Eleaml


MEMORIE
PER LA
STORIA DE' NOSTRI TEMPI
DAL
CONGRESSO DI PARIGI

NEL 1856
AI PRIMI GIORNI DEL 1863.
VOLUME PRIMO
TORINO
STAMPERIA DELL'ORIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
Via Carlo Alberto, casa Pomba, n° 33.

1863.
(B)

Memorie per la storia de' nostri tempi dal congresso di Parigi – Margotti - 1863 - 01_01A - HTML
Memorie per la storia de' nostri tempi dal congresso di Parigi – Margotti - 1863 - 01_01B - HTML
Memorie per la storia de' nostri tempi dal congresso di Parigi – Margotti - 1863 - 01_01C - HTML
Memorie per la storia de' nostri tempi dal congresso di Parigi – Margotti - 1863 - 01_01 - ODT
Memorie per la storia de' nostri tempi dal congresso di Parigi – Margotti - 1863 - 01_01 - PDF


L'AGRICOLTURA NEGLI STATI PONTIFICII

E IMPUDENZA DELLA GAZZETTA PIEMONTESE

(Dall'Armonia, n.198,27 agosto 1856).

Non ha gaari il signor Vernouillet dopo d'essere dimorato lungo tempo nello Stato Romano, dettò una lunga memoria sulla condizione dell'agricoltura in quei paesi, che venne pubblicata nella Revue contempo mine. Il signor Enrico Couvain fé' un estratto dello scritto del signor Vernouillet, e pubblicò due articoli nel Constitutionnel di Parigi, l'uno nel n° del 12, e l'altro in quello del 22 agosto. Siccome e il Couvain ed il Vernouillet erano stati amendue nei luoghi che descrivevano, vedendo cogli occhi proprii e toccando colle proprie mani, così resero giustizia al governo pontificio, e dichiararono, che sotto l'amministrazione e l'influenza papale l'agricoltura prosperava a meraviglia.

Il Constitutionnel con ciò guastò le uova nel paniere al Siècle ed a' suoi; onde n'ebbe un buon capriccio. «Nel momento, scrisse il Siècle, in cui l'Europa civile si occupa con ragione delle riforme politiche e sociali, che debbono essere introdotte nello stato Romano e nel regno delle Due Sicilie, pretendere che tatto proceda per lo meglio a Roma come nel migliore dei mondi possibili, torna a nuocere agli interessi della civiltà ed all'azione politica della Francia». Il Siècle non nega le cifre o i dati positivi del signor Vernouillet. E come negarli? Solo sì lagna, che questi dati riescano a difesa del governo pontificio nel punto in cui corre l'andazzo di maledirlo.

Il lamento è degno del Siècle, e non ci stupisce. Ciò che ci sorprende si è, che abbia trovato in Piemonte un giornale così grullo ed impudente, così tristo ad un tempo o scimunito, che lo facesse suo. Questo giornale è la Gazzetta Piemontese, il foglio ufficiale del nostro regno, ohe si lagna del Constitutionnel, perché, celebrando l'agricoltura degli Stati Pontificii, impedisce le riforme politiche e sociali.

- 138 -

La Gazzetta Piemontese dice in altri termini al Constitutionnel: - Eh caro fratello, che cosa ci venite cantando in bene degli stati del Papa! Se mentre noi diciamo nero, voi dite bianco, siamo spacciati. Non si tratta mica di conoscere e ricercare la verità. Trattasi di fare opposizione per sistema, affine di spingere innanzi le nostre idee.... Calunniate adunque il Papato ed il progresso; o tacete almeno, se non ci siete amico.

Vergogna che una gazzetta ufficiale scenda per ispirito di parte ad arti così basse!.... Poiché però gli articoli del Constitutionnel hanno dato sui nervi al Siècle e alla Gazzetta Piemontese, ne faremo il nostro prò, e a gloria del governo pontificio diremo noi pure qualche cosa dell'agricoltura nello Stato Romano. Incominciamo adunque dal raccontare quello che facessero i Papi su questo punto.

«la storia prova, dice il Constitutionnel che i Papi in tutti i tempi furono zelanti protettori dell'agricoltura. Ma il pregiudizio contrario venne così sovente sostenuto, che molli finirono per prestarvi fede. Eppure, a parte i fatti, basterebbe riflettere un po' per conchiudere, che il governo pontificale, in ragione del suo carattere pacifico, e delle sue tendenze patriarcali, dovette costantemente favorire il movimento agricolo nel dominio di San Pietro. L'agricoltura ' forma le popolazioni calme, pacifiche, dedicate alle virtù di famiglia, disposte a sentimenti religiosi, quali si possano desiderare da un'amministrazione essenzialmente animata d'ano spirito religioso. Per noi Francesi il dubbio non è egli evidente, che il contado Venessino è la parte della Provenza più. florida per la varietà delle colture, per la guida delle acque, pel partito maraviglioso, che si seppe tirare da un suolo naturalmente ingrato? Ora nessuno ignora il contado Venessino durante parecchi secoli appartenne alla Santa Sede. La ricchezza agricola vi data appunto dalla dominazione papale».

Dopo questa solenne dichiarazione il Constitutionnel ricava dal Vernouillet un cenno su ciò che fecero i Papi per l'agricoltura, dal secolo Vili a Pio IX. A noi il diario francese non dice nulla di nuovo. Carlo Luigi Monchini avea già pubblicato l'elogio del pontificato romano su questo particolare, e noi ci varremo di questo suo lavoro perché ci pare in alcune parti più preciso di quello del ConstitutionneL.

