro padri e chiamare patria, forti e meno forti si associarono in gruppi e si diedero leggi, regole, statuti, stabilirono patti ed alleanze. Spezzarono la spada che avevano alzato contro gli inermi e giurarono su quella che l'unico Maestro aveva detto poter bastare per difendere la vita, la proprietà e l'onore dei cristiani.
Vangelo e Legge, nell 'alto medioevo, dopo l'apparente insanabile dissidio dei primi tempi dell'Incarnazione, seppero finalmente coniugarsi e, quando sugli altari furono deposte le armi consacrandole al Dio degli umili ma anche, l'abbiamo dimenticato? degli eserciti, fu chiaro a semplici e dotti, a irruenti e mansueti, a poveri e ricchi, che Croce e spada avevano la stessa forma, che l'una e V altra potevano dispensare morte e vita, giustizia e dannazione, abominio e gloria. Sulla Croce e sulla spada, sulla quale l'UomoDio sta in equilibrio fra morte e vita, furono giurati allora tutti i patti con i quali nascevano i popoli e le nazioni. Nacque la grande alleanza della Cristianità.
Alla stessa maniera, buon ultimo, nacque il Regno del Sud. Ruggero, uomo straordinario per valore, figlio d'uomini straordinari, raccolse il consenso di migliaia di persone divise, di centinaia di piccole comunità, di castelli, città, abbazie esposte ad ogni abuso dei più forti e ad ogni prepotenza dei più scaltri. Suo padre, suo nonno, i suoi zii non si sapeva nemmeno come nel Sud fossero capitati. Di avventura in avventura dal nord della Francia? di ritorno in Puglia dalla Terra Santa? a sciogliere un voto al Monte Sacro dell'Arcangelo Michele, re di tutti i guerrieri e dissipatore della tenebra diavolesca? Sembra che per sbarcare il lunario, Tancredi d'Altavilla e i suoi figli mettessero astuzia e spavalderia al servizio di piccoli signori. Gente intraprendente questi normanni: nel giro di due generazioni da sconosciuti avventurieri dagli improbabili nomi, Tancredi, Guglielmo, Drogone, Umfredo, Roberto, diventati conti di Puglia, duchi di Puglia, duchi di Puglia e di Calabria, gran conti di Sicilia, sovrani di tutto.
«Maledetti normanni» avevano inveito i catapani bizantini contro quegli invincibili cavalieri che ormai tutti invocavano come capi, «Maledetti infedeli» li avevano apostrofati i visir di Sicilia, «Maledetti papisti» avevano mugugnato gli eparchi delle Calabrie. Li benedicevano invece quelli di cui avevano preso le difese, cominciando a provare il gusto di starsene in pace, come in terra promessa, sotto la vite e il fico.
Ci vollero dieci anni da quella notte di Natale a Palermo perché Ruggero, il messia normanno, avesse la meglio di tutti i riottosi e si rappacificasse col Papa legittimo: ad Ariano, a cavallo dell'Appennino guardando il Tirreno e l'Adriatico, quasi al centro geografico del Regno, si riunirono tutti i baroni, gli abati, i rappresentanti delle città «di qua e di là del faro» per proclamare la costituzione del Regno. « Voi, uomini nobili dell 'Italia meridionale e della Sicilia eravate qui prima di me, con le vostre leggi e le vostre consuetudini, disse Ruggero pressappoco. Giuro nel nome di Dio che mi ha dato la vittoria e mi ha consacrato vostro re, di difendere il vostro diritto, di raddrizzare i torti, di stroncare gli abusi». Le «Assise» di Ariano furono la costituzione di uno stato che si perpetuò per settecentotrenta anni e che fece dei meridionali una nazione.
Molti da allora vennero ancora a metter radici da ogni parte d'Europa e i loro discendenti sono ancora fra noi, e null'altro vollero essere se non "Siciliani " o "Napoletani ".
C'era una volta il Sud, c 'era una volta un re. E già, perché è impossibile parlare dei meridionali senza dire dei loro re, ed anche delle loro regine. Per grazia di Dio e volontà della nazione, i re del Sud non svegliavano con un bacio le belle addormentate, spesso non eran biondi né belli e sui cavalli bianchi ci stavano a malapena. Ma, anche se i loro soprannomi non erano sacrali, anzi talvolta alquanto impertinenti, non furono mai simboli ma persone, con tutti i pregi e le debolezze dei loro sudditi e perciò da essi furono molto amati, come gente di famiglia. Anche quando si ebbero contro mezza Europa, seppero stare ai patti fino in fondo. Calunniati fino ad oggi con pervicace furore come nessun altro di nessun 'altra dinastia, anche presso chi non ebbe il tempo di conoscerli si sono conservati, dopo poco più d'un secolo dalla morte in esilio dell'ultimo re, così, quasi a dispetto, un 'istintiva nostalgia.
Un solo popolo, d'uno staterello raccogliticcio e provinciale, dopo settecento anni, mandato senza nemmeno sapere perché, in un paese che il loro sovrano non aveva visto mai, venne, conquistò, devastò e mai si mescolò coi «cafoni» di cui non capiva una parola.
I sudditi del più grande e più antico regno d'Italia, dei sedicenti liberatori che abitavano di là dell'Appennino toscoemiliano non conobbero che gli editti autoritari dei generali con la erre francese, gli ordini di requisizione, di confisca e di repressione armata, le condanne a morte dei resistenti, i mandati di cattura dei renitenti alla leva e l'ordine di distruzione d'interi paesi sospetti di simpatie per il vecchio Stato. Non conobbero che i decreti di un parlamento che, da Torino, da Firenze o da Roma, decideva un destino che non passava per il Sud se non attraverso le ordinanze dei prefetti e le manette dei carabinieri.
Del più bel regno d'Europa fu maledetta la memoria. Della più bella e vivace capitale del mondo non rimase che il peggior folclore e lo sberleffo. Dalla più bella reggia del mondo furon portate via anche le pentole della cucina.
Al cognato Granduca che gli magnificava i progressi del suo stato, Re Ferdinando, un secolo prima, faceva notare che pure, se di toscani se ne trovava in tutt 'Italia, di napoletani non se n 'era mai visti cercar la felicità fuori dal Regno. Nel 1861, dai porti di Napoli e di Palermo, partirono 6000 emigranti, 6800 emigranti nel 1862, 7000 emigranti nel 1863, 9000 emigranti nel 1864, 11.000 emigranti nel 1865, 18.000 emigranti nel 1866, 21.000 emigranti nel 1867, 26.000 emigranti nel 1868, 32.000 emigranti nel 1869, 40.000 emigranti nel 1870. Prima di essere invaso, il Sud aveva 12 milioni di abitanti. Fino ad oggi gli emigrati meridionali nel mondo sono 20 milioni senza contare quelli sparsi nel resto d'Italia.
«Partene 'e bastimente pe ' terre assai luntane, cantene a bordo, sò napulitane»: oggi i meridionali non cantano nemmeno più. Gli è rimasta solo la malinconia di non conoscere neanche il perché una volta lo facessero tanto volentieri e il sospetto che per un misterioso complotto qualcuno gli abbia taciuto un profondo sopruso. Eppure, dopo molte generazioni di sradicati, ovunque nel mondo, anche parlando lingue nuove, i meridionali si riconoscono ancora fra di loro. Basta un'inflessione dialettale, un nome, un santo familiare perché si dichiarino «Paisà!»: sono ancora, a scorno della storia, anche in mezzo ad altri italiani, una nazione.
C'era una volta un paese felice e sembra una favola. Gli uomini meridionali, dicevano i viaggiatori, senza capire, son fieri, generosi, cordiali, contenti della loro vita. Le donne avevano vestiti dai colori sgargianti, pendagli d'argento e collanine di corallo. Rancore, diffidenza, omertà sono rimasti nei paesi desolati. Le nostre donne da più d'un secolo non vestono che di nero.
È su queste premesse che vogliamo raccontare, noi, la nostra storia. Una storia che giunge da quell'Italia che tutti conoscono come depressa e clientelare, terremotata e mafiosa, disoccupata e camorrista, abusivista e criminale, superstiziosa e sfaticata, dove civili sono solo i procuratori antimafia venuti dal Nord, e della quale si dice: «È sempre stata così». Della quale, molti, di là da quell'Appennino, ormai farebbero volentieri a meno, senza neppur sapere che ciò che vantano come progresso, per buona parte, viene dalle casse rapinate del Sud e dalla fatica e dalle lacrime degli emigrati meridionali.
Dice: ma le lacrime non si trovano nei fondi d'archivio, una storia così non è roba scientifica. È vero, ma nessuno si sogna di invadere il campo dei professori, le cattedre della scienza dove si costruiscono, ognuno con la sua regola, i tasselli del grande mosaico della vita. Ci mancherebbe altro. Noi, senza credenziali, proprio perché ci ritroviamo qui ad essere analfabeti come i nostri antenati, ci limiteremo solo a metterci nella giusta prospettiva, alla distanza giusta, non così vicini, per guardare tutto questo quadro che effetto fa. E per capirne il senso ci allontaneremo ancora perché, se siamo convinti che quelle piccole, splendenti, raffinatissime, pur sempre utili ma sempre piccole, tessere di vetro da sole non rappresentano nulla, siamo altrettanto convinti che la nostra storia ha un significato solo se la si guarda con tutto il panorama.
Questa storia non è quindi per gli "addetti ai lavori " ma
è dedicata ai meridionali, soprattutto a quelli giovani, che
forse non hanno mai pianto ma che talvolta sono stati costretti a
nascondere i loro nomi
così sfacciatamente paesani e a correggere la loro cadenza
dialettale per far finta di non essere del Sud. Ma anche a quegli
adulti che sono abbastanza giovani da stare a sentire una storia senza
pretese di scientificità, soprattutto a quelli che son stufi
di
considerare la loro dignità di meridionali quasi un abuso.
Ed
anche qui non parlo solo dei meridionali nati né di quelli
che
dal Sud se ne sono andati ma di tutti coloro, di qualsiasi parte del
mondo, che per qualche ragione, poveri come loro, non si vergognano di
considerarsi nonostante tutto, e proprio per questo, dei beati.
Ruggero il suo regno, «la terra dove scorre latte e
miele»,
come biblicamente ne scriveva un cronista del tempo, se l'era comprato
a caro prezzo. Si fa presto, oggi, a dire che i Normanni erano dei
brutali conquistatori, avventurieri venuti a caccia di
ricchezze,
che avevano solo più astuzia e più
crudeltà
di tanti altri. Può darsi sia vero ma erano tempi che le vie
della storia non conoscevano altro diritto che quello segnato sul filo
della spada. Come sempre, naturalmente, ma allora nessuno aveva
difficoltà ad ammetterlo. Oggi contano le ideologie
e, nel
loro nome, si trovano gli alibi con cui sottomettere gli altri
decidendo come e perché, in nome della scienza, i nuovi
sudditi,
chiamati cittadini, dopo esser stati bombardati, scannati, deportati,
debbano essere contenti di far parte della modernità.
Allora, invece, secondo il diritto naturale, era solo il buon governo,
la pace e la sicurezza dei sudditi, il loro diritto a nutrirsi,
vestirsi e vivere in tranquillità secondo le proprie usanze
a
sancire il diritto della sovranità, non certo la presunta
moralità della persona che, ben sapeva il buonsenso di
tutti,
era anch'essa fatta di passioni come tutti i figli d'Adamo1.
Innocenzo II, nel confermare a Ruggero, nel 1139, la corona
concessagli dall'antipapa Anacleto, non s'illudeva che essa
levitasse sulla testa di un angelo ma che gravasse su quella di chi
poteva avere abbastanza peccati ma anche altrettanto talento e
carattere per far
bene il proprio mestiere e, magari, facendo il re, diventare santo. A
Papa Innocenzo non importava se, egli stesso, di quel forsennato aveva
dovuto far le spese: era anche quella una prova che il
candidato
aveva stoffa per non retrocedere davanti a nessuno.
Fede, forza, audacia, scaltrezza, senso della realtà,
Ruggero le
aveva dimostrate in mille occasioni, superando lo stesso
padre, il
primo Ruggero Gran Conte di Sicilia: nello sgomberare dai Saraceni
tutta l'isola e dai bizantini la Calabria, nel ridurre all'obbedienza
duchi, conti e vassalli riottosi fino alla Puglia e alla Campania,
anche quando si trattava di parenti, nel dettar leggi sagge ed
equilibrate, nel raccogliere l'obbedienza dei nobili, nel far piani di
conquista ben ragionati rifiutando le proposte interessate degli
estranei, nel riportare la tranquillità nelle sue terre, nel
tener testa all'alleanza dei due imperatori, del Re di Francia e delle
repubbliche marinare, tutti coalizzati contro «quei maledetti
Normanni», nel sapersi sottomettere con
umiltà
all'autorità del vero Papa solo tre giorni dopo averlo
sconfitto.
Le doti di carattere di Ruggero s'erano rivelate fin da quando, ancor
giovinetto, sotto la reggenza della madre Adelaide, aveva imposto a
Baldovino di Fiandra, candidato patrigno, di passargli la corona di
Gerusalemme se non avesse avuto figli. Così fu e da allora,
nonostante le "pretese" postume di molti altri, i re di
Sicilia (e
poi di Napoli e delle Due Sicilie) furono per sempre gli unici veri Re
del titolo incommensurabile di Gerusalemme che molti dei discendenti,
con sempre nuove imprese, alleanze e trattati, s'incaricarono di
rinvigorire.
Nella tempra conquistatrice e dominatrice di Ruggero, il Papa, che lo
confermò anche Legato apostolico, come era stato del padre,
sopportando le sue orgogliose ma sempre leali alzate di testa, vide,
oltre che la liberazione della Sicilia dall'Islam e la fusione delle
genti meridionali nell'obbedienza al rito romano (impresa che il re
assolse egregiamente anche attraverso la fondazione di molte nuove
diocesi), soprattutto la creazione d'un ponte fra Occidente ed Oriente
che liberasse finalmente la costa asiatica e africana, quel giardino
mediterraneo sede delle più fiorenti chiese cristiane a
cominciare da Antiochia per proseguire con quelle citate da
San
Paolo fino ad Ippona, sede episcopale di Sant'Agostino, che dagli arabi
era stata quasi completamente scristianizzata e desertificata 2.
I re normanni tennero fede al patto col Papa anche se le loro
imprese in Africa non ebbero fortuna.
In quanto a Ruggero d'Altavilla, egli non tradì la fiducia
che
veniva riposta in lui: per suo impulso il Regno che fondò,
caso
unico di stato indipendente dall'egemonia dell'Impero e sottoposto solo
alla Santa Sede, anche nel mutare delle dinastie, rimase sempre fedele
a Pietro ed anzi, sette secoli dopo, nella generale apostasia
rivoluzionaria dell'Europa, fu lo Stato che pagò,
insieme
all'Austria, il prezzo più alto per la sua
lealtà
cattolica.
Per settecento anni il regno fondato da Ruggero costituì il
ponte culturale, politico, militare e commerciale fra Occidente ed
Oriente. Tutt'oggi, pur nelle mutate condizioni, il Sud d'Italia
è ancora il naturale deposito delle più
genuine e
solide tradizioni cattoliche e il naturale passaggio fra due mondi che
il mare non riesce più a tener distanti.
Se la Sicilia, levata ai musulmani, diede il primo nome alla
conquista, Napoli «la Bella»,
«l'Onore della
Corona», divenne presto, nel 1137, alla morte dell'ultimo
duca
bizantino, Sergio, il centro effettivo del reame. Un secolo e
mezzo dopo, con gli Angioini, perduta l'isola, avrebbe conquistato il
rango, che possiamo dir "naturale", di capitale mantenendolo per
sempre. Tutto il meridione peninsulare non ebbe altro nome, da
allora, che " Napoli" e "il Napoletano"3.
Ruggero mise ordine in quel territorio così vasto segnando
anzitutto i suoi confini, che sarebbero rimasti immutati fino
all'annessione ottocentesca, poi stabilendo un corpo di leggi, nel
rispetto del Diritto romano, le «Assise di
Ariano», un
capolavoro di tolleranza delle consuetudini delle tante stirpi
meridionali eppure un esempio di saggia amministrazione come non s'era
mai inteso all'epoca. Tolleranza e saggia amministrazione,
centralismo ed autonomia furono le caratteristiche salienti del Regno
fino alla sua fine.
Un altro capolavoro del primo Re del Sud fu la prammatica De
nova
militia, del 1140, in cui si stabiliva che solo i figli dei cavalieri
potessero essere, a loro volta, e solo dal Re, cinti dell'ordine
militare, e che solo il Re potesse concedere e annullare i
diritti
feudali. Ciò poneva fine agli abusi con cui chiunque,
purché abbastanza forte da poter occupare terre
incolte e
ricco da possedere cavalli ed equipaggiamento, poteva vessare la gente
pretendendo di arruolarla al proprio servizio.
L'editto di Ruggero fu ripreso ad ed applicato da tutti i re ed
imperatori dando così inizio ad uno stabile corpo
nobiliare
e a quelle regole che fecero della cavalleria il braccio
armato
fedele e generoso della Cristianità.
Lo Stato feudale
Naturalmente, il Regno di Sicilia era e restò, come ogni
altro
potentato dell'epoca, uno stato feudale. Poiché
però
il feudalesimo, sfigurato dalla demagogia delle ideologie
totalitarie, ha assunto per il comune giudizio un significato del tutto
negativo, è opportuno ricordare cosa quel tipo di
stato
fosse realmente.
Con la caduta dell'Impero romano e le calate dei barbari, si era
dissolto, in Occidente, anche l'intelligente apparato
giudiziario,
amministrativo e militare ch'era riuscito a far vivere in
accordo
i popoli dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa mediterranea. I
circa cinquecento anni che seguirono il tramonto dell'ultimo
imperatore d'Occidente furono tempi bui d'anarchia, di
scorrerie,
di dissoluzione d'ogni forma d'organizzazione sociale. Solo la Chiesa
riuscì a conservare tanto il suo patrimonio
dottrinario che
la sua gerarchia.
I vescovi preservarono le residue comunità cittadine
organizzando, intorno alla curia diocesana, l'amministrazione civile e
ponendo le basi di quelli che poi furono i liberi comuni. Nelle
scholæ delle cattedrali si formarono quei clerici
che
conservarono l'uso della lingua latina, l'unica che facesse da tramite
in tutto il mondo allora conosciuto, e della scrittura,
evitando
che l'analfabetismo diventasse totale. Coloro che, preparati in quelle
scuole, non ascendevano agli
ordini sacri, andavano a costituire il ceto dei tabelliones e dei
notarii, pubblici scrivani che misero le basi di una classe colta e
permisero la trasmissione della residua vita pubblica.
Soprattutto nei monasteri, però, fin dalle prime fondazioni
benedettine, si forgiò l'avvenire dell'Europa,
soprattutto
attraverso l'organizzazione di quelle masse che vagavano nelle
campagne per sfuggire alle guerre e alle rapine dei centri
popolati. I monaci, organizzati in abbazie fortificate, oltre
a
dedicarsi alla trascrizione e alla preservazione delle opere classiche,
alla pratica delle arti, delle scienze, dell'artigianato, dissodarono e
bonificarono le terre inselvatichite e insegnarono la
conduzione
dei campi, l'agricoltura razionale, l'allevamento del
bestiame, la
trasformazione dei prodotti, l'arte dell'amministrazione.
Le nuove comunità, gli abbozzi di Stato, si formarono quindi
attraverso la spontanea aggregazione di famiglie intorno a
coloro
che ne garantivano la sopravvivenza e, nel miglior modo possibile, la
sicurezza: primi fra tutti i vescovi e gli abati.
A modello dei vescovi nelle città e degli abati nelle
campagne,
intorno alle persone più forti e risolute
cominciarono ad
aggregarsi le più deboli. Nacquero così i primi
patti
sociali basati sulla vicendevole difesa e sulla riconoscenza:
l'artigiano, il contadino, il commerciante, il bracciante si
sottomettevano ad un signore di provato valore che, in cambio di beni
di consumo, li garantiva con le sue armi dalle scorrerie, dai furti,
dalle liti con i vicini, dalle pretese di altri potenti4.
Il signore organizzava la sua fortezza dove in tempi di pericolo si
rifugiavano i popolani che egli giurava di proteggere con la sua stessa
vita. I sudditi, dal canto loro, giuravano al loro protettore
altrettanta fedeltà riconoscendolo loro unico
signore,
affidandogli tutti i loro beni, pagandogli un tributo per la
difesa e, se possibile, fornendo, al momento opportuno, gli
stessi
uomini della famiglia adatti alle armi. Il signore, a sua
volta si
addossava l'organizzazione della vita pubblica, dell'amministrazione e
della giustizia. Intorno alle cattedrali, alle abbazie e ai castelli
dei feudatari, nell'alto
medioevo, si incentrò la vita delle
città e dei
borghi rurali5.
Un patto, quindi, "naturale", sottoposto perciò ai pregi e
ai
difetti che l'uomo si tira dietro fin dalla sua origine, moderati dalla
fede e dalla morale cristiana che, con le sanzioni canoniche e il
deterrente della scomunica e dell'interdetto, provvedevano
perché la legge di natura, in tempi così rudi,
non
degenerasse in legge della giungla
I rapporti fra queste singole comunità feudali, la
gerarchizzazione fra le più forti e numerose e le
più
piccole e precarie, gli equilibri, le alleanze contro comuni nemici, il
comune convergere verso un'unica fede e le comuni regole di vita, il
riconoscere unanimemente la Chiesa come la fonte del diritto,
della dottrina, della cultura e delle arti, e i suoi ministri
come
i normali deputati all'educazione e alla formazione delle
nuove
generazioni, alla cura degli infermi e al sostegno dei
bisognosi,
tutto ciò fece della società feudale il naturale
capolavoro della vita associata6.
Naturalmente si formarono i capi, naturalmente si formarono le
gerarchie, naturalmente si assestò quella stratificazione
sociale fatta delle specifiche individuali capacità che
chiamiamo talenti e che mai la natura assegnò in maniera
uguale
alle creature.
Vita corrente e speculazione dei filosofi combaciavano,
specchiandosi una nell'altra, in una "scala di valori" (come
impropriamente si dice adesso creando arbitrarie distinzioni ad ogni
stagione) che non coincideva necessariamente con la
disponibilità economica7. Al suo vertice essa poneva l'uomo
di
preghiera (quindi i monaci, il clero, rarissimamente ricchi, spesso
sovranamente poveri), quindi gli uomini della legge, i
cavalieri
(i nobili, non sempre titolati, non sempre detentori di feudi,
spesso tanto indigenti da dividersi un cavallo in due come gli antichi
Templari), infine il popolo, coloro che producevano i beni
comuni
con il lavoro dell'ingegno e delle braccia (meno poveri di quanto si
vorrebbe far credere, solitamente in grado di soddisfare le
esigenze materiali loro, della loro famiglia e delle altre due
classi di cui non si sarebbero mai sognati di contestare
l'utilità sociale, spesso benestanti come validi artigiani,
artieri e "fisici", agiati come amministratori e notai, sfacciatamente
ricchi
come i mercanti, molti dei quali, e sempre di più,
detenevano, di fronte non solo al clero, ai nobili e ai
principi,
ma anche a re, imperatori e papi, il potere dell'economia8.
Quando gli ideologi, rigettata la sapienza dei millenni, si misero a
farneticare nuovi modi di vita sociale supponendo che l'uomo fosse
originariamente buono e perfetto e che quindi fosse indispensabile
creare sistemi perfetti, e che i patti fra gli uomini non dovevano
più essere sacri e che con un bel contratto a tempo si
poteva
passare sull'onore, e che infine, d'utopia in utopia, nessuno doveva
posseder niente, e che tutto fosse di tutti, donne comprese,
questi "pensatori" non seppero far altro che svergognare il
passato considerando solo gli abusi che, da che l'uomo è
l'uomo,
inevitabilmente vi si verificavano9.
Il feudalesimo, che come patto sociale sopravviveva solo in residue
usanze locali, fu giudicato, senz'appello, un egoistico modo di
vivere. Nulla rimase in piedi di quella società che
aveva
creato la civiltà, la cultura, la scienza del mondo
che
oggi chiamiamo civile. La nuova società doveva poggiare su
utopistiche basi "scientifiche". È proprio su
queste idee
che, negli ultimi due secoli, si sono verificati i
più
grandi, e "scientifici", regimi totalitari, massacri, genocidi,
stermini che mai l'umanità avesse sperimentato.
Ai re normanni, unanimemente riconosciuti potenti, liberali, giusti,
valorosi, si sottomisero dunque, di buon grado, tutte le
città,
tutte le abbazie, tutte le comunità feudali del Sud d'Italia
che, di volta in volta, senza tregua, avevano dovuto sottostare ai
vicini più forti: ai sire imperiali del Nord, ai catapani
bizantini, ai visir musulmani, ai capitani genovesi, pisani, veneziani,
ai duchi pontifici. Ancor prima che fosse coronato Re, Ruggero, nel
1129, a Melfi, ebbe l'entusiastico giuramento di
fedeltà da
tutti i vassalli.
Il Re non deluse nessuno: senza rigettare la legislazione bizantina,
corroborandola col Diritto romano, creò un potere regio
robusto
e accentratore quanto bastava a garantire l'equilibrio fra i corpi
sociali e all'interno di essi, con un articolato sistema
statale
che faceva tesoro dell'esperienza franconormanna nell'ordinamento
feudale, di quella romanobizantina nell'amministrazione, e di quella
araba in campo finanziario. Nella pratica, Ruggero chiamò a
collaborare alla Magna Curia, nella Cancelleria, nel Tesoro, nella
Corte dei Conti, nelle Dogane, chiunque ne avesse le
capacità,
senza distinzione di confessione religiosa, di stirpe, di
lingua,
di costumi. Vinti e vincitori parteciparono alla costruzione dello
Stato. Ogni energia fu incanalata, secondo l'eclettico spirito
normanno, in un amalgama etnico e morale che fece del Regno di Sicilia
il centro indiscusso della vita culturale, politica ed economica di
tutto il Mediterraneo e che tale rimase fin quando fu unito a quei re
d'Aragona della Catalogna10.
Tollerante degli usi e dei costumi, Ruggero lasciò che i
tribunali civili giudicassero ogni comunità secondo
le sue
leggi. Si ebbero così sudditi sottoposti al diritto romano,
o a
quello greco, o a quello longobardo, ognuno secondo la propria
origine, e sinanche a quello particolare consuetudinario. Il Sud fu la
prima nazione multietnica, come con un termine abusato si direbbe oggi,
a diventare stato costituzionale. Mancava ancora quasi un
secolo
alla «Magna Charta» inglese11.
Rispettoso dei preesistenti diritti feudali, Ruggero volle
però
un elenco completo del patrimonio regio formando così il
primo
catasto della storia moderna. Al celebre geografo arabo Al Idrisi
commissionò la prima rilevazione del Regno e di
tutto il
mondo allora conosciuto.
Sotto i re normanni, dalla Sicilia agli Abruzzi, tutto il reame si
arricchì di possenti castelli demaniali di difesa,
maestose
cattedrali, importanti abbazie. Palermo poté vantare quei
tesori
che ancora ne fanno un gioiello nel mondo: la chiesa della Martorana,
la Cappella palatina di Monreale, il castello della Favara, oltre la
cattedrale di Cefalù, tanto per dirne qualcuno. Sono ancora
quei
capolavori dell'arte romanica sparsi in tutto il meridione d'Italia a
costituire
la base del ricchissimo patrimonio di bellezze che tutto il mondo ci
invidia.
Un universo di raffinata bellezza accresceva la fama del Regno del Sud,
erede di tutte le più splendenti civiltà, che
attrasse
verso la sua corte favolosa ogni dotto ed ogni artista del mondo
mediterraneo, ed insieme chiunque fosse tanto ambizioso da poterne
tramare il possesso. Fra questi il rampollo di una giovane stirpe
germanica della Svevia che s'era fatta onore conquistandosi, fra molte
pretendenti, il diritto di cingere la tiara del Sacro Romano
Impero, gli Hohenstaufen.
Enrico VI, sceso con le sue truppe nell'Italia meridionale, la
occupò, si prese in moglie, nel 1186, Costanza,
ultima
figlia di Ruggero, e, senza troppi scrupoli, mise fuori causa ogni
altro pretendente della famiglia, deponendo l'ultimo degli
Altavilla, Guglielmo III, figlio di Tancredi e nipote del
primo
re. Ma costretto a tornare alla sua turbinosa e fatale vita
d'imperatore, Enrico lasciò a Palermo il figlioletto
Federico,
sotto la tutela della madre e del Papa Innocenzo III.
Federico, audace, colto, fantasioso, è oggi conteso fra
italiani
e tedeschi, da ognuno come capolavoro della loro stirpe.
Quello
che gli autori moderni chiamarono toutcourt lo «Stupor
mundi», anche se, in effetti, cinse anch'egli la corona
d'Imperatore e dovè passare molti anni in Germania e a
battagliare molto contro le città ribelli dell'Italia
centrale e
settentrionale, rimase sempre, d'indole, di cultura e di
gusti, il
«Puer Apuliæ», quel «ragazzo di
Puglia»
come amava farsi chiamare e come lo definirono i cronisti
più
concreti del suo tempo. In questa regione, soprattutto in Capitanata,
appassionato di caccia, soleva trascorrere la maggior parte
dell'anno nei periodi di tranquillità.
Coinvolto forse contro voglia nelle mire dinastiche della sua
famiglia, dopo aver ottenuto anch'egli la corona di
Imperatore, fu
costretto a consolidare quel potere e a disinteressarsi del
suo
regno che in un primo tempo aveva ben governato curando anche la
revisione delle leggi con le «Costituzioni di
Melfi». Gli
storici più attuali hanno ridimensionato molto la
sua
figura, comunque eccentrica e geniale, che un mistico
pangermanesimo e un livoroso spirito antipapale avevano esaltato fino
al prodigioso12.
Federico di Svevia non fu che il "prodotto" della raffinatissima
corte normanna: mezzo occidentale, mezzo orientale, amante del
bello e del grande. Tutto ciò che si racconta della sua
liberalità, della sua tolleranza, del suo gusto, della sua
fama
di iniziatore dell'arte e della letteratura italiana, ha
fondamento solo come continuatore della tradizione normanna meridionale
e mediterranea.
Egli, in effetti, non sapeva guardare oltre i suoi obbiettivi
immediati. Tutto quel che creò e iniziò
doveva
rispondere ai suoi sempre più velleitari piani totalitari.
In
concorrenza con i celebri "studi" di Bologna e Padova
fondò
l'università di Napoli concepita come un'accademia
dei
quadri dello stato: forse fu la più illiberale delle sue
fondazioni giacché, a differenza della suprema autonomia di
cui
andavano fiere queste istituzioni, e nonostante si avvalesse dei
più celebri professori d'ogni parte d'Europa, quella di
Napoli
divenne seminario obbligato per gli studenti del Sud. A chi avesse
osato inviare i figli a studiare fuori del Regno venivano
confiscati tutti i beni e comminato l'esilio.
Ambizioso come e più di ogni altro suo avo siciliano,
Federico
non si lasciò scappare l'occasione di ottenere gloria e
onori
ma, sperando di farla franca, non seppe mai decidersi fra le
due
staffe del Regno e dell'Impero. Forse sperava che lo scettro
della
sacralità imperiale avrebbe reso servizi all'Italia
meridionale: in effetti, le spese per le sue guerre in Europa
dissanguarono di tasse il reame e le sue assenze vi portarono
l'anarchia. Costretto a trattati con le potenze marinare,
rovinò
i commerci del meridione ed aprì la strada del Mediterraneo
a
quei pericolosi concorrenti che erano e restarono i veneziani. Sotto il
suo regno finì d'estinguersi la già minata
Repubblica di Amalfi13.
Il Papa, che vedeva dileguarsi il sogno di fare del Regno di Sicilia il
ponte fra l'Occidente e l'Oriente ma anche il baluardo contro la
violenta pressione dell'Islam assetato di conquista, come voleva il
Profeta, e nello stesso tempo temeva un impero tedesco che
stringesse troppo a se i popoli italiani e violasse le loro
autonomie, costrinse Federico ad osservare i patti di
vassallaggio
di Re e quelli di fedeltà come Imperatore. Richiamatolo
all'ordine cercò di dirottarne le energie nella
Crociata.
Federico promise ma troppe volte ruppe i patti per dedicarsi alle sue
imprese dinastiche. Fu un susseguirsi di affronti, di ribellioni e di
scomuniche: un braccio di ferro fra le due massime potenze del mondo,
quella spirituale del Papa, tesa all'equilibrio fra il benessere e la
libertà dei popoli, e quella temporale di Federico che, per
disegni immediati, sacrificava la pace e la vita dei suoi
sudditi
meridionali.
Vinse il Papa, giacché la scomunica comportava anche
l'interdetto e quindi la disobbedienza dei regnicoli al sovrano.
Federico, nel 1228, finalmente partì per riconquistare il
Santo
Sepolcro e l'obbedienza dei suoi sudditi14.
Tutto sarebbe tornato alla normalità e il Re di Sicilia
poteva
sbarcare carico di gloria, dopo aver cinto con onore quella
corona
di Gerusalemme che già gli spettava per diritto
ereditario.
Così non fu perché Federico, invece di combattere
il
Sultano preferì scendere a patti con lui. Non
liberò la
costa asiatica e africana, anzi diede il destro al califfato
di
ampliare i suoi disegni di conquista. Tutto quello che ottenne fu il
libero passaggio dei pellegrini che si recavano in Terrasanta (patto
che d'altronde fu quasi mai rispettato) ma dové concedere, a
sua
volta, molti privilegi, soprattutto sulle rotte mercantili.
Quello
che sembrava un successo della diplomazia si rivelava invece
nefasto per una più ampia politica di salvaguardia della
cristianità. Gli effetti si sarebbero visti fino alla
battaglia
di Lepanto, all'assedio di Vienna e durano ancora oggi nell'ex
Jugoslavia fino alle stragi odierne in Bosnia Erzegovina e nel
Kosovo.
Federico non era un gran credente. Il suo universo culturale era
impastato d'astrologia, di scientismo e di mistiche orientali:
anche per questo rimane un idolo di tanti "liberi pensatori". Ma
l'ulteriore scomunica del Papa ebbe il suo effetto. Perso
definitivamente
l'ascendente sui suoi sudditi, sia quelli del Regno che quelli
dell'Impero, tradito dai suoi parenti, insidiato da uno stuolo
di
pretendenti, figli legittimi e figliastri come Manfredi,
attaccato
dalle truppe papali, ben presto si ammalò e
morì.
Era il 13 dicembre 1250.
Di Federico resta un monumento, bello, potente, misterioso e alla fine
assolutamente inutile come quella stella luminosissima che aveva voluto
guidare la storia senza neppur sapere dove andava: Castel del Monte, al
centro della Puglia. A forma di corona, ottagonale, con otto
torri
ottagonali. Ogni sua linea e proporzione risponde a complicati calcoli
di solstizi, equinozi, congiunzioni astrali, ogni sua ombra proiettata
dal sole o dalla luna segna, senza mai cessare, il tempo che si srotola
nell'universo, i secoli, i millenni, le stagioni della terra e del
cielo. Un'enciclopedia di pietra del sapere di tutti i magi, di tutti
gli astronomi, di tutti gli scienziati profani di quel tempo, che solo
pochi eruditi provano a sfogliare. Una stupenda, affascinante,
immaginifica biblioteca di Babele contrapposta a quella della
Città di Dio.
In quella spropositata costruzione che solo per approssimazione
può chiamarsi castello, nulla è funzionale. Non
vi sono
stalle, cucine, magazzini, non corpi di guardia, non difese
né bastioni, barbacani o postierle: solo una
sequenza di
stanze messe in cerchio, tutte uguali, dove al massimo ci si
può
accampare per una notte. Insomma, un luogo che non è
abitazione
e non è difesa ma solo, come le misteriose piramidi
d'Egitto, il
sogno pietrificato di un uomo che si illuse di dominare il mondo con
un'intelligenza pari a quella di Dio15.
Federico, che si spostava in lettiga preceduto da un corteo orientale
dove non mancavano nemmeno struzzi ed elefanti, morì
banalmente di malaria o di coliche mentre era a caccia,
lontano
dalla sua corte fastosa, con pochi fedeli attorno, qualche
barone
e la sua guardia saracena. Si dice che il lugubre corteo che
portò la sua salma a Palermo passò
davanti alle
città mute e sbarrate e che nessuno lo pianse nel
reame.
Chi dovesse essere il successore nel Regno non era chiaro, tanto
più che, tendenziosamente, si accavallavano notizie di morti
e
di rinunzie, come nel caso del primogenito di Federico, Corrado I, e
poi del nipote Corrado II, che vivevano in Germania. Su tutto mestava
l'illegittimo ambizioso Manfredi che da Taranto, intanto,
faceva
il re in tutto e per tutto. I partiti dell'uno e dell'altro pretendente
si combattevano a vicenda e gli avversari di tutti quanti, a
loro
volta, ingrossavano la confusione.
A fermare l'anarchia nel Regno, che non dimentichiamolo, era suo
vassallo, provvide il Papa in persona, Urbano IV che, ormai
diffidente di «quella razza di vipere»
degli Svevi
troppo impicciati con le mire imperiali, si mise a cercare in giro per
l'Europa una nuova dinastia capace di governare in pace il Regno del
Sud.
Fra i candidati possibili v'era il Re d'Inghilterra Riccardo
«Cuor di leone» e qualche altro rampollo di
illustri
dinastie straniere. Ma la scelta cadde su quella più fedele
alla
Santa Sede, sui re «cristianissimi», i
«re
taumaturghi» che avevano il potere di guarire dalla scrofola
i
loro sudditi con il tocco delle mani, sui re cui era concesso
il
potere e la dignità dei vescovi e il cui attuale capo, Luigi
IX,
già godeva fama di santo: i re della «nazione
primogenita
della Chiesa», la Francia16.
Il «Campione del Papa» da contrapporre a Manfredi
fu dunque
il fratello minore del Re di Francia, Carlo, Conte d'Anjou e di
Provenza. Il suo valore era indubbio: con imprese oculate aveva
rafforzato i confini orientali del regno di Francia e
assoggettato
molti signori borgognoni, savoiardi e piemontesi. Di ritorno
dalla
Crociata, dove si era comportato valorosamente, nel 1253, il Papa
offrì a lui la corona di Sicilia che Carlo
accettò solo
nel 1263, dopo essersi preparato un vasto apparato di alleanze e di
finanziamenti. La cinse poi, solennemente, in San Pietro, nel giorno
dell'Epifania del 1269.
Certo, Manfredi, quella corona non era disposto a cederla con
buona grazia e, dopo aver inutilmente trattato col Papa e con
gli
altri pretendenti, armato un esercito cercò di precedere il
candidato sovrano che ora si accingeva a marciare con i suoi cavalieri
e con i suoi
alleati verso Napoli. Con il re deposto si schierarono i suoi
fedeli mentre l'armata di Carlo si ingrossava per l'accorrere
degli avversari degli Svevi che anche nel Regno non eran pochi. Vinse
Carlo e Manfredi lasciò la vita combattendo
valorosamente
presso Bene vento.
Carlo d'Angiò rappresentava non solo un nuovo re ma il
simbolo
di tutti coloro che volevano il Papa arbitro imparziale delle sorti
d'Europa: i Guelfi. Gli Svevi superstiti rappresentavano, per
i
Ghibellini, un impero che non doveva rispondere a nessuno del
suo
potere. La lotta che si svolse finché Carlo
d'Angiò non
sedette sul suo trono, non coinvolse quindi solo le sue truppe
e
quelle avversarie per il dominio del Sud d'Italia ma scatenò
in
tutto il continente, e soprattutto in Italia, un rinnovato
turbinio di odi e di battaglie.
Carlo d'Angiò vinse su tutti i fronti e, nel giro di pochi
anni
fece dimenticare al suo Regno la passata dinastia. Non è
affatto
vero, come s'è sempre detto, che provvide crudelmente ad
estinguerla, giustiziando proditoriamente Corradino, ultimo
discendente. Questi, mandato allo sbaraglio dai ghibellini,
avrebbe dovuto usurpare una corona legittimamente assegnata. La casa
sveva continuava ancora nei tre figli di Manfredi che morirono
prigionieri proprio in quel Castel del Monte che doveva simboleggiare
la gloria della dinastia. E naturalmente, come usava per le
stirpi
reali, e come era già stato per il figlio di Federico Enzo
ostaggio a Bologna, si deve supporre che furon prigionieri con
tutti gli onori ed ogni riverenza17.
Carlo, insediatosi con la sua corte a Napoli, rimise ordine
nell'amministrazione dello stato e nell'anarchia dei baroni
allo
sbando durante il tramonto della dominazione sveva. Intraprese
grandi lavori pubblici e cercò di rinsanguare le finanze
esauste
dalle imprese di Federico e dalle lotte di transizione. Il compito non
era facile e contava molto sulla politica di espansione della
Cristianità verso Oriente a cui egli si accinse.
Ma, mentre
il suo potere s'estendeva verso l'Albania, i Balcani e l'Ungheria,
della quale il nipote sarebbe diventato Re, non altrettanto
s'assestava l'economia pressata anche dai debiti che aveva contratto,
per la conquista, con i banchieri
toscani e con i potentati economici dell'Italia settentrionale.
Nonostante i sacrifici imposti ai sudditi, Carlo rimaneva l'amato
simbolo del potere spirituale del Papa. Notoria era la sua
pietà
cristiana: la sua corte, austera e religiosissima, a
differenza di
quella sveva, viveva circondandosi di santi prelati e monaci,
trasformata quasi in un monastero. Le vedove regali invariabilmente si
rinchiusero tutte nei cenobi delle Clarisse. Lo stesso
abbigliamento degli angioini, che vestirono, anche sull'armatura,
sempre il saio dei Frati Minori e che, secondo l'usanza di San
Francesco, e a differenza dei romanizzanti re palermitani, portarono
sempre la barba lunga, mostrava il loro indefettibile
guelfismo18.
Protettori degli ordini mendicanti quanto i predecessori lo erano stati
di quelli monastici, i re angioini favorirono in ogni modo
l'insediamento di conventi domenicani e francescani e la
fondazione delle loro chiese in tutto il regno, a cominciare, a Napoli,
da quelle di San Domenico Maggiore e di Santa Chiara nella quale
vollero anche essere sepolti.
Ma se la Germania, patria di ogni ghibellinismo, era il punto
d'attrazione della precedente dinastia, la Francia, patria
d'ogni
guelfismo, era il naturale polo degli Angioini. Di lì tutto
complottava perché vi facesse capo il Papato. E del
resto i
disegni dei gallicani si sarebbero avverati sciaguratamente non molto
più tardi portando il capo della Cristianità ad
Avignone.
Intanto, la corte angioina di Napoli diventava residenza preferita dei
papi e lo stesso Celestino V non vide le folle devote di fedeli del suo
effimero pontificato se non dalle finestre del castello che si
affacciava sul golfo partenopeo.
Su Carlo, passato ingiustamente alla storia per sovrano avido e
crudele, come volevano i ghibellini, si addensarono tutte le
sfortune. La più grande quella della secessione della
Sicilia
che, mortificata dalla perdita della sua centralità,
sobillata
dai baroni in cerca di potere, indocile all'austera politica
fiscale della Corona, si ribellò, nei famosi
«Vespri», allo scettro del Re, e si
sottomise a
Pietro d'Aragona separandosi dal resto del Sud.
Sicilia e Napoli, due regni divisi per sempre
I diritti di Pietro, III re di Aragona, I di Sicilia, poggiavano, un
po' traballando, sul fatto che costui aveva sposato la figlia di
Manfredi, Costanza. Tanto bastava per pretenderne l'eredità
nel
momento che i siciliani glie ne davano l'occasione. Ma anche gli
aragonesi erano vassalli del Papa e contendere con Carlo significava
insolentire l'autorità paterna.
La questione non era di facile soluzione pur se il diritto dava
ragione a Carlo d'Angiò che però
tentò invano
di riconquistare l'isola con le armi. Ci provarono anche i suoi
discendenti, e sempre disastrosamente. Finalmente, a sedare la contesa
intervenne lo stesso papa che, più per amor di pace che
salomonicamente, confermò Carlo nel titolo di Re di Sicilia,
com'era sempre stato, e riconobbe le pretese degli aragonesi concedendo
loro, per il momento, la corona di un inedito «Regno
di
Trinacria».
