Eleaml - Nuovi Eleatici

Zenone di Elea Zenone di Elea (Biografia) Parmenide (Biografia) Gli Eleati (A. Lincei, 1892) Gli Eleati (Pilo Albertelli, 1939)

BIOGRAFIA UNIVERSALE ANTICA E MODERNA

OSSIA

STORIA PER ALFABETO DELLA VITA PUBLICA I PRIVATA DI TUTTE LE PERSONE

CHE SI DISTINSERO PER OPERE, AZIONI, TALENTI, VIRTÙ E DELITTI

OPERA AFFATTO NUOVA COMPILATA IN FRANCIA DA UNA SOCIETÀ DI DOTTI

ED ORA PER LA PRIMA VOLTA RECATA IN ITALIANO CON AGGIUNTE E CORREZIONI

VOLUME LXV

VENEZIA

PRESSO GIO. BATISTA MISSIAGLIA

MDCCCXXXI

DALIA TIPOGRAFIA DI G. MOLINARI

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ZENONE DI ELEA

ZENONE, chiamato ordinariamente Zenone Eleato per distinguerlo dal fondatore dello stoicismo (vedi l'artic. seguente), nacque ad Elea, colonia focese della Magna-Greria (1). Altri ne fanno padre Pirete (2), la maggior parte Teleutagora (3), poiché dal maggior numero delle testimonianze Pirete è considerato padre di Parmenide (4). Circa all'epoca del suo nascimento e sui tutta la di lui cronologia, la più precisa autorità che si abbia è l’introduzione del Parmenide di Platone, in cui Parmenide e Zenone sono rappresentati quando giugnevano ad Atene, Parmenide in età di 65 anni, e Zenone di 40 all'incirca. Né vuoisi causare l'autorità di Platone, coll'addurre i di lui numerosi anacronismi poiché Platone si permette, è vero, degli anacronismi, ma quando gli sono necessari, o quando sono inconcludenti: ma qui nulla havvi di ciò. Platone uopo n ui aveva di riferire l’età precisa di Parmenide e di Zenone, e l’errore sarebbe troppo positivo e troppo grave per riputarsi una semplice distrazione cronologica; sarebbe un vero inganno onninamente inammissibile. 

Si può dunque considerare la data fissata da Platone come una base sulla quale la critica deve appoggiarsi. Ora Zenone, giunto che fu in Atene in età di pressoché quarant'anni, vi rifulse di grande splendore durante la sua dimora, per relazione di Platone. Vi diede lezioni al fiore della gioventù ateniese: Plutarco altresì afferma ch’egli insegnò a Pericle la filosofia di Parmenide. Perciò tale epoca può essere considerata come la più brillante della sua vita, e per conseguenza ad essa può ottimamente riferirsi ciò che disse Diogene, che Zenone fiorì nella settantesima nona olimpiade; Suida disse nella settantesima ottava; Euschio lo pone con Eraclito nell'ottantesima. 

Ora un uomo che ha quasi quarant’anni verso la settantesima ottava o settantesima nona olimpiade, è nato verso la sessantesima ottava o sessantesima nona. Lo stesso calcolo varrebbe del pari a bene stabilire la cronologia di Parmenide. Se si fa cadere l'età di sessantacinque anni che Platone gli dà verso la settantesima nona olimpiade, egli sarà nato tra la sessagesima prima e la sessagesima seconda, vale a dire, nel nascere stesso d’Elea e nel primo stabilimento della colonia. Avrà potuto sentire Senofane, morto verso fa sessagesima sesta olimpiade, ed avrà potuto benissimo incominciare farsi celebre verso la sessagesima nona, come nota positivamente Diogene. 

La sua celebrità si sarà accresciuta e sviluppata dalla sessagesima nona alla settantesima ottava o settantesima nona, epoca nella quale giunse ad Atene in età di sessantacinque anni, coi capelli ornai tutti bianchi, dice Platone, e col sembiante d’una bella vecchiezza. Dopo la sua gite ad Atene la di lui celebrità non potè che mantenersi sino alla sua morte, il che spiega ciò che dice Euschio ch’egli fiorì con Empedocle nell’ottantesima olimpiade; la simultanea menzione d’Empedocle prova a bastanza che qui non si tratta del principio della riputazione di Parmenide, ma del suo più alto grado e del suo ultimo termine. Il solo obbietto è l’impossibilità che in tale ipotesi Socrate, nato nell’olimpiade settantesima settima, nel terzo anno abbia potuto prender parte alla conversazione descritta nel Parmenide, e la quale dovette succedere intorno alla settantesima nona olimpiade, vale a dire, quando Socrate aveva al più dieci anni. 

La giovane di lui immaginazione avrà potuto essere colpita dall'aspetto imponente del vecchio filosofo; ma come mai attribuirle, per quanto gli si supponga primaticcia, ad una parte dell’argomentazione del Parmenide? A ciò rispondiamo che in ciò appunto ricorre il genere di anacronismi che Platone pi permette e poteva permettersi. Siccome Platone si proponeva di far Conoscere la filosofia eleatica, era una buona ventura per lui di trovare ammessa e diffusa una tradizione ancor viva del viaggio e della dimora di Parmenide e di Zenone in Atene, tradizione che gli permetteva di mettere in iscena tali due chiari personaggi ad esporre da sé stessi a loro dottrina. D'altro canta, il punto fondamentale dei drammi di Platone era l’intervento di Socrate; e Socrate nella sua infanzia aveva veduto o potuto vedere Parmenide e Zenone. D'altro dunque non si trattava che di aggiugnerli alcuni anni di più, e di sostituire la prima giovinezza di lui all'infanzia, mutazione necessaria ma sufficiente per far che Socrate avesse una certa parte in quell'altra filosofica conversazione. 

L’anacronismo era poca cosa, ed era indispensabile, D'altronde niente era più facile che di mascherarlo sotto un’espressione incerta con doppio senso d'infanzia o di prima giovinezza, e tale alternativa v'ha precisamente nella frase sfrodra teo tanu neoj, usata da Platone nel Parmenide e nel Teetete. Ammessa tale sola ipotesi, ne risulta un calcolo che ha per sé la concordanza li tutte le altre testimonianze, che fissi e determina tutta la cronologia di Zenone e di Parmenide, si lega a quella di Senofane, stabilisce la connessione e il movimento della sciala d’Elea, e quindi illustra l'intiera storia di tale scuola. Si sporge allora tale metafisica tutta in apparenza tanto arbitraria, svilupparsi regolarmente, come sopra un piano anticipatamente fissato, sul quale si disegnano successivamente ed al tempo indicato, calle loro intime relazioni e necessarie differenze, i tre grandi nomini che costituiscono la scuola d’Elea. 

Fra l'olimpiade sessagesima prima e la sessagesima sesta, Senofane, Jonio di nascita, e che di recente aveva fermata stanza in mezzo alle colonie doriche e pitagoriche della Magna Grecia, immagina l'idea fondamentale della scuola Eleatica, e la lascia in retaggio, incerta ancora ma feconda e piena d'un avvenire, al suo successore Parmenide, il quale nato in Elea, non avendo respirata altra aria mai che quella della Magna Grecia, nutrito di buon'ora e penetrato dello spirito che ispirata aveva la vecchiezza di Senofane, toglie via dall’imperfetto complesso di cui eredita l’elemento empirico e joni, per isvilupparne con esclusiva l'elemento dorico, l'alta tendenza idealistica e pitagorica, ed imprime quindi nel sistema eleatico l'unità ed il rigore che nessun sistema può avere nel suo nascimento, l'innalza ai suo vero principio, lo spigne alle sue vere conseguenze, gli dà finalmente il suo carattere e la sua forma definitiva. Ciò accadeva verso la settantesima olimpiade, Zenone, nato ad Elea, intorno a tal epoca, trovando la scuola eleatica fondata e ridotta a compimento, non aveva più altro da fare se non che combattere per essa, divulgarla, e difenderla: tale sola patte gli rimaneva; ed egli l'ha mirabilmente sostenuta in ogni maniera. 

Si può dire che Senofane è il fondatore della scuola d'Elea; Parmenide il legislatore; Zenone, il soldato, l'eroe ed il martire. Tale punto di vista domina ad un tempo la vita di Zenone e lo sue opere; però che la vita e le opere d’un homo che appartiene veramente alla storia, esprimono la stessa idea e si legano allo stesso destino. Il destino di Zenone doveva essere tutto polemico. Da Ciò, net mondo esteriore, la forte Vita e là tragica fine del cittadino caldo di patria carità; e del mondo intellettuale, il personaggio laborioso di dialettico; gegone de aner gennatoianoj kai en filosofia en poleteia, Diogene, IX, 25. —Nato in Elea Verso la sessantesima-nona olimpiade con notabili vantaggi della persona (5), Zenone passò la prima parte della sua vita, a quanto sembra, nello studio della filosofia di Parmenide che l’amò qual padre (6), secondo gli uni, o più vivamente ancora, secondo gli altri (7). Tutti gli autori decantano il suo ardente amor patrio. 

La Grecia a que' tempi tendeva a francarsi dalla servitù 0 ad ottenere la libertà dentro e fuori. Da ogni parte si scuoterà il giogo dei Persiani, e si cercavano più libere istituzioni. 

La storia d’ogni colonia, e principalmente la storia di Elea, è avvolta in tenebre troppo dense per sapere ciò che allora si faceva in quel punto importante della Magna-Grecia. Soltanto vediamo che, fondata nella sessantesima prima olimpiade. Elea s'indirizzò a' suoi filosofi, a Parmenide, secondò Piota reo e Diogene, a Parmenide ed a Zenone, secondo Strabone, per statuirsi costituzione e leggi (8). Qual era la natura di tale legislazione? Inclinata ella terso Io spirito aristocratico delle istituzioni doriche, o, fedele alla sua origine focese, conservar Elea Io spirito jonio nell'ordinarsi a stato? Si va d'accordo a lodare tale legislazione senza descriverla, e Plutarco afferma che nel cominciare d'ogn’anno, i cittadini giuravano di non farvi nessun mutamento. 