A mezzo il secolo Vili Papa Zaccaria I eresse tre villaggi che chiamò Domoculle, e Adriano I ne fondò altri quattro. Questi stabilimenti, che tanto giovarono all'agricoltura, crebbero fino a cinquantatré. Nicolai Nicola ha pubblicato in Roma (1803) un'opera intitolata: Memorie leggi, ed osservazioni sulle campagne e sull'annona di Roma. Egli ci mostra Gregorio XII dare i primi incoraggiamenti alla coltivazione de' grani (Motuproprio,15 novembre 1407) e Sisto IV ordinare ai proprietari che un terzo almeno delle loro terre mettessero a coltura; è se essi rifiutassero, potesse ciascuno seminarle dopo aver ricorso a' tribunali. Questa legge fu eseguita e sotto Sisto IV è Giulio 11. Clemente VII volle rimetterla in vigore, ma trovò molti opponenti, tra i quali Giambattista Casali, di cui ci resta tuttavia un discorso contro la legge. Ma il Sismondi la difende, allegando che chi regge una società ha diritto di sottoporre le proprietà a certe regole pel maggior bene comune.

Inoltre Clemente VII statuì che libero fosse lo sbocco ai grani, quando il prezzo non toccasse un certo limite.

- 139 -

«Questo opportunissimo provvedimento economico, osserva il Monchini, che tiene il mezzo tra la sfrenata libertà del commercio, e i dannosi vincoli che l'inceppano, è dunque invenzione di un Papa nel secolo XVI, non degli Inglesi, come alcuni economisti vorrebbero darci a credere».

Il signor Vernouillet e il Constitutionnel fanno la medesima osservazione. Quando i Freetraders disputavano nella Gran Bretagna,

«Assordando il ciel di pianti e di sternuti», erano quattro secoli che Roma avea sciolto il problema economico!

Tra i benemeriti dell'agricoltura sono S. Pio V, che nel 1566 rimossegli ostacoli all'importazione dei grani in Roma, e impedì il monopolio degli incettatori; «Sisto V, che nel 1588 confortò l'annona col capitale di oltre ducentomila scudi, affinché si facessero imprestiti agli agricoltori, che poi pagavano in granaglie ultimato il raccolto. Clemente Vili nei 1600 ordinò la revisione delle leggi baronali sulla coltura dei campi, e migliorò la condizione de' vassalli. Alessandro VII svincolò l'agricoltura, e le die quella libertà che vivifica. Benedetto XIII e XIV, Pio VI e Pio VII, spesero grandissime cure, e pubblicarono efficacissime e provvide leggi in vantaggio dell'agricoltura romana.

Pio VII, per dire di quest'ultimo, statuì per legge la libertà del commercio dei grani; assegnò alle figlie degli agricoltori tutte quelle doti per le quali gli insti tutori non avevano determinato persona alcuna: impose una pena di quattro paoli a rubbio pei terreni seminativi lasciati incolti, ed il premio di otto paoli a rubbio pe' coltivati. Tutto ciò col Motuproprio del 14 di novembre 1801, mentre la notificazione del 27 di marzo 1802 raddoppiava le pene ed i premii suddetti.

Inoltre Pio VII con Motuproprio del 15 di settembre 1802 ordinava che in ogni città o castello della: provincia si piantassero viti, olivi, ortaglie, alberi fruttiferi in una fascia della larghezza di un miglio, a partire da' luoghi già coltivati. Che quindi a mano a mano che la coltura, le abitazioni e la popolazione migliorassero l'aria, si procedesse innanzi, finché, incontrandosi que' circoli, non rimanesse più spazio alcuno abbandonato ed incolto. Annullava il Pontefice tutti i contratti che si opponessero a tale ordinamento, provvedeva allo scolo delle acque, al prosciugamento degli stagni, alla piantagione degli alberi, principalmente lungo la spiaggia del mare, incoraggiava l'erezione di piccoli villaggi, che fossero forniti d'un parroco, di un medico, e abitati da villani dediti all'agricoltura. Ma sopraggiunse la rivoluzione, questa grande nemica d'ogni bene, d'ogni reale miglioramento, e le riforme di Pio VII andarono ih fumo.

Non vogliam dire con ciò, che l'agricoltura romana scadesse. Abbiamo dal DeTournop, Etudes statistiques sur Rome, Parigi 4831, che nel 1813 l'industria romana era già eguale, se non maggiore, della francese. Eppure si ha il coraggio di maledire continuamente il governo pontificio, e accagionarlo della desolazione delle campagne romane! Lo stesso Sismondi fu stomacato di tanta malafede, e ne' suoi Studii sull'economia politica fé'jiotare, che la popolazione e l'agricoltura fioriscono nelle Marche, nell'Umbria, nelle Romagne, rette dal governo medesimo e dalle medesimo leggi.

Continuiamo la storia delle provvidenze pontificie. Nel 1829 Pio VIII

-

140 -

promette fino al 1840 un premio a chi pianterà gelsi od olivi. Sono 308,556 olivi e 205,703 gelsi che si piantano, e il governo paga 46,283 scudi. Però alcuni anni dopo la ricchezza pubblica aumentava di 90,000 scudi in olio, e di 27,000 scudi in seta per ogni anno. Tale fu, dice di Vernouillet, il risultato di questa intelligente misura.

«Il Pontificato di Pio IX, scrive il Constitutionnel, così cara alla religione ed all'umanità per tanti titoli, andrà famoso tra quelli che più contribuirono al ben essere delle popolazioni. Nato il Pontefice in Sinigaglia, si adoperò in tutte le guise per introdurre nella campagna di Roma i metodi della sua contrada natale. Nel 1850 mise a disposizione del suo ministre di agricoltura e commercio un'annua somma di 10,000 ìscudi romani per premiare, durante quindici anni, chi piantasse nuovi alberi nel territorio dello Stato. Infine, conchinde il Constitutionnel, egli ebbe la gloria di sciogliere la questione delle servitù di pascolo, che avea preoccupato l'amministrazione francese, e che non erano riusciti ancora a definire gli altri Papi».

