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Webm@ster - 11 Maggio 2007

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Fonte:
https://www.lostraniero.net/ - Numero 82 - Aprile 2007

Storia e illustrazione del mafia-movie

di Emiliano Morreale


IL MAFIA-MOVIE ITALIANO,
GENERE COLONIALE E AUTOREFERENZIALE

Oggi, per l'industria dello spettacolo, la mafia continua a essere la merce italiana più vendibile nel mondo. Forse ancor più dell'Italia nostalgica e contadina, dello stereotipo da cartolina, la mafia è immediatamente riconoscibile e vendibile. Michele Placido alias il commissario Cattani è una star in Russia come in Medio Oriente, tanto che qualche tempo fa aveva prestato il suo volto di idolo delle folle arabe per un appello a rilasciare Simona Pari e Simona Torretta. Sul mercato interno, nonostante il sussulto di qualche anno fa con I cento passi (2001) di Marco Tullio Giordana, il cinema non sembra più molto interessato a questo tipo di film. Il pubblico-tipo del cinema italiano (donna, laureata, del centro-Nord, maggiore di 30 anni) non è evidentemente quello giusto.

Storia e illustrazione del mafia-movie

Ma molto più influente e remunerativa del cinema è la televisione, e a 25 anni da La piovra si sfornano ancora due-tre fiction all'anno, da Ultimo a Paolo Borsellino (che non è stato trasmesso in campagna elettorale perché la sorella del giudice era candidata alla presidenza della Regione). L'idealtipo dello spettatore televisivo (che di anni ne ha quasi sessanta, è più bilanciato tra nord e sud e tra maschi e femmine, e ha un titolo di studio molto inferiore), sembra più interessato a seguire storie di mafia, meglio se conosciute e commemorate.

Ma qui ci occuperemo soprattutto della grande fioritura dei film italiani sulla mafia dagli anni sessanta agli anni ottanta, sottoinsieme fondamentale del "cinema politico" di cui costituì la parte principale dedicata all'attualità (affiancandosi al filone che per comodità possiamo chiamare "degli eroi sconfitti", da Pisacane a Matteotti, da Corbari a Sacco e Vanzetti). Il filone, insomma, cui fanno da apripista Salvatore Giuliano (1961) di Francesco Rosi e poi Un uomo da bruciare (1962) dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini, e che si afferma con gli adattamenti da Sciascia di Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967) e Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1968), praticato negli anni settanta e ottanta soprattutto da Rosi, Damiani, Giuseppe Ferrara, Squitieri, e accessoriamente da Lizzani, Vancini, Zampa, Eriprando Visconti eccetera.

Ci sembra, complessivamente, che il mafia-movie italiano sia comprensibile non solo e non tanto come "rispecchiamento", rendiconto della storia della mafia nei decenni, ma osservando la sua formazione come genere (meglio: come sotto-genere o filone), la sua ossificazione e il suo sganciamento da un referente storico reale. È uno di quei casi in cui funzionerebbe ancora la vecchia semiotica, quella saggistica e critica delle mitologie di Barthes. Assunta questa prospettiva, saltano agli occhi alcune parentele piuttosto sorprendenti. Ci sono intrecci di generi: 1/ sasso in bocca (1970) e soprattutto Faccia di spia (1974) di Giuseppe Ferrara, ad esempio, sono un incrocio tra il ma{ia-movie e il mondo-movie, tra Salvatore Giuliano e Mondo Cane; e risaltano parentele evidenti con generi considerati più "bassi" o "destrorsi" come la commedia erotica o il poliziottesco, che oggi in realtà appaiono contaminare molti "film di mafia".

Quel che ha da dire sull'Italia, il mafia-movie lo dice spesso come lapsus, e svelando nello stesso tempo qualcosa su di sé, sui propri autori, sulla loro ideologia, abbastanza significativa di un ceto medio-alto colto, progressista, informato. Il mafia-movie si caratterizza per lo più (e in questo cerca di distinguersi dal "poliziottesco") come genere "ben pensante", come qualcosa che racconta la mafia dall'esterno, cercando di evitare le contaminazioni con l'ambiente osservato e le seduzioni della violenza. Così considerato, il suo rapporto con la storia non iene meno, ma deve essere osservato in maniera più mediata e più sottile, come prodotto e sintomo, non come specchio. Insomma: come documento di una certa opinione pubblica italiana degli anni sessanta e settanta, come testimonianza di un sentire diffuso (e talvolta come involontaria autorappresentazione).

In una seconda fase, l'escalation del terrorismo renderà gli stilemi del mafia-movies (e soprattutto la sua visione della politica) adattabili all'intera Italia, almeno dai registi più importanti: è il caso di Cadaveri eccellenti (1976) di Rosi e Todo modo (1976) di Petri, tratti dai romanzi di Sciascia, o di lo non ho paura (1977), meno "metafisica" e imparentato semmai a certo coevo poliziesco "paranoico" all'americana) e L'avvertimento (1980) di Damiani. Ma in quegli anni il cinema politico, proprio mentre alza il tiro, si fa sempre più scollegato dalla realtà. È proprio il suo essere (solo e soltanto) "politico" a condannarlo a una impasse, vittima delle stesse dinamiche che bloccano la politica istituzionale. Per capire i tardi anni settanta, sono oggi molto più utili certe anti-commedie come Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli o L'ingorgo (1979) e Il gatto (1977) di Comencini. 