La tradizione dice la stessa cosa delle leggi che Caronda diede a Reggio, e di quelle di varie altre città della Magna-Grecia. Se il fatto riferito da Plutarco è certo, darebbe a supporre che in Elea, come a Reggio, a Torio ed altrove, fossero accadute anteriori turbolenze, probabilmente cagionate dalla lotta dell'aristocrazia e dalle democrazia, lotta a cui si avrà tentato di dar termine fermando una legislazione temperata. Comunque sia, Zenone, pago d'aver contribuito a dare alla sua patria sagge istituzioni, non cercò di farvisi grande, e non volle altro potere che quello delle sue virtù e de' suoi talenti; Diogene attesta che disprezzava le grandezze (9) ugualmente che Eraclito, e si sa che il ionio Eraclito disprezzò tanto le grandezze, che rinunciò volontario alla podestà suprema. Ma i due filosofi erano animati da sentimenti assai diversi. 

Eraclito si ritrasse ad un tempo dal potere e dal consorzio degli uomini per darsi onninamente allo studio della natura. Zenone, conservandosi scevro d'ogni ambizione, mantenne la sua attività politica. Era anzi sensibilissimo all’opinione, e Diogene ne riferisce un suo motto il quale è prova che aveavi in lui un cuore umano ed una onorevole simpatia (10)

Amava troppo i suoi concittadini per non aver bisogno d’esserne amato. Elea non era, è vero, che una piccola città, ma i suoi cittadini erano onesti, e Zenone ne preferì sempre la modesta stanca alle magnificenze d’Atene (11), cui visitò solamente di tratto in tratto, ma che non ebbe forza di sedurlo né di fermarlo. In uno di tali rari (12) viaggi accompagnò Parmenide, ed in esso cade l'episodio della sua vita che forma il soggetto del Parmenide di Platone, brutto importante di tale viaggio fu di fur entrare la filosofia eleatica nel movimento generale della filosofia greca. Zenone insegnò la nuova filosofia a Pericle (13), e diede a Pitadoro ed a Gallia (14) lezioni ch’essi gli pagarono cento mine e, sebbene l’uso di far pagare per le sue lezioni abbia avuto comune coi sofisti, non bisogna vedere in ciò nulla di contrario alle modeste abitudini della sua vita ed al suo disinteresse. 

Platone è il primo che insegnò gratuitamente, prima perché gli ripugnava di far degenerare l'insegnamento della saggezza in una specie di professione mercantile; in secondo luogo per distinguere così maggiormente 1 insegnamento di Socrate ed il suo da quello dei sofisti, in fine per la ragione ch’era assai ricco, e poteva far a meno d’ogni salario, pancata quest'ultima ragione,! filosofi platonici avrebbero dovuto in seguito deviare dall'esempio del loro maestro, se gli Antonini non avessero fondalo in Atene publiche cattedre di filosofia platonica con un emolumento pagato dallo stato,o dotazioni annesse alla cattedra che permettevano ai professori (oi Dialogoi) d’ammaestrare gratuitamente. Tali dotazioni durarono fino al celebre decreto di Giustiniano, sotto il consolato di Decio, nel sesto secolo (15)

Olimpiodoro nel suo Comentario sul 1° Alcibiade comentando il passo sulle cento mine che Zenone fece pagare per le sue lezioni a Gallia ed a Pitadoro, quantunque sia platonico, si astiene dall’accusare Zenone, ed anzi lo difende, per questa ragione semplicissima che non si scorge perché la filosofia non debba essere alla stessa condizione della medicina e delle altre arti, e debba istruire gli uomini senza ottenere al par di quelle una ricompensa delle sue cure (16)

Altronde l’intera sua vita difende Zenone dalia taccia di cupidigia. Si può vedere nel Parmenide l’effetto che produssero in Atene gli stranieri d’Elea, e la dottrina dell’unità assoluta. Si comprende che le obiezioni e le baie non faranno mancale per parte dell'empirismo ionio, la sola dottrina filosofica fin allora conosciuta ed accreditata in Atene. Zenone, incaricato da Parmenide di sostenere la discussione, invece di starsene sulle altezze dell'idealismo, scese sul terreno stesso dell'empirismo, e torcendo contra l’empirismo le sue proprie obiezioni ed i suoi scherzi, lo costrinse a riconoscere che non è più facile di spiegare tutto con la pluralità sola che con l’unità assoluta. Tale polemica d’un genere affatto nuovo, sconcertò interamente i partigiani della filosofia ionia, ed eccitò una viva curiosità ed un’alta stima per k dottrine italiche; in tale guisa fu posto nella metropoli della civiltà greci, con un elemento nuovo ed un nuovo dato filosofico, il germe fecondo d'un incremento superiore. 

Zenone con la sua dialettica sottile ed audace apparve agli Ateniesi come una specie di Palamede in fatto di discussione filosofica (17). Reduce in Elea, e qui ogni data precisa ci abbandona, il suo amor patrio porse alla sua energia l'occasione di spiegarsi sopra un più vasto teatro. Tutti gli storici attestano che Elea essendo caduta, è impossibile di saper come, sotto il giogo d’un tiranno, chiamato Nearco o Diomedone o Demilo, Zenone intraprese di liberarla: Ch'egli soggiacque, e perì in un orribile supplizio in cui mostrò un carattere eroico. E tale la sostanza del racconto degli storici; ma innumerevoli sotto le varianti. 

Il fatto è tanto importante in se stesso e tanto onorevole alla filosofia eleatica che ne sia concesso di esaminarlo in particolare. Cicerone (18) lo riferisce in un modo troppo generale. Plutarco lo sviluppa maggiormente (19): “Zenone, l’amico di Parmenide, avendo cospirato contro Demilo, e fallitogli il disegno, rese testimonianza con le tue azioni all’eccellenza della dottrina del suo maestro, e provò che un’anima forte niuna cosa teme tranne il disonesto, e che il dolore non fa paura ad altri che a fanciulli ed a femmine o uomini che hanno un cuore di femmina. Di fatto, egli si troncò la lingua coi denti ne la sputò in viso al tiranno.” Riferisce la stessa cosa altrove (20): e ne le Contraddizioni degli stoici (21), facendo allusione alla disgrazia di Zenone ricorda il nome del tiranno Demilo.

Il racconto di Diogene e ancor più particolarizzato di quello di Plutarco, e posa su diverse autorità gravi (22): “Zenone avendo intrapreso di rovesciare il tiranno Nearco, altri dicono Diomedone, fu preso, come dice Eraclide nel compendio di Satiro. Interrogato intorno a' suoi complici, ed alle armi che aveva trasportate a Lipara, nominò tutti i partigiani del tiranno, al fine di privarlo de' suoi appoggi. Indi, fingendo d'avere a dirgli alcun segreto, gli morse un orecchio e non lo lasciò che dopo di essere stato trafitto da dardi, seguendo l’esempio d'Aristogitone il tirannicida. Demetrio, negli Omonimi, dice che gli morse il naso.

Antistene, ne’ suoi Aialogai, racconta che quand'ebbe denunciato i partigiani del tiranno, domandogli questi se aveva altri a denunciare, e quegli rispose: “Te, flagello della mia patria!” e, volgendosi ai circostanti: “Ammiro, disse loro, la vostra viltà, se, per timore di ciò ch’io offro, acconsentite ad essere schiavi. Da ultimo si troncò la lingua coi denti, e la sputò in faccia al tiranno. Allora i cittadini si scagliarono addosso al tiranno e l’ammazzarono. Ecco quanto dicono con dipresso i più degli autori; ma Ermippo afferma che Zenone fu gettato in un mortaio e pestato”. Diodoro Siculo (23) dice positivamente che il tiranno di cui si parla, era un tiranno d'Elea, la qual essa dico anello Suida (24), combina appuntino col racconto di Diogene; però, che per liberare Elea che è litorale, natural partito era quello d’assicurarsi di Lipara che è quasi dirimpetto, e donde si può rapidamente sbarcare in Elea. 

Non è dunque affatto necessario di supporre con alcuni critici, che si tratta d’un tiranno di Lipara che Zenone abbia voluto assalire (25), ancora metto con Valerio Massimo, del tiranno d'Agrigento, Falaride (26), 0 meno ancora con Filostrato (27), d’un tiranno di Misia. Non bisogna fare di Zenone un avventuriere politico, ma uno sviscerato amatore della patria. Diodoro chiama il tiranno di Elea Nenrco, ugualmente che Filostrato; Clemente Alessandrino lo chiama Nearco o Demilo (28); Suida (29) che ha copiato Diogene, Nearco o Diomedone. Diodoro, nel suo racconto, aggiunge alcune particolarità ch'è impossibile di passare in silenzio. Nearco domandando a Zenone quali erano i suoi complici: “Piacesse a Dio, rispose Zenone, che io avessi il corpo così libero come la lingua”. Diogene dice che Zenone non mollò l’orecchio del tiranno che a furia di percosse; Diodoro pretende anzi che si dovette pregamelo. Ma ciò che v’ha di più notabile nel racconto di Diodoro, è che le ultime righe sembrano far intendere che Zenone fu liberato e che si trasse d’impaccio, cosa che le ultime righe della narrazione di Diogene ammetterebbero pure senza però indicarlo.

Menagio appoggiato a Diogene, e Bayle hanno notati e spiegati gli errori degli scrittori inferiori i quali raccontando tale storia ne hanno cori' fuso gli eroi, il tempo e la scena. Per esempio, Tertulliano, nell’Apologetico, fa domandare da Dionigi a Zenone d’Elea, che cosa insegna la filosofìa? Questi risponde: il disprezzo della morte. Dietro di che è straziato da orribili supplizii e suggella la sua opinione col proprio sangue. Questo è un mero romanzo, o Dionisio sta evidentemente invece di Demilo o Nearco. 