Qui noi potremmo soggiungere come il governo di Pio IX promuovesse il commercio de' cereali, aiutasse la produzione della canapa colle società stabilitesi per lavorarla, aumentasse le sete col guiderdonare i piantatori di gelsi e i filatoi, favorisse la piantagione degli alberi col premio dato a 574,889 piante, e coi semenzai e vivai arricchiti e coll'estendere il premio a nuovi alberi da frutto e da costruzione, II governo pontificio rese più facile il lavorìo delle campagne colle macchine introdotte senza dazio, e premiate, come quella del sig. Dall'Agata per brillare il riso; migliorò i metodi di coltivazione coi nuovi istituti agrarii, colle esposizioni dei prodotti agricoli, e colle medaglie concesse; ampliò il terreno per la coltivazione col prosciugamento a macchine a vapore delle valli ferraresi già avanzato, colla bonificazione delle paludi pontine seguitata innanzi, dirigendo e frenando le acque dell'Ufente e dell'Amaseno, e coll'ordinare il diseccamento degli stagni d'Ostia,

Queste cose non piace alla Gazzetta Piemontese che sieno dette. Ma sono, e stanno siccome a gloria del governo papale, così ad eterna vergogna de' suoi calunniatori.

LA FRANCIA E LE SOCIETÀ SECRETE

(Dall'Armonia, n.199,28 agosto 1856).

La Marianna lavora, e Napoleone si sente male.

(La Maga di Genova, n.101,21 d'agosto).

«Il governo (francese) adopera le arti più immorali e più infami per prolungare di qualche tempo una VITA CHE LA RIVOLUZIONE DEVE TRONCARE».

(Italia e Popolo, n 237,26 agosto).

Di tratto in tratto noi veniamo accennando quei fatti, che chiaramente dimostrano come la Francia sia ornai dalle Alpi all'Oceano tutta seminata di società segrete 9 nelle quali si congiura contro la pace dello Stato e la vita dell'Imperatore. Parte di que' fatti vengono in luce o per via di private corrispondenze, o per processi de' tribunali; ma le nostre notizie stanno molto al di sotto della realtà, e non servono che a somministrarci il mezzo per argomentare da eia che si sa, quello che dee avvenire tra le tenebre.

-

141 -

Nella Gazette des tribunaux di Parigi troviamo un sunto della tornala del 18 di agosto dei tribunale correzionale di Lione. Questo tribunale era chiamato a giudicare quarantasei individui appartenenti a società segrete stabilite in Parigi, Lione, Valenza, Vienna, Macon, Givors. Ecco come racconta i fatti il signor Bergeret, commissario di polizia nella prefettura di Lione.

L'anno passato nel mese di giugno una vasta congiura si stendeva su tutta la Francia. Essa era diretta da una giunta di venti membri, ordinata sottosopra come la società delle Saisons, o degli Enfants de la Terre, e comprendeva i Voraces, i Charbonniers, gli Invisibles. Questa giunta non venne disciolta, e calcolava ancora nel settembre di riuscire ad un movimento.

Più tardi si formò un comitato Blanqui, composto di sette membri, che si riunivano presso Benaud, bettoliere a Lione. Ne faceano parte parecchi individui, fra i quali un italiano di nome Larenzi. Un cotale di Parigi scrisse a quei di Lione col bollo dell'antico comitato Blanqui. Per conoscere l'autore di questa lettera, e avere alcuni schiarimenti, la società lionese spedì quattro de' suoi delegati, uno a Parigi, l'altro a Vienna nel Delfinato, on terzo a St. Etienne, e un quarto a Ginevra. La polizia di Lione né avvertì quella di Parigi, il delegato lionese, che era un certo Giraud, venne codiato, e così il governo fu sulle traccio della cospiratone.

Ritornato Giraud in Lione, dopo d'aver visto tra gli altri Mack, direttore di tutta la demagogia del quadrato St. Martin, ricevette una lettera in forma commerciale dallo stesso Mack, nella quale gli era detto, che tutto stava apparecchiato, e quando il telegrafo fosse interrotto, questo voleva dire che l'insurrezione comandava in Parigi. Il piano non riuscì.

Qualche tempo dopo il comitato si riforme, e fu di bel nuovo deciso di spedire, a Parigi un delegato con un anello di carne. La polizia di Lione die avviso della sua partenza a Parigi. Quando i| delegato lionese vi giunse, si tenne un'assemblea generale, e si stabilì di cominciare l'insurrezione il giorno 31 di maggio.

Da questo momento la polizia parigina trattò sola la faccenda, e lasciando i cospiratori andare innanzi nell'opera loro, venne in chiaro delle più minute circostanze della vita e delle gesta dei cospiratori medesimi. Il 7 di giugno non restandole altro da sapere, mise bravamente le mani sui congiurati, e lì chiuse in prigione.

Questo racconto ci somministra argomento di molte osservazioni, che noi accenneremo appena, riservando al lettore di svolgerle nella sua mente.

1° Questi benedetti Italiani vanno u tramare dappertutto, e contro tutti. Tramano contro il Re di Napoli, contro il Papa, contro il Granduca di Toscana, e perfino contro Napoleone III. Sette congiurati si radunano in Lione, ed uno di questi è un italiano!

2° Il segnale adottato dai congiurali di Parigi e di Lione nel 1855 è pure adottalo dai nostri congiurati nel 1856 contro la Lunigiana. Questo segnale era l'interruzione del telegrafo, e si ricorderanno i lettori, come un mese fa, scoppiata l'insurrezione sai nostri confini contro il Ducato di Modena, per prima cosa s'interrompesse la linea telegrafica.

- 142 -

3° Una parte dei cospiratori, che minacciano il trono e la vita di Napoleone III, stanno io Ginevra, ed. i delegati si spediscono da Lione in quella città come a Parigi. La sede principale del protestantesimo è la sede principale della rivoluzione.

