Eleaml - Nuovi Eleatici


L’autore apparteneva al patriziato napolitano. Ad un casato, quello dei Marulli, che discenderebbe dalla sorella di Giulio Cesare. Ma non è questo il pregio del libro. Si tratta di un’opera scritta da persona che conosceva bene gli eventi che narra, se non direttamente, come appartenente ad un contesto che ne aveva diretta conoscenza ovvero quello dell’esercito napolitano. Il racconto sembra un reportage in presa diretta e incrina le versioni che negli anni successivi furono considerate le uniche veritiere, a partire dalla famosa "Relazione officiale degli avvenimenti di Napoli" pubblicata in Messina il 29 Maggio 1848 da fuoriusciti napoletani.

La relazione viene pubblicata nel 1873 dal Ricciardi il quale, in una nota, scrive a proposito della frase - Napoli è vostra! – attribuita a Ferdinando II: "Giustizia vuole ch'io dica a torto sì fatte parole essere state attribuite a Ferdinando II".

Marulli già nel 1849 con ragionamento logico e dati inoppugnabili aveva dimostrato che Ferdinando II non pronunciò mai la frase attribuitagli dai liberali, che avrebbe aizzato la plebaglia al saccheggio.

Purtroppo il suo ed altri testi non ebbero la forza necessaria per controbattere i resoconti di parte liberale – soprattutto perché i liberali avevano dalla loro una nazione moderna come l’Inghilterra che utilizzò i media dell’epoca e la sua enorme influenza per denigrare il Regno delle Due Sicilie.

Altri falsi che smentisce il Riccardi sono il numero dei morti a Palazzo Ricciardi (1) e le firme in calce (2) alla “Relazione officiale”.

Il 1848 divenne uno spartiacque fra un prima che aveva visto Ferdinando II come riferimento per una unificazione dell’Italia e un dopo che lo vide dipinto come uno dei peggiori tiranni della storia. Una falsità assoluta se lo si confronta col sabaudo Vittorio Emanuele II che nel 1849 fece bombardare Genova (bombardamento passato alla storia come il "Sacco di Genova") ma che non ebbe lo stesso trattamento.

Un aspetto della vicenda che vediamo poco sottolineato, a nostro modesto avviso, fu che il comportamento di Ferdinando II si rivelò deleterio per il regno in quanto si basava sulla illusione di potersi mantenere autonomo rispetto agli altri stati. Aver inviato nel 1858 al nord le truppe, poi richiamate, secondo noi non piacque agli austriaci che nel 1860 non avrebbero mosso un dito – non  solo perché avevano altro (la situazione interna e internazionale) a cui pensare.

Zenone di Elea – Aprile 2015

____________

(1) L'anonimo annotatore avrebbe potuto con assai più ragione tacciare la narrazione sopra trascritta d'alcuna esagerazione, quanto al numero degli uccisi in casa di mio fratello, dove, non otto furono le persone trucidate nella stanza di mia sorella, ma due, vale a dire il Ferrara, capitano della guardia nazionale, e la costui madre, settuagenaria, cui i satelliti del Borbone, non contenti ad averla scannata, abbruciarono, e ciò mentre la moglie del Ferrara, presa da estremo spavento, precipitavasi da una finestra, e si fiaccava le gambe. (Cfr. “Relazione officiale” pubblicata in “Una pagina del 1848 ovvero storia documentata della sollevazione delle Calabrie di G. Ricciardi”pag. 21.)

(2) L'anonimo avrebbe potuto impugnare altresì l'autenticità delle firme apposte al documento sopranotato, il quale, tranne ciò che ho accennato, è molto fedele, quanto all'esposizione dei fatti, ma non potette esser firmato da tre fra i cinque deputati, di cui vi si leggono i nomi, per la ragion semplicissima che Costabile Carducci, Ferdinando Petrucelli e Domenico Mauro non erano,  né poteano trovarsi ai 29 maggio in Messina, dove ero in quel giorno io medesimo, giuntovi poco prima da Malta, con animo di gittarmi in Calabria. (Cfr. “Relazione officiale” pubblicata in “Una pagina del 1848 ovvero storia documentata della sollevazione delle Calabrie di G. Ricciardi”pag. 21.)

APPENDICE ALLA STORIA DI NAPOLI DAL 1789 AL 1815 DEL CONTE MARULLI


AVVENIMENTI DI NAPOLI DEL 15 MAGGIO 1848

OVVERO CAUSE-GIORNATA IN SE STESSA-CONSEGUENZE

DESCRITTI DAL CONTE GENNARO MARULLI

TERZA EDIZIONE - NAPOLI - 1849

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

AL DISINGANNO DEI TRAVIATI CONCITTADINI

L'AUTORE AMICO DELLA PATRIA

QUESTI RAGGUAGLI CONSAGRA.

AVVENIMENTI DI NAPOLI DEL 15 MAGGIO 1848 (1)

Cause

Io non pretesi dir bene né inappellabilmente

Cominciai, perché altri poi proseguisse,

migliorasse e compiesse.

Forme e vicende de’ popoli italiani

Già l’esultanza id il tripudio per l’ottenuto cambiamento di Governo, promesso nel 29 Gennaro e conseguito nel 10 Febbraio, erasi sparso per tutto il Regno di Napoli; un grido di contento e di giubilo risuonava nei paesi e torre napolitano, non che nelle italiane città, allorché la nostra civile libertà fu inaugurata. Già i casi di Napoli, per la comunicazione delle idee, prodotti avevano le Costituzioni nel Piemonte e nella Toscana e la processa di Pio IX per l’immegliamento e più adatti sistemi degli Statuti dei suoi: popoli (2). Già l’Italia in più parte contenta della sua quasi rigenerazione politica, sorgeva a novelli destini, attendendo per la totalità, ciò che i lombardi ed i veneti per loro stessi operassero; quando l’annunzio di una forte rivoluzione in Milano rallegrava oltremodo gli animi di tutti gl’interessati all’indipendenza, d’Italia, e dav’a credere essere ogni conseguimento ottenuto; trovarsi la penisola libera dal giogo straniero. Gli avvenimenti però di Francia, avuti luogo al cadere di Febbrajo, ripieni di libertà eccessiva, eccitando smoderatezze politiche, accarezzali da giovani, i. quali per la fervida, età e la focosa, indole, disgiunta dalla esperienza degli uomini e delle faccende, rattemprando questi alti contenti, il mal seme gittavano nella terra del primato morale e civile (3) e triste conseguenze ne facevano emergere. Gli altri di Vienna, succeduti dopo alquanti giorni, movendo quella classe d’uomini, che sempre trasmoda nei voti e nelle speranze, scambiando il reale coll’apparente e l’efimero, e misurandola fiducia col desiderio, rovinavano moralmente, con la precipitanza delle operazioni, e l’inconsideratezza delle menti, ogni bene che all’Italia potesse avvenire. Molto si parlava da costoro, senza riflessione; più si scriveva con stimoli pungenti contro intere classi, contro nazioni; esagerando il bene ed il male, ed ingannando gli nomini, si cercava,dare una idea di realtà a quello stato di cose che sognavano per l’avvenire: le quali parole, ed i quali scritti, lungi dal produrre nna desiderata ed assennata moderazione, qualità necessaria,. anzi incremento di civiltà, onde gli Stati ordinati a nuovo modo, si organizzano, sollevando le più smodate passioni, fecero sormontare i due potenti nemici dell’ordine, cioè la ignoranza e la malafede; quindi i legislatori si confusero, i giurisperiti si astrassero, i cultori delle scienze sublimi e delle arti nobili si svagarono ed abusando tutti dei bene, lo renderono non capitale vivo, ma infruttuoso ed inutile, volgendo il bonifico avvenire,;in male orribile e presente. Con tali dottrine di esagerazioni vero rendevano quanto a vituperio degl’italiani erasi sparso, cioè «non bastanti ancora a più libere istituzioni; èssere troppo, civili, ma non civili abbastanza per le imprese di libertà; volervi costumi e non leggi per rendere liberi i popoli d’Italia; proceder la libertà per gradi di civiltà, e non per salti di rivoluzioni; non avere le concezioni della mente, e gli-abiti della vita atti a conseguire un tanto vantaggio. »

In tal modo trovavansi ad un dipresso le sorti d’Italia nel Marzo 1848, ma peggiori erano quelle del Regno di Napoli, occasionate dagli odi smodati della contigua Sicilia. L’antico diritto, vantato dagli abitanti di detta isola a reggersi con propria costituzione, aveva fatto credere, per poca istruzione del popolo e per l'imperio dei patrizi, che quella soltanto stabilita nel 1812, sotto l’influenza della Gran Brettagna, e non altra, fosse confacente alla loro nazione. Per tal cosa apertamente congiuravasi in Palermo a danno del Governo, e pretendevansi riforme tali e tante, che concederle questi non potendo, senza il pregiudizio dei popoli napolitani, si vivesse in celata, ma permanente sollevazione. Gli avvenimenti di Messina del Settembre 1847, congiunti agli altri di Calabria di contemporanea epoca, repressi e scomposti dalla sola forca militare, e non da chi era debito sacro prevenirli, motivando gli odi e suscitando le inimicizie, non più al Governo ed alla politica aveva rivolti gli animi di quelle genti, ma alla nazionalità ed agl’individui. Per tal cosa una fievole amicizia era surta con maggiore chiarezza tra la massa delle due nazioni, che anzi avversione ed antipatia chiamar si poteva. Ma i demagoghi dell’una e dell’altra parte, congiunti già da tempo, in unità di pensamenti, ad altro le miro loro tenevano rivolto; e lungi dal distaccarsi, più strettamente univano nei tenaci e perversi disegni. Emissari siciliani mandati e tenuti da qualche tempo in Napoli, spiando ogni passo dal. Governo, dirigevano le mosse nell’isola, onde si staccasse e si scindesse l'unità di autorità dalle mani di chi doveva tenerla. Accordate, e camminate cosi le cose per alcuni giorni, il moto preparato ebb’effetto; al nascere dell’anno un'aperta rivolta surse in quell’isola; le milizie riunite in Palermo, centro del movimento, dominarono il disordine per alcun poco, indi, perché scarse, presero posizioni. Questi sconvolgimenti saputisi in Napoli, si opinò mandare altro truppa per reprimerli: tanto appunto si desiderava da’ Demagoghi, essendo questo uno dei divisamenti cupi e maliziosi, che nelle loro menti formicolava; imperciocché tenuti soldati in Messina e sue adiacenze, in Catania e Siracusa, in Palermo ed in Trapani, ed altri molti sparsi nelle Calabrie; le forze di riserva stanziate in Nocera, mosse da quel luogo, senza possibilità di pronto ritorno, operare si poteva in Napoli quanto a loro talento tornava gradito. Queste furberie il Governo o non comprese, o credette non curare! Il darsi l'ordine, l’andare le truppe all’imbarco con contento indicibile, e salpare dal porto per dirigersi alla nemica Palermo; fu opera di poche ove. Ahi che l'affidare quegli armati coll’ordine di non trattare con violenza i traviati Palermitani, rovinò non solo la causa delle schiere, ma anche quella del Governo, e senza ombra d’inganno, può dirsi che fu la spinta primitiva ed efficiente dell’attuale disordine di Europa! Molto si avrebbe potuto operare, ed anche tutto, con tali sufficienti e decisi rinforzi; ma poco o nulla si fece; dimodoché gli abitanti di Palermo, imbaldanziti dall’inerzia delle venute truppe, disposte cosi, perché il Sovrano riguardar voleva quegl’isolani non come nemici, ma come sudditi sviati suscettibili di emenda; non più facendosi vedere in aperte strade, a forza d’inganni non generosi, ma vili, trassero a rovina ed a scemare il numero delle frementi, ma tranquille perché subordinate, milizie: dalle case, dai campanili, dalle cupole delle Chiese, dai loggiati dei Conventi, e da ogni luogo, che dominava i siti tenuti da esse, se gli tirava contro con ogni modo e maniera talché irritati dalle inoperosità in cui si erano tenute, gridarono alla fellonia dei Capi, e quasi a disordine si rivolsero. Per tali fatti, le arti dei Demagoghi di ambo le Sicilie, vinto avendo ogni intoppo, ed a parer loro ogni possibile oppugnazione, giudicando poche le milizie di Napoli, umiliate quelle di Palermo, diedero la legge al Governo, che pure avrebbe potuto non riceverla!

Da siffatti combinati avvenimenti., il ciarlatanismo abbondevole nel Regno di Napoli, e non meno nel resto della penisola, sbrigliato oltremodo, il cinguettio letterario, ed indi la stampa, istrumento più universale della parola e dell'opinione; divenuta non libera, ma licenziosa, non divulgatrice del vero, ma ministra della corruzione del cuore e del traviamento dell’ingegno, volgendosi a lucro col favorire l’impostura, avendo cacciata una plebe di giornali, stizziti dalla rabbia sicula, ripieni di veleno d’anarchia, parlavano tutti dei fatti di Palermo, cambiandone l’indole, vituperando unanimemente ad oltranza le truppe, solo perché mostrate si erano sostenitrici dell’ordine, qualità intrinseca ed intima della loro istituzione,(4), Questi scritti pungenti, continui, lo sviluppo della inoperosità militare in Palermo, la perdita de’ commiliti sagrificati senza pro in quella catastrofe, e le frequenti ed aumentanti astie contro la milizia accrebbero, a vero dire, le cause della reazione dolente del 15 Maggio.

Era il primo di Aprile, ed un certo Pezzillo, stato altra volta maestro di scuota, ora esaltato Demagogo; presentava al Re un Indirizzo, col quale esponeva «avere i lombardi, i veneti, i modenesi, i parmensi scosso il giogo straniero; la stessa Vienna essere sorta a novella vita; Genova, Livorno, Pisa, Firenze, Bologna parteggiare al glorioso conquisto della libertà italiana; Roma mandare la sua bandiera benedetta da Pio IX; la sola Napoli restare, per opera d’un ministero alla Guizotiana, non solamente disgiunta dal moto esistente in Europa, ma ridotta ad uno stato d’incertezza vicino a prorompere in civile guerra. »

Queste ed altre cose egli diceva, inferendone, che dal Regno delle truppe uscissero, onde si congiungessero a quelle messe a difesa delimita Italia. Idee siffatte erano state esposte da una moltitudine, commista a talune giovani Guardie nazionali sia napolitane che toscane, che con una bandiera tricolore, portata da un pittore, non nostro regnicolo, avendo a capo Saverio Barbarisi, il nominato Pezzilli ed un certo Bellini (5), nel mattino della domenica 26 Marzo, erasi riunito in rimostranza presso la Reggia, e con imperiosità ed insulti alla truppa, ed a taluni picchetti di Guardie nazionali, che cercavano contenerli e non farli penetrare nel Palazzo Reale, ne richiedevano l’esecuzione. Tal’istigazione prendendo possesso nelle menti di molta gioventù, che avevasi sorbite le sparse notizie della totale disfatta degli austriaci nel milanese e nel veneziano; la morte del Maresciallo Radetzkv, lo strascino di esso legato alla coda d’un cavallo per tutte le strade di Milano; l’uccisione dell’Imperatore d’Austria; lo smembramento dell’Impero; non più la morte, ma l’abdicazione di Ferdinando; la proclamazione dello Zio. Giovanni a Capo di quel Governo; la morte di Metteruich, la crociata proclamata dal Papa per soccorrere l’alta Italia, fecer sì, che ai riunissero vari giovani, e tra loro si accordassero di volare in soccorso dei fratelli lombardi. Di fatti, comecché in Napoli venuta era la Cristina Trivulzi Principessa di Belgiojoso di Milano, per far proseliti a pro della causa del suo paese, questi giovani che in totale furono circa 120, si riunirono ad essa, e sul Vapore il Virgilio, partirono da Napoli alla volta di Genova, onde far causa comune per la libertà italiana. Il primitivo modo diede spinta a maggior entusiasmo per i veri invogliati della rigenerazione politica della penisola; ma il germe di malizia e di doppiezza, stimolando sempre negli animi dei Demagoghi, a tutt’altro intenti che a Costituzione, cercò, non palesando il pensiero, fare che con questa occasiona si conseguisse tosto l’allontanamento delle truppe, onde spaziare, senza ostacoli nelle loro vedute..

Una lettera di Giuseppe Massari, scritta da Firenze al cadere di Marzo ai cittadini 'di Napoli, pubblicata su vari Giornali, incitando a cacciare lo straniero da ogni contrada d’Italia, col correre alle armi ed andare in Lombardia, decise di buona fede altra gioventù a partire per quelle contrade. Per tale lettera e per istigazione maligna, novella riunione essendosi fatta, ad imitazione servile di quanto si era fuori del Regno praticato, si recò di sera alla Legazione austriaca, chiedendo prima, che si abbassassero le armi, indi, non essendo obbedita, illegalmente ed inutilmente le ruppe in minutissimi pezzi: (6) nel domani, questa medesima gente, congiunta ad altra, anche stimolata, presentatasi con tumulto grandissimo avanti il Real Palazzo, mandò oratori al Sovrano, chiedendogli, che si allestissero navi, si armassero i bene avvogliati alla partenza, si aggiungesssero ad esse molte milizie e si spedissero nei campi lombardi in sostegno di quella causa; si pretese pure, con gran calore, che il Ministero si cambiasse ed altro se ne organizzasse più confacente alle correnti circostanze del Regno e d’Italia; conchiudendo che il non ottenere queste cose sarebbe causa di gravi disturbi nella Capitale. In seguito di tali richieste, per allontanare i mali che si minacciavano, un nuovo Ministero fu creato, composto nella massima parte di quella gente, che mette il torbido nelle masse, cioè di giornalisti; ed era questo il terzo dopo il 29 Gennaro, essendosi di già fatti allontanare i Ministri Bozzelli, Poerio, ed il Prefetto di Polizia Tofano qual’ignari e traditori alla patria; un Vapore da guerra venne allestito, gli avvogliati a partire ebbero armi ed equipaggi ed un Battaglione di milizie regolari fu ordinato muovere di accordo ai volontari, onde fare isventolare nell’Italia alta la bandiera di Napoli; promettendosi ancora dar movimento per quella volta ad altre truppe, allorché fosse possibile. Ahimè, che nei governi liberi, quando il potere è trascinato a sostegno delle voglie private, la tranquillità pubblica, la inviolabilità delle persone, non vi è più! Tale fu la causa del bando dei Gesuiti, avvenuto nel 10 Marzo; il solo volere di pochi, e la debolezza del Ministero, decise illegalmente ed obbrobriosamente su questo fatto! (7)

Nel domani, ch’ebbersi le dette disposizioni, il 2. ° Battaglione del 10. ° Reggimento di linea, venuto in Napoli da Caserta, congiuntosi a a5o generosi giovani, guidati da prima dal mentovato Bellini, col grado di Maggiore (8), che fu poscia rimpiazzato dall’Uffiziale di linea Francesco Carrano, per aver quello demeritato, imbarcatosi sul Vapore la Maria Teresa, per Livorno prese rotta. Con questi felici conseguimenti, alto si aprì nel cuore dei Demagoghi la speranza di allontanare dal Regno molte truppe, e così costringere il Sovrano a più grandi concessioni, e ben-altro ancora. Ma per avere la legalità dell'atto, fecero pubblicare dagli amici Ministri un programma, statuito di comune accordo, che in certo modo distruggeva quanto nella Carta del 10 Febbrajo si era concesso, e molto applaudito. Questo programma oltre che produsse un ampliazione alla legge elettorale del 29 Febbrajo, diminuendone il censo, cosa desiderata dai perturbatori, perché di classe poco più che proletaria, sperante ciascuno un posto di Deputato per lo meno, diede causa alla spedizione di Agenti diplomatici per stringere la lega italiana, mettendosi a disposizione di detta lega un grosso contingente di truppa tanto di mare che di terra; per la qualcosa si richiamò la riserva militare; si attivò la presentazione del resto della leva precedentemente sospesa, e s’invitarono tutti gli amici della buona riuscita della causa della penisola a concorrere con danari, cavalli e muli allo scopo pose tutte, se guardate con retto fine, imprudenti ed esagerate, da non praticarsi da uno Stato, che tenevasi nell’infanzia della sua riorganizzazione, da una nazione non ancora costituita in se stessa, scemata di un quarto del suo essere, attesa la emancipazione, desiderata,e quasi ottenuta, della Sicilia. A vero dire, fu quel programma, sempre considerandolo dal lato puro, per i napolitani impolitico e pregiudizievole! Ciò io dico, non già che amassi l’ignominia d’Italia, orribile scandalo! ma perché riconosco che nel formare un tutto solido, è d’uopo ordinarne precedentemente le parti; se dal lato furbo, quale in sostanza conveniva guardarlo, fu l’opera, per eccellenza della malignità.

Il fine di questo atto legale e l’interesse in esso esistente, non essendo capito da molti, contentò nell’averlo ottenuto: a primo sguardo figurava vantaggiare una libertà più ampia, ed esternare una filantropia pe’ lombardi. In sostanza nascondeva un veleno possente e distruttivo, qual’era quello del progresso reale che si dava alla Sicilia per la sua indipendenza, ed a Napoli per ciò che a narrare suderemo, atteso l’allontanamento per l’alta Italia delle forze militari. Questo passo astuto agitato da Roma da un siciliano chierico regolare Teatino, colà stanziando, versipelle di carattere, centro quasi di tutto il movimento anarchico italiano, e spalleggiato dal Ministero, poco appariva e niente si palesava a coloro che non avvezzi e non possibili erano a riflettere; per la qual cosa fu trovato utile e confacente alla circostanza in cui trovavasi la penisola dalla massa dei schiamazzatori ed energumeni da caffè ma di tristi conseguenze da’ retti ed accorti cittadini.