COSÌ RIDEVANO

Nella storia del cinema politico italiano possiamo indicare un momento di svolta che è anche un punto cieco. Un doppio cortocircuito che getta le basi del rapporto futuro tra mafia e cinema italiano (e narrativa, e televisione). Leonardo Sciascia, in conclusione del suo celebre saggio su La Sicilia nel cinema (1963) racconta di aver avuto la fortuna di vedere il film di Rosi in mezzo a dei contadini analfabeti di un paesi no della Sicilia: "Uno spettatore non siciliano, che si fosse trovato a vedere il Giuliano di Rosi in mezzo a questo pubblico, sarebbe rimasto esterrefatto a sentire scoppiare risate nel momento in cui sullo schermo la madre piange il figlio morto. A quella scena straziante, il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte: lo stupore per la verità raggiunta, per la 'forma' di questa verità, superava la commozione che il 'contenuto' indubbiamente comunicava. Le risate che sottolineavano certi momenti, certi passaggi, certe battute del film di Rosi, esprimevano dunque omaggio alla verità rappresentata: il più competente elogio, tutto sommato, che poteva toccare a un film di così prodigiosa verità. (...)" Eppure l'adesione quasi isterica dei contadini all'apparizione di se stessi sullo schermo funziona anche in modo più sottile, articolato: "Tuttavia i contadini siciliani vedevano un film diverso, con diverso giudizio, con diversa morale, da quello che Rosi aveva fatto: e non, stavolta, perché sprovveduti dell'alfabeto delle immagini in movimento, non per il 'ritardo' della loro mente. Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di scoprirla nella 'invisibilità' di Giuliano. Per Rosi, crediamo, l'invisibilità era una specie di dato immaginifico del giudizio: non Giuliano contava, ma le forze, gli interessi, le persone che lo muovevano. Per il nostro spettatore l'invisibilità diventava invece un dato mistico: Giuliano come idea della rivolta contro lo Stato, della vendetta sociale, della redenzione del povero. Un impermeabile bianco e un binocolo, quasi attributi dell'idea: il bianco, la lontananza." Certo, non si può imputare al regista quello che è sostanzialmente un fraintendimento. Eppure, col senno di poi, Sciascia sembra rimproverare al film di non essere abbastanza "brechtiano", di non aver osato la decostruzione stilistica e politica fino in fondo: "Bisognava didascalicamente, didatticamente, disgregare il mito di Giuliano. E sarebbe bastato fare di Giuliano un personaggio, un triste e feroce megalomane mosso da mani abili, da precisi interessi padronali ed elettoralistici: politici, in definitiva. Relegandolo nell'invisibilità, Rosi ha reso più dura l'accusa verso la classe dirigente che lo muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano, non faceva che confermare il mito."

Dietrologo come pochi, con la mossa di girarsi a guardare non il film ma il suo pubblico Sciascia fa come il Dupin della Lettera rubata. Siamo di fronte a un cortocircuito: il massimo dell'impegno e della demistificazione democratica, se trascura le forme di comunicazione e lo cultura di appartenenza di ciò che racconta, rischia di essere ambiguo e inefficace. Ma quello che per Sciascia è solo un sospetto, una piccola ombra in quello che egli ritiene il miglior film mai realizzato sulla Sicilia, nel mafia-movie come genere si dispiegherà completamente.

All'epoca furono colti, di Salvatore Giuliano, i presunti elementi di continuità col neorealismo, mentre oggi gli elementi più interessanti sembrano piuttosto gli elementi didattici e perfino anti-realistici della messinscena: non tanto, dunque, il trompe-l'oeil dell'agguato di Portella (probabilmente insuperato per verosimiglianza e sobria retorica, tanto da essere utilizzato come finto filmato di repertorio in tutti i telegiornali e i programmi tv), quanto la recitazione straniata di certi non professionisti, o quel separatista che declama versi davanti ai banditi attoniti. Il film intreccia diversi punti di vista, dalla voce over del regista al percorso di un giornalista, che incrinano una narrazione "oggettiva", da Narratore Onnisciente. La stessa scelta di percorsi temporali a incastro scompone il film raffreddandolo, come se Rosi intuisse il pericoloso fascino del personaggio, del tema, dei luoghi.

Ovviamente, all'epoca di Giuliano il mafia-movie con le sue formule drammaturgiche e figurative non esiste ancora: di qui anche la ricchezza del film di Rosi e, al di là delle intenzioni dell'autore, la sua ambiguità, la possibilità di letture diverse da parte del pubblico. Un genere è tale anche e soprattutto se definisce il proprio pubblico ideale, e questo all'epoca del Salvatore Giuliano non è ancora accaduto. Giuliano è un personaggio sfuggente, e nella sua invisibilità Rosi incarna una propria scelta precisa: l'opzione per la visione politica a scapito di quella sociale.

Con il film di Rosi comincia il cinema politico italiano, di cui il cinema sulla mafia rappresenta il sottoinsieme più cospicuo. Ma il suo esempio sarà seguito solo in parte, e ambiguamente, a cominciare dallo stesso regista. Non avranno gran seguito l'impostazione "didattica", le forme di mediazione e auto-riflessività, e il rifiuto di "personaggi" tradizionali; e nemmeno la scelta degli attori non professionisti e nella perfetta aderenza del dialetto. Come dire: da un lato, verrà disatteso il lato più "autoriflessivo", brechtiano; dall'altro gli elementi di più radicale eredità neorealista, e di rottura con il cinema professionale di Cinecittà.

Resterà quello che c'è in mezzo, con una decisa mediazione spettacolare: un cinema di divi, doppiato, drammaturgicamente solido e tradizionale. Nonostante una rivendicata continuità con lo stile del neorealismo, tutti i film politici sono infatti molto più legati a un rapporto : n stili riconoscibili, stereotipi, tipico dei "generi" del cinema americano. Anche l'altro "precursore", Un uomo da bruciare di Taviani e Orsini, è una strada lievemente diversa dal futu- mainstream del genere, con una figura di eroe che ricorda l'epica popolare e certi acces5i visionario Anche in questo caso, il film è interessante più per il rapporto con la storia della sinistra italiana e con il neorealismo che non per ciò che dice sulla mafia, ripercorrendo liberamente la vicenda del sindacalista Salvatore Carnevale.