4° I nostri giornali italianissimi si dolgono, che le cospirazioni contro l'Imperatore dei Francesi non riescano a bene. l'Italia e Popolo di Genova, riferito il racconto della congiura di Lione presso a poco come noi, conchiude così: «Questo fatto, nel mentre che nulla prova contro la cospirazione, Là quale fa il suo dovere, prova molto contro il governo che adopera le arti più. immorali e più infami per prolungare di qualche tempo una vita, che la rivoluzione DEVE TRONCARE». (Italia e Popolo, N° 237,26 agosto). La Maga di Genova pubblica una caricatura, che allude alle operazioni della Marianna contro l'imperatore dei Francesi, e poi scrive nel testo: «La Marianna lavora e Napoleone si sente male». (Maga, N.401,21 agosto).

5°. L'Italia e Popolo, che dichiara senza ambagi come la cospirazione debba troncale la vita dell'imperatore dei Francesi, sta raccogliendo denari e firme per comperare 40|m. fucili da offerirsi alla prima città che insorga con tra il comune nemico. Questa soscrizione va di conserva con quella dei cento cannoni. L'una e l'altra, scrive il Diritto, movendo in sostanza dalle medesime intenzioni, mirano allo stesso intento. (Diritto, N° 201,23 agosto). alla sottoscrizione dei cento cannoni ha aderito il nostro governo colla Gazzetta Piemontese. I primi e i principali soscrittori sono i pubblici impiegati.

6° L'Imperatore dei Francesi può ora giudicare della verità di ciò che i plenipotenziarii sardi dissero nella loro nota verbale al Congresso di Parigi, Essi si lagnavano, che la rivoluzione fosse nel resto d'Italia, e gloriavansi d'avere piantato in Piemonte un argine insormontabile contro lo spirito di rivolta. Quest'argine insormontabile permette tuttavia di radunare fucili contro i legittimi governi, e di stampare, che la rivoluzione dee troncare la vita di Napoleone III.

7° Molti si lagnano dell'Imperatore dei Francesi, che non dia di spalla alla rigenerazione italiana. Molti sperano di averlo più tardi sostenitore, quando l'Italia insorgerà contro il comune nemico. Non hanno torto tanto quelli che si lamentano, quanto quelli che sperano? Come si può pretendere, che un Principe aiuti coloro i quali così patentemente fanno voti perché ne sia troncata la vita?

8° Non sarebbe fuori di luogo un po' di confronto tra il Re di Napoli cosi tiranno, e Luigi Napoleone, che vuoi proteggere i Napoletani contro la tirannia del loro sovrano. Napoleone protettore è sempre perseguitato dai nemici interni che ne minacciano la vita, e Ferdinando tiranno è lasciato in pace dai suoi sudditi, che ben di rado si uniscono in società segrete per cospirare a' suoi danni.

9° Ci pare impossibile che l'Imperatore dei Francesi possa menar buono quell'argomento che i rivoluzionarii adoperano contro il governo pontificio, e fu stampato ancora ier l'altro dal Siècle in Parigi, e ripetuto in Torino dalla Gazzetta Piemontese. Dicono costoro: Se il governo del Papa è buono e vantaggioso a' suoi sudditi, perché i Francesi stanno in Roma? Si potrebbe ritorcere la domanda, e dire:

- 143 -

Se il governo di Napoleone III è buono ed utile e glorioso per la Francia, perché tutte queste cospirazioni e società segrete? Il Siècle e la Gazzetta Piemontese giudicano, ne siamo certi, il governo francese come il governo pontificio. ,

10.

Tutti i cospiratori francesi non sono in Francia. Abbiamo visto che essi hanno pur sede in Ginevra, dove da Lione si mandano delegati. E chi non sa come una parte dimorino pure in Londra, dove testé celebrarono l'anniversario del 10 di agosto 1792, ed uscirono in questa tremenda bestemmia: Le bon Dieu lui même est de la Marianne; nous l'avons reçu! I due centri principali del protestantesimo sono i due centri della rivoluzione,

11.

Si dice che Luigi Napoleone, tra i tanti suoi alleati preferisca l'amicizia della Russia e dell'Austria. Ha egli torto? Potrebbe fidarsi dell'Inghilterra, dove Felice Piat proclama: Les inondations précédent les révolutions et es imitent? Potrebbe fidarsi del Piemonte, dove l'Italia e Popolo stampa: La rivoluzione deve troncare la vita dell'Imperatore dei Francesi?

Sono undici punti gravissimi che ci vennero accennati, né ci pare necessario di dover procedere più oltre. Le società segrete lavorano in Francia e fuori di Francia. Deh! I governi, che hanno in mano la forza, non aspettino d'essere illuminati dallo scoppio della mina. Essi oggi ancora sono padroni, e tengono l'impero. Domani potrebbero essere o nell'esilio, o nella servitù, o all'altro mondo.

LA QUESTIONE NAPOLETANA

(Dall'Armonia, n.229,3 ottobre 1856).

La questione di Napoli può venire considerata da' tre lati: 1° dalla parte di re Ferdinando e del suo popolo; 2° dalla parte delle grandi Potenze, che sottoscrissero il trattato di Parigi; 3° dalla parte dell'italianissimo Piemonte.

I.

Gli uomini di tutte le opinioni non possono a meno di tributare le meritate lodi al contegno fermo e dignitoso del Re di Napoli. Egli si trovò a' fianchi due colossi, Francia e Inghilterra, che nulla risparmiarono per intimorirlo, né note, né minaccie, né apparecchi di guerra. Eppure non indietreggiò d'un sol punto. Forte del suo diritto, rispose note alle note, proteste alle proteste, pronto a rispondere guerra alla guerra. Egli sarebbe caduto sotto la forza maggiore, ma caduto gloriosamente; caduto dopo una resistenza alle due nazioni, che si vantavano d'aver vinto la Russia, e poi avrebbero potuto darsi vanto d'aver vinto il Re di Napoli!