Estintasi la dinastia angioina, dopo il grande e saggio Roberto, fra
gli sfortunati discendenti del ramo durazzesco e le deboli Giovanne
infelici e sentimentali, nessuno dei successivi pretendenti francesi
pensò più a quell'isola ribelle e a quel nome che
aveva
designato tutta l'Italia meridionale. Già prima si parlava
di
due Sicilie, una «di là» ed una
«di qua del
faro», dopo si parlò solo e sempre di un Regno di
Sicilia
e di un Regno di Napoli. Fu quest'ultimo a primeggiare e ad
essere
oggetto di contesa fra le grandi potenze.
Più tardi, quando sia l'uno che l'altro regno finirono
entrambi
al re d'Aragona, Ferdinando I «il Magnanimo»,
questi
continuò a tenere le corone divise e solo quella di Napoli
toccò al suo figlio bastardo Alfonso. Ancora una volta,
tornate
le due corone sulla stessa testa, quella di Ferdinando «il
Cattolico», nel 1503, che accumulava, con quella d'Aragona,
sia
pure "a tempo", anche quella di Castiglia ereditata da Isabella insieme
a quelle di tutti gli altri regni liberati della penisola iberica,
nemmeno quando questi furono tutti unificati
nel nome di Spagna (1512) si decise a ricomporre l'antico Regno di
Sicilia com'era nato in quella notte di Natale del 1130.
Una decisione sommamente prudente giacché, ormai, quei due
tronconi d'Italia erano molto più distanti, culturalmente,
per
temperamento, per usi, costumi e destini, di quanto lo fossero
le
sponde del faro di Scilla da quelle di Cariddi.
E, precedendo quel XIX secolo, di cui a suo tempo diremo,
possiamo
affermare già da ora che altrettanto prudente non fu
Ferdinando
IV di Borbone che riunificò la Sicilia con Napoli diventando
I
Re delle Due Sicilie. Parve, a quel sovrano restaurato dal
Congresso di Vienna, che le castagne bollenti fossero
già
state levate dal fuoco dai napoleonidi.
Giuseppe fratello di Napoleone e Gioacchino cognato infatti
avevano già fatto proprio quell'antico nome,
«delle
Due Sicilie», per dieci anni, vantandosi
già padroni
di tutto. Sui loro stemmi e sulle loro bandiere, con le provincie del
Napoletano avevano posto già la caparra
dell'aquilotto
imperiale sulla Triquetra siciliana (le tre gambe che camminano in
cerchio facendo perno su una testa di Medusa). Non riuscirono invece ad
impossessarsene mai e l'Europa, umiliata da Napoleone, si
vendicò levando ai suoi luogotenenti anche il
ricordo di
ciò di cui s'erano illegittimamente appropriati.
Ferdinando e i suoi successori, poiché dovettero sempre
vedersela con l'infida e ribelle Sicilia, e poiché proprio
quella parte inquieta del regno fu una delle ferite che suppurando
cooperò non poco alla grande infezione che portò
alla sua
dissoluzione: i Borbone su quelle castagne si scottarono le
mani.
Gli Aragonesi padroni del Mediterraneo
L'ultima regina angioina, Giovanna II, successe al trono, al fratello
Ladislao, del tutto impreparata. Affascinante, bella ma anche donna
semplice e di buon senso, fu scelta solo perché l'unico
altro
pretendente disponibile era già Re d'Ungheria e non
si
volevano far confusioni in un regno che era e doveva restare
mediterraneo.
Innamorata del nobile Pandolfello Piscopo, troppo povero per
fare
il principe consorte, non poté mai sposarlo, neppure
morganaticamente, e dovette sottostare alla ragion di stato.
Manovrata dai baroni e dai grandi funzionari del regno, non
riuscì mai a rassegnarsi al matrimonio di
convenienza col
conte Giacomo di Borbone dal quale infine si separò.
Indecisa
fino all'ultimo se adottare come successore Alfonso d'Aragona
o il
nuovo conte d'Anjou Luigi III oppure il suo figlio René,
«il buon Renato», tutti, a turno, furono chiamati a
Napoli,
ognuno convinto d'avere tutto il diritto di restarci da re.
Ricostruire cronologicamente tutta la confusione della storia di quei
tempi richiederebbe volumi. Ci basti sapere che mentre dei
napoletani e degli stessi pretendenti nessuno sapeva chi fosse
il
vero re, alla fine ebbero la meglio gli Aragonesi.
Alfonso I «il Magnanimo» e i suoi successori, veri
uomini
del Rinascimento, diedero ai rapporti del Sud con il resto del
mondo conosciuto quel tocco di cosmopolitismo che
già
possedevano per essere i dominatori del Mediterraneo. I
padroni di
quello che era comunemente detto, ormai, il «Lago
aragonese», amanti di tutto ciò ch'era bello,
fastoso,
estroso e gentile, tenendovi senza interruzione la loro corte, sia pure
in meno di mezzo secolo, rifecero di Napoli e del suo regno il centro
d'Europa.
L'arte e la cultura, che dalla languorosità fulgida e
mistica
bizantineggiante e dalla leggiadra geometria arabesca i normannosvevi
avevano sollevato alla possente solennità romanica e gli
angioini all'austero slancio gotico, con gli aragonesi giunse alla
sintesi di ogni espressione più aggraziata di quel
Rinascimento
che però non ebbe mai i caratteri del freddo stilema
paganeggiante d'altre parti d'Europa e che sbocciò quasi
naturalmente nel più lussureggiante barocco italiano.
Richiamati dalla più grande biblioteca del mondo d'allora,
dal
sempre più famoso "Studio", dal mecenatismo
generoso dei
sovrani, i massimi artisti, letterati e poeti non solo italiani ma di
ogni parte del mondo, fecero di Napoli la capitale delle lettere e del
buon gusto mentre, con i traffici e l'insediamento di catalani,
provenzali,
pisani, genovesi, veneziani ed ebrei, la città, che contava
sessantamila abitanti, cifra inaudita per quel tempo, superata
solo da Venezia, accrebbe la sua fama mercantile favorita
anche
dalla costruzione del nuovo porto e di nuovi arsenali.
«Plus ultra»: oltre le Colonne d'Ercole
La centralità culturale del Regno di Napoli
terminò
quando Filippo d'Asburgo, sposando la figlia di Isabella, Giovanna
«la Pazza», ebbe, oltre che quella della
Castiglia,
tutte le corone di quei regni riconquistati in Spagna dalla
crociata europea contro i Mori e di quelli conquistati nel
Mediterraneo.
La lunga, paziente politica tutelare dei papi attraverso i secoli aveva
sempre più impercettibilmente spostato le sorti dell'Europa
dal
centro verso la periferia risvegliando le energie di nuovi
popoli
e favorendo la nascita di nuove potenze. Senza questo
spostamento
d'asse, l'Impero germanico, come ben mostravano i suoi ricorrenti
disegni d'egemonia, avrebbe forse finito per stritolare e
amalgamare ogni diversità nazionale ed ogni
particolarità culturale. Come non vi sarebbe mai stata
Europa
senza monachesimo e feudalesimo, così non vi sarebbe stata
con
la strapotente centralità d'un impero che nato romano e
quindi
universale era diventato del tutto tedesco.
La Spagna, fervente cristiana, giovane, gagliarda, audace, purificata
dalla lotta allo spasimo contro l'Islam piantato in casa sua come un
affronto, non aveva ancora finito di metter ordine nei suoi confini che
già si slanciava nella grande avventura di là
delle
Colonne d'Ercole.
Molto s'è detto contro gli spagnoli e il loro governo
napoletano
fino a far combaciare tutti i mali del Sud d'Italia con quel vicereame
durato oltre due secoli durante i quali il Regno sarebbe,
secondo
certi storici, caduto in un mortale letargo e spogliato dai nuovi
padroni. Si tratta dei secoli su cui, più tardi, sarebbero
state
imbastite tutte le "leggende nere" della storia, al centro delle quali
c'è sempre qualcosa di cattolico e qualcosa di
spagnolo.
Il cristianesimo latino aveva saputo incanalare le energie
sovrabbondanti dell'Europa senza rinnegare i suoi pedagoghi
greci
e romani e senza ricusare le conquiste scientifiche degli
arabi e
degli ebrei, aveva fatto spazio ai nuovi popoli che bussavano alla
civiltà ed aveva evitato, con un monachesimo che non
disdegnava
di battere l'incudine, d'impugnare l'aratro, e all'occorrenza
la
spada, di rifugiarsi nell'intimistica spiritualità
della
Chiesa orientale19.
Di un'accozzaglia di popoli brutali, differenti ssimi per lingue, usi e
costumi, la Chiesa romana aveva saputo creare, nell'unica fede,
un'unica nuova civiltà, a modello della Gerusalemme celeste,
svegliando d'ognuno di loro i talenti geniali che la
Provvidenza
v'aveva infuso. Con la disciplina dei suoi precetti, che
sapevano
tenere all'erta tanto l'anima quanto il corpo, aveva permesso che le
società rinascessero non più secondo l'istinto
animalesco
dell'orda barbarica ma secondo i suadenti richiami del buono,
del
giusto e del bello. Di irsuti condottieri aveva fatto raffinati cultori
dell'arte. Dalla bocca di selvatici capi tribù
aveva fatto
risuonare le melodie del canto gregoriano. Di guerrieri dediti al
saccheggio e allo stupro aveva fatto fini verseggiatori dell'amor
cortese. Di sanguinari conquistatori aveva fatto cavallereschi
gentiluomini fedeli ai patti fino al sacrificio. Di donne vendute e
comprate per gli harem aveva fatto gentili madonne, mogli onorate,
maestre di decoro e sagge regine. Imperatori e re, reami, ducati e
contee, codici e decretali, avevan preso forma lì dove
esisteva
solo la legge del clan e del
Quando, secondo la mai domata natura umana, l'usurpazione,
l'intrigo e la forza superarono il livello di guardia della
convivenza, solo in forza della fede, armature e spade furono
impegnate nella più bella avventura corale che mai la storia
umana abbia conosciuto: render libero e sicuro il cammino dei devoti al
sepolcro del Re Redentore, ingaggiando ognuno, secondo le sue
forze, regnanti o plebei, regni, tesori, campi e famiglie in
un'impresa che solo un'ignorantissima malafede può
ancora
ritenere, fra le pietraie e le sabbie dell'Asia minore, un affare di
conquista coloniale.
La raffinatissima ma altrettanto crudele e devastatrice forza
d'espansione dell'Islam fu fermata ancora in un'Europa che
sognava
paradisi più virili che quelli languorosi delle vergini
Urì ed ancora tutti i regni cattolici, all'appello del Papa,
si
misero per mare a Lepanto quando i santi guerrieri di Maometto issarono
le loro verdi bandiere fino ai Balcani e spadroneggiarono nel
Mediterraneo20.
Una civiltà così controversa eppure
così omogenea
nella sua cultura di ormai mille anni, che sapeva radunare ancora
insieme popoli così differenti e distanti senza dovere, a
differenza degli antichi romani, pattugliarli giorno e notte con le
loro invincibili legioni, doveva iniziare a disfarsi proprio
per
colpa di quei sapienti, ordinati, civilissimi ma ostinati eredi
tedeschi dell'Impero.
La zizzania seminata fino al Regno di Sicilia al tempo degli
Hohenstaufen, l'insofferenza dei prepotenti imperatori, le avide lotte
dei principi elettori di Germania, trovarono terreno fertile
nell'intransigenza "carismatica" di Lutero e nel suo sogno
ossessivo di riportare la cristianità ad una presunta
purezza di
cui lui solo diceva di possedere la chiave.
Ai nostri giorni, il monaco di Magonza sarebbe uno dei tanti
contestatori "ispirati" che nascono, fioriscono e presto
appassiscono negli ambienti cosiddetti ecclesiali. Una mancata
vocazione scambiata per elezione personalissima di un dio
personalizzato che, talvolta, attrae per breve tempo altre anime
inquiete, questi "buonisti" si dissolvono, in barba ai loro
austerissimi programmi, in pigri e malsopportati matrimoni borghesi. Lo
stesso Lutero si prese per moglie una monaca, e sarebbe stata anche una
punizione bastante, ma la sua erudita orgogliosa protesta non si
quietò giacché diede l'occasione agli
indocili
principi, eletti a protettori e quindi a "vescovi" della nuova chiesa,
di dar fondamento dottrinale alla loro ribellione a Roma21.
Il protestantesimo, nuovo e più virulento ghibellinismo
appannato spocchiosamente di sacra scienza, contagiò mezza
Europa e puntellò le politiche di ogni dissidente,
compresa
quella del Re d'Inghiterra che altre ragioni non aveva, per separarsi
da Roma, oltre un mancato annullamento di matrimonio.
Chiamiamolo come vogliamo e, se ce lo concedono, anche
Provvidenza, quell’ irrompere nella storia di una
novità assolutamente imprevedibile: la scoperta del Nuovo
mondo
al di là di quel mare dove lo sprovveduto Colombo pensava
solo
di abbreviar la strada col «buscar el Oriente por el
Occidente».
A partire dal 1492, le prospettive della Cristianità,
così come si era formata dal Mediterraneo al Mar Baltico, si
allargarono improvvisamente in confini sempre più
vasti.
Per un millennio, invano, la civiltà europea aveva cercato
di
conquistare l'Oriente al Vangelo. Tutto ciò che ne
aveva
ricavato erano i paesi slavi, dove religione e cultura erano stati
portati, alle stesse condizioni con cui aveva lavorato San Benedetto e
i suoi discepoli, da altri due santi monaci, Cirillo e Metodio. I due
fratelli, raggiunte le tundre, le steppe e le taighe della sterminata
Rus' avevano cominciato dall'abbiccì, ovvero dal
dare a
quei popoli divisi da mille lingue e da mille usanze, una lingua e un
alfabeto comune. Pur in modo sempre originale, il cristianesimo era
fiorito così anche in quell'Oriente ed aveva dato vita a
stati
ben organizzati, capaci infine di resistere alle orde dei
mongoli
e dei tartari che continuamente premevano dagli estremi deserti
dell'Asia.
Ma l'Islam, padrone di tutto il resto della vicina Asia e dell'Africa
mediterranea ridotta ormai a deserto, e sempre pronto a razziar terre
europee, era l'invincibile ostacolo che, fino ai giorni nostri, avrebbe
chiuso il cammino della civiltà occidentale in quella
direzione.
La caduta definitiva di Costantinopoli, nel 1453, aveva disperso le
residue speranze che un impero latino, al posto di quello
bizantino, potesse risvegliare l'apatico cristianesimo orientale dal
sonno in cui era precipitato dopo lo scisma.
L'Asia estrema, i suoi innumerevoli e favolosi popoli che pochi
intraprendenti viaggiatori avevano raggiunto e che altrettanto
solitari e intrepidi missionari avevano conosciuto come un'immensa
riserva di futuri cristiani, non si poteva raggiungere se non secondo
l'involontaria profezia di Colombo: dalla parte opposta.
Il tempo in cui la Storia si divise in due
Il Regno di Napoli non fu una semplice «provincia dell'impero
spagnolo», frase abusata da chi vuol scrivere la
storia
"addosso" ai meridionali e giustificare la loro successiva
"liberazione". Per circa due secoli l'Italia meridionale visse, come
ogni altro stato d'Europa, nelle luci e nelle ombre dei grandi
eventi che sconvolgevano l'Occidente dalle fondamenta ma che si
presentavano, allora, inavvertiti ai più per la
loro
capacità di rinnovamento.
Da quando la Croce era stata piantata su quell'isoletta caraibica
scambiata per India, come ai tempi dei primi cristiani,
silenziosamente ma prepotentemente, si rifaceva strada nel
cuore
degli uomini, e ben più grande, l'idea di futuro.
Nel mondo, pur evoluto, prima di Cristo, tanto nel bacino
mediterraneo di dove si dispiegò la storia della
quale ci
interessiamo, come in quelle grandi civiltà che si
affacciavano
dall'Asia, il tempo era fermo. Non esisteva, nel pensiero della gente
comune né in quello dei sapienti, il concetto del tempo come
oggi lo intendiamo. Di fatto, la "Storia" non esisteva.
L’historia, o meglio le historie riguardavano semmai
i
fenomeni naturali, la vita degli animali. L'avvicendarsi dei
giorni, il succedersi degli avvenimenti umani, le gesta degli
uomini illustri, era semplice cronaca, annales, come dicevano
i
latini, una registrazione puntigliosa di quel che succedeva di notevole
durante il trascorrere del tempo e degli anni che, al massimo,
poteva essere riferito al passato. E infatti, cronos, il tempo dei
greci, non era parola diversa, anche nella pronuncia, da kronos, che,
col semplice cambio d'iniziale significava invece passato, origine del
tutto, finanche del padre degli dei che ne portava il nome. La parola
futuro, così come noi l'intendiamo, era sconosciuta.
Senza un senso, tutto scorreva come un grande fiume senza arrivare mai
a una foce, ad un senso compiuto. I saggi ipotizzavano, come del resto
nella tradizione orientale e nelle civiltà amerinde,
che ogni cosa ruotasse nel tempo ritornando sempre al punto di
partenza: corsi e riscorsi. Nessuno, narrando gli avvenimenti, le
conquiste, le gesta dei grandi condottieri, i costumi dei popoli, il
nascere e il tramontare di grandi imperi, si chiedeva, come
oggi
fa anche il più sprovveduto degli storiografi, che senso
avesse
tutto ciò, da cosa fosse stato causato, quale messaggio si
celasse dietro l'apparenza, dove si potesse presumere che tutto andasse
a parare.
I più
grandi pensatori d'Occidente
s'erano posti il problema di questo limite in maniera sconsolata
concludendo, stoici, cinici e scettici, che il perché di
tutto
fosse irraggiungibile a uomini e dei e che fosse celato per sempre
nell'oscurità del caos primordiale.
II messaggio cristiano, la
fondazione di un
regno sulla terra, il ritorno di Cristo e il definitivo trionfo del
Regno dei Cieli con la vittoria sulle forze che ne avevano impedito la
pacifica attuazione, pur nel mistero nel quale si celava e si
svelava, era quella buona novella che, all'anno zero, nel mondo
unificato dai romani, tutti aspettavano e che dava finalmente una
logica al cammino dei singoli uomini come degli interi popoli sulla
terra.
Per chiunque ascoltava cessava per sempre l'angoscioso girare in una
giostra che non si sarebbe fermata mai: la strada diventava un
itinerario che conduceva in un qualche posto, sia pur sconosciuto che,
se tanto mi dà tanto, doveva esser degno di desiderio fino
al
sacrificio.
Senza questa tensione ad una meta non si spiega ciò che
abbiamo
detto fin qui né si spiegherebbe perché, pur
avendo
abbandonato in molti, la guida verso quell'avvenire promesso, pur
discutendo, altercando, combattendo fra loro, gli uomini si
affannino ancora verso un'idea di progresso del quale, pure,
non
sono nemmeno d'accordo come debba esser fatto e con quali mezzi debba
esser conseguito.
Con la guida della Chiesa, l'Europa arrivò alla
metà del
secondo millennio. Quando sembrò che tutta la
Cristianità
si sfasciasse perché nulla restava più da
raggiungere, il traguardo si spostò oltre l'Atlantico.
Da quel momento, con la grande ribellione di metà
dell'Europa
che, in pratica, con il protestantesimo, si separava da chi l'aveva
guidata e plasmata fin'allora, non ci fu più una sola storia
ma
due: quella che continuava a descrivere e a interpretare gli
avvenimenti così come la logica del Vangelo li aveva
preparati e
condotti, e quella, che oggi si presume "laica", dove non solo quel che
avviene succede indipendentemente dalle premesse ma anzi
individua, in diversa misura, in quel punto di partenza, la causa di
ogni male, di ogni orrore, di ogni mancato progresso.
Questa seconda storia è quella che oggi sembra prevalere e
che,
in larga misura, s'insegna nelle università, nelle scuole,
nei
libri più diffusi, nelle divulgazioni popolari. In questa
seconda storia si colloca, ormai quasi senza contraddittorio,
la
storia del Sud d'Italia, storia dannata.
Se, a chi si accinge a conoscere anche solo la storia del luogo in cui
è nato e si è formato, sfugge (come purtroppo a
molti,
sfugge) questa chiave d'interpretazione, sarà molto
difficile conservare sia pure una parvenza di dignità. La
sua
storia si confonderà con quella che al momento convince di
più, con quella che sembra esser vincente, finché
anche
quella (come ormai sembra che ineluttabilmente stia accadendo)
sarà assorbita da una nuova storia di vincitori e
dimenticata.
Alla storia si sostituirà, allora, come in antico, la
cronaca di
giorni senza fine, sempre uguali, dove tutto è
già
successo e risuccederà. Cronaca nera, come quella che sembra
esser diventata quella del Sud: cronaca senza speranza.
Napoli spagnola
Seconda per rango solo a Madrid, come si compiacevano di
proclamare i re spagnoli, Napoli, al contrario di quanto
s'è detto e ridetto, nei circa duecento anni di
vicereame,
non solo non decadd ma crebbe fino a diventare quella metropoli di
350.000 abitanti che,
anche prima dell'ingresso dei Borboni, costituiva la più
popolosa e, in gara con Venezia, la più ricca
città del
Mediterraneo. A fare un paragone, Napoli stava a Madrid come oggi New
York sta a Washington.
Nel 1571, il Regno disponeva della più grande flotta
d'Europa.
Solo i veneti avevano più imbarcazioni ma vi si
dovevano
contare anche quelle di piccolo cabotaggio con le quali
costeggiavano la Dalmazia e la penisola balcanica. Alla battaglia di
Lepanto, di fronte alle 27 galee della Spagna (13 delle quali
affittate dai genovesi), il Regno di Napoli poteva dispiegarne 31.
A cominciare dal "Gran Capitano" Gonsalvo de Cordoba, il
sovrano
dalla Spagna inviò a Napoli, come viceré, i suoi
uomini
migliori. Alcuni tennero la carica per lunghi periodi e buona parte di
essi si trapiantarono nel Napoletano, come in una parola veniva
chiamato il regno, diventando per sempre italiani. Napoli e l'Italia
meridionale amarono come loro patrie e continuarono ad
arricchirle
di bellezza e di decoro.
Il Duca di Toledo, il Duca d'Alba, il Duca di Medina, il Duca di
Medinaceli sono nomi ancora familiari ed amati dai napoletani. Come
ancora raccontano la topografia e i loro emblemi, furono
intenti
ad aprire strade, costruire nuovi edifici pubblici, ampliare i vecchi,
abbellire la città. Le vecchie mura furono superate e Napoli
si
distese senza confini da Posillipo alle falde del Vesuvio.
Il Regno non fu mai la provincia d'oltremare da cui trarre i proventi
delle tasse da spendere in Spagna o di là dell'Oceano. Come,
alla resa dei conti, la corte spagnola si indebitò per i
capitali spesi in quel nuovo mondo che avrebbe dovuto essere
l'Eldorado, così, per le stesse ragioni di
hidalguía e di
prestigio, consumò ogni provento d'Italia nell'Italia
stessa24.
La stessa corte asburgica, ritiratasi nei suoi possessi orientali
tedeschi e slavi, restò profondamente spagnola
d'animo e a
quella magnanimità, a quella
longanimità, a quella
"grandezza d'animo castigliana", lo "stamento de nobleza" che
anteponeva spavaldamente l'onore all'interesse, si dovette la sua
grandezza posteriore,
felicemente sposata all'ostinata forza di volontà
della
razza germanica, al mistico senso del dovere degli slavi e alla
sacralità dello scettro imperiale.
L'Austria degli Asburgo non dimenticò mai il suo passato
iberico, di cui il "cerimoniale spagnolo" sopravvissuto fino a che la
corte sopravvisse non fu che il segno esteriore: di fatto, soprattutto
negli ex domini della corona madrilena, l'Arciduca d'Austria si
circondò e si servì largamente dell'antica classe
dirigente castigliana, aragonese e catalana. Così
in
Lombardia come successivamente a Napoli.
Nei due secoli in cui Napoli legò il suo destino a quello
della
Spagna alle cui imprese non fu mai estranea, con questa si
slanciò verso l'avvenire. Il «Siglo de
oro»
spagnolo fu secolo d'oro anche per Napoli: anche nel suo cielo il sole
non tramontava mai. La decadenza spagnola, che
mostrò al
mondo la sublimità di quello spirito che rifulge soprattutto
nella sventura e nella derrota, non avrebbe coinvolto il Regno del Sud.
Gli Asburgo, ereditate le corone degli spagnoli e spagnoli fino in
fondo diventati essi stessi, con Carlo V restarono anche gli eredi
dell'Impero. La Cristianità, benché ormai
mutilata dai
regni protestanti, si protendeva ancora verso il suo destino e
il
meridione d'Italia, che in essa era nato ed era stato allevato,
continuava la sua storia di sempre.
Una folla di filosofi, di letterati, di artisti, di scienziati, di
santi, uomini e donne, il Regno avrebbe continuato a partorire nel suo
popolo fedele e tenace continuamente fecondato, senza complessi, da
quanti, ovunque nati, vollero viverci e morire.
Mentre le polemiche protestanti tenevano il resto dell'Europa in un
permanente stato di guerra, la Cattolicità
continuò a
godere quella pace che, del resto, aveva sempre regnato al di qua
dell'Appennino toscoemiliano. Nel Sud d'Italia sembrava essersi
avverata per sempre la profezia di quel regno messianico dove
s'era dimenticata l'arte della guerra e le spade erano state fuse per
farne vomeri ed aratri.
Fu soprattutto allora che s'ebbe la massima effusione di scienza e
d'arte che trasformò il meridione oltre che in un luogo di
delizie naturali anche in una vetrina di bellezza e di cultura.
La riforma tridentina fu accolta nel Regno con entusiasmo e fervore
come c'era da aspettarsi da un popolo profondamente devoto e,
diremmo, naturalmente cristiano. Al Sud non v'era da
contrastare
nessuna eresia: sette e conventicole di esagitati non ve n'erano mai
state e la fedeltà al successore di Pietro non solo non era
mai
stata messa in discussione ma si manifestava, oltre che in una diffusa
devozione condivisa da corte, nobiltà e popolo, in
una
continuazione di interessi economici e di vincoli giuridici e politici
che facevano di Napoli il regno pupillo della Chiesa. Solo nel 1845,
pochi anni prima della catastrofe, a fini amministrativi, si provvide a
piantare dei cippi per delimitare lo stato napoletano e quello del
Papa: sempre i sudditi dei due regni si sentirono e furono un
popolo con i medesimi sentimenti. Mai occorse passaporto per
transitare un confine segnato solo dalla tradizione.
Dopo il Concilio di Trento, la vita di fede, da sempre fondamento di
quella civile, ebbe un'impennata di vitalità che si
manifestò nella nascita di nuove famiglie religiose dedite
al
culto, allo studio delle scienze sacre, all'assistenza spirituale,
all'insegnamento, al sollievo dei poveri e dei malati. Basti ricordare
le opere di San Gaetano da Thiene, veneto meridionalizzato, e il
grandioso ordine dei Teatini fondato insieme a Gian Pietro Carafa, poi
Papa Paolo IV, che concorse, insieme ad altri ordini
più
antichi e ad altre nuove congregazioni, al prosperare delle
opere
parrocchiali e della vita virtuosa diffondendosi in
tutt'Europa.
Un fiume d'acqua viva, quello scaturito da Trento, che sarebbe
sfociato, proprio nel meridione, con Sant'Alfonso de' Liguori,
in
una scuola di morale vasta e profonda quanto il mare di filosofia e
teologia di San Tommaso.
L'attività dei laici fu segnata dal proliferare di
un'infinità di confraternite dedite alle opere di
misericordia, molte ancora attive oggi nonostante gli sconvolgimenti
seguiti alle rivoluzioni settecentesche e alla persecuzione
religiosa risorgimentale.
La società ne fu arricchita con opere di assennata
lungimiranza
civile, istituzioni che diedero più tardi impulso a
quelle
statali e che spesso, oggi, rimangono l'unico punto di riferimento
della vita associata. Tanto per ricordare, i monti di
pietà
che stroncavano alla radice la piaga dell'usura e che nella sola
capitale furono ben cinque, ma che erano diffusi in ogni
grande
città del Regno, gli ospedali, gli ospizi, i
"conservatori"
dove venivano istruiti poveri, storpi, inabili, trovatelli,
donne
sfortunate e traviate: una rete di solidarietà
cristiana
tanto fitta e ben organizzata da meravigliare ancor oggi i teorizzatori
di quell'utopistico welfare state liberale ormai ovunque fallimentare25.
Nessun bambino indesiderato veniva soppresso a Napoli ma,
affidato
alla cura di decine e decine di opere tanto religiose quanto laicali,
allevato con amore, istruito ad un mestiere, reso capace di
guadagnarsi la vita senza complessi. Un sistema razionalissimo
di
balie volontarie e, quando non bastavano, stipendiate, provvedeva,
appena girava una "ruota degli esposti", ad entrare in azione
perché il neonato venisse nutrito fino allo svezzamento.
L'adozione di trovatelli era pratica diffusa fra il generoso
popolo napoletano, fin nelle famiglie più umili e cariche di
figli. Il nuovo arrivato, «'o figlie d'a Madonna»,
godeva
fra i nuovi genitori e i nuovi fratelli di uno status quasi
onorifico ed era il più coccolato della famiglia26. Tuttora,
nomi frequentissimi come il famoso "Esposito" della capitale se agli
occhi lubrici rivelano quanti figli illegittimi partorisse Napoli, ai
cuori pietosi svela quanti bambini abbiano potuto scampare, in
tempi che si vorrebbero egoisti e crudeli, la sorte degli
asettici
ferri chirurgici o degli igienici cassonetti della spazzatura forniti
dalla moderna società.
Nella sola Napoli vi erano quattrocento fra chiese e cappelle
regolarmente officiate, senza contare gli oratori privati, ben
duecento fra monasteri, case ed istituzioni appartenenti a
comunità religiose27. Tutto il Regno era una fitta rete di
rapporti ecclesiali e civili che formavano la trama morale ed economica
di una convivenza ormai plurisecolare talvolta anche opulenta e
comunque mai miserabile.
Si calcola che quasi un terzo della proprietà fondiaria e
immobiliare del meridione appartenesse, frutto di un'antichissima e
ininterrotta serie di lasciti e donazioni, ad istituzioni religiose.
Meglio amministrate delle proprietà degli antichi
feudatari, esenti da tasse, oltre a concedere un più largo
margine di guadagno ad affittuari ed operai, provvedevano, molto prima
della scoperta dei vantaggi di un possibile sano capitalismo,
a
far circolare il danaro senza sterili tesaurizzazioni o spese
voluttuarie28.
Preti e religiosi non indulgevano nei fasti dei nobili né
avevano da provvedere il necessario decoro per la discendenza. Oltre ad
investire largamente in opere di beneficenza, esse stesse
fonte di
futuri redditi e, diremmo oggi, di capitalelavoro, creavano una
ricchezza diffusa attraverso la continua committenza d'opere d'arte e
d'artigianato, spesso d'altissima qualità, soprattutto per
il
decoro delle chiese. L'istruzione all'arte e alla musica, per esempio,
costituiva un ciclo d'attività caritativa che s'espandeva
nel
tessuto lavorativo privato. Ovunque, anche nei centri più
piccoli fiorivano di conseguenza botteghe di maestri che si
perpetuavano di padre in figlio e si estendevano dai garzoni agli
apprendisti fino a diventare "scuole" che spesso hanno lasciato tracce
profonde nel mondo dell'arte.
Sorsero, per impulso di questa spontanea e solerte società,
laboratori di scalpellini in pietra, di intarsiatori di marmi pregiati,
di scultori, di modellatori di gessi e stucchi, di fantasiosi
decoratori in scagliola, di doratori, di intagliatori, di
ebanisti
e creatori di tarsie in legno e in avorio, di argentieri, di
cesellatori, di sbalzatori, di niellatori, di affrescatori, di pittori
di pale d'altare, di modellatori di statue di cartapesta, di
orafi, di ricamatrici, di merlettaie, di tessitrici di sete, mussole,
pizzi, di miniatori di pergamene, di calligrafi, di
progettisti e
costruttori d'arredi ecclesiastici, di fonditori di campane, vetrai,
organari.
Se il meridione d'Italia, come dicono gli storici dell'arte, non
produsse in quel tempo, salvo poche eccezioni, quei geni delle
arti figurative che nacquero isolatamente in Toscana, a
Venezia,
nelle piccole e raffinate corti settentrionali, fu appunto
perché, come ogni altra espressione della
creatività,
anche l'arte, nel Sud, si manifestò non
individualisticamente ma come una grande partecipazione
corale. Essa si sparse, inondò, in maniera spesso
più ingenua ma volentieri più esuberante
che nel
resto d'Italia, ogni anfratto del territorio, dalle
più
piccole cappelle di campagna man mano ai borghi più grandi
fino
alla capitale in cui si riassumeva tutta la produzione di bello del
Regno.
Peraltro, sempre sul versante delle arti, sorsero, e sempre ad opera
della Chiesa, scuole di musica, soprattutto per gli orfani e i poveri,
appunto i conservatori, le accademie di canto corale e solista,
s'aprirono botteghe di liutai, di battitori di ottoni, di costruttori
d'ancie, legni, tamburi, cimbali, nacque l'organizzazione degli
impresari, degli editori, dei copisti e così via. Organisti,
cantori, compositori d'orchestra venivano ingaggiati dai
vescovi,
dai capitoli delle cattedrali, dalle collegiate, dalle abbazie fino
alle chiese minori e alle cappelle private e l'estro creativo
fu
incoraggiato dalla continua commissione di partiture per messe
polifoniche con cui ogni comunità cercava di dar decoro alle
cerimonie religiose.
Se la musica fu poi coltivata anche dalla nobiltà (basti
ricordare il genio del principe Gesualdo da Venosa) e dalle corti
sovrane, praticamente tutti i grandi musicisti e compositori
ebbero in comune le umili origini quando non le origini del tutto
sconosciute.
Mai l'arte di qualsiasi genere, in nessun'altra parte del mondo fino ad
oggi, fu così incoraggiata, sostenuta, comunemente
praticata.
Anziché, come oggi, essere privilegio di pochi fortunati,
visitata come reliquia nei musei, o ascoltata solo a pagamento nei
teatri, essa era a disposizione di tutti, nella casa di Dio,
casa
comune senza distinzione di schiatta e di censo. Poveri e ricchi,
ignoranti ed eruditi fin dall'infanzia potevano godere
gratuitamente del bello e imbeversene anche inavvertitamente
secondo l'antica sagace pedagogia del cristianesimo.
Fin gli ospizi per i mendichi erano affrescati e decorati senza
lesinare: anche il più miserabile degli uomini del Regno
aveva
sempre a disposizione la sua parte di smaglianti colori e d'oro
zecchino senza aspettare che qualche moderno immemore teorizzasse la
"qualità della vita" mentre l'arte, quando ancora si possa
parlare d'arte, si trasformava in dominio esclusivo di pochi
privilegiati, comprensibile solo agli "esperti" ed agli "addetti ai
lavori".
Peraltro era mentalità condivisa che quel favoloso
patrimonio di
bellezza appartenesse indistintamente a tutti e quando, alla fine del
Settecento, i francesi, arrivati sull'onda della rivoluzione, si
diedero al saccheggio programmato e metodico delle opere d'arte dalle
chiese e dai luoghi religiosi, fu soprattutto il popolo minuto, in ogni
parte del Regno, ad insorgere e contrastare la razzia.
Arte chiama arte e così nel Regno di Napoli conversero, e di
solito vi restarono ottenendovi la celebrità, artisti da
ogni
parte d'Europa che vi fecero prodigiose fortune e spesso influenzarono
le tendenze culturali restando essi stessi influenzati dall'eclettica
plurisecolare fioritura di bellezza che contrappuntava la
civiltà meridionale. Nell' arrivare a Napoli, scrive Harold
Acton, raffinato intenditore d'arte, «essi furono incantati e
trasformati dal "vento del Sud", e nel fondere il grandioso col
sorprendente parvero voler competere colle forze della
natura».
La bellezza così fiorita, incrementata e sostenuta dal clero
e
dai religiosi, si diffuse nel mondo civile, a cominciare
dall'aristocrazia e dalla nobiltà feudale che, in epoca
spagnola
cominciò a confluire nella capitale innalzando magnifici
palazzi
ed ornandoli spesso sontuosamente, dando ricevimenti che
procuravano, oltre che committenze d'ogni genere d'opere
d'arte e
d'artigianato, un indotto, come si direbbe oggi, di servizi che
impiegavano la continua crescente popolazione di immigrati dalla
periferia del regno.
Architettura, pittura, scultura, musica si espansero alla nascente
borghesia di banchieri e commercianti che accorrevano dalle
città portuali mediterranee, soprattutto Genova. Sorsero
quindi
opere d'urbanistica, d'architettura civile, di decoro cittadino. La
vena musicale dei meridionali, incoraggiata dal mecenatismo
della
Chiesa, si elevò di tempo in tempo fino a quella massima
fioritura che fu il Settecento quando Napoli, insieme a Vienna, divenne
la città d'arte per eccellenza e la capitale dell'opera in
musica attirando a perfezionarsi i massimi compositori del tempo, luogo
d'esibizione dei
migliori talenti nei suoi centocinquanta teatri aperti ogni sera di
ogni stagione.
Nel Seicento, nella «Napoli nobilissima», come la
chiamavano i suoi scrittori, risiedevano almeno 119 principi, 156
duchi, 173 marchesi e varie centinaia di conti. Solo
considerando
la servitù in pianta stabile si può dedurre
quanti
impieghi derivassero dal funzionamento dei loro palazzi. Ma,
notavano i raffinati giramondo dell'epoca, incantati
dall'ospitalità dei signori, solo pochi facevano vita
sfarzosa,
con ricevimenti e feste che restavano memorabili, la maggior parte,
nonostante la cura del decoro e del cerimoniale, teneva vita
modesta e appartata, non dissimile da quella dei loro
dipendenti
con i quali, d'altronde, secondo il costume patriarcale dei
meridionali, aveva rapporti di cordiale familiarità.
Un capitolo a parte meriterebbe la vita dei nobili, una famiglia
patriarcale che inglobava continuamente e permanentemente il
personale di servizio che ne diventava parte indissolubile di
generazione in generazione, indipendentemente dall'età e
dalla
declinante abilità lavorativa. I vasti palazzi gentilizi
accoglievano non solo parenti ed affini ma anche i "famigli" spesso a
servizio, di padre in figlio, di madre in figlia, da tempo
immemorabile, sicuri di non dover chiudere gli occhi in un
ospizio. Fino alla seconda metà del Cinquecento,
quando
andarono ad effetto i decreti tridentini sui registri
parrocchiali
dei battesimi, dei matrimoni e delle esequie, e si formò la
prima anagrafe della storia (anche questa un'indispensabile
istituzione civica che l'Europa e l'Occidente debbono alla
Chiesa), la servitù delle famiglie signorili portava
normalmente
lo stesso cognome dei padroni. È questa la ragione,
oltre a
quella dei cognomi mutuati dai padrini o madrine di battesimo, di
patronimici altisonanti portati ancor oggi da gente di umile
condizione29.
Il Regno di Napoli, alla grande ricchezza della sua agricoltura (i suoi
grani, il suo olio, il suo vino, la lana delle sue pecore, le sete
della diffusa bachicoltura, il legname pregiato delle sue foreste, i
suoi cavalli d'allevamenti di razza, i suoi muli e finanche i suoi
famosi asini erano esportati in ogni nazione) seppe
aggiungere, in
tempi in cui in nessun luogo d'Europa esisteva la minima idea
d'industrializzazione così come viene concepita oggi, non
solo
la vivacità del suo artigianato e l'intraprendenza del suo
commercio ma anche le prodigiosa fioritura della sua arte.
L'arte, subito dopo l'agricoltura, fu la grande ricchezza del Sud. Ogni
musa concorse, in questo Parnaso cristiano realizzato dalla concordia
dello spirito e della carne, a quanto di bellezza poteva partorire
l'estro felice secondato da una natura esuberante.
La nazione napoletana insomma entrava nell'età moderna e
nella
sua maggiore età con una dote che avrebbe fatto la
felicità di ogni sposo. Non per nulla, in molti luoghi
d'Europa,
si pensava a quel regno che prosperava lontano dai suoi tutori spagnoli
come ad una corona smagliante e gloriosa da cingere senza condivisioni.
Più di una stirpe reale guardava spasimando al
«più
bel trono d'Italia».
GUIDA ALLA LETTURA /1
I manuali di storia della scuola dell'obbligo sono,
per comodità, divisi in capitoli. Solo che questi
non si
limitano ad essere numerati, bensì recano dei
titoli. E
questi titoli, contrariamente a quel che si pensa, non si limitano a
descrivere il contenuto del capitolo ma danno anche un giudizio di
valore. Esempio: "Medioevo", "Rinascimento", "Risorgimento",
"Resistenza ".
«Analizziamo i termini. "Medioevo " significa, come tutti
sanno,
"età di mezzo ", laddove "Rinascimento " sta per "nuova
nascita". Se si rinasce vuol dire che prima si era morti, ma
anche
che prima di essere morti si era già nati una volta, per cui
adesso si "rinasce ". Dunque il Medioevo, epoca precedente al
Rinascimento, era il tempo in cui l'umanità era
stata
morta. Quanto dura il Rinascimento? Pochi decenni, verso la
fine
del Quattrocento. Poi? Si ha l Età Moderna, e tutti
tiriamo
un respiro di sollievo. Anche se, a ben vedere, le guerre e le
catastrofi sembrano moltiplicarsi a ritmi parossistici: guerre tra
Francia e Inghilterra, tra Francia e Spagna, tra cattolici e
protestanti, tra lanzichenecchi e tutti gli altri, guerre di
successione, di devoluzione, delle due dame, dei tre imperatori, dei
quattro papi e dei cinque eserciti.
«La Riforma: finalmente Lutero spezza le catene del dogma e
della
Chiesa. Controriforma: l'Italia ricade nell'oscurantismo. Solo a ben
guardare si scopre che le guerre di religione stavano tutte nei paesi
protestanti, mentre in Italia si stava tranquilli. «Il
Medioevo,
i "secoli bui". Quanto è durato? Dalla caduta dell 'Impero
Romano fino alla scoperta dell America. Così dice il
Manuale.
Dunque mille anni e qualche cosina. Mille anni! Sbrigativamente
catalogati come "età di mezzo". Cribbio, che lunga morte! Ma
"in
mezzo" a cosa? All'Età Classica e al Rinascimento.
Vuol
dire che si era vivi ai bei tempi di Atene e Roma, poi si
morì per mille anni e si rinacque infine alle soglie del
Cinquecento. Infatti nel Rinascimento riappaiono, nell'arte, i trionfi
di Bacco ed Arianna, Ercole, Apollo e Minerva. Cioè il
paganesimo antico. Ecco la "rinascita". Tra un
paganesimo
(quello antico) e l'altro (quello rinascimentale) c 'era un
periodo di mille anni che quelli che ci abitavano chiamavano
"Cristianità ". Ergo: durante i secoli cristiani
eravamo
morti, mentre si era ben vivi nei tempi pagani».
Questa lunga citazione è tratta dall 'Introduzione del libro
di
Rino Camilleri, Fregati dalla scuola, Effedieffe, Milano, 1997. Lo
segnalo a chi ha avuto la pazienza di scorrere fin qui questa storia
del Sud e abbia intenzione di andare avanti. Queste poche
paginette, posso portarne le prove, hanno fatto andare in bestia fior
di professoroni, di quelli che in buona o malafede (ma importa?) hanno
scritto o insegnato (e lo fanno ancora oggi) la storia del Sud sugli
assiomi, sui postulati, sulle dichiarazioni apodittiche, sui dogmi
della scienza moderna, che poi sono molti di più di quelli
della
Chiesa la quale si limita almeno ai puri misteri. Rino Cammilleri
è anche un umorista e non c 'è niente di
più
irritante di chi sorride per coloro che con sussiego scambiano la
faccia preoccupata per serietà. Non parliamo poi di quelli
che
per giustificare il fine usano i mezzi della fandonia, della
falsificazione, dell'omissione, della calunnia e del sentito dire. Di
questo, ve ne accorgerete, la storia del mondo e dell 'Italia
è
piena.
Qui di seguito, capitolo per capitolo, citerò alcuni libri,
appunto "una guida alla lettura ". Essi formano una traccia
demistificatoria ai luoghi comuni della storia in generale ed a quella
di Napoli in particolare. Ecco come essa, grosso modo, si articola
normalmente:
1. Fondazione. Epoca normanna. Tutti sono generalmente
d'accordo
sui suoi felici inizi. Si tratta, in fin dei conti di un periodo che
non compromette nessuno. La storiografia di questo periodo è
bella, chiara, abbondante.