C'ESTLA FAUTE À SCIASCIA?

Per la definizione del mafia-movie, bisogna aspettare un secondo blocco di titoli, che ha il sapore di una nemesi. Nel saggio citato, Sciascia elencava infatti i tre filoni del cinema sulla Sicilia riconducendoli ad altrettante fonti letterarie: la Sicilia luogo di bellezza e verità (Quasimodo), la Sicilia "mondo offeso" (Vittorini) e la Sicilia luogo della commedia erotica (Brancati). Non immaginava che qualche anno dopo un quarto e più cospicuo filone sarebbe germogliato proprio dai suoi romanzi: la Sicilia metafora della politica italiana (più che della società).

I due film decisivi sono A ciascuno il suo (1967) di Petri e Il giorno della civetta (1968) di Damiani, ma più il secondo che il primo. Il film di Petri è in effetti legato, più che a Rosi, a un certo gusto grottesco tipico dei film siciliani di Germi (Divorzio all'italiana, 1962, Sedotta e abbandonata, 1964) e Lattuada (Mafioso, 1963), e infatti incrocia il tema politico con quello erotico facendo sedurre lo sprovveduto professor Laurana, per conto della mafia, da una maestosa Irene Papas in gramaglie.

Lo schema si ripete nel film di Damiani, con Rosa Nicolosi-Claudia Cardinale in bella evidenza, molto più che nel romanzo di Sciascia (due anni dopo, Damiani proverà ad affondare più decisamente il connubio, con il mafierotico La moglie più bella, 1970, dalla vicenda di Franca Viola). La vicinanza col western è evidente fin dalla sequenza iniziale e dalla musica di Giovanni Fusco, oltre che dal cast: Franco Nero (appena reduce da Django) e Claudia Cardinale (da' professionisti di Brooks e in partenza per Cera una volta il West), più Lee J. Cobb (tra l'altro, uno dei cattivi di Dove la terra scotta) e Nehemiah Persoff (cattivo di film gangster e telefilm western).

Insomma alle radici del mafia-movie pare esserci un bizzarro triangolo: Salvatore Giuliano (e diciamo il giornalismo "democratico", stile inchieste del!' "Europeo" più che de "L'Ora"), echi della commedia grottesca e ritmi e paesaggi dello spaghetti-western, che proprio in quel momento conosce l'apogeo. Queste due componenti, western e grottesca, finiscono col soverchiare la prima, almeno in questa fase. Tra l'altro, assieme ai mafia-movie fioriscono anche le loro versioni comiche, con titoli come Il figlioccio del padrino o L'ammazzatina, che culminano in Mimì metallurgico ferito nell'onore (1973) di Lina Wertmuller, che mescolando al parossismo gli ingredienti del genere, e senza super-io democratici, si propone come mafia-movie comico, iper-politico e iper-qualunquista.

 

COSA SI VEDE (E SI SENTE) IN UN MAFIA-MOVIE

Le somiglianze di famiglia tra i mafia-movies sono, per lo spettatore di oggi, più forti delle individualità registiche, che anzi si possono decifrare al meglio proprio in rapporto con quelle "regole del gioco" sottaciute.

Diciamo che il mafia-movie è ambientato più in città che in campagna (e questo è uno dei meriti di Sciascia via Damiano, eppure a uno spostamento in campagna non rinuncia mai, di solito per un qualche summit, qualche incontro risolutivo. Deve presentare riferimenti alla cronaca o alla storia recente (Rizzotto, Franca Viola, l'omicidio Scaglione per Damiani, Liggio per Squitieri eccetera), che spesso fungono da traino sulla stampa, ma mascherati come elementi di una vicenda spettacolare. Nella variante più ortodossamente "rosiana", presto perdente, può rileggere eventi reali, ma in quel caso si tratterà di eventi lontani (Luciano, il prefetto Mori, il delitto Notarbartolo, al massimo Pisciotta). Se si volesse raccontare la storia della mafia come l'hanno capita i registi italiani, si sarebbe in un certo imbarazzo: si va da un similprocuratore Scaglione ucciso per storie di donne (Perché si uccide un magistrato, 1974, di DamianO a un simil-Buscetta che utilizza l'ingenuo giudice Falco (sicl) per vendicarsi della cosca rivale e tornare così tra i "vincenti" (il demenziale Il pentito, 1985, di Squitieri), o un poliziotto che si serve di un killer psicopatico per vendicarsi dei killer del sindacalista Rizzo 25 anni dopo (Confessione di un commissario di polizia a un procuratore della repubblica, 1971, di Damiani, peraltro uno dei migliori film del regista, che usa la mafia come puro sfondo per un noir serrato, con personaggi e dilemmi vagamente alla Lang). Sarà triste dirlo, ma i film sulla mafia falliscono proprio quando tentano di farsi maggiormente "specchio" o "contro-informazione". Non è un caso che gli storici della mafia, dopo Salvatore Giuliano, considerino complessivamente irrilevante l'intera produzione ai fini del loro lavoro.

Impressionante è il valore di semplice segno attribuito ai luoghi. Come la Monument Valley nei western, come il castello dei film horror, le inquadrature-tipo di Palermo sono la visione della città dall'alto, prima dall'elicottero poi magari da un attico di viale Lazio o viale Strasburgo, un'immancabile incursione alla Vucciria (spesso luogo del delitto). Si deve però aggiungere che il cinema arriva in un momento di forte mutazione della mafia che diventa sempre più urbana e meno contadina: uno dei meriti di Damiani è di aver insistito sempre sul nodo dell'edilizia, e la cosa ha poi attraversato tutto il genere con le immagini di morti, o vivi, calati nel cemento. Un momento difficile da interpretare, anche per intellettuali come Sciascia (che ammetteva di non raccapezzarsi più in questo cambiamento) cui il genere reagì attraverso la formazione di luoghi forti e tranquillamente utilizza bili.