Era a questi giorni uscita fuori una protesta del Re riguardante là Sicilia, la quale, per le smodate pretensioni che affacciava quel Comitato di Governo, tanto sul conto del Re, che per quello della nazione napolitano, fu da tutti trovata giusta ed equa. Pretendevasi, e ciò con suggerimento efficace di quel siciliano stancante in Roma, che aveva mess’a stampa un’opera intitolata: La Quistione siculo, nel 1848, sciolta nel vero interesse della Sicilia, dì Napoli e dell’Italia (9), che la Dinastia si spogliasse di tutti i dritti, di tutt’i poteri e di tutta l’influenza sulla Sicilia, che rinunziasse a qualunque rappresentanza straniera, a qualunque unificenza di principio e d’interesse; che cancellasse dalla ditta fin la parola Regno, onde il sospetto più leggiero di comunanza dei due popoli fosse snebbiato, e si riducesse ad abdicare. Alla nazione napolitana poi s’imponevano condizioni più crudeli, non da osarsi se non da chi l’avesse domata col ferro, e come schiava assoggettata. Se gli prescriveva di riconoscere il bando dai nostri concittadini cacciati dalle loro cariche e dei loro uffizi, spogliati dai loro onori, esuli da una terra dove avevan pigliata una consorte, procreati dei figliuoli, piantato un focolajo. E mentre una grossa schiera di nostri concittadini si metteva sulla strada, si spogliava, si uccideva, si pretendeva che il tesoro di Napoli prendesse il carico di lasciare i soldi e le pensioni ai siciliani, i quali per la lealtà, la onoratezza e la sensibilità napolitana, certo non sarebbe sfati rimandati nudi ed erranti ad una terra che sicuramente non gli avrebbe accolti. Indi s’imponeva di consegnare la quarta parte della flotta,,delle armi e materiali di guerra esistenti, o l’equivalente in denaro, ed altre arroganti pretensioni. Poscia si pretendeva, che i napolitani si assumessero tutto il debito pubblico, debito contratto da ambo i popoli, e che si soddisfacessero i danni del porto franco di Messina. Tali pretensioni, avendo il linguaggio della vittoria, confondevano coi questo il cedere dei napolitani per non prolungare gli eccidi. Siffatte intemperanze di dimande, tali ingiustizie di dritti, non solo producevano il turbare l’unità della nazione, l'irritamento delle truppe, non vinte, cercanti occasioni di rivendica, ma dava l’esempio all’Italia della guerra cittadina, e lo bandolo dell’anarchia. Sì, Italia, da quella trinacria che giace sotto il tuo piede, tutt'i mali tu avrai; i popoli di essa non sono tuoi figli, ma bensì inumani e rabbiosi saraceni; essi ti accarezzeranno, invocheranno il tuo patrocinio, ti chiameranno madre finché del tuo appoggio avranno bisogno, ma sciolti da tale necessità, si mostreranno quali anfibie aspidi verso di te, cospirando a tuo danno, poiché il cospirare insito nel nazionale loro carattere.. Credi chi troppo li conosce!

Ma quali provvedimenti prese il Governo su tale gravissimo oggetto? Col rispettare i dritti del popolo, tenendo il debito riguardo alla dignità del trono della nazione, col restare illeso da ogni passione, avendo a cuore i destini di tutta Italia, diede a vedere riconoscere i limiti della sua possanza, confidando nell’avvenire, mostrando così, restare nella dignità della sua attitudine.

Era uno il discorso, che ovunque per Napoli si udiva dopo questa epoca, giovani di poca esperienza, anziani entusiasti, liberali zelanti, moderati amatori della pace propria e di quella delta famiglia, così detta gente da bene, parlavano tutti della. organizzazione della Guardia nazionale, e da molti era tenuta da tanto questa istituzione, che in essa vi scovrivano il baluardo nell’ordine, la speranza della calma, e l’avviamento ad un sistema di tranquillità; cose in fatti avverate in tutti gli altri paesi precedentemente costituzionali. Ma i seminatori di discordie, gli agitatori di opinioni, i tumultuosi, gli eccessivi, avevano rivolta la cosa a molto dubbio risultato; di modo che la formazione di questo Corpo, dav’a pensare altamente. Già quelli, che si erano riuniti colla divisa di essa milizia, avevano date sinistre idee di loro, o non comprendendo il proprio carattere, o facendone mal’uso nei giorni delle frequenti rimostranze, mischiandosi in uniforme ai richiedenti; ed in quello della espulsione dei Gesuiti, avevano anzi fatt’osservare niuna subordinazione ai Capi, niun rispetto alle proprietà, niun contegno d’imponenza, qualità morali essenziali in qualunque milizia.

Non pertanto il Governo, fermo alle sue promesse, bandiva una scelta di persone per lo Stato maggiore dell’arma, che i più avventati per pregiudizi sia di buona, sia di mala fede, non avevano potuto dire essere la corruzione penetrata nella scelta. Un capo di Stato maggiore, quattro Colonnelli, quattr0 Tenenti Colonnelli, e sedici Maggiori erano stati nominati tra i cittadini per la notabilità, o pronunziati per la causa nazionale; una elezione a giorno prestabilito, eseguita tra gli individui, dar doveva le altre cariche fino al posto di Capitano: chi, che questa elezione rovinò quell’edifizio sexxx sul quale ogni Governo rappresentativo si forma e si consolida, sul quale la patria poggiar doveva il suo riposo e la sua possanza (10)! uno sciame di intriganti perversi, apartitici sfacciati, d’inconsiderati, di uomini senza carattere e capaci di ogni viltà, mista a gente non napolitana, ma rifiuto di ogni altro paese, penetrato tra i poco pensanti, gl'illusi, gli amatori di vita nuova, i ragazzi, ne tolse con arte il predominio e con ciarlatanismo di ribalderia tanto macchinare seppe e muovere, che le sedia dei gradi nelle sue persone cadde. Qual risultato ottener si poteva da una milizia cittadina siffattamente composta, sé non il lutto ed il vituperio? ed il lutto ed il vituperio la patria purtroppo ottenne; la città di Napoli, vide per tale milizia, un giorno dolente; non simile ricordato nella nostra storia, giorno che l'animo, non può ripensarvi senza tutta abbuiarsi ed agghiacciare! Ogni inconsideratezza, ogni eccessiva idea, ogni fantasma che offendesse l’ordine pubblico e morale fu da quei prescelti accarezzato e spalleggiato. Per loro niun’autorità era stabile, niun potere solido, niun diritto fermato, niuna legge santa, ninna fede inviolabile; per loro ogni cosa di già sancita ricevere dovette cambiamento o modifica: quanto dalla sfrenat’ambizione di essi si bramava andar doveva all’atto; quindi a buona ragione si può dire, che terminata l’organizzazione della Guardia nazionale di Napoli, si visse nella Capitale in un disordine crescente il quale pel contatto maligno delle cupe insidie e palese sciagurataggini sicule, che ogni arte mettevano fuori, onde innasprire le popolazioni contro il Principe, e malmenare le truppe, dandole titoli di vandali, di tiranni, più di fiere, che uomini, diventata era Napoli una perfetta incruente anarchia.

Questa specie di procèdere, e siffatte basi di elezioni avevano dato norma alla scelta dei Deputati e dei Pari; di molte migliaia di elettori nel giorno della riunione, neanco un sesta se ne vide riunito tal’era lo spavento morale che sulla massa della popolazione lo stato disordinato di Napoli aveva prodotto; la virtù pubblica, superiore di molto alla privata, se in Napoli pur ve n’era, indolentemente, o sbigottita non prendendo parte al santo proposito, alimentò la pestifera sfrontatezza delle nomine; non franco, non libero: non schietto fu il voto dei candidati ma ristretto e forzato da intrigo; in esso non i napolitani soltanto vi ebbero opera, come avrebbe dovuto essere, ma le influenze romane, fiorentine, genovesi e di ogni Stato d’Italia non che le attivissime siciliane, vi presero parte. Un empio foglio periodico, sacrilego profanatore della stampa, intitolato il Mondo nuovo ed il Mondo vecchio, redatto in gran parte da un parente di un Ministro, epperò appoggiato dal ministero, nominatore di ogni perversità, foggiato a similitudine dell’Amico del popolo, scritto in Francia, dall’infame Marat nel 1792, ne aveva data una lista: erano i nomi in essa segnati quelli ai quali la massima parte degli elettori si dovevano attenere e furono quelli a cui sciaguratamente si attennero! In parecchi Collegi elettorali non si vollero nominare Pari; in altri si giunse alla stoltezza di specificare il mandato agli eletti per la Camera unica costituente. E chi il crederia! molti elettori, mentre si affaticavano a sostenere quelle strane ed illegali pretese, ignoravano finanche il senso detta parola costituente (11)! Già i primi ribaldi napolitani, i più accaniti contro l’Altare, la Monarchia, la Costituzione, l'Ordine, il Potere avevano ricevuto il suffraggio; la voce stentorea ilei faziosi, soffocando quella dei buoni, fece credere ai primi essere rimasti vittoriosi, quindi leggevansi nelle liste degli eletti, alle cantonate delle strade, i nomi di essi. Già quelli di simile natura, e forse peggiori, si facevano udire per l’elezione delle Provincie, le quali non covando in loro stesse tante perfidie quand’erano riunite in Napoli, per la forza degli sconcertatori avevano dovuto dare il mandato a gente siffatta: già il giorno dell’apertura dello Camere era prossimo, già il preparato e macchinato disordine era sullo scoppiare. Una quantità di sgherri di Provincia aveva presa stanza in Napoli, venuti per proteggere le operazioni e le voglie dei Deputati provinciali, questi aumentando sempre di numero, baldanzosamente vivendo nella Capitale, ogni mezzo cercavano onde far nascere discordie e sconvolgimenti.

Il Ministero preseduto da Carlo Trova, tenuto a parte di quanto si macchinava, anzi motore delle macchinazioni, perché congiurato sulle cose avvenire, dominando ed invadendo il potere esecutivo, dirigeva con iscaltrezza le fila di tutto ciò ch’era preparato; mancandogli però il coraggio e l’ardire per prorompere con successo, per vie di segrete e perfide mene portava innanzi l’opera. Grave ostacolo però parevagli la truppa, la quale perché aumentala in numero, attaccata all’ordine, convinta della santità del giuramento dato in seguilo dei fatti del 29 Gennaro, faceva non buon viso a quel progresso di smoderatezze che offendeva il decoro patrio: distruggerla, non era possibile; cambiarne lo spirito in cui si teneva, riusciva difficile, lungo ed incerto il risultato, quantunque tale pratica crasi già cominciata a mettere in opera da taluni scellerati, vili e comprati commiliti; allontanarla dal Regno, era il solo mezzo di buon successo; quindi il Ministero, di comune accordo, ad altro non rivolse le sue mire, che a mandar fuori del Regno buona quantità di truppe, sotto pretesto di sostenere lu causa della indipendenza italiana. Ma per non far vedere, che un tal divisato isolatamente e di fronte si attaccava, fè mettere in sù altra gioventù di tutte le condizioni, la quale dopo pochi giorni riunita da talun’individui, la più parte prezzolata dai Demagoghi, fu rassegnata in diverse Compagnie e Battaglioni. Questa scaltra determinazione non solo in Napoli si fece mandare ad effetto, ma spargendosi nelle Provincie la voce del volontario arruolamento, fu sì che nei Capiluoghi di esse talune persone, non amanti di travaglio, andarono a scriversi pel soccorso dei lombardi e dei veneti: detta agente riunita, e da riunirsi, allettata dal Ministero, ebbe armi, bagaglio, abbigliamenti, munizioni e danaro, e quasi milizia regolare comparve. Era questa l’ora di cominciare a scovrire la tessuta rete, essendo prossima la convocazione del Parlamento! Altra nave a vapore venne allestita, e molti volontari messi a bordo d’essa, si congiunsero al 1° Battaglione del 10. ° Reggimento di linea. che tutto compreso quel Corpo venne bandito per la vanguardia dell’esercito approntato per la guerra italiana: diversi vapori da commercio, imbarcando volontari di ogni sorta, di volta in volta uscendo dal porto di Napoli, recarono verso le regioni milanesi quelle accozzate milizie.

Onde accelerare la dilatazione delle idee vertiginose, e disporre i popoli a fermento e sollevazione, una nuova arte di propagare era sarta, del tutto maligna, del tutto perfida. Una corrispondenza attiva di lettere tra Demagoghi e Demogoghi, tra costoro e loro satelliti, col solo indirizzo, senza nulla esprimervi dentro, era mess’alla Posta; epperò se gli dava il nome di lettere bianche, (12) Era il meccanismo di questa corrispondenza, lo scrivervi sul bianco del foglio, da colui cui era diretta la lettera, e non da quello che la dirigeva, tutto ciò che credeva possibile, per le circostante del proprio paese, onde infiammare i riscaldati; sedurre i creduli;. tener ferm’i speranzosi. Questo sistema avendo del malizioso in effetti, colpita quasi tutti coloro, che per ragione di propagazione erano invitati alla lettura di tali fogli, nei quali vi si apponeva una firma qualunque; epperò il lettore in buona fede vi trovava quanto di reale vi esiste in una lettera venuta per la Posta, cioè la soprascritta e la direzione alla persona che gli faceva leggetela lettera, il bollo della Posta che l’aveva immessa, l’altro di quella dell’arrivo, il presso della tassa, cd il corpo della lettera colla data confacente a quanto si voleva far propagare; cosi il trappolato accertatosi della notista, la spargeva con sincerità e candidezza senza ombra di mistero, e passando di bocca in bocca, si moltiplicava a dismisura. Tele sistema sparso nel Regno, e nell’Italia tutta, dando sostanza di credito ai poco accorti, agl’ignoranti, agli agevoli a credere, fu in vero la fonte dei mali che hanno minacciata la tranquillità, pubblica e la pace delle famiglie, mettendo in allarme ogni persona.

Sparsa e divolgata ministerialmente la voce della partenza delle truppe per la Lombardia, una calma studiata fecesi vedere nella Capitale per pochi giorni; tutti i sinceri, ma caldi della indipendenza italica, acclamarono il divisato e ne lodarono il progetto; i rei, ch'erano a parte della maligna opera, tenendosi frenati sulla cosa risolenti e giulivi per quel movimento si mostrarono; solo uno scarso numero di pacifici e previdenti cittadini, comprendendo in quella mossa l’inganno, silenziosi rimasero per timore! Il Re recatosi in xxxunione del Ministro della Guerra e del Capo dello Stato maggiore in Caserta ed in Capua, visitò le truppe colà stanziate, le quali formar dovevano parte del Corpo da entrare in campagna, e nel rivistarle, diede le più energiche disposizioni onde fossero provvedute dell’occorrente: lo stesso si praticò in Nocera. Trascorsi alcuni giorni vari Reggimenti ebbero ordine di muovere per l’Italia alta, formandosi in due Divisioni, ed una Squadra di legni da guerra fu allestita a secondare il movimento delle milizie; disponendosi, che una delle due Divisioni transitasse per terra, e l’altra movesse per mare. Otto battaglioni di fanteria, una batteria di artiglieria, due compagnie di zappatori, due ambulanze, furono riuniti a far parte della prima Divisione, comandata dal Tenente Generale Conte Giovanni Statella; sette battaglioni, una batteria di artiglieria, ed una compagnia di zappatori formavano la seconda, guidata dal Brigadiere Carlo Nicoletti; un Reggimento di Lancieri e due di Dragoni completavano la cavalleria, obbediente al Colonnello Marcantonio Colonna. Il Tenente Generale Barone Guglielmo Pepe, che nel 1821, per motivi politici era stato bandito dal Regno, ora rientratovi appena, aveva chiesto il comando di quelle milizie, ascendenti a 13mila uomini, per redimere i suoi passati falli ed errori; ed il Ministero, nulla badando alla santità della commissione, aderendo alla sua dimanda, sol perché Pepe caldo si mostrava per l’indipendenza d’Italia, essendo anche a parte di quanto doveva succedere permise che in quelle truppe avesse luogo, che il Capo non conoscesse i subordinati, questi non sapessero, per la più parte il Capo, neanche di veduta, e chi il sapesse tristissime ricordanze serbasse di lui; quindi quel ligame morale reciproco, che in una milizia tra il comando e la subordinazione forma la base di ogni buon risultato, impossibile riuscisse tenersi. Bell’opera e saggissima fu questa del Ministero! (13) Nel 27 Aprile cinque fregate a vapore di guerre, con altre due a vela ed una corvetta, portando a bordo la seconda Divisione delle sopraddette truppe, unita ad un battaglione di volontari, partirono dal porto di Napoli, e due giorni innanti la prima Divisione, per la via di terra, erasi messa in rotta.

Or come lo scopo del Ministero era solo quello di allontanare dal Regno le truppe, e non il successo felice d’un’impresa, così avviat’appena la milizia, trovò esso oltremodo impicciato su talune primordiali essenzialissime considerazioni. Quantunque, attesi gli alti schiamazzi, erans’inviati fuori di Stato, quali Commessari, il Principe di Luperano, il Duca d’Albaneto Pallavicino di Proto, ed il Principe di Colobrano, con Antonio del Prete, Fortunato Giannini, e Ruggiero Bonchi, per accordarsi con quelli degli altri Governi d’Italia, onde formare un tutto italiano, pur tuttavolta essendo trascorsi molti giorni nulla si era praticato, perché niun mandato era stato spedito dagli altri Principi rimanendo i nostri agenti nella inerzia diplomatica; perciò avendo fallo sapere essi al Governo un tale procedere avevano deliberato far ritorno nel Regno com’eseguirono; anzi il Papa Pio IX centro di tallo il movimentò e fermento della penisola (14), nel Concistoro del 29 Aprile, avendo dichiarato apertamente essere la guerra alienissima da’ «suoi consigli, perché tenendo esso in terra le veci di Colui ch'è autore della pace ed amatore della carità, dover con pari amor fraterno abbracciare tutte le genti, tutt’i popoli e tutte le nazioni» cosi per queste volontà, non possibile riusciva alla Divisione marciante per terra il passaggio nei Stati romani per recarsi oltre il Po. Altro intoppo, non di minor valore del già detto, erasi manifestato per la Divisione inviata per mare. Essendosi avuta certezza, che gli austriaci avevano fatto marciare sull’Isonzo, un corpo di truppe sufficientemente numeroso, facile non riusciva sbarcare a Venezia quelle milizie, potendo rimaner chiuse tra due linee al momento dello sbarco; per queste cose, nata difficoltà tra i Ministri, onde decidere qual partito possibile si presentasse nella riuscita della marcia, niuno ne seppero vedere, essendo tutte persone che l'idea della guerra rifuggiva unanimamente dal loro esercitalo e continuo malizioso ciarlatanismo. Stretti però dalla urgenza di dare delle disposizioni allo due spartite colonne, onde concentrarsi in un punto ed agire di accordo se fosse necessario, chiesero intervento in Consiglio di taluni militari da senno e pratici delle cose di guerra. Fatto esame tra i sufficienti, se ne prescelsero tre di merito reale, sul conto dei quali possibile non era, per ninna causa, farvi cadere osservazione. Riunito il consesso in casa di uno di essi, tolsero a dimandare le nuove di quanto tra le opposte parti si operava, epperò rivolle le richieste da prima al Ministero degli Affari esteri Marchese Luigi Dragonetti, come colui che per obbligo di Ministero, essere doveva informato, per mezzo di agenti ben pagati, di ciò che presso le altre nazioni è gli altri Governi si praticava, n’ebbero in risposta, non poter dare alcune delucidazioni, essendo «egli nuovo alla carica, poco conoscere della diplomatica, e delle cose che si operavano al di fuori del Regno»; (15) quindi gli fu rimboccato da uno dei tre, con discorso misto d’ironia e sincerità «sarebbe miglior condotta e più patriotta dimettervi dalla carica, che tenerla malamente, avvegnaché è insito lo obbligo di Vostra Eccellenza sapere quanto nell’estero si pratica; il non saperlo è un tradire il Governo ed i cittadini; la patria da altro soggetto poter essere molto meglio servita, e con quell’interesse che l’epoca richiede. »

Tali parole santissime, ammutolirono il Ministro, che da prima con modi studiali e linguaggio da purista, aveva fatt’allocuzione, poscia colui che aveva preso a discorrere seguitò a richiedere sulle mosse dei nemico, sulle opinioni dei vari Gabinetti d’Italia, sulle possibilità di finanze, e su quanto altro era d’uopo conoscere per dare un avviamento a non equivoche operazioni. Fu detto, che «il Papa non voleva dare il passo alle milizie napolitane, per lo che non aveva dichiarato là guerra all’Austria; dovere non pertanto passare la Divisione mar dante per terra, quello Stato; quindi scegliere il punto più atto, a non offendere l'autorità di Pio IX. » A queste parole e ad altri discorsi tendenti a dimostrare la superiorità delle forze nemiche, e le posizioni possibili ad occuparsi dalle nostre truppe, rispondeva esclamando il Ministro Scialoja in tuono ispirato: «ma Iddio è con noi, la causa è santa, non può mancare. » (16). A ciò il preopinante, con quel tuonò di disprezzo che alle idee inette è dovuto, diceva et non essere i tre chiamati a consiglio ne Melchisedec, né Mosè, né altri guidatori di truppe condotte dai miracoli dell’Onnipotente, avere essi le sole cognizioni strategiche e non conoscere mezzi sopraumanj; se santa fosse la causa di quella impresa, si facessero operare quelle virtù incognite agli uomini, in loro non esistenti, e se De sarebbe avuto il risultato. Senza, dar luogo ad utopie trovarsi lo Stato già compromesso verso l’Austria per la partenza del 10. ° Reggimento di linea, potersi compromettere per altra violazione di dritti ancora; intraprendere la marcia per lo Stato romano a viva forza». A siffatto ultime proposizioni il Ministro della guerra Brigadiere del Giudice (17) interrompendo il discorso protestò con altissimi sentimenti di scusa non aver dato ordine per la partenza di quel Reggimento; qualunque fosse la sorte di esso; non volersi indossare responsabilità alcuna su tal movimento» al che gli fu richiesto, chi mai e per quale ordine, si fosse mossa quella truppa, ed il Conforti Ministro dell’Interno, rispose «essersi dovuto ciò praticare per dare una soddisfazione al popolo» quest’espressioni, ebbero in riscontro, «trovarsi incompatibile il proponimento di tenete le truppe quale trastullo del popolo; se tal cosa si penetrasse dalle milizie, gravissime poterne risultare le con seguente» (18).