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Ammiano Marcellino (30) attribuisce tale avventura a Zenone lo stoico, 0 fa del tiranno d'Elea un re di Cipro, evidentemente ciò pure per una fallace interpretazione della frase di Cicerone, che a lato della morte di Zenone d'Elea, cita quella d'Anassarco che avvenne per ordino d’un re di Cipro. In generale la storia d’Anassarco e quella di Zenone sono state confuse, e per compiere la confusione, Seneca (31) attribuisce ad ano dei cospiratori ateniesi contro Ippia, probabilmente Aristogitone, una parte delle cose che soglionsi ascrivere a Zenone d'Elea. Dal complesso di tali fatti ridotti dalla critica e prezzati al loro giusto valore, ma raffrontati e combinati in ciò che hanno di certo, risalta il carattere che avevamo dinotato in Zenone, come uomo e come cittadino, e che ora ritroveremo e considereremo nel filosofò. Di fatto, qual è il tratto più caratteristico è più originale di Zenone come filosofo? 

Qual è il titolo incontrastabile a cui è associato il Suo nome? Evidentemente l’invenzione della. dialettica. Ed io non parlo qui della dialettica che si trovava già ne' saggi di Senofane, e che non è mancata tampoco a Parmenide; intendo la dialettica considerata come un’arte, con le sue regole e le sue ferme, con l'apparato e l'autorità d'un metodo positivo. 

Questo è un puoto sii cui tutti gli autori sono d’accordo. Diogene riferisce (32) sulla fede di Aristotile, che Zenone e l'inventore della dialettica, come Empedocle della rettorica. Sesto (33) ripete la stessa cosa sull'autorità dello stesso Aristotile, e sembra che tale fatto fosse cosa conosciuta per certa nell'antichità, poiché nella sua introduzione (34) Diogene, trattando delle tre grandi parti della filosofia, la fisica, la morale e la dialettica attribuisce l’invenzione di quest'ultima a Zenone. Ma qual ora la dialettica di Zenone? la confutazione dell'errore come mezzo indiretto di ricondurre alla verità. Ora la verità per Zenone era il sistema eleatico.

Tale sistema era già stato scoperto da Senofane, sviluppato e recato a compimento da Parmenide, né si trattava più che di difenderlo dalle aggressioni de' suoi avversari. Quindi la parte polemica che sostenne Zenone, e l'invenzione necessaria della dialettica. Quindi pure l'uso necessario della prosa] però che se deh l'intuizione spontanea della verità, dell’inspirazione, ed ogni convinzione primitiva è lingua naturale la poesia, la prosa è lo stromento necessario della riflessione e della dialettica. Laonde Zenone è il primo filosofo eleatico che abbia scritto in prosa. 

L’antichità attesta ch’egli scrisse, non poemi, come Senofane e Parmenide, ma trattati, e trattati d'un carattere eminentemente prosaico, vale a dire, confutazioni. Scrisse per tempo (35), e scrisse molto (36). Diogene che loda i suoi scritti (37) non li nomina. Ma Suida, all'articolo Zenone, afferma che scrisse 1.° Eridaj, discussioni, vale dire, un esame di certe ipotesi ch'egli confutava opponendole a loro stesse; 2.° Exhghsin tou Empedokleouj, un'esposizione (probabilmente critica) d’Empedocle, delle sue opinioni e delle sue opere (38); 3.° "Prij touj filosofouj peri fuseoj contro i filosofi che hanno scritto sulla natura (39)

Altronde Suida non dice nulla sulla forma di tali diverse opere. Sarebbe naturale che l'inventore della dialettica avesse inventato o almeno impiegato la forma dialogistica che è la forma stessa della confutazione. E, di fatto, secondo Diogene (40), Zenone era reputato il primo che avesse scritto dialoghi, e si potrebbe arguire altresì che abbia impiegato tale forma di composizione, da una frase d'Aristotile (41), in cui si parla di Zenone come d’uomo che interroga e risponde. Comunque sia (42), se noi non conosciamo con certezza la forma de' suoi scritti, possiamo farci un'idea chiarissima del loro scopo, del loro metodo e della loro disposizione generale, dall’introduzione del Parmenide, in cui Platone ci dà un esposto sostanziale, ma preciso d'un libro di Zenone, destinato a difendere la filosofia del suo maestro.

Tale libro era una composizione in prosa (43) divisa in vari capitoli, suddivisi anch'essi in vari punti; però che Socrate prega Zenone di rileggere il primo punto del primo capitolo, ten proten υπόθεσιν του πρώτου λόγου. La parola υπόθεσιν rivela la natura della composizione, e Proclo, nella Teologia di Platone, e nel Comentario sul Parmenide (44), non lascia Verun dubbio in tale proposito. Era desta una rassegna critica d’un certo numero d’ipotesi le quali tutte erano successivamente spinte all'assurdo. 

Forse anche era l’opera intitolata Eridaj di cui parla Suida. Per ben comprenderne il senso, bisogna ricordarsi lo stato della contesa nella quale interveniva Zenone, Parmenide, continuando e sviluppando Senofane, aveva detto che tutto è uno, e che l’unità sola esiste. Un grido erasi alzato contro tale proposizione. Se tutto è uno, dicevano i Jonj, non v’è più differenza: il simile è il dissimile, ed il dissimile è il simile; il grande è il piccolo, il piccolo è il grande; il moto è la quiete e la quiete il moto, ecc. Non era facilissimo di rispondere a tale obiezione. Che fece Zenone?

Invece di difendere il suo maestro, assali i suoi avversari, rimandò loro i loro propri argomenti, ed il ridicolo delle loro conseguenze. Supplicò a dimostrare che tutte le difficoltà che i partigiani della pluralità mettevano in campo contra l'unità ricadevano au loro stessi, e che nella loro ipotesi medesima il dissimile è il simile, ecc. Ascoltiamo Platone: “Gli scritti di Zenone, ei dice, erano una difesa della dottrina di n Parmenide contra quelli che la m combattevano col ridicolo delle conseguenze, come, per esempio, vi che se tutto è uno, ne risulta una quantità d’assurdi e di contraddizioni. 

Lo scritto di Zenone rispondeva ai partigiani della pluralità, faceva loro precisamente le n stesse obiezioni ed in maggior n numero ancora, in modo da mostrare che l’ipotesi della pluralità n dà adito ancora più al ridicolo, n che quella dell'unità, se alca no n l'esamina come conviene (45)… In tale guisa il maestro ne' suoi n poemi stabiliva l'unità, ed il discepolo, ne’ suoi trattati in prosa studiavasi di provare che la pluralità non esiste (46)”. Questi due passi contengono tutto il segreto della dialettica di Zenone; essi dimostrano che Zenone si era collocato espressamente nell'ipotesi della pluralità per meglio combatterla, spingendola alle sue necessarie conseguenze. 

Per non aver bene compreso lo scopo cui si proponeva la posizione nella quale si era messo, gli si è attribuita una quantità d’opinioni ridicole che non gli sono proprie in nessuna guisa. Lunge d’appartenergli, sono conseguenze che deduce dalla dottrina della pluralità per convincerla di contraddizione e d’assurdi. Si sono attribuita a Zenone precisamente le stravaganze ch'egli imputava ai suoi avversari e sotto le quali ai gli opprimeva. Si è immaginato, per esempio, che Zenone sostenesse per suo proprio conto che il simile ed il dissimile sono la stessa cosa, che il moto è la stessa cosa che la quiete, ecc., quando egli sosteneva che tali conseguenze derivano rigorosamente dalia dottrina della pluralità, e che perciò appunto ella è dottrina inammissibile. 

“Voi pretendete, egli diceva agli empirici jonii, che non esiste se non se quello che i sensi vi attestano, che quindi la pluralità solo esiste; e voi cantate vittoria nell’enumerazione delle differenze che opponete alla dottrina dell’unità assoluta; cantate vittoria soprattutto pel moto universale che opponete all’immobilità assoluta, risultante dall'unità assoluta di Parmenide. Ma io vi piglio coi vostri propri argomenti, e vi dimostro che se tutto differisce, tutto si rassomiglia, che se tutto si muove, tutto è in quiete, che quindi col vostro sistema medesimo arrivate a conseguenze opposte al vostro proprio sistema”. 

L’empirismo è dunque dannato alla contraddizione, ad una contraddizione perpetua. Tale contraddizione è il vostro mondo, il mondo della pluralità e dell'apparenza che i sensi vi attestano, e che opinione volgare ammette. Non bisogna credere che alla ragione, non ai sensi ed all'opinione. Ora la ragione condanna la pluralità alla stravaganza; dunque la pluralità non è. Non obiettate che nel sistema dell’unità assoluta, il dissimile pure diventa il simile, il moto la quiete, ec.; però che il nostro sistema non cade sotto simili obiezioni, tali obiezioni derivando soltanto dalla vostra ipotesi delta diversità, del moto, della pluralità e del mondo visibile, e tale ipotesi è stata convinta d’assurdo e di contraddizione. Le obiezioni che presentate contra la nostra teoria, dal seno d’una teoria distrutta, non reggono adunque. 

La ragione non ammette altra autorità che la sua, e la ragione non esiste per sé stessa non si esercita e non si sviluppa, non comprende o non concepisce che sotto la condizione dell’unità; nulla di ciò che la ragione concepisce è privo d'unità. La ragione non ha in ultima analisi altro che l’unità per forma e per oggetto; l’unità è la ragione, il mondo della ragione, il solo mondo cui pensatori e filosofi possano immettere. Dunque, la dottrina dell’unità assoluta di Parmenide è la sola vera filosofia. 