2. Epoca sveva. È caratterizzata da quel Federico
imperatore che vuol trasformare il Regno nel primo stato totalitario
del mondo. Su Federico e 'è poco da dire ma tanto da
inventare.
In fin dei conti era acerrimo nemico del Papa: tanto basta per farne un
eroe positivo. Davanti al Palazzo reale, a fine Ottocento misero una
sua statua vestito da crociato (quando ancora nessuno aveva fatto delle
Crociate una "leggenda nera "). Forza del mito, giacché alla
Crociata vi era andato spinto a calci nel sedere.
3.Epoca Angioina. Fratello di un santo, "campione del Papa ", nemico
degli Svevi: Carlo d'Angiò ha quanto basta per farne un
maledetto. E con lui tutta la discendenza. In quanto alle Giovanne, una
sanguinaria, l'altra una ninfomane: un argomento, quello scovato fra le
lenzuola che
andrà bene per chiunque non abbia altri argomenti che una
finta
morale. Di questo periodo restano salvi i "Vespri siciliani ", episodio
che non si sa quanto sia vero ma che romanticizza una lunga e
articolata congiura di baroni che non hanno altro interesse nella
secessione che trovarsi un re qualsiasi che non gli tolga il potere.
4. Epoca aragonese: coincide col Rinascimento, quindi dev 'essere stata
buona. Peccato che la segua l'epoca spagnola che, come tutti sanno,
riporta l'orologio al medioevo.
5. Due sovrani chiamati entrambi "Cattolici ", Isabella e Ferdinando,
un imperatore, Carlo V, che vorrebbe far rientrare la ribellione di
Lutero: ce n 'è abbastanza: con i viceré ecco uno
stato
ridotto a provincia che la Spagna rapina per i suoi sporchi interessi.
Povertà, sporcizia, popolo che cova la rivoluzione. Non a
caso,
al centro della Napoli spagnola campeggia la rivolta di Masaniello.
Solo nove giorni di euforia e poi il pescivendolo d'Amalfi
finirà linciato dai suoi stessi compari. Peccato che poi la
storia scopra che dietro quella ribellione manovrava la Francia e che
della «Real Repubblica» nessun meridionale se ne
fosse
accorto stando solo nella mente del Duca di Guisa.
6.L'epoca borbonica comincia bene, un re stiracchiato ad essere
"italiano ", riforme (parola magica della modernità), grande
ascendente degli intellettuali, un altro re protettore dei "filosofi ",
una regina illuminista (anzi, protettrice dei massoni), beghe con il
Papa, sgarbi come quelli di cacciare i Gesuiti: ecco una dinastia come
piace a noi! Ed ecco, invece di porgere la testa come il cognato
francese, questo screanzato di Ferdinando si mette contro il popolo
assetato d'uguaglianza. Il popolo naturalmente di questa sete non se
n'accorge nemmeno e il "redivivo
7.Numa" si trasforma in un truculento carnefice che, mentre il
progresso in Francia porta qualche centinaio di migliaia di persone
alla ghigliottina, fa giustiziare tre (tre!) baldi giovinotti che
volevano appena massacrare tutta la famiglia reale. Quale pozione abbia
bevuto Ferdinando per trasformarsi da dottor Jekill in signor Hide la
storia non lo dice. Tantomeno ci spiegherà la signora
Pimentel
come mai Carolina, da enera mamma ed intima amica a cui dedicar
delicati sonetti, si sia cambiata in un 'insaziabile Messalina.
8.Repubblica Napoletana: finalmente ecco la storia, ecco il progresso,
inizia il Risorgimento, che per dirla alla Cammilleri, sarebbe il
risorgere dalla tomba di una nazione di morti. Per cinque mesi una
ventina di "patrioti" si mettono d'accordo con l'esercito
d'occupazione: voi fate finta he noi comandiamo e noi vi lasciamo
portar via quel che vi pare. Ma
non arrivano neanche nudi alla meta. I lazzari, quegli stessi popolani
che andavano bene ai tempi di Masaniello, ora chiamati plebaglia, fanno
giustizia. La Santa Fede mette fine alla sceneggiata e alle ruberie dei
francesi. I francesi, dal canto loro, per salvare la pelle mandano al
diavolo gli amici repubblicani.
9. Prima restaurazione. Il trionfo della crudeltà
borbonica. Novantasette "martiri" salgono il patibolo. Su quelle
vittime, dicono gli storici di poi, si fonderà, appunto, il
futuro Risorgimento. Difatti: in cinque mesi hanno ammazzato
sessantamila insorgenti, ne hanno giustiziati qualche migliaio, hanno
bruciato interi paesi e cortesemente donato ai francesi metà
del
patrimonio artistico e culturale della nazione. Due donne saranno
"madri della Patria ": nessuna persona garbata le vorrebbe nemmeno come
sorelle, e come amanti sono un po ' troppo trafficate.
10.Finalmente Napoleone, a vendicare la Francia umiliata dai
napoletani. Lui ha idee chiare per i suoi luogotenenti: dare alle
fiamme, impiccare, spargere il terrore. Durerà solo poco
più di dieci anni e finirà come tutti sanno,
insieme alla
gloria dell'Émpire lasciando in ricordo a Napoli una nuova
maschera, "o Pazziarielle ".
11. Seconda restaurazione. Ancora una volta Ferdinando, sempre
più Lazzarone, sempre più amico del Papa e dell
'Europa
reazionaria. Dopo Francesco un altro Ferdinando. Di lui si ricorda il
soprannome datogli dai liberali, "Re Bomba", la Costituzione che
avrebbe tradito e i sorci verdi che gli fan vedere i carbonari. Per il
resto solita miseria, arretratezza, volgarità.
Sorvoliamo
sulla seconda flotta del Mediterraneo, sulla prima nave a vapore, sulla
prima ferrovia d'Italia: "giocar elli". In Italia il Napoletano
è l'unico stato ad aver le casse traboccanti, i contadini
sazi, il popolo felice e i vecchi rivoluzionari fatti ministri
ma
la storia non perdona e il nuovo impero sentenzia: «La
negazione
di Dio fatta sistema». A Napoli sono borbonici anche
i gatti
ma a posteriori si scoprirà che erano tutti liberali e
«Franceschiello», un re di vent'anni, si lascia
battere da
un pugno d'uomini con la camicia rossa. La storia svelerà
che i
mille erano in effetti ventitremila, che potevano contare su svariati
miliardi degli inglesi, senza contare un esercito regolare,
quello
del cugino «Galantuomo» che risolve le cose senza
neanche
perder tempo a dichiarare guerra.
12. Ecco l'Italia unita, laica e pacificata. Ecco anche per i
napoletani le «Magnifiche sorti». Ma quel popolo
ingrato
invece di far contenti i liberatori, si divide a
metà: una
parte a fare il brigante ed un'altra a far l'emigrante. «Non
vi resteranno che gli occhi per piangere»
aveva detto l'ultimo re andandosene in esilio. Le ultime lacrime i suoi
fedeli le sparsero per lui. Ora, come tutti sanno, il Sud
è
il regno della felicità. Dopo centoquarant 'anni i
napoletani
non piangono più.
Ma se la condizione della storia italiana è quella descritta
da
Cammilleri, quella della storia del Napoletano e del Sud, soprattutto
dai Borbone in poi, è ancora, come abbiamo visto,
più
disastrosa. Basti pensare che la stragrande maggioranza di saggi,
studi, biografie, articoli divulgativi si rifanno a scrittori di parte,
esiliati, fuorusciti, come Giannone, Colletta, Cuoco, La
Cecilia,
De Cesare, Settembrini, quando non danno credito addirittura a
romanzieri dall'accesa fantasia di un Dumas padre. In ogni caso, tanto
i primi che quest 'ultimo, cresciuti avendo per maestro quel Voltaire
che diceva: «Calunniate, calunniate, qualcosa
resterà». Si tratta di libri tuttora editi e
citati a
profusione.
In pratica non esiste una storiografia meridionale moderna che non sia
antiborbonica e antimeridionale. E non ci si meravigli che la
più accanita sia opera proprio di autori
meridionali: tutto
sommato è più facile costruirsi una
dignità con un
attestato che piangere su quella di un 'anima perduta.
Il lettore avrà capito che in questo libro non si fa una
storia
meticolosa, storiografia o cronistoria e che quindi, con tutto il
rispetto degli onesti ricercatori, non si dà molta
importanza a
quelle scienze particolari e specifiche che, se hanno il merito di
portare più luce alla storia, spesso pretendono di averne la
chiave di lettura. Qui partiamo dal capo opposto che è
quello
del buon senso, dove ognuno può constatare, secondo la
logica che non manca a nessuno, se davvero le cose che ci
hanno
raccontato stanno proprio così o se, in nome della
scienza,
dobbiamo vederle diverse da come il nostro naso ce le fa scoprire.
Fatte queste precisazioni, rimando i lettori avvertiti alla
bibliografia essenziale in appendice che, per le ragioni che
ho
detto, deve essere utilizzata comunque con cautela cercando di
far
la tara alle spesso incredibili invenzioni che la propaganda partigiana
ha fatto diventare ormai luoghi comuni.
La prima parte di questa storia, fino a tutto il 1799, è la
rielaborazione dei testi di una serie di incontri seminariali tenuti
nell 'anno accademico 199798 presso la Facoltà di Scienze
della
Formazione all'Istituto universitario «Suor Orsola
Benincasa» di Napoli. A differenza delle dispense
frutto di
quei fortunosi incontri, circolanti tuttora come "samiszdat" fra i
napoletani, che di note non ne avevano affatto, anche per non
appesantire la lettura, qui ho cercato di farne un uso moderato
anzitutto
facendo in modo che non siano essenziali e se le possa leggere solo chi
vuole, e questo usando il criterio della chiosa e dell'approfondimento.
Raramente, in quelle parti ormai tanto incredibili da sembrare
inventate di sana pianta, ho usato il consueto metodo della citazione
di documenti e testi che giustifichino le mie osservazioni.
A quei vivaci e generosi studenti napoletani fornivo, di volta in
volta, a loro richiesta, tutte le referenze e l'apparato critico di cui
avevano bisogno. La stessa cosa mi impegno a fare di persona
con i
lettori di queste pagine che per validi motivi vorranno chiedermi
precisazioni presso l'editore.
Per saperne di più delle mistificazioni storiche e trovare
sorprendenti rivelazioni su fatti dati per scontati ed invece
riscoperti con onestà intellettuale, sarebbe a dire
"con la
testa propria", consiglio di leggere le opere di un autore famoso che
ormai è considerato il maestro e il caposcuola d'una
coraggiosa
revisione radicale della storia non solo italiana: Vittorio
Messori. A questo intelligente giornalista piemontese che ha
affrontato la sua lunga carriera con rara coscienza
professionale
e preparazione, e che oggi affronta la storia con altrettanta
coscienza critica e documentazione, i meridionali sono
debitori
del risveglio non solo dell 'interesse per le vicende della loro
nazione ma anche della loro dignità calpestata.
Tutte le
opere di questo autore sono da leggere (per i meridionali come un
dovere civico) e per tutti segnalo specialmente la raccolta in tre
volumi delle sue meditazioni sulla storia e sulla cronaca, pubblicate
nella rubrica «Vivaio» del quotidiano Avvenire:
Pensare la
storia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1992, La sfida della fede,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, Le cose della vita,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995.
La chiave di tutte le falsificazioni storiche, ve ne accorgerete, sta
nello spirito anticristiano (quello che oggi, con elegante sufficienza,
si proclama "laico ") sempre latente fin dai tempi della
primitiva
evangelizzazione, scatenatosi con la riforma protestante e
giunto
a maturazione con la rivoluzione francese. Per decifrare il lungo
cammino anticattolico è utilissima la lettura del libro di
Luigi
Negri, False accuse alla Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1997.
Per una visione non conformista del Medioevo consiglio poi tutte le
opere, peraltro avvincenti come romanzi, di una grande storica
francese, oltre che grande letterata, Régine
Pernoud, a
cominciare dal piccolo saggio Medioevo, un secolare
pregiudizio,
Saggi tascabili Bompiani, Mlano, 1992. Questa autrice, oltretutto, ha
il merito di sfatare
lucidamente molti luoghi comuni sull'universo femminile nei tempi che
si ostinano a chiamare «bui», come ne La donna al
tempo
delle cattedrali, Rizzoli Editore, Milano 1982.
Ottimi anche i libri di Georges Duby a cominciare da Guglielmo e il
maresciallo. L'avventura del cavaliere, Laterza, Bari 1985,
che
basandosi su una storia originale esplora la mentalità e il
mondo cavalleresco, le usanze della famiglia nobile medievale e tutto
il mondo di quel tempo.
Rampollo di una Farnese, nipote di una Medici, Carlo, figlio di secondo letto di Filippo V di Spagna, aveva quarti sufficienti (come si dice tanto in araldica come nei pedegree degli animali di razza) per definirsi italiano. Così, all'incirca, si esprimono gli storici nostri contemporanei che si sono interessati dei Borbone di Napoli e di Sicilia, l'ultima dinastia a capo dell'ormai scomparso Regno del Sud, per dire che, "finalmente" si apriva una prospettiva "nazionale".
Il punto è che a nessuno, allora, sarebbe venuto in mente di
domandarsi la nazionalità né d'un re
né di
chicchessia. Re e schiavi (così si chiamavano i prigionieri
di
guerra musulmani che nessuno avrebbe mai riscattato: intendendoli
schiavi perché non liberi come i cristiani) facevano parte
di
quel popolo che amministravano o fra il quale vivevano liberi o in
servitù. Per distinguere l'origine (ma poiché
loro, re,
mercanti o schiavi, ne erano fieri) si aggiungeva al nome la loro
provenienza: e così poteva aversi un «Johannes
lombardo de Neapoli» (dove lombardo stava per
longobardo),
«Athanasius Kiurakopulo greco de Palermo»,
«Yussuf
schiavone de Botunto» (dove schiavone stava per slavo,
cioè per dalmata, croato o comunque "di quelle
parti"),
«Habram ebreo de Tarento» e, alla stessa maniera,
«Alphonso re aragonese de Neapoli». Il concetto
moderno di
nazionalità, quello secondo il quale i francesi della
rivoluzione «spopolarono» la Vandea, o quello della
razza,
secondo il quale i nazisti trovarono una «soluzione
finale»
per il problema di zingari ed ebrei, quel concetto nessuno l'aveva
ancora ideato.
Legati ancora all'idea che un patto (fædum) sociale non
dovesse badare ad altro che alla fedeltà dei
contraenti, i
quali, non potevano venirvi meno a rischio di perdervi
l'onore,
gli uomini della Cristianità pensavano che le nazioni
fossero
solo unioni di popoli legati, appunto, da un patto comune col loro re,
che il re lo fosse con
gli altri sovrani e che tutti lo fossero con Dio, rappresentato in
questa terra dal Papa.
Il mondo cosmopolita dell'«Ancien régime»
Certo, oggi l'onore è parola quasi spregevole e al suo posto
v'è la "dignità umana" la quale, fondata non
più
sui sacrosanti doveri degli uomini, dei patti se n'infischia
quando questi cominciano a diventare svantaggiosi, e punta
invece
sui diritti che si possono sempre inventare a profusione e
imporre
agli altri definendoli incivili e acquisendosi, così, il
diritto
di incivilirli, con le buone o con le cattive. Ma allora,
quasi
fino alla fine del diciottesimo secolo, chiunque dimostrasse
d'avere onore, di saper tener fede ai patti, era considerato
un
buon cristiano, cioè un fratello, cosa che, per chi crede,
è molto più importante che libero o uguale.
Nella Napoli vicereale, quando arrivarono gli austriaci e
cominciarono, credendo di ingraziarsi il popolo, a maltrattare
gli
spagnoli, i napoletani si sollevarono in massa alla loro
difesa
gridando «È gente nostra!».
Del resto se, da Madrid, il Re mandava a Napoli i suoi
migliori
uomini di governo, il Napoletano, dal canto suo, faceva lo stesso per
la corte Cattolica che, come per ogni altro regno, non si poneva il
problema di donde venisse un ministro purché sapesse far
bene il
suo mestiere. Peraltro, pensavano quei re, abituati da sempre a metter
sù famiglia scegliendosi la sposa in altri paesi,
è
più facile, per un ministro, un giudice, un comandante di
truppe
o un ammiraglio, restare onesto lontano da parenti, clienti ed
interessi troppo personali.
Così era per gli eserciti che, composti da gente che il
soldato
lo faceva di professione, erano mercenari, cioè reclutati a
pagamento soprattutto fra i popoli più bellicosi e
disciplinati per temperamento ed educazione, più
bravi a
saper maneggiare una picca o un archibugio invece di una zappa: per
esempio gli svizzeri, i frisoni e gli ungheresi, considerati i
più bravi, fedeli e ordinati soldati del mondo. E
poiché,
come abbiamo visto, erano la fedeltà e l'onore a stabilire
se una guerra fosse o no giusta, e poiché a nessun
"pacifista" era venuto in mente che quello del militare fosse
un
mestiere men che onesto e decoroso, poteva capitare, e capitava, che a
difendere il diritto dell'una e l'altra parte si potessero
trovare
persone che parlavano la stessa lingua ed anche lo stesso dialetto.
Le guerre, per questo, non erano quelle delle stragi e dei massacri
dell'epoca moderna quando i nemici divennero tali in forza di
un'ideologia che divideva i popoli per lingua, religione, idee e forma
di governo ma, pur senza trattarsi d'un incontro sportivo (oggi,
talvolta, più pericoloso), si combattevano solo fra gente
del
mestiere, e i comandanti stavano attenti a coinvolgere il meno
possibile i civili. Il re di Prussia soleva vantarsi che,
quando
scendeva in guerra, i suoi popoli non se ne accorgessero nemmeno.
Spesso, la vittoria veniva patteggiata dopo l'esibizione delle proprie
forze in spettacolari parate accompagnate da strepitose fanfare, corni,
rullar di tamburi, bandiere sventolanti e divise sgargianti: ognuno dei
contendenti, con qualche scaramuccia o volteggio di cavalleria
misurava le sue forze e quello dell'altro e poi, fra inchini e
rispettosi complimenti, i generali firmavano la pace prima di invitarsi
a tavola, «data l'ora tarda e la fatica».
Il maggior
impegno era quello, semmai, di mantenere la disciplina fra la truppe
dei reggimenti raccogliticci che, se durante la battaglia
cercavano di esporsi di meno, soprattutto dopo le vittorie, erano
zelantissime nel saccheggio e nel derubare gli ufficiali feriti (anche
i propri) per arrotondare la paga e magari per disertare subito dopo se
il bottino ne valeva la pena.
Le carneficine medievali, poi, esistono solo nei film hollivuddiani
giacché i cavalieri, a causa del riscatto che se ne poteva
chiedere alle famiglie, valevano solo da vivi, e meglio se in buona
salute. Le più grandi battaglie di quei secoli si
risolvevano
con poche decine di morti. Quella di Bouvines (1214), che
ingaggiava quarantamila persone, una cifra spropositata per quei tempi,
contò, secondo i cronisti del tempo, quindici vittime e, con
tutto il rispetto per Dante, cinque quella di Montaperti (1260) che ne
metteva in campo cinquemila: un po' poco per far rosse l'acque
dell'Arbia. Inimmaginabile pensare che l'equipaggio dell'Enola Gay
(1945), otto uomini in tutto, avrebbero fatto, un giorno, con
un
colpo solo, 60.000 vittime immediate ad Hiroshima e circa 500.000 per
le
conseguenze della radioattività, praticamente tutti
civili.
Del resto, la Chiesa, pur convinta che dalla guerra, in questo mondo,
talvolta non se ne potesse scampare, aveva dettato, sotto pena di
scomunica, regole e tregue che ne limitavano i danni. Per una ragione o
per l'altra, per devozione (ma vera) a Dio, alla Madonna e ai
santi, alla fine, ben escluse le feste, la Quaresima, l'Avvento ed
altri tempi speciali dell'anno liturgico, non si poteva combattere che
dal martedì al giovedì, senza contare che, per
evitar
disagi, difficilmente s'impegnava battaglia nei mesi freddi e
piovosi. In quanto alla notte, nessuno si sarebbe sognato di
rompere il giusto riposo dai Vespri del tramonto alle Lodi del mattino.
La guerra, comunque, anche se con l'invenzione delle armi da fuoco
divenne più crudele, era sempre un mestiere apprezzabile per
chi
la praticava, da soldato, per guadagnarsi la vita e, comunque sempre
meno pericolosa, per tutti, delle pestilenze e delle carestie che,
senza distinzione di campo e di diritto fra patrizi e villani,
mietevano decine di migliaia di vite di tutte le
età ogni
venti o trent'anni.
È un mondo, quello che scomparve in pochi secoli, minato
dalla
grande divisione protestante, fatto esplodere dalla rivoluzione
francese, fatto crollare dalle sue conseguenze e spazzato via dai
nazionalismi, un mondo molto difficile da comprendere oggi.
Paradossalmente, noi, figli di quest'epoca che si ritiene
adulta,
tenuti eternamente a balia di governi, di stati e di imperi economici
che decidono tutto per noi promettendoci, per quando saremo
grandi, un infinito e sterminato "paese dei balocchi" e impegnandoci in
"contratti sociali" fatti da altri e mai rispettati, e sui
quali,
del resto, la nostra "opinione democratica" spesso non sembra avere
nessun valore, paradossalmente, dicevamo, consideriamo bambini
gli
uomini della Cristianità solo perché, invece di
"cittadini" si chiamavano "sudditi".
Conoscere veramente quello che, dopo la rivoluzione fu
definito
sprezzantemente l’«ancien
régime», antiquato
di fronte alle «felici sorti e progressive» che i
«philosophes» auspicavano per chi si sottometteva
alla loro
ragione, richiede, di fatto, un pensiero da bambino, abbastanza
spudorato da guardare senza pregiudizi il passato.
Calamitosa come una pestilenza fu l'opera di demolizione iniziata dalla
cosiddetta Riforma. Se ognuno poteva (perché questo ne era
il
succo) interpretare la volontà di Dio a modo suo, non c'era
più ragione di far onore ai patti con chi la pensava
diversamente. Difatti, stabilito questo concetto con la protezione di
un principe locale, si cominciarono a rompere tutti quelli
che,
man mano, sembravano gravosi. In questo modo, naturalmente, si
stringevano sempre più quelli col principe che sottoscriveva
le
divisioni e che quindi aveva sempre più potere sui suoi
sudditi.
Nessuno s'era accorto che nasceva il totalitarismo.
Il principe, senza più doversi sottomettere al Papa e
all'Imperatore, diventò sempre più forte e
indipendente
fino a quando si trovò in contrasto con quello vicino.
Così successe in Germania, minando il Sacro Romano Impero,
che
fidava, oltre che sull'approvazione di Roma, sulla concordia dei
principi elettori. L'erosione arrivò fino alle fondamenta
dividendo quei popoli dal resto della Cristianità.
Successe anche con l'Inghilterra quando la Chiesa di quel paese, che
s'era divisa da Roma per le foie di Enrico VIII, per darsi una ragione
"dottrinale" (giacché stancarsi di sei mogli è
poco
evangelico anche per i teologi) non decise di aderire, anch'essa, al
Luteranesimo. Lo fece per la via più "aggiornata": il
Calvinismo, una delle tante correnti della Riforma che, nel giro di
soli vent'anni, s'era già frazionata in una serie di scuole
diverse per ogni paese, diffuse in ogni stato, soprattutto in quelli
che andavano dalla Germania centrosettentrionale fino
all'estremo
Nord e all'Est dell'Europa.
Calvino, svizzero, costretto a predicare ai benestanti di
Ginevra,
angosciato dal dilemma di come si sarebbero salvati i mercanti
della sua città, giunse alla conclusione che, in fin dei
conti,
non solo i ricchi hanno anche loro diritto al paradiso ma che la
prosperità è essa stessa un segno della
benedizione
di Dio. Se volete, una sintesi, questa, poco rispettosa di certo
ecumenismo ma sufficiente a capire il nocciolo della
questione.
Tanto sufficiente che i sociologi che vennero dopo spiegarono
proprio in questi termini la
nascita del capitalismo moderno e di tutto quello che n'è
venuto
fuori.
Per avere un quadro più chiaro della Cristianità
e di
come andò rapidamente sfaldandosi, non basta però
la
grande eresia protestante. Bisogna aggiungervi il problema del
«Popolo eletto», degli ebrei che, dalla caduta di
Gerusalemme, nel 70 dopo Cristo, ad opera di Tito Vespasiano,
pur
senza mai perdere il loro carattere di nazione, erano stati
dispersi in mezzo mondo. La parte più cospicua era rimasta
nei
confini dell'impero romano e, quando si formarono i regni cristiani e
il potere sacrale del nuovo impero, furono facilmente
assimilati
dalla nuova società.
Di carattere pacifico, attendendo pazientemente la venuta del Messia,
stretti in un patto altrettanto trascendente di quello che
legava
fra loro i cristiani, fedeli a un libro considerato altrettanto
sacro che il Vangelo, e a una lingua altrettanto stabile
quanto
per gli europei il latino, gli ebrei si organizzarono in
comunità che seppero convivere, soprattutto nelle
città,
con le leggi che si dava la Cristianità.
Generosamente protette dalla Chiesa, che riconosceva nei figli
di
Giacobbe i progenitori della Sacra famiglia e degli apostoli e nel loro
sangue quello stesso sangue divino del loro Re immortale, le
comunità israelitiche poterono prosperare anche al riparo da
coloro che, da poco convertiti, non facevano troppa
distinzione
fra pagani e infedeli alla nuova legge. Posti sotto la tutela del
Vescovo, gli ebrei solo a questi dovevano rispondere delle loro azioni
e a lui, invece che all’ Universitas (come si chiamavano le
comunità civili), versare le proprie decime. In cambio
avevano
il diritto di professare il proprio culto, di erigere sinagoghe,
ospedali e cimiteri, d'avere proprie scuole e di non dover partecipare,
a differenza degli altri, alla difesa della propria città in
caso d'assalto né di dover prestare servizio militare per
alcun
re, vassallo o feudatario. Nemmeno l'imperatore aveva diritto
di
trascinare in giudizio penale gli ebrei e tanto meno di
condannarli a morte. Federico II, nel suo contenzioso col Papa, aveva
anche il sopruso d'aver creato suoi "famigli" tutti gli ebrei del
Regno, e non per una supposta sua particolare tolleranza, come
piacerebbe credere a certi storici, ma per poter spremere
anche da loro le tasse ormai insufficienti del Sud dissanguato.
Se la legge mosaica non consentiva alcuni traffici con i propri
correligionari, nulla prevedeva per quelli con i "gentili", e gli
ebrei, in seno alle comunità civili seppero presto
affermarsi
con quelle professioni e quei mestieri che la coscienza dei cristiani
riteneva, allora, illeciti o poco decorosi. Fra i mestieri,
gli
ebrei, seppero rendersi indispensabili come tintori, lanaioli,
commercianti di stracci da macero, e nelle professioni si
improvvisarono speziali, medici, mercanti e, soprattutto banchieri,
potendo prestare ai cristiani denaro ad interesse come invece
fra
loro era proibito e a questi ultimi era vietato dalla rigida
etica
del tempo.
La loro solidale fraternità, diffusa in tutte le nazioni
della
«Santa Romana Repubblica», permise di crearsi una
rete
vastissima di commerci e di scambi, di fondaci e di garanzie,
soprattutto perché, stretti da un patto molto
più
antico di quello dei cristiani, gli ebrei non avevano, fra loro,
diffidenze e remore e potevano contrattare, barattare,
stipulare
crediti e prestiti sulla garanzia della semplice parola.
È umano ed era ineluttabile che quella loro
libertà e
quel loro successo attirassero le gelosie dei concorrenti cristiani e
non deve meravigliare (né far passare per razzismo) che,
messa
da parte la coscienza, qualcuno, meno devoto, cercasse di risolvere i
suoi problemi economici con le mani o, peggio, con le armi.
Succedeva fra cristiani e cristiani, non v'era ragione che a far le
spese non potesse essere, meglio, un infedele. Tanto più
facile
se Giudeo, cioè parente di quel Giuda che tutti conoscevano
come
traditore. Più tardi, quando gli ebrei furono diventati una
bella potenza economica, e ne profittavano imperatori e sovrani (papi
compresi), tenendoseli cari come ai nostri giorni si tengono cari quei
"paradisi finanziari" che sono i piccoli stati dove ogni traffico
è lecito, si dovette cominciare a difenderli con gli sbirri
e
con pene severe contro i prevaricatori. Se, più tardi,
intorno
ai ghetti (che oggi hanno suono oltraggioso ma che allora prendevano
semplicemente il nome dall'isola di Ghetto dove, a Venezia, si
radunavano gli ebrei) furono costruite mura e se si proibì
agli
abitanti di uscirne di notte (quando del resto, senza illuminazione,
non andavano per strada che ubriaconi e malfattori) fu solo per
difenderli dai tanti malintenzionati.
Nell'Islam il trattamento degli ebrei (tollerati, insieme ai
cristiani, come "popoli del Libro") non era molto differente
salvo
che non c'era alcuna autorità religiosa a difenderli e, in
quanto a traffici e mercati, i musulmani avevano anche più
talento di loro. Presenti in gran numero nella Spagna moresca, quando
anche gli ultimi regni furono conquistati dai cristiani, gli
ebrei
furono tollerati come in tutto il resto della Cristianità
salvo
che, avendo meno concorrenza, negli stati appena nati, si
imposero
molto prima che in altri, per la loro abilità. Un grosso
problema per la Regina Isabella giacché i suoi sudditi,
appena
usciti da lotte secolari, abituati a comporre con le armi ogni piccolo
sgarbo: teste calde, insomma, non sopportavano questi sempre
più ingombranti coinquilini.
Peraltro, molti degli israeliti (alla stessa maniera di molti mori)
passavano alla fede cattolica e se per alcuni la conversione era vera,
per altri era solo una finzione per vivere tranquilli. In
segreto
questi "marrani", cioé porci, come vennero poi
sprezzantemente chiamati (ma un miglior concetto non dovevano
averne gli ex correligionari), continuavano a praticare le loro usanze,
a celebrare i loro culti, a sposarsi fra loro e, naturalmente,
a
condurre i loro traffici in quel mercato internazionale, che
oggi
diremmo "parallelo", costituito, senza barriere doganali, fra
tutti i discendenti di Giacobbe sparsi da un capo all'altro
dell'Europa. Una concorrenza "sleale" quindi, che si attirò
l'astio dei vittoriosi ma squattrinati sudditi cristiani. Dato
però che gli ebrei non infrangevano, comunque,
nessuna
legge del regno né alcun dettato della morale, a
nessuno fu
consentito di importunarli impunemente.
Se molti ebrei (certamente quelli più intraprendenti e
versati
negli affari) avevano trovato l'espediente di farsi battezzare, gli
ostinati cristiani si diedero da fare per coglierli in fallo dal lato
della fede. L'Inquisizione spagnola nacque proprio per questo, sul
modello di quella romana: porre il freno di un processo
regolare,
con tanto di prove e verdetti, al torrente di accuse di sacrilegio, di
bestemmia e d'eresia che travolgeva qualunque israelita avesse
destato le invidie dei vicini. Come provano gli archivi
spagnoli
(non la "leggenda nera" che vi nacque sù), furono certamente
più
i marrani discolpati che quelli trovati in fallo, e le condanne
colpirono, con generosa equanimità, i falsi delatori, quale
che
fosse il loro stato sociale.
Ma ormai la miccia era accesa e i facinorosi non vedevano l'ora che le
polveri esplodessero: linciaggi, improvvisati autodafé,
saccheggi, rivolte contro i poteri costituiti si moltiplicarono, mentre
i più faziosi sobillavano il popolo credulone con calunnie
d'oggi genere, anche le più fantasiose e infamanti: usura,
stregoneria, complotto coi mori, tradimento. È impossibile
oggi
ricostruire i singoli episodi, le atrocità che certo non
dovettero mancare, la sequela di disordini che rendeva la vita
impossibile non solo agli ebrei ma a chiunque fosse coinvolto con essi,
per una ragione o per l'altra, in rapporti d'affari, di parentela o
anche di semplice conoscenza. Ci dovettero essere certamente
vittime anche fra chi fosse solo sospettato di non avere in odio gli
israeliti. Una guerra civile che non cessò finché
Isabella, che fino allora aveva sopportato pazientemente le
accuse
di preferire i giudei ai suoi figli cattolici, espulse dai suoi stati
tutti gli ebrei che volevano rimanere nella loro religione.
La ragion di stato non sempre coincide con la giustizia di Dio o vi
coincide in un misterioso disegno che ai reggitori di popoli,
anche santi, e proprio per questo, non resta che eseguire senza capire
perché è più grande di loro, anche a
costo di
farsi odiare. Infamia che tuttora si riversa su Isabella la
Cattolica, una delle più fulgide e pie donne della
Cristianità, tanto "moderna" e spregiudicata da
finanziare
quel matto d'un navigatore genovese. Ella ebbe solo il torto (ma per
chi non crede alla santità) di fare il suo dovere di regina.
Gli ebrei, in seguito, furono espulsi da tutti i paesi sottoposti alla
corona spagnola (mezza Europa cioè) compreso il Regno di
Napoli
dov'erano vissuti tanti secoli indisturbati, pur senza mai
diventare, come tutti gli altri, «gende
nuosta».
Nonostante il Papa li accogliesse senza limitazione, la parte
più intraprendente degli israeliti che non voleva
vivere
pigramente nei pacifici stati agricoli e pastorali del "Patrimonio di
Pietro", man mano si concentrò lì dove
più si sviluppavano i traffici e i commerci. Soprattutto fra
i
protestanti che, nella comune inimicizia ai cattolici,
vedevano
buone prospettive per affari comuni, furono quelli che attirarono il
loro talento e i loro interessi. I paesi fiamminghi e quelli
tedeschi del nord, le città anseatiche si popolarono di
comunità ebraiche che presto emersero negli affari e
nell'economia. In seguito, le alleanze antispagnole, strette fra gli
stati protestanti del continente e l'Inghilterra, permisero la
penetrazione israelitica anche nell'isola albionica e dettero luogo a
una preminenza del capitale ebraico nell'economia del Regno Unito e poi
delle sue colonie.
Così forte, alla fine del Settecento, era il potere
economico
dei banchieri ebrei da potersi permettere di finanziare, come fecero i
Rothschild, movimenti rivoluzionari, guerre locali ed anche le grandi
guerre di Napoleone o contro Napoleone senza per questo aver preso mai
partito se non quello di riscuotere gli interessi dal vincitore. La
battaglia di Waterloo fu uno dei più grandi affari per
questa
famiglia che, senza problemi poteva mercanteggiare in tutt'Europa,
sparsa com'era in Austria, in Germania, in Olanda e in Inghilterra. Gli
emissari di questa vera banca internazionale, sparsi anch'essi in ogni
stato, forniti di propri corrieri più veloci dei
servizi di
posta, riuscirono ad avvertire il capo della loro ditta della sconfitta
del deposto imperatore prima ancora che la notizia giungesse a
Londra. Quel Rothschild, con oculate operazioni di borsa, ci
guadagnò una cifra che si dice superiore all'intero tesoro
britannico.
L'invidia per l'intraprendenza e la fortuna economica è
certamente una brutta cosa e, di fronte a Dio, altrettanto
certamente, gli ebrei non potevano essere incolpati di speculare e far
buoni affari a danno dei cristiani. Ma è difficile
convincere di questa verità chi ne ha fatto le spese,
specialmente quando si tratta di principi, di re, d'imperatori. Il
solco antico scavato da una controversia sul Messia, s'allargava sempre
di più fra i seguaci della Legge e quelli del Vangelo e
s'approfondiva ancora in un'Europa già divisa fra Chiesa e
chiese e dilaniata da lotte intestine che della Verità
facevano mercato.
I superstiti della Cristianità forse si accorsero a Lepanto,
l'ultima grande gloriosa impresa in nome delle fede comune, a cui
però partecipavano solo le poche potenze rimaste fedeli al
Papa,
che il nemico non era più solo quello che li pressava dalle
coste dell'Africa e dell'Asia e che poteva essere tenuto a bada col
filo della spada o a colpi di cannone. Corse voce, né mai fu
smentita, che la flotta turca aveva potuto essere allestita coi
prestiti dei banchieri ebrei che avevano rastrellato danaro
dai
loro correligionari di tutta Europa e fors'anche dai principi
protestanti.
I nemici della Cristianità, ormai, non erano gli uomini:
né musulmani né ebrei né protestanti.
Il nemico
della civiltà cristiana (ma anche di musulmani, ebrei e
protestanti) era il denaro, una forza smisurata che poteva
unire e
dividere gli uomini al di là di fede, razza e
nazionalità. Il patto sacro, dove tutto era misurato sulla
parola di Cristo, il patto che aveva tenuto insieme, per mille
anni i mille popoli d'Europa, cedeva il passo al contratto, dove tutto
si valutava sull'interesse immediato. Volendo o non volendo,
in
questo contratto, a suon di quattrini, siamo stati venduti anche noi e
il bel regno del Sud.
Fra i tanti italiani sparsi nelle corti d'Europa, ce ne fu uno, proprio
a Madrid che, nella generale decadenza dei regni cattolici,
riuscì a riportare la Spagna, anche se ancora per poco, alle
antiche glorie: Giulio Alberoni, piacentino che, dalla protezione della
piccola corte dei Farnese che gli avevan permesso di studiare, giunse
ad essere primo ministro di Filippo V. Questo sacerdote mitissimo e
geniale, che da umilissime origini salì, poi, fino alla
porpora
cardinalizia, rimasto sempre fedele e grato ai suoi benefattori, quando
il suo sovrano restò vedovo e volle risposarsi,
fece in
modo che la scelta cadesse su Elisabetta, unica erede del
Ducato
di Parma e Piacenza.
Elisabetta, che lo stesso Alberoni, con ammirazione, diceva
«consumata nelle arti più fini del
regnare» e
«scaltra come una zingara», occupato, con
un carattere
incredibile in una provinciale, fra i mille intrighi delle cortigiane,
il posto che le competeva, non ebbe che una volontà:
assicurare
un trono ai suoi figli, meno fortunati di quelli di primo letto di
Filippo V. Ci riuscì: a Filippo toccò il
ducato del
nonno e a Carlo, il primogenito, i due regni di Napoli e di
Sicilia.
Nell'«una e nell'altra Sicilia», per questioni di
successione, ai viceré spagnoli, nel 1707, erano subentrati
quelli austriaci di Carlo VI, che quattro anni dopo doveva
diventare imperatore. Di fatto, i diritti di questo Asburgo "cugino"
dei Borbone di Spagna non erano troppo chiari, tanto che, come al
solito, la questione era stata risolta schierando un esercito in campo,
ed essendo questo molto più appariscente di quello spagnolo,
la
questione era stata risolta "in famiglia" passandosi le consegne con
pochi morti, qualche rancore e un trattato di pace.
Elisabetta, facendo inserire, con fortuna, la Spagna nelle
beghe
fra austriaci e polacchi, in un primo tempo, riuscì a far
riconoscere nei trattati il diritto di Carlo a un principato
italiano e, al momento opportuno, tutti quelli dei Farnese su
Parma e Piacenza (e, per soprammercato, l'eredità, qualora
mancassero discendenti ai Medici, del Granducato di Toscana). Ma fece
ancora di più: profittando che l'Austria era
impegnata in
guerra con la Polonia, armò un bell'esercito per il figlio
diciassettenne e lo mandò a conquistarsi il Regno del Sud.
Era
il 1734.
Carlo entrò a Napoli il 10 maggio, portato in trionfo dalla
folla, giacché i napoletani, con quel ragazzo mezzo italiano
e
mezzo spagnolo si ritrovavano con un re tutto per loro. Gli
austriaci, anche per non perdere la faccia, mentre Carlo già
s'era insediato a palazzo reale, chiesero di giocare un'ultima partita.
Il 15 maggio i due eserciti si incontrarono alle porte di Bitonto e,
dopo un lungo cerimoniale, si decisero a darsi battaglia. Un solo
giorno e poi stravinsero quelli più numerosi,
cioè i
soldati di Carlo. Guerre d'altri tempi: con l'onore delle armi, gli
austriaci fecero fagotto e all'esercito umiliato fu permesso di
portarsi via finanche le casse delle paghe e tutte le salmerie. Per
rappacificarsi con l'imperatore, Filippo V gli cedette i diritti sul
ducato farnese e sulla Toscana.
Carlo, «accussì giovine», «nu
figll’e
mammà», aveva tutti i requisiti per piacere ai
nuovi
sudditi che infatti lo amarono molto e ne piansero la partenza quando,
venticinque anni dopo, ritornò in Spagna a prenderne la
corona.
Giovanissimo dunque, e devotissimo alla madre che aveva dimostrato per
lui, come dicono gli storici, «uno sconfinato
amore»,
lasciò interamente alla sua famiglia gli affari
esterni del
regno, comprese le laboriose trattative per rimettere a posto le
faccende con l'Austria. Furono i suoi genitori ad inviargli il
precettore che aveva da bambino, il conte di Santostefano, a fargli da
consigliere, e dai suoi genitori si fece guidare docilmente in ogni
cosa del governo. A loro toccò anche trovargli una sposa e
la
scelta cadde sulla figlia del Re di Polonia, Maria Amalia di Sassonia,
che aveva appena tredici anni.
Forse mai un matrimonio "combinato" fu più riuscito di
quello.
Innamorati l'uno dell'altro fin dal primo momento, Carlo e Maria Amalia
condussero sempre, con i loro dieci figli, cinque femmine seguite da
cinque maschi, una vita strettamente legata ai ritmi familiari. Quando
nacque il primo dei maschi, chiamato Filippo come il nonno, (e
rivelatosi poi, purtroppo, minorato di mente) i napoletani fecero feste
grandiose: la discendenza e il Regno erano assicurati.
La coppia reale però non amava le feste in casa. Carlo e
Maria Amalia vollero essere, e ci riuscirono, una famiglia
esemplare per tutti i loro sudditi che beneficavano in tutti i modi. Il
fasto un po' tronfio dei viceré, i balli di gala, i
banchetti,
le mene di corte come in altre corti, non avevano posto nel palazzo che
Carlo aveva restaurato, come è oggi, quasi dalle fondamenta,
fornendolo di un piccolo teatro dove si davano concerti e commedie
ritenuti più nobili ed edificanti. Buona parte
dell'anno,
la famiglia reale al completo, la passava allestendo un grande
presepio, padre madre, bambine e bambini cucendo vestiti per
le
statuine e inventando scenari ed artifizi che lo facessero sembrare il
più naturale possibile. Fu alla corte di Carlo che
nacque,
di fatto, il presepio napoletano e fu la passione della famiglia reale
a dare impulso alla fabbrica di ceramiche di Capodimonte, che
in
breve tempo si mise in gara con le più belle e famose
maioliche
di Francia e d'Europa.
Ma un re che oggi direbbero bacchettone (che, fra l'altro, aveva una
grande passione per la caccia e cominciò a creare, con buona
pace deli "ambientalisti", le meravigliose riserve naturali che
circondano Napoli, gli Astroni, Carditello, Capodimonte e il Lago
d'Averno), non si limitava alle gioie della vita familiare e, come
grande era d'animo, aveva grandi progetti e gusto per la bellezza,
l'arte, le scienze, la magnificenza, tutte devolute a quel suo
magnifico regno che considerava abitato dalla più
intelligente e buona gente del mondo.
A Napoli portò tutti i beni della sua famiglia materna, le
favolose collezioni d'arte che i Farnese, famosi per il loro
mecenatismo, avevano raccolto fin da quando erano duchi di
Castro.
Con quelle cominciò a costituire quel Museo Borbonico che
ancora
oggi, pur rapinato dai francesi e cambiato irrispettosamente
di
nome, è ancora uno dei più belli e ricchi del
mondo.
Sempre a sue spese, iniziati gli scavi di Ercolano, dopo il fortuito
ritrovamento della città sepolta insieme a Pompei, comprese
subito quale ricchezza quei reperti potessero costituire per
l'arte e per la scienza, Carlo fondò l'Accademia
Ercolanense, il
primo istituto d'archeologia d'Europa in quello che, oggi, costituisce
il primo, più importante e più visitato
sito
archeologico del mondo intero. La Biblioteca da lui volut ed iniziata,
negli anni successivi non avrebbe fatto rimpiangere quella creata dagli
Aragonesi.