Rotta così la diatriba sulla prima parte della sessione, si passò a discutere per le truppe messe a bordo della squadra; fu detto da’ vari Ministri, non poterle fare sbarcare a Venezia, atteso quanto di sopra si è esposto, convenire metterle a terra ad Ancona, ma ciò incontrare la dipiacenza del Papa, quindi confacente risultare farle discendere a Pescara; ma obiettandosi da uno dei tre «essendo di poche miglia il tratto da Pescara allo Stato romano, quello che avvenir non dovea oggi, avvenuto sarebbe domani» fu opinato Manfredonia punto di sbarco, alquanto lungi dallo Stato Pontificio, e così marciando littoralmente entrare per Battaglioni nella Romagna dopo alquanti giorni. Queste discussioni fatte senza convincimento reciproco, niuno effetto produssero, poiché il raziocinio, incontrando utopie; non si accomuna con esso; quindi la discussione risultò come non fatta; ed i tre chiamati a consiglio, se ne andarono dolenti, nel compiangere i mali che alla patria quel Ministero certamente avrebbe arrecati (19). Trascorsi alcuni giorni, avvenuti taluni seri disordini in Roma, mossi nella massima parte dal Demagogo Pier Agnolo Fiorentino, antico rivoluzionario, bandito dal nostro Regno, e vissuto in Francia per molti anni, ora agitatore dell’Italia, e sconvolgitore parziale, di ogni Stato italiano, l’autorità del Pontefice ebbe molto a soffrire; questa circostanza fece sì, che coloro già divenuti arbitri del governo politico romano, inducendo a far dichiarare la guerra dallo Stato Pontificio all’Austria, permisero che le truppe di Napoli si recassero e per terra e per mare nei loro Stati per proseguire la marcia fino oltre il Pò all’incontro del nemico; cosi le difficoltà già annunziate, vennero superate; e le prime penetrarono nello Stato papale per Giulianova, le seconde sbarcarono ad Ancona. Per tal cosa il Ministero fu pago nel suo ardente desiderio, trovandosi con poca suggezione, atteso le molte truppe allontanate dal Regno, e quelle che si proponeva di allontanare.

Gli avvenimenti romani testà annunziati, il fermento in cui la Capitale del mondo cattolico si trovava, gli allarmi ch’erano nati nell’Italia tutta per le sorti del Pontefice, ridotto quasi à Vescovo di Roma, avevano dato moto in Napoli al prossimo scoppio di quanto si era preparato: tutti gli eccessi della licenza, della erronea accezione della libertà, l'infrazione e soprafrazione della legge ne’ cuori frescamente battezzati a cittadinanza, mossi da smisurato e malvagio spirito di progresso, davano a vedere che le leggi con la Costituzione avevano perduto il vigore, ed il Governo era caduto in sensibilissimo discapito forza morale. Le ribalderie non più tenutesi celate, ma palesi, udivano ovunque pubblicamente le concepite smodatezze e marmaglierie da mandarsi all’atto; il non essere soddisfatti della Costituzione giurata e festeggiata nel 29 Gennaro, il riavere la sciagurata Costituzione del 1820, erano desideri non esagerati, la forma repubblicana ed il sistema inetto del comunismo, dalle vampe delle passioni era idolatrato. La demagogia fiera del risultamento delle sue bravate, con la convivenza ed appoggio del Ministero, erasi impadronita del potere esecutivo. L’imitatore di Marat ad uno de’ numeri del suo Giornale, annunziava apertamente ai pubblico, dopo una lunga controversia tutta sua, il ricordarsi di Cario I e di Luigi XVI, aggiungendo la parola capite con punti ammirativi; quindi nulla v’era più da presagire di bene. Una flotta francese entrata nei nostri paraggi e mossa l'ancora nella rada napolitana, aveva fatto sperare e credere ogni appoggio a quanto si voleva operare: il giorno dello scoppio vulcanico era fissato in quello della riunione delle Camere.

Un cerimoniale comparso al pubblico per l’apertura del Parlamento, disponeva che nel 15 Maggio la funzione solenne avesse luogo; nel detto dì un giuramento de’ Pari e de’ Deputati, eseguilo precedentemente all’apertura delle Camere, ligar doveva quei prescelti alla, buona, condotta della causa nazionale. Una nomina di 50 Pari, fu pubblicata a secondo dello Statuto costituzionale; tutto era all’ordine a fine di vedere il giorno sospirato della napolitana riorganizzazione festevole e giulivo; ma in vece spuntò tristo e di sangue.

Nel sanato 13 Maggio un movimento di armati fu manifestato in S. Maria di Capua e nella prossim’Aversa; un invito alle Comuni contigue di riunire uomini, onde recarsi nella Capitale, fu bandito, ma il niuno accosentimento, anzi il disprezzo, di queste ultime, sconcertò e ritenne i primi: essere doveva questa mossa in sostegno dei Deputati, che già, in buon numero in Napoli s’erano recati; tale era l’esempio dato dai prescelti di Calabria. Nel mattino della succeduta Domenica un demagogo avertano, recatosi nel Conservatorio di Musica in S. Pietro a Majella, fece appello de’ più adulti giovani e seco li condusse nel Reale Albergo de' poveri, dove li armò con i fucili tenuti da quello stabilimento per la scuola dei ragazzi militari, qual Cosa fu o autorizzata od ignorata dalla Polizia.

Nello stesso dì, verso il tramonto del sole, novantanove Deputati riunitisi tra essi, si recarono nella sala di Monteoliveto, coll’apparente fine di consultare sula formola del giuramento. Tale operato fece raduuare dopo le ventiquattr’ore nella calata Monteoliveto, avanti la fontana, ed innanzi il palazzo Ricciardi (olim Gravina) una quantità dì gente bene osservabile, molte delle quali entravano ed uscivano dal detto Palazzo, ove congiunto si trovava il fiore degli esagerati, a Capo dei quali vi stava Giuseppe Ricciardi, secondonato del Conte dei Camaldoli, autore di varie opere incendiarie, ohe spediva messi di continuo ai Disputati di Monteoliveto. La specie di giuramento malizioso, cosi opinato, dav’a vedere pretendersi che il Sovrano giurasse sul vago, quindi restasse ligato a sostenere cose non ancora conosciute, epperò contro la natura di ogni giuramento.

Fatta la proposizione al Re su questa formola il Sovrano rispose «aver giurato due volte la Costituzione del 29 Gennaro, avere accettato il Programma ministeriale, col quale era promesso di svolgere lo Statuto; si avesse anche come giurato questo Programma, non poter giurare nel modo proposto, poiché avrebbe giurato senza sapere che giurava».

Ricevuta tal risposta, alcuni fra i Deputati, in un subito mostrarono nei loro discorsi, non essere costituiti, ma fanatici demagoghi; epperò cercando colle grida e le insolenze soverchiare i loro colleghi, gli dissero, trovarsi sostenuti nelle intenzioni da molta gente armata condott’a bella posta dalle Provincie, quindi doversi aderire alle vedute di essi, essere in marcia per Napoli gran quantità di Cilentani, guidati dal Colonnello della Guardia nazionale Costabile Carducci, aver promesse di soccorsi dalla Squadra francese. Nè paghi di spaventare in siffatto modo i Deputati, presero anche a sbigottire molti dei Pari, che si trovavano in casa del Principe di Cariati Presidente di quella Camera, a conciliare le insorte quistioni del giuramento; indi per le caldissime efferrate-istanze del Deputato Giovanni Andrea Romeo, e di Stefano Romeo, che non essendo Deputato, anche in quell’assemblea sedeva, il quale era di già venuto scelto ad arte dal Ministro Trova per trattare un armistizio tra Messina e la Cittadella (20); ed aveva nel giorno 12 Maggio bandita una ipocrita proclamazione per subornare la tranquilla parte della Guardia nazionale di Napoli, dichiaratisi in seduta permanente formarono un Presidente, un Vice-presidente e dei Segretari; e stabilirono che l’Assemblea nazionale si dovesse erigere a Costituente! Molti tra i Deputati, perché informati di quelle mene repubblicane, non si erano presentati alla riunione, altri non ancora. erano giunt’in Napoli, e buon numero di quelli intervenuti al consesso, udita la sovversione degli ordini dello Stato, si ritirarono immantinenti, rimanendo in Monteoliveto solo gli esaltati costituzionali ed i cospiratori al numero poco più di sessanta. Da quel momento in poi le volontà: della più parte di questi residui rappresentanti nazionali riuniti, divennero smodate all'eccesso. Il Sovrano saputo l’atto insolente, com’era suo debito, si oppose con parole; questa giusta opposizione, fu dai demagoghi e satelliti scelleratamente trasfigurala, perché cosi giovava ai loro iniqui disegni. Su tal proposito diceva il Re al Principe di S. Giacomo «volere nel domani suggellare la Costituzione con un altro giuramento; e ch’egli non intendeva per questo menomare la facoltà di svolgere lo Statuto accordata alle Camere medesime. » Questi sentimenti manifestati da S. Giacomo per le strade ai rivoltosi, onde calmare la concitazione, di niun frutto risultarono. Anzi appena il detto Principe erasi allontanato dalla Reggia, venne riferito al Re, che una deputazione essendosi recata dall’Ammiraglio francese Baudin, gli chiedeva l’appoggio ed il soccorso de’ suoi nazionali dipendenti, onde stabilire in Napoli la Repubblica; ed il Re, con estremo rammarico, fatto certo della cosa, rispondeva «non rimuoversi dalla via legale, affrontare qualunque difficoltà, qualunque pericolo colla lealtà di cittadino, e col coraggio di soldato. »

Era uno il motto d’ordine dei tristi, cioè «venir traditi dal Re, che attendeva distruggere la Costituzione» epperò la voce di tradimento! fecesi udire in tutte le principali strade dai loro seguaci, fra quali non pochi della Guardia nazionale, illudendo ed infiammando con questa calunnia, molti altri de’ loro compagni ignari della tessuta cabala. Un demagogo furibondo, entrato nella sala ove i suoi amici erano stati lasciati dai buoni ed onesti Deputati, gridò «non esservi ornai altra salvezza, fuorché nelle barricate;» pensiero venato suggerito con lettere da Rama e da Palermo. te! replicarono inferociti parecchi della Guardia nazionale, che a disegno aspettavano fuori la sala; altri vollero, che si battesse la Generale. Il Brigadiere-Pepe Comandante di essa Guardia vietò quel tocco di guerra, ma quei ribellandosi, lo minacciarono, e fecero battere i tana burri per la Città; in un lampo la Guardia nazionale corse alle armi, e versò la mezzanotte cominciarono in via Toledo a costruirsi barricate. Vi lavoravano calabresi, altri cittadini ignoti, muratori presi per forza, siciliani, italiani di ogni Stato, gran numero d’individui della Guardia nazionale, e come taluno ba detto, francesi della squadra, ed anche qualche Deputato vi fu veduto. Carrozze di particolari prese, a viva forza dai proprietari, altre da nolo incontrate per via, banchi di Chiese, botti, carri, travi, porte, barracche di venditori d’acqua, persiane di balconi, e quanto di legnam’era riunibile, fu ammassato dai costruttori nei vari siti. Due Pari ritornando da Monteoliveto al Real Palazzo, vennero fermati in Toledo, e la loro carrozza servì per le barricate; un togliere di selciato, uno sfossicare di strade, un fabbricare le vie laterali, era il proteggere le costruzioni in legname; quindi un rumore ed un disordine da forsennati in tutte le strade facevasi udire. I due Pari giunti alla presenza del Re, e narrato il fatto, lo scongiurarono, unitamente agli astanti, che ordinasse alla truppa l’abbattimento delle barricate, ma il Re non aderì alle loro brame, solo si mosse per provvedere maggior sicurezza intorno al palazzo Reale; però fatto chiamare al momento il Ministero, gl’impose formare un Decreto, col quale si rigettava l’antica formola di giuramento, e ciò per far paghi i voti dei Deputati. Le truppe circa un’ora dopo la mezza notte, avendo avuto ordine di uscire dalle caserme, si recarono in varie posizioni nei dintorni della Regia ed in altri luoghi: il Brigadiere Pepe e diversi Uffiziali della Guardia nazionale, chiamati dal Re per impedire quelle costruzioni, rispose, che a rassicurare gli animi è ad indurle la Guardia nazionale, che disfacesse le barricate, era necessario far ritirare la soldatesca. Poteva il Sovrano dare una mentita maggiore alla scellerata calunnia, quanto di comandare che i soldati ritornassero alle caserme? Il Sovrano lo comandò, ed i soldati verso l’una e mezzo dopo la mezza nette, fecero ritorno ai quartieri; ciò non ostante il reo lavoro fu con maggior rabbia proseguito in altre strade. Allora molti Uffiziali di essa Guardia, avendo in ogni modo cercato di opporsi, ed in risposta., ricevendo ingiurie e minacce, gittarono al suolo con disprezzo le loro insegne, e si ritirarono: il Brigadiere Pepe ebbe non ultima parte alle insolenze, anzi il salutarono con violenze e vie di fatto, perché tenuto qual traditore: esperimento di una simile subordinazione aveva già saggiato quel Capo di Corpo delle sue milizie, non che il Generale Ispettore, tanto nella giornata del bando dei Gesuiti, come in quella della riunione dei torcolieri ed artigiani al Campo, e nell'altra del I Maggio, per l’arresto e scarcerazione di un sovvertitore dell’ordine pubblico.

Intanto il Re sapendo che le barricate anziché disfarsi si perfezionavano, preso da vivo dolore, sulla considerazione di vedere spingere il paese in rovina, fece chiedere del Colonnello della Guardia nazionale de Piccolellis, ed avutolo innanzi, gli disse: «a forza dunque i sediziosi vogliono, pascersi nel sangue civile? Ma che altro si chiede, che altro si pretende? La formola del giuramento è stata già tolta (21), il Ministero si sta occupando del Decreto; perché le barricate sono ancora io piedi, anzi si rafforzano?» Ed il De Piccolellis assicurando il Re che tutto sarebbe rientrato fra poco nell’ordine, non più fece ritorno alla Reggia, avendo trovata invalida la sua cooperazione di persuasiva. Trascorso del tempo, il Re pieno d’impazienza per conoscere il vero delle cose, mandò a chiamare il signore Antonio Nova, ed il Colonnello Letizia, il primo Sindaco della Città di Napoli, il secondo Uffiziale Superiore della Guardia Nazionale, costoro gli esposero che un certo forsennato nominato Giovanbattista La Cecilia, Capo Compagnia della Guardia nazionale, appartenente al 4. ° Battaglione, di recente venuto dall’esilio, ed impiegato da poco tempo al Ministero, aveva nel largo della Carità dato principio alla costruzione delle barricate, e che niuna paròla più v’era adoperabile per frenare il cieco impeto suo e dei suoi sconsigliati compagni. Intesa questa esposizione il Re, risoluto sempre agire colle buone maniere, pregò loro operare tutt’i mezzi possibili d’indurlo a ricomporre la tranquillità. Questi due messi, poco fiduciando del buon esito del mandato colle sole vie dell’eloquenza, chiesero al Re condurre con essi un sufficiente numero di soldati; ed il Re, a voce alta e da tutti gli astanti udita, gli rispose «non voglio soldati, non voglio che si vegga la minima ombra della divisa militare; la distruzione delle barricate dev’essere fatta da’ villici, voi signor Sindaco troverete persone atte a questo uso. » Inutile risultò l’opera del Nova e del Letizia, poiché appena presentatisi avanti ad una barricata che stava in principio di costruzione, e con dolci modi incominciarono a perorare, n’ebbero in riscontro, con voci da disperati «siamo traditi, siamo traditi! nelle barricate sta la garentia de’ nostri dritti e la salute della patria». Mentre tanto avveniva un certo Bellella congiunto ad un de Riso; ambo Deputati, recando dalla casa di Trova alla Camera dei Deputati la copia del Decreto, si soffermarono nel luogo ov’erano Nova, e Letizia perorando, ed intesi di che si trattava, esortavano anch’essi ai costruttori delle fortificazioni, che desistessero da un’opera senza scopo e forse funestissima; ma le voci dei quattro oratori riuscirono inutili ricevendo il Letizia, dà parecchie Guardie nazionali ch'erano là, dando mano al fatale lavoro, delle impertinenze. Convinti più che mai che si spendeva tempo e parole inutilmente, i quattro oratori si ristettero dall’insistere e s’avviarono per la volta di Monteoliveto; il Capitano d’Artiglieria Angelo d’Epiro, che trovavasi col Nova e col Letizia, recatosi incontanente al Re, gli fece il tristo racconto d’ogni cosa; come il Re restasse trafitto nell’udir tanto, è facile immaginarlo. Poco di poi ritornando il Sindaco, e Letizia al Sovrano, gli dissero in unione del d’Epiro «che i momenti erano preziosi, un partito doversi prendere e subito, se non si voleva che l’allarme ed il tumulto si fossero più accresciuti nella città col crescere e moltiplicarsi delle barricate; che a disfarle non c’era altro mezzo, salvo quello d’un drappello d’inermi soldati, garantiti da altri armati qualora venissero offesi. — No, non voglio soldati, v’ho detto, non voglio armi. Credete forse che voi soli avete il coraggio di toglierle con la forza? Il coraggio non istà nell’eseguirlo, ma nel comandarlo. » Queste parole furono dal Re profferite con tanta risoluzione, da torre ogni luogo a dubitare.

vai su

Giornata in se Stessa

Era l'alba del 15, e tre Uffiziali del 2. ° Reggimento della Guardia Granatieri, avendo udito nella notte la costruzione delle barricate, si recarono a Toledo onde assicurarsi e riconoscere quelle opere di fortificazioni: giunti all’angolo di S Ferdinando, furono avvertiti da un Caporale del loro Reggimento, che si trovava di guardia al Real Palazzo, non andare verso la direzione presa, perché avrebbero incontrata resistenza, ma i tre disprezzando l’avviso, seguitarono il loro cammino, che fu libero fino all’angolo del vico Conte di Mola, ove trovarono la prima traccia di barricata, poggiante la dritta all’angolo del vico, e la sinistra al palazzo Montanaro, che si andava perfezionando col lavoro di talune Guardie nazionali e muratori; lo stesso fu visto al limitare del vico Afflitto, allo sbocco ed all’angolo di S. Brigida ed al cantone della Concezione, ove delle Guardie nazionali soltanto, avendo poggiat’i loro fucili al muro, abbattevano una carrozza: questi Uffiziali essendo napolitani, conobbero taluni delle Guardie nazionali ch'erano alla difesa e Costruzione delle barricate, ma perché onorati, non ne svelarono e non ne sveleranno i nomi (22). Accertatisi di quando loro bramavano, volgendo a sinistra, lasciarono la strada principale è si misero di ritorno su i vichi paralleli ad essa; giunti a quello denominato Tedeschi, s’introdussero novellamente in Toledo col proposito di recars’in Quartiere; ma avendo veduto tonanti loro il Brigadiere Pepe accompagnato da una ventina di persone, buon numero delle quali Guardie nazionali, ne seguirono i passi,onde scorgere ove si recasse e cosa facesse; assicurati che si portava a Palazzo, si diressero alla loro caserma.

Coll’alzarsi del sole, il furore debaccando sempre più, s’udirono voci fra le bestemmie e gli oltraggi, che chiedevano l’abdicazione del Re, l’allontanamento delle truppe dalla Capitale per un raggio di quaranta miglia, e la cessione delle Castella nelle mani della Guardia, nazionale. Ciò seguiva per una mozione fatta dal Deputato Ricciardi, e contrastata dall’altro Bellella coll’aiuto della Camera. «La situazione è mutata di molto da ieri in poi, diceva Ricciardi, il perché diverso esser debbe il nostro linguaggio colla corona. La diffidenza della nazione, ed in ispecie delle milizie civili, è cresciuta, a mille doppi: unico mezzo a farla cessare sarà l’ottenere dal Governo garantie positive. Io propongo gli siano indirizzate, il più presto possibile, le due seguenti domande moderatissime; moderatissime io dico, in ragione dei miei principi e desideri ben noti; consegna delle Castella in mano della Guardia nazionale; lo scioglimento, ovvero l'invio immediato della Guardia Reale in Lombardia. Che se il governo sarà per opporci il pessimo stato delle finanze, e noi diamo al paese l’esempio del sacrifizio, soscrivendo ciascuno secondo le proprie facoltà. Ed io primo nell’opposizione mi segno fra i primi per la somma di ducati 100 (23)».

Quest’esagerazioni, imitate servilmente, su quanto, si era richiesto in Roma, per istigazione di Pier Agnolo Fiorentino, che in quei giorni si trovava in Napoli, perché venuto il 7 Maggio, produssero delle scissure di opinione nella Guardie nazionale; molti si ritirarono alle proprie dimore, altri aderirono ai postruttori delle barricate, e buon numero, che voleva: anche allontanarsi, fu astretto dal. calabrese Mileto a riunirsi ai rivoltosi. Continui, erano i messi fra la Regia, i Deputati ed i Ministri nelle prime ore di quel giorno ferale: molti dicevano avere il Re acconsentito di sospendere il giuramento ed aprire le Camere come già era stato bandito; farsi verso il mezzogiorno la funzione solenne: un ordine firmato dal Presidente dei Deputati, accertando queste voci, disponeva, che la Guardia nazionale disfacesse le barricate; queste per i suggerimenti di La Cecilia, Mileto ed altri fatui non vollero, gridando alcuni, ad imitazione di Parigi, è tardi! (24)

Pepe ritornato dal Re, con altri uffiziali maggiori da esso dipendenti, assicura che essendo tolta di mezzo la questione del giuramento, le barricate sarebbero. senza meno disfatte; non volere però ciò fare la Guardia nazionale perché travagliosa operazione, desiderarsi soldati senz’arma per isgombrarle.

A questi avvisi, il Re, stretto dalla necessità, accordò il muoversi dei soldati inermi, e tosto cinquanta uomini della Guardia di Palazzo, metà dei Granatieri e metà dei Cacciatori, comandati da due subalterni (25) levatisi il cuojame, per servire come travaglio, uniti ai Capitano D’Epiro d’artiglieria, al Sindaco cd al Colonnello Letizia, si diriggono alla barricata, che si costruiva al Vico Nardonese, essendo sempre progredita la costruzione di esse: le Guardie nazionali forsennate, nel vedere quell’inermi, se gli scaglino contro, e gli spianano in faccia i loro fucili, caricandoli di audaci villanie.