E il popolo napoletano mostrò di nutrire in petto sentimenti veramente nazionali. Esso sacrificò ogni questione alla grande questione della dignità del suo Re e della patria. I contenti e gli scontenti si unirono in un solo pensiero, quello di lasciare al governo tutta la sua forza, tutta la sua libertà d'azione.

- 144 -

Una sommossa in Questi giorni sarebbe stata la più grande scelleraggine; e nemmeno ombra di sommossa nel Regno delle Due Sicilie. Noi domandiamo:il ministero piemontese, in un caso simile, avrebbe serbato un contegno eguale?

Una volta sì, e la storia cel racconta. Piacque al Piemonte abbracciarla causa del Pretendente al trono di Spagna, e l'abbracciò, né le minaccie e il mal umore di Luigi Filippo e di lord Palmerston lo trattennero; gli piacque mostrarsi ligio al Sondèrbund, e lo fé, non ostante le maggiori opposizioni di grandi Potenze; volle soddisfazione dal Bey di Tunisi, amico e protetto dell'Inghilterra, e l'ottenne. Non mai, prima del 1848, il nostro paese cedette a influenza straniera. Guardò il diritto e là giustizia, e, incamminatosi per questa via, andò sempre innanzi senza baldanza, ma senza paura.

E dopo il 1848? Da quel punto, coll'indipendenza in bocca, cademmo in potere de' forestieri. L'Inghilterra e la Francia ci dettarono l'armistizio a Milano;l'Austria ci dettò un trattato di pace a Novara; altre Potenze più tardi ci dettarono un'appendice alla nostra legge sulla stampa; più tardi ancora c'imposero un'alleanza ed una guerra rovinosa ed inutile. Dovemmo strisciare a Parigi ed a Londra per acquistare protettori; e, protetti, soffrimmo i sequestri dell'Austria, e cedemmo due volte alla Toscana. Si confronti questo nostro procedere con quello del Re di Napoli, e si dica quale è più dignitoso, più italiano.

Del governo nostro forse sarebbe migliore il popolo. Ci duole di doverlo rivocare in dubbio. Quanto a noi, quanto ai nostri, possiam dire con sicurtà, che se domani Francia ed Inghilterra minacciassero il ministero, come hanno minacciato il Re di Napoli, noi dimenticheremmo tutto per dare ai ministri il nostro appoggio, per non infievolire di nulla la loro forza. Ma ciò che faremmo noi, farebbero le sètte e le fazioni? Queste non hanno patria. Riconoscono soltanto uno Stato, che s'è sostituito alla patria; e l'idea dello Stato non è capace di produrre atti d'annegazione e di sacrifizio, i miracoli del patriottismo. Le fazioni sono essenzialmente egoistiche, e non badano che al loro trionfo, comunque si ottenga. L'abbiam visto in tanti altri luoghi; faccia Iddio che noi reggiamo, una volta tra noi!

II.

Le grandi Potenze che sottoscrissero il trattato di Parigi, si divisero in due campi nella questione napoletana. Francia ed Inghilterra contro Napoli;. Austria e Russia, quella meno, questa più apertamente in suo favore. Fu una nuova guerra sul terreno della diplomazia ed ornai si può dire che Inghilterra e Francia caddero ingloriose

Nella lotta orientale costoro avevano sposato le parli della Turchia generosamente. Insorgendo contro il Re di Napoli, poteano forse darsi vanto d'una eguale generosità? A chi si fa credere che i gabinetti di Londra e di. Parigi non nutrissero in cuore speranze e desiderii di particolari vantaggi?.

Posto anche che così fosse, a Napoli distruggevano amendue le glorie dell'Oriente. Qui avevano combattuto in difesa del debole, là contro il debole abusavano della potenza.

- 144 -

Qui sostenevano che un Re, grande o piccolo, è padrone in casa sua. Là volevano che il piccolo ad ogni costo obbedisse ai grandi. Qui reprimevano un preteso conquistatore; là pigliavano l'aspetto di conquistatori essi medesimi. La loro impresa era in logica una contraddizione; in politica un despotismo ed una tirannia.

L'Austria destramente s'intromise per distogliere l'Inghilterra e la Francia da si reo partito. Ma la Russia operò più francamente e risolutamente. La Nota di Gorschakoff resterà famosa negli annali della diplomazia per l'onestà e la dignità del linguaggio. Il gabinetto di Pietroburgo ha saputo togliere la più grande vendetta delle umiliazioni sofferte, e le Tuilerie e St. James pagarono a carissimo prezzo Malakoff e Sebastopoli.

Quella nazione, che si spacciò barbara e tiranna, che si volle combattere in nome della civiltà, venne ad insegnare alle Potenze ci vili sai me gli elementi del diritto e della giustizia; e mostrò loro, che la forza non dava nessuna ragione contro del debole. Rammentò ai suoi antichi nemici le guerre e le proteste passate, e li umiliò cogliendoli in contraddizione. Fu grata ad, un Re, che non avea voluto armarsi contro di lei, ma serbare la più stretta neutralità, e la gratitudine io diplomazia è un gran miracolo. Lasciò intendere, che se avea una spada per difendere se stessa, l'avrebbe pure sguainata per difendere il diritto altrui soperchiato dall'altrui prepotere. Ornai può darsi vanto d'avere sciolto la quistione partenopea, d'avere sventate le mire ambiziose di due gabinetti audaci, e questa è e sarà sempre per la Russia non piccola gloria.