Se il bello e il buono vanno sempre insieme, Carlo di Borbone
creò la più grande struttura caritativa che mai
fosse
stata concepita: il Reale Albergo dei Poveri che, nelle sue
intenzioni, avrebbe dovuto ospitare tutti i diseredati del regno per
assisterli, curarli e, se possibile, dargli un mestiere. L'architetto
pontificio Ferdinando Fuga, già famoso per la
facciata di
Santa Maria Maggiore, fu chiamato a progettare quella che, al tempo, fu
la più estesa costruzione mai fatta e rimane ancor oggi uno
dei
più grandi edifici del mondo (naturalmente, mezzo
diroccato). Dall'Albergo dei poveri furono ospitati migliaia di uomini
e donne, vecchi e giovani che, anche se oggi può apparire
"paternalistico" e senza patente di "solidarietà", il Re
considerava suoi figli più sfortunati a cui provvedere
perché avessero la loro razione di felicità. Non
sarà ozioso far notare che anche questo progetto grandioso
non
costò nulla ai sudditi giacché il sovrano ne
sborsò il prezzo di tasca sua. In seguito, il
«Reale
Albergo» continuò a vivere coi lasciti
dei napoletani
e dei regnicoli. Un'ordinanza imponeva ai notai di raccomandare a
chiunque facesse testamento, se volesse lasciare qualcosa per
quest'impresa colossale di carità.
Altrettanto non sarà ozioso far notare che l'Albergo dei
poveri precedette la costruzione della reggia di Caserta. Se
ne
potrebbe concludere, se vogliamo, che forse, nell'animo di chi
governava (e comunque in quello di Carlo di Borbone), a quel tempo
c'era un'altra graduatoria nella cosiddetta "scala dei valori".
La Reggia di Caserta, appunto. Michelangelo Schipa, lo storico
famoso per i suoi studi sul Settecento borbonico, alla fine della sua
carriera, dopo aver elogiato quel periodo e soprattutto ciò
che
poi compì Ferdinando IV, si rammaricava di non aver
apprezzato
nella giusta misura l'opera restauratrice e riformatrice di Carlo VII.
E difatti, scrivendo di lui sulla "Treccani", tutt'oggi "summa"
venerata del sapere italiano, se n'esce con uno dei
più
bislacchi giudizi fra i tanti sparsi in quest'enciclopedia. Dopo una
serie d'altri elogi, Schipa scrive: «Il nuovo trono accrebbe
in
misura straordinaria non solo l'importanza internazionale della
personalità di C., ma altresì la fama delle sue
virtù: parsimonia, religiosità,
equilibrio di spirito, puntualità, purezza di costume, amore
per
la magnificenza delle arti». E, più
oltre:
«Irreprensibili, peraltro, le sue qualità
personali. Come
sovrano amò i suoi popoli e ne cercò il bene, ma
(e qui
viene il bello: nota dell 'autore) non si elevò al di sopra
della mediocrità». E che diavolo avrebbe dovuto
fare?
camminare sull'acqua?
Non è finita: come se non bastasse, la voce «Carlo
di
Borbone» dell'Enciclopedia italiana, chiude così:
«...la sua gloria come re di Napoli rifulse maggiormente
perché lo precedette il lunghissimo periodo di
dominazione
straniera e gli tenne dietro, salvo il periodo delle riforme, una
monarchia vituperata per la sua ferocia reazionaria, per il suo
oscurantismo e per la sua natura plebea». D'accordo, tanto
più il "regime" (s'era nel 1931, Anno IX E.F.) non poteva
concedere "debolezze" verso i Borboni e un accademico in carriera ne
doveva tener conto. Ma almeno la logica...
Re di Napoli e Re di Sicilia (poi Re delle Due Sicilie), Re di
Gerusalemme, Infante di Spagna, Gran Principe ereditario di
Toscana, Duca di Castro, Duca di Parma e di Piacenza, Principe
ereditario d'Austria, di Portogallo, di Borgogna,
d'Angiò,
di Lorena, di Fiandra, di Brabante eccetera eccetera eccetera: questi i
titoli che avevano Carlo di Borbone e tutti i suoi successori fino a
«Franceschiello». Discendenti dalla più
antica
dinastia vivente di re cristiani, i Capetingi, erano
imparentati,
in pratica, con tutti i re, i principi e gli imperatori d'Europa ed
anche d'America (i Braganza del Brasile, gli Asburgo del
Messico).
Nella loro albero genealogico c'erano santi, papi, cardinali,
arcivescovi e vescovi a profusione. Ancora oggi, nessuno dei
discendenti, benché praticamente ridotti a vita modesta,
s'è preso per moglie una ricca borghese né si
è
fatto sorprendere cuore a cuore in una discoteca con un'attricetta
volgare e scollacciata. Ora, ciascuno, sulla nobiltà
può
avere le idee che vuole ma perbacco!
avrà pure un
significato «natura plebea»?
La Reggia di Caserta, appunto. Carlo, che aveva commissionato
ad
un altro famoso architetto pontificio, il Vanvitelli, la reggia che,
per esser quella del regno più bello del mondo, nel mondo,
per
bellezza e maestà, non doveva avere uguali, vi
stampò per
sempre la sua grandezza. Anche questa volta (giova ripeterlo) senza
spillare un solo quattrino all'erario.
V'è qualcosa nell'opera dell'uomo che ne coglie, senza
intermediari, la grandezza. Come il Creatore si svela anche al bruto
dalla magnificenza del creato ed è scritto che sono
inescusabili
coloro che, pur vedendo le sue opere non lodano la sua gloria
perdendosi in ragionamenti ottusi (come dice San Paolo ai
Romani),
così, per riflesso e per analogia, la bellezza dell'arte
svela a
chiunque quanta nobile impronta ci fosse in chi ne rese possibile
l'espressione.
Beh, la reggia di Caserta è lì, anche se il nuovo
regno
la volle sfregiare tagliandogli il prospetto con un bel fascio
di
binari e tanto di stazione ferroviaria. Chiunque non sia ottuso
può vederla e farsi un'idea. È inutile spendere
parole
per quella gemma che, come il dono di uno sposo, Carlo di Borbone,
depose nel grembo del Sud dell'Italia proclamandola Regina e
consacrandola a lui e ai suoi discendenti. Riconfermando il
patto
concluso sei secoli prima, la notte di Natale, da Re Ruggero
del
quale, pure, il sangue, per via di tanti principi, re e regine,
scorreva ancora nelle vene dei Borbone.
La grandezza di un re si misurava allora (ma si misurerà
sempre)
dalla fedeltà con cui sapevano mantenere e tramandare quel
patto
che i loro antenati avevano stipulato con Dio e con il popolo
che
gli era stato affidato: altro che la
«mediocrità»
stabilita dagli storici sul metro delle «felici sorti e
progressive», che felici non furon mai e il cui progresso si
perde in una notte sempre più lunga e tenebrosa.
Carlo fu uno di quei grandi re di quella Cristianità che
ormai
stava per finire. Napoli e il suo regno generoso parteciparono di
quella luce e riuscirono a tenerla accesa, nonostante i venti di
bufera, ancora a lungo.
Quando, morto il fratellastro Ferdinando VI senza prole, Carlo, nel
1759, dovette assumere la corona di Spagna, lasciò al
terzogenito Ferdinando, che aveva otto anni, l'eredità delle
due
corone di Napoli e di Sicilia. La capitale abbellita,
arricchita,
grande ormai quasi come Parigi e Londra, il regno prospero, le finanze
in attivo, uomini geniali e preparati, pronti a continuare
ciò
che lui non aveva potuto portare a termine, un popolo che, se mai era
restato fermo, ora camminava verso il futuro con rinnovata
energia.
Dicono i cronisti che salendo sulla nave che l'avrebbe portato
in
Spagna, mentre salutava per l'ultima volta la sua Napoli, si tolse dal
dito un anellino. «Fa parte del Tesoro di Stato»
disse
dandolo al figlio perché fosse restituito.
Roba che ormai non ci si crede più.
GUIDA ALLA LETTURA / 2.
Una visione storica articolata sul significato e la prassi delle guerra
dal Medioevo al XVIII secolo, si trova in: GEORGES DUBY, Guglielmo e il
maresciallo. L'avventura del
cavaliere, Laterza, Bari 1985 e in tutte le opere di questo
autore. Inoltre in
FRANCO CARDINI, Quella antica festa crudele, Guerra e cultura della
guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Mondadori, Milano 1995 e
in molte altre opere di quest 'autore.
Sulla Santa Inquisizione:
FRANCO PAPPALARDO: «Lo "scandalo dell'Inquisizione". Tra
realtà storica e leggenda storiografica», in
FRANCO
CARDINI (a cura), Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia,
Piemme, Casale Monferrato 1994.
Questo libro è una vera miniera per chi vuole conoscere la
storia senza "bugie ". Gli altri articoli passano in rassegna
tutti gli argomenti che trattiamo in questi capitoli. Fra gli articoli
più interessanti per i nostri argomenti:
FRANCO CARDINI, «Che cosa sono realmente le
crociate»;
MARCO TANGHERONI, «Cristoforo Colombo, l'espansione europea e
la
scoperta dell'America».
Ancora, per approfondire l'argomento dell 'Inquisizione: JEANBAPTISTE
GUIRAUD, Elogio dell'Inquisizione, Leonardo, Milano, 1994
La prima cosa che si sente dire di Ferdinando IV, successore di Carlo
VIII al Regno di Napoli, è che fu incolto e
grossolano.
Infatti, cominciano col dire i suoi biografi, ebbe come precettore il
Principe di San Nicandro, grande cavalcatore, grande schermitore,
grande bevitore ma affatto versato nelle buone maniere, nelle
lettere e nelle arti. Nulla si dice di Padre Francesco Cardel, dotto e
pio gesuita tedesco che ne curò la formazione spirituale e
intellettuale né peraltro si ricorda che l'educazione alla
politica e agli affari di Stato glie la diede il toscano Bernardo
Tanucci, nientepopodimeno.
È un modo di far storia, questo, non nuovo nel mondo (per la
morale si chiama calunnia o diffamazione) ma che la storiografia
moderna ha assunto come metodo scientifico. «Calunniate,
calunniate, qualcosa resterà» diceva
Voltaire: di
questa scuola ha fatto le spese, fra gli altri, l'intera dinastia dei
Borbone delle due Sicilie, fino al punto che "borbonico",
anche
sui vocabolari, vale ormai per oscurantista, retrivo, reazionario.
Ferdinando non fu né incolto né grossolano. Di
lui, per
esempio, ci restano tutti i diari privati che egli, puntualmente,
secondo quanto gli raccomandava Padre Cardel, scriveva senza
perdere un giorno, dietro ai più piccoli
avvenimenti. Senza
farne un fine letterato, queste migliaia di fogli rivelano una
buona cultura e soprattutto una grande sensibilità d'animo e
una
solerte scrupolosità per i suoi doveri. È notorio
che
Ferdinando, ancora giovane, sotto la reggenza del Tanucci, si
interessasse di tutti gli affari di Stato e che, anche più
tardi, volle sempre metter bocca in tutte le questioni, anche
le
più minute.
Ma tant'è, essendo Ferdinando vissuto a cavallo di grandi
avvenimenti storici, ed essendo fra i pochi sovrani che li superarono
ed anzi ne mostrarono la spavalda e meschina inconsistenza,
essendo, come tutti gli altri re borboni, perfetta
rappresentazione di tutto quel che significava il mondo meridionale e
degli umori e delle speranze che lo animavano, essendo (anche
se
ciò non è notato da alcuno) l'unico
monarca di
grande statura sopravvissuto in pieno, col suo lunghissimo regno
(17591825), alla prima grande bufera rivoluzionaria d'Europa,
essendo infine il rappresentante di un popolo che, unico in Italia, era
riuscito, con le sue sole forze, a non farsi travolgere
dall'ubriacatura giacobina e ad umiliare i francesi, beh, non gliela si
può proprio perdonare.
Ferdinando, fra tanti "monarchi assoluti", fu l'unico a
scavalcare
il Settecento salvando, oltre la testa, la corona, lo Stato, e la
devozione del suo popolo.
L'idea di sovrano assoluto
"Democrazia" è una parola magica. Ovunque, al giorno d'oggi,
venga pronunciata ottiene l'effetto di tacitare immediatamente
gli
avversari, di mettere in imbarazzo gli interlocutori, di
generare
spropositate attestazioni di fede e gare sovrumane di
venerazione.
Religione senza Dio in cui tutti sono sacerdoti, senza sforzo si
diffonde per tutta la terra. Non impone sacrifici ai suoi profeti ma ne
richiede, ad occhi chiusi, ai suoi neofiti che presto, a loro volta
iniziati alla profezia, se li scrollano di dosso imponendoli ad altri e
perpetuando all'infinito la buona novella del progresso. Ecumenica per
sua natura, questa religione si manifesta in infinite maniere:
democrazia infatti fu quella sovietica e fu quella cambogiana di Pol
Pot, è quella cinese e quella di Fidel Castro, quella
americana,
quella italiana, afghana, iraniana, irachena, libica e quella
del
Ruanda. Democrazia costituzionale, democrazia popolare, democrazia
parlamentare, democrazia proletaria, democrazia dirigista,
democrazia liberista, riti diversi e diversa liturgia, una sola
trinità le unisce: la libertà che, come il sommo
Iddio,
nessuno ha visto mai né alcuno, dopo tanti ragionamenti, sa
definire, l'uguaglianza, purissimo
spirito e per questo invisibile, e la fraternità
dell'uomo
nuovo suo figlio, buono per natura, anche quello, ancora misterioso e
di là da venire. Decisa a catechizzare tutti, scomunica
senza
remissione i «refrattari» i quali vengono confinati
nei
gulag, nei campi di rieducazione, nelle carceri del popolo o,
(giudicate voi se sia il migliore deicasi) condannati alla sufficienza,
alla derisione, o alla damnatio memoriæ: in ogni
caso,
cruento o incruento, alla distruzione.
La democrazia nacque in Grecia. Massime esponenti ne furono
Atene
e Sparta: l'una ricordata per aver messo a morte Socrate che pretendeva
d'insegnare a pensare con la testa propria, l'altra per sopprimere i
neonati gracilini. Nulla di nuovo sotto il sole.
Non è con questo a dire che la democrazia sia la peggiore
forma
di governo: tale diventa, come ogni altra, quando, appunto, si erge a
dogma religioso non ammettendo che alcuna divinità, dopo
averla,
fin dall'eterno, cogitata, s'intrometta più nei suoi affari.
Posto che, comunque estesa, mai tutti potrebbero, per una
ragione
o per l'altra, prenderne parte attiva, cioè governare, come
vorrebbe il significato della parola, democrazie o almeno aristocrazie,
cioè governo di grandi elettori, si ebbero sempre
in seno
anche ai regimi più monocratici. Senza dover ricordare la
Repubblica e l'Impero romano antico, il Sacro romano Imperatore veniva
scelto dai principi elettori, per esempio, e nelle
città
pur infeudate si ebbe sempre un'universitas di nobili e "popolari", i
patrizi (padri della comunità civile) che s'occupavano
dell'amministrazione. In seno al governo della Chiesa, la democrazia
pacificamente convive, nell'elezione del Papa, con la monarchia
assoluta di quello e con l'aristocrazia dei Cardinali ("Principi") e di
Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi ("Nobili vassalli, valvassori e
valvassini"). Qualunque membro poi, perché questa struttura
sia
veramente "popolare", può salire fino al massimo grado.
La Cristianità, secondo un piano naturale, si
strutturò
crescendo, sul modello della Chiesa che, a sua volta, si
strutturava sul modello della Città di Dio, la
«Celeste
Gerusalemme». Ma se nessuno, allora, si
scandalizzava che la
Chiesa terrena non sempre riuscisse ad uniformarsi a quella in
paradiso, tantomeno poteva scandalizzarsi se, nel modello del modello,
non sempre le cose
andassero per il giusto verso. Se il problema della Chiesa era
quello della continua riforma («Ecclesia semper reformanda
est» diceva Sant'Agostino), nella società civile
era
quello del continuo riequilibrio dei poteri fra i vari corpi
dello
Stato e quello degli stati fra loro. Nobili e popolo, ognuno
si
contendeva la sua parte di potere e, ufficio del re era quello di far
da arbitro fra i due contendenti. Per questo la sua investitura era
avvocata al Papa, al di sopra delle parti.
Per altri versi, anche l'elezione a sovrano avveniva per scelta
democratica, anzi per plebiscito, giacché, come abbiamo
visto
per Ruggero di Sicilia, non solo il suo valore ma l'omaggio che
già gli rendevano tutti i baroni dell'Italia meridionale e
la
devozione del popolo, fu infine il criterio per cui il Papa lo
riconobbe Re. Non la nobiltà delle sue origini: gli
Altavilla
erano arrivati dalla ricca Normandia come spiantati per mettersi al
soldo dei rozzi signorotti pugliesi; non la potenza: i re di Francia
erano i più poveri fra tutti i feudatari, la loro terra,
anche
da sovrani, restò per secoli la più
piccola del
reame; ancor meno la prepotenza: Federico di Svevia e la sua
discendenza furono spodestati tanto come re di Sicilia quanto come
imperatori; nessuna di queste prerogative costituiva, davanti al potere
spirituale del Papa, un privilegio per essere a capo d'un regno
cristiano. I sudditi, nobili o popolani di tutt'Europa avevano ben
chiaro che non dall'alto o dal basso della scala sociale veniva il
potere, giacché il Pontefice (da qualsiasi strato sociale,
nobile o plebeo, ricco o povero, avesse avuto i natali), finanche col
cambiarsi il nome, s'era messo al difuori d'ogni privilegio e
d'ogni potere umano.
La stessa cosa, col medesimo criterio, avveniva per i titoli di
nobiltà concessi dal re.
Se oggi ad educare i futuri capi ci pensa il partito, allora nessuno
metteva in dubbio che ad educare i futuri re ci pensassero i re, e i
futuri nobili i nobili. Questo, naturalmente, con le dovute eccezioni
giacché, lo sanno tutti, la natura umana spesso dirazza e i
figli di re posson diventare cialtroni e i figli dei nobili zoticoni.
Nello stesso tempo, come dimostrano ancora una volta i Normanni, stesso
tempo, come dimostrano ancora una volta i Normanni, con la
grazia di Dio e con l'ingegno, tutti posson diventare nobili e re.
Le classi sociali che costituivano la Cristianità erano
più mobili e intercambiabili di quel che oggi si pensa: a
parte
le leggi della demografia che provvedono a sfoltire i popoli e le
famiglie, cattiva sorte, fellonia (cioè infedeltà
ai
patti) e disonore potevano, anche da sole, fare repulisti. Se non
bastasse il succedersi delle dinastie, a scorrere i documenti
del
passato ci s'accorge che, salvo rare eccezioni, almeno otto
famiglie aristocratiche su dieci appaiono e scompaiono nel giro di un
secolo e che, del restante, solo una conserva la sua
condizione
per più di due. Solo per rimanere in Italia, di settemila
famiglie contate al tempo del penultimo Savoia (1933), solo un
centinaio poteva vantare una nobiltà più antica
di
trecento anni, ma molte di esse, di fatto decadute, vantavano ormai
più solo i ricordi del passato.
La "classe dirigente" dell’ancien régime dunque,
nei ritmi
di una società durata più di mille anni, non era
affatto
"sclerotizzata" (anche se poi i governi non cambiavano con la
stagione). Tutti, secondo le loro doti naturali, uguali
davanti a
Dio, potevano ambire ad elevarsi fino al vertice del potere. Il Papa,
rappresentante di Dio sulla terra, quel Dio che aveva preso Davide
«di dietro le pecore» per farne il Re d'Israele,
era la
garanzia per tutti che il potere, in fin dei conti, viene dal Cielo.
Del resto, a quei tempi, la Scrittura valeva qualcosa di
più che la «Carta dei diritti dell'uomo»
e la Sede
di Pietro era più libera delle Nazioni Unite.
Forse proprio sul valore del "sacro" deve meditare chi si
accinge
a far storia, in un'epoca "laica" in cui i monumenti ai
conquistatori divennero "templi", quelli alla patria divennero
"altare", in cui i caduti dei vincitori divennero "martiri" e i loro
cimiteri "sacrari", mentre solo, come all'antica, i "sacrifici" restano
sempre quelli di stringere la cinta. Tempi questi in cui finanche la
mafia, quella pugliese, ha voluto chiamarsi, senz'ombra d'umorismo,
"Sacra corona unita". Sacra era (in tempi che al posto
dell'umorismo esisteva l'allegria) la corona dell'imperatore e dei re
della Cristianità, ma solo perché, attraverso il
Papa,
proveniva da Dio.
L'eresia non è una menzogna ma un abbozzo di
verità,
un'opinione, una scuola di pensiero fra tante, come dice la parola
latina hæresis. Lutero, in fin dei conti, poteva essere un
magister fra i tanti. In un'università avrebbe potuto
liberamente disputare con gli altri docenti e con gli studenti
finanche, come del resto, senza scandalizzare nessuno, faceva
San
Tommaso d'Aquino, se la Madonna fosse stata o non concepita senza
peccato. Eretici, nel senso latino, n'eran nati tanti, ma non tutti
erano morti tali giacché, se discutere si poteva su tutto, e
senza limitazioni, la parola finale spettava a Pietro. «Roma
locuta quæstio soluta» si diceva, tanto era
evidente che se
le opinioni sono degli uomini, la verità appartiene a Dio.
Fra'
Martino poteva così diventare, in alternativa, anche un
altro San Francesco o uno di quei tanti riformatori, ma veri,
della religione, che sentendosi ispirati, non mettevano in
dubbio
che lo stesso Dio, sui suoi progetti, sapesse convincere anche i papi.
Dall'"opinione" di Lutero, diventata legge per decreto dei
príncipi tedeschi, nasce dritta dritta la democrazia moderna
che, dicendosi comunque "laica", e quindi non dipendente da Dio,
s'arroga lo stravagante diritto di decidere a maggioranza
qual'è
la verità.
Spaccatasi l'Europa, dopo le divisioni di Guelfi e Ghibellini, fra
cattolici e riformati, la frattura andò sempre
più
accentuando, nel senso che se i protestanti s'ingegnarono sempre
più d'essere tali, i cattolici si studiarono
d'essere
più papisti del Papa, cosa che proprio non si
può.
Antichi attributi onorifici di re, come "Cattolici" (quelli di
Spagna), "Cristianissimi" (quelli di Francia), "Fedelissimi" quelli di
Portogallo, fino ad "Apostolici" (quelli d'Austria) divennero patenti
di merito per assolutizzare sempre più il ruolo dei
monarchi. La
cosa interessava soprattutto all'aristocrazia che,
sacralizzando
il sistema di governo, sperava così di render sempre
più
stabile il suo potere.
Proprio le continue tensioni fra re e nobili, cioè fra
monarchia
ed aristocrazia, erano state la garanzia che nessuno dei due
poteri avrebbe potuto prevaricare sull'altro. Il Papa, arbitro
indiscusso ed imparziale, era, a sua volta, il garante del popolo,
figlio prediletto. Il suo potere, benché
spirituale, era
realissimo, giacché, solo provvisto di quello "delle chiavi"
poteva ridurre a ragione i più dispotici sovrani. Se la
scomunica riduceva il prestigio di un re a
livello dell'infimo dei plebei, l'interdetto, vietando di
obbedirgli e di pagargli le tasse, lo metteva alla completa
mercé dei suoi sudditi. Così successe, come
abbiamo
visto, di Federico di Svevia. Il sistema funzionava, e fu
questo
delicatissimo equilibrio a mantenere unita la Cristianità
per
oltre mille anni, in maniera naturale (oggi diremmo "umana"),
sotto lo stesso padre, senza mai abusar della forza e, tutto
sommato, senza che i figli menassero troppo le mani.
Dunque i nobili si dettero da fare per attribuire al loro diretto
sovrano tutto quel potere che li avrebbe garantiti nei loro uffici e
nei loro privilegi. Quello della piaggeria e dell'adulazione
è
un vizio antico (detto pure, appunto, "cortigianeria") ma, a
partire dal cosiddetto Rinascimento, si trasformò in arte e
virtuosismo e, dal Cinquecento al Settecento, ebbe tutto il tempo di
convertirsi in scienza del governo o, meglio, del potere. Retorica ed
Eloquenza, nobili discipline a servizio dell'insegnamento, diventarono
(come dimostrano i pomposi scritti dell'epoca) manieratissimi e leziosi
esercizi di incensazione e di prona sudditanza. Tanto nell'arte che
nella letteratura, il Rinascimento non fu che la copia di vuote forme e
d'idee senz'anima.
La Cristianità che aveva resistito ai rudi popoli del Nord,
all'orda degli intransigenti musulmani, alla prepotente forza
di
re ed imperatori, agli allucinati catari e albigesi, ai rigidi
riformatori tedeschi, uscendone sempre più
compatta, fiera
e purificata, si snaturava sdilinquendosi alla melliflua
astuzia
dei cicisbei. Il "laicismo" dal Nord penetrava inesorabilmente verso il
Sud dell'Europa sull'onda di una filosofia e di una scienza senza freni
e di un trafficar denaro, commerciare e trattare affari senza
regole, fin nel cuore degli stati cattolici. La Chiesa, come in ogni
suo momento di crisi, reagiva con un dispiego di dottrina, di
spiritualità, di ascesi, di opere di
carità, con una
schiera di uomini santi (per il Sud basterebbe ricordare anche solo
Sant'Alfonso Maria de' Liguori). Il mondo civile invece non
seppe
rispondere che con una semplice facciata di cartone, un baluardo di bei
modi e belle maniere, una vuota forma stilistica che non sapeva
più incarnare lo spirito cristiano.
Mentre la Spagna, nel suo vasto impero d'oltremare, ostinata nella sua
missione cristianizzatrice, aveva speso dobloni ed energie restandone
perfino indebitata, insieme ai guadagni sempre più
pingui
che arrivavano, senza tante fisime, dalle colonie inglesi ed olandesi,
si spandeva per l'Europa il capitalismo e con esso il pensiero
riformista. Il cosmopolitismo della Cristianità nato
dall'essere
tutti stretti in un unico patto, si trasformava in "internazionalismo"
fondato sui contratti, sui commerci e sulle transazioni. I borghesi,
che prima non erano altro che la parte più ricca e
intraprendente dello stesso popolo, diventati generalmente
più
ricchi degli stessi nobili (quando non di certi principi e certi re)
disdegnarono il tradizionale appellativo di "popolo grasso" e
vollero chiamarsi "civili" mentre, ovviamente il "popolo basso"
retrocedeva al rango di plebaglia. Una volta comprati i feudi
dei
nobili decaduti, le loro terre e i loro palazzi, i "civili", nuova
classe che voleva trovare una dignitosa collocazione per non
sentirsi alla pari dei propri cocchieri, non potettero fare a meno di
volere anche loro un blasone e si industriarono di scavalcare,
a
suon di contanti, quella regola concepita, come dicemmo,
proprio
dal primo re del Sud, per cui solo la fede, il valore e la
generosità d'un cavaliere potevan dare inizio a un'illustre
prosapia (Il Conte di Brienne, nel 1793, febbricitante di rivoluzione,
volle rinunciare al suo appellativo feudale tornando a chiamarsi
Crachepous, Grattapidocchi).
Se altri regni, Spagna per prima, resistettero all'assalto dei ricchi
borghesi (la "Lingua" di Castiglia dell'Ordine di Malta non ammetteva
chi avesse mercanti fra gli antenati: e la seguirono tutte le altre),
la "cristianissima" Francia, agricola, pacifica e felice, dove i nobili
di campagna mangiavan la minestra con i loro servi e per andare in
città si facevan prestare il cavallo dai contadini, fu
quella
che prima cedette alla lusinga della facile ricchezza. Messa
lì
fra le più grandi borghesie d'Europa, sempre infastidita da
fiamminghi, inglesi e renani, con la sua corte reale senza grandi
proprietà, sempre costretta a fare i conti con i
fornitori,
trovò che forse il diavolo, visti i facoltosi vicini, non
è così brutto come lo si dipinge e forse non era
poi
così vile l'espediente di mettere d'accordo Dio con mammona.
Messisi essi stessi in affari con ricchi commercianti,
riempitisi
di debiti con i finanzieri, i re di Francia aprirono le porte a
chiunque "bussasse con i piedi", come si dice di chi ha le mani
piene di regali. Tante erano le richieste di titoli ed onori e
tanti i "favori" ricambiati, che Luigi XIV diede a un tale
D'Oziers l'appalto di concedere patenti di nobiltà. Tuttora,
la
Francia, non riesce, per il numero smisurato di nomi, ad avere un
elenco attendibile della sua passata aristocrazia.
Così, nella nazione dei re taumaturghi, di San Bernardo e
dei
monaci di Cluny, delle più belle cattedrali del mondo, tanto
gelosa della sua fede cattolica da rapire il papato ad Avignone, la
bigotteria salottiera sostituiva la virile devozione, il bon
ton
la pietà, il fasto pretenzioso l'adorazione, il
denaro
l'onore. Nasceva il "Terzo Stato".
La Francia, nazione "primogenita" della Chiesa, nata
dall'acqua
del battesimo di Clodoveo, tramontava nello stesso momento in cui
sorgeva invece, sorreggendosi sugli altissimi tacchi delle sue scarpine
dorate, il "Re Sole", incarnazione di quello Stato moderno che la 3lama
della ghigliottina, manovrata proprio dal quel "Terzo Stato", avrebbe,
nel sangue, alla fine del secolo, solo consacrato.
Fu quello il tempo che il patto della Cristianità si
dissolse in
trattati e "concordati", in cui il Papa fu considerato soltanto il capo
di un reame (e alquanto miserello) con cui trattare pari a pari, e il
Re divenne «l'immagine di Dio sulla terra» e
l'«unto
del Signore» e si considerò che la sua corona
fosse scesa
direttamente dal cielo sulla testa. L'epoca in cui nacque una nuova
scienza, il "giurisdizionalismo", nome erudito per la ragioneria
dell'avere e del dare, che misurava a codicilli e pandette i privilegi
dei principi e dei vescovi, del clero e dei borghesi e quelli
del
Re e del Papa e, con la storia dei regni e delle investiture, i diritti
dell'uno e dell'altro ad aver più o meno potere non solo
sulle
persone ma sulle loro coscienze. Giuseppe II, "Imperiale e
Reale
Apostolica Maestà" dell'Austria, avendo pochi ricchi
mercanti in
giro per le sue terre ed essendo i suoi ebrei troppo poveri per cavarne
qualcosa, decideva quali vescovi rispettavano il Vangelo e quali monaci
e frati eran veramente pii e in che misura, a suo parere,
giovavano alla religione li mandava a remengo se i loro beni
potevano servire meglio alla
nazione. Ogni questione vertente la giurisdizione era condita con dotte
citazioni dalla Scrittura e sempre solo sui versetti dei Vangeli si
risolvevano ormai le questioni con la Chiesa. Il "libero esame" della
Riforma aveva fatto passi da gigante: ogni lettera fra ministri era una
disquisizione teologica, un esercizio di esegesi biblica, ogni decreto
un'omelia. Dopo il laicismo nasceva così anche il
clericalismo.
Ferdinando IV, "figlio di famiglia"
Ferdinando dunque, aveva otto anni. Un sollucchero per i
napoletani quando passava, accompagnato dal fido Tanucci coi
suoi
austeri abiti neri e coi capelli raccolti a codino, nella carrozza
reale per via Toledo, splendente di tutte le vaghezze con cui le dame
di corte s'eran studiate di coccolarlo: parrucchino di boccoli
incipriato, vestiti di seta bianca con galloni ed alamari di
celeste (i colori nazionali), spadino rilucente. I dragoni a
cavallo della guardia del corpo avevano un bel daffare
perché le
donne, dame e popolane, a cui mandava baci con le mani, non lo
prendessero e se lo mangiassero vivo e perché gli scugnizzi
non
si arrampicassero fin sul predellino per arraffare le monete che il
reuccio, divertendosi un mondo, lanciava loro prendendoli dal
borsellino dell'avaro tutore.
Il matrimonio dell'allampanato padre (tanto buono ma tanto pallido e
meschinello nell'aspetto) con la paffuta e rosea Maria Amalia aveva
rinsanguato la razza dei Borbone: Ferdinando, a parte il naso di
famiglia, cresceva bello, robusto e sempre più alto, quasi
un
gigante che, già nell'adolescenza, quando li guidava nelle
manovre e nelle parate militari, si distingueva emergendo fra
gli
alti elmi dei suoi cavalleggeri.
Se il patto garantito dalla fede era il grande legame della
Cristianità, la famiglia, cellula originaria, era
il
modello della società. Una grande famiglia era dunque
l'Europa
che alla ribellione dei figli protestanti rispose stringendosi
ancor più nei patti coniugali. Se, tanto per cominciare a
dar
l'esempio, i regnanti s'erano sposati sempre senza far distinzione di
nazionalità, i restanti re
cattolici, viste come andavano le cose, cominciarono a
premettere
ad ogni altra dote della sposa, il fatto che fosse "di buona famiglia"
ovvero che non avesse grilli per la testa. Prima di tutto doveva essere
fedele. E quale garanzia era migliore che fosse stata educata nella
vera religione? Maria Amalia, allevata in Polonia, sentinella
ad
oriente della cattolicità, aveva dato buona prova di moglie
pia
e devota: lo stesso popolo napoletano la chiamava, senza ironia, "la
santarella". Da notare che i re cattolici, spagnoli e
napoletani
per primi, non badarono alle ricchezze o alla potenza nazionale delle
loro spose ma solo alle loro virtù, andandole a pescare, per
precauzione, soprattutto nelle più piccole e povere corti
d'Europa. Così fu di Filippo V per Elisabetta dalla padana
corte
dei Farnese, così per Carlo con Maria Amalia, e
così in
seguito, per esempio, dei successori Ferdinando II che si prese
Cristina di Savoia ("santa" anche lei, e quanto: ancora venerata),
figlia di una piissima famiglia che nei secoli, però, s'era
dovuta sempre accontentare di un territorio grande come una delle
più piccole provincie del Napoletano e che, per cingere una
corona di re, s'era accollata l'amministrazione di un'isola selvatica
che quasi non sapeva dove fosse. Così fu infine per l'ultimo
Francesco che, l'indomabile Sofia, nella cattolicissima Baviera,
l'aveva scelta in una famiglia, nobile sì ma campagnola.
Ferdinando la moglie se la scelse nella corte imperiale, a Vienna.
Maria Carolina era figlia di una gigantessa, Maria Teresa che, oltre ad
esser «madre di tutte le sue terre» come
imperatrice, di
figli ne aveva fatti sedici: di figlie glie ne restarono quattro, tutte
educate par far le regine. Il Sacro Romano Impero, quando mezza Europa
divenne protestante, con la casa d'Asburgo s'era spostato verso
l'Oriente, a dominare su popoli d'ogni razza e religione. Stretta fra i
bellicosi prussiani e gli altri principi tedeschi da una parte, e dallo
sterminato impero russo e dai turchi dall'altra, Maria Teresa, donna
virtuosa e intransigente, seppe tenere insieme tutta quella pletora di
gente e mise la basi per un impero che anche se poi dovette rinunciare,
con Napoleone, ad esser più "Sacro e romano",
riuscì
tuttavia a restare unito fino al 1918. Fra guerre coi vicini e
ribellioni di frontiera, l'Austria s'era mezza dissanguata ma la corte,
alla guida di tanta matriarca, nascondeva dignitosamente le sue
strettezze con molto decoro, un'impeccabile etichetta e una saggia
amministrazione.
Il matrimonio con Maria Carolina, nel 1768, un anno dopo che
Ferdinando, diventato maggiorenne, avrebbe assunto in pieno i suoi
poteri, era la buona occasione per mettere da parte, una volta per
tutte, i dissidi fra austriaci e spagnoli, ultimi grandi cattolici
rimasti, e soprattutto per riconciliarsi dell'ultimo affronto
che
proprio su quel Regno di Napoli s'era consumato. Del resto, tanto Carlo
che Maria Teresa erano ormai ben convinti che le poche potenze
rimaste cattoliche dovessero rinsaldare, e in fretta, i patti
di
famiglia.
"Patto di famiglia" difatti, chiama la storia, con sufficienza, quasi a
dire che si trattava di qualcosa di mafioso, quello che legava
Ferdinando a Napoli con i suoi genitori madrileni. Il che era anche
naturale, tanto più che, in Italia, Carlo ci aveva lasciato
un
bambino. Il reggente Tanucci, in stretto contatto con la corte
spagnola, non eseguì che gli ordini del padre e il padre, a
sua
volta, non smise di sovvenzionare le casse di uno Stato che aveva
voluto prospero e felice.
Fino al 1767 quindi, i napoletani continuarono a vivere come se Carlo
non fosse mai andato via. Completata la reggia più
leggiadra d'Europa, costruiti ministeri, tribunali, accademie,
musei, conservatori, teatri (compreso il San Carlo, il
più
grande del mondo), ospizi, fortezze, caserme, arsenali, cantieri
navali, accorsi a costruirsi palazzi vicino alla corte i
nobili di
provincia, abbellita la capitale, ormai tanto popolosa da esser terza
città dopo Londra e Parigi, in tutto il Regno
germogliò
la più smagliante fioritura culturale. Dopo la sua
bellezza
da sempre decantata, Napoli crebbe ancora di fama per i suoi
abitanti, per fama di leggi, di scienza, di lettere ed arti,
di
musica, e di vivaio della più vasta, cosmopolita e
rinomata
classe intellettuale del Settecento italiano, la più oculata
e
snella burocrazia statale, la più intraprendente e
internazionale borghesia del Mediterraneo, la più
"rampante" e vasta corporazione di professioni liberali e (quel che
coronava di vera gloria i Borbone e il popolo meridionale) il
più satollo, allegro ed umano popolo del mondo.
I venti anni che vanno dal 1769, quando Ferdinando, ormai
maggiorenne, sposato e Re di fatto, pubblicò il suo
primo
editto in cui tracciava un vasto programma di riforme del Regno, e il
1789, quando venne pubblicato il celebre statuto Origine della
popolazione di San Leucio, sono indicati come
l'"Età
d'oro". Una definizione che ha trovato fortuna tanto fra i
più
irriducibili avversari di questo re (quelli, per intenderci, che lo
gratificano tutt'oggi dei più fantasiosi epiteti
ingiuriosi) sia quelli che ne cercano una rivalutazione. Fra questi
ultimi, c'è chi volle distinguere quello napoletano dal
resto dell'Illuminismo che caratterizzò l'Europa di
quel
tempo: «una porcellana di Capodimonte di fronte ad un biscuit
di
Sèvres, il sorriso di un'alba rosea a fronte del
torbido
nembo realizzatore della rivoluzione francese».
Certamente le differenze ci furono e furono proprio quelle per cui
Ferdinando, rappresentato dal Canova come un imperatore romano nel
monumento equestre a Largo di Palazzo, salutato per vent'anni come
«Novello Tito, amore e delizia del genere umano»,
il
«più grande legislatore del secolo»,
«Padre
dei suoi popoli», dopo quegli anni divenne d'un botto il
«Re lazzarone», «pauroso e
imbecille, vilissimo
despota e stupido tiranno». La differenza sta nel
finale
tutto napoletano che si ebbe, nel meridione, alla fine di quel secolo,
il "grande complotto" contro quel che rimaneva della
Cristianità.
L'Illuminismo arrivò a Napoli così come era
arrivato in
tutti gli stati cattolici né, dal punto di vista della
"vivacità", della spregiudica tezza e della fama
dei suoi
esponenti fu secondo a nessuno. Nomi come Filangieri, Genovesi,
Caracciolo, Galiani, Gravina erano noti in tutti i circoli
culturali d'Europa e da tutta Europa i pensatori alla moda
facevano capo a Napoli come a Parigi per nutrirsi
vicendevolmente
alle fonti di quello che veniva ritenuto il massimo e definitivo
trionfo del sapere e della ragione. A Napoli, come nel resto
d'Europa, si manifestò con riforme che sembrarono
unanimemente giuste e con uno stile di vita spensierato ed
ottimista che sembrava il massimo che si potesse chiedere su questa
terra, ammantato, come ovunque, dell'euforia del benessere.
Come s'era verificato per la Francia, anche negli altri regni cattolici
l'illuminismo non avrebbe potuto diffondersi con tutto il suo codazzo
di idee rivoluzionarie se le corti, i ministri, le
legislazioni
non l'avessero in qualche modo favorito. I re assoluti, anche se
creature dei cortigiani, avevano comunque un immenso potere e un enorme
ascendente sulla nazione, nobili o popolani. «Avevo verso il
Re
un sentimento difficile da definire, un sentimento di
devozione di
carattere religioso. La Parola del Re aveva allora una magia e un
potere che nulla aveva potuto alterare. Nei cuori retti e puri, questo
amore diveniva una specie di culto», scriveva il
Maresciallo
Marmont, in Francia, quindici anni prima della rivoluzione.
Alla corte di Napoli, la breccia da cui l'illuminismo e le sue
conseguenze si diffusero nel Regno fu costituita, paradossalmente,
dall'intransigente Tanucci. Di lui non si può dire che fu
mai
illuminista o che abbia mai avuto simpatie per gli intellettuali.
Toscano, ghibellino quindi per vocazione di patria, incorruttibile
funzionario al vertice di ogni possibile carriera, votato allo Stato
quindi sparagnino, sposò la causa del giurisdizionalismo
fino al
punto da diventare un estimatore del Giannone. Costui, un "paglietto",
come i napoletani chiamavano con sufficienza gli avvocatelli
azzeccagarbugli, venuto dalla provincia al tempo dei viceré
austriaci, nella capitale non aveva trovato di meglio che prodursi in
una serie di pamphlet anticuriali finché, nel 1723, aveva
dato
alle stampe una Storia civile del Regno di Napoli che pretendeva di
mettere i napoletani contro il Papa. Le occasioni c'erano
giacché la Santa Sede, rifiutando il tributo da Carlo VI,
senza
provocare rivoluzioni, gli aveva detto chiaro e tondo che considerava
il dominio dell'Austria sul Regno un'usurpazione.
Le tesi di Giannone, mal scritte, qua e là scopiazzate,
zeppe di
errori ed imprecisioni, erano difficili da sostenere
giacché,
come sono costretti ad ammettere anche i più mangiapreti fra
i
suoi estimatori, non si poteva interpretare, come diceva
quell'autore, tutta la storia del Sud come una eterna lotta fra Stato e
Chiesa né risolvere ogni questione dicendo che chi
rappresentava
l'uno eran sempre e comunque fior di galantuomini e chi l'altra tutti,
senza eccezione,
mascalzoni. La questione era tutta di giurisdizione, diceva lui
negando che uno stato "libero e sovrano" potesse dipendere dal
Papa.
In effetti, l'antico vassallaggio, per cui il Regno non
dipendeva
dall'Impero, come Francia e Spagna, e che ne aveva garantito
l'autonomia (e si ricordi la difesa che ne aveva fatto il Papa ai
tempi di Federico Imperatore) era rimasto solo nella "Chinea",
una
bella parata da Napoli a Roma per ricordare il "ligio omaggio"
del
Re vassallo al suo tutore. Fin dai tempi di Carlo d'Angiò,
una
cavalla bianca, «bella e ben addestrata», capace di
inginocchiarsi davanti al Papa in San Pietro (da qui il nome di
chinea), come nei patti, saliva, per la rampa fatta costruire apposta
sulla scalinata del Bernini, a portare l'offerta, il "tributo", dei
napoletani e dei siciliani ai Santi Apostoli loro protettori.
Ai napoletani le idee di Giannone, che diventarono presto di pubblico
dominio, non potevano piacere, tanto che, come succedeva
sempre
quando gli si tocca la religione, il popolo aveva inscenato
una
sommossa e aveva costretto il viceré a spedirlo difilato
fuori
dai confini.
Quello del conflitto di poteri, per il Tanucci, fu il cavallo di
battaglia con cui riuscì a dominare insieme sia il Re di
Spagna
che quello di Napoli, padre e figlio (ma fu anche il cavallo di Troia
con cui i settari entrarono a Napoli). Infatti Carlo, a Madrid, era
alle strette e le esortazioni di quell'austerissimo grand comis gli
erano di conforto, tanto più che, a malincuore, s'era dovuto
privare del proprio ministro, un napoletano, il Marchese di Squillace,
grande uomo di stato anche lui ma talmente rigido e antipatico al
popolo da doverlo licenziare. La Spagna se la passava male: fra le
beghe internazionali e le ribellioni delle colonie, perdeva
ogni
giorno di più la sua grandezza. Dopo la morte di Maria
Amalia,
un anno dopo ch'era arrivato arrivato a Madrid, il Re s'era incupito,
forse rimpiangeva la dolce vita di famiglia alla napoletana:
certo
la corte che egli aveva sempre schivato, sempre pronta a organizzar
complotti in nome dell'onore e dell'ispanica hidalguia, non l'aiutava.