Ma soprattutto, è lo schema dei personaggi a ripetersi. Si tratta in particolare del rapporto tra i "buoni" e i "cattivi". Il buono non è mai siciliano, è un idealista quasi ingenuo: si suppone implicitamente che ne sappia anche un po' meno dello spettatore (il quale ha visto se non altro un bel po' di film simili). Lo spettatore ha così la gratificazione di essere a metà strada tra il protagonista "esterno" e un mondo "interno" criminale: sa già che il poliziotto o il giudice o quel che sia sarà sconfitto, ma gli viene imposto anche un biasimo (che in realtà è per lo più una distanza, fisiognomica e linguistica) dall'operato dei criminali, operato che in fondo è il motivo per cui lui è andato al cinema: per vedere spettacolari scene di omicidi eseguite da bravi stuntmen. Ancora più imbarazzante è il rapporto tra i mafiosie le loro "vittime": gli indigeni che tentano di ribellarsi alla mafia sono per lo più codardi, pavidi, con la barba malfatta, tracagnotti, con tratti lombrosianamente accentuati; il loro ideale morale e fisico è quello del "confidente". Al contrario, il boss o il cattivo è spesso biondo, con modi eleganti, ed è un attore noto che si stacca subito dalla massa perché è (per dirla con don Mariano Arena) un uomo: Lee j. Cobb, Gian Maria Volonté, Giuliano Gemma, Gabriele Ferzetti, Joss Ackland; mentre i siciliani umiliati sono attori locali, magari della scuderia di Enzo Castagna. Molti limiti del mafia-movie nascono da un principio di fondo, ossia dal suo essere sempre politico e mai sociale. Proprio in quanto metafora della nazione, la Sicilia sul piano narrativo perde i tratti più propri e mantiene quelli più generalizzabili (proprio mentre, sul piano visivo, accade il contrario). Nessuna attenzione alle dinamiche interne, dunque, e molta agli intrecci di cronaca criminale. E anche di questo, come abbiamo detto, i germi stavano già involontariamente nel Salvatore Giuliano, con l'impostazione di Giuliano come metafora politica. Di conseguenza, da questi film non si capisce mai cosa sia la mafia, come e perché sopravviva e funzioni. Con lo schema in fondo mutuato dal western, il ritratto è quello di un luogo in preda alla paura. Nessun regista mostra mai il consenso sociale di cui gode la mafia, e i legami con la politica sono trattati in modo molto fantasioso (secondo Confessione di un commissario ... di Damiani, i voti della mafia sono semplicemente voti estorti ai cittadini inermi con la violenza e le minacce). Viene così assolutamente sovradimensionato il tema dell'omertà, un'omertà che è sostanzialmente, per i registi e gli sceneggiatori, figlia della paura. Lo schema oppressi-oppressori, mutuato forse anche dalle vecchie analisi della mafia contadina, funziona però poco applicato a un sistema di potere ormai ampio e articolato, in cui i passaggi possono essere molteplici e le forme di consenso e aiuto indirette e indolori. L'ambigua posizione in cui si trova lo spettatore di questi film è confermata poi dal ruolo che vi hanno le donne. Il punto debole dei personaggi è sempre una donna, moglie o sorella, che a un certo punto viene regolarmente minacciata o stuprata o uccisa. È un ingrediente che non manca mai, e che però non trova riscontri così significativi nella cronaca reale di quegli anni. Ed è innegabile che uno dei momenti di massimo piacere dello spettatore sia previsto nella visione di queste scene. Il mafia-movies è un melodramma per maschi, in cui l'eroina in pericolo eccita lo spettatore, coperto dall'alibi del cinema "civile". Si noti che quest'ultimo elemento, insieme a molti che lo precedono, accomuna questi film al cosiddetto poliziottesco, genere contraddistinto anch'esso da attori stranieri doppiati, pruriginose scene di violenza sessuale, ambientazioni e musiche "metropolitane" eccetera. Particolarmente irreale appare oggi la colonna sonora di questi film. Il sistema chiuso e riconoscibile di segni viene confermato dal doppiaggio sempre uguale, tutto in una koiné di "siculo di Cinecittà" derivato dalle cadenze di Angelo Musco e affidato a poche voci riconoscibili (su tutti Peppino Rinaldi e soprattutto Corrado Gaipa, palermitano, che non a caso doppia sia il principe Salina del Gattopardo che don Mariano Arena di 1/ giorno della civetta). A completare il quadro c'è poi l'accompagnamento musicale, molto presente e che si cristallizza, dopo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, su modelli morriconiani, prima da spaghetti western e poi sempre più esplicitamente dalle parti delle sonorità "Mtown" da poliziesco americano, magari nero (Shafte Tibbs), mentre sono più saltuari gli usi delle canzoni popolari siciliane.

Ma si pensi a quel bizzarro suono che attraversa tutto il cinema italiano dell'epoca, trasversalmente, e cioè il rumore della sberla, quella per intenderei che arriva al culmine nei film di Bud Spencer e Terence Hill, ma che popola molte commedie del periodo, specie come sberla di genere, versione particolarmente volgare della messinscena del contrasto tra maschile e femminile (quante sberle tra Giannini e la Melato, o tra Sordi e la Vitti!). Quando nel pestaggio di un film di Damiani o di Squitieri echeggia questa sberla, noi sappiamo che ci troviamo a Cinecittà nel momento di decadenza del cinema di genere, non certo a Palermo o a Corleone.