Dall’alto di tale punto di veduta bisogna considerare e prezzare la dialettica di Zenone, il suo preteso scetticismo, l’asserito suo nichilismo ed in particolare la sua polemica contra il moto che è stata sì poco compresa. Considerata così, tale polemica assume un carattere nitido, semplice e grande che è sfuggito d’occhio a tutti i critici. — Togliete l’unità, non la supponete mai, nulla è unito, nulla può esserlo, tutto è isolato e necessariamente isolato nel tempo come nello spazio; l’uno e l’altro si riducono a punti ed a momenti che tendono anch’essi a dividersi ed a suddividersi continuamente, La sola legge che sussiste è quella della divisibilità all’infinito, che distrugge ogni continuo, e quindi ogni moto. In queste senso bisogna intendere gli argomenti coi quali Zenone stabiliva l'impossibilità del moto. Fin qui sono stati assai bene esposti e sviluppati in sé stessi; non si è dimenticato che il quadro che li mette nel loro vero punto di veduta, cioè, l’ipotesi con esclusiva della pluralità, vale dire la negazione assoluta dell'unità, la quale trae seco la divisibilità all'infinito, la quale trae seco la distrazione d’ogni continuo. 

Ecco in compendio tali argomenti, quali Aristotile ce gli ha conservati: I. argomento. Il moto impossibile, perché ciò che è in moto dee traversare il mezzo prima di arrivare alla meta (il che è impossibile là dove non havvi pili continuo, e dove ogni punto si divide all’infinito); II argomento. Questo era l'argomento celebre chiamato Achille, col quale si prova che ciò che corre più presto non può mai raggiungere ciò che va più lentamente. Diogene (47) dice che Zenone è l’inventore di tale argomento; ma conviene che Favorino l’attribuisce a Parmenide ed a parecchi altri. Noi ci varremo qui delle parole di Bayle: Supponiamo una tartaruga venti passi dinanzi ad Achille; limitiamo la celerità della tartaruga e di quell’eroe, alla proporzione d’uno a venti. Intanto che Achille farà venti passi, la tartaruga ne farà uno; ella sarà dunque ancora più avanzata di lui. Intanto ch’egli farà il ventesimo primo, ella guadagnerà la ventesima parte del vedutismo secondo passo, e mentre egli guadagnerà questa ventesima parte, ella trascorrerà la ventesima parte della ventesima parte del ventesimo secondo passo, e cosi di seguito. Ili argomento. Quello della freccia che è in riposo quando ella è in moto; Di fatto, tutto ciò che è iti moto lo è in uno spazio che gli è uguale, vale dire; in cui è nel momento in cui vi è. Ora, si è sempre là dove si è, e non v’ha momento in cui non vi si sia. La freccia è dunque sempre in riposo, però che non è mai dove non è. IV argomento; Tale argomento tendeva a mostrare le contraddizioni del moto e gli assurdi (reali o apparenti) ai quali esso conduce; Supponete due corpi uguali fra loro, mossi in un dato spazio ed in una direzione opposta e con la stessa celerità; supponete che uno parta dall’estremità del dato Spazio, l'altro dal mezzo: l’uno non avrà trascorso altro che la metà del dato spazio, quando l’altro l’avrà interamente finito; dunque lo stesso Spazio è trascorso da due corpi eguali e d'uguale celerità iti un tempo disuguale, di modo che una metà di tempo sembra uguale al doppio. 

Aristotile che ci ha conservato i prefati quattro argomenti nella sua Fisica, VI, e Simplicio, nel suo Comento, gli attribuiscono positiva' mente a Zenone, e li danno sotto il nome d'Aporiai, dubbi, argomenti negativi di Zenone contra il moto, sia, come dice Simplicio, che tutti gli argomenti di Zenone Contra il moto si riducano realmente a quattro, sia che ve né avesse di più, ma quattro soprattutto più decisivi degli altri. Ma questi argomenti nonerano i soli di cui facessero uso gli avversari del moto; Aristotile nello stesso luogo ne cita parecchi altri; per esempio, questo: Ogni moto è mutamento; ora, mutare è non essere né ciò che si era, né ciò che si sarà; non si è più dove si era; diversamente non vi sarebbe stato moto; non si è dove si tende, però che non vi sarebbe uopo di moto. 

Il mutamento ed il moto non possono dunque aver effetto né in ciò che si era né in ciò che si sarà, né nell'uno né nell’altro, ma in ciò che noti è né l’uno né l'altro, vale dire il nulla, il che è impossibile; quindi il mutamento ed il moto sono impossibili. Un argomento curioso è pur quello col quale si cercava di dimostrate che il moto circolate e sferico ed il moto sopra sé stesso implicano ad un tempo il moto e la quiete. A chi appartenevano tali argomenti? Aristotile, e dopo in Simplicio, li riferiscono in generale ai sofisti. 

Non si ha veruna ragione di attribuirli a Zenone; essi appartengono probabilissimamente all’eristica megarica ancora si poco conosciuta, che ha da ultimo rappresentato e continuato sola in Grecia la dialettica della scuola d'Elea. Bisogna ben guardarsi di confonderli coi quattro argomenti che abbiamo esposti, e che sono i soli cui la critica possa a buon dritto attribuire a Zenone. Bayle giubila di quattro argomenti, e li sostiene assolutamente; ma non sono buoni che relativamente, relativamente all’ipotesi con esclusiva della pluralità, contra la quale erano fatti. Ma data tale ipotesi, ci sembrano rigorosi, tranne alcune sottigliezze, ed il quarta forse eccettuato, che sembra impugnare il moto in ogni ipotesi, e che in tale caso, non è più che un sofisma, comi Eudemo aveva assai bene veduto, a riferimento di Simplicio, e quantunque cosa ne dica Bayle. 

Per valersene come di base, non necessario d'essere scettico; per lo contrario, si possono impiegare a confutare lo. scetticismo, a ristabilire l'unità, a dimostrare che la pluralità per sé sola è incapace di spiegare le cose, di dar conto della continuità dello spazio e del tempo, e della possibilità del moto. Dicono che udendo ripetere tali argomenti di Zenone, Diogene il Cinico, per sola risposta, si alzò e camminò. Ma Zenone avrebbe potato benissimo rispondere a Diogene: "Sia pure avvegnaché tu non hai sistema, e non neghi l'unità. Ma quando si è scettico in modo da negare l'unità, vale dire, la condizione assoluta di Ogni continuità, e dello spazio e del tempo, e quindi del moto, confessa essere una ridicola debolezza il non andare fino al termine della propria opinione, e credere, contra ogni criterio, al moto senza continuo e nella dissoluzione di tutte le cose all'infinito. 

Noi non conosciamo che un solo mezzo di rispondere a Zenone, cioè di ristabilire la continuità del tempo e dello spazio nell'unità; e di ammettere per la formazione del mondo l’intervento della unità, ugualmente che quella della pluralità, Ma l'accorto eleatico, tosta che, per sottrarsi a’ suoi argomenti, si avrebbe ammessa l’unità, prendendo di là le mosse, non avrebbe tardato a stabilire il dogma fondamentale del suo maestro, cioè, che la unità è indi visibile, quindi che esclude la pluralità, e quindi ancora il moto. Di fatto, il moto perisce ad un tempo nell’una e l'altra ipotesi d'una pluralità senza unità, o d'una unità senza pluralità. 


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La pluralità essa sola, severamente interrogata, non dà che la divisibilità all’infinito, senza alcuna congerie, senza alcuna totalità possibile; però che, addizione, congerie, totalità, sono cose tutte che l’idea presuppongono dell’unità; cosi è pure della più semplice successione, però che ogni successione è più o meno un complesso, una totalità, vale dire attinente all'unità. Per conseguente nell'ipotesi della pluralità, non continuità, non contiguità, non tempo, non spazio, nessuna relazione di punti o di momenti. Ciascun punto diventa up infinito di punti che si dissolvono e che si dissolvono infinitamente, ciascun momento un infinito di momenti che si dividono e si suddividono all'infinito; da ciò il vuoto assoluto ed in tale vuoto assoluto, l'assoluta dissoluzione d'ogni elemento componente, per piccolo che fosse, sia di tempo,sia di spazio; quindi non misura possibile del tempo, dove non v’ha più tempo, e nessun passaggio da un luogo all'altro, là dove non v’ha più spazio; quindi non moto.

Da un altro canto, supponete che l’unità non esca da sé stessa, e che rimanga indivisibile, ecco ristabilita la possibilità del tempo e dello spazio, e quindi del moto; ha possibilità, io dico, ma non la realtà; si ristabilisce lo spazio, ed il tempo assoluto senza tempo e senza spazio relativo e visibile: quindi senza misura, senza moto. Il tempo e lo spazio (in potentia non in actu) restano allora nell’eternità ed immensità, in una eternità senza successione, in una immensità senza forma, in una esistenza assoluta, vuota d'ogni esistenza positiva, in un'immobilità compiuta. Ecco dove conduce l’idea esclusiva dell'unità, o l'idea esclusiva della pluralità. Bisogna unirle, e fondere insieme la pluralità e l’unità per ottenere la realtà: tò en kai pollà. —

Aristotile, F., iv, 3, rapporta una obiezione di Zenone contro lo spazio, che mostra perfettamente lo spirito generale della sua dialettica, la quale consisteva a spingere i suoi avversari nell’abisso della divisibilità all'infinito, ed in una moltiplicità che si distruggerebbe da se stessa per la mancanza d’ogni unità. Diceva: “Lo spazio è il luogo dei corpi, ma in quale spazio è lo spazio medesimo?“ In un altro spazio; e questo in un altro ancora, e sempre cosi sino all'infinito, senza che si possa fermarsi logicamente, a meno che non si voglia uscire dalla pluralità per ammettere l’unità, vale a dire l’unità assoluta dello spazio. 

In questo senso l’argomento di Zenone ci sembra eccellente, e lungi d’andare contro lo spazio in sé, tende a stabilirlo stabilendo la alla condizione, cioè, l’unità. — Dobbiamo allo stesso Aristotile una frase intera di Zenone, che sembra fargli negare precisamente ciò che si era affaticato di stabilire, ed anzi di stabilire con esclusiva, cioè l’unità. Ma bisogna intendere ben diversamente tale frase importante. Lo ripetiamo, con la sola categoria della pluralità, non si può ottenere che quantità indefinite, senza addizione possibile, senza totalità; però che la totalità, che bisogna pure ben distinguere dall’unità in se stessa, è la relazione e l’applicazione dell’unità a quantità ch'esse aduna ed unisce in un tutto qualunque. 