Il potere di Tanucci sul Re di Spagna, in poco tempo, divenne
totale. Con una profluvie di lettere, giorno dopo giorno, lo
portò alla conclusione che ogni male del regno provenisse
dalle indebite
ingerenze della Chiesa nel potere sovrano, dai privilegi dei preti
divenuti abusi, dall'insidia che, soprattutto i più
moderni
e spregiudicati, costituivano per lo stato. Naturalmente, come
sempre, prima e dopo, fecero sempre i novatori, condendo le lettere di
massime della Scrittura, quel geniaccio di un anticlericale,
giurava che si trattava di fare il bene, così,
della
religione, della Chiesa e del Papa medesimo ormai attorniato
di
falsi cortigiani. Frasi tanto carismaticamente ispirate
convinsero
Carlo a farsi guidare in una contesa in cui il mite sovrano non avrebbe
mai creduto di doversi cacciare.
Tanto per cominciare, l'esempio da imitare, per Tanucci,
veniva da
Francia e Portogallo ed era proprio questo paese così
vicino, e con tanti interessi in comune, che aveva dato una
sgomitata a Roma cacciando dal paese i Gesuiti. Nel 1759, proprio un
allievo di questi religiosi, il Marchese di Pombal, li aveva espulsi
dal regno e dalle sue colonie, per ragioni che nessuno ha ancora saputo
pienamente spiegare (neanche con la contesa con la Spagna per
i
territori delle reducciónes del Paraguay) se non come un
moto
d'orgoglio di quell'onnipotente reggente a cui era rimasto, stretto in
un pugno di ferro, tutto il potere del paese. In un regno cattolico,
prima d'allora, solo Federico di Svevia aveva osato mettere al bando
un'ordine religioso negando l'ospitalità a
Domenicani e
Francescani. Anche la Francia non perse l'occasione, nel 1762, di fare
la medesima cosa: vescovi e preti gallicani, giansenisti, febroniani si
trovarono tutti d'accordo con i filosofi dei "lumi" ed ogni altro
settario d'Europa che in quel regno aveva trovato entusiasta
accoglienza.
Nell'ottimismo di un mondo che sembrava avviato a tempi sempre migliori
(Oh, le «felici sorti e progressive»!) solo la
Chiesa
vegliava conoscendo le astuzie del nemico. I Gesuiti, i più
colti, i più istruiti, gli integerrimi custodi della
Cristianità, abituati da sempre a trattare con
principi,
filosofi e scienziati, avevano ben capito dove s'andasse a parare e
già, ovunque fossero diffusi, tenevano testa, dolci
come
colombe e astuti come serpenti, a quel nemico per combattere il quale,
in piena riforma protestante, Sant'Ignazio li aveva arruolati. Scuole,
convitti, università, accademie, non v'era luogo dove si
coltivasse la cultura che non li avesse maestri e patrocinatori.
Rimasti fermi nella convinzione che da ogni legittimo
potere scaturisse la santità dei popoli e perciò,
per
quanto il mondo lo consente, la possibilità umana d'essere
felici, pur senza trascurare, nelle missioni, quelle genti
ancora
bambine, dedicavano le migliori energie all'educazione delle
future classi dirigenti.
Dalle reducciónes del Guarany, nelle selve dell'America
latina, dove spiegavano agl'indios i rudimenti dello stare
insieme, fino alle corti d'Europa dove insegnavano ai principi
l'arte del bel regnare, i Gesuiti, forniti d'ogni cultura religiosa e
mondana (oltre ad essere preti erano essi stessi filosofi, antropologi,
scienziati, astronomi, politici, ingegneri), sapevano tener testa ad
ogni polemica e ad ogni prepotenza, quanto bastava per essere amati
dalla gente buona ed essere odiati dalla marea montante di una cultura
che si mostrava ogni giorno di più nella sua vera natura
anticristiana.
Carlo III dunque, espulse i Gesuiti nel 1767 e un anno dopo stesso
provvedimento fu adottato dal Regno di Napoli. La cosa qui non fu
così facile giacché il giovane regnante, preso da
mille
scrupoli alla proposta del Primo ministro, rispose chiaro e tondo che
una simile infamia lui non l'avrebbe sottoscritta mai. Questo fu primo
atto di una rottura fra Ferdinando e il padre. Ma l'astuto Tanucci non
desistette dal suo piano e mise in atto tutte le furberie per far
capitolare quell'ostinato. Peraltro bisognava fare in fretta
giacché era imminente il matrimonio con la figlia di Maria
Teresa ed era ben noto come la corte austriaca proteggesse invece la
Compagnia di Gesù. Fra le mene del Tanucci, quella
più
infame fu far indottrinare Ferdinando dal confessore di corte, il
Canonico lateranense, poi Vescovo di Benevento, Benedetto Latilla
«perché, come poi si vantava il ministro con il re
spagnolo, maggiore impressione si facesse sulla tenera vivacissima
mente» di Ferdinando «sul pericolo della vita che a
tutta
la famiglia reale poteva venire dai gesuiti». La "catechesi"
di
questo prelato (che Dio lo abbia in gloria!), come, al solito, riferiva
Tanucci a Carlo II, consisteva nell'illustrare autorevolmente la sua
tesi per cui «la corte romana [...] servendosi di essi [i
Gesuiti] contro li vescovi, contro li sovrani, contro li popoli, ha
fatto che montino in tanto orgoglio e ardire che si servano della
religione per un pretesto tendente al fine di divenire padroni delli
studi, cioè del modo di pensare dei popoli, della roba
loro col piantar la massima ai moribondi di scontar li peccati con
lasciare ai gesuiti le robe loro, chiamando sfacciatamente limosina il
dare ai gesuiti ricchi quel che per esser limosina si deve dare ai veri
poveri, che siano anche invalidi a provvedersi», ed altre
amenità del genere.
Ogni «cortesia» fu usata ai Gesuiti per metterli
fuori di
casa e accompagnarli alle frontiere del Lazio. Il fatto che la cacciata
avvenisse alla chetichella e una serie di "riforme" (la
sostituzione con altri chierici e religiosi nelle scuole, che
diventarono "pubbliche", la distribuzione delle loro terre ai
contadini) non allarmarono il popolo e misero a tacere ogni
scrupolo di Ferdinando felice sposo novello.
Quando passata la gran bufera della rivoluzione, il Re ormai stanco,
amareggiato, deluso dai suoi antichi cortigiani, vergognoso di
quell'"Età d'oro" del suo passato, volle riconciliarsi con
la
sua coscienza, fu il primo fra tutti i sovrani a richiamare in patria i
suoi antichi maestri Gesuiti. Era il 1804. Forse troppo tardi:
Napoleone già stava alle porte.
GUIDA ALLA LETTURA / 3.
Vi sono molte storie del Regno di Napoli e delle Due Sicilie al tempo
di Ferdinando IV e la maggior parte di esse scritte da oppositori: si
può capire quindi, a parte le menzogne e i falsi, quanto
costoro
siano attendibili nei giudizi. Qualcuna ne esiste anche di autori
lealisti ma anche queste peccano spesso di un forsennato spirito
reazionario che fa perdere di vista la realtà. Queste ultime
sono comunque utili per controbilanciare le prime.
È piuttosto utile, invece, per inquadrare l'Illuminismo,
leggere
RINO CAMILLERI, I mostri della Ragione, Milano, 1993, ed EMANUELE SAMEK
LODOVICI, Metamorfosi della Gnosi, Ares, Milano, 1991.
Un ritratto delle corti ancora cattoliche e dell 'idea di
sovranità che vi sussisteva è dato da
MARIA TERESA D'AUSTRIA, Consigli matrimoniali alle figlie sovrane,
Passigli, Firenze, 1989.
Una buona bibliografia sugli affari giurisdizionalisti, sull
'espulsione dei Gesuiti e sull'Illuminismo, oltre ai carteggi fra
Tanucci e Carlo III, in
FRANCESCO RENDA, L'espulsione dei Gesuiti dalle Due Sicilie, Sellerio,
Palermo, 1993.
Per la sedicenne Maria Carolina discendere dall’"Austria
felix"
alla felicissima Napoli fu come passare da un monastero di clausura ad
un ballo mascherato. Come tutto, a cominciare dalla reggia, nel suo
paese era sobrio, solenne, misurato, così a Napoli,
a
cominciare dalla natura, era fastoso, leggiadro, esagerato. Lo sposo,
il diciassettenne Ferdinando era tenero e allegro e la corte faceva di
tutto per procurare agli sposini ogni letizia. Il rigido
"cerimoniale spagnolo" di Schönbrunn, i rigidissimi
orari
dell'Imperatrice madre, restarono solo un ricordo uggioso da
cancellare fra feste, ricevimenti, colazioni sull'erba e giochi con le
dame e i cavalieri fra i boschetti e le cascate di Caserta, a
Capodimonte, a Portici, nei "siti reali", nei teatri dove si esibiva la
massima fioritura di musicisti e di cantanti d'Europa.
Il popolo di Napoli, poi, come ancora adesso, sapeva farsi amare: una
divertente emozione, per quella figlia del Nord, ogni uscita in
carrozza per la capitale, fra la folla che, come si scioglieva in brodo
di giuggiole per il suo reuccio, ora andava in visibilio per quella
coppia di giovanissimi sposi sempre pronti a ricambiare gli applausi
dei sudditi con feste a mare, luminarie, regalie e indulti,
distribuzione di cibi, concerti a Piedigrotta, fuochi artificiali.
Una beata incoscienza che, se si vuole, è cosa normale,
anche per una Regina quando, tutto sommato, è
ancora una
bambina. Ferdinando, felice e innamorato, non tralasciava comunque i
doveri di stato. Le nubi dell'anima si erano dissolte nella
soddisfazione di vedere la «sua grande famiglia»,
come glie
la suggerivano i cortigiani, crescere felice e prospera, il
paese
pacifico e sicuro, l'economia sempre in salita e la fama del Regno
crescere in ogni dove attirando da tutt'Europa il fior fiore degli
artisti, dei
letterati, dei musicisti, dei divi del teatro, dei ricchi imprenditori,
dei banchieri, dei giramondo, degli intellettuali. Nonostante
l'età, "Padre della Patria" si sentiva davvero, come
dimostrava
quel famoso editto del 1769 in cui tracciava un vasto
programma di
riforme tutte imperniate sull'educazione del popolo e sulla sua
elevazione morale e materiale.
Ferdinando era sicuramente in buona fede né si accorgeva di
quanto, nella corte, si brigasse per renderlo docile strumento, dopo
esserlo stato di Tanucci, della consorteria di intellettuali che, a
Napoli come a Parigi, oltre che in ogni altro stato, brigava
per
mandare ad opera un disegno di potere che andava, in nome
della
Ragione, oltre ogni ragionevole speranza umana. Tanucci, del
resto, aveva ancora potere e riuscì a tenerlo saldo
anche
quando Carolina, partorito il primo figlio, Carlo Tito,
entrò di
diritto a far parte del Consiglio di Stato. La fissazione del
giurisdizionalismo, al vecchio uomo di stato, non era mai passata: pur
essendo ormai riuscito a tenere nel pugno i sovrani di due dei
più grandi regni del Mediterraneo, gli sembrava di
non
essere riuscito a rifinire il suo capolavoro fin quando non avesse
eliminato ogni antico diritto e privilegio della Chiesa sul
reame.
Inquisizione, tribunali ecclesiastici, esenzioni fiscali del clero,
nulla che, dopo l'espulsione dei Gesuiti, odorasse ancora di papismo
poteva rimanere in santa pace. L'ultimo atto, mentre nasceva il
principino, fu l'abolizione della Chinea, nel 1775. Ma, tanto a
Ferdinando che alla Regina, la cosa non andò giù
e,
così come brigava intanto la diplomazia asburgica,
l'anno
dopo quel laico Savonarola fu definitivamente giubilato.
Ferdinando, giovane padre orgoglioso, ormai emancipato dal baliatico
del padre e dall'invadenza di quel vecchio gufo del Tanucci,
innamorato come non mai, era fiero di quella moglie che,
così pazzerella pure, in fatto di tener testa a
cortigiani
e consiglieri, mostrava già tutta la stoffa della genitrice.
Ormai, pensava, la nascita dell'erede al trono avrebbe calmato
ogni suo bollore. Napoli era sempre più in festa, la corte
sempre più giovane e senza malumori. L'anno dopo, 1777,
riprendeva la cerimonia della Chinea. Anche con la sua coscienza e con
il Papa sembrava ormai tutto essersi calmato. Non sapeva quel
venticinquenne atletico sovrano che dalla
padella del toscano, il Regno cadeva nella brace degli inglesi.
La Massoneria napoletana
C'è qualcosa di diverso nell'anima dei meridionali. Tanto
misterioso da essere oggetto di romanzi, di poesie, di teatro, di
canzoni. Tanto affascinante da attrarre per millenni popoli
d'ogni
razza, lingua e religione fino a fondarvi un regno e a
diventar
nazione. Mistero tanto complesso da aver creato su questo paese, quando
infine fu ridotto a provincia depressa di uno staterello
tronfio e
pettoruto, (caso unico nel mondo nelle scienze politiche) una
«questione meridionale» che dura irrisolta ormai da
centoquarant'anni, migliaia di volumi e un'intera schiera di
serissimi accademici e studiosi: i
«meridionalisti».
Come l'illuminismo meridionale si sciolse al sole quando il popolo si
accorse che, con i signori ormai non ci si capiva più, e i
giacobini furono cacciati da Napoli a suon di "pernacchi" (anche questa
"volgarità" cosa troppo seria per essere capita da chi non
è meridionale), così la Massoneria nel Regno,
nata
tenebrosa, si dipinse dei colori del Sud. Se, come dicono
molti,
finanche Maria Carolina fu ammessa in una loggia ad onta della
rigidissima misoginia che ancor'oggi distingue i "fratelli muratori",
beh, questo la dice lunga su come le cose, a Napoli, sarebbero finite.
Nata nel 1717, la «libera società dei
framassoni» si
era presto diffusa, sull'onda del "libero pensiero", per tutta
Europa. Prima ad accorgersi della pericolosità di questi
allucinati che, anzitutto, si dichiaravano credenti, fu, come al
solito, la Chiesa che, già nel 1738, li bollò di
scomunica. Carlo di Borbone, che allora era cattolico devoto,
si
affrettò, con un editto a dichiararli fuorilegge e
ancora,
nel 1751, quando d'essere ancora cattolico voleva provarlo a
tutti
i costi, dopo un'altra enciclica del Papa, dettò da Madrid
un
altro editto al Tanucci il quale, ancora nel 1775, fece pressioni su
Ferdinando perché il bando ai massoni fosse rinnovato.
A Ferdinando, da buon napoletano, le cose sembravano da prender molto
meno seriamente e, forse, cominciava a chiedersi se suo padre e il suo
ministro non soffrissero un po' di paranoia di fronte a chiunque,
Gesuiti o frati muratori, sembrasse cospirare contro lo stato. Per quel
che gli riguardava, si trattava di una «stravaganza
intellettuale» né più né
meno come le
pastorellate della corte di Versailles. A parte la sposina, del resto,
si trattava di bandire dal regno tutta la corte a cominciare
dai
ministri, i nobili, i figli di papà perché ormai
la moda
era dilagata e la "Napoli bene" andava alle riunioni segrete
come
al teatro e come al caffè. Era «segreto di
Pulcinella» il fatto che, da qualche parte, anche a Palazzo,
si
tenessero i riti con i drappi a lutto, i candelieri, i
compassi e
i grembiulini. Un "caporuota" troppo zelante aveva fatto irruzione, con
i suoi sbirri, nel pieno di una riunione ed aveva arrestato un bel po'
di rampolli di gente altolocata. Tutto fu messo a tacere, i "fratelli"
rimandati da papà, e il poliziotto finì in
qualche
gendarmeria dimenticata.
Ma se a Napoli la Massoneria (che si dichiarava addirittura
«cattolica e monarchica», tanto che vi erano molti
i frati,
i canonici e i preti squinternati) non riuscì mai ad essere
presa troppo seriamente se non dai pochi "intellettuali" che
ci
fecero carriera, a Londra dov'era nata, sul modello delle
antiche
corporazioni dei tagliatori di pietra, assunse un'importanza
straordinaria giacché vi confluirono tutte le idee
misteriche e gnostiche che l'illuminismo aveva rispolverato dalle
antiche religioni e tutte quelle che il "libero pensiero", in
un'orgia di elucubrazioni, andava partorendo da chiunque, nel
mettersi a pensare (come aveva indicato Cartesio), volesse affermare di
esistere anche lui. E poiché, a differenza dei
napoletani,
gli inglesi le cose le prendono molto seriamente, insieme ai
"mistici" e ai visionari d'ogni categoria, vi trovarono posto
"scienziati", cabalisti, indovini, agnostici e apostati d'ogni
religione che, nella fede in un "grande architetto" d'ogni
cosa
creata ed in rituali buoni per ogni fantasia, potevano dire di aver
trovato finalmente una "super religione".
Ferdinando, Carolina e tutti i pittoreschi framassoni
napoletani
di quel tempo erano ben lontani dal pensare che, quello che sembrava un
gioco di società, sarebbe diventato il più
grande complotto mai ordito. Un piano diabolico che, solo un
secolo più tardi, sarebbe stato capace di cancellare il
reame
più bello del mondo per farne semplicemente "le Provincie
napoletane" del Regno d'Italia e tutt'al più "il
Mezzogiorno" ,
eterno minorenne soggetto di tutela, di riprovazione e, al meglio, di
studio sotto l'implacabile lente dei sociologi.
Napoli fra Vienna e Parigi
Maria Carolina, messo fuori causa il Tanucci, diede alla corte
e
al Consiglio di Stato quella sterzata che la madre si aspettava e, in
poco tempo, allineò il Regno sulla politica dell'Austria.
Nel
1779, plasmato il Consiglio secondo il suo volere, vi nominò
Primo ministro John Acton, uno straordinario ufficiale di marina che
aveva bruciato le tappe della sua carriera. Acton aveva
quarantadue anni, Ferdinando ventotto, Carolina ventisette: era il
più giovane terzetto che avesse mai governato un regno.
John Acton, di famiglia inglese, era nato in Francia e in Francia s'era
arruolato in quella marina dalla quale era passato a quella toscana per
finire in quella napoletana. Solo un anno a bordo e poi, a corte, era
riuscito a incantare la Regina che l'aveva voluto Segretario di Stato
facendogli affidare dal marito, man mano, la Marina, la Guerra, la
politica estera e infine tutte le forze militari. Ferdinando era al
settimo cielo, una moglie affascinante, vivace e capace di essere al
suo fianco in ogni circostanza. Per un giovanotto che già a
otto
anni era rimasto solo come un orfanello, quella donna rappresentava
tutto il suo mondo. Il padre dalla Spagna, privo del suo fido Tanucci,
non aveva più potere sul figlio che ormai seguiva la via che
gli
pareva.
Almeno questo credeva: ormai il destino del Regno si decideva
a
Vienna. Dall'Austria si dispiegava l'influenza culturale che, complice
il mondo artistico di cui possedeva i migliori talenti, aveva
facile gioco sugli orientamenti napoletani. La Francia restava sempre
la patria dei "maïtreápensée" ma la
dialettica
dissacrante dei parigini si stemperava nel più ponderato e
austero discettare dei pedagoghi della corte imperiale. Una miscela di
talenti e d'ingegno, d'estro e d'assennatezza che fece di Napoli la
capitale d'Europa dell'intelligenza. Il napoletano diventava lingua da
salotto non solo nel Regno ma ovunque nel resto d'Italia, e non
raramente fuori, si volesse dare un tono alla conversazione. L'Abate
Galiani aveva lavorato sodo per mettere su carta regole, stile
e
vocabolario da contrapporre al toscano che stentava a
diventare
lingua esemplare. La parentela con gli AsburgoLorena del Granducato,
con quelli imperiali della Lombardia e con quelli di Parma e Piacenza
già
faceva vagheggiare a qualche sognatore un grande stato italiano retto
dalla dinastia napoletana. Oltre alla fama di splendore, arte e
cultura, e la più grande capitale italiana, il Regno aveva,
comunque, mezzi più di chiunque altro anche, se occorreva,
per
usare la forza delle armi. Oltre a un buon esercito e al denaro per
assoldare truppe all'occorrenza, su tutta la costa tirrenica stavano
vigili i suoi Stati dei Presidi con piazzeforti a Porto Santo Stefano,
a Talamone, Piombino, Porto Longone. Del resto, sul grande stemma dei
Borbone di Napoli, a ricordare quanto grandi fossero le pretese,
campeggiavano sempre ammonitrici le armi d'Austria e degli
antichi
Medici di Toscana.
Il trionfo dell'Arcadia: la colonia di San Leucio
Mentre in Francia si preparavano gli anni più bui della sua
storia, la Regina Maria Antonietta, sorella minore di Maria Carolina,
allestiva nel Trianon le sue bucoliche rappresentazioni. La
moda
di vezzeggiare, anche nell'abbigliamento, come improbabili
pastorelle perennemente in idillio con improbabili pastori, veniva
dritta dritta dal ghiribizzo illuminista del "buon selvaggio". La tesi
era scontata: era stata la società a fare dell'uomo quel
malvagio che aveva corrotto il mondo col potere. L'uomo,
dicevano
i philosophes, "allo stato di natura" era candido e buono, incapace di
alcun male. La dimostrazione veniva da remote isole felici dove
però ancora nessuno aveva incontrato il "buon
selvaggio" se
non nella fantasia di qualche narratore, di qualche antropologo
millantatore e nei racconti in osteria di qualche marinaio
che,
nei mari del Sud (dove, in genere, si praticava il
cannibalismo
fra tribù e tribù), di buono ci aveva
trovato solo
le selvagge. Su queste favole, rinomati filosofi teorizzavano
una
nuova società, simile a quella di un'"Età
dell'oro" che
doveva esser quando satiri e ninfe folleggiavano nei boschi, i pastori
eran tutti filosofi e le donne vaghe eterne pulzelle pronte a deliziare
a turno i loro riposi su giacigli di fiori. Niente chiese né
papi né re né leggi né morali a
mettere ipoteche
su questo paradiso dove, dall'alto del suo Olimpo, a protegger la pace
se ne stava, insieme a un dio immoto, la dea Ragione.
Anche a Napoli, col sole, il mare, i boschi e
l’“aria
doce", lo spirito d'Arcadia era sovrano. Né al popolo
napoletano
c'era da insegnare niente su come prender la vita con
filosofia,
convinto, appunto, che, in fondo in fondo, tutti erano buoni e
che
se qualcosa manca, Dio provvede. E che Dio provvedesse, la
dimostrazione era data dalla prosperità del Regno e dalla
pace
sociale giacché, come sono concordi a testimoniare gli
storici,
mai s'era vista una nazione dove tanta concordia regnasse fra popolo,
intellettuali, nobili e sovrano. A Napoli sembravano essersi
avverate tutte le utopie illuministe stemperate in quel misterioso
spirito dei meridionali che poi, forse, tanto misterioso non
è
giacché nessuno, né Re né pensatori
avevano mai
osato scambiare per un'olimpica virtù l'eredità
millenaria della propria religione. Era questa, la fede, a
sostenere lo slancio della ragione e a non permettere, come successe in
Francia, che l'orgoglio luciferino potesse distruggere in meno d'un
decennio, con le mani degli stessi francesi, quel che di
civiltà era stato costruito in oltre un millennio.
Mentre al di là del mare e delle Alpi si addensava la
tempesta, a Napoli tutto si placava. Dal tempo del gabinetto
Acton
i rapporti con Roma si erano rasserenati ad anche il tributo
della
Chinea, dopo Tanucci, era stato offerto ogni anno, simbolo di
sottomissione che valeva più di ogni trattato e concordato.
Ferdinando entrava nella maturità e non trovava
più il
gusto di un tempo a trattare gli affari di stato. Carlo Tito, l'erede,
era morto portandosi via quel nome Carlo, quasi a significare una
irrimediabile rottura col padre, e quell'altro, Tito, quasi a frustrare
le ambizioni di gloria imperitura. Maria Carolina era
così
distante, impegnata in quel ruolo di instancabile regina al
quale,
del resto, fin da bambina era stata educata: nonostante i
sedici
figli che, come la madre, riuscì a partorire, era un turbine
senza tregua che coinvolgeva cortigiani, uomini di stato e
intellettuali che lei sapeva adulare, blandire, ma soprattutto piegare
alla sua volontà. Ferdinando era stato educato "alla
napoletana", in mezzo a quella famiglia ritirata, colmato
d'affetto e di pii sentimenti. Neanche il suo passatempo preferito, la
caccia, lo attraeva più.
Difatti, nella sua tenuta preferita, la vaccheria di San Leucio, vicino
Caserta, Ferdinando tornava sempre più spesso e non per
inseguire daini e cinghiali ma per starsene un po' in pace coi
guardiacaccia e le loro famiglie. Proprio lì, nel casino di
caccia, durante un soggiorno invernale della famiglia reale, era morto
il piccolo Carlo Tito e il mondo si era come fermato per mettergli
dentro quella malinconia che non lo abbandonerà mai
e che
lo allontanerà sempre più dalla vita di corte.
L'affetto
sincero di quelle famiglie semplici, la modestia di quelle donne,
l'allegria di quei bambini lo ripagavano di una vita
tumultuosa ed
effimera che, in fondo non aveva mai amato e che, ora, capiva quanto
fosse vana. Cominciava da lì, per Ferdinando, la vera stima
per
il popolo e quell'affetto sincero che fu vicendevole fino ad
immedesimarlo, anche agli occhi dei posteri, quasi con i più
umili dei suoi sudditi, soprattutto quando si trovò
smaccatamente tradito da nobili e intellettuali.
«Non essendo certamente l'ultimo dei miei desideri quello di
ritrovare un luogo ameno e separato dal rumore della corte, in cui
avessi potuto impiegare con profitto quelle poche ore di ozio che mi
concedono di volta in volta le cure più serie del mio Stato
[...] pensai dunque, nella villa medesima, di scegliere un
luogo
più separato, che fosse quasi un romitorio, e
trovai il
più opportuno essere il sito di San Leucio».
Così
scriveva il Re, alla fine di quel ventennio "dorato", nel prologo
dell'Origine della popolazione di S. Leucio e suoi progressi fino al
giorno d'oggi, colle leggi corrispondenti al buon governo di essa, lo
statuto di quella "colonia" di setaioli che suscitò scalpore
e
lodi in tutt'Europa consacrando Ferdinando IV di Borbone il
più
illuminato dei re.
Tutt'oggi sull'"esperimento" di San Leucio ci si accapiglia per
decidere se si trattasse di un parto felice dell'illuminismo, di
paternalismo regale, d'un falansterio d'ispirazione massonica,
di
un'anticipazione del socialismo reale, di comunismo utopico.
Nessuno può ammettere che la colonia di San Leucio
non
debba essere la realizzazione del «Novus Ordo»
partorito
dalla Ragione invece che la massima espressione della cultura di un
popolo capace, come aveva sempre fatto per millenni, di assorbire tutto
quel che arrivava
da fuori e plasmarlo secondo il suo spirito. Anche allora, del resto,
ogni corrente intellettuale attribuiva ai propri "lumi" quella
creazione che anche, in seguito, i più feroci
oppositori
del Ferdinando "reazionario", come il Colletta, non poterono far a meno
di definire «vera gloria del Re, documento del secolo e
impulso
non leggiero alle opinioni civili».
Cominciata con le diciassette famiglie dei suoi guardiacaccia e
continuata con una popolazione iniziale di duecentodieci anime,
vissuta, ormai nelle dimensioni di un paesotto, con le sue leggi e le
sue consuetudini, fino all'occupazione piemontese e all'annessione del
Regno d'Italia (che, naturalmente, s'incamerò subito i beni
comuni degli abitanti) ma tutt'oggi viva nelle tradizioni, nel
mestiere, nell'arte e nel folclore, la «Reale colonia di San
Leucio» fu l'unica comunità civile "utopica"
(oltre le
reducciónes gesuitiche del Guarany) pienamente attuata e
liberamente vissuta.
La città ideale, perfetta realizzazione della
società
dell'"uomo nuovo" era uno dei temi preferiti dai philosophes.
Centinaia erano le pubblicazioni che progettavano, fin nei minimi
dettagli, come avrebbe dovuto svolgersi la vita della
città
perfetta, e ciò, senza quella profondissima ironia dello
scetticismo cristiano di Tommaso Moro o del misticismo della
Città del sole del meridionalissimo Fra' Tommaso Campanella.
Molti furono anche i tentativi di pochi fanatici presuntuosi: nessuno
mai fu portato a compimento.
Ferdinando, anche se ne aveva abbozzato l'idea fornendo agli abitanti
di San Leucio una parrocchia, una scuola e i primi attrezzi
per la
tessitura della seta, naturalmente non fu solo nella
progettazione
e nell'attuazione.
Mentre già si profilava, in Francia, la tenebrosa catarsi di
quella stagione di anarchia del pensiero, molti furono gli
intellettuali che cominciarono a dissociarsi dalle idee
correnti e
a far ammenda dei loro primitivi entusiasmi. Di loro non
c'è arrivato quasi niente perché, allora
come
adesso, l'egemonia della cultura era ben salda nelle mani dei
discepoli dei "lumi" e le rare opere di chi aveva conservato o
recuperato un po' della saggezza antica sono state confinate
nell'ambito dei pamphlet retrivi, reazionari o clericali.
Eppure, furono molti gli uomini di pensiero che cominciarono a
disertare i salotti dove ormai si teorizzava la rivoluzione, a
mettersi "in sonno" nella massoneria che da congrega teista e
filantropica andava svelando agli iniziati le mire sinarchiche che
stavano alla sua radice.
«Nessun uomo, nessuna famiglia, nessuna Città,
nessun
Regno può sussistere e prosperare senza il timor
santo di
Dio. Dunque, la principal cosa ch'io impongo a voi è
l'esatta
osservanza della sua santissima Legge». Con questa
professione di
fede del Re inizia il preambolo al codice delle leggi di San Leucio
che, anzitutto, detta le norme per la santificazione dell'intera
giornata: Santa Messa ogni mattina prima del lavoro, adorazione del
Santissimo Sacramento la sera prima di tornare a casa,
frequenza
ai sacramenti soprattutto nei giorni di festa. Nel testo, che
fu
steso da un collaboratore di fiducia, un coltissimo pensatore che volle
sempre restare nell'anonimato, appare una profonda devozione religiosa
che non può, in nessun caso, essere attribuita a nessun tipo
di
teosofia ma che si fonda senza incertezze su una schietta preparazione
dottrinale, quella stessa che Ferdinando giovinetto doveva
aver
avuto da Padre Cardel.
Del resto, mentre ogni studioso ha voluto tentare paragoni con le idee
del tempo stiracchiando il testo dello statuto verso
l'umanitarismo e verso il giusnaturalismo, l'unico
accostamento
che si può fare è proprio quello con le
reducciónes gesuitiche. Infatti, cardine del
sistema
leuciano, enunciato da una serie di «Doveri
negativi»
e «Doveri positivi» della morale comune, e da
«Doveri
generali» e «Doveri
particolari», legislazione
vera e propria della comunità, è la
«perfetta
eguaglianza» in cui «il Savio, il Ricco,
l'Agricoltore,
l'Artista, quando impiegano i loro talenti, le loro ricchezze,
le
loro fatiche a pro' dei cittadini, possono ben vantarsi di essere
benefattori dell'umanità». Per questo, come
avevano
già fatto i missionari del Paraguay, nessuno deve
distinguersi dagli altri se non «per esemplarità
di
costume ed eccellenza di mestiere», e il vestire
«per
evitar la gara nel lusso» sia uguale per tutti (si tenga
presente che, a quel tempo, era normale che i popolani di ogni
paese, regione, corporazione, avessero costumi tradizionali della
stessa foggia). Lo stesso concetto di uguaglianza proibisce di farsi
chiamare col "Don" (uno spagnolismo che era ormai dilagato nel
Napoletano), distintivo riservato, come in origine,
«solo ai
sacri ministri». Fra i doveri particolari vi sono la
riverenza e l'ossequio che i cittadini devono ai sovrani e il rispetto
ai ministri che li rappresentano.
Il diritto di famiglia, pensato come abbozzo di una riforma da
estendere a tutto il regno, è fra le parti più
innovative
della legislazione. L'età degli sposi, infatti, non
può essere inferiore ai vent'anni per i maschi e ai sedici
per
le femmine, e il matrimonio sarà autorizzato dal "Direttore
dei
mestieri" per lui e dalla "Direttrice" per lei, provando che
entrambi siano «provetti nell'arte, a segno di
potersi
lucrar con sicurezza il mantenimento». Le doti sono abolite,
e il
Re stesso provvederà a fornire l'abitazione, la mobilia, la
suppellettile e gli attrezzi del mestiere, due telai per la tessitura
della seta, e tutto ciò che possa occorrere in casa.
Comunque,
pur avvertiti, «acciò vada tutto con decenza [...]
nella
scelta non si mischino punto i genitori, ma sia libera dei
giovini».
La cerimonia del fidanzamento ci trasporta in piena Arcadia:
«Nel
giorno di Pentecoste, nella Messa solenne in cui interverranno tutti
gli abitanti del luogo e le fanciulle e i giovini esteri che
travagliano nelle manifatture, da due fanciullini dell'uno e
dell'altro sesso si porteranno all'altare, per benedirsi da
chi
celebra, due canestri pieni di mazzetti di rose, bianche per gli uomini
e di color naturale per le donne. E nel terminar questa funzione, da
ciascuno individuo se ne prenderà uno, come le palme.
Nell'uscir
poi dalla chiesa, i pretendenti, nell'atrio di essa dov'è il
battisterio, presenteranno il lor mazzetto alla ragazza pretesa: e
questa, accettandolo, lo contraccambierà col suo,
ma
escludendolo, con polizia e buona maniera, glielo
restituirà. E né all'uno né all'altra
sarà
permessa contestazione alcuna: e perciò, i primi ad
uscir
di chiesa saranno i Seniori del Popolo per imporre loro la dovuta
soggezione. Coloro che contraccambiato si saranno il mazzetto,
lo
porteranno in petto sino alla sera quando, dopo la Santa Benedizione,
accompagnati dai rispettivi genitori, si porteranno dal
parroco
che registrerà i nomi e la parola».
Le leggi di San Leucio, «essendo lo scopo di questa
società che tutti rimangan nel luogo», sono
alquanto
severe per quel che riguarda i matrimoni "extracomunitari":
alle
fanciulle che vogliono maritarsi fuori dalla colonia viene consegnata
una dote di cinquanta ducati «senza speranza di mai
più
potervi tornare», al giovane che vuol prendere una moglie di
fuori, gli è permesso a condizione che prima costei impari
il
mestiere, in caso contrario anch'egli dovrà
lasciare per
sempre la comunità. Altrettanto rigore viene usato con i
bighelloni che, se compiuti i sedici anni, non mostran voglia di
lavorare, saranno mandati in casa di rieducazione
finché
non ritornino ben istruiti. Seguono consigli e ammonizioni sui
doveri dei coniugi e dei genitori esortati ad educare la prole
nei
doveri e nelle virtù ma, soprattutto, nella religione:
«Questo è di tutti i doveri l'articolo
più
importante: e perché scorgo che da esso deriva non solo la
pace
e il benessere delle famiglie ma benanche la prosperità la
felicità dello Stato».
L'istruzione, «per divenir uomo dabbene ed ottimo
cittadino», è obbligatoria per tutti, dai
sei anni, e
comprende, oltre le nozioni elementari, la formazione
professionale con macchine moderne, abili istruttori, corsi di
aggiornamento. Il lavoro sarà pagato in relazione alla
perizia,
fino al massimo «che godesi da' migliori artisti
nazionali e
forestieri». E se il talento personale andrà
ancora
oltre, gli artigiani più meritevoli saranno
premiati con
segni di distinzione, medaglie d'argento e d'oro da portarsi
in
petto, e il privilegio di sedere in chiesa al "banco del Merito" a
sinistra dell'altare, di fronte a quello dei "Seniori". I testamenti
sono aboliti: «la sola giustizia naturale e la
natural
equità sia la face e la guida di tutte le vostre
operazioni», raccomanda il sovrano. Unica successione resta
quella di primo grado: figli e figlie hanno parti uguali, la vedova, se
mancano figli, gode dell'usufrutto. In mancanza d'eredi, i beni del
defunto vengono devoluti ad un "Monte degli orfani" dalla cui
cassa saranno mantenuti coloro che non sono ancora in grado di
sostenersi col lavoro, e a cui il Re aggiungerà del
suo
quello che manca.
L'esortazione alla concordia familiare, a quella tra fratelli, figli e
genitori, si estende ai maestri, ai benefattori, agli anziani:
«l'amore è l'anima di questa
società».
Società tradizionale, e quindi patriarcale, eppure
democrazia estesa dove, dai capi famiglia, nella
festa di San Leucio, vengono scelti «cinque dei
più savi,
giusti, intesi e prudenti» che, col nome di
"Pacieri" o
"Seniori del Popolo", insieme al parroco, governano la
comunità.
Essi provvederanno all'annona, all'esercizio dei commerci, al calmiere
dei prezzi, all'ordine e alla moralità pubblica,
all'assiduità e all'esattezza del lavoro, all'igiene, alla
sanità, con la visita giornaliera dei malati che saranno
«assistiti tanto nello spirituale che nel temporale con la
massima esattezza e scrupolosità». San Leucio,
difatti,
vanta realizzazioni d'avanguardia: una "Casa degli infermi"
per i
malati contagiosi sia cronici che acuti, «separata
totalmente dall'altre, in luogo di aria buona e ventilata»,
dove,
due volte l'anno, viene praticata a tutti i bambini la vaccinazione
antivaiolosa. Anche ai bisogni di quest'ospedale provvede il Re di
tasca sua. Ma il "welfare state" va ancora più in
là: una
"Cassa della carità", sovvenzionata da una tassa
proporzionale al reddito degli abitanti e da libere offerte,
provvede ad ogni bisogno degli sventurati, dal sussidio in
denaro
fino alle esequie e ai suffragi religiosi. Gli evasori fiscali, i
«contumaci», additati dapprima al pubblico
disprezzo,
non avranno mai più, se recidivi, diritto a nessuna forma di
assitenza, neanche alle esequie ed ai suffragi.
"Dalla culla alla tomba", la colonia di San Leucio provvede ai suoi
abitanti senza mai dimenticare il fondamento dell'uguaglianza.
Le
onoranze funebri perciò, gratuite, saranno
«semplici,
divote, senza distinzione», di chiunque si tratti. Ma la
comunità, quando si tratti di un Seniore,
onorerà il
defunto con la presenza di tutti i capi famiglia che, portando
ceri per riconoscenza, lo accompagneranno all'estrema dimora.
E lo
stesso faranno gli allievi per i Direttori e per le Direttrici. Ma
l'ottimismo cristiano impedisce che il dolore turbi oltre
misura
la serena convivenza dei leuciani: «Non vi siano lutti, e
solo
nelle morti de' genitori e degli sposi, per gli ultimi uffizi dovuti ai
medesimi, sia permesso alla tenerezza dei figli, delle mogli e de'
mariti un segno di duolo di un velo al braccio per l'uomo e di un
fazzoletto nero al collo per la donna, per due mesi soli al
più». Quando un abile artigiano muore,
è un altro
leuciano, di preferenza, a prendere il suo posto, ma gli
sarà
pagata solo una parte del salario del defunto: la metà o un
terzo, a
seconda che ella abbia o no figli che la sostengano, andrà
alla
vedova finché rimanga in vita.
Sulla comunità incombe rassicurante la figura paterna del Re
che
premia, soccorre ma vigila perché la legge sia applicata con
intransigenza. Ogni grave trasgressione è punita
senza
appello e ne fanno le spese anche i congiunti. Sono delitti gravi
quelli contro il buon costume, che comportano l'espulsione dalla
colonia, quelli contro la regola del vestire, che privano per sempre il
colpevole dell'abito, dei proventi e degli altri benefici. Alla
giustizia ordinaria, dopo essere stato spogliato dell'abito
del
luogo, viene consegnato chi si macchia di reati comuni penali
o
civili. Al codice vero e proprio è annesso, poi, col titolo
«Doveri verso Dio, verso sé e verso gli altri,
verso il
Re, verso lo Stato», un vero e proprio "catechismo"
«per uso delle scuole normali di S. Leucio»
formulato
secondo la prassi post tridentina delle domande e delle
risposte.
Sebbene finalizzata alla vita della comunità, la
catechesi,
impartita con estrema chiarezza e facilità, non si discosta
minimamente dalla dottrina cattolica: peccato, grazia,
redenzione,
salvezza sono espressi in maniera assolutamente ortodossa e
teologicamente corretta. Del Dio di Gesù Cristo, a
differenza
della "deità" razionalista o del "grande architetto"
teosofico,
si enunciano tutte le peculiarità cattoliche:
unità e
trinità, creatività dal nulla, provvidenza,
giustizia,
misericordia.
Come ha esordito invitando all'osservanza della legge divina,
così, sviluppandone i precetti, si chiude la legislazione
della
colonia di San Leucio che contiene, inoltre, due graziosi
inni,
uno per il mattino, l'altro per la sera, composti in stile
metastasiano, con intercessioni per «la pietosa
Carolina e
la Regia amabil Prole», per «i nostri amorosi
Genitori, i
Parenti, i patri Lari, i Maestri, i Direttori».
Un minuzioso orario per tutti i mesi dell'anno fa da appendice
e
chiude il volumetto. Si noti, a questo proposito, che il tempo
assegnato al lavoro, secondo quella che era la normale giornata di
fatica del popolo di quel tempo, è, in media, e a secondo
della
lunghezza della giornata nella stagione, di undici ore al
giorno.
Nelle manifatture inglesi, nella stessa epoca, si praticavano turni di
lavoro
dalle quattordici alle diciotto ore per gli adulti, alle sedici ore per
i ragazzi fra i dodici e i quattordici anni. Il lavoro maschile e
quello femminile, a San Leucio, erano perfettamente uguali e Ferdinando
rifiuterà di abrogare questa norma quando, nel 1804, il
direttore generale della filanda gli farà notare
gli alti
costi delle manifatture dovuti alla parità di trattamento.
Il successo dello statuto e la fama della colonia di San
Leucio
(che oltretutto produceva sete preziosissime esportate
dovunque),
furono immediati: una vera apoteosi accolse la legislazione nel Regno e
all'estero dove l'opera del Re, stampata, oltre che in italiano, latino
e greco, anche in tedesco e francese, venne immediatamente
chiosata, commentata, paragonata a quelle dei più celebri
filosofi e legislatori dell'antichità. A Napoli non vi fu,
in
pratica, persona colta, che non scrivesse e pubblicasse le proprie
considerazioni e le proprie lodi, non sempre dettate solo da
cortigianeria, per quel testo e quell'opera che anche i futuri
oppositori di Ferdinando IV di Borbone non poterono omettere di
esaltare. La piccola comunità di setaioli ispirava
anche i
musicisti: in suo onore il Paisiello componeva la Nina pazza per amore.
Una portoghesina dalla vita molto chiacchierata, una tale Eleonora
Fonseca Pimentel che era riuscita ad imbucarsi a corte dove assillava
la Regina e le dame con i suoi panegirici in poesia, aveva composto
delle rime d'occasione: Ferdinando vi scendeva dalle nubi come
«novello Numa».
Naturalmente, come abbiamo visto, ognuno la piegò al suo
vento e
così, intorno alla piccola comunità si
concentrarono gli
sforzi di tutti gli intellettuali. Si chiedeva a gran voce che le leggi
leuciane venissero estese a tutto il Regno e che la stessa architettura
delle sue case e dei suoi stabilimenti, progettati dal Collecini,
potessero essere il centro di una "Ferdinandopoli", una
città fantastica e ideale che, a partire dal nucleo di San
Leucio, si estendesse, secondo uno smisurato progetto
urbanistico,
a tutta la Campania. Anche questo era nella moda della cultura
europea ed anche in questo campo, Napoli segnò il primato
del
suo pensiero.
Una notte lunga dieci anni
Ferdinando però non si faceva abbagliare più
dalla
«gaia scienza» dei suoi contemporanei. Ancor
più
introverso, frustrato dalla moglie (che, come malignano i
detrattori, certamente con quell'inglese se la intendeva), cominciava a
diventare sempre più sospettoso. Ne aveva buone ragioni: era
il
1789 quando la Stamperia reale pubblicava la sua legislazione,
lo
stesso anno in cui, a Parigi, veniva assaltata la Bastiglia.