I REGISTI

Vedere il mafia-movie come genere significa, più che ridimensionare le figure dei registi, leggerle in relazione alle varianti possibili. Francesco Rosi non appare più, allora, dopo Salvatore Giuliano, il capofila di un cinema "civile" e "critico", ma il capofila di un genere, e con esso fa i conti. In questo modo il suo percorso successivo è quello di un autore che sempre più sceglie il "genere" a discapito della propria messa in discussione, dell'apertura ai mutamenti storici. Nonostante talvolta egli vi compaia come "personaggio in cerca della verità", i film di Rosi sanno sempre più dove vanno a parare. Lucky Luciano è, in tutto e per tutto, un anti-Giuliano, o meglio la perfetta conferma dei sospetti di Leonardo Sciascia. Luciano si vede poco, ma quando appare è Gian Maria Volonté, e per tutto il film non fa nulla, osserva e ricorda, perché sa, pur essendo il cattivo o proprio per quello. Come in molto cinema politico, la coscienza è privilegio di chi fa il male e sa però di essere un (necessario?) ingranaggio nella Storia: così Steiger ne Le mani sulla città, Brando in Queimada (non a caso i divi dei rispettivi film). Il film vive solo nelle apparizioni di Volontè, quasi specchio paradossale dell'autore: le parti di "inchiesta" sono ormai goffi "spiegoni" intorno a un tavolo. L'adesione al genere è a uno stadio ulteriore in Dimenticare Palermo (1989), uno dei film più brutti del regista, ma soprattutto un film esplicitamente manierista e pieno di citazioni e autocitazioni, dal ballo del Gattopardo al Giacomo Giardina di Cristo si è fermato a Eboli.

Il percorso di Rosi viene replicato sotto forme più grossolane, quasi parodistiche, da Giuseppe Ferrara. Il sasso in bocca (1970) godette di buona stampa all'epoca soprattutto perché riempiva un vuoti di informazione e sembrava innovativo nel suo impianto didattico: in realtà oggi sembra una specie di raccolta di eventi sanguinari spiegati con moduli rozza mente marxisti applicati un po' a caso ("Quando il capitale è concentrato in poche mani, esso genera la mafia", declama la voce off), e che soprattutto si limita per metà a raccontare la preistoria della mafia (gli alleati, Lucky Luciano, il proibizionismo) e poi andare di fretta, sfociando in un imbarazzante montaggio parallelo delle rivolte di Avola e di Chicago che propone una specie di intifada internazionale antimafiosa e anticapitalista. Più diretto e meno ambizioso è Cento giorni a Palermo (1983), instant-movie rozzo ma con il merito di intervenire in diretta in un momento in cui l'intreccio tra mafia e politica era davvero un nervo scoperto del dibattito nazionale. Mentre Giovanni Falcone (1993) è un film pienamente appartenente al genere mafia-movie senza più pretese di militanza, che ebbe un curioso destino quando Giovanni Brusca, uno degli autori dell'attentato, fu arrestato dai carabinieri del Ros mentre lo guardava in tv.

Damiano Damiani è il regista più costante e fecondo nel genere: dieci film, quattro sceneggiati e un paio di documentari tra il '68 e il 2001. Gli elementi stilistici e la prospettiva giornalistica sono in verità già definiti con Il giorno della civetta, che però ha, rispetto agli altri film, una maggiore varietà di caratteri e vivacità della trama. Poi, i suoi film tenderanno a restringersi a una dinamica più elementare tra un eroe isolato (affiancato da un personaggio debole) e un contesto ostile. Lo sguardo di Damiani è quello di onesta adesione democratica a un meccanismo spettacolare, di nettezza nei contrasti, senza sfumature psicologiche né sociologiche, ma in fondo anche senza pretese di "denuncia" profonda. Il suo percorso però, dopo alcuni efficaci risultati degli anni settanta (Perché si uccide un magistrato, Confessione di un commissario di polizia a un procuratore della repubblica) in cui la padronanza spettacolare è proporzionale all'inverosimiglianza delle tesi, è andato sempre più decadendo, da Un uomo in ginocchio (1979) a Pizza connection (1985) fino agli ultimi insostenibili film e sceneggiati degli anni ottanta e novanta, di totale cinismo e insincerità (Il sole buio, Ama il tuo nemico eccetera). Il celebre La piovra è invece, almeno nella prima e seconda serie, un caso particolare, proprio a causa del format, dell'idea di fare entrare in grande stile il racconto della mafia nelle case degli italiani. Certo, rimangono anche qui le caratteristiche ben rodate del genere; ma nel passaggio al mezzo televisivo l'accentuazione del carattere nazional-popolare offre qualche novità. Lo sceneggiato comincia quasi con un western: non è ambientato a Palermo ma in un anonimo paesone della Sicilia occidentale, fino allora immune dalla mafia, in cui è stato ucciso il commissario. "Mi aspettavo un incarico più importante", commenta il nuovo commissario Cattani. E invece le quaranta ore dello sceneggiato (protagonisti poi Vittorio Mezzogiorno e Raul Bova) si incaricheranno di allargare sempre più lo sguardo, fino al complotto planetario. La novità maggiore sta proprio in questo, nell'intreccio di globale e locale, e nel tentativo di accentuare ulteriormente la spettacolarizzazione: La piovra non è più un mafia-movie con parentesi melodrammatiche o private, ma un melodramma che si trova tra i piedi degli impicci criminali e politici sempre più forti. Il problema è che proprio tutto il versante familiare, che pure è un piedistallo necessario per la trama intera, è piattissimo e stride sempre più col resto. Comunque, è solo dalla seconda Piovra che si mettono in mezzo servizi segreti, politica nazionale, eccetera (con esplicite allusioni, abbastanza coraggiose per la tv, a P2 e dintorni), e che la struttura diventa pienamente quella del feuilleton con un eroe che agisce come il conte di Montecristo vendicandosi privatamente dei mafiosi.