Supponete lo spirito umano vuoto d’ogn’idea d’unità, o, ed è questo la stessa cosa concepita esteriormente,supponete la natura sprovveduta d’ogni forza assimilatrice, attrattiva e componente, non v’ha di possibile né una sola proposizione terminata e finita, né una sola cosa determinata. Ecco l’esistenza quale risulta rigorosamente dal sistema che esclude ogni idea d'unità.

Zenone dimostra facilmente che una tale esistenza, tò òn, non avendo nulla di fisso ed assoluto, somiglia ad una non esistenza, poiché per la divisibilià all’infinito, suo attributo essenziale, ella vi tende di continuo, tò òn mh òn. La gloria dell’unità è di non cadere in una simile esistenza. Da ciò la proposizione celebre: “Se l’unità è indivisibile, essa non è,” vale a dire, ella non è nel senso empirico della parola. Di fatto, essere, per l’empirismo, i sensi ed il volgo, “è essere una quantità, la quale aggiunta o levata, aumenta o diminuisce ciò a cui si leva o si aggiunge, vale a dire una quantità materiale; è tale l’ esistenza reale. La monade o l’unità non adempiendo tale condizione, non è (48).” 

Tal è il vero senso della frase di Zenone conservata da Aristotile, frase si spesso citata e si poco compresa. E’ evidente, che l’esistenza una volta ridotta all’esistenza materiale ed empirica degli Ionj, di cui l’attributo fondamentale è la divisibilità all’infinito, vale dire la tendenza al nulla, l’unità di cui ('attributo fondamentale è l’indivisibilità, non può esistere in tale maniera, al fine d’esistere della vera esistenza eleatica che non tende al nulla, ma che riposa immobile nel centro dell’esistenza assolute, senza principio come senza fine, agennhton kai aidion. La proposizione di Zenone contro la realtà empirica e materiale dell unità non è dunque connessa ad un sistema di nichilismo,come si è tanto ripetuto, ma per io contrario alla realtà trascendente le dell'idealismo dorico. 

Nulla v’ha che meno sia nichilista delle scuola d’Elea, però che essa tende all'esistenza assoluta; ma siccome resistenza assoluta esclude o sembra escludere ogni esistenza relativa, del pari l’esistenza relativa e fenomenale sembra escludere resistenza assoluta; da ciò l'esistenza relativa e fenomenale resa pari alla non esistenza dinanzi all'esistenza assoluta dell'indivisibile unità, tò òn mh òn; e questa unità indivisibile, sola depositaria dell'esistenza assolata, resa pari alla non esistenza dinanzi all'esistenza fenomenale presa per tipo dell'esistenza, tò en adiaireton mh òn. — Ciò che abbiamo detto del nichilismo di Zenone, bisogna dirlo del suo preteso scetticismo e dell'abilità che gli si attribuisce di sostenere il pro ed il contro. Senza dubbio egli conteneva il pro ed il contro; ma in quale sfera? 

In quella de' suoi avversarj, in quella dell'empirismo. Ora l'empirismo o la negazione d'ogni realtà trascendentale, e quindi dell'unità assoluta che non si trova nella scena visibile di questo mondo, l'empirismo non può ammettere, invece dell’unità, che una semplice totalità, ed ancora per inconseguenza; però che l'idea della totalità non è che un riflesso di quella dell'unità; ed a rigore l'empirismo non può ammettere che la pluralità senza totalità, vale dire la pluralità non ricondotta all'unità, la pluralità in sé, con la divisibilità all'infinito per carattere unico, e quindi implica la distruzione di ogni altra relazione che quella della differenza. E questa non è solamente una conseguenza forzata dell'empirismo ionio; era una conseguenza confessata ed assentita: era il sistema stesso d’Eraclito. 

Di fatto, del pari che l'unità indi visibile della scuola eleatica è l'ultima e necessaria conseguenza dell'idealismo dorico e pitagorico, del pari la differenza, l'opposizione assoluta d’Eraclito (inantiotuj) è l'ultimo termine dell'empirismo ionio. Ecco i due grandi sistemi esclusivi della filosofia nel loro ideale più rigoroso: apparteneva all'ingegno greco di produrli quasi presso alla sua culla. Eraclito e Parmenide li rappresentano in tutta la loro grandezza ed in tutta la loro meschinità. 

Ammirabili l’uno contro l’altro, si distruggono da sé; e Zenone ragionava a meraviglia allorché, per impugnare il sistema della pluralità, si collocava nel cuore stesso di tale sistema, nel sistema d'Eraclito. Ivi, in effetto, con un accorto movimento, gli era facile di volgere tale sistema contro se stesso, e di dimostrare che un'assoluta differenza è un'assoluta rassomiglianza, e che l'assoluta opposizione è l'assoluta confusione. Se tutto è essenzialmente diverso, tutto ha qualche cosa d’essenzialmente comune, cioè d’essere diverso; l'identità e dunque anche sotto questa apparente discordanza; l'opposizione è nella superficie sulla scena di questo mondo, e l'identità è in fondo nel principio invisibile delle cose. 

Zenone riconduceva cosi l'opposizione all'identità, e distruggeva dall’imo al sommo il sistema d’Eraclito, forzandolo a rientrare in quello di Parmenide, dall’alto del quale poi fulminava di nuovo quello d’Eraclito, provando all'ultimo che l’unità, s’ella è rigorosamente accettata, non conduce che a se stessa, non esce di se stessa, ed esclude ogni pluralità, ogni differenza, vale a dire, ogni fenomeno ed ogni empirismo. Lo scetticismo non era dunque nel pensiero di Zenone; per lo contrario vi aveva un dogmatismo eccessivo; ma il cammino di tale dogmatismo era uno scetticismo apparente, una dialettica che sembra ridersi d'ogni verità sostenendo alternativamente il pro ed il contro. Però che bisognava pure che Zenone ammettesse un momento con Eraclito, che tutto si muove e che tutto differisce, per sostenere poscia che se tutto è mosso, tutto è in quiete, che se tutto differisce, tutto si somiglia, e che se tutto 4 pluralità, per questo appunto, tutto è unità.

Contro Eraclito, contra ogni sistema con esclusiva che si confuta per le sue conseguente, tale genere d'argomenti era eccellente; era il vero terreno dove bisognava mettersi, e Zenone visi è collocato. Era di fatto curioso il far vedere che quell'empirismo sì orgoglioso del suo criterio apparente e del sentimento della realtà rimpetto all'idealismo pitagorico, non era egli stesso che una confusione deplorabile che in particolare conteneva le conseguente più contradditorie e più ridicole. 

Tale confusione, tali contraddizioni, tali stravaganze, quel sì e quel no perpetuo, tale scetticismo era la conseguenza necessaria e rigorosa dell'empirismo, con cui Zenone voleva opprimerlo, per ricondurre all’unità assoluta nella quale non v'ha più contraddizione, ad un dogmatismo fermo e solido; e, cosa mirabile, gli si è attribuito precisamente lo scetticismo, la confusione e le follie ch’egli imputava a' suoi avversari! — Resta da esaminare un punto oscurissimo che nessuno ha osservato né chiarito, e che merita di esserlo. 

Questo avversario del moto, del tempo, dello spazio, dell'esistenza visibile e sensibile è ad un tratto trasformato da Diogene in un fisico ed in un naturalista. Dopo d'aver ricordato gli argomenti di Zenone contra il moto, ed in generale tutto un ordine d'opinioni che distrugge l'esistenza del mondo, Diogene, con la massima quiete trapassa all’esposizione del sistema fisico di Zenone. 

Dice (49) che Zenone “ammetteva più mondi, ma con la riserva che non vi è vuoto, che tutto è composto di freddo e di caldo, di secco e d'umido, confusi tra essi, che l’uomo deriva dalla terra, che l’anima (yich, si tratta qui del principio vitale e non dell'anima dei moderni) è un miscuglio degli elementi precedenti in una tale armonia che nessuno di essi predomina”. Si domanda che vuol ciò significare, e qual è l'interpretazione di questo nuovo enigma. Eccola, secondo noi. Abbiamo fatto vedere altrove (articolo Senofane) che la riputazione di scettico cui data avevano male a proposito a Senofane, viene probabilissimamente dall’aver preso per la sua filosofia intera non dei lati di tale filosofia, e da questa che in fatto Senofane sì dogmatico in metafisica, nella regione dell'intelletto, ora scettico in mitologia e nella sfera dell’opinione. 

Parmenide accrebbe ad un tempo il dogmatismo e lo scetticismo del suo maestro, e gli accrebbe in ragione diretta l'un dell'altro. Il suo poema sulla natura avea due parti, la prima tutta metafisica ed ideale, in cui non ammetteva altro mondo che quello della ragione, cioè, l'unità ed i suoi attributi, la seconda in cui trattava del mondo del volgo, dell’opinione e dei sensi tò doxàston, in cui anzi adoperava il linguaggio della mitologia del suo tempo. In questa seconda parte si trovavano verosimilmente, con le favole mitologiche, accettato come favole ed illusioni dell'immaginazione, gli avanzi della fisica ionia di Senofane, conservati, ma rilegati tra le favole ed i pregiudizi, nel dominio della semplice opinione, Parmenide non acconsentiva a trattare del mondo che nella Seconda parte della sua opera, come d’una semplice opinione e d'un fenomeno senza realtà; ma finalmente ne trattava e rendeva conto, alla sua foggia, delle apparenze sensibili. 