A Napoli, insieme agli intellettuali, agli artisti, ai letterati, agli
scienziati di mezzo mondo, s'era concentrata la più
variegata
congerie di utopisti, sobillatori, teorici della rivoluzione. I
diplomatici erano sul chi vive per quel che si muoveva in
Francia,
la polizia era in allarme per certi tipi sospetti venuti dalla Baviera,
si diceva che appartenessero a una setta detta «degli
Illuminati» e che tramassero regicidi e anarchia. A
completare la confusione ci si mettevano le grandi potenze,
Austria e Inghilterra che filavano insieme. Pronubo Lord Acton, gli
inglesi nel Regno ormai erano di casa: commerciavano, si spingevano in
tour per le Calabrie, impiantavano aziende, compravano in
Sicilia
tonnare, arance e vigne da Marsala e, favoriti dal loro
connazionale, s'erano aggiudicati tutta la produzione dello zolfo,
materia prima fondamentale soprattutto per gli esplosivi, come dire
oggi l'uranio. Nel porto e in rada le loro fregate così
possenti, pavesate a festa, facevano colore ma qualcuno già
diffidava di tanto spiegamento di cannoni.
Da questo punto la storia di Napoli, che continuava ad essere allegra e
spensierata, va letta in controluce con quel che succedeva in Francia.
Le notizie arrivavano con una settimana di ritardo e, pur confuse,
erano inquietanti, anche Maria Carolina era in trepidazione per la
sorella Maria Antonietta: da quel 14 luglio era stato un
precipitare d'eventi quasi che la convocazione degli Stati
generali avesse aperto il vaso di Pandora facendo traboccare tutti i
virus coltivati nel secolo. Sei giorni dopo cominciava la "grande
paura", i contadini si sollevavano in ogni parte del paese,
l'inflazione cominciava ad impoverire lo stato e al posto del danaro
sonante facevano la comparsa le prime banconote, gli "assegnati". Le
donne parigine erano andate a rapire la famiglia reale a Versailles, si
sequestravano
i beni del clero, poi gli si dava una costituzione civile, quindi si
costringevano i preti a giurare fedeltà alla
Costituzione.
I "refrattari", quelli che rifiutavano di disobbedire al Papa, che
protestava invano, cominciavano ad essere perseguitati.
Quello stesso anno, 1790, moriva Giuseppe II d'Austria,
fratello
di Carolina: nessuno ricordava più che era stato fra i
più accaniti avversari dei "privilegi" dei preti.
Come
Tanucci per Spagna e Napoletano. L'Austria però continuava
ad
essere "felice": Mozart, anche lui scherzando col fuoco della
massoneria, dopo il Don Giovanni, metteva in scena Il flauto
magico. Ma anche nei teatri napoletani (ce n'erano un
centinaio
fra piccoli e grandi), nei caffè, nei salotti della
nobiltà, la vita scorreva spensierata in un intrecciarsi di
frivole opinioni su quella che sembrava, vista da lontano, una
jacquerie che sarebbe finita, come saggiamente si faceva a
Napoli
da che mondo è mondo, tutta "a tarallucci e vino".
Ma a corte si tremava, specie la Regina: «La famiglia reale
è prigioniera della canaglia che non la lascia uscire dalle
Tuileries», «Luigi è fuggito verso la
Normandia ma
l'hanno arrestato a Varennes», «Il Re ha dovuto
giurare
fedeltà alla Costituzione». 1791.
1792: Giacobini, ormai non si parla che di loro. Napoli è in
fermento, anche qui si aprono i "club", si discute, si complotta, si
scrive. Gli inglesi, ormai in allarme, mentre a Londra cominciano ad
arrivare gli esuli francesi, sorvegliano Napoli e il via vai di
stranieri. La marmaglia parigina invade le Tuileries. La
Francia
dichiara guerra ad Austria e Prussia. Il 10 agosto Luigi XVI e
la
famiglia reale sono arrestati e condotti alla torre del Tempio, si dice
che siano trattati come galeotti: la monarchia è
finita ed
è rimasta solo la guerra civile, si massacrano gli
avversari, a
migliaia, anche nelle prigioni. 11 dicembre: si apre il processo al Re:
una grottesca messinscena il cui verdetto è
già
scontato. «Lo chiamano "cittadino Capeto" e lui ha
protestato:
"Il mio nome è Borbone"».
Al Tempio fanno passare sotto le finestre, sulle picche dei
rivoluzionari, le teste della migliore nobiltà, delle dame
di
corte più care han fatto orrende oscenità. Il
Delfino
è stato separato dai genitori ed affidato ad un turpe
carceriere
che gli insegna a bestemmiare contro il padre sotto la sua finestra.
21 gennaio 1793: Luigi XVI è portato al patibolo.
«Il Re
Cristianissimo ha fatto onore al suo nome: è morto
come un
santo», dice Pio VI. A SaintDenis la cappella dove riposavano
tutti i re di Francia è stata devastata, ossa e ceneri
disperse
tra i rifiuti. In Vandea il popolo, lealista e cattolico, si ribella:
comincia il primo genocidio della storia, ordinato dalla
Convenzione. Il decreto porta un nome asettico: «Progetto di
spopolamento della Vandea militare». Centocinquant'anni
più tardi un altro progetto avrà un nome
"scientifico": «Soluzione finale del problema
ebraico».
Girondini, Giacobini, Marat assassinato, tutta la nazione in armi,
mentre infuria il Terrore. Gli anni si contano dalla
Rivoluzione,
i mesi han cambiato nome, la domenica è stata abolita,
è
stato abolito Dio, a Notre Dame una ballerina ha danzato sull'altare
nei panni della Dea Ragione. Tutte le statue di santi delle cattedrali
sono state decapitate, dell'Abbazia di Cluny hanno fatto una
cava
di pietre. Anche Maria Antonietta viene portata alla ghigliottina. Il
Delfino, 10 anni, è stato lasciato morire di fame, in una
cella
angusta e buia, fra i pidocchi, i ratti e lo sterco.
Secondo gli storici più moderati, e solo per quel che
riguarda
il "Terrore", il numero delle sentenze capitali pronunciate dal
Tribunale rivoluzionario francese e dalle diverse
giurisdizioni
eccezionali si elevò a 16.594: 518 da marzo a
settembre
1793, 10.812 da ottobre 1793 a maggio 1794, 2554 in giugno e luglio, 86
in agosto. Nella sola Parigi, dal marzo 1793 al giugno 1794, furono
ghigliottinati 1251 cittadini; nel seguente mese e mezzo,
altri
1376. Non entrano in questo conto le esecuzioni senza
processo,
come a Nantes, per annegamento nella Loira (da 2000 a 3000 persone), a
Tolone, o sui campi di battaglia: dai 35.000 ai 40.000 giustiziati. Non
entrano nel conto nemmeno le vittime della forte mortalità
fra i
detenuti. In totale, fino al 1794, si stima siano state vittime del
Tribunale rivoluzionario dalle 100.000 alle 300.000 persone.
In
Vandea si contano dalle 110.000 alle 300.000 persone soppresse
solo perché vandeane.
Nel 1794, a Napoli, con un processo a 270 persone, fra nobili,
borghesi e clero, sospette di simpatie giacobine, si apriva la fase
"reazionaria" del Regno di Ferdinando IV.
Il 2 marzo 1796 un tale Bonaparte viene promosso generale in capo
dell'esercito d'Italia e nei mesi successivi conquista il
Piemonte, la Lombardia, entra nel Veneto. Il 31 dicembre fonda
la
Repubblica Cispadana e scende verso il Lazio. Il 9 luglio 1797
fonda la Repubblica Cisalpina. I FrancoCisalpini comandati dal generale
Berthier occupano Roma. Viene proclamata la Repubblica romana.
Napoleone (che meditava di relegarlo in Sardegna) fa rapire Pio VI e lo
fa deportare prima in Toscana, poi in Francia, a Valence, dove
morirà un anno più tardi.
GUIDA ALLA LETTURA / 4.
Come detto nel capitolo precedente, anche per questo periodo storico
è difficile trovare una bibliografia obiettiva sulla storia
del
Regno di Napoli.
Per la rivoluzione francese, oltre il libro di Gaxotte già
citato alla "Guida alla lettura /1 ", è utile, con cautela:
FRANÇOIS FURET, Critica della rivoluzione francese, Laterza,
RomaBari, 1995.
Inoltre, anche se i giudizi non sono sempre misurati, un 'opera
luminosa, scritta da un contemporaneo, è quella di
JOSEPH DE MAISTRE, Considerazioni sulla Francia, Ed. Riuniti, Roma,
1985.
Pieno di particolari anedottici e di piacevole lettura è:
JEANPAUL BERTAUD, La vita quotidiana in Francia al tempo della
rivoluzione, Bur Rizzoli, Milano, 1997. Un documento impressionante,
invece, commovente e molto più eloquente di tanta
"storia"
sono i diari di tre prigionieri del Tempio: JEANBAPTISTE HANET (CLERY),
MARIETHERESECHARLOTTE DI FRANCIA, EDGEWORTH DE FIRMONT, Il
prigioniero del Tempio. Detenzione, processo e morte di Luigi
XVI,
Bonacci, Roma,1993.
Sul massacro della Vandea:
REYNALD SECHER, Il genocidio vandeano, Effedieffe, Milano, 1989.
Interessante, proprio perché vista da tutt'altra
prospettiva,
è l'opera di uno dei più estremisti fra i
rivoluzionari:
GRACCHUS BABEUF, La guerra di Vandea e il Sistema di
Spopolamento, Effedieffe, Milano, 1989.
Da qualsiasi parte lo si guardi, il "1799" a Napoli è
un'epopea. Lo è per certi democratici d'oggi che,
nella
"Repubblica napoletana", vedono i semi dell'attuale
ordinamento italiano, e lo è per coloro che, nella
rivolta
spontanea del popolo che cacciò i francesi, vedono
il
riscatto di una nazione dalle farneticazioni dei "pensatori".
Sui cinque mesi della Repubblica napoletana s'è scritto
tanto
quanto non s'è fatto per tutto il resto della storia del
Sud,
sono nate leggende che neppure il buonsenso riesce a scalfire, sono
state inventate schiere di "martiri", di "carnefici" e di eroi e, quel
che è peggio, i popolani di Napoli, da allora, sono
diventati
per sempre "lazzaroni", camorristi, plebaglia, ignoranti, selvaggi
assetati di sangue. Napoli, i Borbone e il Sud tutt'intero, da quel
1799, si sono sempre portati dietro la fama di oscurantisti, retrivi,
reazionari sulla quale i "liberali" del Nord avrebbero innalzato le
ragioni per poter occupare, devastare, derubare il più
antico,
illustre, colto, bello e ricco stato italiano e annetterlo come
provincia per sempre sottosviluppata alla corona di uno
staterello
di frontiera che aveva la presunzione di diventare potenza
internazionale e che ci riuscì.
La storia del secolo successivo, fino all'annessione del 1860 e alla
disperata ma instancabile rivolta popolare contro il nuovo Stato, a cui
è stato affibbiato il marchio infamante di
"brigantaggio",
non è spiegabile, così come ce la vogliono
raccontare,
senza quel 1799 che diede alle idee già iscritte nel codice
genetico della riforma protestante e partorite fra le doglie della
rivoluzione forse il più grande smacco della loro folgorante
avanzata in Europa.
In Italia, il Regno di Napoli fu l'unico stato a non
soccombere
all'Armata francese e a liberarsi dai giacobini venuti d'oltralpe, e da
quelli (pochi) di casa sua, con le sue sole forze e, soprattutto,
grazie ad una sollevazione corale del suo popolo. Furono i
più
umili, i più poveri, senza organizzazione, con
pochissime
armi, a tener testa alla più formidabile macchina da guerra
che
fosse stata mai concepita fino a quel tempo. Alla «Nazione in
armi» si contrappose una nazione di gente scalza e affamata
che
si batteva sotto una bandiera bianca con il segno della Croce
e,
come ai tempi antichi, con il motto «In hoc signo
vinces».
Della storia di quell'epopea (vista dall'altra parte) ci
campano
ancora istituzioni sovvenzionate dallo Stato, cattedratici e
sedicenti filosofi che passano per mecenati distribuendo il
danaro
pubblico a intellettuali disoccupati. Convegni, seminari, libri a
profusione, articoli su riviste specializzate e sui giornali a
larga diffusione. Celebrazioni, feste e mostre perpetuano
l'idea
di un grande evento che un "fato crudele" volle soffocare ma che seppe
risorgere affrancando dalle catene dell'oscurantismo le genti d'Italia.
Dalla parte della storia vera, che non è guidata
né dal
fato né dal caso (il "caso", diceva uno scrittore,
è la
Provvidenza degli imbecilli), gli avvenimenti così
come si
svolsero in quel 1799 non sono arrivati a noi se non in poche
cronache estemporanee, e non perché non ci fossero
validi
scrittori per redigerle ma perché quel
«mostro
sanguinario» di Ferdinando IV, finita la bufera, per espressa
disposizione, vietò la pubblicazione di qualsiasi
opera
riguardante la Repubblica napoletana e i suoi esiti. «Il Re
avrebbe voluto stendere il velo dell'oblio su una vicenda che, seppur
vittoriosa, considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e
il cui ricordo non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori
nefasti».
La libertà secondo i francesi
L'avanzata delle armate "giacobine" in Italia aveva lo scopo di
distogliere l'attenzione del popolo francese dalla disastrosa
situazione in cui si trovata la Repubblica dopo dieci anni di
rivoluzione (la popolazione che nel 1788 era di ventotto milioni di
popolazione che nel 1788 era di ventotto milioni di abitanti, fra
l'altro, s'era quasi dimezzata) impiegando utilmente quello
sterminato «popolo in armi» allevato fra
esecuzioni,
massacri e stermini: in pratica tutta la gioventù dai 18 ai
25
anni. Il «popolo in armi» era l'eufemismo con cui
veniva
presentata la moderna "conquista" della coscrizione militare
obbligatoria.
Da allora in poi, in forza dei "sacri principi
dell'uguaglianza",
i governi potettero disporre di una sterminata massa di persone da
usare come "carne da cannone" e, poiché, in nome degli
altrettanto sacri doveri della fraternità, era in
armi,
appunto, tutta la nazione, non si fece più
distinzione fra
civili e soldati e le guerre diventarono massacri
indiscriminati.
Con l'esercito repubblicano, che presto fu comandato personalmente dal
giovane Bonaparte, si chiude l'epoca delle guerre della
Cristianità, combattute fra loro da professionisti.
Raramente, l'abbiamo visto, nelle battaglie del passato,
venivano
coinvolte le popolazioni civili e le città, prudentemente,
si
rinserravano nelle mura attendendo gli esiti dei combattimenti per
prestare omaggio (opportunisticamente ma alquanto saggiamente) al
vincitore giacché sapevano anche che, di norma, se si
trattava
dell'aggressore, costui, per ingraziarsi i nuovi sudditi, avrebbe
conservato alle comunità gli antichi privilegi. Se
si
trattava invece dell'aggredito, immunità e privilegi
sarebbero
stati accresciuti. Le città che avevano amministratori
più astuti mandavano emissari a spiare, sui campi di
battaglia,
come si mettevano le cose e, se era conveniente, si dichiaravano dalla
parte preponderante issando le insegne del probabile vincitore.
Naturalmente era anche questione di fortuna giacché non
sempre i
pronostici erano esatti. Ma se le cose andavano pel giusto
verso,
quella comunità era sicura di accaparrarsi la
fortuna. In
caso contrario, a meno di una grazia sovrana, c'era il pericolo di
ritrovarsi saccheggiati, gravati di terribili riscatti o, alla men
peggio, infeudati.
Anche in Italia, funzionò così fino a tutto il
Settecento
(le mura e le porte delle città cominciarono ad essere
abbattute
dopo l'unità d'Italia). Perciò quando si sente
dire che,
di fronte all'armata francese le popolazioni si sollevavano "bramose di
libertà", bisogna ricordarsi che, davanti a quell'invasione
di cavallette (un numero
così grande di soldati giovani a gagliardi non s'era mai
visto
prima quando i mercenari costavano cari e, in genere erano esperti
veterani, e molti ufficiali e sottufficiali si portavano
dietro
mogli e famiglia), di fronte a quei fanatici che combattevano
per
la rivoluzione e soprattutto per rifarsi della povertà (gli
era
permesso di arraffare ai vinti tutto quel che potevano), la gente si
affrettava ad arrendersi così come si arrendevano in fretta
le
scarse guarnigioni.
Il Direttorio repubblicano aveva fatto suo l'editto della
Convenzione girondina che, decidendo l'esportazione della
rivoluzione, dichiarava di accordare «fraternità e
soccorso a tutti i popoli che vorranno ottenere la loro
libertà». Le rese venivano quindi trattate, con
entusiasmo, da quelli che, dopo essersi messi sul cappello una bella
coccarda tricolore (francese: rossa, bianca e blu), già ben
indottrinati delle idee d'oltralpe, si ergevano a salvatori
della
patria, pronti a trarne benemerenze, cariche, stipendi e, naturalmente,
riconoscenza dei cittadini salvati dal pericolo
dell'invasione. Fu
così nel Piemonte già sconfitto, in Lombardia, in
Emilia
e nelle Romagne che eran Legazioni del Papa, nelle Marche e via di
seguito. Solo più tardi, ma abbastanza in fretta,
quella
gente cominciò a capire dove andava a parare quella
libertà: tasse esorbitanti per pagare le spese di guerra e
per
rinsanguare le esauste casse francesi, sottomissione spietata
alle
leggi rivoluzionarie, persecuzione del clero e dei dissidenti,
scristianizzazione, furto di tutte le opere d'arte destinate
ad
abbellire la patria dei vincitori.
Nel 1798, al Generale Cherrer, che aveva sostituito Napoleone
a
capo dell'Armata d'Italia, il Direttorio esecutivo mandava da Parigi
l'"Istruzione" che vale la pena, qui, di riportare per intero, in una
traduzione del tempo "non autorizzata":
«L'importante Commissione che vi affida la Patria, Cittadino
Generale, non tende a niente meno che a rendere per l'avvenire
la
Repubblica Francese arbitra del destino delle Nazioni
dell'Universo.
«Sin dal momento della caduta di Cartagine, previde Roma la
conquista dell'Oriente; nella totale sommessione dell'Italia sono
compresi li nuovi trionfi riservati all 'eroismo della gran Nazione
dalla forza insuperabile del destino.
«Li soldati che andate voi a comandare contano le vittorie
dal
numero delle battaglie che han date, non è permesso dubitare
per
un solo momento del felice successo delle nostre armi: continuate
intanto ad incoraggiare le truppe con tutti quei modi propri, e
condurle a de ' nuovi trionfi. Le provincie e le Città da
sottomettersi abbondano di tutto; Elleno vi offrono degli
innumerevoli mezzi per ricompensare li pericoli e le fatiche dei
soldati della Repubblica, e noi ve ne facciamo un dovere di servirvene
in nome della Patria.
«Ma non basta, che li Tedeschi siano scacciati dal suolo
italiano, è necessario trarre da quella bella parte d'Europa
tutto il possibile vantaggio, per l'ingrandimento ulteriore
della
Repubblica. «La Francia non ha bisogno di braccia forestiere
per
soggiogare li suoi nemici, ma ha ella bisogno delle ricchezze dei
popoli vinti. Li figli della gran nazione non devono occuparsi che di
fare la guerra, e di comandare, tocca alle Nazioni conquistate il
mantenerli e obbedire.
«Il Direttorio Esecutivo ha giudicato necessario fin d'ora di
tener nascosto il vastissimo oggetto che s'era proposto, e di
abbagliare le teste italiane col fantasma della Sovranità e
dell'indipendenza nazionale: quest 'idea seducente, secondata da
persone ambiziose ed avide di questo paese, ebbe tutta quella riuscita
che conveniva ai nostri interessi: sedici milioni di uomini furono
sottomessi da un numero di combattenti che si poteva chiamare corpo di
volontari piuttosto che armate.
«Li monumenti delle Arti e delle scienze che decorano questo
paese ebbero una più nobile destinazione; essi sono
venuti
a decorare li vincitori li soli degni di possederli: l'oro e
l'argento di cui l'Italia abbondava fu tutto versato nelle Casse delle
nostre armate. Fosse stato possibile di impiegarlo tutto in
ricompense, o a riempire il vuoto del tesoro nazionale; ma convenne
prodigalizzare a corrompere gli amministratori dei differenti
stati a stipendiare li faziosi, gli allarmisti, gli spioni, e
presso li forestieri, gli entusiasti apostoli dei nostri
principi
«Un tal sistema, utile per le circostanze del momento, deve
cessare subito che le Truppe Austriache saranno scacciate da
quel
cantone d'Italia che la generosità Francese ha
voluto
credergli, e il nostro Governo deve ritirare dei più solidi
frutti da un così prezioso stabilimento.
« Voi siete quello, Cittadino Generale, che il Direttorio
Esecutivo ha scielto, per organizzare il governo politico d'Italia, di
cui voi siete destinato a terminare la conquista.
Crediamo inutile di ricordarvi che la Repubblica Francese
essendo
unita, tutte le Repubbliche Italiane infantate, e tollerate a
causa soltanto dell'imperiosità delle circostanze,
devono
sparire. L'esistenza dei vinti non consiste che in una tranquilla
servitù, e non devono conoscere altre leggi, che quelle che
gli
verran dettate dal conquistatore.
«Il Direttorio si riserva a far decidere con più
maturità la futura sorte di queste Provincie, e frattanto
voi
stabilirete, Citt. Generale, in tutte le Città un
Governatore, tratto dal seno dell 'Armata, che sarà Capo del
Corpo Politico, che voi istituirete di una
municipalità, e
di una commissione economica. Dipenderanno dalla prima la giudicatura
Civile, e Criminale come pure l'amministrazione particolare di
cadauna Città, e distretti, quella degli Ospitali,
delle
fabbriche pubbliche, e cose simili; apparterrà alla
seconda
l'esazione delle imposte, e il maneggio di esse, in
conformità
degli ordini che riceverà dal Direttorio.
«Li membri delle rispettive municipalità saranno
scielti
dai Cittadini del Paese, li più ricchi, e li
più
onesti, e sopra tutto ragionevoli abbastanza per conoscere che
la
loro felicità dipende dalla pronta obbedienza alle leggi del
più forte. Vi si commette precisamente di non
lasciar
entrar in quegli onorevoli impieghi alcuno di quegli esseri immorali
che colla loro ambizione secondarono li nostri progetti, o mostrarono
un 'inclinazione di opprimere e di arricchirsi.
«Da uomini di tal fatta la Repub. non può
aspettarsi una
miglior condotta di quella che hanno essi tenuta per li suoi interessi
verso i loro concittadini: il lasciarli in posto non potrebbe che
disonorare il nome Franc. ch 'essi soli han reso odioso ai
deboli
italiani.
«Questo colpo d'Autorità così
necessario alla
tranquillità e all'economia pubblica e che ridona alle arti
e ai
mestieri dei loro padri una folla di scellerati che s'impinguavano del
Patrimonio Pubblico non mancherà di formare dei malcontenti,
ma
voi sapreste contenerli col rigore, e questa misura
sarà
altrettanto più utile quanto che ella ci
concilierà la
stima di quelli, che vendicati degli insulti sofferti riputarono finora
tal razza d'Uomini dispregievoli. «Nella Commissione
economica
dovranno essere ammessi li soli Cittadini Francesi. Fate in maniera che
cada la scelta sopra degli uomini degni della pubblica fede,
poiché è stata finora ingannata di troppo.
«Sopprimete al più presto le così dette
Guardie
Civiche, e legioni Nazionali; Soffocate nei cuori italiani qualche
scintilla di ardor marziale. La Romana Potenza si è
indebolita
subito che ha permesso ai Forestieri l'uso dell 'armi.
Approfittiamo de ' suoi errori dopo di avere offuscato lo splendore de
' suoi esempi. L'agricoltura, il commercio, le arti, sono le
sole
professioni che voi dovete incoraggiare in una Provincia soggiogata,
destinata a nudrire li suoi Padroni, e ad esserne il granaio.
«Abbandonate in conseguenza a loro stessi li letterati e le
scientifiche istituzioni, affine di ottenerne senza violenza,
e
senza una scossa sensibile l'annichillamento. La scienza deve essere
esclusivamente riservata ai soli Cittadini Francesi come lo
era
ella in Egitto ai Sacerdoti di Memfi, e di Heliopoli. Nel mentre che
cercherete voi di umiliare i sapienti classe inutile per lo
meno,
se anche non sia pericolosa in un Popolo destinato a obbedire,
vi
darete tutta la cura possibile per onorare, e premiare
l'industria, e gli uomini, che coltivando le Arti, e l Agricoltura
somministrano alla Repubblica colle produzioni della terra, e con
l'argento che ne ritraggono al di fuori li mezzi di mantenere,
e
di estendere il dominio.
«La mollezza, e il lusso non mancheranno d'introdurli in una
nazione esclusa dall'esercizio delle armi, e delle scienze
sublimi, che coltiva un suolo fertilissimo. Sarebbe impolitico se non
fosse ancora impossibile il pretendere dei costumi austeri dagli
abitatori dell 'Italia. È perciò che in
luogo di
arrestare l'amore dei piaceri, e dei divertimenti voi dovete
proteggerli, ed eccitarli, affine di disporre gli spiriti dal peso
della dipendenza, e per
renderli sempre più impotenti a tentare delle
novità. Per domare le Città della Grecia, e dell
'Asia,
che soffrivano con l'impazienza di essere state private della
lor
libertà, e sempre pronte a una rivolta, li Sovrani
dell'Oriente
non trovarono miglior mezzo che quello d'immergerli nei piaceri con
spettacoli magnifici, con sontuosi festini, e con amori li
più sregolati. Questo regolamento pieno di saggezza
riescirà assai più facile per noi che dobbiamo
impiegarlo con dei popoli avviliti dall'ozio, da una lunga
pace, e
molto più dall 'infingardaggine de ' loro imbecilli
Governatori,
che abbiamo abbattuti.
«Qualunque sia il numero dei Capi d'Opera delle Arti, e delle
Scienze trasportati dall 'Italia nel seno della Repubblica;
è
certo che esiste ancora colà tanto nei luoghi pubblici,
quanto
nelle Case dei particolari una quantità enorme di
Quadri,
di Statue, di Libri, e di Medaglie, vi si trovano ancora delle
collezioni di ogni specie di vasi di urne, di colonne, e di obelischi,
oggetti preziosi in ogni senso, e molto propri a far preponderare sopra
tutte le altre quella Nazione che li possiede. Ella
è una
massima del Direttorio, che questi monumenti passino un poco
per
volta sotto nome di dono, o di tributo a nobilitare la Repubblica e
verrà rimarcata come una luminosa prova della vostra
desterità. Cittadino Generale, se persuaderete gli
Italiani
a farne una volontaria cessione, che non si lascerà di
esigere
colla forza nel caso che non vi resti altro mezzo per ottenerlo.
«Nello scrupoloso adempimento della delicata commissione che
vi
si affida, e sta appoggiata la grandezza della vostra Patria, voi non
potete rinunziare alla gloria di avere in un grado così
eminente ben meritato di essa.
«Salute e Considerazione».
Del tutto ignorata dalla storiografia "ufficiale", di questo
periodo, è l'opposizione eroica e disperata che si
ebbe,
soprattutto nelle Legazioni pontificie, per opera dei cosiddetti
"insorgenti", persone di tutte le classi sociali che prese le armi
quando, sopportata ogni vessazione, si ribellarono alla
violenta
scristianizzazione dei loro paesi. Si tratta di una "storia minore",
seppellita sotto la greve rettorica risorgimentale, che solo adesso,
pochi coraggiosi stanno scrivendo.
Di fatto, l'avanzata di Bonaparte fu rapidissima. Cominciata con la sua
nomina a capo dell'"esercito d'Italia", il 12 di ventoso del l'anno IV
della Rivoluzione (2 marzo 1796), l'armata dilaga in Piemonte, il 14
maggio arriva già a Milano e l'8 settembre si spinge fino a
Bassano. Il 31 dicembre fonda la Repubblica cispadana. Intanto
ha
avuto il tempo di "legalizzare" con un bel trattato, l'occupazione
della Savoia, di Nizza e di altre coserelle del Re di Sardegna, attuata
già dal 1793. Scende verso gli stati del Papa e, con il
trattato
di Tolentino, Napoleone legalizza anche la già
consumata
annessione, alla Francia, di Avignone e del Contado venassino. In
Italia fonda la Repubblica cisalpina dove, a Reggio Emilia, nasce il
tricolore italiano, a bande orizzontali, rossa, bianca e verde (tanto
per non confondersi con quello francese) e scialo di fasci
littori, cannoni, bandiere, tamburi, serti d'alloro al centro.
Il
5 febbraio 1798 l'esercito francese comandato dal Generale
Berthiet entra a Roma e, dopo 10 giorni viene proclamata la
Repubblica romana. Dopo altri cinque giorni, per ordine di
Napoleone, Pio VI è rapito dal Vaticano.
Il Cittadino Bonaparte, intanto, lasciato il comando dell'Armata
d'Italia, è tornato in Francia ed è salpato per
la
spedizione d'Egitto. L'11 giugno occupa Malta, isola
sottoposta al
Re di Napoli, e minaccia la Sicilia. Il popolo è
già in
fermento per le notizie che vengono dal confine. Una lega si
forma
fra Ferdinando IV, Francesco II d'Austria, l'Imperatore di Russia Paolo
I, l'Inghilterra e la "Sublime Porta" (come si denominava l'Impero
Ottomano) direttamente minacciata nei suoi possedimenti
africani:
ma, a parte la novità dei turchi che combattono a fianco ai
cristiani, si tratta, al momento, di poche forze raccogliticce. Fra di
loro, la maggior parte dei napoletani non avevano mai vista una guerra
in vita loro. Il 23 novembre, Ferdinando varca la frontiera pontificia
e punta direttamente su Roma mentre gli alleati prendono
direzioni
diverse. Il 29 successivo il Re di Napoli e di Sicilia entra nella
città papale abbandonata in fretta dai francesi che
però, riorganizzatisi e battuti gli alleati, ritornarono
sulle
posizioni perdute e cominciano a dirigersi anche verso il Napoletano.
Ferdinando, il 7 dicembre, dopo aver emanato
un proclama ai napoletani invitandoli alla resistenza armata,
lascia Roma e rientra nella capitale per organizzare la difesa del
Regno. Ormai l'Armata d'Italia sta sciamando in Campania e dopo aver
occupato Pontecorvo e Benevento, antichi possedimenti del Papa, dirige
verso Napoli.
Comincia da questo momento l'epopea dei napoletani. Il 21 dicembre,
mentre i giacobini locali già s'organizzano per accogliere
degnamente i francesi e gli aristocratici si perdono in lunghissimi
parlamentari su come venire a patti con gli invasori, i popolani,
passandosi la voce, accorrono a frotte a Largo di Palazzo.
«Affacciatomi al balcone, scrive Ferdinando nel suo
diario,
[ho] veduto un immenso popolo con una bandiera alla testa con un Cristo
sopra». I napoletani più semplici hanno capito
come stanno
le cose: non c'è da fidarsi di «signure e
cavaliere». Ormai gira la voce che il Re, senza
possibilità di difesa, voglia mettere in salvo la corte
nella
seconda capitale, Palermo. I francesi sono alle porte della
città. I popolani fremono e rumoreggiano: sono
pronti a
combattere contro i giacobini e, tanto per mostrare di cosa son capaci,
linciano subito un povero commerciante francese scambiato per spia.
Ferdinando dal balcone li invita a disperdersi e a starsene calmi. Le
sue ultime raccomandazioni sono perché il popolo non opponga
resistenza agli invasori e attenda fiducioso il suo riscatto: non vuole
un bagno di sangue. La stessa notte sale sulla Vanguard, l'ammiraglia
di Nelson che, con tutta la sua flotta, è nel golfo di
Napoli.
Mentre le navi s'allontanano, viene dato fuoco ai bastimenti da guerra
in porto, che sono impossibilitati a salpare: i francesi non faranno
bottino d'armi. Come al solito, si consoleranno con esosissime
"contribuzioni" e con il saccheggio dei palazzi reali, dei forzieri,
dei musei e delle biblioteche.
San Gennaro «traditore»
San Gennaro, dal tempo del Re Carlo, è iscritto
ufficialmente
nei ruoli militari col
grado
di Maresciallo
generale comandante dell'Esercito napoletano. Il
suo appannaggio viene versato
regolarmente all'Arcivescovo che lo incamera nel Tesoro. Della
devozione dei napoletani per colui che, dal Cielo, li protegge
soprattutto dalle disastrose eruzioni del Vesuvio, sono state
scritte biblioteche. Eppure, nella sua epopea liberatrice, il
popolo arrivò a destituirlo, a "degradarlo" e ad
eleggere,
al suo posto, Sant'Antonio. È un episodio che sembrerebbe
confermare la proverbiale superstizione dei popolani
partenopei e
che, invece, ne attesta la profondissima fede, oltre alla
caparbietà. Se, nella Comunione dei Santi, essi non mettono
in
dubbio che il loro protettore possa disimpegnarsi a dirigere con onore
l'esercito, di fronte a quello che considerano un voltafaccia, non
esitano ad ammutinarsi levandogli il comando ed affidandolo ad un santo
forestiero.
In effetti, è difficile, oggi, stabilire se il Cardinale
Capece
Zurlo fu timoroso dei francesi e dei giacobini locali o se volle, con
paterna premura, far cessare la carneficina dei napoletani. Dalla
partenza del Re fino al 21 giugno, quando fu proclamata la
Repubblica, l'arrivo dei francesi procedette di concerto con
la
rivolta dei "lazzari". Si dice che ne scesero in campo 60.000, sempre
meglio armati di ciò che catturavano in battaglia al nemico
o
semplicemente di ciò che gli rubavano durante le
tregue:
verso la fine della rivolta disponevano di una dozzina di
cannoni
di grosso calibro. Ne morirono almeno 10.000. Le fucilazioni
senza
processo furono innumerevoli. Nonostante la mancanza di
preparazione militare e di capi addestrati, seppero
organizzarsi,
con mogli, figli e nonni a far da sussistenza, per contrastare passo
passo l'avanzata in città delle truppe francesi, per
tendergli
trappole nei vicoli, per metterle più volte in ritirata, per
assaltare il forte di Sant'Elmo dove si era appostato il
comando
francese e dove poi si barricò il governo
repubblicano. Il
generale Championnet doveva ammettere, in una sua relazione al
Direttorio, che «I lazzaroni, questi uomini meravigliosi...
sono
degli eroi... sono comandati da capi intrepidi. Il forte di S.
Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi
ripiegano, in ordine, tornano alla carica».
Le versioni del fatto di San Gennaro sono diverse: secondo alcuni,
Championnet, per ingraziarsi i napoletani, si recò in
cattedrale
per un Te Deum di ringraziamento e volle gli fossero mostrate le
ampolle col sangue del martire che, fuori dei tempi previsti, si
liquefece. C'è chi dice che, anzi, minacciò di
morte
l'Arcivescovo se il miracolo non fosse avvenuto, tenendogli una pistola
puntata addosso per tutta le cerimonia. Altri dicono che il
Cardinale Capece Zurlo, per far cessare la carneficina,
posticipò la notizia della liquefazione al momento
della
tregua mentre essa era avvenuta il 22 gennaio, proprio al culmine
trionfale dell'insurrezione popolare. Come che stiano veramente i
fatti, i napoletani, per questo sgarbo del santo che con il prodigio
sembrava avvallare il nuovo governo, si elessero protettore e Generale
in capo un forestiero, Sant'Antonio. Il fatto, poi, che
l'Armata
della Santa Fede arrivasse in città proprio il 13 di giugno,
festa del taumaturgo portoghesepadovano, sembrò confermare
che
la scelta era stata appropriata.
La Repubblica e l'emancipazione femminile
Se i nobili e i borghesi che avevano aderito alla rivoluzione erano i
nemici giurati per i "lazzari", anche il clero fu additato fra coloro
che simpatizzavano per i giacobini. In effetti, nel Regno, il clero che
aderì al nuovo regime dovette essere scarsissimo se si tien
conto che, fra duecento vescovi, solo dieci furono poi
accusati di
aver tenuto il sacco ai rivoluzionari o di aver assunto un
atteggiamento conciliante. Il basso clero e i religiosi, se
v'è
una ragionevole proporzione, non dovettero essere molti di
più. Ma sicuramente, come succede anche oggi, i preti e i
frati
"progressisti" sono quelli che si mettono più in mostra, ed
anche allora, in confronto a quelli che si tennero umilmente in
disparte, ve ne furono di quelli che, entusiasticamente, "si
aprirono al dialogo". Basterebbe, per tutti, citare il Vescovo di Vico
Equense, Michele Natale, autore, fra l'altro, con il titolo di
«Cittadino Presidente della Municipalità di
Vico»,
di un Catechismo repubblicano per l'istruzione del popolo e la rovina
dei tiranni. Questo prelato, che fu poi ridotto allo stato laicale e
giustiziato dalle Giunte volute da Nelson, si mise a capo del
direttorio rivoluzionario della sua città e si
distinse,
dicono, per lo zelo fiolfrancese. Fra i giustiziati, del resto, di
ecclesiastici, oltre al
Natale, ve ne furono sedici, fra cui alcuni spretati e un seminarista.
Nella capitale, comunque, la condiscendenza del clero verso i vincitori
(dettata probabilmente dalla prudenza) e l'aperta adesione di molti
tonsurati al verbo repubblicano, fu più alta che altrove e,
del
resto, i francesi, avvisati della grande devozione dei napoletani,
cercavano di coniugare il meglio possibile religione e rivoluzione. Di
fatto, nella Certosa di San Martino ed in altri monasteri e conventi
(si spera su insistenza degli ospiti francesi) si tennero "balli
repubblicani" mescolando le note della Carmagnola con quelle
della
Tarantella per affratellare i conquistatori con i conquistati
e,
va da se, soprattutto con le conquistate. In fondo, ogni
rivoluzione, alti quanto si voglia gli ideali, parte dall'istinto
alquanto basso di liberarsi dalle convenzioni della morale, prima di
tutto "emancipando" le donne.
Due donne "emancipate", peraltro, restano le eroine della Repubblica
napoletana, Eleonora Fonseca Pimentel e Luisa Sanfelice, ambedue
più sfortunate che colpevoli, entrambe vittime delle
conseguenze
di sentimenti frustrati e mal orientati, una reagendo "ideologicamente"
alle sue disgrazie, l'altra facendosi sopraffare da un annichilente
vittimismo.
Vi è un antico proverbio spagnolo che dice:
«Guardati da
nobile poverino e da donna che sa di latino». Cosa
c'è di
peggio, infatti, di uno spiantato rancoroso col destino che
l'ha
privato delle fortune avite? e di una saccente sempre pronta a metter
bocca in ogni cosa? Nel caso di Eleonora Fonseca Pimentel, quei due
tipi umani si incontrarono quando, giovanissima, romantica, inquieta
divoratrice di letteratura, sposò un altrettanto giovane
capitano del Reggimento "Sannio", Pasquale Tria de Solis. Strettezze
finanziarie, debiti del marito, furti sulla sua dote,
oppressione
d'un nugolo di cognate zitelle: il matrimonio presto
naufragò
fra litigi clamorosi, le percosse e la tristezza d'un figlio
perso
in gravidanza. Eleonora tornò alla casa paterna e
si
circondò di amici frequentando i salotti letterari,
presto
conobbe i più famosi maîtreàpenser e ne
condivise
le idee con la devozione di una catecumena. Di qui alla Corte il salto
fu breve. Maria Carolina, intenerita e intrigata da questa
giovine
poetessa, la fece sua bibliotecaria. La carriera fu fulminea: Eleonora
si trasformò in perfetta cortigiana assecondando
la Regina tanto nelle sue fisime di cultura e di spregiudicatezza
quanto nei suoi languorosi vezzi arcadici. Complice di
frivolezze
e atti d'imperio, d'aperture alle nuove idee e d'inquietudini per il
futuro, ne divenne la più intima delle confidenti. Insomma,
una
perfetta dama da salotto di quei tempi, senza ritegni verso le
suggestioni più azzardate e pronta a infervorarsi
nell'adulazione più smaccata della monarchia e del Re a cui
dedicava, ahimè, sdolcinati e retorici componimenti poetici.
Le
amicizie pericolose, mentre in Francia ruggiva la rivoluzione, la
coinvolsero nei "club", nelle congiure, fino a portarla alla
sbarra, nel 1794, con gli altri sospetti di simpatie giacobine, e ad
essere condannata come sovversiva. Liberata dal carcere dai francesi,
fu subito cooptata dai vecchi amici per il Direttorio della
nascente Repubblica e redasse uno dei tanti fogli che fecero
la
loro apparizione durante quei cinque mesi, Il Monitore, uno dei
giornali più estremisti, che non si faceva scrupolo, in nome
degli ideali della rivoluzione, di calunniare (secondo la
scuola
volteriana) e di propagare notizie false sull'andamento delle
operazioni belliche. Gli stessi componenti della giunta rivoluzionaria
dovevano calmare i bollenti spiriti di questa menade giacobina
e
dovettero bocciare, perché giudicata prematura e impopolare,
la
sua proposta di introdurre il divorzio nella redigenda Costituzione.
Frustrata anche nel suo rigore politico, si sfogò
nelle
contumelie più atroci contro il Re che, come i
costituenti
parigini chiamava "Ferdinando Capeto", ma soprattutto contro la Regina,
sconfessata amica del cuore, che definì «Rediviva
Poppea,
Tribade impura, d'imbecille tiranno empia consorte»
attribuendogli ogni sorta di sconcezze, amori saffici e
soprattutto un rapporto equivoco con l'ultima confidente di lei, la
vulcanica Lady Hamilton, "ninfa egeria", per così dire,
dell'Ammiraglio Nelson. I suoi feroci articoli sul Monitore
hanno
alimentato i pettegolezzi più sguaiati degli
antiborbonici
di ogni tempo. Nelson non ne ebbe pietà e la
consegnò ai giudici delle Giunte civili e militari che la
condannarono all'impiccagione.
La storia di Luisa Sanfelice, tramandata da Dumas figlio, immaginifico
e ben ricompensato cronista della fine del Regno, al seguito di
Garibaldi, è solo un epico romanzo d'appendice ad uso dei
patrioti liberali e delle patriote sentimentali. Del resto a quali
fonti aveva potuto attingere per una storia accaduta
sessant’anni
prima? Tutt'oggi vi sono varie versioni delle vicende di quella
poveretta. Tutte concordi però nel sottolineare la
sua
criminale leggerezza e la fine miseranda.
Di nobile famiglia, sposata ad un cugino, Luisa, che da
ragazza
faceva De Molines, nel '99 aveva 35 anni e doveva essere
alquanto
piacente e del tutto spensierata se, incurante del marito,
poteva
tener salotto insieme a progressisti e reazionari mentre nelle strade
si scannavano lazzari e francesi e un gruppo di lealisti
preparava
una congiura contro gli occupanti. Uno dei congiurati, Gerardo Baccher,
innamorato della bella signora, le rivelò quel che stava
lì lì per accadere e galantemente la
fornì d'un
salvacondotto. Ma Luisa, a sua volta, se ne vantò con un
altro
amante di fede giacobina che denunciò subito il complotto.
Gerardo e i suoi due fratelli (uno di 14 anni) ed altri cospiratori
furono fucilati. All'arrivo di Nelson, il padre dei Baccher
denunciò la Sanfelice che fu prontamente condannata
a
morte. Destinata a diventare suo malgrado "madre della patria" per i
giacobini d'ogni tempo, Luisa Sanfelice non accettò il ruolo
di
eroina e, con la compiacenza dei medici, non trovò di
meglio che fingersi incinta. La nuora del Re se ne
impietosì e Ferdinando le assegnò un sussidio in
carcere
fingendo di dimenticarsene. Ma dopo un anno il Baccher padre chiese
conto di una gravidanza che ormai aveva una durata surreale, pretese
fosse adempiuta la giustizia e Luisa dovette salire al patibolo.
Una storia disgraziata ed oscura con molte dimenticanze
volute,
compresa quella del compilatore della biografia della
sventurata
nell’ Enciclopedia italiana, "illustre" storico del
Mezzogiorno
che, dei fratelli Baccher e degli altri cospiratori, ci rammenta solo
che «furono arrestati», come se il resto fosse
irrilevante.