Sostanzialmente poche varianti aggiungono i film di Luigi Bazzoni (E venne il giorno dei limoni nen), Eriprando Visconti (Il caso Pisciotta, Il caso Notarbartolo), Luigi Zampa (Gente di rispetto), così come La violenza: quinto potere (1972) di Florestano Vancini (poi autore anche de La piovra 2). Va ricordato infine il sottogenere dei mafia-movies italiani ma ambientati negli Usa (da Crazy joe di Lizzani a Roma contro Chicago di Alberto De Martino a Gli intoccabili di Giuliano Montaldo a joe Valachi di Terence Young). che assumono le componenti del genere Usa più esplicitamente, senza troppi problemi e con discreti risultati.

I film più volgari ideologica mente ed esteticamente sono invece quelli di Pasquale Squitieri, il quale partendo da una personale idea di cinema "popolare" ha unito una decisa e morbosa spettacolarizzazione a un'attrazione per super-eroi positivi o negativi, e a una provocatoria ma superficiale rilettura del passato e del presente: se Corleone (1976) si ispira vagamente a Liggio inventandogli uno scontato "doppio" buono, Il prefetto di ferro (1977) aggiorna il gusto di Germi per il western, la legge e l'ordine; ma il film più abominevole di Squitieri è Il pentito (1985), ossia il più "politico", quello in cui dice la sua su pentiti e giudici con protervia, dietro l'alibi della sceneggiata (che peraltro, dopo I guappi, il regista praticava malissimo: vedi il terribile sceneggiato televisivo Naso di cane).

Squitieri è in realtà con un piede nel mafia-movie e con l'altro nel suo cugino povero, il poliziottesco, e somma i difetti di entrambi senza prenderne le potenzialità.

Perché in realtà il poliziottesco di quegli anni, che ai nostri occhi spesso amplifica i difetti del cinema politico, appare oggi meno fastidioso perché tende meno a coprirsi con l'alibi della "denuncia", cercando semmai di fare dei polizieschi, dei western urbani, vicini a quelli americani. All'interno del filone ci sono poi notevoli differenze, ideologiche e stilistiche (ad esempio, oggi Fernando Di Leo è unanimemente considerato un autore solidissimo, erede di Scerbanenco e imparentato con il polarfrancese), e alcuni film di Lenzi o Sergio Martino sono professionalmente impeccabili nel loro uso brutale di stereotipi narrativi e visivi che oggi fanno la loro fortuna presso i cultori del vintage.

Quel che manca in questi film, spesso di innegabile rozzezza nonostante le varie rivalutazioni successive, è il super-io politico, il che non sempre è un male: i poliziotteschi infatti talvolta risultano meno politicamente equivochi per la loro esplicita adesione a un genere, anzi come esplicita acclimatazione di un genere straniero come il gangster movie, e nello stesso tempo permettono una libertà maggiore nella struttura dei personaggi, nella loro articolazione, nelle rigide relazioni tra buoni e cattivi, carnefici e vittime. La complessiva ideologia di fondo è spesso brutale e destrorsa (con qualche eccezione: La polizia accusa: il servizio segreto uccide di Sergio Martino strizza l'occhio addirittura all'estrema sinistra), ma non è meno posticcia di quella "democratica" dei film "politici". Con il tempo, l'aria di famiglia prende il sopravvento.


I CUGINI AMERICANI

Giusto per capire le peculiarità del mafia-movie italiano, è utile dare un'occhiata ai coevi film di mafia americani. A parte il sottovalutato precursore La fratellanza (1968) di Martin Ritt, il cinema comincia a raccontare la mafia italiana con i primi due episodi de Il padrino (1972 e 1975). Il secondo episodio, quasi sempre considerato il migliore dalla critica, è in effetti il più lucido e consapevole, ma è il primo il più genuino e forse anche il più sincero, quello più attratto dalla mafia italiana e insieme il più "americano"./I padrino era una perfetta analisi (sul filo dell'apologia) della mafia e funzionava proprio inserita nel contesto fluttuante e mosso della New Hollywood negli anni del Vietnam.

Il massimo della lucidità e insieme dell'ambiguità, il perfetto equilibrio tra sguardo interno ed esterno è stata raggiunta però nei film di Martin Scorsese (Mean streets, 1972; Quei bravi ragazzi, 1990; Casinò, 1993). La forza di Scorsese è proprio nel lasciarsi quasi sedurre e irretire, nel compiere, raccontando la mafia, prima un'autoanalisi che un'analisi. Quei bravi ragazzi è in assoluto il film che meglio racconta la mafia degli anni ottanta e novanta, con un incrocio raffinato di punti di vista (fondamentale e poco considerata è la parte magnifica in cui il regista guarda con gli occhi di una giovane e tutt'altro che innocente "sposa di mafia"). Per Scorsese la mafia non è un tema, ma una spina nella carne, è una parte di sé, del proprio tempo e del mondo di guardarvi. (Ho sempre pensato, ad esempio, che L'ultima tentazione di Cristo, uno dei film meno belli del regista, sia però comprensibile solo come se si trattasse dell'ipotetico sogno religioso di uno dei protagonisti di Mean streets; è la vita di Gesù come se la immaginano Sonny Boy o quelli come lui).