Certamente per una simile condiscendenza Zenone s'occupava anche di fisica. Così almeno interpretiamo il passo di Diogene sulla fisica di Zenone. Ma tale accessorio di fisica, che in Senofane attestava l’influenza delle opinioni ionie e dello spirito della sua prima patria, separato da Parmenide dalla vera filosofia e messo a confine tra i pregiudizi popolari, occupa appena un luogo in Zenone; e nessun altro autore ne fa parola dopo Diogene. Laerzio, eccettuato Esichio, che trascrive la frase di Diogene. — Ma non in ciò la storia deve cercare e scorgere Zenone Eleate: egli è interamente come filosofo nella polemica da lui istituita contro la pluralità el'empirismo. 

Non v'ha anzi altro che questo che posi sopra prove certe. Zenone, nel suo aringo filosofico, è, come nella sua vita, l’aner praktikòj della scuola d'EIea. Qui si frammischia agli eventi politici del suo tempo, si assume la difesa delle leggi della sua patria, e soccombe, in tale impresa) là dai vertici dell'unità assoluta si cala nelle contraddizioni della pluralità,del relativo e del fenomeno, ed esaurisce in tale. Conflitto tutte le Torte del suo ingegno. 

Questo ingegno è puramente dialettico: in ciò consiste l'originalità del personaggio di Zenone ed il suo carattere storico; ciò gli dà sede nella scuola d'Elea, nella filosofia greca e nella storia dello spirito umano. 

Debole ancora ed indeciso in Senofane, l'idealismo eleatico si rassoda, si ordina, acquieta unità e si fa rigoroso nelle mani di Parmenide, che lo espone e lo sviluppa sistematicamente, mentre in Senofane, come benissimo ha notato Aristotile, è meno un sistema che un presentimento fecondo ed un’intuizione sublime.

L’unità di Senofane racchiudeva altresì, fino ad un certo punto, in un'armonia incerta, l’unità e la pluralità, lo spirito e la natura. Iddio ed il mondo, il teismo. ed il panteismo, qualche cosa delle spirito dorico a qualche cosa dello spirito della Ionia. Ma Parmenide è con esclusiva dorico, teista, idealista, unitario. Ogni dualismo è scomparso nell'abisso dell'unità assoluta. 

L'unità assoluta ha perduto ogni relazione con altra cosa che lei stessa; però che in quanto è unità assoluta, esclude tutto ciò che non è dessa: quindi pure in sé, esclude ogni differenza, ogni distinzione, quindi ancora, ogni relaziono di lei stessa a lei stessa, identità ed indivisibilità senza alcuna potenza differenziale, unità senza numero, eternità senza tempo, immensità senza forma, intelligenza senza pensiero, pura essenza senza qualità e senza contenuto. 

Tale era la perfezione sistematica della scuola Eleatica; però che quell’era la sua ultima conseguenza; di fatto noti v’ha nulla oltre l’Essere in sé, ed il limite insormontabile d'ogni astrazione è aggiunto. Ma l'intero svilupparsi d'un sistema con esclusiva ed imperfetto, mentre tradisce il suo vizio fondamentale, incomincia la sua rovina. 

Arrivato alla sommità, a per dir così sul trono dell’astrazione, senz'altri sudditi che ombre, o piuttosto senza pur ombre, però che l'indivisibile non deve nemmeno protendere un’ombra, l’idealismo eleatico trovava la sua perdita inevitabile nella sua grandezza stessa e nella sua perfezione sistematica. 

Il rigore delle conseguenze accusava troppo, e rovesciava irresistibilmente il loro principio. Ma era riservato all'idealismo eleatico d’opprimere, cadendo, l’empirismo ionio; o senza poter salvare il sistema di Parmenide, la missione di Zenone era di distruggere quello d'Eraclito. 

Di fatto, se l’unità di Parmenide è un’unità impotente, e per parlare la lingua della scienza moderna, una sostanza senza causa, ossia una sostanza vana, poiché è priva dell'attributo essenziale che costituisce la sostanza, del pari la pluralità d'Eraclito, il suo moto universale e la differenza assoluta non sono altra cosa che la causa separata dalla sostanza, l'attributo senza oggetto, la forza senza base, la manifestazione senza principio di essa manifesti, e l'apparenza senza nulla da far apparire. 


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Ora, la causa senza sostanza, come la sostanza senza causa, il moto senza un motore immobile, come un centro immobile senza forza motrice, la identità assoluta senza differenza, come la differenza senza identità, la unità senza pluralità, come la pluralità senza l'unità, l'assoluto senza relativo e senza contingente, come il relativo ed il contingente senza qualche cosa d’assoluto, erano due errori contraddittori, due sistemi con esclusiva che dovevano, incontrandosi sul teatro delle storia, rompersi l’uno contra l'altro, e distruggersi l’uno per l’altro. Ma nulla si distrugge, nulla perisce; tutto si modifica e si trasforma nella storia come nella natura. 

In effetto, che cosa deriva dalla polemica dell'empirismo ionio e dell'idealismo eleatico? Non che l’unità e la differenza siano chimere; nu per lo contrario che la differenza e l’unità sono amendue reali, e si reali che sono inseparabili, che l'unità è necessaria alla differenza, e la differenza all'unità, e quindi che dopo d'essersi combattuti per cimentar le proprie forze, i due sistemi opposti non hanno che da toglier via gli errori, vale adire, i lati esclusivi pei quali si ricusavano fra loro, per riconciliarsi ed unirsi, come due parti di un medesimo tutto, due elementi integranti del pensiero e delle cose, distinti senza escludersi, intimamente legati senza confondersi. 

Tale esser doveva il resultato della lotta dell'empirismo ionio, e dell'idealismo eleatico. Tale risultamento era nei destini della filosofia greca ma non apparve che a suo tempo. L’effetto immediato ed apparente fu la doppia rovina del sistema d’Eraclito e del sistema di Parmenide, l'uno per l'altro. Zenone, con la sua dialettica, produsse tale lotta memorabile e vi si consumò; ed era lo struggersi suo destino nella filosofia come nella vita. Noi abbiamo tentato di considerare e di presentare nella sua vera luce la dialettica di Zenone; se generalmente essa è stata piuttosto poco compresa, non bisogna stupirne molto. 

E’ naturale che un uomo il quale copre il suo scopo e quanto v’ha di positivo e di grande ne' suoi disegni per non lasciarne apparire se non il lato negativo, e che mostra d'accettare le opinioni de' suoi avversari, al fine di meglio confutarle per le conseguenze alle quali si spinge, opponendo, ciò ch’è inevitabile, che sia anch'egli disceso ad alcune sottigliezze; è, dico, naturale che un tale Uomo sia stato tenuto dal gran numero per un semplice disputatore che sostiene alternativamente il pro ed il contra. Tal era in effetto la riputazione che gli aveva fatta Timone il Sillografo, il quale fa però giustizia alla sua lealtà (50). Isocrate (51), Plutarco (52), Seneca (53) lo rappresentano come, un sofista, di cui l'unico scopo è di trovare obiezioni contro, ogni dottrina senza stabilirne nessuna, non riflettendo che Zenone non istabilisce nessuna dottrina, perché non ne aveva bisogno, mentre eravi quella di Parmenide, suo maestro, e che perciò ogni suo sforzo tender doveva a confutar gli avversari di Parmenide, ed a spingerli alla contraddizione ed all'assurdo. 

Si comprendono assai bene tali equivoche interpretazioni per parte di semplici dilettanti di filosofia, ma é più notabile che Platone stesso abbia mostrato d'ingannarvisi nel Fedro, dove sembra confondere Zenone con gli altri sofisti (54). Ma contra Platone, abbiamo Platone stesso, ed al giovane amico di Socrate, il quale non era ancora uscito della sua città natia, e non conosce va la dottrina eleatica e la dialettica di Zenone se non che per fama, dietro l'impressione ch'ell'aveva fatta in Atene, ed a traverso i pregiudizi del criterio socratico, possiamo opporre il filosofo reso maturo dalla età, dallo studio e dai viaggi, il quale in un’opera speciale, di cui lo scopo dichiarato è l'esame della filosofia eleatica, e di cui i personaggi sono precisamente Parmenide e Zenone, ci mostra il discepolo imbevuto della stessa dottrina del maestro, partecipe dello stesso dogmatismo e dogmatismo più assoluto che mai fosse,'con questa soia differenza che l'uno, già indebolito dagli anni, si contenta d'esporre la sua dottrina, e l'altro, giovane ancora, pieno di forza e d’audacia, assale quelli che assalgono Parmenide, e li combatte con le loro proprie armi, col ridicolo e l'assurdo delle conseguenze. 

Nulla è più chiaro e più positivo che tale dichiarazione di Platone, nell'introduzione del Parmenide; e tutto le autorità devono piegare dinanzi ad essa. Senza dubbio si può supporre con Simplicio, sulla Fisica di Aristotile, e con Tennemann, che nel corso della discussione, Platone, volendo far conoscere la scuola eleatica intera, ed esaurire tutta la questione dell'unità e della pluralità; ha raccolto e concertato in Parmenide ed in Zenone tutti gli altri personaggi della scuola eleatica, ed attribuito a que’ due molto numero d’argomenti che appartenenti erano agli altri. 

Tale supposizione ha più che verisimiglianza: ma non se né vuol minimamente concludere che ne’ proemi, e quando non trattasi che di descrivere e far conoscere i personaggi diversi del suo dramma, Platone siasi come traslatato ad attribuir loro senza niuna necessità caratteri a disegni imaginari, a statuire tra maestro e discepolo un’identità di dottrina che stati non fosse di fatto, ed una differenza di metodo che del pari stata non fosse altrimente, a fingere, per esempio, che Zenone per tempo condotto si fosse diversamente da ciò che fece, quando tutti ad Atene, ed a Megara soprattutto, avrebbero potuto ridersi e gabbarsi di Platone. 