La Russia si raccolse nel Congresso di Parigi, e tacque sul Re di Napoli. Si raccolse, quando il giornalismo aizzò le ire contro re Ferdinando, e tacque. Si raccolse, quando le Note e i memorandum balestrarono il Re napoletano. Si raccolse, quando si annunzio una prossima spedizione, quando si fecero i preparativi. Ma mentre le navi stavano per mettere alla vela, parlò, e disse in linguaggio diplomatico parole che avevano questo senso:

Vincitori di Sebastopoli, dove andate? Andate a perseguitare un Re, che non vi da noia, a salvare un popolo contentissimo del suo governo? Salvatori dell'indipendenza del Sultano, muovete dunque per assoggettare a voi, ai vostri capricci il Re di Napoli? Protettori della civiltà, le vostre armate vanno ad inaugurare il diritto del più forte?».

Il rimprovero era pungente, ma giusto. Noi siamo certi, che produrrà un ottimo effetto. Di spedizione ornai non si parla più: la Russia e il Re di Napoli hanno vinto.

III.

Intanto, come si governò il ministero piemontese? Per lo innanzi noi credevamo il conte di Cavour destro in politica, ma ci siamo disingannati. Il poverino non vede più lungi d'una spanna, se no se gli sarebbe offerta la più bella occasione per conseguire il più onorevole trionfo. Egli avrebbe dovuto opporsi risolutamente ad ogni intervento straniero in Italia, e dire, ad esempio: noi disapproviamo il Re di Napoli e la sua politica, ma Francia e Inghilterra non hanno diritto d'immischiarsene, e dal punto che metteranno piede in Italia armata mano, avranno nemico il Piemonte. La questione dell'indipendenza sovrasta per noi ad ogni altra questione interna.

- 146 -

Se tolleriamo l'Austria nell'Alta Italia, non sopporteremo per verun conto nella bassa l'Inghilterra e la Francia.

Chi non avrebbe ammirato un simile linguaggio? Quanto guadagno non ci avrebbe fatto il Piemonte? Invece no: il giornalismo libertino applaude alle due Potenze che vogliono conquistare un'altra parte della Penisola, e il nostro ministero offre le sue navi perché aiutino, o almeno approvino colla loro assistenza l'atto di conquista e la presa di possesso. E voi siete Italiani? Voi, che avete cercato di vendere allo straniero la miglior porzione, della vostra patria? Voi volete l'indipendenza italica? Voi, che volevate imporre al Re di Napoli il giogo di Francia e d'Inghilterra? Deh! non ci venite a parlare mai più né d'Italia né d'indipendenza! Uomini senza patria, senza cuore, senza principii, non avete che un solo affetto, la vostra ambizione, il vostro interesse, il vostro egoismo.

Intanto i delitti sociali un giorno o l'altro si scontano su questa terra. I nostri ministeri hanno stabilito un principio, cioè che Francia e Inghilterra, ossia le grandi Potenze, hanno diritto d'imporre alle piccole una mutazione di governo. Chi sa che presto o tardi essi i primi, essi i soli, non debbano sostenere le fatali conseguenze d'una simile dottrina!

Le cose mutano improvvisamente da un giorno all'altro, e ben lo veggiamo. Oggi la rivoluzione comanda in Ispagna, domani vi trovi la dittatura. Il 1° di dicembre la Francia è repubblicana, e il giorno dopo obbedisce a Napoleone solo. Un cambiamento di ministero in Londra porterebbe una politica pienamente contraria nell'Inghilterra alla presente.

Se dopo un rovescio di questo genere due flotte partissero per dire ai nostri: mutate governo, che cosa risponderebbero? Chiederebbero d'essere uditi in contraddittorio? Ma essi stessi non accusarono Napoli assente dal Congresso di Parigi? Invocherebbero l'indipendenza dei piccoli Stati? Ma non la disconobbero nella questione napoletana? Potrebbero dire che il popolo è contento di loro, come il napoletano del suo Re? Oh si mettano una mano sul cuore, e sentano se gli dice che in coscienza possono dare una simile risposta 1 Eppure la risposta non varrebbe, perché non l'hanno accettata pel Re di Napoli.

Ministri, voi vi siete chiusi nel bozzolo, come il baco filugello. I vostri fatti già vi condannarono, e più tardi le vostre dottrine vi perderanno. Ma con voi possono perdere anche il paese. Se sentite un po' d'affetto per questo Piemonte, voi dovete smettere il potere. Sì, non debbono governarci persone che abbiano riconosciuto ne' forestieri il diritto d'intervenire in casa nostra. Finché i Rattazzi ed i Cavour sono ministri, noi non potremo opporci all'intervento straniero. Essi, invocandolo, aiutandolo, contro il Re di Napoli, l'hanno invocato contro di noi. Se il paese tollera il ministero presente, ammette le sue dottrine. Queste tardi o tosto ci porteranno gli stranieri nello Stato. Conviene protestare a tempo, e far vedere l'immensa distanza che separa il Piemonte dai suoi ministri. Quanto a noi queste pagine resteranno per dimostrare chi ama più la patria e la sua indipendenza, se l'Armonia o i suoi nemici.

- 147 -

CONTRADDIZIONI DIPLOMATICHE

SULLE COSE DI NAPOLI

(Dall'Armonia, n.234,9 ottobre 1856).

Nella tornata del Congresso di Parigi del 14 di aprile lord Clarendon, tutto afflitto dei danni della guerra, usciva in una proposta umanissima, che cioè d'ora in poi le Potenze, prima di scendere alle armi, ricorressero alla mediazione di un'altra Potenza amica per riconciliarsi insieme, sans toutefois porter atteinte à l'indépendance de gouvernements.

I plenipotenziarii di Francia, Austria, Prussia, approvavano. Il conte di Cavour desiderava sapere, prima di dire il suo avviso, se questo voto di lord Clarendon «si estenderebbe agli interventi militari diretti contro i governi di fatto; e citava ad esempio l'intervento dell'Austria nel regno di Napoli nel 1821».