Costoro inorriditi dal vilissimo procedere, ritornano al Palazzo rabbiosi e sdegnati indicibilmente; gli artiglieri di guardia all’udire il fatto, di unanime accordo, corrono per caricare i pezzi e tirare contro quell’ingombri, e non poco si dovette fare dai superiori per persuaderli a desistere dal loro pensiero; operando in ciò grandissima eloquenza è zelo il Generale Scala.

Questo dispregevole passo, fece comprendere essere cessato in quella milizia cittadina ogn’idea di ordine e di subordinazione; la truppa com’era necessario, verso le ore sei dei riattino ritornò fuori delle caserme, marciando per le vie con quella precauzione richiesta dal momento.

Due Reggimenti Svizzeri, con due Squadroni di Lancieri e due Compagnie di Pontonieri occuparono il largo dei Castello dalla parie di S. Brigida sotto la protezione-dei Forte Nuovo; altro Reggimento Svizzero con uno Squadrone di Lancieri ed uria mezza batteria di artiglieria si posizionò al piano del Mercatello; ed altro Reggimento Svizzero ancora con una sezione dì artiglieria prese a guardare le alture verso gli Studi e S. Teresa degli Scalzi, tenendo dei rinforzi alle carceri della Vicaria con uno Squadrone dei Lancieri ed un’altra sezione di artiglieria; (26) il 2. ° Reggimento degli Ussari della Guardia custodì le vie ed il largo del Mercato appoggiato dalle artiglierie del Forte del Carmine; il 1. ° Reggimento dei Granatieri, chiamato da Portici a Napoli, precedentemente in gran tenuta per la funzione dell’apertura delle Camere, poscia, per ordine comunicatogli dal Capitano Raimond, dello Stato Maggiore, in tenuta di rotta, per le cose avvenute, entrò nell’edificio dei Granili; un battaglione del 2. ° Reggimento dei Granatieri (27) due dei Cacciatori della stessa arma, un battaglione di marina, una batteria di artiglieria a cavallo, il 1. ° Reggimento degli Ussari, ed un battaglione di Zappatori presero piazza innanti la Regia, da prima con tre battaglioni in massa, col fronte al Palazzo ed il battaglione di Marina in battaglia prefiggendo la batteria di artiglieria, che si teneva fronte al largo; S. Ferdinando, e gli Usseri ed i Zappatori lungo la strada che conduce a S. Lucia, qual riserva, poscia tutt’in colonna in massa, sulla linea della ombra, onde schivare l’ardenza dei raggi del sole; altra fanteria con altr’artiglieria e cavalleria era nei vari punti dell’interno perimetro del Palazzo Reale, per custodirne i diversi aditi, essendo quel fabbricato il luogo più minacciato.

In tal modo disposti Reggimenti della guarnigione di Napoli, il Re spediva il Brigadiere Carascosa ai Ministri, perché provvedessero ad una determinazione: attendendo questo, atto, passarono circa quattro ore, nel qual tempo messaggi frequenti andavano e venivano dalla Regia. La Guardia nazionale, incitata da Pietro Mileti, che nella notte, armato di boccaccio, aveva obbligato i Deputati a seguire i suoi desideri, avanzando sempre le sue fortificazioni, era giunt’a costruire una barricata visibile a tutti, circa cento passi lungi dal fronte della truppa che tenevasi avanti il Real Palazzo; dall’angolo della Strada Nardones a quello della Casa del Duca Cirella erasene eretta una ben solida ed alta, che chiudeva. del tutto il cammino nella lunga via Toledo: altre se ne vedevano al limitare del Palazzo San Giacomo, ai Guantai nuovi; solixxxx era una nella via Monteoliveto vicino al. Palazzo Ricciardi, tenendo tutte queste delle barricato secondarie per loro protezione, contandosene 17 per Toledo, fino alla montata delle Fosse del Grano, e 62 per le altre strade sopra e sotto Toledo ed altri quartieri. Gran numero della detta Guardia nazionale, che taluno ha preteso non essere individui di Napoli, ma di Salerno, d’onde erano stati fatti venire dai congiurati, come anche di simili Guardie da altri paesi vicini, occuparono con imponenza la prima barricata presso S. Ferdinando, niuno impedendo alle loro costruzioni né il miglioramento. Grand’era la rabbia ed il fermento nelle riunite truppe, ciascuno osservava essere state accerchiate nelle particolari posizioni, e quasi fatte prigioniere; idee siffatte si comunicavano dai più ai meno riflessivi, ed aumentavano l’ira repressa, in tutti i i ponti ove si trovavano soldati, eravi una quantità di gente spinta da curiosità, mista a temenza, per vedere come quel fatto terminasse; ciascuno avvertiva ogni piccolo moto, il rumore il più lieve scuoteva l'attenzione di tutti; si ripeteva io ogni via, con calore eccessivo, dagl’indivicini della Guardia nazionale e loro partigiani, l'allontanamento della soldatesca dalla Capitale e lo sgombro delle Castella. Circa trecento siciliani venuti in quel mattino dalla loro isola con un Vapore, (28) andando per le vie, incitavano gli animi ad aperte rivolta e procuravano con insolenze alla truppa farle muovere dal loro stato inoffensivo; la notizia di tale arrivo si faceva propagare ovunque onde farla sentire ai soldati, immaginando intimorirli, tenendo quegl’isolani a discapito del valore nazionale, come gli eroi tra i valorosi!!! I siciliani venuti, credevano poter conseguire in quel giorno una delle cose da cui tanto desiderata, cioè che in Napoli si facesse sangue, essendo rimasti rabbiosi che in Falerno erasene versato, ed in Napoli non ancora.

Trascorrendo in questa incertezza di eventi giunto sì era alle ore dieci e mezzo antimeridiano: una voce sparsa, venuta dai Ministri diceva «avere il Re accordato ogni richiesta, farsi la funzione dell’apertura delle Camere, non passare però il corteggio per la strada precedentemente disposta; ma per altra via, intanto ritirarsi la truppa nei Quartieri, secondocohè si toglievano le barricate; rimettersi così la fiducia e la tranquillità nel pubblico».

Questa voce prendeva radice dall’avere il Deputato Vincenzo Lama, in qualità di Vice-presidente, fatto bandire da Monteoliveto, verso le ore nov’e mezzo a. m. un manifesto nel quale col ringraziare la Guardia nazionale per la dignitosa e civile attitudine serbata, per la tutela e guarentia data alla Nazionale rappresentanza l’invitava a fare scomparire dalla città ogni aspetto di ostilità col disfare le barricate, acciò si potess’eseguire l’apertura del Parlamento senz’alcuna dispiacevole ricordanza. Gli Svizzeri e le altre truppe postate al largo del Castello, non che gli Usseri a Ponte della Maddalena, hanno l’ordine da un Capitano di Piazza di ritirarsi, senza aggiungere la condizione già detta; essi eseguono la disposizione, ma le barricate per parte dei nazionali non si tolgono: s’inviano ordini precisi e non condizionati per, gli altri luoghi ove si trova la truppa; in taluni di questi, vedendo muoverla in ritirata, si giunge benanche a fischiarla. Il Capitano di Piazza recatosi a Palazzo, dice a taluni Generali riuniti colà, essersi gli Svizzeri del Largo del Castello ritirati alle caserme; uno tra quei Generali gli chiede, se le barricate erano incominciata a disfarsi, e questi risponde di no; si domanda dallo stesso, per ordine di chi essersi messe in movimento le truppe, ed il Capitano dichiara per ordine da esso comunicato, venuto in dal Comando della Piazza; allora il Generale gli dice, con ben alterato linguaggio, non essere stata quella la disposizione data, ma bensì condizionata, doverseci dar rimedio, ed il Capitano parte al momento mortificato, senza nulla rispondere. Poco dopo giunga anche un Uffiziale del 2. ° Reggimento degli Ussari e dice al Tenente Generale Selvaggi che il Corpo cui appartiene,atteso gli ordini, si era ritirato: quel Generale in risponde con calore,andar subito al Quartiere e dire al Colonnello mettere al momento, Reggimento a cavallo e tener guardata, sotto la sua responsabilità, tutta la popolazione da quella parte. In un baleno l’Uffiziale parte, ed il Reggimento è novellamente all’ordine. Taluni Uffiziali della Guardia nazionale del 2. ° Battaglione, ovvero del Quartiere di Chiaia, pervenut’innanti al Palazzo Reale, dimandano del Comandante il Battaglione dei Granatieri acquartierato in Ferrantina, e gli dicono con linguaggio insolente, avere le loro genti disposta ed incominciata la costruzione delle barricate verso la strada di Chiaia, quindi essendos’inteso il ritirarsi delle truppe, prevenire di scegliere altra via e non la consueta di S. Caterina, perché avrebbe potuto il battaglione incontrare grave resistenza, avendo i loro dipendenti deciso non far passare truppa alcuna per avanti il loro Quartiere: il Comandante il battaglione, usando grandissima prudenza, niuna risposta dona a quelli oratori, solo li conduce al Generale che presiede nella Reggia, e questi rispondi con poca accoglienza, e con quel tuono che la proposta merita. Tale insulto si propaga nel battaglione dei Granatieri, indi di voce in voce passa tra le differenti truppe tenute in colonna amanti la Reggia; il fermento per tal cosa cresce a dismisura, e si avverte più di più il circondare che fassi della truppa da per tutt’i punti.

Scorso così un quarto d’ora, circa una cinquantina di persone riunite avanti la barricata di S. Ferdinando prorompono in grandi applausi, ed un battito di mano da essi mosso fassi sentire, richiamando l’attenzione di quasi tutti coloro che erano nel piano del Palazzo: terminato quel segno di giubilo, due colpi di archibugio (ore 11, ed un quarto ) partono da due sentinelle di Guardia nazionale, ch’erano sulla prima barricata a difesa di essa, verso il Battaglione dei Granatieri, il primo tra quelli tenuti in massa, indi da due balconi con persiane al terzo piano del Palazzo Cirella, contiguo alla Chiesa S. Ferdinando, altri colpi di fucile sono diretti contro la troppa, che quasi disordinata, rimaneva parte in gruppi e parte sdraiata a terra, nulla sospettando, nulla temendo. A questa orrenda provocazione di fatto, gli animi di tutt’i soldati ai scossero a feroce risentimento; dallo stato di tranquillità in cui si erano tenuti fino a quel momento, per estrema subordinazione, diedero in furibonda reazione, tutti ad un tratto come un baleno, nulla calcolando il cimento, nulla la voce del comando non ancora pronunziato, nulla la formazione in colonna in cui si tenevano, scaricarono i loro fucili verso la parte ov’erano stati provocati, e più di due mila colpi furono in un istante tirati verso la prima barricata. Questo scoppio immenso e tremendo, non aspettato, scosse tutti gli Uffiziali, che per il lungo attendere erano fuor’i plotoni; i Generali che si trovavano nell'atrio della Reggia corsero verso la colonna; i soldati ricaricarono i loro fucili e ripeterono novellamente lo stesso sparo. Quanto vi è di efficace nel comando, nella persuasiva, nelle invettive tutto in adoperato dalle differenti autorità militari, onde spegnere quella indomabile rabbia; un continuo rullo di tamburri, segno per far cessare il fuoco laddove la voce del comando è inattiva, venne battuto, ma invano: gli Uffiziali dovettero usare del piatto della sciabla ripetute volte, per rimettere in certo modo all’obbedienza i loro soldati, tanto era l’impeto smodato in cui erano caduti dopo quel moto violento. L’immensa quantità di gente, che stava oziando nel piano del Palazzo, non che l’altra nel contiguo di S. Ferdinando non più fu vista, tutta fuggì e si disperse: i soldati, domati alquanto dalla forza della subordinazione e dalla persuasiva dei loro Uffiziali, dopo quel primo impeto, trovatisi confusi tra essi, diedero luogo alla riflessione ed indietreggiarono per riorganizzarsi, gridando parole di alta considerazione, cioè «avanti, bisogna andare avanti, non n vogliamo essere affatto traditi:» fu forza allora seguire nel desiderio; quindi presentatosi il Brigadiere Carrascosa il primo innanti la truppa, riordinate le Compagnie, venne disposta la gente, per ordine di quello, in colonna con distanza colla dritta testa: questo movimento regolare, rassicurando la volontà dei soldati, fece rimettere la disciplina nelle file. Osservossi allora nel piano del Palazzo, conseguenza del predetto furore, una quantità di sciaccò per terra, talune mucciglie sparse quà e là, un granatiere ucciso dai suoi medesimi compagni, un Capitano dei Cacciatori ferito in testa da taluno dello stesso suo Reggimento, ed altri soldati feriti; i quali uomini e le quali cose, furono al momento ritirati nel Palazzo Reale.

Mentre tanto nella piazza succedeva, la guardia della Regia correndo alle armi, voleva per forza far fuoco anch’essa da dietro le ferrate, ma la voce continua degli Uffiziali, che le faceva riflettere esservi al loro fronte i compagni soltanto e non altri, ridusse quella gente alla quiete: non pertanto tutt’i punti attaccabili della Regia per ordine del Generale Caracciolo di T0rcltiarola furono dai varî distaccamenti di presidio guardati con alacrità e sollecitudine; fanteria, cavalleria ed artiglieria, si vedevano da per ogni dove, anelando le varie armi il momento di essere attaccate.

Messo in movimento il battaglione dei Granatieri, guidato dal Brigadiere Carrascosa ed accompagnato da molti altri Generali, si marciò verso la prima barricata: i soldati dell’artiglieria a cavallo, ardentissimi di entrare in azione, per maggiore sollecitudine di operare, essendosi confuse le chiavi delle cassettine da munizione, ne ruppero colle sciable le serrature, e caricarono i pezzi; e straordinario zelo mostrando in questo fatto il Foriero Andolfo di quell’arma. Attaccatasi la pugna, la truppa riceveva colpi in quantità non solo da fronte dalla barricata; ma dalle case tutte che la circondavano e dominavano, la mitraglia incominciando ad agire scuote gli animi di tutti gli abitanti della Capitale, essa col suo primo percuotere fa cadere talune tavole della barricata; i Granatieri facendo il loro officio, si accostano a quell’impedimento: il fuoco dai balconi e dalle finestre cresce di più sopra di loro: dal Tenente Generale Selvaggi, Maresciallo Ischitella, e Brigadiere Carascosa si opina, per diminuire l’azione dei rivoltosi, far penetrare soldati nelle case, ed il Brigadiere Nunziante, che si trovava alla sinistra dei Granatieri per incoraggiarne le operazioni, dispone che la porta da via del Palazzo all’angolo di Chiaia, che guarda S. Ferdinando, di proprietà dell’ospedale degl’Incurabili (29), dal quale di tratto in tratto si fucilava sulla truppa, porta tenuta chiusa e puntellata, venga rotta immantinenti dai Guastatori dei Granatieri: al momento la cosa ha esecuzione, indi fatta venire una Compagnia del Reggimento Marina, vi entra e prende posizione su i balconi e terrazzi, suggerendo agli abitanti di quel palazzo, ritirarsi in luoghi reconditi e lasciar libero il passo per i balconi, se cara loro era la vita. Con tale operazione essendosi quasi assicurato il lato sinistro della colonna dei Granatieri, si percuote da questa, mist’all’artiglieria, sempre verso la barricata: Dai balconi a vari piani del già detto Palazzo, parte un fuoco vivissimo e nutrito contro l’immensa quantità di gente che fucilava da tutt’i vani della casa Cirella: per la detta causa, un plotone dei Granatieri fatto salire sulla terrazza della Foresteria, perché dominante gran quantità di case e palazzi, comincia altro fuoco continuo contro la casa Cirella, la Chiesa S. Ferdinando, dai finestroni della quale anche molto danno si arrecava sulla sottoposta truppa, e verso una casa con varie logge sita al limitare della strada S. Spirito ed altra ancora a quella contigua.

L’immenso fragore cagionato dalle prime fucilate, aveva fatta ritornare la truppa Svizzera che si trovava per istrada, il 2. ° Reggimento di essa, riunito in un battaglione si porta a passo di carica verso dov’erano i Granatieri, attacca con impeto la barricata, ma incontra anche resistenza, e ne riceve fuochi da tutt’i balconi e loggiate che guardano il largo S. Ferdinando: immensa quantità di spari si agglumerano allora sopra la truppa, perché la vedono aumentata; non fucili soltanto, ma altre armi sono adoperate, come boccacci, spingardi e simili; l’artiglieria in quel momento con varie puntate non solo dirige i suoi tiri alla barricata, ma agli angoli delle case; i pezzi tenuti dietro la ferrata del Palazzo Reale, colla massima elevazione, tirano anch’essi Verso quel punto. Il Generale Enrico Statella riceve da un balcone un colpo di fuoco, esso resta al suo posto ad incoraggiare la truppa che a vicenda dirige i spari ora nella strada ed ora su i balconi e finestre, vinto però dal dolore, si ritira al Palazzo Reale. Il battaglione dei Granatieri, venuto surrogato da uno dei Cacciatori ripiega, riportando un individuo morto, sei tra sott’uffiziali e soldati feriti ed il Chirurgo Maggiora anche ferito; l’altro Svizzero resta per sostenere reciprocamente il nuovo venuto: il continuo trarre dell’artiglieria, rallenta le connessioni degl‘ingombri della prima barricata, la truppa con le mani e con i calci dei fucili, ed i guastatori Svizzeri e de’ Cacciatori con i picconi ed accette, sotto fuoco vivissimo, che pioveva dalle case ne allarga e ne squarcia gli spazi; una Compagnia di Zappatori fatta venire alla corsa dall’estremo della colonna, per ordine del Maresciallo Lecca che comanda le truppe nell’esterno del piano del Palazzo, seguita l’incominciata operazione; essa di tempo in tempo rie standosi ed allargandosi, fa agire il cannone che opera il resto; in fine, dopo circa un ora di aspro combattimento aereo e terreno, la prima barricata precipita, e gl’ingombri cadono con gran rumore al suolo. Un grido di contento e di allegria si spande all’interno, mandato dai soldati, come indizio di vittoria; gran numero di Guardie nazionali ed altri difensori della inutilizzata fortificazione, fugge e si salva, altra resta uccisa: questa esultanza spandendosi anche tra le milizie tenute in riserva, il largo del-Palazzo echeggia di grida, festev0li. La truppe, che trovas’in azione, si organizza e passa su quei rottami; il portone del Palazzo Cirella, presentatosi il primo agli sguardi dei soldati, viene rotto ed aperto al momento a furia; due Compagnie dei Cacciatori, piene di ardore, irrompono in quella casa; entrano, penetrano, si cacciano da per tutto} in ogni piano, in ogni stanza, in ogni recondito sito incontrano Guardie nazionali ed altra gente che mandano su d’esse, per estrema difesa, archibugiate, ma inutilmente, quelle sono vinte dal valore militare; molti morti e taluni feriti succedono in detta casa, sommando ad un. dipresso oltre i cento le persone di vari paesi che tiravano sulla truppa: i superstiti sbalorditi, tremanti, spogliati degli abiti di Guardie nazionali, perché divisa abominata dalla truppa, rimasti soltanto in calzoni e camicia, inalberando fazzoletti bianchi, chiedono sottomissione e pace alle milizie, che generosamente l’accordano, impossessandosi delle armi e delle munizioni, e mandando gli arrestati, sotto buona scorta, al Tenente Generale Selvaggi e Maresciallo Lecce che, presiedono a Palazzo, i quali l’inviano nel Quartiere della Fanteria di marina, d’onde passano su d’una Fregata disarmata. Praticata diligente visita nella casa, in tutt’i punti ed in ogni piano, si trova sufficiente numero di altre munizioni, e svariata quantità d’istrummti da guerra: i soldati assicurato il possesso della casa, recatisi ai balconi proteggono il movimento della innoltrata colonna, che batte la Seconda barricata, essi andando di accordo con quelli di Marina situati nella prima casa all’angolo di Chiaia, spazzano, per quanto è in loro potere, la via ai sottoposti compagni come battenti. Quanto è avvenuto alla casa Cirella, succede del pari in quella incontro ad essa, però con minor furore, perché minori erano state le offese; in questa un Sacerdote, un antico Uffiziale dei Corpi facoltativi ed altra persona, si trovano estinti su diversi balconi all’ultimo piano, avendo fatto un fuoco vivissimo contro il battaglione dei Granatieri, dei colpi del quale erano stati spenti. La seconda barricata pel continuo percuotere dei proiettili è vacillante; scarso e il numero dei difensori che la sostengono dalla strada, ma molti dai balconi, quantunque i soldati dalle case gran numero ne inutilizzano: due colpi tirati contemporaneamente da due obici della batteria a cavallo, risolvono la caduta; il legname infranto, per opera dei primi plotoni si allarga, e la truppa va innanti. Nuovi soldati, fatti venire dalla riserva, montano sulle altre case, il tratto di strada dall’angolo S. Ferdinando al vico Carminello è superato e domato; niuna più si vede su i balconi, ninno sulla via; i sbocchi laterali, del lato di sinistra diventano purè praticabili; essi però sono spopolati all’intutto; gran quantità di lini bianchi si cacciano dai vani delle case, come segno di pace e. di perdono. La terza barricata, ha le istesse fasi della seconda, ma come minori sono i difensori da terra, cosi minor tempo ci vuole ad inutilizzarla; i balconi e gli astrici fino al vico Tedeschi e vico delle Campane si veggono pieni di soldati di Mafina, Svizzeri e Cacciatori della Guardia; non altro che truppa si osserva per le vie; la battaglia è vinta da questo lato, non ancora però verso Brigida.