È assurdo di supporre che fatto avesse Zenone astore 'di un libro, cui tolto avesse a scrivere con un tale scopo, dettato con un dato metodo, diviso in una tale maniera, se in tali cose tutte nulla di vero stato si fosse, ed anzi ove non fossero state cose generalmente ammesse da tutti, e cognite a tutti, tale testimonianza di Platone, tanto chiara, precisa, ampia, in uno de' migliori e de' più autentici suoi scritti, decisiva si parrebbe, fosse ell’anche sola. Ma Proclo, nel suo Contento sul Parmenide, impiega tutto il primo libro a sviluppar l’introduzione del dialogo di Platone e dovunque conferma le cose affermate da Platone. Né sapremmo a bastanza penetrarci quanto debbano aver peso, in luogo di asserzioni corte ed oscure, de' lunghi passi, quali sono l’intera introduzione al Parmenide ed il primo libro del consento di Proclo, in cui nulla si lascia che sia suscettivo di arbitraria interpretazione, ma tutto è prodotto con una chiarezza e con tanta copia di particolari e di ragguagli che adito non lasciano né a desiderar più nulla, né a poter su nulla contendere. Su tale base non posammo con fiducia; e tale autorità ci valse a far paragone di tutte le altre.

La luce che Platone ne porge, ne scopre i riti, e giova per orientarci ne' ravvolgimenti della scuola d’Elea; scorgersi il luogo tenuto da Zenone in tale scuola, le di lui analogie co’ suoi precursori, ed in pari tempo la differenza da essi per cui se ne separa, e da cui gli proviene un carattere proprio ed originale. Si concepisce il suo scopo; ed allora la sua dialettica cessa di essere una logomachia inintelligibile.. Ora, sembra che metodo ria comodissimo, ma ben poco critico e filosofico, e quello che in vece di sviscerare una dottrina, fino a che ria compresa e vi appaia un senso, ritragga da tutta perplessità, e risolve u quesito con ricisa sentenza supporitrice di stravaganza, la quale ci assolve dal comprendervi nulla e-ci dispensa dallo studiarvi. Non vuoisi essere tanto corrivo nel rinvenire stravaganze. 

La storia generalmente, e quella in particolar modo della filosofia, ha la sua orditura, le sue leggi e regolare andamento; i grandi sistemi cui produce l’umano intelletto hanno un senso ragionevole cui cercar deesi di penetrare, né un uomo sale a celebrità fra i suoi simili per mere follie. L’ultimo ed illustre rappresentante della grande scuola eleatica merita per vero di non essere incolpato d'assurdi di primo lancio e senz’esame. In somma la nostra maniera di concepire Zenone, la sua vita e le sue opere, posa sull'introduzione del Parmenide di Platone, comentata e confermata da Proclo. 

Noi riguardiamo i vari argomenti contro il moto, conservatici da Aristotile e da lui attribuiti a Zenone, come una parte dei particolari nascosi sotto le generalità indicate nell'introduzione del Parmenide. Allorché da un lato Platone dichiara che Zenone, in una delle sue opere, esaminava una dopo l'altra diverse ipotesi tratte dall'empirismo e dal sistema della pluralità, e da cui deduceva conseguenze rigorose ad un tempo ed in contraddizione Con le date ipotesi; allorché egli e Proclo, comentator suo, senz’enumerare tali ipotesi, nettamente esprimono i resultati dell’argomentazione di cui eran desse soggetto, cioè, che senz’unità la pluralità e inammissibile, che la pluralità bene esaminata racchiude in sé l’unità, la differenza, la somiglianza, il moto, il riposo, e che il molo senz’unità è impossibile, e quando da un altro canto troviamo in Aristotile, enumerati precisamente diversi argomenti contro il moto e contro, lo spazio, alle quali particolarità, ove rimettano per entro al contorno che Platone ne somministra, un senso ragionevole si acquista ed uno scopo intelligibile, sì che tutto in tale guisa si spiega, non avremo fondamento ad ammettere una supposizione sì naturale e plausibile, a considerare gli argomenti conservatici da Aristotile come alcuni di quel che dovevano contenere le ipotesi indicate da Platone, a riferirli ad esse siccome particolarità a generalità, e ad interpretare que’ dei prefati particolari de' quali è oscura a dubbia l'indole dall'indole non equivoca non contrastata delle generalità? 

Vero è che Aristotile, ne’ siti in cui cita i quattro argomenti contro il moto, non li radduce all'aspetto generale sotto cui Platone ci presenta la polemica di Zenone nel Parmenide; ma in primo luogo neppur dichiara che Zenone quegli argomenti usasse in maniera assoluta; indi, siccome più tardi gli stessi argomenti usati vennero dai sofisti in maniera assoluta, ed Aristotile li considerava più per l'abuso che fatto se nera che pel senso cui potevano aver avuto primitivamente nella mente del loro inventore, stupore non è ch’egli pure li prendesse in modo assoluto, e s’argomentasse di rispondervi del pari in una maniera assoluta. 

Finalmente, confesseremo che le risposte d'Aristotile, comentate e sviluppate da Simplicio, pochissimo soddisfacenti ne sembrano, come già tali parvero a Bayle. Aristotile accusa Zenone di mal ragionamento, né egli meglio ragiona, o Va immune da paralogismi, però che le sue risposte presuppongono ed implicano sempre l’idea dell’unità, quando l’argomentatore di Zenone posa con esclusiva d’altre sull’ipotesi della pluralità. 

Del resto conveniamo in ciò che di fatto l’autorità d’Aristotile non favorisce il modo di vedere da noi preso, ma per noi abbiamo l’autorità ben altramente positiva di Platone, cui dovevamo preferire; però che può mai esservi esitazione per la critica fra alcune linee scritte già senza svilupparle e di volo, in guisa che ciò che spetta a Zenone non è sempre perfettamente distinto da ciò che visibilmente non è suo, ed un passo formale, ampio e sviluppato diffusamente in un’opera scritta ex professo, non solamente sulle materie trattate da Zenone, ma sulla scuola a cui appartiene, su lui medesimo, sulle sue opinioni e sul suo metodo. 

Il quesito critico, è questo, se ad alcune righe dAristotile si darà una certa interpretazione alquanto ipotetica, o se ricuserassi assolutamente l'autorità di tutt’intera un’opera di Platone. I due altri passi di Zenone, contro lo spazio e l’empirica esistenza dell'unità, si leggono in Aristotile, Fisica,IV, 3, e Metafisica, n, ed. Brandis, pag. 56, 67. Si allude pure all'asserzione di Zenone che il moto è impossibile ne' Primi Analitici, ed. Silburg, tomo t, p. 184; ne’ Topic., ed. Silb., tomo 1, p. 411 e 457. 

Il libro delle Linee insecabili, ed. Silb., tomo VI, contiene parecchie frasi di Aristotile, più o menò sfigurate da Giorgio Pachìmero, in cui si riconosce pertanto, di mezzo alle confutazioni d’Aristotile od ai tronchi ragionamenti di Zenone, lo scopo che questi si teneva sempre fisso dinanzi di raddurre ad un principio indivisibile,tutte mostrando le. stravaganze della divisibilità all’infinito. Tutt'i passi del trattato di G. Pachimero che si riferiscono a Zenone riguardano alcuno dei quattro argomenti contro il moto.

Forse parrà strano che da noi non sia stato fatto nessun uso dell'opera di Aristotile intorno a Senofane, Zenone e Gorgia, opera su cui ci fondammo altrove per istabilire parecchie opinioni di Senofane. La risposta nostra è questa, che la parte di quell'opera concernente Senofane, quantunque visibilmente corrotta e difficilissima ad interpretare in certi punti parecchi, nondimeno in generale e intelligibile, mentre la parte che riguarda Zenone è in tale condizione che ingenuamente confessiamo tutti gli sforzi nostri per intenderla non aver ad altro riuscito che ad un’interpretazione arbitraria oltremodo ed incerta, cui non osiamo far base a nessun resultato critico e veramente storico. Né riconosciuto è tampoco generalmente per anche nella suddetta parte di Zenone trattarsi e non di Melisso.

Noi quindi lasciato abbiamo da canto tale scritto (55), di cui la migliore edizione è quella di Fùllborn, Commentatio qua uber de Xenoph., Zen. et Gorg. passim illustratur, Halla, 1789. Vedi pure Spalding, Commentarium in primam partem libelli de Xen., Zen. et Gorg., Berlino; 1793. Oltre all’autorità di Platone e di Proclo da un lato, d'Aristotile e di Simplicio dall’altro, non havvi altra testimonianza niuna fra gli antichi intorno a Zenone Eleate, tranne l'articolo di Diogene Laerzio, IX, 25-30, il quale passò nei sunti degli scrittori posteriori. 

Fra i moderni, uopo è consultare, ma con precauzione, l’eccellente articolo di Bayle, il quale, tenendo l'usato suo metro, si piace di far Zenone uno scettico. Curioso è di leggere in Brucherò tutto ciò che della scuola eleatica, ed in particolare scrisse di Zenone, per farsi un'idea dell’amarezza di tale buono e dotto uomo contro una dottrina che supera la sua intelligenza, e di cui gli pare ch'ell'abbia alcun'analogia col panteismo. Zenone è tenuto da Bruchero, per uno scettico ed un sofista. 

Kant è il primo, io credo, che, nella Critica della ragion pura, supponesse non essere sofistiche tanto, quanto giudicato venne le contraddizioni a cui Zenone riduce uno dopo l’altro tutt’i fenomeni, e che Zenone forse negar non volesse assolutamente i due termini della contraddizione, ma soltanto provare con ciò come l'uno e l'altro, ammettendo una. contraddizione ragionevole, aver non possono una verità assoluta e necessaria. 

Tale osservazione appartiene per diritto all'autore delle Antinomie e della ragione, a colui che mostrò primo le contraddizioni riputate ugualmente ragionevoli, e che per ciò, senza distruggerle, ha minorato il valor loro, e le ha confinate in una sfera inferiore di evidenza. Dappoi, Tiedemann (Geist der speculative Philosophie, t. I, p. 285-300), e Tennemann (Geschichte der Philosophie, t. I, p, 191-206), senz’aver discoperto il vero punto di vista sotto cui uopo è di considerare la dialettica di Zenone, sono lungi dall'averla trattata come una pura logomachia. 