Il conte di Buol insegnava al nostro conte di Cavour quello che avrebbe dovuto sapere prima di metter piede nelle sale del Congresso; cioè che l'intervento dell'Austria in Napoli nel 1821 fu il risultato di accordi presi dalle cinque Potenze congregate a Laybach. E il conte di Cavour si dichiarò pleinement satisfat forse della lezione di storia contemporanea.

Ma giunto in Torino recossi alla Camera dei deputati, e nella tornata del 6 di maggio manifestò l'opinione del governo del Re sulla teoria degli interventi. Eccola: «Noi ammettiamo l'indipendenza dei diversi governi, noi non riconosciamo ad un governo il diritto d'intervenire in un estero Stato anche quando dall'altro governo è a ciò fare invitato».

Dunque, secondo il conte Cavour: 1° Non è permesso ad uno Stato intervenire negli affiori interni dell'altro Stato; 2° non è permesso, quando pure l'intervento fosse stato stabilito da cinque grandi Potenze; 3° non è permesso nemmeno nel caso che il Sovrano medesimo l'invocasse.

Riteniamo queste massime, e passiamo all'Inghilterra. Lord Clarendon nel Congresso di Parigi ricordò gli sforzi fatti dal gabinetto della Gran Bretagna nel 1823 per impedire l'intervento armato, che in quel tempo avvenne in Ispagna, e così lord Clarendon pizzicò la buona memoria del nostro Carlo Alberto, che tanto si segnalava per quell'intervento!

Ora è bene ricordare le ragioni, per le quali l'Inghilterra combatteva l'intervento in Ispagna. Il ministro Canning, in un suo dispaccio a sir Ch. Stuart, inviato britannico a Parigi, spiega sotto quali condizioni soltanto l'Inghilterra reputi giusto un intervento.

Canning ricorda, che il plenipotenziario inglese nel Congresso di Verona non cooperò alle risoluzioni che vi si abbracciarono, e ciò non solo perché non era licenziato ad obbligare la fede del suo governo in alcun caso ipotetico, ma parche il suo governo avea fin dal mese di aprile del 1820 raccomandato alle Potenze della lega di astenersi da ogni intervento negli affari interni della Spagna, e perché, essendosi tenuto da quest'epoca in poi affatto estraneo ad

- 148 -

ogni accordo che potesse essere conchiuso tra la Francia e la Spagna, il suo governo non poteva giudicare su quale fondamento il gabinetto delle Tuilerie pensasse ad una rottura possibile delle relazioni diplomatiche colla Corte di Madrid; o su quale fondamento si temesse un evento in apparenza così improbabile, come un principio d'ostilità da parte della Spagna contro la Francia».

Così lord Canning nel dispaccio del 31 di marzo 1823, nel quale continuava: 11 plenipotenziario di S. M. non vede nessuna prova dell'esistenza di alcun disegno per parte del governo spagnuolo di invadere il territorio francese; nessun tentativo di crollare la fedeltà delle sue truppe, od alcun progetto di minare le sue istituzioni politiche; e finché le discussioni ed i tumulti della Spagna restano ristretti nella cerchia del suo territorio, la Francia non potrebbe essere ammessa dal governo inglese a perorare in favore dell'intervento straniero. Se sullo scorcio del secolo passato e sul cominciare del presente fu vista tutta l'Europa confederata contro la Francia; non fu certo per le mutazioni interne che la Francia riputava necessarie per la sua propria riforma politica e civile, ma perché tentò di propagare prima i suoi principii, e poi la sua dominazione per mezzo delle armi».

Dunque, secondo l'Inghilterra, non è lecito alla Francia d'intervenire in Ispagna «e non nei seguenti casi: 1° Quando la Spagna invada il territorio francese; 2° Quando la Spagna tenti di rendere infedeli le truppe francesi; 3° Quando la Spagna cerchi di scalzare le istituzioni francesi. Finché i tumulti della Spagna, si noti bene la clausola restano nella cerchia del suo territorio, la Francia non può intervenire; come l'Europa non avrebbe potuto intervenire in Francia nel 93 sotto il governo della ghigliottina, perché questo governo non uscisse al di fuori.

Dopo simili dottrine stabilite dal Piemonte e dall'Inghilterra, non sappiamo se ecciti più riso od indignazione la loro presente pretesa d'intervenire in Napoli. Gorkiakoff avrebbe potuto pubblicare il dispaccio di lord Canning, e mandarlo agli agenti della Russia per confondere l'insolenza britannica. Il Re di Napoli ha tentato forse d'invadere il territorio francese o l'inglese? Ha cercato di corrompere la fedeltà delle loro truppe? Ha minato le loro istituzioni politiche? Qualunque sia la condizione del governo partenopeo, finché non oltrepassa 4 termini del suo territorio, secondo l'Inghilterra medesima, non è sindacabile dalle Potenze straniere.

Ma dicono, e l'ha detto nella Camera nostra il conte di Cavour: lo stato presente del regno di Napoli costituisce un pericolo per la pace d'Europa. Come? Voi Francia, voi Inghilterra, avete conchiuso una pace così meschina, che il regno di Napoli basta per disturbarla? E non avete in mano nessun rimedio da applicare all'occorrenza? E volete stabilire riguardo ai governi la polizia preventiva, voi Potenze libere, voi informate ai grandi principii dell'ottantanove?

Il Re di Napoli conserva la pace ne' suoi Stati, ed in conseguenza non può temersi che la disturbi altrove. In ogni caso, le semplici asserzioni non bastano. Lord Canning chiedeva alla Francia quale fondamento avevano i suoi timori riguardo alla Spagna nel 1823; e la domanda medesima può farsi oggidì alla Francia ed all'Inghilterra riguardo a Napoli. Su che che cosa fondate i vostri timori?