Allorché il Battaglione dei Granatieri si ritira dal combattere, il Colonnello degli Ussari, avendo inteso, prima della pugna, essersi erette barricate nella strada di Chiata, esterna il vedere protetta ed assodato la ritirata del suo Reggimento per la parte del mare. Una compagnia di quei Granatieri è tosto spedita per la detta via a ric0noscere quanto si era praticato dai rivoltosi oltre il Castello dell’Orto fino al Quartiere degli Usseri in S. Teresa: essa nel percorrere la strada S. Lucia, e chiesta da tutta la popolazione di quel rione, tenuta in ansioso fermento, sull’esito della battaglia; rassicurata del buon successo delle truppe, si dà in apert’allegria, e gridi di esultanze e di contento esterna unanimemente; indi i più caldi di animo ed adulti effervescenti, presi da desiderio di cooperare. alla causa de’ militari, si uniscono e si portano verso il largo del Palazzo, chiedendo ai Capi dei Corpi contribuire anch’essi a togliere le barricate; cors’in un lampo a Toledo, sbarazzano in un momento quanto vi è di legname in quel tratto di via messo fuori combattimento, e trovando delle masserizie utili alle loro bisogne, le trasportano a corsa a casa, indi ritornano e rinnovano la predetta scena. I Granatieri intanto, avendo incontrata una Compagnia di Zappatori, mess’a protezione delle spalle del proprio battaglione, mandata dal Maresciallo Lecca, e più innanti tre Plotoni d’Usseri di perlustrazione in diversi punti, comandati dal 1. ° Tenente Palumbo, Alfiere Blanco ed Alfiere Fabri, che accordandosi tra essi avemmo spazzata la via fino al largo della Villa, riviera di Chiaia, vico Freddo e largo S. Pasquale, distruggendo coll’aiuto de’ popolani una barricata che si era incominciata nell'angolo del vico Freddo, ed un’altra ben solida allo sbocco del piano della Vittoria, protette da Guardie nazionali in uniforme, messe su i balconi del Palazzo Partanna, non che di quello Calabritta dietro dei materassi, fatti certi essere sgombri del tutto le strade, che menano al quartiere degli Usseri, situano dei posti principali ed altr’intermedi, onde tenere aperta la comunicazione per quella linea col Corpo d’operazione, occupante il largo del Palazzo. Dalla perlustrazione degli Usseri e da altre persone, si conosce essersi tolte le barricate costruite nella strada Cavallerizza le sue adiacenze, appena attaccate da pochi uomini di guardia al Quartiere Ferrandina, trovarsi netto il tratto di via fino alla casa di Cellamare, esistervi una barricate avanti la Chiesa di S. Caterina ed altra sotto, il ponte di Chiaia, ma con scarso numero di difensori, dominat’entrambe da talune truppa mess’a cavaliere sul ponte di Chiaia, molte Guardie nazionali aver cercato ricovero nel Palazzo Zurlo, ed altre in quello di Calabritta, in questo trovarsi il Locandiere Zirri sotto la protezione del Tenente Generale Florestano Pepe, non farsi più vedere le Guardie nazionali da persoua alcuna, buona quantità essere fuggite da una porta segreta del Palazzo Miranda, che mena nel Cortile di quello di Cellamare, e di là pel giardino sul ritiro di Mondragone e luoghi convicini; avere il Brigadiere Carrascosa col solo imporne, fatte togliere delle altre barricate in quei dintorni e mandata via la Guardia del quartiere del 2. ° battaglione dei Nazionali. Tutte queste cose, essendo state rapportate a voce dal Capitano dei Granatieri tanto al proprio Colonnello, che a quello degli Usseri, fu spedito un distaccamento verso il ponte di Chiaia, che avendo riunito molto popolo, fece sbarazzare quelle inutili residue fortificazioni, che con la guasconata d’intima fatta il mattino al Comandante il Battaglione dei Granatieri, avrebbero dovute difendersi col proprio sacrifizio per qualche momento! In tal modo la riviera di Chiaia e sue strade laterali, il rione di S. Lucia con le sovrastanti alture, il piano del Palazzo, la linea che parte dal largo del Castello passando per avanti il giardino Reale, Teatro S. Carlo e cominciamento di Toledo, vico Tedeschi, strada S. Mattia, strada Cedronia, strada S. Caterina di Siena, Ritiro Mondragone fino sotto il Forte S. Elmo è assicurata, e niuna idea di ostilità dona alla truppa; non per tanto molti picchetti per ordine dei Maresciallo. Lecca, sono messi ai differenti posti, per guarentire le ricuperate posizioni.

È d'avvertire, che appena rotta la prima barricata taluni Uffiziali e Guardie marine della flotta francese, stando dietro le file della truppa che si tenev’avanti la Reggia per osservare il successo dell’operazioni, dicevano «C’est la première fois qu’on vait construire les barricades par la Garde nationale, qui aurait pu l'aire ses demandes legalement après l’installation des Chambres: à ce qu’il parait, ses gens là, n’ont pas compris leur mandat, on ce sont des enfans sans frein, ni loi. »

Così pensando costoro, e discorrendola in tal modo, al certo che non erano intervenuti alla costruzione delle barricate! Da avvertire è altresì, che gran numero di oltramontani, percorrendo di continuo la strada S. Lucia fino al largo del Palazzo, parevano tener d’occhio attentamente, e notare il più lieve successo che dalla truppa si riportava su i contrari.

Stando le cose narrate, i Ministri che si trovavano di già riuniti in casa del Presidente (30) in unione di Capitelli, Poerio, De Piccolellis, Pica ed altri, per esaminare intorno alla formola del giuramento, avevano tanto allungata ed avviluppata la discussione, che nulla se n’era conchiuso. Il signor Manna, dopo vivo ed accanito parlare, risolvè scrivere la formola del giuramento a guisa di decreto; mentr’erasi per giungere alla meta dell’opera, odono i Ministri le prime fucilate, indi le secondo, e poscia lo strepito immenso del fuoco della truppa: pallidi e muti, si guardano gli uni gli altri nel viso, esclamando «tutto è perduto, tutto è perduto!» e pieni di temenza, ristanno dalla loro occupazione, contenendosi per molto tempo in silenzio. Dopo quel tratto, per vive sollecitazioni di person’attiva, sono indotti e spinti, quas’involontariamente, ad andare dal Re, onde rimediare al tristo caso. Distratta, per insinuazione, la truppa nel momento del passaggio di quegl’individui, a fine di evitare altro disordine, entrano i Ministri nella Reggia, non seguiti da Capitelli, Poerio e Pica, perché non rivestiti di alcun carattere, giunti nel cortile, il Ministro della Guerra del Giudice si unisce a loro, e tutti riuniti si recano dal Re. Il Conte del Balzo, marito della Regina madre, che prima si presenta ad essi, idee al Conforti «per carità salvate questo paese» e quello gli risponde con ira repressa e sardonica: «Eh, signore, nei paesi costituzionali siffatta comma sono lontane dall’accadere. » Pervenuti alla presenza del Re, dirige questi lo sguardo severo al signor Scialoja e la parola a tutti «siete or contenti, gli chiede, d’aver gittata, per le vostre opere, il paese nella guerra civile?» --Può ancora ripararsi, rispondono mest’i Ministri, se Vostra Maestà ordinerà che si cessi il fuoco. »

All’istante vari ordini precisi si spediscono per la sospensione delle ostilità; ma seggiunse il Re «sembrargli impossibile trattenere l’impeto de’ soldati, già troppo irritati, se essi, d’altra parte, non si danno la cura d’inculcare a’ loro perversi satelliti di tenersi dall’offenderli ulteriormente, in questo modo soltanto postersi sperare che il fuoco si smorzi, e l’ira si reprima. »

Furon queste le ultime parole che quel Ministero diresse al Re come consesso, e le ultime dal Re ed esso risposte: indi quella gente, ricondottasi in casa Trova, con le stesse precauzioni di prima, rimase per molte altre ore ben celata. Vani riuscirono gli ordini mandati; i soldati accecati dall’ira, non altro udivano, che il desiderio ardente di vendicare le offese, e di rispondere col fuoco e colla morte alla ricevuta provocazione.

Il quarto ed il secondo Reggimento Svizzera per la ricevuta chiamata, trovandosi in marcia unitamente, pervenuti al Carmine intesero il fragore del cannone; mess’in attenzione, osservarono dopo pochi istanti il segnale di allarme sui Forti: stretta la cadenza al passo di carica, stando in colonna per plotoni, si recarono alla piazza del Castello, tenendo nell’intervallo dei due battaglioni del 4. °, che precedeva il 2. °, una sezione di artiglieria. Giunti quei Corpi a poca distanza del Maresciallo Labrano Comandante la Piazza, che stava su gli scalini della Gran Guardia, ebbe ordine il 4. ° Reggimento dal detto Generale di attaccare subito le barricate costruite nella Strada S. Brigida, essendovi colà acquartierato il 4. ° Battaglione della Guardia, nazionale preparato a difenderle, ed appoggiare le operazioni già cominciate, dalle altre truppe, e 1. ° Reggimento Svizzero verso S. Ferdinando; quindi fatto formare colla massima, sollecitudine le Divisioni e chiama l’artiglieria in testa della colonna il 4. ° Svizzero si diresse verso S. Brigida, prendendo il 2. ° altra posizione. Allo sbocco della strada, e propriamente all’angolo del Palano Meuricoffre, la sezione di artiglieria fu messa in batteria per cominciare i suoi tiri, ma per ordine di Labrano, essendosi non approvata la disposizione di attaccare coll’artiglieria, ma bensì colla sola 1. ° dei fucilieri andassero in avanti per disfare a mano gli impedimenti, e rispondere al fuoco col fuoco, se ne avessero ricevuto.

Marciate le due Compagnie col fronte di Divisione, colle armi al braccio, a celere movimento, guidate dal Colonnello ed altri Uffiziali Superiori del Reggimento, il resto del 1. ° battaglione le seguiva a trenta passi di distanza; rimanendo il secondo in colonna in massi nel largo del Castella qual riserva; nella direzione dell’attaccata strada. Pervenute quelle prime truppe alla prossimità della barricata, si vide moltissima gente gremire i balconi della trattoria il Giglio d’oro, le finestre, i balconi del Monistero; e da tolte le case circostanti e del quelle di fronte ebbersi Guardie nazionali ed altre persone che si condussero ai vani, battendo le mani e gridando la lode degli Svizzeri, eccitandoli alla deiezione ed alla ribellione. Il Colonnello, volendo dar’esecuzione agli ordini ricevuti, dispose che sei granatieri della sinistra aprissero un varco verso quel lato, e tosto i granatieri si staccarono per eseguire; ma dai balconi e finestre altamente fu gridato, non toccate o siete tutti morti: tolti appena taluni oggetti. dalla barricata, coloro ch'erano affacciati scomparvero, si trassero dietro i vani, e buon numero di colpi di archibugi furono scagliati su i soldati, i quali colpirono alcuni di essi: fu visto tra i primi a tirare dai balconi del Monistéro il Chirurgo di quel 1. ° Battaglione di Guardie nazionali, Stefano Mollica. Là prima Compagnia dei granatieri, rispose a quell’invito con un fuoco di file, e le residue. Compagnie dei battaglione chiudendo lo spazio che avevano, fecero un fuoco in massa su i balconi. L’Aiutante Maggiore di battaglione 1. ° Tenente Eduardo di Goumoèns saltando sulla barricata, la passa, ed invita coll’esempio i granatieri a seguirlo; l’uffiziale viene ucciso i granatieri, che lo secondano, feriti: la Compagnia granatieri a tal vista raddoppia i suoi fuochi su i balconi e di fronte, ed i suoi subalterni 1. ° Tenente Federico Konig, 1. ° Secondo Tenente Ferdinando Schafler, e 2. ° Secondo Tenente Paolo Grand, nel calore, dell’eccitamento, vengono colpiti da palle, che ferendoli li mette fuori combattimento. Il Capitano Ródolfò di Sturler comandante la 1. ° fucilieri, già percosso da tre gravi colpi di fuoco, chiamato a nome da una persona su i balconi del Giglio d’oro, per meglio mirarlo, riceve un quarto colpo in fronte che lo estingue: poco dopo una quantità di spari tutti riuniti colpiscono vari granatieri pe’ quali ne cadono morti e feriti, oltre tali altri che già giacciono al suolo. Quantunque moltissimo fosse il fuoco scagliato contro quella truppa, pur tuttavolta gli oppositori non presentandosi alla battaglia, perché rinserrati nelle stanze, tenendosi dietro a materassi messi ai balconi e finestre quasi racchiusi, diveniva inutile il bersaglio della fucileria; quindi il Colonnello ordinando, al 1. ° Battaglione la ritirate, continuando sempre un aspro fuoco, diretto alla possibilità di colpire, fino alla imboccatura della strada; ov’erano i cannoni; fece mettere i due pezzi avanti il battaglione, e riorganizzate le Compagnie, disposto pel fianco su i due lati della strada, avendola testa della colonna all’altura dell’artiglieria, ritornò ad andare con fuochi avanzando a palla contro la barricata, a mitraglio contro i balconi, e di fucileria incrociata anche contro i balconi ed altri vani: in questo secondo attacco il 1. ° Secondo Tenente Federico Russillon, della 3. ° fucilieri, rimase ferito. Passate la barricata su i due lati, ch’erano già stati aperti; il Colonnello disponendo mandare a terra totalmente quegl’ingombri, vien colpito in testa da una palla tiratagli all’interno d’un balcone, che l'obbliga retrocedere; recatosi al largo del Castello, ordina al Tenente Colonnello di Muralt di prendere il comando del Reggimento, e far’entrare in azione il secondo battaglione, rilevando il primo. Questo battaglione, che già teneva due Compagnie ad altra operazione, messos’in movimento, non già in colonna per Divisione, ma per file su i fianchi, della strada, si slancia con impeto sugli ostacoli, rompe quanto sé gli para d’innanti, e resosi padrone della via, penetra ovunque, perdendo nel rincontrò il 1. ° Tenente della 6. ° fucilieri Gabriele Evman ed il 2. ° Secondo Tenente della 2. ° Cacciatori Stampili, avendo anche ferito il Capitano della stessa Compagnia Federico di Wattewille. La vendetta e la rabbia per la morte e ferizione dei Superiori e camerati, subentrando all’ordine ed alla disciplina, non fa più reggere quella soldatesca: per quant’efficaci fossero, attive e ferventi le voci del comando, tutte le case ov’erasi. fatto fuoco, vedute di già dal largo del Castello, vengono assalite a furia, e più di trenta persone, complessivamente trovate in esse, con armi o senza, sono trucidate sul fatto: in questo numero v’entra una donzella di circa anni tredici, chiamata Costanza Vasaturo, figlia del Marchese di tal nome, proprietario della casa che fa angolo a dritta sboccante a Toledo, la quale chiusa in una stanza, non volle aprirla all’intima che ne ebbe. Gli oppositori della truppa sopraffalli e vinti, annientite ed infrante le. loro difese, fuggono, altri si nascondono e si chiudono ovunque; turonvi di essi trovati avvolti nei materassi in varie case di quei, dintorni, molti sul campanile del. Monistero dei Padri di S. Brigida, altri nella chiesa istessa, è due si tennero celati per lunga pezza nei cavi dell’organo: le divise di Guardia nazionale, i distintivi dei gradi, le armi bianche e da fuoco, sono lasciate in istrada, onde non recar memoria dell’atto infame. e vile. Una casa quasi di fronte alla porta della Chiesa, abitata dal. Notaro Cacace, che per riaccomodarsi tenevasi puntellata, fu messa in fiamme, dal perché molti dègl’ingombri che componevano la barricata, essendo stati incendiati, nell’allargarli, per dare il passo alle truppe, andarono a poggiare alle travi di puntella e comunicarono il fuoco all'edilizio. I Svizzeri guadagnato quel punto interessantissimo, riunitis’in colonna riaprirono le comunicazioni con le truppe che avevano battuto il largo S. Ferdinando e contigua strada Toledo, le quali in quel momento perlustravano tutt'i vicoli paralleli e traversanti sopra e sodo quella strada principale; indi terminata la commissione, quel 4. ° Reggimento si ritirò nella piazza del Castello ove si stabilì militarmente per tutta la notte fino all’indomani.

Le due Compagnie del 2. ° battaglione del detto Corpo mandate nel vico Campane, dirette dal Brigadiere Carascosa, presero a distruggere, mentre il Reggimento combatteva nella strada S. Brigida, le due prime barricate laterali del. lato dritto di Toledo; cioè la 5. ° fucilieri quella dei vico delle Campane propriamente, e la 2. granatieri l’altra del vico delle Chianche che attacca con quello delle Campane e resta accanto il Palazzo Cirella. Esse riuscendo nell’impresa, abbatterono gli ostacoli, riportando però la 5. ° fucilieri taluni soldati morti e feriti, e la 2. ° granatieri la perdila del Capitano Amedeo di Muralt, che cadde avanti la bottega del tabaccaio Pasqua, per una fucilata tiratagli dal palazzo Cirella, non che la mortale ferita, che dopo due giorni gli cagionò là morte, al 1. ° Secondo Tenente Alfonso di Steiger, il quale correndo in aiuto del Capitanò caduto, ne cercava il sollievo. Queste due Compagnie soddisfatte le impostole commissioni, vedute già guadagnato ed infrante le barricate di S. Ferdinando, raggiunsero il Corpo al luogo ove si teneva, nel qual momento la settima Compagnia fucilieri, messa in comunicazione ad una Compagnia della fanteria di Marina, sotto la protezione del cannone del Forte Nuovo, venne adoperata ad esplorare e prendere le case di rimpetto il giardino Reale. In questa circostanza il Brigadiere Carascosa lodò sommamente il Maggiore dello Stato Maggiore Nunziante, che fa visto il primo adoprarsi al disfacimento di quelle barricate. Detto Reggimento in tale giornata riportò la perdita più numerosa tra gli altri Corpi della Guarnigione di Napoli, contando 111 individui, mesa fuori combattimento, cioè sei Uffiziali e 12 tra sott’uffiziali e soldati uccisi, e sei uffiziali ed 87 comuni feriti.

Il secondo Reggimento Svizzero riunito in nove Compagnie, stante tre distaccate nel Forte S. Elmo, formatos’in battaglia appena giunto nel piano del Castello, diede da principio due Compagnie, cioè l’8. ° dei fucilieri e la 2. ° dei cacciatori, in appoggio al secondo battaglione del 4. °, che si teneva come dissi in colonna. Venuto appena il Brigadiere Stockalper, che prese il comando di tutte le truppe riunite in quel sito, fu disposto da quel Generale, che due Compagnie andassero ad attaccare la barricata in via Concezione; le due Compagnie dei granatieri messes’immantinenti sotto gli ordini del Maggiore de Vivis si buttarono in detta strada, ma ricevendo gran quantità dì archibugiate dal vicini balconi, vennero obbligate ripiegare sul detto piano con perdita di 4 uomini uccisi e parecchi fe riti per dar luogo all’artiglieria di togliere con i suoi tiri tutti gli ostacoli. Ciò fatto, per ordine di Stockalper, fu mandata la 5. ° Compagnia dei fucilieri ad occupare nell’edifizio dei Ministeri, i balconi che sporgono a Toledo, e la 6. ° e 7. ° diretta dal Maggiore Mailer salirono per la Strada Concezione, e penetrarono in Toledo protette dal fuoco di quella che era già su i balconi. Indi fatte ritirare le due Compagnie messe in comunicazione col 4 ° e riunitele alle due residue formandosi un battaglione di quattro Compagnie con un pesto di artiglieria, fu diretto, sotto la condotta del Colonnello De Brunuer e del Maggiora de Vivis, per Fontana Medina a prendere la barricata all’angolo della Strada Fiorentini, nel quale oprato, eseguito con precisione e risolutezza, il Colonnello, allo sbocco dei Fiorentini, ebbe una palla sul petto che gli levò fortunatamente solo la Gorgiera. Questo Reggimento, seguitando ad agire con contegno ed energia, ricevé nei suoi diversi scontri sei individui morti e 32 feriti.

Il terzo Reggimento Svizzero marciando per le strade di Furia, Marina è Darsena, trovandosi le altre impedite dalle barricale, si recò pel piano del Palazzo al largo del Castello più tardi degli altri due Corpi esso per ordine del Brigadiere Stockalper, che da principio lo guidava personalmente, essendo stato mandato ad attaccare, per la strada Medina il Palazzo Sirignani ed il comprensorio di case sopra il Teatro S. Carlino, penetrò nel primo edifizio sollecitamente, dal quale al piano ove resta l’Albergo del Globo erano partiti molti colpi, che avevano uccise le sentinelle della Gran Guardia, e ferito il 1. ° Tenente Aiutante Maggiore Di Preux. Il cannone del Forte Nuoto, percuotendo di accordo con la fucileria del Reggimento, produsse non solo il silenzio dei spari dei sediziosi, ma la morte e le ferizioni di molti di essi, tra quali quella di Vincenzo Irace appaltatore di utensili militari, con due suoi parenti, non che il pericolo di crollamento di alcune fabbriche vicine al Teatro Carlino. Taciuto lo strepito dei colpi verso quel lato, detto Corpo fu chiamato, di nuovo bella piazza del Castello, e propriamente nel tempo che si eseguiva dal 2. Svizzero l’occupazione della casa dei Ministeri, e l’attacco della barricata alla Concezione. Il Generale Stockalper con un battaglione di quel Reggimento, guidato dal Colonnello Dufour e dal Maggiore Salis avviossi per la strada S, Giacomo onde attaccare la barricata ch’era difesa dai balconi del palazzo Lieto, sito all’angolo del vico Taverna Penta, e da tutte le case circostanti. Quel battaglione, andando al passo di carica per file su i lati della strada, giunse sino alla barricata, dove ricevé delle fucilate, che uccisero il Maggiore Salis e ferirono il Colonnello Dufour: a tal vista Stockalper, sospendendo il movimento in avanti del battaglione, fece avanzare la sezione di artiglieria, ed indi novellamente mandando la fanteria all’attacco, di accordo ai pezzi, fece percuotere con vivacità contro la barricata; i cannoni mandando colpi di palle e di mitraglia verso il Palazzo Lieto, i sediziosi che vi stavano sgombrarono i balconi, che rimasero soli guarniti da materassi rosati e bianchi messi su i ferri. La mancanza del fuoco del già detto Palazzo, produsse che le altre case ove vi erano oppositori alla truppa tacessero del pari; quindi elasso alcuni momenti si giunse a non piè udire colà archibugiate. Del gruppo dei leziosi del Palazzo Lieto, che con funi ed altri aiuti dati da taluni abitanti della casa riuscirono calare alle spalle del casamento dalla-porte della strada lunga del Celso, gioiti rimasero estinti e taluni feriti.