Se Cimino con Il siciliano (1987) ha fatto una specie di musical senza musica, fastoso e talmente assurdo da risultare quasi affascinante, il punto più estremo, e anche il momento di condanna più globale del sistema culturale mafioso, è stato toccato da Abel Ferrara in The funeral (Fratelli, 1996). Un film che distruggeva alle radici ogni fascino dei mafiosi dal di dentro, affermandone il destino tragico ma non nobile, da miserabili post-dostoevskiani, in una specie di condanna che non era nemmeno politica o sociale ma quasi teologica, di dimostrazione di una spirale di morte. In questo caso, la perfetta ricostruzione sociale e antropologica, la nerissima visione di regista e sceneggiatore, l'eredità del genere si fondono miracolosamente.

In generale, guardando al cinema americano ci si rende conto che forse la conoscenza della materia trattata e il risultato artistico siano in qualche modo collegati. Il fatto che la più intima ispirazione dei registi provenga dalla conoscenza di un mondo, che per gli autori non si parta dalla volontà di denunciare ma, diciamo così, di confessare, rende questi film una delle poche rappresentazioni possibili del tragico oggi, un tragico senza nobiltà, arcaico e contemporaneo, che mette in collegamento il mondo della mafia con le pulsioni più profonde (di consumo e di morte) dell'America, e dell'Italia.


RILETTURE CRITICHE. MAFIA-MOVIES POSTMODERNI?

La controprova di quanto il sistema retorico del mafia-movie fosse ormai "chiuso" e ossificato la danno alcuni film che costituiscono un autentico segno di discontinuità: Porte aperte (che pur non appartenendo al genere, utilizzava le sue convenzioni mostrando come si potesse restituire verità ai luoghi e credibilità alle drammaturgie) di Amelio e Mery per sempre (1990) di Marco Risi, che era davvero ['uovo di Colombo.

Fino a quel momento, infatti, i set e le facce siciliani (palermitani, per la precisione) erano stati utilizzati solo a patto di camuffarli, doppiarli, far fare loro capolino nei tempi e nei luoghi consentiti dal genere. L'organizzatore cinematografico e impresario di pompe funebri Enzo Castagna, accusato di associazione mafiosa, era stato una colonna del mafia-movie mettendo al servizio dei registi venuti da fuori le sue conoscenze di cose e persone (impressionante ad esempio Pizza connection di Damiani, film di puro stereotipo in cui compaiono molte delle facce che troveremo nei film di Ciprì e Maresco, trionfo di figuranti che ne fanno un perfetto Castagna-movie). Risi e Grimaldi e Rulli e Petraglia ribaltano l'equilibrio e portano l'attore Michele Placido a perdersi tra giovani sottoproletari, con effetti imprevisti. Gli effetti riguardavano soprattutto la recitazione dei ragazzi e la presa diretta che permetteva ai loro accenti di risuonare, per una volta, pienamente dispiegati, in sala. È difficile rendere l'effetto che questi film fecero sul pubblico siciliano dell'epoca, la distanza dal filone Piovra: si trattava, fatte le debite differenze, di un effetto di shock paragonabile a quello del Giuliano di Rosi trent'anni prima. Ma che la scoperta fosse involontaria lo dimostrano il percorso successivo di Risi e di Grimaldi, a cominciare dal successivo Ragazzi fuori, che si preoccupava anzitutto di neutralizzare e spettacolarizzare la scoperta appena fatta.

È che il suo successo, specie tra i giovani della piccola borghesia e del sottoproletariato, rosse più che ambigua, lo potrebbe certificare in prima persona chi scrive, ma lo confermano i due film di Giorgio Castellani alias Giuseppe Greco, figlio di Michele "il papa", boss di Ciaculli: Vite perdute (1992) e I Grimaldi (1999). Il primo è un remake di Ragazzi fuori, girato con gli stessi interpreti locali, ma esplicitamente filo-mafioso e pieno di deliranti riferimenti all'iconografia cattolica; il secondo è un indiretto ritratto del padre, interpretato da una specie di imitatore di Brando nel Padrino. I due film meriterebbero di essere studiati, non certo dai critici cinematografici, ma dai sociologi e dagli antropologi, come rari esempi in cui una cultura paramafiosa cerca di esprimersi, attraverso allusioni e rimozioni, con i mezzi di un genere estraneo e (in teoria) "avverso". Anche se gli antecedenti più diretti di questi film sono le sceneggiate di malavita interpretate da Mario Merola nel decennio precedente, tipo Napoli seranata calibro 9, con il guappo vecchio stampo che tiene l'ordine.

Ma da almeno dieci anni, morto il genere, il cinema italiano ha finalmente prodotto dei film ricchi, complessi, articolati, caratterizzati da una diversità di approcci e spesso con esiti artistici notevolissimi. Dopo la strage di Capaci e la fine della prima Repubblica, l'impraticabilità dei vecchi modelli è parsa evidente, e il cinema italiano si è impegnato in una sincera opera di invenzione di modelli estetici.

Particolarmente innovativi sono stati due film di Roberta Torre (autrice di splendidi cortometraggi): Tano da morire (1996), film di violenta e divertita dissacrazione, e il meno esteriore ma più intenso Angela (2001), il film che per la prima volta scava nella mafia attraverso dei personaggi completi, mescolando pubblico e privato, genere e inchiesta, rigore registico e ricettività nei confronti dell'ambiente.