Quanto ai particolari, è impossibile di espor meglio che i prefati due dotti critici gli argomenti di Zenone contro il moto e lo spazio, seguendo Aristotile e Simplicio. Staudlin (Geschichte und Geist des Scepticismus, t. 1, p. 200-216, Lipsia, 1804) ha il buon senso di difendere Zenone dall'accusa generalmente fattagli di non essere stato, altro che un sofista. 

Ricusa di mettere fra i Gorgia, i Protagora, gl’Ippia ed il Prodico l'uomo-austero che antepose l'oscurità d'una picciola ma virtuosa cittade alle magnificenze d'Atene, ed al servaggio a morte, Staùdlin farebbe volontari per Zenone una classe particolare di. sofisti. Giunge tino a convenire in quanto che non havvi solida cagione di considerarlo come scettico. 

Cito, senza conoscerle da me stesso, le opere seguenti: Buhle, Commentatio de artu et progressu pantheismi inde a Xenophane Colophonio, primo ejus auctore, usque ad Spinosam, ne’ Com. soc. scient. Goetting., X; Car. E. Erdm. Lohse, Dissertatio de argumentis quibus Zeno Eleates nullum esse motum demonstravit, et de unica horum refutandarum ratione praeside, Hoffbauer, Halla, 1794 in 8. vo; Tiedemann: Unum scepticus fuerit an dogmaticus Zeno Eleates? Noe. Bibl. phil. et crit., 1, fasc.2.


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NOTE

(1)Diogene Laerzio, IX, 28. Apuleio, Apol, 1. Strabone, II.

(2)Apollodoro, nelle sue Croniche, per relazione di Diogene, IX, 25.

(3)Diog. ivi. Suida, Zhnon.

(4)Diog. Vita di Parmen. Suida, Parmhn. Teodoreto Serm. Therap.

(5) Platone, Parm. eo me ke kal carienta iqein. Apuleio, Apol. I, Longe decorissimum. Diogene dice la stessa cosa dell'autorità di Platone.

(6) Diog, φύσει μεν Τελευταγόρου, qesei de Parmenidou.

(7) Platone, ivi, Παιδικά του Parmenidou. Sembra che questa non fosse la voce generale, poiché Ateneo, di cui l'autorità è altronde assolutamente nulla, rimprovera a Platone, XI, d'aver calunniato Zenone e Parmenide:

(8) Diog., IX, 23 Plutarco, contro Colotele, Strabone, VE.

(9)Diog., IX, 28, uporottaòj twn mozonwn.

(10)Diog., IX, 29. “E fama che fosse sensibile almale che si dicevadi lui; alcune richiedendogliene la causa: se il biasimo de' miei concittadini, rispose, non mi desse pena, la loro approvazionenon mi farebbe piacere.”

(11)Diog., ΙΧ, 28. Πολιν ευτελή ηγάπηση μαλλον της Αθηναίων μεγαλαυχίας. Suida, Eléa.

(12)Diog..ivi, θύκ επιδημήσας τα πολλα ta proj autous.

(13)Plutarco, Vita di Pericle.

(14)Plat., I.moAlcib,

(15)Giovanni Maiala, Stor. Cron., 11, p. 187, ediz. Ozon.

(16)Olimp. inPlat.Alcib., ediz. Creuzer, p. 140e 142.

(17) Platone, Fedro, e Diog., IX, 25, sull'autorità di Platone. Di fatto è Zenone quello che Platone denota col nome di Palamede d'Elea. Ermia (ediz. A, p. 184 ) ¢ lo Scholiaste l’intendono cosi: ότι δε' πανεπιστήμων scedon hn adner wj kai Palamhdhj. Quintiliano, Inst. Or. III, I, vede un retore nel Palamede di Platone, il retore Alcidano. Non è bisogno, con Spalding, di escludere la frase, di Quintiliano siccome aggiunta di un glossatore; basta spiegarla con le abitudini intellettuali di Quintiliano: E' strano che Tiedemain, Argum. in Plat., riferisca tale espressione a Parmenide, fondando una si fatta congettura sopra un'altra veramente al disotto della critica, cioè che Platone avrà cosi parlato, senza voler calunniare Parmenide, sopra un libro falsamente attribuito a Parmenide ch'egli avrà preso per autentico.

(18) Tasc., II; de Nat. Deor., I.

(19) Contra Colotete, ed. Reiske, tom, X.p. 6o.

(20) De Garrulitate, tom, VIII, p. 13.

(21) Tom. X, p. 345.

(22) IX, 26-28

(23) Framm., ed. Bip., tom. V; p. 62-64

(24) Elea.

(25)Vorstin, in Bayle.

(26)III, 3. Vedi Bayle.

(27) Vita d’ApolIonio, VII, ediz. Olear., p. 279, Eleuqera ta Muswn egage.

(28) Strom, IV.

(29) Ivi.

(30) XIV, 9.

(31)DeIra, II, 23.

(32)Diog., IX, 25.

(33)Sesto, VII, 7.

(34)Diog., Introduct 18. Vedi por. Filostr., Vita Apoll., VII, 2. — Suida, Zhnon – Apuleio, Apoll.

(35)Plat, Parmen, upo neon outoj emon ograh...

(36)Diog., Introd. 16.

(37)Id., IX, Biblia polloj sunesima gemonta.

(38) Tos, Kuster, Menagio sopra Diogene.

(39) Ovvero: sulla natura, contro dei filosofi; oppure ancora, secondo l'interpretazione di Tennemann, due opere diverse, l'una contra i filosofi, e l'altra sulla natura. Ho rigettato queste due interpretazioni perchè danno a Zenone un'opera di puro dogmatismo, il che è contra il carattere tutto dialettico della sua maniera, con una polemica sommamente vaga contra i filosofi in generale, mentre la polemica di Zenone combatteva positivamente una sola classe di filosofi, que' che combattevano la scuola d'Elea. Suida non indica e non tradisce in nessuna guisa le fonti alle quali ha attinto tale indicazioni; le altre parti dell'articolo assai breve che ha scritto intorno a Zenone sono un transunto i Diogene.

(40)Diog., Vita di Platone, III 47-48.

(41) Argomenti sofistici, I, 9.

(42)Staudlin(Geschichteund Geistdes Scepticismus I,211) ha inteso tale passocome se si trillasse dì dialoghi in coi Zenone fosse stato ugual personaggio che Socrate in quelli di Platone; ma Tennemann (Geschichte der Philosophie, I, 193) conchiude solo dalla frase di Aristotile che Zenone presentasse il suo pensiero sotto la forma di domande e risposte. Quanto all’invenzione del dialogo, Aristotile, nel libro1.mo dalla sua opera perduta sui poeti, l'attribuivaad Alessamene Teo, e Favorino era della stessa opinione,a detta di Diogene, III, 47 e 48. Ateneo, che cita la frase stessa d’Arisotile, aggiunge (XI, 15) a tale autorità quella di Nicia di Nicea di Sozione(nel testo ordinario diceva Soterione; Schweighziuer ha corretto Sozione).

(43)Platone, Parmenid., suggrammati opposto a tois poihman di Parmenide.

(44)Vedi il libro 1,mo di tale comento, tom. IV della mia raccolta delle opere inedite di Proclo.

(45)Plat., Parmen.

(46)Ivi.

(47)Diog., IX, 29.

(48)Aristotile, II, ediz. Brandis, p. 56-57.

(49)Diog., IX, 30.

(50) Αμφότερογώσσου δε μέγα σθείνος ovk apathlov. Zhnwnoj panton epilhptofoj... Plutarco, Vita di Pericle.

(51) Elogi a Elena, cap. Zhnona tòn ταυτα δυνατά και πάλιν αδύνατα πeιρώμενον αποφαίνειν.

(52) Plat., Vita di Pericle, elegxtikhn τινα και δι' έναντιολογίας εις απορίαν κατακλείουσαν... ιξιν. Ι. uno scritto perduto di cui Eusebio ci na conservato dei transunti (Praepar. Evangel., 1, 8), Plutarco dice di Zenone: Egli non ha stabilito nullo sopra questo punto (l'origine del mondo), ma ha fatto una moltitudine d'obiezioni. In effetto, Parmenide, ed anche avanti Parmenide, Senofane avendo stabilito la verità, ossia, che l'essere vero, l'unità, non ha nascimento né principio, to en esti agennhton, non restava più a Zenone che impugnare l’ipotesi dell'origine delle cose e del mondo.

(53) Epist., 88. Zeno Eleates omnia negatia de negotio dejiciens, ait nihil esse. Si Parmenidi credo, nihilest praefer unum; si Zenoni, ne unum quidem.

(54) Tom, VI della mia versione, p. 85.

(55)Nondimeno si puòvalersi di alcune righe, le quali, anche nel testo, riferite vengono a Zenone; per esempio quale che dilucidano il passo della Metafisica incui Zenone incalza quantunque empirico principio verso la divisibilità, per raddurre, mediante le stravaganze generose dalla divisibilità all'indivisibilità del principio trascendente: Qualunque ella sia questa visibile esistenza, acqua o terra, uopo è ch'ellaabbia più parti, siccome afferma Zenone. Vi si allude pure allasentenza di Zenone intorno allo spazio.

LA PORTA ROSA

(Parco archeologico di Velia, Cilento)

Porta Rosa Porta di ingresso

alla città di Elea nel Cilento.

Era detta la Porta Rosa

perché al tramonto il sole

la rende di questo colore.

Parmenide diceva che

la porta divideva i sentieri

del Giorno e della Notte.

Nei suoi pressi egli amava

scrivere e declamare i versi

della sua opera filosofica

"Sulla Natura".



Le foto seguenti sono state scattate nell'agosto del 2022 da un amico (Daniele da Rimini) che ce le ha "passate".

Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022 Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022 Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022
Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022 Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022 Parco Archeologico di Velia - Agosto 2022


Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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