Infranta la barricata quel battaglione del 3. ° Svizzero volse a dritta e marciò per Toledo; esso tosto si trovò raggiunto dal distaccamento del secondo, che si era impadronito della strada Concezione, cioè delle due Compagnie ch'erano state nella via e di quella salita sul Ministero. Il Capitano Wolf del 3. ° istesso, che altra volta aveva servito nell’artiglieria della Divisione Svizzera, ivi incaricato delle operazioni di quest’arma, che contava in quel momento tre pezzi: costui avendo folto tirare alcuni colpi di cannone al portone del Palazzo Lieto per aprirlo e penetrarvi, fecevi appiccare il fuoco, stantecché fortemente abbarcato al di dietro non cedé a quell’impeto. La colonna procedendo per file aperte incrociava i fuochi ed occupava le case d’onde si ricevevano colpi di fucili; essa seguit’a qualche distanza dal 1. ° Reggimento Svizzero e da due Compagnie di Marina, oltrepassato l’angolo della strada Fiorentini fu raggiunta dalle quattro Compagnie guidate dal Colonnello Brutiner, che avevano eseguita la commissione; preceduta dai tre cannoni che traevano con fuoco avanzando a mitraglia contro i balconi coverti di gente, che da distante cercavano contrariarla ed a palla verso le barricate, che se gli presentavano d’innanti, giunse quasi al largo della Carità, ove dai vicoli non ancora perlustrati, ebbe anche vari colpi di fuoco su i fianchi, ma il pronto rispondervi e lo inseguire gli aggressori, fece in un subito scemare tali spari. Il legname e tutti gli oggetti delle barricate spezzato e sligato dalle milizie, era dai popolani che le seguiva, al momento sgombrato; talché quelle truppe non incontravano ostacoli, materiali, e le munizioni che le vennero dal Quartier Generale di Palazzo, scortate da un distaccamento del 2. ° Reggimento della Guardia Granatieri arrivarono non molestate. Al largo della Carità vi fu vivo fuoco, che durò per qualche tempo, ma niuno impedimento produsse alla marnante colonna; in quel luogo fu trovato in una casa un certo Salvatore Tornabene siciliano Ispettore di Dogana, che aveva diecisette fucili tutti lordati nel bacinetto, indizio certo di essere stati adoperati allo sparo; fu egli al momento arrestato, e pel furore delle truppe, fucilato in unione ad altri. Passato quel piano una testa grossa di sollevati si era formata nel Convento dei Padri Pii operari, ove vi era il Battaglione delle Guardie nazionali, quello che aveva dato il segnale nella notte della costruzione delle barricate; altra nella casa di Maddaloni, anche si era riunita, in dove accumulati dai faziosi molti grossi vasi da fiori, e gran quantità di altri materiali, tenevasi disposti a buttarli sulla truppa al suo passaggio, oltre il consueto fuoco; ma l’avanzare della colonna da Toledo, da essi veduta, il rimbombo di altro attacco, che si operava nella via di Monteoliveto, costrinse e fece giudicare a quegl’illusi, la più parte individui del 3. ° e 4. ° battaglione della Guardia nazionale, essere miglior consiglio trovare scampo nella fuga, che usare resistenza. Dopo questo momento la via Toledo, fino alla Chiesa dello Spirito Santo, trovossi netta di sediziosi; non altro vedendovi che milizie; e per qualche momento poco popolo che s’impadroniva degli avanzi delle barricate, quindi la vittoria in quella strada principale era già dalle truppe riportata. Allo sbocco davanti la Chiesa dello Spirito Santo la colonna venne raggiunta dall’altro battaglione del 3. ° Svizzero, che dal largo del Castello aveva percorse le strade di Fontana Medina e Montoliveto già sbarazzate: queste truppe nell’uscire al piano del Mercatello, vedendo il Palazzo de Rosa di già tenuto dal 1. ° Reggimento della Guardia Granatieri, per assicurare la conquista, occuparono momentaneamente fino ad altro ordine i luoghi più convenienti per guarentirla. I vani delle case tutte di Toledo, chiusi ermeticamente, davan mostra di chieder pace e perdono,-col tenere a svolazzo ed esposti molti bianchi lini.

Il primo Reggimento della Guardia Granatieri all’inalberarsi del segnale d’allarme, uscendo dall’edifizio dei Granili, sollecitamente sì condusse innanti al Quartiere di cavalleria del Ponte della Maddalena; restatovi breve tempo, dopo aver messo dei posti avanzali, venne chiamato dal Capitano dello Stato Maggiore Carascosa, che lo inviò per la Darsena, nel cortile del Palazzo Reale. Nel frattempo, che già i descritti attacchi erano succeduti ed andavano succedendo, esso ascendo dal Palazzo, guidato, dal Maggiore dello State Maggiore Nunziante, si recò al passo di carica in via Toledo, e da questa per la sgombrata strada Concezione, largo del Castello, strada Medina, in quella di Montoliveto, onde distruggere le barricate colà esistenti: camin facendo, venne raggiunto da un plotone del 1. ° Usseri:, che andò per avanti S.. Carlo a guarentirgli le spalle, e seguì fino al domani le operazioni di quel Corpo. La marcia di questa fanteria, da principio intrapresa in colonna per sezione, venne poscia cambiata per file su i lati della strada, per aver ricevuto da una casa contigua alla Chiesa di S. Giuseppe molla quantità di archibugiate, alle quali fu corrisposto con energia. Pervenuta la testa della colonna a fronte ed in prossimità della prima barricata, composta di enormi trave, confessionili, vetture rovesciate ed altri ostacoli, i guastatori accostativisi a corsa, protetti ed aiutati da molti uomini delle prime file, incominciarono a rompere e schiodare quell’ammasso di oggetti, e seguendo l’impulsò ed esempio del Colonnello, s’accingevano ad abbatterli per sola forza di braccia, ma una scarica di fucileria partita dalla casa allo sbocco del largo, sulla dritta del Palazzo Ricciardi, che cagionò le ferizioni di quattro granatieri, fece sì che si salisse sulla casa opposta, e da i balconi di quella si tenessero in soggezione gli aggressori, col proteggere anche le operazioni della truppa. Il Capitano Scardamaglia e l’Alfiere Canzano,con una porzione della 1. ° Compagnia adibiti a tanto praticare, dissimpegnarono con ogni specie di scrupolosità il loro mandato; ma non cessando le ostilità dalle parte dei pertinac’insorti, che anzi, non potendosi più mostrare sul davanzale, perche sotto la punteria dei Granatieri, celatisi dietro i parapetti delle finestre, mandavano sassi, olio bollente ed altri materiali sulla sottoposta truppa, fu forza fare agire un pezzo di cannone, che raggiunse il Reggimento dopo pochi momenti del suo muovere, ed assalire la casa; nel qual successo quei di dentro vennero tutti manomessi: l’intrepidezza e l’ardore dei Granatieri della terza Compagnia guidati dal Capitano Paone, ed altri subalterni delta stessa, risolverono in un lampo l’impresa, restando nel rincontro feriti cinque granatieri ed un caporale. Per tale circostanza fu forza anche spiazzare della gente da un’abitazione netta Strada Donnalbina, perché da essa partivano colpi che percuotevano il fianco della truppa.

La barricata forte e solida poggiata all’angolo di sinistra. del Palazzo Ricciardi; venendo sostenuta dà quantità di gente dai balconi e finestre dei suddetto Palazzo, fu aspro il vincerla, ma quei Granatieri gagliardamente combattendo, l’infransero e la rovesciarono.

Superat’appena, si volò da essi a sfasciare la porta da via del Palazzo Ricciardi, che per le opere degli abilissimi guastatori fa ridotta tosto al nulla. Immantinenti la residua porzione della 1. ° Compagnia obbediente al Tenente Struffi e la 2. ° al Capitano Tabacco, irruppe in quello edificio ed arrestò a primo colpo il guardaporta, che tenevasi armato di fucile: esse combatterono per le camere ed in ogni sito con della gente che voleva far resistenza. In questi parziali scontri Salvatore Ferrara, dimorante in quella casa, per favore fattogli dal proprietario, ricco possidente, eccessivo esaltato, individuo ed agitatore (0) del 5. ° battaglione della Guardia nazionale, venn’estinto a colpi di baionetta dalla soldatesca, in una stanza del tutto chiusa, ed altri individui soggiacquero alla stessa sorte.

La poca conoscenza della località di quel vasto edificio, produsse che buon numero di coloro che vi si trovavano rinchiusi, ebbero possibilità fuggire concorde per la parte della strade Donnalbina, nel qual numero si annoverò la Concetta Ferrara moglie del nominato Salvatore in una delle camere di quel Palazzo fu trovata una completa stamperia dalla quale n’erano usciti molti di quel fogli incendiari che avevano circolati pel paese.

Accadde del trambusto del combattere nelle stanze del detto palazzo, che per una fucilata tirata da presso ad un nomo che fuggiva coll’archibugio in mano, la fiamma attaccatasi ad una drapperia da balcone, la bruciò; la vampa comunicandosi al resto del portale ed indi al soffitto, dilatò l’incendio nella stanza; da questa propagatosi il fuoco alle altre laterali, in un momento fu il palazzo preda delle fiamme, invano operando ogni sforzo per estinguerla, ogni opera per soffogarlo; la quantità del materiale, ed i pochi aiuti potuto ottenere, diedero alla fiamma, la forza di spaziarsi con tutta la sua possanza ( ).

Apprezzevole fu il vedere in quella scena duplice d’orrore adoperarsi ufficiali e soldati per la salvezza d’innocenti abitanti e di molti oggetti; in quel rincontro fu osservato il Capitano Tabacco, congiuntamente ad altri commiliti, usare di tutta la generosità e filantropia che a militari distinti si addice; essi non solo scamparono dall’incendio talune persone, ma assicurarono buona falla di gemme, che consegnarono poscia alle autorità.

Distrutta in quella strada la principale barricata; il 1. ° Reggimento. Granatieri, stabilita pel momento la sua base d’operazione nel piano accanto la fontana, ricevé aumento di munizioni, sotto scorta di una Compagnia del 2. ° Reggimento Granatieri, la quale al passare del largo del Castello riscosse e ricambiò grida di giubilo colle truppe Svizzere colà fermate.

Il Colonnello Rocco disposti e mandati vari plotoni nei siti e nei sbocchi necessari per tener salda la posizione, inviò altra gente a terminare l'operazione ingiuntagli; epperò quei Granatieri estendendosi per la strada del Gesù, per la montata di S. Anna dei Lombardi e vico Carogiojello, agendo con piacevole, pronto e lodalo successo, abbatterono altra barricata mess’all’angolo del Palazzo Angri, non che quella situata al cantone Maddaloni, guardante la strada Sette dolori, la quale fu da molti del popolo dissipata; e traendo innanti, occuparono il Palazzo De Rosa. Sgombrata perfettamente la via di S. Anna dei Lombardi, il grosso del 1. ° Reggimento Granatieri si portò verso Io sbocco del Mercatello, ove dopo pochi minuti venne raggiunto dalla colonna Svizzera.

Il congiungersi di queste due truppe, donando la certezza delle buone disposizioni e dei buoni successi, produsse un contento ed un giubilo tra quelle incontrate milizie: il Colonnello De Brunner dei 2. Svizzero levatosi il cappello, altamente gridando, faceva sentire l'esultanza della vittoria, a cui tutte le circostanti truppe ne ripetevano il grido: un affratellarsi sincero, uno scambiarsi di lodi, metteva al sommo il contento in quelle milizie. Tosto quant’altro era d’ uopo vincere da quella parte, si disponeva a farlo, e fu istantanea opera, l'abbattere una barricata non difesa e non protetta, che si erge avanti la Chiesa di S. Michele; ma la voce delle azioni praticate dalla truppa, precorrendogli attacchi, disponeva gli animi dei sediziosi a miti resistenze.

Il Brigadiere Carascosa, che tanto aveva cooperato all’esito felice della giornata, come osservammo, allorché vide le truppe Svizzere e le altre della Guardia riuscite a debbellare gl’insorti nei due diversi punti contigui al Palazzo Reale, cioè verso la strada Toledo e S. Brigida, giudicò conveniente ed opportuno, onde assicurare perfettamente il già fatto, operare una ricognizione verso il centro della Città.

Recatos’innanti al 1. ° Reggimento degli Usseri, ordinò al Colonnello Duca di Sangro, seguirlo con uno dei suoi squadroni, indi prendendo il cammino pel piano del Castello, visto un plotone dei Lancieri fermato innanzi la porta della Darsena, come posto avanzato, per contenere immensa quantità di popolo, che bramava venire verso la Reggia, dispose che quel plotone si mettesse sul ponte dell’Immacolatella; poscia entrato esso soltanto per porta di Massa, per osservare, se le Guardie nazionali del 12. 00 battaglione erano riunite al loro quartiere di S. Pietro Martire, non trovandovi persona alcuna, ne uscì dopo pochi momenti, e seguitò il cammino per la porta del Carmine, largo del Mercato e Lavinaro.

Percorrendo ed osservando quel Generale con attenzione tutti quei sbocchi, giunse a Porta Capuana, e di là al piano avanti la Vicaria, ove trovò delle barricate costruite in modo da tener rinchiusi gli Svizzeri di Guardia a quelle carceri: fatti avanzare taluni del popolo e buon numero d’individui della guardia istessa, dispose togliere quell’impedimenti, qual cosa ebbe pronta esecuzione; indi tirato dritto il cammino per la strada che mena a S. Paolo, fece abbattere, colla cooperazione sempre dei popolani e di una porzione degli Svizzeri, che trasse dalla detta guardia, molte altre barricate che si erano costruite colà, che essendo state da principio tenute da Guardie nazionali dell’8.° e 9.° battaglione, si trovavano in quel momento sgombre di difensori, i quali si facevano però vedere timidi e celati dietro le ferrate dal Banco dei poveri, presso il Monistero della Pace ed in altri luoghi di quella strada. Scorso il detto tratto di via, e sbarazzati del tutto gl’ingombri, senza incontrare resistenza, pervenuto quel Generale innanzi la Chiesa di S. Lorenzo, calò per S, Ligorio, d’onde per la strada S. Domenico si diresse alla fontana di Monteoliveto, dal quale luogo rimandò al suo posto quella poca fanteria Svizzera che seco aveva condotta dalla Vicaria, indi proseguendo per avant il Palazzo Ricciardi, S. Giuseppe e Fontana Medina, si ricondusse al Palazzo Reale, annunziando essere Napoli anche dal lato di dritta perfettamente tranquillo.

Mentre tutt’i già dettagliati fatti di guerra avvenivano, i Deputati riuniti in crocchi nella sale di Monteoliveto, divisi di unità di desideri, secondo il più 0 meno fuoco di libertà sistente in essi, altamente turbati e perplessi taluni, altri irritati, e furibondi, credendosi al fatto del potere, improvvisavano decreti di Comitati tremendi, e misture, a parer loro, prendevano di ordini e di autorità, distinguendosi in siffatte utopiche disposizioni Petruccelli, Ricciardi, Zuppetta ed altri Petruccitocelli, Ricciardi, Zuppetti ed altri.

Per siffatte cose taluni tra que’ Deputati, volendo mettere in pratica i loro caldi divisamenti, progettarono la creazione di un Comitato di sicurezza pubblica. Tupputi, uno tra quelli i di cui principi erano per la Costituzione del 29 Gennaro, nell’ascoltare tal cosa, altamente protestò e si battà con energico dire per opporsi a quel divisamento; esso nel procedere alla votazione segreta per l’accettazione, o dissapprovo del Comitato, ricusò votare: non per tanto il Comitato fu deciso. La maggioranza però de’ Deputati, che non aveva saputo resistere alle grida degli esaltati, volendo mettere un freno alle vedute di essi, ovvero agli atti arrischiati che si avessero potuto commettere, sostenne la scelta del Tupputi a Presidente di quel Consesso, il quale da principio fortemente ricusò. Gli esagerati conseguenti al loro fine, diressero al Comando della Piazza i seguenti tre uffizi.

Si diceva nel primo:

«La Camera dei Deputati unitamente ha deliberalo di creare un Comitato di sicurezza pubblica con potere assoluto da tutelare l'ordine pubblico e provvedere alle urgenze del momento. Che la Camera si dichiari in seduta permanente, e che chi dal suo seno si allontana, sia dichiarato di poca fiducia della Nazione. Che la Guardia Nazionale sia di assoluta dipendenza del Comitato della pubblica sicurezza. Che il Comitato riferisca alla Camera continuamente il processo delle operazioni in eoa te, e decreterà le ulteriori sue disposizioni. Che questo regolamento si pubblichi sul momento. »

Leggevasi nel secondo — «Signor Generale — La Camera ha deliberato, in vista del Messaggio ricevuto dalla sua parte, che il Generale Gabriele Pepe ed il signore Avossa si rechino da lei per intendersi oralmente sul modo di ristabilire la pubblica tranquillità, che tanto ora interess’al paese. »

Era scritto nel terzo — «La Camera de' Deputati, unica rappresentante della Nazione è in permanenza, ed ha destinato un Comitato di pubblica sicurezza. Con questa qualità, di cui si è data partecipazione al Ministero, il Comitato le domanda perché il conflitto tra la truppa ed i cittadini sia sorto, ed insiste perché cessi sul momento ogni violenza. »

Questo terzo Uffizio così comparso, con la firma di Tupputi, fu scritto del carattere di Petruccelli, e l’apparente firma del Tupputi fu poscia riconosciuta falsa con una solenne perizia ordinata dalla Gran Corte Criminale di Napoli. Con queste ed altre cose di tal fatta praticate in quell’assemblea, erasi avanzato il giorno; la musica tremenda dei fucili e dei cannoni percuotendo assai da presso alle orecchie di coloro che la formavano, scosse e risolvé molti di essi a prendere attivo partito; fu visto allora gli ultra liberalisti, i demoni dell’ordine pubblico e dell’umanità appigliarsi alla più vile delle risoluzioni: Petruccelli nascostosi in una latrina, uscì da quella travestito con una divisa della ora guardia di pubblica sicurezza, (31) e così mascherato prese salute; Ricciardi fuggì dalla parte del quartiere del Treno; La Cecilia, che pur tra quelli si trovava, non per deliberare, ma per essere fuggito dalla strada ai primi colpi tirati, avrebbe voluto abbandonare quel locale e metters’in salvo anch’esso, se non fosse stato dal Deputato Stanislao Barracco a forza trattenuto, dicendogli «amico ne avete messi nel ballo, ebbene moriamo insieme, ma non fuggite» ed altri con svariati miserabili ritrovati misero termine alla parte rappresentata in quella tragedia. Indi presentatosi nella sala un Uffiziale spedito dal Generale Nunziante, che trovavasi nel piano di Monteoliveto, a cooperare lo estinguere, per mezzo di una Compagnia Svizzera e Pompieri, l'incendio del Palazzo Ricciardi, impose ai residui Deputati irrisoluti e periclitanti, di abbandonare quel locale; qual cosa succede con molto rispetto individuale; anzi il Governo per tutelare da ogni pericolo quelle persone, commise alle Guardie di pubblica sicurezza, che le accompagnassero fino alle loro abitazioni, come venne con officiosi modi adempito.

Le truppe riunite al largo del Mercatello, nel prendere alquanto riposo, si formarono per masse in battaglia: esse appena giunte in quel piano inviarono una Compagnia del 1. ° Granatieri nel vasto edificio degli espulsi Gesuiti, per snidare gl’insorti, se colà se ne fossero rifuggiati; poscia, trascorso poco più d’un quarto d’ora, il secondo Reggimento Svizzero, movendo il primo, marciò per porta Sciuscella e porta Costantinopoli, nelle quali strade distrusse talune barricate che non erano difese; il primo Svizzero si diresse per le fosse del Grano verso gli Studi; il primo Granatieri e il terzo Svizzero restarono per altro tempo nella tenuta posizione, occupandosi anche da quelli Svizzeri il locale di S. Domenico Surriano. Il primo Svizzero pervenuto nello alto delle fosse del Grano, fermò la sua marcia, avendo trovato il secondo dei loro, che si era già inoltrato nella montata di S. Teresa e batteva una barricate costruit’a mezza via tra il Convento di S. Teresa ed il Museo; quindi per ordine del Generale Stockalper quel Reggimento si restituì al largo del Mercatello. Il primo Granatieri fatto passare pel largo delle Pigna, salita Stella, spezzando per l’angustissimo sentiero sotto posto al Palazzo Cimitile, sboccò nella via S. Teresa, onde appoggiare le operazioni del 2. ° Svizzero col prendere a rovescio la barricata attaccata, ma comecché il secondo Svizzero nel fare i Granatieri un tal giro nel quale anche dovettero superare degli ostacoli, aveva inutilizzato già quell’intoppo, così sgombrare del tutto le vie del rione al di sopra degli Studi, il 2. ° Svizzero entrò nel Convento di S. Teresa, venendo in aperta la porta da un Caporale del 4. ° Svizzero tenuto colà prigioniero e ferito; e mise i suoi avamposti al ponte della Sanità: il 1. ° Granatieri scendendo verso il basso, prese posizione nelle fosse del Grano, spiccando due Compagnie al piano delle Pigne, una alla porta Costantinopoli, un plotone sotto la rampa di S. Potito, un altro al centro della montata delle fosse del Grano, ed una Compagnia agli sbocchi del Cavone. Cosi quelle truppe non avendo più molestie, e non essendo chiamate ad altre imprese, restarono al bivacco fino al domani, tenendo vedette degli Ussari, cacciate dal I. ° Tenente Paolillo comandante il plotone, che aveva seguito il I. ° Reggimento della Guardia Granatieri.

Terminata la pugna verso le 9 della sera, si contavano circa 10 ore di aspro conflitto: satana, che sparso aveva certamente il suo veleno in questa sciagurata terra, rallegravasi del flagello il più orrendo con cui possa Iddio punire i peccati dei popoli, la guerra civile in tutta la sua essenza aveva presa piede in Napoli: da tre in quattro cento colpi di cannoni e molte migliaia di fucilate avevano prodotto le morti di quasi due cento persone d’ambo le parti, e le ferite di più di 600, con la prigionia di Guardie nazionali ed altre genti di un numero pressoché simile. Il brutto stato del presente ed il dubbio spaventoso dell’avvenire, invadeva gli animi di tutt’i cittadini sopraffatti da amaritudini: i valorosi rivoluzionari, che avevano fatti gli eroi la notte precedente ed il mattino, cercavano uscire dalla battaglia fuggendo per le diverse campagne, recando lo spavento ovunque si fermavano; niuno d’essi più nelle vie della C5pitale si vedeva. L’ immensa turba di plebe, fin dal giorno sollevata, si dispone, ora che la sera era avanzata, a correre per assaltare le dimore dei ribelli al loro Sovrano, 0: con questo proponimento bramava penetrare anche nelle altre case, quindi la notte del ferale 15 Maggio fu notte di orrore, più della già rescritta giornata.