Del resto, la storia della Repubblica napoletana, che non ebbe
un
giorno di pace e che, solo a stare ai morti "ufficiali", dovette essere
un'interminabile massacro, viene raccontata solo come un'aurora di
speranza il cui "sol dell'avvenire", fermato inopinatamente
dalla
brutalità della plebaglia e della reazione, sarebbe
finalmente risorto nel 1860. Nelle rivoluzioni ci sono sempre
morit da dimenticare e morti da ricordare: le migliaia di esecuzioni
"militari" non sono arrivate a noi né sono arrivate
le
innumerevoli esecuzioni "civili" ordinate dalla Repubblica. Il
responsabile del tribunale repubblicano, il Capitano Antonio
Velasco, dopo aver reso piena confessione del suo operato, non ebbe il
coraggio di sottostare al giudizio e, mentre veniva tradotto
di
fronte alla Giunta, si suicidò lanciandosi da una
finestra.
L'unica numerazione, variabile a seconda della commozione patriottica
del contabile di turno, è quella che riguarda,
appunto, i
"patrioti", cioè i capi repubblicani condannati,
per lo
più, per lesa Maestà e tradimento, per reati da
codice
penale e, per quel che riguarda i militari, anche per diserzione,
spionaggio e razzia.
La «furia sanguinaria e vendicativa» dei Borboni
traditi,
dopo l'entrata dell'Armata della Santa Fede a Napoli, fece
un'«ecatombe di vittime innocenti», mise a morte
«i
più dotti e generosi uomini»:
«tutta
Vélite culturale del meridione d'Italia, una strage da cui
il
Mezzogiorno non s'è più ripreso moralmente e
socialmente». Due lapidi sul Municipio di Napoli
ricordano
ancora le vittime, un po' troppe: almeno diciotto in più. Lo
stesso Giustino Fortunato, tessendo l'apologia dei repubblicani,
riconosce che sedici di quei nomi appartengono a gente che non
ha
nulla a che vedere con le condanne delle giunte: uno è
addirittura di un suicida.
Le condanne eseguite furono novantotto, una di meno se si considera
Francesco Caracciolo, già capo della Regia Armata di mare
che,
tornato da Palermo dove aveva accompagnato il Re e dopo aver
chiesto licenza «per affari personali», si diede ai
francesi e divenne Direttore della marina repubblicana. Catturato da
Nelson, fu immediatamente impiccato al pennone dell'ammiraglia.
Certamente i giustiziati, anche se molti di meno di quelli dei
repubblicani, non furon pochi e Nelson, che ne pretese la morte,
più che fare giustizia al Regno tradito, volle dimostrare la
fermezza britannica: un chiaro messaggio alla Francia e a
Napoleone che, indomito, dopo Abukir, scorrazzava spavaldamente per il
Mediterraneo nonostante la batosta di Nelson.
Quando Fabrizio Ruffo entrò a Napoli, dopo aver trattato
lungamente la capitolazione del Forte di Sant'Elmo, da cui francesi e
repubblicani continuavano a mitragliare la folla, dichiarò
di
non voler fare vendetta delle scelleratezze commesse in quei cinque
mesi e promise di comminare l'esilio a tutti quelli che
avevano
avuto parte nella rivoluzione e che si fossero arresi. Nelson arrivato
nel golfo due giorni dopo, con tutta la sua temibile flotta e,
nonostante le proteste del Cardinale, revocò l'amnistia e
formò le Giunte di giustizia militari e civili con membri da
lui
scelti fra intransigenti magistrati siciliani e generali austriaci.
Tutta la potenza britannica, decisa come non mai a farla
finita
con questi esaltati del continente che, con le loro rivoluzioni,
disturbavano i traffici mercantili, era sotto gli occhi degli
alleati russi, austriaci e turchi. Ferdinando non fu nemmeno
interpellato e dovette accettare le decisioni di Nelson. Gli
inglesi, del resto, avevano un metodo infallibile di persuasione: i
cannoni delle loro fregate. Puntati sulla città,
erano un
argomento che più eloquente non si può e che,
senza il
minimo di fairplay, fu usato puntualmente fino a che Napoli, l'Italia e
l'Europa intera misero testa a partito e diventarono come piaceva a
loro.
In quanto al Re, come si dimostrò dalla grande amnistia che,
due
anni dopo, mise in libertà tutti i detenuti (222 condannati
a
vita e 355 a pene temporanee, oltre quel che abbiamo detto sull'"oblio"
della guerra fratricida) e riammise nel Regno tutti gli esiliati, la
sua opinione, tirata poi a destra e a manca, era, nonostante i
tentennamenti, gli scrupoli, i risentimenti e le richieste di
giustizia del popolo napoletano, la stessa del Cardinale
Ruffo:
clemenza e perdono ove possibile per ristabilire presto la pace. Lo
apprendiamo da una lettera di Maria Carolina che, evidentemente,
rispecchia il pensiero del Re e che, forse per una svista,
pubblicò il Fortunato. «Per i rei di Stato,
scriveva la
Regina al porporato, il metodo preso è intieramente contro
il
mio parere. Io volevo una Giustizia sollecita, subitanea,
pronta,
per incutere timore; e veramente i capi sono troppo noti per aver
bisogno d'altro: indi, con tutti i mezzi d'imbarco nel porto, prendere
tutti gli scrittori municipalisti, organizzatori, capi della capitale,
e depositarli in Francia; e agli altri perdono».
In ogni caso, è opportuno precisare qual era
l'«élite culturale» che fu
mandata a morte
«spegnendo per sempre ogni possibilità di
elevazione culturale e sociale del Mezzogiorno». Gli
ecclesiastici giustiziati, dopo essere stati ridotti allo stato
laicale, furono diciassette. Di loro, secondo Fortunato,
quattro
erano docenti universitari ed uno dell'Accademia di Marina. Del
sacerdote Domenico Vincenzo Troisi si conosce qualche
trascorso:
"Moderatore" della "Sala dell'istruzione repubblicana", aveva,
tra
l'altro, sostenuto «potersi dai preti contrarre
matrimonio e
non vi è bisogno della benedizione del Parroco, che
egli
caratterizzava come una semplice accessione al
contratto». I
nobili, senza altra qualifica, furono dieci, fra i quali la Pimentel e
la Sanfelice. Fra di loro meritano attenzione il Conte di Ruvo Ettore
Carafa e Don Gennaro Serra dei Duchi di Cassano.
Inviato con le truppe francesi a ridurre alla ragione le
città
lealiste della Puglia, ecco cosa dice l'insospettabile Cuoco di Ettore
Carafa: «ma egli abusò della sua forza. Prese
settemila
ducati che trasportava il corriere pubblico e che avrebbero dovuti
esser sagri; e quando gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare
che fossero degl'insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forse lo
ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl'inimici ed,
ove si
trattava d'imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di
quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti
prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un
assedio strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra
e, come se fosse una città nemica, le impone una
contribuzione
di quarantamila ducati. La stessa condotta tenne in Conversano cui, ad
onta di esser stata assediata dagl'insorgenti, impose la
contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non
vi
restò un paio di fibbie d'argento. Tutto fu dato per pagar
le
contribuzioni imposte». Precedentemente il Carafa aveva
distrutto
«la formidabile insorgenza di Sansevero»
e, prima di
mettere a ferro e fuoco Trani, prese Andria, feudo della sua famiglia.
Qui, fra l'altro, saccheggiò la cattedrale e diede alle
fiamme
l'intero archivio vescovile distruggendo per sempre la memoria storica
di quella città. Ad Ettore Carafa, dopo una piazza,
l'amministrazione comunale di Andria ha intitolato recentemente anche
una scuola.
Gennaro Serra, di 27 anni, era il rampollo di una antichissima
casata calabrese. Pieno d'ardore giovanile, seguì le truppe
francesi. Morì, senza capire perché il
popolo
applaudisse al Re invece che a lui «che ne aveva voluto il
bene», gettando nello sconforto la madre che, lasciato per
sempre
il palazzo napoletano, se ne tornò in Calabria.
Lì, il
capo della famiglia, ignaro delle gesta di Gennaro, al passaggio della
Santa Fede, aveva allestito un ospedale nel suo palazzo di
Cassano
assistendo oltre duecento feriti. Il portone di Palazzo dei
Duchi
Serra di Cassano, restato da allora sempre chiuso (ma solo
perché la famiglia non tornò più a
Napoli e lo
vendette), divenne un simbolo per ogni nostalgico rivoluzionario.
I militari, tutti ufficiali, fra cui l'Ammiraglio Caracciolo e due
famigerati generali, Federici e Matera, furono diciotto, tutti
accusati di alto tradimento, diserzione e passaggio al nemico.
I
magistrati tre, i docenti universitari sei, fra i quali Mario
Pagano e Domenico Cirillo, noti framassoni ma più
noti per
aver redatto la costituzione repubblicana. Fra i ventisei
professionisti, naturalmente, spiccavano venti avvocati, la categoria
più numerosa, poi due notai e quattro medici. Cinque erano
gli
impiegati e cinque gli uomini d'affari e i commercianti, un orologiaio,
un maestro di scherma, due studenti di medicina, due giovanotti senza
mestiere e due «letterati», Ignazio Ciaja
e Giacomo
Antonio Gualzetti (quest'ultimo «poeta») dei quali,
però, non si conosce opera alcuna.
I "lazzari" da popolo a plebaglia
Il Re, dicevano francesi e giacobini, s'è alleato cogli
scomunicati e gli infedeli. Turchi e russi, in effetti, erano uno
sparuto gruppetto ma al popolo napoletano, che i rivoluzionari volevano
prendere dalla parte della fede, la cosa (dimenticando che, ai
meridionali, la tolleranza non glie la può
insegnare
nessuno) non faceva né caldo né freddo:
«pe ' Tata
nuosto», come dicevano chiamando il Re Papà, erano
pronti
a far patti anche con Belzebù. Il ché
è proprio un
modo di dire, perché, piaccia o non piaccia ai sociologi
progressisti, ai napoletani (e a tutti i meridionali) tutto gli puoi
toccare fuorché quel che riguarda l'anima loro. Un
meridionale
ad un settentrionale che gli ripeteva, sull'onda del libro di Carlo
Levi, che «Cristo s'è fermato a Eboli»,
rispondeva
serafico d'essere pienamente d'accordo ma che Cristo, in quel
caso, sicuramente, veniva da Reggio Calabria. Ancora per anni, dopo la
vittoria della Santa Fede, i "pazziarielle", con corteo di suonatori di
tamburielli, tricchebballacche, putipù, scetavajasse e
caccavelle, cantavano, fra nugoli di popolo plaudente e corteo di
scugnizzi, la storia del loro trionfo e la ragione della loro
devozione al Re: «Viva TataMaccarone ca rispetta la
religgione».
I francesi avevano immediatamente importato a Napoli le usanze
rivoluzionarie, il numero degli anni a partire dalla
proclamazione
della Repubblica francese, i mesi coi nomi bucolici, Germile,
Termidoro, Messidoro e via dicendo, la "settimana" di dieci giorni con,
al posto della domenica il "decadì". Bastava quest'ultima
novità a spazientire i napoletani che nessuno avrebbe mai
convinto a lavorare più di sei giorni di seguito, come Dio
comanda, e a rinunciare ad almeno un giorno di riposo ogni
mese.
L'"albero della libertà", un palo inghirlandato con scritte,
motti, allegorie, coronato da un berretto frigio, simbolo delle
conquiste rivoluzionarie, a Napoli fu piantato in cinque posti
diversi. Intorno ad esso avrebbero dovuto celebrarsi i trionfi
giacobini ma il popolo, di notte, li buttava continuamente a terra.
Girandovi attorno tre volte, si poteva concludere un matrimonio:
bastava che il maschio dicesse «All'ombra di questo
albero
fiorito, tu mi sei moglie e io ti son marito», e la femmina:
«All'ombra di questo
albero fiorito, io ti son moglie e tu mi sei marito». Ma
scherziamo? vaglieli a toccare, ai meridionali, il matrimonio
e la
famiglia.
Fra le leggi della Repubblica, naturalmente, oltre la marea di
"contribuzioni" fissate dai francesi, non poteva mancare la
coscrizione obbligatoria per Napoli e per il resto dello
Stato. Si
era reclutati dai 15 ai 60 anni: sono esentati solo
«gli
storpi, i ciechi, gli indisposti per malattie
croniche» e
«tutti gli altri che pe' loro delitti, o per
l'immoralità
di loro condotta» non fossero degni dell'onore di prendere le
armi in difesa della patria. I coscritti venivano divisi in due classi,
"sedentanea" e "attiva". I primi, che non prestavano servizio
attivo, dovevano pagare una somma di denaro in cambio del beneficio di
cui usufruivano. Insomma, i napoletani erano proprio refrattari alla
«democratizzazione».
Con lo stesso spirito degli antropologhi, i visitatori
dell'Ottocento e quelli odierni vanno a cercare a quale punto
dell'evoluzione corrisponda l’homo meridionalis
visto,
sempre e comunque, nella fattispecie del "lazzarone" che, a
duecento anni di distanza, ha preso il significato di poltrone,
scansafatiche, profittatore, mariuolo, irresponsabile, oltre,
naturalmente, che di «camorrista» e
«mafioso». Ma dell'attributo di lazzarone il
napoletano fu
sempre fiero. Forse quello che andò più vicino a
capire
cosa fosse un lazzarone, contro l'opinione corrente, fu Goethe che,
«avendo sentito parlar tanto di questo gran numero di
perdigiorno, di oziosi, di sfaticati che riempivano la
città», una volta arrivato a Napoli, lo coglieva
il
sospetto «che tali affermazioni dovessero essere effetto del
modo
di giudicare di sentenziosi, che scambiano per ozioso chiunque non si
affatica penosamente tutto il giorno». Infatti,
osservava il
tedesco, essi «erano facchini, cocchieri, garzoni, barcaioli,
pescatori, e avevano mille minuti mestieri e mansioni. I pretesi oziosi
non esistevano».
Finita, con la Cristianità, l’humanitas, perso il
centro
da cui farsi un giudizio, cercando un punto qualsiasi su cui fondare
l'"ordine nuovo", una gerarchia qualsiasi su cui ricomporre una
città, a Croce (che, del fatto di «non
poterci non
dire cristiani», non riusciva ad andare oltre un vago
sentimento)
sulle orme di Marx, non rimaneva che sentenziare: «I
lazzari sono l'infima classe dei
proletari di Napoli, il Lumpenproletariat, quella classe che i
sociologi moderni contrappongono al proletariato industriale,
del
quale forma spesso l'antitesi». Lenin, più
preciso,
definiva il "sottoproletariato" quella parte del popolo che
non ha
preso coscienza della lotta di classe, inattiva, reazionaria, che non
risponde alle direttive del partitoguida. Insomma, visto da destra o da
sinistra, da liberali o comunisti, il popolo napoletano, che ancora non
ha risposto alle istanze del "progresso" è, ancora oggi,
quell'atroce marmaglia famelica e belluina, che nel '99, come
narra un anonimo «cronista di S. Paolo» citato dai
"risorgimentali", strappava il cuore e il fegato ai condannati, se li
friggeva e se li vendeva all'angolo delle strade.
A scusante, gli "amici del popolo" di ieri e di oggi, se la
cavano
col dire ch'è ignorante, nel senso che ignora come stanno
veramente le cose e, aggiunge, in fin dei conti, basta
educarlo: e
mo' ci pensiamo noi. Non lo nascondevano, sui loro giornali, nei
proclami, nella costituzione, tutti quelli che, con l'aiuto
molto
interessato dei francesi, vollero fare quella che i lazzari
chiamavano «la repubblica dei paglietti».
Quando Re Ferdinando tornò a Napoli, si trattenne,
perché
ancora si sparava nella città, sulla nave ancorata nella
baia.
Il popolo lo seppe e fu un accorrere di barche, a migliaia,
per
salutarlo. Le donne piangevano, tutti gridavano: «Vulimme
veré tata nuosto», «Vogliamo veder
papà
nostro» e il Re era costretto a tornare
continuamente in
coperta perché di "figli" ne arrivavano continuamente
mentre, da
terra, al fuoco di Sant'Elmo facevano eco le batterie di tutti gli
altri forti che sparavano a salve per far festa. Durò
così tutta la giornata.
Da allora, la storia chiama Ferdinando IV «re
lazzarone».
Non se ne offenderebbe lui né tantomeno il popolo di Napoli
che,
fedele ai patti, come un gran signore, di quelli, insomma, che hanno
"onore", con buona coscienza, un re s'è sempre considerato.
Quel «mostro» del Cardinale Ruffo
«Oltre le preghiere, che ripeto a Vostra Eccellenza, di
leggere
il mio grifonaggio ["appunto", dal franc. griffonage, ndr], ove si
parla di clemenza e perdono, aggiungo che, con mio rammarico, nelle
lettere dei padroni si segue sempre a parlare di rigore, ora
più, ora meno, ma sempre di punizione. Ora io seguito a
credere
che la condotta sarebbeassolutamente diversa, e che,
sinceramente,
dovessersi perdonare i passati trascorsi». Lo scriveva il
Cardinale Ruffo ad Acton l'8 maggio 1799, quando Nelson aveva preso in
mano la situazione vendicandosi dei repubblicani. E
più
oltre: «Ma ve ne sarà qualcuno che, sapendo bene
che non
li sarebbe perdonato nulla, starà quieto e buono;
ma, in
tal caso, non merita questo convertito il perdono?».
Fabrizio Ruffo, che sarà nominato Luogotenente generale del
Re,
nelle condizioni proposte per la resa di Castelnuovo e di Castel
dell'Ovo, generosamente scriveva: «Art. 3. Le guarnigioni
usciranno cogli onori militari; armi e bagagli, tamburo battente,
bandiere spiegate, micce accese, e ciascuna con due pezzi di
artiglieria. Esse deporranno le armi sul lido. Art. 4. Le
persone
e le proprietà mobili ed immobili di tutti gli individui
componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite. Art. 5.
Tutti i suddetti individui potranno scegliere d'imbarcarsi sopra
bastimenti parlamentari, che saranno loro preparati per
condurli a
Tolone, senza essere inquietati essi né le loro
famiglie».
Il Monitore di Eleonora de Fonseca Pimentel dell'8 ventoso (28
febbraio) invece, scriveva: «Segnato... dall'infamia di tutti
i
vizi, Fabrizio è il capo masnada sedicente Cardinal
Ruffo,
Fabrizio è l'esoso tiranno».
Cuoco, a proposito dei rivoltosi impenitenti giustiziati nelle
provincie all'avanzata liberatoria della Santa Fede, scrive che
«furon molto meno numerosi di quel che si possa
credere».
Ma il Monitore, come, del resto, gli altri fogli repubblicani,
continuavano a propalare le menzogne più assurde. La
più
grossa fu quella segnalata da un proclama dell'Arcivescovo di
Napoli, il Cardinale Capece Zurlo, il «16 germile, anno I
della
Repubblica napolitana» (5 aprile): «È
pervenuta a nostre orecchie l'orribile voce,
comunicataci anche dal Governo, che il Cardinal Ruffo abbia assunto
nelle Calabrie il nome di Romano Pontefice, e che coll'abuso
di
questa Sacra Autorità si affretti a sedurre que' popoli,
incitandogli a delitti di ogni genere e alla più sanguinosa
strage».
Che, questa e altre volte, per pusillanimità o per evitare
maggior guai alle sue pecorelle trasformate in leoni (Dio solo
lo
sa), l'Arcivescovo si lasciasse andare un po' troppo alle lodi del
governo, né il Re né i lazzaroni gliela
perdonarono:
Ferdinando, uomo pio, pensò che un po' di ritiro spirituale
a un
uomo di Dio non dovesse far male. Lo sollevò dell'incarico a
Napoli e lo spedì nel monastero di Monte Vergine, un quieto
romitorio fra le montagne dell'Irpinia. Il Cardinale, salvo
quando, un anno dopo, fu lasciato andare al conclave che
elesse
Pio VII, vi rimase fino alla fine dei suoi giorni.
Fabrizio Ruffo, nato a San Lucido, in Calabria, dai duchi di Baranello,
a quattro anni fu mandato a Roma per essere educato dallo zio, il
Cardinale Tommaso Ruffo. Pio VI, appena eletto, nel 1775, nota quel
giovane prete e se lo tiene vicino. Dieci anni dopo lo nomina Tesoriere
generale. Alla solida dottrina e alla pietà, Don Fabrizio
unisce
uno spirito sveglio e intraprendente. Incaricato di tirar sù
le
finanze disastrate dello stato, dà vita ad un complesso
sistema legislativo in materia tributaria e fiscale, abolisce
molte dogane, leva tributi protezionistici, incrementa il
commercio, promuove seterie, lanifici, ferriere, aumenta
finanche
la flotta e costruisce, oltre una chiesa all'Isola Sacra, le
fortificazioni di Ancona e Civitavecchia. A 47 anni, Pio VI lo crea
Cardinale ma se lo tiene "inpectore" giacché un simile
prodigio
di prelato si attira l'invidia di certa gente di curia e, peraltro,
è troppo povero per fornirsi di quel minimo di appannaggio
che
serve a un Principe della Chiesa. Lo proclama infine nel 1794 e lo
spedisce nel Regno di Napoli dove Ferdinando lo nomina
soprintendente delle seterie di San Leucio e lo investe dei benefici di
un'abbazia.
Nominato, a Palermo, Vicario generale del Regno, Fabrizio Ruffo, che
aveva allora 55 anni, lasciò il Re il 27 gennaio, con la
sola
compagnia del Marchese Malaspina. Il 31 è a Messina e il 7
febbraio sbarca a Punta del Pezzo, presso Scilla. Con lui, in tutto, ci
sono tre gentiluomini e due preti. Il 18 febbraio invia un proclama
«ai Reverendissimi Vescovi, ai Signori Parrochi, ai
Governatori e
ai bravi e fedeli calabresi». Da questo momento nasce
l'«Armata Cristiana e Reale della Santa
Fede». Coloro
che arrivano ad arruolarsi da ogni parte e si aggiungono man mano che
avanza verso il Nord, non hanno armi se non qualche schioppo e gli
arnesi del loro lavoro, non hanno divise, non hanno cavalli,
solo
qualche bestia staccata dall'aratro, non hanno danaro, non
hanno
provviste. Quando l'Armata giungerà a Napoli il 13 giugno,
conta
20.200 uomini perfettamente vestiti nelle loro uniformi,
equipaggiati di tutto e ben addestrati, un reggimento di cavalleria di
450 uomini, un reggimento di "Fucilieri di montagna" di 800
uomini, e 18.000 soldati appiedati, le cosiddette "Truppe di
massa". Alla Santa Fede si sono aggregati, via facendo, 600
russi
e 400 fra austriaci e turchi. Alla loro testa sventola la bandiera
bianca che la Regina e le figlie hanno ricamato apposta
inviandola
al Cardinale, il 5 giugno, quando le truppe sono ad Ariano, in via
dalle Puglie già liberate, scendendo dall'Appennino verso
Napoli. Sulla bandiera, da un lato vi è lo scudo
borbonico,
dall'altro «la Croce, ch'è il segno glorioso della
nostra Redenzione», come scrive ai soldati la
«Vostra
grata e buona Madre Maria Carolina ».
La lunga marcia della Santa Fede, durante l'avanzata, si è
arrestata a lungo solo a Crotone dove una base di francesi ha
impedito, per tre giorni, che la città potesse
arrendersi.
Prima dell'assalto, il Cardinale celebra il Triduo pasquale. Da
Corigliano emana un editto in cui si promette perdono ai giacobini e
minaccia punizioni a chi farà vendette private. Ovunque
passa e
sosta, le donne cuciono le divise per i soldati, portano provviste,
curano i feriti. Gli uomini si arruolano, portano armi e munizioni,
cavalli, animali da macellare, ognuno i suoi risparmi. A
Bernalda,
in Lucania, il 3 maggio, con tutti i suoi paramenti cardinalizi,
celebra solennemente la festa dell'Invenzione della Santa
Croce.
La Croce viene piantata in ogni paese conquistato, al posto
dell'albero della libertà.
In Puglia, le città che ancora non sono insorte (quasi
tutte),
si arrendono immediatamente mentre i francesi e Carafa battono la
ritirata. I combattimenti con i francesi, man mano che la Santa Fede si
avvicina a Napoli, divennero sempre più aspri. Il Cardinale
è sempre alla testa delle truppe. Aveva scritto, prima di
partire: «Eccomi, dove si tratta di sostenere
l'onore della
Religione, che vuole ubbidita la Maestà di un Principe dato
da
Dio, sarà un pregio della Porpora che mi ricuopre, se
rimarrà di sangue intrisa per la difesa di quel che
prescrive
colla sua Legge. Io andrò girando per le Provincie del Regno
non
con altro in mia compagnia, che col Crocefisso».
Gli ultimi scontri avvennero al Ponte della Maddalena, dove un forte
sorvegliava l'ingresso alla capitale. Anche questa volta i francesi
furono sbaragliati.
La nazione napoletana aveva vinto la "nazione in armi". Il Regno del
Sud fu l'unico stato a respingere l'Armata d'Italia, con le sue sole
forze, con il primo esercito di volontari dopo quello della Vandea. Sia
in Italia che in Francia si combatté per difendere l'onore
della
parola data al Re in nome di Dio.
Le prime avanguardie della Santa Fede arrivarono alle porte di Napoli
che era notte. Pattuglie di esploratori si spinsero fin oltre il Ponte
della Maddalena. Il primo drappello di due, tre uomini si
infilò
al galoppo per le strade e i vicoli verso la marina, i francesi erano
tutti rintanati nei forti assediati dai popolani. Sbucò in
una
piazzetta con i cavalli schiumanti e si arrestò scalpitando
sulle lastre di lava. La città era buia e
silenziosa. Non
una finestra da cui trasparisse una luce. Il capo pattuglia
lanciò la parola d'ordine che usavano sia i repubblicani che
i
lealisti: «Viv'a chi?». Non ci si poteva
sbagliare,
né da una parte né dall'altra: la prima risposta
rivelava gli amici o i nemici. Il silenzio durò
solo pochi
istanti, poi qualche lume cominciò ad accendersi, qualche
finestra a spalancarsi e le prime voci a rispondere, senza esitare:
«Viv'o Re!», «Viv'o Re!».
E tutta Napoli si svegliò, e si aprirono ad uno ad uno,
sempre
più in fretta tutti i balconi, e le voci si rincorrevano, si
facevano coro: «Viv'a chi?»,
«Viv'o Re!»,
«Viv'o Re!». Tutti accendevano lampade,
candele,
applaudivano dalle logge, scendevano in strada. Napoli, quella
notte, fu tutta una luminaria.
GUIDA ALLA LETTURA / 5.
La letteratura sulle "insorgenze " in Italia è ancora ai
suoi
inizi. Di questo periodo ancora pressoché ignorato dalla
storiografia, è molto utile leggere:
MASSIMO VIGLIONE, La "Vandea italiana". Le insorgenze
controrivoluzionarie dalle origini al 1814, Effedieffe,
Milano,
1995 Di uno dei più acuti storiografi di questo periodo, vi
è un romanzo storico perfettamente aderente alla
realtà:
FRANCESCO MARIO AGNOLI, Gli insorgenti, Reverdito Ed., Trento, 1988.
Sulla Santa Fede, la cronaca fedele di chi partecipò a
quell'epopea: DOMENICO PETROMASI, Alla riconquista del Regno. La marcia
del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, Edit. Il Giglio, Napoli,
1994.
Una bella e precisa biografia del Cardinale Ruffo è quella
di:
ANTONIO MANES, Un Cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica
partenopea, Jouvence, Roma, 1996.
Aneddoti storici su San Gennaro dalle origini ad oggi, compresa
naturalmente la Repubblica giacobina, sono a profusione nel
divertente: RINO CAMMILLERI, San Gennaro. Come ha fatto un martire
semisconosciuto del IIIIV secolo a diventare famoso in tutto il mondo,
Piemme, Casale Monferrato, 1996.
Talvolta una musica popolare può essere molto più
efficace di molte pagine erudite per spiegare la storia di un popolo.
È il caso di questa tammurriata napoletana di cui riportiamo
il
testo originale con una traduzione in italiano.
CANTO CONTRORIVOLUZIONARIO
(1799 - 1800)
A
lu suono r'a grancascie viva lu popolo vascie! A lu suono r'i tamburrielle sò risurte li puverielle. A lu suono r'a campane viva viva li pupulane! A lu suono r'a viuline morte alli giacubbine! Sona sona, sona a Carmagnola2, sona li cunziglie3: Viva o Re cu la famiglie! Sona sona, sona a Carmagnola... A lu muolo, sanza uerra, se teraie l'arvere9 'n terra, affirraine e giacubbine, ie facettere 'na mappine. È fernuta l'eguaglianza, è fernuta la libbertà: pe' vuie so' dulure 'e panza, signò, iatev'acuccà! Sona sona, sona a Carmagnola... Passaie lu mese chiuvuso, lu ventuso e l'addiruso10, e lu mese ca se mete hanne avute l’aglie arrete. Viva Tata Maccarone11 ca rispetta la religgione. Giacubbine iat'a mare: mo' v'abbrucia lu panare! Sona sona, sona a Carmagnola... Addò è ghiuta 'na Leonora ca alluccaie 'ngopp'o tiatre? Mo' abballa miezz'o mercato 'nzeme cu' maste Donato Mo' abballa ch'e vruoccole e rape: n'ha putute abballà chiù. |
Al
suono della grancassa viva il popolo basso! Al suono dei tamburelli sono insorti ipoveri. Al suono della campana viva viva i popolani! Al suono del violino morte ai giacobini! Suona suona "La Carmagnole", suonano i consigli: Viva il Re con la famiglia! Suona suona "La Carmagnole"... Al molo, senza colpo ferire, si gettò l'albero in terra, acchiapparono i giacobini e gli diedero una legnata. È finita l'uguaglianza, è finita la libertà: per voi sono dolori di pancia, signori, andate a coricarvi! Suona suona "La Carmagnole"... Passò il mese Piovoso, il Ventoso e l'Odoroso, ed al mese che si miete hanno avuto l'aglio nel didietro. Viva Papà Maccherone che rispetta la religione. Giacobini andate a mare: adesso vi brucia il sedere! Suona suona "La Carmagnole"... Dov 'è andata donna Eleonora che sbraitava sul teatro? Adesso balla in mezzo al mercato insieme con mastro Donato. Adesso balla con broccoli e rape: non ha potuto ballare più. |
1 Questo
canto
popolare, nella forma tipica napoletana della "Tammurriata ",
è
stato trascritto da Roberto De Simone con il titolo «Canto
sanfedista», portato in scena e riprodotto dalla Nuova
Compagnia
di Canto popolare nel 1976. In effetti, non può trattarsi di
un
«canto delle bande lealiste del Cardinale Ruffo»
giacché si citano avvenimenti posteriori alla liberazione di
Napoli, quando l'Armata della Santa Fede era già stata
sciolta e
la monarchia restaurata.
2 Canto rivoluzionario francese. La carmagnola era la giubba corta
militare che in
dossavano, alla loro entrata a Parigi, nel 1792, i Federati marsigliesi
e fu chiamata la
giacchetta corta dei rivoluzionari che soppiantò la
redingote dell 'ancien régime.
3 Il berretto frigio che fu posto sulla testa del monumento
equestre a Ferdinando IV a Largo di Palazzo. 6 Il 13 giugno 1799
entrava in Napoli Fabrizio Ruffo alla testa della Santa Fede..
Al Ponte della Maddalena, dove si svolse la battaglia finale della
Santa Fede con i francesi, vi era un forte con una prigione.
Si
tratta delle Giunte civili e militari volute da Nelson per giudicare i
rivoluzionari.
"Sona 'a Carmagnola", con
il titolo
Canto dei sanfedisti, nell'adattamento musicale di R. De Simone e
nell'interpretazione della Nuova compagnia di canto popolare,
è
edita in CD e musicassetta nel volume «'O Meglio»
(vol. 1),
con l'etichetta Orizzonte, dalla Ricordi, LOK 716 (1995).
1 Il disordine sociale era tale nell'Italia meridionale all'inizio del
XII secolo che l'avvento di un re giusto e valoroso era pronosticato
come l'avvento del Messia (e adombrato come tale il Re Ruggero
è
rappresentato, con tanto d'aureola, nel duomo di Monreale). Un quadro
suggestivo della mentalità e dell'ambiente di quel tempo
è quello che emerge dagli studi annalistici di Salvatore
Tramontana, fra i quali La monarchia normanna e sveva, Utet, Torino
1986, e Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall XI al XIII
secolo,
Giulio Einaudi Editore, Torino 1999. Per il resto, la bibliografia
è sterminata.
Sulle gesta dei Normanni prima della monarchia, una specie di "Tempo
d'Avvento" seguito appunto da quella notte di Natale nel duomo
di
Palermo, esiste, fra altre, una cronaca coeva, l’Historia
Normannorum, recentemente pubblicata anche con la versione in antico
franco a cura di Giuseppe Sperduti: Amato di Montecassino, Storia dei
Normanni, Francesco Ciolfi, Cassino 1999.
2 Uno dei tanti luoghi comuni che compromette un sereno giudizio della
storia è quello che vuole gli arabi miti agnellini,
fondatori di
una civiltà raffinata tanto in Asia che in Africa che in
Spagna,
come in Sicilia e dove altro riuscirono ad impiantarsi, aggrediti dai
feroci e grossolani cristiani. È l'apologo del lupo e
dell'agnello di Esopo. A parte lo spirito di conquista della Jihad, la
guerra santa in cui ogni credente si impegna, secondo la sua condizione
sociale, per l'espansione del Corano, si dimentica che gli arabi
conquistarono territori cristiani e non solo imposero con la
spada
la loro religione ma cancellarono ogni traccia della civiltà
precedente. Oggi, in Asia minore, in Egitto, Libia, Algeria, Tunisia,
Marocco non restano che le rovine dei templi, degli edifici pubblici,
degli acquedotti, dei teatri che testimoniano quanto queste terre
fossero fiorenti. Inoltre l'indole nomadica degli arabi, un certo
fatalismo insito nella dottrina di Maometto e la svalutazione
nell'Islam del concetto biblico di possesso della terra e di
cooperazione dell'uomo all'opera creatrice di Dio, fecero trascurare
del tutto l'agricoltura permettendo al limitrofo deserto di
riconquistare il terreno strappatogli in secoli di civilizzazione.
Ancora nel 1480, quando l'egemonia turca ottomana sembrava aver
mitigato con l'uso della diplomazia e dei rapporti internazionali lo
spirito di proselitismo fanatico dei musulmani, ad Otranto conquistata
dalla flotta del Sultano, ottocento persone che s'erano
asserragliate con il loro vescovo nella cattedrale furono decapitate
per non aver accettato la conversione all'Islam. I musulmani della
Sicilia non furono mai costretti al Battesimo e, prima di estinguersi
naturalmente o di passare spontaneamente al cristianesimo,
continuarono a vivere indisturbati nelle loro comunità. Al
contrario dei Giannizzeri ottomani,
corpo formato da bambini cristiani rapiti nei territori conquistati,
costretti alla conversione all'Islam ed educati militarmente, la
Guardia Saracena costituita dai re normanni e diventata
potentissima sotto Re Federico, continuò a praticare
liberamente
il proprio credo ed a godere ampi privilegi. L'Imperatore
assegnò a questo corpo, oltre la città
di Nocera,
nel Salernitano, quella di Lucera in Puglia in feudo perpetuo munendola
d'un poderoso campo fortificato, finché, dopo la fine degli
Svevi, come era stato in Sicilia, gli arabi s'integrarono gradualmente
con la popolazione locale.
Naturalmente non si può negare la genialità della
cultura
araba nella divulgazione della filosofia greca di Aristotele,
nelle scienze esatte (matematica, algebra), nelle opere
architettoniche e in molte altre discipline, arti e scienze. Si
trattava però di un'élite
d'intellettuali sorti ai
margini della grande cultura coranica, credenti non ortodossi, liberi
pensatori, tanto che i migliori uomini d'ingegno fra loro non trovarono
sostenitori se non nelle corti europee e bizantine. Dall'Islam ormai
strutturato in Stato furono sempre guardati con sospetto ed
infine
emarginati insieme ai Sufi, nome generico con cui vengono denominati i
mistici religiosi eterodossi che ne tramandarono l'eredità
intellettuale e che furono aspramente perseguitati dalle
autorità coraniche.
3 Il concetto di città
capitale di stato è moderno: nel XII e XIII secolo, di
fatto,
tutto l'apparato amministrativo risiedeva nella corte che si spostava
lì dove il re poneva, anche provvisoriamente la sua
residenza. I
primi conti e duchi normanni "tennero corte" per lo più a
Melfi
(Caput Northmandorum), ad Aversa, (primo caposaldo dei normanni di
Rainolfo Drengot dal 1030) ed a Capua. Federico di Svevia si spostava
continuamente nei territori di caccia tenendo corte per lo
più a
Foggia, a Lucera, a Venosa, a Melfi e in molti altri luoghi della
Capitanata e della Lucania. Carlo d'Angiò fu il primo a
risiedere quasi sempre a Napoli, a costruirvi un palazzo reale, Castel
Nuovo, oggi Maschio Angioino, e gli uffici amministrativi del regno.
4 Ovviamente, fra le tante sul medioevo,
è una
colossale fandonia quella dello Ius primæ noctis, il presunto
diritto del feudatario di giacere con la sposa prima del vassallo
legittimo marito. Tale diritto non esisté mai in Italia
né in qualsiasi altro regno dell'Europa cristiana. Forse la
leggenda ha origine nella consuetudine della benedizione che il signore
faceva del talamo nuziale dei suoi sottoposti (usanza che dimostra
semmai la riverenza sacrale verso colui che era considerato e chiamato
"Padre" della comunità) o nel cerimoniale del giuramento di
alleanza e di difesa in cui, a modello dei patriarchi di Israele (Gen
24, 14), il patto era sancito dal nuovo vassallo ponendo la mano sotto
la coscia del padrone. Un equivoco comprensibile solo in un tempo, il
nostro, in cui la sessualità viene confusa con la
genitalità e la genitalità con la
sessualità tirando la morale dalla parte che più
conviene
al momento e rimettendo in piedi una serie di tabù che la
morale
cristiana aveva abbattuto.
Resta il fatto che questa madornale calunnia del medioevo sia ben salda
nell'immaginario popolare moderno che si crede sessualmente
disinibito senza accorgersi di essere solo erotomane, istruito
prima da una letteratura pruriginosamente fantasiosa e poi da
una
cinematografia voyeurista e sensazionalista sfociata nella fiction
televisiva. Nel film Braveheart di Mel Gibson (1994), film popolarisimo
fra i giovani, tutta la vicenda è basata sulla ribellione
degli
scozzesi anche alla presunta imposizione dello Ius
primæ
noctis da parte dei dominatori inglesi.
5 Quanto la mentalità attuale abbia pervertito il concetto
di
feudalesimo appare chiaro dal fatto che in tutt'Europa la
nobiltà derivante dal possesso di un feudo antico sia stata
sempre gratificata dell'attributo di «generosa» e
considerata, dopo quella dei re e dei sovrani, la prima nella
scala onorifica. E poiché le parole non nascono a caso, quel
"generoso" voleva effettivamente ricordare l'altruismo di chi poneva la
sua vita in difesa dei deboli.
La nobiltà che non avesse origine nelle imprese
cavalleresche ma
in benemerenze civili verso lo Stato, era detta «di
toga» ed era quella che costituiva il naturale
ricambio
delle gerarchie.
L'ostilità rivoluzionaria verso la società
feudale si
dimostra anche nella caparbia ed immotivata critica del diritto ad essa
connesso, che i normanni mutuarono dalla società franca.
Posto
che quello franco era l'unico sistema legislativo che non sconfinasse
nell'arbitrio e che fu adottato da tutti gli stati europei, l'istituto
più criticato, il maggiorascato, cioè la
trasmissione del
feudo integro al primogenito, portò di conseguenza
ad
un'oculata economia familiare che, oltre a non disintegrare la fonte
primaria di reddito, destinava agli ultrogeniti e alle femmine
i
frutti della capitalizzazione della proprietà immobiliare e
il
reddito della dote materna e la sua definitiva trasmissione.
Questa economia inaugurava e via via specializzava l'istituzione dei
"monti", fidecommessi (oggi diremmo legati) che, se non sempre potevano
bastare ad acquistare feudi nobili o feudi rustici per i figli minori e
le figlie femmine, permettevano (come le moderne "borse di studio") di
avviarli al matrimonio o ad una carriera civile o religiosa. Ci furono
perciò, fra le tante forme di capitalizzazione, i "monti
dotali", i cui redditi servivano per costituire un appannaggio
e
permettere un matrimonio dignitoso alle ragazze, i "monti di
cavalierato", per l'ammissione agli ordini militari, le "doti di
monacazione", i "benefici laicali" che, nel corrispettivo istituto
canonico dell' "abbatia nullius", permettevano di accedere alla
carriera ecclesiastica senza gravare sul patrimonio diocesano e quindi
sulle istituzioni di beneficenza: in ultima analisi sui fedeli.
Quando il diritto napoleonico soppresse il maggiorascato e di
conseguenza gli istituti derivati, crollò tutta l'economia
connessa al sistema feudale con incalcolabili ma ben visibili
effetti soprattutto su quanti ne traevano impiego (oggi
diremmo i
"ceti medi", amministratori, affittuari, avvocati patrimonialisti e
amministrativi) e lavoro (e il "proletariato", contadini,
braccianti). Gli esiti furono l'immediato collasso economico degli
stati che avevano subíto o accettato il nuovo diritto ed una
diffusa disoccupazione. Insomma, quello che sembrava un beneficio della
filantropia rivoluzionaria si tramutò, come per ogni utopia
ugualitaria, in un impoverimento generale al quale scamparono
solo
i ceti borghesi che anzi ne trassero vantaggio.
Fra gli stati europei, l'Inghilterra non cambiò mai il suo
diritto consuetudinario e non solo, a dispetto di Napoleone,
rafforzò la propria economia con gli esiti che conosciamo,
ma
risolse a suo favore la rivoluzione francese che, per una
fatale
eterogenesi dei fini, decretò la vittoria, non solo sul
campo di
Waterloo, della sua secolare nemica. Dove ancora vige il diritto
britannico o un diritto ispirato a quello, in fin dei conti non vi
è il pericolo che un debosciato, un vizioso, uno
scialacquatore (per esempio un drogato, un giocatore d'azzardo, un
donnaiolo) venga gratificato per legge, alla morte del padre, di un
capitale da sperperare come gli aggrada. E questo perché il
"vitello grasso" si può ben sacrificare anche se
non fa
piacere al fratello maggiore ma solo quando quello prodigo è
ben
deciso a ritornare umilmente a casa.
V'è da aggiungere che nel Regno il diritto feudale normanno
s'innestava a quello longobardo rifiutando la cosiddetta
"Legge
Salica" dei franchi che escludeva le femmine dall'esercizio della
sovranità. Per questo si ebbero le regine angioine
e titoli
di feudalità legati a donne (a questa prerogativa si deve
l'uso
frequente di cognomi matronimici nel meridione d'Italia:
D'Ambra,
De Lucia, D'Agata ecc.). Non solo: le consuetudini longobarde estesero
a tutto il Regno gli istituti patrimoniali femminili che garantivano
alla moglie la proprietà e la piena
disponibilità
della propria dote. A queste garanzie si univa, fra gli altri,
l'istituto del "Morgincap" (Morgen Gabe: dono del mattino) secondo cui
lo sposo assegnava alla sposa, dopo la notte di nozze, un
capitale
pari ad un terzo del patrimonio dotale. Il Morgincap, ridotto
a
dono simbolico, vige ancora in alcune consuetudini meridionali. La
riflessione, ne converrete, corre subito all'attuale diritto di
famiglia che, in nome della dignità della donna, dopo aver
istituito la diarchia (non esiste più un capo famiglia ma
due
capi: cosa assurda a cominciare dalla natura e fonte di
diatribe e
di separazioni), in caso di divorzio per colpa del coniuge maschio (e
si tratta dell'8090% dei casi) lo Stato non ha il potere di garantire
che il marito versi alla moglie, ed agli eventuali figli, l'occorrente
per il mantenimento.
6 Un quadro chiaro, sintetico e lucidissimo della formazione e
del
valore delle società tradizionali è quello di
Plinio
Corrêa del Oliveira, Nobiltà ed élites
tradizionali
analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla
Nobiltà romana, Marzorati, Settimo Milanese 1993.
Soprattutto il
Cap. VII costituisce, a questo proposito, un trattato fondamentale di
sociologia.
7 Sull'abuso del termine "valori", ormai diventato d'uso comune, ne ha
scritto Carl Schmitt, La tirannia dei valori, Antonio Pellicani
Editore, Roma 1988: un piccolo ma compendioso saggio su come le parole
perdano e mutino il loro significato scadendo dal loro principio e
fondando di volta in volta una nuova etica.