Ma è il cinema di Ciprì e Maresco che ha offerto il supera mento, la decostruzione e la rielaborazione più personali dei materiali analizzati in precedenza. Nella loro totale estraneità al mondo del cinema romano, Ciprì e Maresco hanno costruito, utilizzando il mondo del sottoproletariato palermitano, un mondo parallelo stilisticamente riconoscibile. Il loro cinema è l'unico che si possa paragonare a quello di Scorsese e Abel Ferrara. Non c'è niente di "politico" nel cinema di Ciprì e Maresco, ma c'è una conoscenza profonda di quel che si racconta, e una implicita condanna, anzi un rifiuto, dell'orrore dell'Italia contemporanea: con occhi formati su Palermo e sulla mafia degli anni ottanta, educati all'orrore, all'Apocalisse e allo splendore, il cinema di Ciprì e Maresco hanno scelto di percorrere una via insieme barocchissima e stilizzata, di racconto di storie ambiziosissime, fantascientifiche e primigenie, mostrando quali potenzialità giacessero in un mondo che il cinema aveva solo sfiorato.

I loro film, da Lo zio di Brooklyn (1995) a Totò che visse due volte (1998), ribadiscono il troppo citato motto di Goethe per cui "in Sicilia c'è la chiave di tutto". Non sarà vero, ma nei film di Ciprì e Maresco c'è sicuramente lo smascheramento delle meschinità del cinema italiano, delle sue forme e delle sue storie. Quando poi sono scesi sul terreno del confronto diretto con la mafia, i due hanno prodotto esiti straordinari perché sono stati gli unici a usare l'arma migliore, quella del sarcasmo doloroso: si pensi a certe puntate di "Cinico Tv" su Salvo Lima, o (nell'ultima trasmissione I migliori nani della nostra vita) gli inauditi attacchi a Totò Cuffaro e Berlusconi. Il loro cinema è il contrario del mafia-movie e, nel suo totale antinaturalismo, è forse l'unico che possa aiutare a capire la mafia e che, contemporaneamente, ne è dolorosamente vaccinato, tanto da non aver nemmeno bisogno di "denunciare". Dopo un film come Enzo, domani a Palermo! (2002), documentario sui paradossi del cinema italiano sulla mafia e canto di amore e odio per il sottoproletariato palermitano, il cinema italiano che ha raccontato la Sicilia appare sotto una luce nuova, imbarazzante e quasi esilarante. Pasquale Scimeca, regista non sempre convincente nella sua programmatica naiveté, ha realizzato Placido Rizzotto (2000), il suo miglior film, proprio con una rilettura storico-critica seria, che mette in discussione i modi di raccontare la mafia schivando la spettacolarità "all'italiana" in direzione del racconto popolare e dell'inchiesta (in fondo "correggendo" il Salvatore Giuliano), e rimettendosi a confronto e mettendosi in discussione con Salvatore Giuliano e con Un uomo da bruciare (meno convincente, invece, il successivo Gli indesiderabili, che nel ripercorrere il sotto-sottogenere alla Lucky Luciano-Intoccabili esibisce comunque un gusto pienamente manieristico, fin dall'uso delle scenografie avanzate di Gangs or New York).

Ancora più esplicito l'intento di rilettura storica e formale in Segreti di stato (2003) di Paolo Benvenuti che anche lui, in qualche modo, "torna a Giuliano" operandone una esplicita decostruzione, e operando proprio in una direzione radicalmente didattica che implicitamente mostra tutte le ambiguità spettacolari del cinema politica più "alto" e appunto "didattico" (da Giuseppe Ferrara a certo Rosi).

Continua in sottotono il filone di denuncia, con risultati che vanno dal discreto (Testimone a rischio, Il giudice ragazzino), al mediocre (La scorta), al pessimo (Gli angeli di Borsellino), e intanto operazioni sobrie e forse sincere riempiono le tessere mancanti degli episodi tragici, da Peppino Impastato (I cento passi, 2001) a padre Puglisi (Alla luce del sole, 2003), anche se il film di Giordana ha funzionato in verità più come film sul '68 e il '77 che come film sulla mafia. Film che ormai sanno evitare gli eccessi del genere, anche se il loro primo scopo (quello informativo e di denuncia) appare ormai di retroguardia, e l'impressione è che il pubblico sappia già cosa ci troverà. Va detto però che negli anni è cresciuto l'interesse per le figure positive isolane, il che da un lato è lodevole, e dall'altro getta una luce inquietante sul cinema precedente: perché si facevano film su Mori e non su Rizzotto, su Dalla Chiesa e non su Impastato? La risposta forse è appunto: perché i primi non erano siciliani, e quindi le regole narrative del genere (secondo lo schema che abbiamo visto sopra) potevano servirsene; dei secondi, la retorica del genere non sapeva che farsene, perché avrebbe dovuto assumere un minimo di sguardo interno.

A fronte del notevole grado di consapevolezza raggiunto da molti registi, la produzione oggi si polarizza tra una riflessione estremamente raffinata (e rivolta a un pubblico limitato) e la consueta commercializzazione, oggi televisiva, e meno giustificata di un tempo, quando c'era un vuoto di informazione da colmare. La fotogenia dell'isola, della sua campagna e di Palermo, non basta più, e il folklore è sempre più immediatamente stanabile dallo spettatore medio che è iper-informato, almeno per quanto riguarda la storia recente, mentre sempre meno strumenti ha per decifrare la mafia dei nostri giorni, silenziosa, integrata, manageriale e "borghese". Anche gli scrittori hanno fornito imprevedibili strumenti e riletture sorprendenti, da Malacarne (1998) di Calaciura agli ultimi romanzi di Roberto Alajmo. Oggi il problema è più che mai la borghesia mafiosa, la più difficile da raccontare, con i suoi passaggi sottili, mediati, efficienti e poco spettacolari. Il cinema italiano ha raggiunto una consapevolezza di sé e della propria storia che non permette più ingenuità ai registi: oggi fare un film sulla mafia significa più che mai raccontare qualcosa di simile a noi stessi, non mettere in scena un altrove, ma raccontarsi in quanto italiani mutati o mutanti.










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