Su tal riguardo la rabbia ardente del partito sedizioso, non potendo in niun modo, dopo èssere stato vinto, sfogare la sua vendetta verso la truppa, ha riempito Giornali e carte volanti di descrizioni esagerate, sempre coll’istesso spirito di servile imitazione, su quanto in altre parti si è pubblicato nel rincontro di guerre in città. Ora per verità di Storia, riassumendo io ciò che su tal proposito si è propagato, mi vedo in dovere commentare ed osservare talune cose su questi vituperi. Si è pubblicato che le milizie non solo permisero a quei del popolo il saccheggiare, ma che l’incoraggirono anche. Che i proletari abbiano depredato, riesce impossibile negarlo essi girando per le vie, sotto il più vivo fuoco, cercavano penetrare nelle case che trovavano aperte, per profittare di ciò che se gli parava d’innanti; ma il pubblicare queste operazioni venire spalleggiate dalla truppa, è falso del tutto; anzi è provato al contrario che in molti luoghi, ove il combattimento il permetteva, i popolani vennero impediti commettere dei disordini; qual cosa però non fu possibile praticarsi in ogni sito, come si avrebbe voluto, poiché gli Uffiziali e soldati dediti oltremodo a distruggere il nemico che l'offendeva, premeva molto più loro terminare, d’una maniera decisiva l’incominciata lotta, che reprimere il saccheggio. Il volere rendere responsabile le truppa di ciò che si passa nelle case che vengono prese d’assalto nel momento del furore e dopo che le milizie se ne sono allontanate, non solo è poca ragionevolezza, ma bensì ignoranza storica ed ingiustizia di cuore. In contrario di queste dicerie, citar si potrebbero le mille testimonianze di cittadini probi, che senza esserne richiesti, hanno asserito è sostenuto, dovere la conservazione della loro vita e delle proprietà alle truppe od alla nobile condotta dei loro Uffiziali: anzi è evidente, che subito che divenne possibile, nel mentre durava il pericolo, le case minacciate ottennero delle salvaguardie: il Palazzo dell’Albergo Zir, l’Hotel des Empereur, il Palazzo Satriani, quello di S. Teodoro, di Miranda, di S. Arpino, di Cellamare, di Berio, quello di Montanaro, di Stigliano, di Montemiletto, di Angri e tante altre case e palazzi, che si potrebbero citare, che lungo ne riuscirebbe il catalogo, situati nelle vie ove fervent’era stato il combattere, vennero guardati per impedire l’ingresso al popolo, che minacciava saccheggiarli: anzi il Ministro di Russia ringraziò l'Uffiziale del 1. ° Ussari Fabri che con la sua gente aveva protetto il domicilio di molte famiglie forestiere. (32) Tuttavolta non esitiamo a convenire che talun soldato si è creduto in dritto di appropriarsi degli oggetti nelle case ov’è salito, perché ha considerato quella casa albergo di nemici, essendovi partiti dei colpi di fucile; potrà negarsi poi che questi oggetti involati dai soldati, vennero tosto restituiti sia alla Polizia, sia ai proprietari, allorché tali fatti furono a cognizione dei superiori? Ciò non potrà negarsi? Che nel calore della zuffa, dei soldati abbiano commesse delle brutalità, vien giustificato dall’esser’essi fortement’esasperati, poiché se nei tempi ordinari è facile imporre sull’azione dei sensi, non v'è chi non comprenda essere difficile praticare in mezzo ad animosità estreme d’un combattimento in istrada, contro un nemico, che facendo un fuoco mortale non combatteva francamente, nun si lasciava vedere faccia a faccia, rendendosi per viltà invisibile! Potevasi conservare sangue freddo, allorché si udivano grida di trionfo e stomachevole riso da quelli che dal fondo dei loro nascondigli uccidevano e ferivano impunemente? No, per Dio, non era possibile!

La truppa deplora veramente e deplorerà sempre i fatti della giornata descritta, ma si conforta nel suo pensiero, che questi non piombano certo sulla sua coscienza; essi cadono su quella di una fazione criminosa ed anarchica, su quella di una maggioranza di Deputati moderati, che si lasciarono stordire e dominare dalle grida di taluni forsennati, su quella delle Guardie nazionali, che si ritirarono timidamente alle loro dimore, in vece di opporre una falange serrata a quella debole minorità d'uomini scatenati e maligni.

vai su

Conseguenze

_________


Spuntato il 16, ciascuno delle milizie, poiché niun altro per le vie si vedeva, nel suo diverso posto, osservava le triste conseguenze del giorno tra scorso; cadaveri ancora per le vie, che da’ becchini si andavano raccogliendo, case crivellate da palle di vario calibro, non più lastre, non più vetri ai balconi ed alle finestre, portoni spezzati, usci in franti: la via di Toledo fin sopra S. Teresa, il largo S. Ferdinando, quello del Castello, la strada S. Brigida e l’altra di Monteoliveto, ove fervent’era stato i combattere, a percorrerle formavano raccapriccio; non cosi però si vedeva negli altri luoghi, laddov’erasi rimasto tranquilli; niuna casa si osservava alterata, il più profondo ordine e la più profonda quiete vi regnava. Perlustrazioni numerose, e pattuglie frequenti mandate ne’ siti reconditi della Capitale, tanto nella notte, che nelle prime ore di quel giorno, non che altre spedite nelle convicine alture, riportavan tutti rapporti di tranquillità e di sodezza perfettamente mantenuta.

Avanzatos’il giorno, i più animosi, ma tranquilli cittadini, spinti da curiosità di vedere e di sapere, recatisi nelle strade, si accostavano a’ militari e gli esternavano quei sentimenti di gratitudine che gli uomini onesti devono a chi gli ha sottratti da’ mali orrendi ed inevitabili dell’anarchia; molti si riunivano in crocchi, taluni discorrevano, altri ascoltavano, ma tutti coincidevano nel principio, che qualunque potess’essere il futuro delle cose, si aspettasse almeno con dignità, stretti all’ordine, stretti alle leggi, non meritare la maledizione dei figli e del mondo; essere piacevole la libertà, ma con quella forma pubblica conveniente; doversi unire tutt’i buoni con fede a sostenere le leggi, e non rendersi complici, anche con l’indolenza della ruina, e dell’esterminio della patria.

In vero possibile non era concepire illegalità maggiore in un paese governato costituzionalmente, quanto quella, che gli eletti a Deputati, prima che venissero, secondo le leggi, costituiti in Assemblea dal potere Sovrano, prima che avessero giurato, unirsi e dichiararsi da se medesimi costituiti, porsi in seduta permanente, e cominciare a competere col Principe, perché giurasse in un modo, che non solo non era secondo la Costituzione, ma che assolutamente risultava contro la Costituzione. Come possibile non era altresì concepire l’altra illegalità maggiore della prima, che la Guardia nazionale, il cui sacro uffizio è di sostenere la legge costituzionale, il cui giuramento è di sostenere il Son-ano, come cardine di tutto il legale edifizio costituzionale, di proteggere le persone e gli averi de’ cittadini, di vedere questa Guardia, che contro la legge costituzionale, obbedisce a’ Deputati, non ancora Deputati, perché non ancora costituiti in legale Assemblea, e quando anche lo fossero stati, non avrebbero mai avuto la potestà esecutiva; levar barricate, provocare col fuoco la truppa, che sola si teneva in attitudine tranquilla per proteggere il Sovrano costituzionale, e con esso le leggi costituzionali contro i più che manifesti attentati, e spargere la devastazione ed il sangue cittadino per la Capitale. Obbrobriosissimi orrori, più che illegalità vergognose.

Ma come parlare di legalità tra Deputati e Guardie nazi0nali? I primi appartenenti nella massima parte a quel ceto di avvocati i quali anziché essere forniti di dottrina e probità, altro non conoscono che le robolerie, le cabale e gl’intrighi del Foro; e credendo in ciò consistere la politica, applicano le loro vergognose mene a tutto quello che la materia governativa richiede: essi congiunti a quei tanti, che formano la parte più pericolosa della società, perché non avendo come menare innanti la vita vivono nell’ozio, per aver trascurato sempre ogni mezzo di onesta sussistenza, hanno col loro ciarlatanismo e propagandismo di dottrine intemperate ed immoderate formato non solo la rivoluzione nel napolitano Stato, ma nell’Italia tutta e oltremonti. Le seconde formate di persone non avvezze a riflettere, scevre di cognizioni e di sapere, stante le poche cose apparate, se pure apparate, mancanti de’ lumi della pratica e dell’esperienza; di ragazzi non suscettibili a discernere il bene dal male, essendo ancora alla scuola di pedanti, il più de’ quali impostori Demagoghi, parlanti sempre, a quelle giovani menti, con parole generatrici, secondo l’avviso del Mazzini (33), epperò impossibilitati tutti comprendere, chi per scarsezza di cognizioni, chi per confusione d’ idee perverse, ciò che l’un l’altro giovava, ciò che per i popoli nostri, poco istruiti, faceva d’uopo. Deputati, Guardie nazionali, la società, sotto qualunque forma di governo essa sia, ha per fine il bene di tutti, più di più ne' governi rappresentativi. Per conseguire questo bene, è necessario, che la virtù, la dottrina, l’intelligenza concorrono a governare. Avevate voi queste tre qualità, o la sola, ché la generale guida dell’epoca presente, il personale interesse? Ahi! che pur troppo quelle qualità sublimi non erano in voi! Sappiate dunque che i legislatori conservano e non creano; quindi essendo voi i legislatori e la forza di un popolo costituzionale, conservar dovevate soltanto ciò ch’esisteva, e non con dottrine boriose e stizzose, infiammative e perturbatrici, far nascere il desiderio alla parte ignorante e sfrenata della popolazione, non conoscente l’indole del paese, sognante sempre riforme civili, se lo stato federativo dovesse preferirsi allo stato di fusione ed unico, se la monarchia, il patriziato, l’assemblea popolare fosse conveniente all’interesse comune dei napolitani: il vostro mandato era di conservare il sagro deposito delle leggi e della forza che i popoli vi confidavano, perchè l’adopraste a serbarli fuori di pericolo; era di procacciare con tranquillità i cangiamenti necessari, onde andasse innanzi, e giungesse fino al punto convenevole alla nazione la C0stituzione promessa dal Sovrano nel 29 Gennaro ed accordata nel 10 Febbraio, adoperando quei mezzi atti a rendere felice ed onorate le popolazioni: altro non veniva a voi imposto. Con i vostri dettati, colle vostre opere, col profanare il sagro deposito messo nelle vostre mani, rendendolo istrumento di calamità indicibile e di vituperio nazionale, rompeste ogni vincolo di amore e di fiducia tra il Principe ed una parte de’ sudditi, scemaste l’autorità ed il credito de' buoni cittadini, accrescendo l’ardire e la possanza de’ sciagurati, seminaste odii e rancori occulti, che spesso scoppiando fruttano nuovo sangue, e t0glieste alla patria molti figli, che avrebbero potuto colla mano, od in altro modo, giovarla. Ecco quali furono i frutti delle vostre dottrine democratiche, tumultuarie e licenziose!

Or come comprendersi queste cose da un Saliceti, elevato dalla polvere ad Intendente e poscia al Ministro, principale motore dello spargimento di sangue cittadino, primo tra i calunniatori del Re, che avendo giudicato per timidezza, opportuno nascondersi e salvarsi su legni francesi, umilia supplica rispettosissima al Sovrano, perché gli accordi congedo con soldo della sua elevata posizione di Magistrato in cui nel giorno 15 si trovava, accompagnata con proteste ripetute della sua innocenza e divozione profonda al Trono? Da un Lanza Presidente del Comitato di salute pubblica, che altra lettera scrive al Sovrano, per la quale il Giornale il Tempo al N. ° 132., dalla sua severità consueta, passa al bernesco deridendola, dicendo che il Ministero vegli su Lanza per non mettere in pericolo la Costituzione, essendo costui uno dei retrogradi da temersi.» Da quell'uffiziale Superiore del Ministero, cui s’imputa la causa principale di tutt’i napolitani malanni, coll’aver provocato l'erezione delle barricate, che seguono alla lettera l’atto vile del Saliceti? Da quelli altri Capi anarchici, sovversivi, demagogici, che nelle frequcnt’imitazioni di ribalderie di altre nazioni, non hanno saputo fare a somiglianza ciò che in Francia, in Ispagna, in altri luoghi, ed in altre epoche anche nel nostro Regno i Capi di tumulti hanno operato, cioè, morire colle armi alla mano combattendo?

Scorreva il giorno e già era il meriggio; scarso numero di galantuomini, ma molto di proletari, si osservava per le vie: più migliaia di persone ripetute volte con bandiere bianche erano venute nel mattino innanti alla Reggia, onde protestare al Re con sentimenti di sincerità e divozione ciò che essi per lui sentivano; le truppe si tenevano in attitudine di precauzione e d’imponenza, il ciarlatanismo rabbioso, ma fuggente, spandeva ovunque voci di venire in Napoli gran quantità di provinciali vendicatori del sangue sparso nel di precedente; a taluni si diceva giungere da Salerno e dai dintorni di Napoli, ad altri dalle Calabrie, e ad altri ancora dalle Puglie: questo avanzo d’infame vigore di lingua, unito all’altro delle lettere bianche della Posta, facendo gioco nelle anime timide e rimesse, sconfortava i buoni, e dav’ardire agl’iniqui ed agli scellerati. Ma il Re, che il vero delle cose conosceva, e che avrebbe potuto, per la conseguita vittoria sugli anarchici, annullare quanto a Governo rappresentativo apparteneva, non curando quelle maligne dicerie e quelle opere inette di propaganda, bandiva una proclamazione di un nuovo Mi«mistero; annullando il congiuratore, spergiuratore e distruttore già esistente; ed assicurando il fermo proponimento di proteggere la Costituzione in tutta la sua inviolabile integrità, dichiarava donarsi energiche provvidenze onde risalire alla vera origine del già descritto colpevole attentato. La vera origine è oggi palesa, ed e appunto quanto in queste carte è manifestato: Guardie nazionali, Deputati, Ministri trovavunsi tutti uniti, non solo ad abbattere gli ordini costituzionali, ma a volere col nome di Repubblica la ruina e l’esterminio della nostra patria e dell’Italia!

Un decreto annunziando lo scioglimento della Camera de’ Deputati, conveniva pel di 15 Giugno il riunirsi de’ corrispondenti Collegi, per procedere alle novelle elezioni (circostanza preveduta nell’articolo_6& della Costituzione); un ordine del Comando Generale delle Armi della Provincia e Piazza di Napoli, dichiarante trovarsi la Capitale nello stato di assedio, il formarsi una commissione temporanea di pubblica sicurezza con l’incarico d’inquirire per tutt’i reati contro la sicurezza interna dello Stato e contro l’interesse pubblico; ed il riconsegnarsi alla Sala dell’arsenale tutt’i fucili ed altre armi date dal Governo a coloro che facevano parte della Guardia nazionale di Napoli, perché sciolto il Corpo, avendo fatto mal uso delle armi affidategli, con un disarmo completo degli altri cittadini, rallegrò gli animi di tutti coloro che al disordine avvenuto, non avevano presa parte, ed intimorì oltremodo la massa de’ sollevati. Queste disposizioni energiche, il giungere da Capua e da Avellino altre truppe nella Capitale, il ricevere gli arrestati, per magnanimità Sovrana, la libertà, rimette la fiducia nel pubblico.

Nel 17 Maggio la città di Napoli è tranquilla; la disciolta Guardia nazionale deposita pacificamente e personalmente le armi, meno qualche individuo che le invia, perché perturbato ancora d’animo. Il nuovo Ministero costituito, è formato per ora cosi, il Principe di Cariati per la Presidenza ed Affari esteri, il Cavaliere Bozzelli per l’interno ed Istruzione pubblica, il Brigadiere Carascosa, di già nominato con lode, pe’ Lavori pubblici, Ruggieri per la Finanza e Grazia e Giustizia, ed il Maresciall0 Principe d’Ischitella per la Guerra e Marina. La nomina di questo Ministero rende profughi al momento dalla Capitale tutti gli agitatori politici, che celati strettamente per cautela di timidezza si erano tenuti dopo il conflitto del giorno 15; molti escono dal Regno portando ove vanno le notizie de’ casi di Napoli con una esagerazione indicibile, non solo per bricconeria, ma per coonestare il loro lontano fuggire; altri si recano nelle Provincie, e nel giungervi allarmano le popolazioni con quanta forza di propagazione è in loro, dicendo avere il Re tolta la Costituzione, e far marciare quantità di truppe verso le Provincie per fare in esse l’esterminio stesso che in Napoli si era fatto, sospingendole così non solo a tumulti, ma a sollevazioni. Il nuovo Ministero riunitosi ne’ susseguenti giorni, avut’i rapp0rti delle Provincie, per arginare al malanno e tenere in freno le popolazioni, cambia molti impiegati settati messi dal Ministero Trova, ed opina di comune accordo del Re, il pronto richiamo delle truppe spedite in Lombardia (34): a tal fine il Re fa partire per Ancona il Brigadiere Antonio Scala ed il Capitano dello Stato maggiore De Angelis per richiamarle, ritenendo doversi ba dare più al proprio che all’altrui bene. (35)

Le accennate stragi di cittadini e di soldati, da me descritte con sincerità, e gli altri mali che le seguirono, furono in vero più da compiangersi che da rammentare; io le narrai tal quale succedetter0 a solo fine di contropuntare il ciarlatanismo del Ministro Pareto, (36) non che dell’altro Conte Mamiani, (37) i quali han provato ad evidenza all’Europa, che nei loro Stati non vi sono Governi che governano, ma che vi sono Governi, che sono. governati da orde di Demagoghi, che non vedono, non vogliono, non seguono che rovine e sfacelo universale; e sincerare coloro che ne lessero la descrizione nei Giornali periodici nazionali ed esteri, snaturata di cause e di conseguenze, massime nel Contemporaneo romano, redatto dal Signor Pietro Sterbini, che per aver preso a collaboratore il nostro profugo Ferdinando Petruccelli, capo dell’anarchica fazione dei 13 del Mondo nuovo e Mondo vecchio (38) dovrà avere le identiche di lui qualità morali politiche. Ma però non è men vero nello stesso tempo, che l’intrepido e deciso combattere delle truppe, cagionò la salvezza della Capitale, non che quella del Regno dall’anarchia e dall’esterminio in cui si voleva far cadere. (39)

Molt’individui del Corpo diplomatico, terminata la battaglia, recatisi dal Sovrano rallegraronsi della bell’0pera conseguita, ed encomiarono nel tempo medesimo altamente il valore delle schiere.

Di questa comune salvezza esultavano in modo commovente a calca le popolazioni, rivedendo incolume il loro Principe, salutandolo con festose grida, e con effusi0ne di giubilo e di meraviglia. E lagrime di tenerezza versavano le truppe nazionali e svizzere nel rivederlo in mezzo di loro, quando uscito dalla Reggia passolle in rivista nella piazza Reale, in quella del Castello, ai Granili ed a Portici.

Da per tutto, lungo il cammino festeggiato strepitosamente, rispondevano gli applausi delle vie agli applausi delle finestre affollate di riguardanti. Un’improvvisa festa e spontanea, nella quale l’incolumità del Principe rallegrava, anche come simbolo dell’universale salvezza. E le parole del Re, a quelli che calcandosi lo circondavano, erano pace e fedeltà alla giurata Costituzione; esortando anche ed imponendo fedeltà alla Costituzione, in udire qualche voce plebea, che levavasi a contradirla. E le grida di tutt'i soldati erano echeggianti al Sovrano, difesa col proprio sangue della Real Persona, e della legge Costituzionale del 10 Febbraj0: i due termini sagri del loro giuramento.

O voi che conclubati state intorno agl’individui del Minstero, che ha formato il programma del 3 Aprile, che volete comparire uomini liberi, comprenderete certo, e con me osserverete, che dopo la catastrofe del 15 Maggio, il Governo si vide obbligato a cangiare quel Consesso, che lo aveva fatto privo di ogni forza agli occhi delle fazioni: che quel programma era l’espressione di un partito, il quale camminando furbamente di concessione in concessione, era giunto fino al punto in cui la forza morale del Governo era divenuta nulla; i clamori delle strade, più istigati che spontanei, elevatisi a tribunali, e dato ad essi ascolto dal Ministero, avevano prodotto, che l’organizzazione dello Stato erasi disfatta. (40)

Quel programma ha lasciato nella nazione napolitana la trista eredità ond’è insanguinata una pagina della sua storia. No, mille volte no, dopo ciò che si è passato, quel foglio non poteva, né doveva più aver forza tra noi, sono troppo fresche, crudeli troppo e manifeste le sventure, che da esso ne derivarono; fra le mura di Napoli più non deve inferocire l’ira, la devastazione, il vandalismo.