8 Nel regime della
feudalità rientravano anche alcuni privilegi sui servizi
pubblici, come la riscossione di tasse, di dogane, di lavori pubblici,
di gestione dei porti marittimi (Portulania), di coniazione della
moneta (il Maestro della Zecca) ecc. Sicuramente in questo campo si
verificarono abusi anche perché alcuni di questi "appalti"
divennero poi, insieme alla compravendita dei feudi rustici, oggetto di
mercato e trattativa privata. Abusi sicuramente meno colossali comunque
di quelli costituiti, nella nostra economia "postliberista" (e
rapidamente avviata alla privatizzazione di ogni servizio pubblico) dai
trust e dai "cartelli" delle holding e delle multinazionali.
Alcune professioni e mestieri sfuggivano alle consuetudini feudali
perché ritenuti poco decorosi ed erano monopolio
della
parte più infima del popolo, di stranieri non integrati o di
emarginati: fra altri, quella di banchiere, di cambiavalute
(perché non sembrava giusto speculare sul denaro), di
medico, di
chirurgo (per la repulsione al sangue e ai cadaveri), di
farmacista (che in effetti era per lo più un erborista), di
tintore di stoffe (perché macchiava mani, avambracci e
gambe),
di conciatore di pelli (costretti a lavorare su carogne d'animali),
tutte professioni e mestieri che pure erano molto redditizi tanto da
far arricchire enormemente alcune famiglie popolari arrivate al vertice
dell'economia e del potere, come, per esempio, i Medici
Signori di
Firenze, e molte comunità di ebrei.
9 Quello di mettere in comune
oltre che la proprietà anche le donne è una
costante di
tutte le rivoluzioni sociali, nessuna esclusa. Esplicitamente come per
i movimenti eretici del medioevo o camuffate da "liberazione della
donna" come nelle teorie politiche moderne.
10 Per quel che riguarda la
centralità e l'importanza del Regno di Sicilia in Europa e
nel
bacino del Mediterraneo un'utile lettura è quella del
recente
saggio dell'inglese David Abulafia, I regni del Mediterraneo
occidentale dal 1200 al 1500. La lotta per il dominio, Editori Laterza,
BariRoma 1999.
11 Sulla Carta fondamentale del Regno di Sicilia, su cui si
ressero le istituzioni del Sud fino alla caduta del 1860, esiste una
vasta letteratura. Fra i più recenti, il saggio di Mario
Caravale, La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica
dai Normanni ai Borboni, Editori Laterza, BariRoma 1998. Il testo delle
"Assise" è conservato in due manoscritti, il Vat. lat. 8782,
nella Biblioteca apostolica vaticana, e il Cassinese 486.
Jacob Burckhardt, storico e storico dell'arte svizzero-tedesco
(18181897), grande studioso e conoscitore dell'Italia, su cui scrisse
le sue opere principali, definì il Regno fondato sulla
Costituzione normanna «Stato opera d'arte», come
ricorda
anche Benedetto Croce (La storia di Napoli, Adelphi Edizioni, Milano
1992, p.24).
Fra le tante mistificazioni della storia moderna vi è quella
di
omettere questo evento fondamentale e di ricordare invece, di converso,
le costituzioni di Federico di Svevia, personaggio
più
"sanamente" laico, che in effetti furono solo un adattamento in senso
restrittivo ed accentratore del precedente statuto.
12 Un panegirico è l'unica biografia
contemporanea di
Federico, quella scritta nel 1927 da Ernst Kantorowicz,
Federico
II, imperatore, Garzanti, Milano 1976, la quale più che alla
documentata ricostruzione storica sembra affidarsi alle cronache
apologetiche e adulatorie di quel tempo. In effetti, dell'epoca
federiciana esistono pochissimi documenti ufficiali, per lo
più
atti amministrativi, tutti raccolti da HuillardBréholles,
Historia diplomatica Friderici Secundi, Paris 185261, e da Winkelmann,
Acta Imperii inedita, Innsbruck 188085. Anche la storia minore non
dispone che di esigui fondi notarili. I registri della cancelleria
normannosveva furono dati alle fiamme durante i moti antiimperiali
seguiti alla battaglia di Tagliacozzo e si salvò solo quello
relativo agli anni 123940.
Ernst Kantorowicz era un ebreo polacco affascinato dal pangermanesimo
tanto da prendere la cittadinanza tedesca e sostenere il nascente
Partito Nazionalsocialista: Kaiser Friedrich der Zweite fu il suo
contributo ad una causa che, ahimè, si rivelò
nefasta
anche per lui. Quasi a postulato di quel che già traspariva
dal
suo Friedrich, Kantorowicz si accinse anche ad un monumentale trattato
che investigava lungo mille anni di storia le contraddizioni del potere
quale investitura divina: quello che non è poi
così
paradossale definire il più voluminoso pamphlet antipapale
mai
compilato è stato tradotto solo da pochi anni in italiano (I
due
corpi del Re, Einaudi, Torino 1989). Deluso dalla politica razziale di
Hitler, Ernst Kantorowicz si rifugò negli Stati Uniti
insegnando
prima a Berkeley e poi a Princeton, chiuso in uno sdegnoso mutismo sul
suo passato, fino alla morte sopravvenuta nel 1964. Quello che egli
aveva detto dell'imperatore influenzò più o meno
tutta la
letteratura su quest'argomento fino ad oggi.
Il pangermanesimo che si è appropriato della figura di
Federico
di Svevia e il ghibellinismo che ne ha fatto il suo eroe, sono ancora
ben vivi. Nel 1943, mentre l'esercito tedesco ripiegava verso
il
Nord incalzato dalle truppe alleate, un plotone compì una
digressione verso una villa del Nolano dove, per timore dei
bombardamenti erano stati trasferiti i documenti più
preziosi
del Grande Archivio di Napoli. L'ufficiale che comandava il
piccolo reparto, evidentemente ben informato, non perse tempo e fece
puntare i lanciafiamme contro l'intero fondo della Cancelleria
angioina. Dopo settecento anni vendetta era fatta. L'unico tentativo di
ridimensionare a fondo la figura leggendaria di Federico di Svevia
è del già citato David Abulafia, Federico II. Un
imperatore medievale, Einaudi, Torino 1990. Questo autore inglese ha il
merito di inquadrare concretamente lo Svevo nel suo tempo e,
con
una puntigliosa critica storiografica, demolire gran parte
della
leggenda sul suo conto. Restano i limiti di un'idiosincrasia papale che
spesso aleggia nella storiografia di marca inglese, ed ovviamente in
quella di uno storico di origine israelita, che, alla fine, non riesce
a tener dietro agli sviluppi della storia successiva.
13 L'esosità fiscale
di Federico fu tale che alcuni Podestà, come quello di Bari,
si
ribellarono a nuove richieste di tasse. La Puglia forse fu la
più colpita dalla politica dell'Imperatore essendo, con i
suoi
porti ed i suoi commerci, la direttaconcorrente dei veneziani. La
povertà divenne così diffusa da costringere le
plebi ad
abbandonare le campagne per sbarcare il lunario nelle città
che
crebbero a dismisura. Risale a quel tempo lo spopolamento rurale del
meridione e la scomparsa di molti centri. Peraltro lo Svevo
inventò il monopolio statale, a cominciare da quello del
sale.
Salpi, la più antica diocesi della Puglia, che
sull'estrazione e
il commercio del sale basava tutta la sua economia, nel giro di pochi
anni si spopolò del tutto e non risorse più.
14 Goffredo di Buglione, il
primo conquistatore della Terra Santa, rifiutò di essere
incoronato Re di Gerusalemme tanto sacralmente spropositato gli
sembrò quel titolo e quell'investitura. Questo era lo
spirito
che animava i cavalieri cristiani. Federico (che già
possedeva
quel titolo nominalmente per successione dei Re di Sicilia) non
esitò invece ad autoincoronarsi nella basilica del Santo
Sepolcro prendendo la corona con le sue mani dall'altare ed
imponendosela sul capo. Un
fatto inaudito
e
scandaloso che accrebbe la fama
di
eretico dell'imperatore. Sarebbero passati sei secoli prima che
accadesse un episodio analogo: quando Napoleone prese, in NotreDame, la
corona imperiale dalle mani di Pio VII e, come l'altro grande
avversario del Papa, se la impose sul capo.
15 Un saggio interessante
sulla simbologia esoterica di Castel del Monte è quello di
Aldo
Tavolaro, «Una stella sulla Murgia», in AA.VV.,
Castel del
Monte (a cura di Giorgio Saponaro), Adda Editore, Bari 1981. Anche gli
articoli degli altri autori non tralasciano l'argomento.
16 Sul potere sacrale e carismatico dei re francesi
è
famosa l'opera di MarcBloch, I re taumaturghi, Giulio Einaudi Editore,
Torino 1973. Recente (1997) è l'opera di Jacques Le Goff,
San
Luigi di Francia, Einaudi, Torino 1999.
17 La "leggenda nera" di Carlo d'Angiò lo vuole
spietato
esecutore dell'ultimo discendente degli Svevi, Corradino, allo scopo di
estinguere la dinastia ed evitare ogni pretendente futuro. È
ignorato da quasi tutti gli storici che i tre figli di Manfredi, quindi
della linea diretta, Enrico, Federico ed Enzo, invece, sopravvissero
per altri trentatré anni.
18 Oltre alle altre
originalità che facevano la fama di eretico di Federico di
Svevia vi era quella del suo volto glabro ad imitazione degli
imperatori romani della decadenza, così come appare
sull'unico
suo ritratto ufficiale, quello coniato sugli Augustali, le monete d'oro
della sua zecca. Un volto ben rasato era considerato segno di
ghibellinismo. La barba, i baffi, la loro forma, fin dalle
più
antiche civiltà (ed ancora oggi nell'Islam e nell'Induismo)
hanno avuto un significato simbolico che nell'era cristiana si
riassumeva nell'icona del Cristo con la barba a due pizzi e i baffi
incolti. Non a caso, in quello stesso tempo, i francescani, ad
imitazione del loro fondatore, portavano baffi e barba incolta come
tuttora fanno i frati del ramo dei Cappuccini.
Qualche miniatura dell'epoca federiciana rappresenta l'Imperatore svevo
con la barba: ciò solo perché si trattava di
ritratti
immaginari fatti da artisti che non osavano pensare tanta spavalderia
nell'"unto del Signore".
19 L'opera del monachesimo occidentale
nell'edificazione
della civiltà europea e la luminosa saggezza della regola e
della vita della comunità benedettina è
tratteggiata in
maniera sintetica ma esauriente nel volumetto di un "agnostico"
dichiarato, Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San
Benedetto, Jaca Book, Milano 1980, una delle poche opere tradotte in
italiano di questo autore belga che è forse il
più grande
esperto di questa materia.
20 A proposito della "raffinata" crudeltà dei
musulmani
basti ricordare l'originale trattamento da loro inventato e riservato
agli infedeli, l'impalamento. Consisteva nel far traversare il corpo
del suppliziato da un palo appuntito e di notevoli dimensioni
cominciando dal retto fino a fuoriuscire fra la clavicola e il collo.
La raffinatezza consisteva nel non ledere alcun organo vitale
né
alcun grande vaso sanguigno in maniera che la vittima, piantata col
palo al suolo,
sopravvivesse il maggior tempo possibile: almeno
quarantott'ore.
Tale usanza fu praticata fino ai tempi moderni quando i turchi
arrivarono per l'ultima volta alle porte di Vienna (1683) stringendola
in un terribile e lunghissimo assedio. In quell'occasione la
raffinatezza dei musulmani si rivelò nelle
comodità con
cui era allestito il campo e con la ricchezza degli
approvvigionamenti dell'armata ottomana. L'esercito turco fu
prodigiosamente messo in rotta da un frate cappuccino italiano, Padre
Marco da Aviano, già in fama di strepitoso
taumaturgo,
confessore di molti re e principi fra i quali gli stessi arciduchi
d'Austria. Il santo frate (che solo ragioni d'opportunità
ecumenica non hanno ancora elevato all'onore degli altari), impugnando
solo il Crocifisso, si mise alla testa dei viennesi che trovarono
l'accampamento abbandonato con tutto l'harem al completo e con le
salmerie intatte, fra le quali ben diecimila sacchi di
caffè.
Quel caffè servì a confezionare il primo pasto
dei
viennesi dopo la lunga fame: caffellatte chiamato d'impronta die
Kapuziner, quel "cappuccino" impropriamente detto italiano,
accompagnato dal "cornetto", il dolce a forma di mezzaluna
(croissantper i francesi: crescente) a dileggio dei seguaci di Maometto.
21 L'analisi più acuta dell'eresia di Lutero è
quella
fatta nel 1937 da Jacques Maritain, Tre riformatori. Lutero,
Cartesio, Rousseau, Morcelliana, Brescia 1990. Forse è
l'opera
più rigorosa di quello che è considerato uno dei
massimi
esponenti moderni del tomismo anche se si può dissentire, in
tutto l'impianto critico, dal rifiuto dell'autore di riconoscere una
relazione di causalità fra il pensiero dei tre personaggi
chiave
dell'epoca moderna. Purtroppo Maritain è più
conosciuto
per un improvvido saggio sociologico scritto un anno prima (1936) e
diventato, specie dopo il Concilio Vaticano II, il manuale
dell'"ideologia postconciliare", quel tentativo ancora adesso ben
virulento di ridurre la dottrina della Chiesa a prassi storica,
l'universalità del suo messaggio a melting pot culturale, la
sua
struttura gerarchica a carismaticità democratica
22 Per un'idea vasta e non convenzionale di ciò che significò nella civiltà europea e cristiana la scoperta dell'America e di quali siano le prospettive che si aprono oggi per il futuro del mondo a partire dal nuovo continente, un'opera che potremmo considerare un capolavoro di "teologia della storia" è quella di Alberto Caturelli, Il Nuovo mondo riscoperto, Ares, Milano, 1992. Questo filosofo argentino, allievo di Sciacca, peraltro, con metodo squisitamente logico, demolisce la "leggenda nera" della crudele oppressione degli indios, così di moda al giorno d'oggi.
È infatti ormai corrente l'idea che la conquista spagnola
abbia
sterminato fiorenti e raffinatissime civiltà. Vale
qui
buona parte delle notazioni sugli arabi giacché per quel che
riguarda gli Aztechi assoggettati da Hernán
Cortéz,
bisogna ricordare che i popoli sottomessi da quell'impero videro come
provvidenziale l'arrivo degli spagnoli e a questi si allearono
per
scrollarsi il giogo di una teocrazia che imponeva, oltre la
schiavitù più spietata, il tributo regolare di
giovani vittime per i sacrifici dei sacerdoti di
Tenochitlán. È vero che i popoli di quella
civiltà
erano «miti, gentili, amanti dei fiori e della danza, e che
non
volevano uccidere i nemici in battaglia ma solo farli
prigionieri», il fatto è che gli ostaggi dovevano
esser
consegnati ai sacerdoti per il sacrificio (come fa notare Zolla, cit.).
È nelle testimonianze degli stessi aztechi sottomessi che
solo
l'inaugurazione del tempio centrale di quella che è
oggi
Città del Messico, costò ben quindicimila
giovinetti a
cui veniva estratto, ben vivi, il cuore e i cui corpi venivano
gettati per la scalinata fino ai fedeli che se ne cibavano. L'unico
regno amico dell'azteco era quello di Tlaxcala ma l'alleanza risposava
su un trattato fra sacerdoti per un pacifico tributo di vittime
particolarmente apprezzate. In quanto all'impero Inca, i
popoli
sottomessi dovevano invece consegnare solo giovani vergini che
innumerevoli venivano immolate sulle cime più alte della
cordigliera andina.
Se tutto ciò può costituire l'oggetto di un
asettico
interesse etnografico e antropologico certo non giustifica il
luogo comune che rimpiange la fatale estinzione di così
raffinate civiltà né l'accorata ammirazione del
National
Geographic Magazine (ed. italiana, vol.1, n.4, maggio 1998) che a
corredo della foto di una giovane mummia, scrive: «Non
sapremo
mai cosa la ragazza abbia provato negli ultimi istanti della
sua
vita. Si può immaginare che, pur spaventata, fosse
orgogliosa di essere stata prescelta come vittima sacrificale
agli
dei della montagna».
La vulgata anticattolica e antispagnola porta a prova della sua
filantropica indignazione la relazione che il domenicano
Bartolomé de Las Casas fece nel 1539 al Re di Spagna sugli
abusi
di coloni spagnoli nei confronti degli indigeni (Brevisima
relación de la destruyción de las Indias). A
parte le
evidenti esagerazioni e generalizzazioni di un "mistico" che anche i
suoi estimatori ritengono fosse un po' via di testa (sua è
l'insostenibile stima di venti milioni di indios trucidati o episodi
come quello dell'uso dei conquistatori di farsi accompagnare nelle loro
spedizioni da torme di schiavi che dovevano servire di cibo ai cani da
guerra), il fatto che Carlo V facesse pubblicare a spese della Corona e
in diverse lingue la sua opera e lo nominasse Vescovo di Chiapas (dove
però il Las Casas non andò mai preferendo restare
in
Spagna) inasprendo peraltro le pene per coloro che avessero
contravvenuto all'editto del 1500 di Isabella la Cattolica che proibiva
la schiavitù dei nativi e puniva chi avesse maltrattato in
qualsiasi modo gli indios, dimostra quanto alla Spagna
stessero a
cuore le sorti dei colonizzati. Contro ogni elucubrazione
fantasiosa e gli eccessi di qualche individuabile minoranza,
la
prova più evidente dello spirito che guidò la
maggior
parte degli spagnoli e dei portoghesi arrivati in America
è
la massiccia presenza in quel continente di mulatti e meticci che
dimostrano la pacifica integrazione fra colonizzatori e
colonizzati.
Rilanciata dagli inglesi e dai protestanti che colonizzarono il Nord
America (questi sì sterminando sistematicamente i pellerossa
che
ritenevano, come si esprimevano i pii discendenti dei Padri Pellegrini,
«un insulto non più tollerabile alla
dignità
dell'uomo e di Dio») la Leyenda negra dei colonizzatori
spagnoli
è così radicata nell'immaginario popolare che la
Walt
Disney Production, nel cartone animato Pocahontas (1995), pur
così accurato nella ricostruzione storica ed ambientale,
ritrae,
unico fra i suoi miti compagni, il malvagio colonizzatore
inglese
abbigliato alla maniera dei conquistadores spagnoli, con tanto di
morione in testa.
Un ottimo testo per iniziare a demolire la leyenda negra anticattolica
e antispagnola è quello di Jean Dumont, Il Vangelo
nelle
Americhe. Dalla barbarie alla civiltà, Effedieffe, Milano
1992.
23 La nebulosità del concetto di
progresso al di fuori della società tradizionale
è
squisitamente descritta, nel 1971, da quel controverso pensatore che
è Elémire Zolla: «La
divinità suprema di
questa civiltà [...] può assumere vari nomi [...]
di
periodo in periodo: in Inghilterra fu "Riforma" dal Cinquecento al
Seicento, fino a quando Dryden protestò contro la "stantia
frode" e contro il primo riformatore dei cieli, Lucifero; dal
Settecento in poi fu "Progresso", cui s'affiancò a
metà
Ottocento "Evoluzione", e nel Novecento "Marcia dei tempi". A
"rinnovamento", e a "progresso" e a "lumi" e a "secol nuovo" sul
continente, Hegel aggiunse "sviluppo" e "svolgimento dello Spirito",
"superamento" e "dialettica".
Di recente si è escogitato "aggiornamento". Ma la serie dei
sinonimi può e deve estendersi, per evitare il tedio di chi
è chiamato all'adorazione del Nome. Basta che la parola
esprima
una negazione: il ripudio del criterio di discriminazione fra bene e
male e la rinuncia a precisare la causa finale: tutto dev'essere un
fluire, un incalzare che non si sa dove di preciso vada a parare, una
corsa nella notte; bene è il correre, male è
soffermarsi,
malissimo voler sapere dove si va e perché ci si
vada»
(Elémire Zolla, Che cos'è la tradizione, Adelphi,
Milano
1998, p.24).
24 Gli spagnoli, oltre a non essere buoni economisti
in
generale e addirittura fallimentari per quel che riguardava le terre
d'oltreoceano, nel Mediterraneo se la dovettero vedere con
l'accanitissima pirateria musulmana che rendeva la navigazione
commerciale quanto mai insicura e dispendiosa e per combattere la quale
si dovette ricorrere a molte imposizioni fiscali straordinarie.
Può darsi anche, come sottolinea il De Rosa che
«alla fine
del Governo spagnolo, il Regno appariva più povero che non
all'inizio di quell'occupazione» ma, a sua volta, Benedetto
Croce
osserva, «la Spagna governava il Regno di Napoli come
governava
sé stessa, con la medesima sapienza o la medesima
insipienza» e «non è da dimenticare che
quegli
antieconomici metodi erano proprie
dei tempi, e sparsi più o meno dappertutto (e si dica lo
stesso
degli espedienti finanziari); e a loro modo erano anche buoni,
considerato che non se ne conoscevano o non si aveva la forza di
adottarne altri migliori». I due testi sono contrapposti in
una
recente opera che pur nell'uniformità alla vulgata corrente,
offre qualche spunto di originalità: Gianni Custodero,
Storia
del Sud dal Regno Normanno alla prima Repubblica, Capone
Editore,
Lecce 1999 (p.90).
25 Il pregiudizio di un Sud oscurantista e retrivo è
confermato,
inaspettatamente, da quel prelato di vasta cultura ed
erudizione,
e per altri versi scrittore garbato e godibilissimo, che
è
l'Arcivescovo di Bologna Cardinale Giacomo Biffi. In un piccolo saggio
sull'unità d'Italia il porporato scrive: «... si
può dire che sfortuna d'Italia è stata
che la
Controriforma non è riuscita a raggiungere e a
trasformare
l'intera penisola. Dove ha agito in profondità, per esempio,
con
la Riforma borromaica e cioè nel Nord,
fino
all'Emilia la gente è stata davvero educata a
superare le
antiche propensioni alla furbizia, alla violenza privata, alla
passività, al clientelismo, e si è trovata pronta
a
entrare nella moderna società europea» (Giacomo
Biffi,
Risorgimento, stato laico e identità nazionale, Piemme,
Casale
Monferrato 1999, p.28).
Al presule, milanese di origine, noto al grande pubblico per le sue
prese di posizione spesso controcorrente, dev'essere scappato
dalla penna il luogo comune che continua a permanere nella
mentalità unitaria: quello d'un "resto d'Italia" (quello dei
meridionali ovviamente) caratterizzato da furbizia, violenza privata,
passività, clientelismo. Il lapsus finisce per vanificare la
tesi dell'Autore, quella di una provvidenzialità del
Risorgimento, e confermare che l'unità fra gli
italiani non
è stata ancora fatta.
Ma, scrivendo dalla città che una volta era conosciuta come
«la Dotta» ed anche come «la
Fedelissima» (alla
Chiesa e allo Stato Pontificio) ed oggi nominata solo per le
sue
peculiarità goderecce (città che Giovanni Paolo
II ha
definito «sazia e disperata») e per il
fatto di
essere, fino a poco tempo fa, la città caposaldo del
comunismo
italiano, il Cardinale mostra di non avere sott'occhio le
statistiche della moralità pubblica in Italia.
Anche
tenendo presenti gli effetti dell'immigrazione
extracomunitaria e
omettendo lo spaccio e l'uso della droga, le pratiche
omosessuali,
le perversioni, la diffusione dell'Aids, la "vitalità" del
cosiddetto "popolo della notte", il Nord in genere, e in
particolare Milano (città dei due Borromeo), detengono ormai
il
primato della criminalità, tanto per quella individuale che
per
quella organizzata. Nello stesso campo Bologna, come segnala
la
cronaca, non scherza. In Emilia ebbero luogo le efferate vendette
politiche del "triangolo rosso" e a Milano si
manifestò il
primo eclatante episodio di criminalità organizzata del
dopoguerra (la banda Cavallero). Nella moralità
civile,
senza omettere lo spirito secessionista della "Lega Nord" che tanti
consenis elettorali convoglia in quelle regioni, non va dimenticato che
in fatto
di corruzione e clientelismo Lombardia ed Emilia viaggiano,
come
ha dimostrato "Tangentopoli" e le vicende legate alle "cooperative
rosse", sugli stessi standard se non peggiori di quelli della "Roma
ladrona" e delle sottosviluppate regioni del Sud.
Per quel che riguarda la pratica religiosa è poi notorio che
il
Nord, dove la Controriforma avrebbe dovuto agire «in
profondità», mostra ben più evidenti
segni di
abbandono che il Sud. Tuttora, nel Sud, insieme agli altri sacramenti e
soprattutto a quelli dell'iniziazione cristiana, l'istituto
del
matrimonio e della famiglia "tiene" e divorzi, matrimoni civili e
"unioni di fatto" segnano medie notevolmente più
basse che
al Nord. Così anche la natalità segna un indice
ancora
quasi doppio di quella del Nord. Per non parlare dell'aborto procurato,
vero discrimine non solo dell'abbandono della morale cristiana
ma
anche di quella naturale, che al Nord è praticato in numero
più che doppio che nel Sud. Ma se il Cardinale Biffi (che
forse
ha scritto queste cose in un empito di pastoralità capace di
chiudere gli occhi di fronte alle malefatte dei figli) non volesse
considerare quel che abbiamo detto nel testo sugli effetti della
Controriforma nel Sud d'Italia e non intendesse seguirci benevolmente
in questa storia, gli vorremmo rispettosamente ricordare un
recente e clamorosissimo frutto del Vangelo e della
religiosità "popolare" dei meridionali: il Beato Padre Pio
da
Pietrelcina. Ne converrà che sarebbe veramente arduo (ed
anche
un po' irreligioso, nel senso più ampio di religio) far
scaturire prodigiosamente, fuori dal contesto umano, morale, culturale
da cui è stato generato, un simile esempio di
virtù
eroica consacrato da Giovanni Paolo II, il 2 maggio 1999, con un atto
solenne di magistero di quella Chiesa di cui il Cardinale Biffi
è autorevole ministro. Padre Pio ha le caratteristiche piene
della meridionalità, l'estrazione popolare, la
cultura
contadina, la tenacia della tradizione ed il gusto delle usanze
domestiche, il fare rustico e burbero al limite della villania, il
dialetto nativo che non teme di farsi linguaggio, la fede semplice e
fiduciosa che nel magistero della Chiesa scavalca ogni evoluzione
culturale del tempo, la mentalità pratica che nel
più
puro misticismo pur si concreta in opere di carità
eminentemente
sociali (l'ospedale "Sollievo della sofferenza" da lui fondato a San
Giovanni Rotondo: uno dei più moderni ed avanzati centri
sanitari d'Europa). Un po' impertinentemente ritorna allora alla mente
quanto andava ripetendo negli anni scorsi il prof. Gianfranco
Miglio, per venticinque anni docente di Scienza della politica
dell'Università Cattolica di Milano e ideologo della
nascente Lega Nord, circa l'irrimediabile diversità
fra il
Nord e il Sud d'Italia. Il non sprovveduto anche se spesso provocatorio
studioso sosteneva l'impossibilità di
un'omologazione
nazionale fra i settentrionali imbevuti «ormai» di
spirito
calvinista ed i meridionali rimasti «ancora» ad una
mentalità tridentina.
26 L'usanza di famiglie popolane già cariche di
figli di
adottare un trovatello, «il figlio della Madonna»,
è
sopravvissuta fino ai tempi nostri. Giuseppe Marotta, ne L'oro di
Napoli (1947) ce ne dà una vivida e commovente relazione nel
bozzetto omonimo.
27 Non pare vero agli storici moderni poter
attribuire alla
Chiesa qualsiasi presunto difetto di quel tempo. Anna Maria Rao,
docente di Storia moderna all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli, dopo aver attribuito alla «tutela papale»
la
debolezza dello Stato meridionale sul piano internazionale, ed una
«fiscalità esosa» (ma è noto
che la pressione
fiscale nel Regno di Napoli, dopo quella dello Stato Pontificio, in
epoca borbonica, era la più bassa dell'intera Europa, e che
il
censo feudale del Regno dovuto al Papa era divenuto meramente
simbolico: l'offerta della Chinea), incolpa la Chiesa anche
dell'assetto urbanistico della capitale, per «una presenza
edilizia che condizionava fortemente l'organizzazione dello spazio
urbano» [Anna Maria Rao, «Napoli borbonica
(17341860)», in AA.VV., Regno delle Due Sicilie (6 tomi),
Tomo I,
Real Città di Napoli, Collana "Antichi Stati" diretta da
Gianni
Guadalupi, Franco Maria Ricci, Milano 1996, p.19]. Naturalmente
l'insigne professoressa non ci spiega in base a quale criterio, ed
eventualmente di quale urbanista, possa definirsi ideale uno spazio
urbano (quello della città ellenistica facente centro
sull'acropoli? quello della città romana imperniata sul
foro?
quello del borgo medievale facente ruota al castello baronale o della
città con al centro la cattedrale o il palazzo civico? o,
saltando molti secoli, quello delle metropoli moderne strutturate sulla
base del traffico automobilistico?). Napoli, come tutte le grandi
città europee, fu una città "policentrica" che
assommava
tutte le caratteristiche degli antichi insediamenti e lo spontaneismo
del continuo inurbamento della gente rurale. Gli interventi dei governi
avevano risposto, di dinastia in dinastia, alle esigenze del loro tempo
ma, a differenza di altri regni, in epoca vicereale, era stata posta
attenzione anche all'urbanistica "popolare" come dimostrano le opere
Don Pedro de Toledo e il "piano regolatore" dei Quartieri Spagnoli, pur
nei limiti delle conoscenze sanitarie e igieniche del tempo.
Ma, posto che l'edilizia religiosa (chiese, conventi, opere
caritative), a Napoli come altrove nel vecchio continente, restano il
patrimonio più considerevole sia dal punto di vista
artisticoculturale che paesaggistico di metropoli deflorate
prima
dalla megalomania livellatrice dei postrivoluzionari e poi da
un'incontenibile crescita della motorizzazione, e comunque l'unica
parte godibile delle antiche città europee, la
professoressa Rao dovrebbe render conto ai suoi lettori di questa sua
successiva affermazione: «Non a caso si guardava [Chi, di
grazia?
ndr] ad altre capitali europee, a Parigi, ad Amsterdam, Londra oppure
Torino, rinnovata secondo un piano preciso che a Napoli, cresciuta
disordinatamente all'interno delle vecchie mura, mancava del
tutto» (p.25).
Altrettanto notorio, come per la fiscalità, dovrebbe essere
che
Parigi, con le sue "corti dei miracoli", costituiva la più
disordinata, intricata e disorganizzata fra le grandi città
d'Europa e che assunse l'attuale aspetto (alquanto cimiteriale)
grazie alle spianate celebrative di Napoleone e alla
demolizione
di interi quartieri per far posto ai boulevard, progettati con l'unico
scopo di evitare per il futuro i disordini popolari e le barricate
rivoluzionarie che l'impero non poteva più
ammettere dopo
l'instaurazione del nuovo ordine. In quanto ad Amsterdam,
cresciuta lungo i canali dell'Amstel, non risulta che abbia
mai
soggiaciuto a progetti urbanistici prima della febbre da
edilizia
"futuribile" di questi ultimi anni, e dell'indiscriminata
pedonalizzazione del suo centro. Londra poi, con i suoi angiporti
umidi, sordidi e fumosi, fino all'epoca vittoriana rimase l'esempio,
anche per i suoi scrittori, di quanto di più innaturale,
opprimente e disumano una città potesse costituire. Chiamare
in
causa Torino sembra poi azzardato quando si considerano le proporzioni
della capitale di un ducato, che non superò mai i
sessantamila
abitanti, con quelle della seconda o terza megalopoli d'Europa
(seicentomila abitanti già in epoca ferdinandea). Azzardato
anche a causa della struttura quadrata, rettilinea, a scacchiera che la
città pedemontana si portava in eredità dal
castrum
dell'Augusta Taurinorum romana. Ultimo, ma non meno ininfluente,
è ricordare che le quattro città citate dalla
Rao, oltre
ad essere gli epicentri della rivoluzione giacobina e liberale, sono
tutte città di pianura dove sarebbe stato
certamente
più agevole, a parte i corsi dei fiumi e dei canali,
progettare
assetti urbanistici. Napoli, nella sua conca scoscesa verso il
golfo, avara di spianate, costituiva, prima di ogni altra
considerazione, un sito paesaggistico e panoramico dove ogni
più vasta progettazione sulla carta avrebbe costituito una
profanazione ed uno scempio. Rimproverare chi la governò di
non
essersi adeguato alle geometriche, utopistiche, vandaliche
"mode"
continentali vale quanto rimproverare ai dogi di non aver saputo far
meglio di quel ghiribizzo urbanistico di Venezia.
Per finire, dopo i piani regolatori vicereali, dopo quelli carolini e
ferdinandei (si pensi solo alla Riviera di Chiaia e ai suoi quartieri
"alti" che salgono dietro San Francesco di Paola e Largo di Palazzo,
che si avvalevano delle progettazioni non di velleitari sconosciuti
topografi ma di architetti del calibro del Fuga, dei Vanvitelli, del
Collecini), nell'Ottocento, Ferdinando II, dopo i suoi antecessori,
diede ancora il via ad un grande progetto urbanistico che non solo si
preoccupava di collegare razionalmente i vari quartieri della
città ma anche di evitare ogni abusivismo ed ogni
deturpazione
del paesaggio. Il progetto di quello che oggi si chiama Corso Vittorio
Emanuele II, e che fu Corso Maria Teresa, passando a mezza costa da un
capo all'altro della città, proibiva l'edificazione ad
un'altezza maggiore di quella che avrebbe impedito ai palazzi delle
file successive di guardare liberamente il golfo. Il nuovo
ordine
sabaudo lasciò incompiuto il progetto di Ferdinando II e
preferì, coi governi successivi dedicarsi al faraonico piano
degli "sventramenti" (mai un termine da beccheria fu così
appropriato) che, oltre ad una dimostrazione di onnipotenza
del
nuovo Stato e del suo allineamento parvenu all'ideologia transalpina e
mitteleuropea e senza nemmeno le esigenze di "tutelare" l'ordine
pubblico o di adeguarsi all'allora irrilevante problema del traffico,
con il "Rettifilo" affettava, disossava, tritava, riduceva in
frattaglie chiese, palazzi, monumenti, quartieri della parte
più
antica e popolosa di Napoli, laPalepoli.
Lo stesso "spiritoguida" (e in più grande stile per
rispettare
la simbologia di tutta l'Unità) soppresse la
città dei
papi tracciando con riga e compasso i vialoni d'incongruo aspetto
torinese che smembravano Trastevere e Ripa, i corsi che sminuzzavano
Campo Marzio, Parione, Regola e la Suburra, i quartieri per i nuovi
burocrati sui prati della riva vaticana che spaziavano fino ai monti
Cimini, a pianta arzigogolatamente framassonica, avente come unico
criterio quello d'essere ostinatamente allineati non secondo la rosa
dei venti o l'insolazione ma in maniera da nascondere la cupola di San
Pietro, i lungotevere che trasformarono la "città
fluviale"
in città ministeriale e il biondo Tevere ricco di mulini,
pescatori, barcaioli, in un morto canale incassandolo fra muraglioni di
venti metri che, prima che argini contro le piene, erano le
pastoie di uno stato che tutto, compresi i fiumi, doveva costringere
nei regolamenti della sua burocratica onnipotenza. Il primo ed
ancor insistente risultato dell'urbanistica sabauda fu di espropriare
migliaia di romani dei loro quartieri confinandoli nelle borgate
mentre il Campidoglio michelangiolesco diventava la spalliera
di
quell'immane colosso biancosplendente (una macchina da
scrivere?
una dentiera? ogni aggettivo, da kitsch a pacchiano,
è
riduttivo ma l'importante era superare quell’Arcdetriomphe
repubblicano che, scrivono fiere le guide parigine,
«è
grande venti volte l'Arco di Tito»), con quell'"Altare della
patria" che celebrava, con tanto di vittima sacrificale (il "Milite
ignoto") la sacralità pagana del nuovo Stato
fondato su una
sovranità (quella del "Padre della patria Vittorio Emanuele
II")
non più per «grazia di Dio» ma solo e
titanicamente
«per volontà della nazione».
28 L'immagine largamente corrente di un clero o addirittura di monaci e
frati gozzoviglianti, sensuali, donnaioli, detentori di favolose
ricchezze è un'invenzione della rivoluzione
francese e
dell'anticlericalismo ottocentesco. Prima di quel tempo, dopo la
decadenza romana, questo genere praticamente non esisteva a parte le
composizioni goliardiche medievali travasate poi nelle novelle del
Boccaccio o nelle iperboliche sconcerie del Gargantua e Pantagruele di
Rabelais di cui fu gustosissimo epigono il Balzac de Les contes
drolatiques. Era quasi ovvio che quel genere, letterariamente
molto circoscritto, pescasse nel mondo studentesco, abbastanza
scapestrato anche allora, quasi completamente formato da chierici.
Erano costoro, nel medioevo, allievi delle scolæ
ecclesiastiche
(oltre qualche privilegiato discepolo di precettori privati)
pressoché gli unici ad avere un grado di alfabetizzazione
sufficiente ad accedere
all'università. Gli ordini minori erano quindi una specie di
diploma scolastico e nella grande maggioranza non si
risolvevano
poi in un'ordinazione sacerdotale. Il tirocinio ecclesiastico,
peraltro, dava accesso, già con la Tonsura, al godimento di
eventuali "benefici laicali", quei fidecommessi che
destinavano
una rendita fondata dalle famiglie abbienti ai figli "in
sacris".
Spesso, specie nel caso di premorienza del genitore, gli
ordini
minori davano espediente a chi non avesse una soda vocazione a non
continuare nel suo tirocinio e a vivere da laico anche, eventualmente,
ammogliandosi. Si spiega anche, così, il titolo di Abate
attribuito indiscriminatamente, specie nel Settecento, anche a
quei "figli di papà", colti e oziosi che sopravvivevano
grazie
all'istituto dell’Abatia nullius. Un caso celebre ed
emblematico è quello dell'Abate Giacomo Casanova
noto non
certo per le sue prodezze ascetiche.
29 Salvo rarissime eccezioni (ma anche queste spesso inclinate alla
decadenza e alla corruzione), case reali e nobiltà non
danno,
oggi, che un miserando spettacolo di se sulla cronaca mondana
e in
quella scandalistica. Com'è stato per il popolo meridionale
che
ha finito sovente per combaciare con l'immagine che se ne facevano i
conquistatori rivoluzionari e i piemontesi, così la
nobiltà si è adattata a quel che la
società
democratica ed ugualitaria ne pensa. L'immagine pariniana del nobile
altero, svagato e nullafacente non corrisponde a quella del
nobile
meridionale (e del nobile antico in generale) impegnato
nell'amministrazione del suo patrimonio e nella conduzione della sua
famiglia allargata fino agli sguatteri, ai braccianti, ai garzoni e
finanche ai mendicanti che bussavano alla porta dei clientes. Nessuno,
a meno di voler passare per populista, osa identificare la
laboriosità con il lavoro manuale. Posto comunque che la
nobiltà terriera e civica raramente poteva permettersi un
tenore
di vita dispendioso e che solo quegli aristocratici che
avevano
cariche importanti a corte e nella vita pubblica facevano vita mondana,
con ricevimenti e feste anche memorabili (cose che oggi sono
pacificamente ammesse come doveri del mestiere per qualsiasi Vip e
manager in nome delle relazioni sociali), la maggior parte della
nobiltà, fino all'ultimo resse al suo ruolo di modello della
comunità. Secondo, dopo quello sovrano, nell'organizzazione
gerarchica della società civile, lo "stato nobile",
per
quel principio dell'analogia così scontato nel pensiero
della
Cristianità (ma ancora latente, sebbene pervertito, come
dimostra lo snobismo "borghese" e l'interesse popolare per le
fascinose e "misteriose" vicende dell'aristocrazia), e il modello della
famiglia nobile informavano quello del "terzo stato" a cominciare dai
ceti più abbienti (il "popolo grasso") per finire a quelli
più poveri (il "popolo basso").
L'apoteosi artistica di Dio e della Chiesa era imitata dai nobili come
apoteosi del ceppo familiare (l'albero genealogico) e di qui mutuata
dal nascente ceto "civile" che s'industriava di assumere dei nobili le
usanze domestiche
ed i comportamenti: il senso dell'onore, l'oculata
prodigalità, la prolifica generosità, la
struttura
patriarcale, la fedeltà alla Chiesa, l'affabilità
verso
le classi inferiori, il senso del decoro e della forma che spesso
sacrificava interessi più contingenti. L'imitazione, a tutti
i
livelli gerarchici della scala sociale, era orientata
ovviamente
dall'aspetto più esteriore ed appariscente. È ben
nota
per esempio la corsa, non solo della borghesia ma anche delle
classi più umili, ad inventarsi uno stemma o a millantare
gloriosi antenati. Solo con la lenta crescita morale gli uni e gli
altri acquisivano quelle reali caratteristiche archetipe che da tempo
immemorabile avevano consacrato le gerarchie. Così
come il
noviziato dei religiosi ammetteva il postulante alla conquista della
vera ricchezza interiore, era l'antichità della milizia al
servizio della comunità civile che infine stabiliva l'onore
della vera nobiltà. Se la capacità di devolvere
le
proprie ricchezze in favore dei poveri, secondo il dettato
cristiano, era la marca di autenticità del clero e dei
religiosi, quella di farle fruttare nello stesso senso senza trascurare
la famiglia, anzi allargandola generosamente, restava la
prerogativa della nobiltà. Un processo di lento e meditato
perfezionamento quindi, che garantiva la stabilità sociale e
che
il principio di autorità metteva al riparo delle perenni e
ricorrenti tentazioni dell'invidia umana.
L'accelerazione del ricambio sociale e lo scatenamento delle pulsioni
naturali messi in moto dalla riforma protestante insieme alla
corrosione del principio d'autorità fu preavvertita con
chiarezza dai padri del Concilio di Trento e fronteggiata
anche,
per quel che riguardava il "secondo stato", dalla massima
autorità nobiliare riconosciuta, l'Ordine di Malta.
Già alla fine del Cinquecento, su impulso della Lingua di
Castiglia, anche in Italia si dettavano norme più
restrittive per l'ammissione dei cavalieri escludendo coloro
che
non potessero dimostrare da almeno duecento anni che il loro
stato
non avesse origine da antenati che esercitassero la professione di
«notari, tabelliones aut mercatores». (Seri studi
su questo
argomento sono quelli patrocinati dall'École
Française de
Rome, fra i quali ricordiamo AA.VV., Les noblesses
européennes
au XDC siede, École Française de Rome &
Università di Milano, Roma 1988, e Angelantonio
Spagnoletti, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell Italia
moderna, École Française de Rome
&
Università degli Studi di Bari, Roma 1988. Di quest'ultimo
autore è interessante per gli spaccati di vita vissuta,
«L'incostanza delle umane cose». Il patriziato in
Terra di
Bari tra egemonia e crisi. XVIXVII secolo, Edizioni del Sud,
Bari
1981, anche se l'ottica generale è pesantemente influenzata
da
una critica di marca economicistica).
La parte più infima e marginale del popolo "basso", i
"lazzari"
di Napoli che, più genuinamente scaltri non si lasciavano
ingannare dagli orpelli e dal fasto, reputavano se stessi, al vertice
della scala sociale ritenendo di condividere, senza sforzo,
quell’«otium» (contemplazione delle cose
di Dio) che
i religiosi, il clero ed i nobili (ciascuno nella gradazione del
proprio stato)
ponevano a capo delle attività umane in opposizione al
«negotium» (impegno nelle cose del mondo) nel quale
si
affannavano, come la Marta del Vangelo, i rappresentati del popolo
"grasso". È da questa "regalità" del popolino,
minacciata
dal nuovo ordine e da una nobiltà traditrice
(almeno quella
che aveva abbracciato la causa rivoluzionaria) che essi istintivamente
non riconoscevano più come garante dell'ordine sociale, che
i
lazzari trassero lo spirito che li portò a battersi
strenuamente contro i conquistatori francesi e gli
intellettuali
della Repubblica napoletana a fianco del Re "loro pari".
È lo stesso apologo di Tomasi di Lampedusa che ne Il
Gattopardo
tratteggia la ribellione di Don Ciccio Tumeo, unico personaggio non
"gattopardesco" del romanzo, schierato con i Borboni contro l'avanzante
borghesia e lo stesso suo padrone che vede già decadere dal
suo
stato di antico aristocratico.
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