Queste cose il Capo del Governo considerandole nell’istesse giorno 15 Maggio, cambiò nel Ministero che ne fu la causa, e riunì nuovi Ministri al suo Consiglio. Sovvenitevi o radicali (41) o demagoghi, e ciò in appoggio al mio esposto, che dopo pochi di della formazione del Ministero a qui vi ligaste in accordo, cioè quello del 3 Aprile, non solo un disegno era formato di disorganizzazione generale, ma che a capo di questo disegno vi stavano uomini cui il Ministero si lasciava sempre circondare, ed affidava le missioni più delicate per mandarle ad olfatto; i quali nella fatale giornata, ora descritta, altamente comparvero a portarla innanti, come pure nei sciagurati fatti posteriori di Calabria ligati con quelli di Sicilia (42). Che altre pruove potrebbersi produrre, onde dimostrare l’oprar giusto e conveniente del Capo del Governo nel dimettere quel Ministero? Che se è vero, come voi dite di amar caldamente la patria, e volete ch’essa sia prospera e felice, nella vostra giustizia, poiché gli uomini liberi non possono essere che giusti, troverete utile di non far più molto su ciò che riguarda il Ministero del 3 Aprile. (43)

Premesse queste circostanze verissime, che far doveva in quei primi giorni il Ministero, se non quello che fece? epperò volendosi tenere nel suo dritto e nella sua ragione, preferendo la legalità al rigore, di comune accordo col Sovrano, sciolse la Camera elettiva; cosa, come la storia ci ha fatto vedere, praticata altra volta in diverse parti: il rigore dettavagli che si fosse convocata la Camera dei Pari in Corte di Giustizia, per chiamarla giudicare i colpevoli; esso nel presciegliere la legalità e questo passo, evitò il riempimento delle prigioni ed il pors’in ceppi molta gente. Sarà da negarsi questo procedere generoso? (44)

Pescia, agendo con una simile intenzione, mise nel di seguente della sua istallazione in libertà, coll’aprire le prigioni e ridonare alle famiglie quanti quarant0tto ore prima avevano preso parte agli avvenimenti che insanguinarono la Capitale. (45)

Indi non volendo recare alcun male alle persone, opinò anche col pieno aderimento del Re, che con una misura di un potere eccezionale, si avrebbe potuto costringere la parte esaltata della popolazione ad una inoffensiva neutralità, quindi la Città di Napoli fu messa nello stato d’assedio; circostanza avverata nella storia di molte altre nazioni. (46)

Quali furono le opere non apprezzevoli ed ingiuste di questo Ministero, che a quello del 3 Aprile fu surrogato, per solo fine che non è con voi d’accordo? niuna! Sappiate dunque, che collo snaturare i fatti, col propagare menzogne colla stolta e premeditata vostra perfidia, soli mezzi per mantenervi in esse, non solo oltraggiate la virtù, ma perdete ogni giorno di credito presso i vostri stessi sedotti, i quali quanto prima, perché chiariti su i mali che recate alla patria, vi lasceranno del tutto in abbandono (47).

Per queste cose narrate o napolitani io conchiudo, che non è da credere affatto ai repubblicani dei tempi nostri, poiché essi non hanno né l’esperienza che preserva, né il genio che indovina, né la prudenza che ritiene, né l’audacia che riesce (48); quindi vi esorto e vi scongiuro, con le parole stesse del vostro valido campione italiano, del dottissimo Gioberti, capo del Congresso per la sedicente confederazione italiana (49) a conciliarvi la benevolenza di chi impera (50) «e l’amore e la riverenza verso la persona del Principe; voi ben sapete, che per ordinario l’amore genera amore, quindi sarebbe assai difficile che un Monarca, il quale si conosca amato da’ suoi soggetti non li riami e non si senta inclinato a beneficarli. Niente più incuora a ben fare, niente è più dolce che l’amore dei popoli a chi possiede la somma potenza; perché fra tutti gli onori che egli riceve, la benevolenza è il solo omaggio che sia spontaneo e possa essergli denegato. Sforzate adunque il Principe a ben fare colla fiducia e coll’affetto; e quando esso retribuisce all’amor vostro qualche benefizio, mostratevene grati; così lo animerete a proseguire ed a vincere di mano in mano sé stesso in questo nobile arringo. Qual’è il Sovrano, che non si studierebbe di distinguere, potendo, ciascun giorno del suo Regno con qualche atto di virtù pubblica, se vedesse, che ogni suo sforzo è riconosciuto e benedetto, e gli accresce l’amore e la riverenza dell’universale? Se i dominanti talvolta errano, ricordatevi che sono uomini e soggetti alle comuni miserie, e sono post'in condizioni molto diverse di quelle dell’uomo privato; se giudicate delle azioni pubbliche di essi, fatelo con cognizione di causa, equità e moderazione, poiché risulterà un morale sindacato ed una censura nazionale, cose che formano la guardia più efficace delle buone leggi ed il ritegno per impedire gli eccessi.» (51)

Amate dunque, o napolitani, il Principe che Iddio vi ha dato, amatelo ed osservatelo come padre vostro, e siate riconoscenti dei servigi che ne ricevete.

«La concordia dei popoli col Principe, forma la grandezza e l’indipendenza degli Stati»: cosi vivrete FELICI



FINE.

____________


1 La cognizione avuta dei fatti dopo la pubblicazione della prima edizione di questa narrazione, fa si che il lettore nella edizione presente vi troverà delle differenze.

2 La Costituzione di Napoli fu data il giorno 10 Febbrajo, quella del Piemonte, e quella di Toscana si ebbero poscia, il moto-proprio del Papa fu annunziato anche dopo queste due.

3 Si allude all’opera di Vincenzo Gioberti — Del primato morate e civile degl’italiani.

4 Si riscontrino i giornali ove vi sono articoli redatti dal sig. Salafio, e principalmente quello intitolato il Cittadino.

5 Contabile della Trattoria la Corona di Ferro.

6 n Roma pochi giorni prima, era anche avvenuto lo stesso.

7 L’atto del bando dei Gesuiti fa un atto non solo anticostituzionale, ma,di vituperevole condiscendenza. Il Ministero concorse a quel bando, suggellando una decisione. illegale, violenta ed obbrobriosa.

8 Grado dato da essi medesimi — venne sostituito per pessima amministrazione.

9 Il P. Gioacchino Ventura, autore dell'annunziata Opera, diceva in essa, che la Costituzione di Sicilia del 1812 stabilita sotto l’influenza della Gran Brettagna, cominciò a reggere la Sicilia, e la fece nel corso di pochi anni salire ad un grado rimarchevole di potenza e di prosperità quindi inseriva, nel corso dell'Opera, doversi quella e non altra forma di governo stabilire nell’isola. Nel bandire queste cose dimenticava aver anche propagato di già, colla stampa, idee sulla detta costituzione, totalmente contrarie a quelle ora esposte. Aveva egli predicato dal pergamo, e poi mandato alla posterità.

«Un intreccio d’ingrate vicende, di cui la Storia a dirà le vere cagioni che le mossero, le perfidie che le accompagnarono, la serie dei guai che ne furono il risultato, attentano ai più sacri diritti del Re, e preparano al popolo a catene che non aveva mai conosciute, e che suo malgrado a è obbligato a cingere, perché, fabbricate alla fucina ed offertegli a nome della libertà. Il Genio della distruzione spinto da oda smania insensata di abbattere ciò che dovrebbe essere semplicemente corretto, e che ben può chiamarsi la magnanimità propria del suicidio, invece di rimuovere un qualche abuso, che il tempo e le circostanze a introducono necessariamente in tutte le umane istituzioni, osa di portare una mano sacrilega a rovesciare un edificio rispettato da otto secoli, e mantenuto dalla saggezza di trentotto potenti Monarchi, e senza riguardo per la patria dignità, come senza politica, vile ne’ suoi sentimenti, come falso nei suoi concetti, antepone le istituzioni a straniere alle istituzioni patrie, le quali alla straniera politica erano servite d’istruzioni e di norma, E che mai pretese di sostituirvi? Una forma di Reggimento, che basato sul principio degradante della ubbidienza passiva e della resistenza attiva, tiene il popolo tra l'alternativa fatale dell’oppressione o della rivolta; che fratto di molti secoli d’ intestine discordie e di tragiche scene: ha dovuto essere sanzionato col supplico o colla proscrizione di ottimi principi e colla strage di milioni di sudditi; che più da interno equilibrio di poteri, nel fatto non divisibili,e mantenuto dal concorso di fisiche cagioni, di straordinari costumi, e di esclusive abitudini; che non potendosi queste cause morali e fisiche trasportare altrove, come tutto ciò ch’è scritto, è sì proprio del suolo, natio, che in un altro paese si disseccherebbe, còme un vegetali bile trapiantato in un clima che non gli conviene; che garentendo la libertà della specie, non assicura le avarìe dell'individuo; che nutrendo l’orgoglio e comandando la pazienza, può solo sostenersi da un popolo che tutt'osa e che tutto è capace di sopportare; una forma di reggimento infine di cui, limitare la regal dignità senza render felice uno Stato, è il distintivo; in cui morire più speditamente che altrove, e più che altrove strabocchevolmente pagare, è il più certo privilegio; di cui uno stato di rivoluzione permanente è il risaltato. »

Dillo in buona fede Ventura; c’inganni adesso, o c’ingannasti allora? Ahi Italia quali apostoli di libertà tu produci, versati così! essi ardono incensi non sull’ara della tua fede, della tua felicità, ma su quella del proprio interesse; essi niuna cosa pel tuo vantaggio adoperano ma sibbene tutto per l’utile individuale: nò, tu nulla di buono sarai per ottenere, se prima non distruggi del tutto questa egoista genia. Ventura, bramavi tu un Cardinalato, e. poscia un…….?!? Ambizione, come travolgi le menti de gli uomini! la differenza del linguaggio, è frutto di differenza di epoca.....

10 Questa milizia fino al 29 Gennaro, che fu chiamata Guardia Civica, rese molti servizi al paese, dopo quell’epoca, col prendere altra divisa e col cambiar nome, non capì però il suo carattere; taluni credettero da prima far le veci di gendarmi, altri di truppa regolare, poscia immaginarono servire al proprio interesse, dimenticando avere una patria ed essere parte e sostegno di una nazione, indi si rivolsero a fare i bravi, ed in ultimo si costituirono a sostegno dell’anarchia.

11 Ciò prova quanto io dissi di sopra, che l'ignoranza, potente nemica dell’ordine, aveva presa parte da per ogni dove.

12 Si è detto essere tale invenzione parto del Demagogo Carlo Poerio, ma io nol credo, poiché non valuto da tanto il suo ingegno.

13 I fatti posteriori hanno avverate queste considerazioni.

14 Questo doppio Sovrano, credendo proteggere le riforme politiche dell’Italia, le spinse innanti quindi, sotto il suo protettorato, si passò nella smoderatezza eccessiva; poi vedendo che le circostanze cambiate, recavano gran discapito alla religione, fino a presagire uno scisma ih Germania, volle fermarsi; ma il disordine aveva già preso piede; ed il Pio IX del mese di Luglio 1848, divenne molto diverso da quello del 1846 e 1847.

15 La celebrità di questo lume letterario è appoggiata sulla purezza della lingua italiana, e sulla versatezza nella scienza amministrativa: la sua biografia lo accerta.

16 Iddio Fonte di verità, non protegge una causa poggiata tutta sulle bugie.

17 Verso questa epoca, si è fatto tenere per parente dei Bandiera.

18 (b) Le conseguenze, hanno fatto vedere non essere le truppe trastullo del popolo.

19 Per poco che si considera questo paragrafo, si vedrà, che il Ministero era composto d’uomini di talenti maligni ed incompleti, utopisti di riforme impossibili.

20 Lo scopo d| tale armistizio si rende chiaro dalla lettera scritta da Luigi Orlando al signor Giovanni Andrea Romeo, in data di' Palermo 26 Aprile 1848: già pubblicata dal Giornale l’Araldo al N. ° 21 ed in quello del Tempo al 129.

21 Ecco qual’era il giuramento, che si voleva stabilire dai Deputati. «lo giuro di professare la religione cattolica-apostolica e romana. Di osservare e mantenere lo statuto politico della nazione con le riforme e le modificazioni che vi farà la rappresentanza nazionale, su tutto ciò che concerne la parìa —Di adempire il mandato avuto dalla nazione, e di contribuire con tutt’i miei sforzi alla sua grandezza ed al suo ben essere—Cosi facendo Iddio mi ricompensi, o mi punisca».

Questa nuova formola di giuramento era sovversiva 1n tutte le sue parti, poiché concentrava tutta la possanza legislativa in un solo dei tre grandi poteri questo giuramento riguardante le riforme e le modificazioni a fare, era un giuramento a vuoto, un giuramento prestato sopra una cosa incognita.

22 Tra i militari la virtù della generosità è sempre sentita.

23 In questo progetto non si parlava delle truppe svizzere, perché i demagoghi e gli esaltati credevano fermamente aver di già molto simpatizzato con quella gente estera, per causa che nelle guardie tripulate che facevano, avevano varie volte regalati quei soldati di sigari ed altre cose. Potrà mai un regalo qualunque cambiare la morale di tutta una gente fedelissima, di tutta una nazione onorata, qual è la Svizzera?! tra le altre utopie, vi era anche questa!

24 Nei fatti di Napoli dal 29 Gennaro al 15 Maggio, se si tolgono tutte le imitazioni degli errori degli altri paesi, si vedrà non esserv’idea di disordine nelle menti dei napolitani.

25 Il Tenente Trani del 3. ° della Guardia Cacciatori, ed il Tenente Rossi dei Granatieri.

26 Gli Svizzeri davano tutto il servizio di Piazza, e tenevano tre Compagnie di presidio in S. Elmo.

27 Era questo battaglione composto di cinque Compagnie e mezzo, stante tre di servizio, due di presidio alt Forte dell’Ovo, una rimasta in Pizzofalcone a custodia di quel sito, e mezza entrata nel Palazzo a guardare una posizione.

28 I posteriori fatti, ed i documenti provati, hanno dimostrato il fine della venuta di quest'isolani.

29 Questa casa appartenente all'eredità del Principe Zabbatta, in usurpata dall’amministrazione degl’Incurabili.

30 Costui abita al primo piano a destra nel Palazzo della Foresteria.

0 Ogni battaglione di Guardia nazionale aveva i suoi oratori, ovvero coloro che con l’effervescenza del dire, facevali materialmente operare, come Romeo al 1. °, Torricella al 3. °, La Cecilia al 4. ° ecc.

Posteriori notizie hanno annunziato, avere avuto l’incendio origine da un Archivio esistente nel Palazzo, dal quale essendosene sottratte delle carte interessanti e bruciate appena aggredito l’edificio, per sopprimere e sperdere le vestigia di taluni documenti interessanti, furono dalle fiamme di quelle accese le altre, che non erano state toccate.

31 In quel locale eranvi acquartierate due Compagnie di Guardie di pubblica sicurezza.

32 la un foglio che porta per titolo Relazione officiale degli avvenimenti di Napoli, pubblicato in Messina, sotto la data del 29 Maggio 1848. redatto da taluni Deputati Parlamentari fuggiti dalla Capitale, e autori dei casi tristissimi di Calabria, si legge che il Sovrano «profferì alla moltitudine accors‘ad acclamarlo nella Corte medesima del Palazzo, Napoli è vostra!» Questa obbrobriosa ed oltraggiante menzogna e villania cade di fatto allorché si saprà che fino al giorno 17 Maggio niuno, meno che militari entrarono negli atri della Regia: molte migliaia di persone vennero innanti al Real Palazzo, varie volte per felicitare il Re, ma esse furono sempre accerchiate da cavalleria e fanteria, giusto per mantenerlo lontane dal Palazzo; quindi se il Re diceva loro le sopraddette parole, dovevano essere esternate dal balcone ad altissima voce per venire intese dalla moltitudine, e non solo il popolo nonostante le avrebbe ascoltate, ma bensì tutte le truppe e tutte le altre persone che in quella piazza si trovavano riunite; ma costoro non avendola affatto udite, ne risulta, che non furono esternate. Se il Re le pronunziò il giorno 18, divennero totalmente inefficaci, poiché essendo in quel giorno incominciato lo stato d'assedio, non si rubava certo! Alle tante perverse bugie, anche questa ci è toccat’ascoltare e leggere!!!

33 Vedi le istruzioni inviate da Giuseppe Mazzini, capo della Società segreta la Giovane Italia ai suoi affiliati in Ottobre 1846 – Agli Amici d’Italia.

34 In cosiffatta condizione di cose, il Re, che sopra ogni altro donare tiene quello di provvedere alla difesa del reame ed alla quiete e sicurezza de’ cittadini, videsi costretto a raggranellare insieme l’esercito, e far chiamare quella porzione di esso già partito per Lombardia.

35 Quanto dopo quest’epoca è avvenuto nel Regno di Napoli, ed il ritorno delle truppe guidate dal Generale Pepe sarà narrato in altro opuscolo. Già è notorio non aver voluto il Re Carlo Alberto per suo interesse formare la lega italiana; quind’i volontari furono mal ricevuti; non si volle stabilire intelligenza alcuna col Corpo d’armata napolitano, dicendo che nello stato delle cose, non si aveva bisogno della sua assistenza, che se le convenisse, avesse occupato il Veneziano» abbandonando così alle sole sue forze isolate, senza base d'operazione, a 600 miglia dal suo paese, un Corpo di bravi, che avrebbe potuto coprirsi di g|0ria. Questi son fatti, che nessuno potrà negare, e che l’istoria saprà largamente chiarire: dai quali appariseono le mire di Carlo Alberto di far conquiste, le quali, al dire di Mazzini, dovevano essere nella sua mente da qualche anno, poiché è stampato nel Catechismo Mazziniano, che per guadagnare qual Sovrano bisognava fargli crescere il desiderio, e dargli la speranza di fargli conseguire la Corona d’Italia, quindi risultava regolare la sua avversione di accordarsi con gli altri Principi, al magnifico fine della indipendenza nazionale: ma chi molto abbraccia, poco stringe!

36 Ministero Piemontese già caduto.

37 Ministero Romano anche caduto.

38 Leggesi il Giornale il Tempo al N.° 113 e si vedrà giustificata questa mia proposizione.

39 Con ciò risulta ad evidenza che l'esercito è il più grande ostacolo a' progressi del socialismo. Catechismo Mazziniano.

40 L‘ambizione impaziente in se stessa, spinse i cospiratori a prendere il volo verso la sommità troppo avventatamente, quantunque i precetti portavano di procedere per gradi, e non lasciar mai indovinare l‘ultimo segreto.

41 Tanto è dire Radicali, quanto Illuminati, uomini dell’Unione di Virtù, della Banda nera, Giacobini. Liberi Muratori. Carbonari, Pellegrini bianchi, Liberali, della Giovane Italia: tutti questi diversi nomi non mostrano che la stessa cosa.

Il celebre Nodier. conosciuto nella repubblica delle lettere, in una delle sue Opere confessa avere appartenuto per qualche tempo ad una delle sopra nominate società segrete; ma visto di che gente si componeva. se ne allontanò affatto: esso nel dare il ragguaglio degl’individui che la formavano, si esprime cosi «la folla di tutt'i nemici dell'ordine stabilito, qualunque esso sia, ne faceva parte; uno sciame d’ambiziosi, senza talenti, le di cui pretenzioni si accrescevano e s‘irritavano in ragione della loro nullità, si accerchiava intorno a questi; degli uomini perduti per debiti, per costumi, per riputazione, vili ributti delle case di giuoco e della deboscia, vi si vedevano sempre; e qualche miserabile pur vi si vedeva, cento volte, più vile ancora dei già detti, che attendeva l'occasione di vendere al primo potere che sarebbe venuto, la lista dei complici, o delle vittime al prezzo di un oro infame e d’una ignominiosa impunità.»

Questo è il vero quadro di tutte le società segrete! Allorché non vi è religione, morale, ed onore la società si trova senza cemento di nesso ed unione, essa non può politicamente sussistere, avendo internamente il germe del principio distruttore.

42 Questi nomi sono talmente conosciuti, che ci dispenseremo nominarli.

43 Il programma del 3 Aprile fu fatto espressamente per produrre l’anarchia nel Regno, per abbattere la Dinastia regnante, per proclamare la repubblica. e per andare più innanzi.

44 Abbiamo dunque fiducia nell’avvenire di questo Ministero. e siamo sicuri che la concordia e la pace rientreranno negli animi di noi napolitani.

45 Questa generosità venne controcambiata, che non si tosto i prigionieri misero il piede fuori delle prigioni, che il maggior numero di essi cercò mordere la mano che loro ne dischiuse le porti: la grandezza d‘animo fu chiamata codardia, la generosità timore!

46‘a) Si è detto, che sotto il governo eccezionale. ovvero ne lo stato d'assedio, il domicilio del cittadino in impu' nemente violato, la libertà individuale altental8, com missioni stranrdinnie create, e gli articoli dello statuto manomessi. Ma che s’ indichino di grazia i domicill vio lati. le persone della di cui libertà si è abusato; quali sono le conseguenze funesta sorte dalle commissioni straor dinarie? Se non hanno esistite; in qual modo gli arti coli dello Statuto sono stati manomessi? E su tali basi s' intende edificare una insurrezione. che ha per appoggio e propagalore il Giornale la Libertà italiana.

47 Cittadini disingannatevi; vi si dipingono sempre nuovi nemici, mentre che nemici vostri sono quelli stessi che con bugiarde notizie alimentano di continuo ivostri timori. Voi credete di essere sempre minacciati, ed in vece siete traditi; le sventure che vi sovrastano altre non sono che il prestar fede a sillatte novelle. Mostrate, che per voi non han forza che basti le mene di quella fazio ne, che vorrebbe condurvi al disordine ed all‘anarchia, e mostratelo con quella sicurezza la quale si deriva dal l‘ interno convincimento.

48

49 Dal giornale la Presse il 22 Maggio.

Nel famoso discorso fatto da costui in Torino nel 23 Agosto nella Società della Confederazione furon dette queste precise parole «i Romei, i Ricciardi..... nomi eroici e cari, che pronunziar non si possono, senza che in altri sia commosso di ammirazione e di tenerezza!» Da quanto si è narrato, i nomi di essi risultano di abbominio e di raccapriccio.

50 Vedi il Primato morale e civile degl’italiani di Vincenzo Gioberti, edizione di Brusselle 1843 pag. 190 e seguenti.

51 Il sommo filosofo italiano Vincenzo Gioberti ha pubblicato nelle sue diverse Opere, con parole enfatiche ed incapibili, tante contraddizioni di ogni sorta di principi sì politici che morali e religiosi, le quali affastellando le menti della gioventù, le hanno rivolte alla malignità di cui ne vediamo i frutti. Povera Italia! io piango sulle tue ceneri. se in uomini siffatti tu fondavi le speranze della Redenzione. Chi non ha principi fermi, e si lascia rapire dal vortice dei pareri e degli eventi, che muta consiglio a seconda il vento che spira e l'influsso che incalza, mal si accinge ad influire sulle sorti dei popoli!!!
























vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.