- 149 -

La Spagna era ancora limitrofa alla Francia; ma Napoli è lontanissimo dalla Francia e dall'Inghilterra. Che cosa dunque temete da re Ferdinando? Ditecelo in grazia. Perché questa benedetta diplomali a non parla mai? Perché sfugge quella pubblicità che ha cercato dopo il Congresso di Parigi?

Però il conte di Cavour ha condannato l'intervento austriaco in Napoli nel 1821. Veggiamo le ragioni di quell'intervento, paragonandolo col presento, e ammireremo la logica cavouriana!

Il principe Mettermeli nella sua circolare del 25 di luglio 1820 diceva: Gli interessi di S. M. l'Imperatore sono particolarmente compromessi in questi sciagurati eventi di Napoli per ragione delle sue relazioni politiche e personali, della sua prossima parentela con parecchie case principesche d'Italia, e per la posizione geografica de' suoi proprii paesi».

Inoltre l'Austria nel 1821 aveva il diritto di esigere che la Costituzione di Cadice non fosse promulgala nel regno di Napoli. Imperocché tra questo governo e l'austriaco s'era conchiuso il trattato del 12 di giugno 1815, a cui stava annesso un articolo segreto del tenore seguente:

«Le obbligazioni che contraggono le L. L. MM. in virtù di questo trattato, affine di assicurare la pace interna d'Italia, imponendo loro il dovere di preservare i proprii stati e sudditi rispettivi da nuove nazioni e dalla disgrazia d'imprudenti innovazioni, che ne porterebbero il ritorno, resta inteso tra le alte parli contraenti, che S. M. il Re delle Due Sicilie, ripigliando il governo del suo regno, non v'introdurrà cambiamenti, che non possano conciliarsi sia colle antiche instituzioni monarchiche, sia coi principii adottati da S. M. I. e R. nel regime interno delle sue provincie italiane».

Or bene il conte di Cavour condannò un intervento nel regno di Napoli: 1° richiesto dal legittimo Sovrano; 2° approvato dalla Prussia, dalla Francia, dalla Russia in un Congresso; 3' giustificato dai pericoli che correva l'Austria, e dal diritto che gli accordava il trattato del 12 di giugno 1815. E poi come può approvare oggidì in Napoli l'intervento di Francia e d'Inghilterra? Non è questa la pili enorme, e, diciam poro, la più impudente contraddizione? Dove sodo i pericoli che corrono gli Inglesi e i Francesi? Dove il Sovrano è il popolo che ne domandi l'intervento? Dove i trattati o le parentele che loro accordino un simile diritto?

E vogliamo anche sorpassare su tutto ciò; vogliamo ammettere parità di condizioni, perfetta analogia tra il 1821 e il 1856 riguardo al regno di Napoli. Con che faccia il conte di Cavour può applaudire e prendere parte a quell'intervento che i suoi giornali condannano, che egli stesso ha condannato nel Congresso di Parigi?

Storici della diplomazia! Preparate documenti che giustifichino i racconti dei giorni nostri; imperocché in verità vi diciamo che verrà tempo in cui non si vorranno credere simili contraddizioni, e tali tratti d'audacia commessi io nome della civiltà. Quando voi scriverete: nel 1856 la Francia non temeva la Spagna rivoluzionaria alle suo porte, e s'intimoriva del Re di Napoli conservatore; i vostri lettori noi vorranno credere.

Quando scriverete: L'Inghilterra, che condannava l'intervento francese nella penisola iberica, finché la Spagna non avesse invaso la Francia, nel 1856 provocava un intervento francese in Napoli, dove il suo governo tranquillo e forte

- 150 -

reggeva i suoi sudditi contentissimi; i vostri lettori noi vorranno credere

Quando scriverete: il conte di Cavour, ministro del liberale Piemonte, applaudiva e concorreva ad un intervento forestiero in Italia, dopo di avere gridato contro l'occupazione straniera in Roma; i vostri lettori noi vorranno credere.

Quando scriverete: Nell'Europa civile si discusse per tanto tempo un intervento non voluto né dal Re, né dal popolo napoletano, che anzi e popolo e Re si preparavano concordemente a respingere, e si pretese di spacciare questo intervento come un frutto del progresso e della libertà; i vostri lettori noi vorranno credere, e vi diranno che voi avrete calunniato il secolo dei lumi.

Storici futuri, preparate adunque i documenti. Forse la Provvidenza di Dio prepara le vendette!

ANALISI

DEI

DOCUMENTI RELATIVI ALLA QUESTIONE NAPOLETANA

NEL 1856.

(Dall'Armonia n.251,29 ottobre 1856).

Scrive il Coppi negli Annali d'Italia all'anno 1832, § 34: «Anche nella tranquilla Toscana incominciossi in quest'anno a manifestare spirito rivoltoso. Alcuni giovani (fra' quali un Mandolfi e Fermo, figlio di un ricco banchiere ebreo) vagheggiarono la idea di adoprarsi per unire l'Italia in un governo costituzionale» del quale ne fosse capo il Walewski, figlio di Napoleone. Incominciarono per tale effetto dallo spargere diffusamente nella vigilia del protettore S. Giovanni Battista una proclamazione, in cui, rammentatala libertà, la indipendenza e la prosperità dell'antica repubblica fiorentina, della quale S. Giovanni Battista era patrono, declamarono contro l'attuale despotismo, avvilimento e dipendenza dall'Austria. Invitarono quindi tutti gli Italiani ad imitare gli Alemanni loro oppressori che agivano per unirsi in un sol corpo. Si ricordassero perciò dell'antica gloria, e ripigliassero l'avito coraggio per ricuperare la libertà. I Toscani poi riconoscessero nel Santo Precursore un amico del popolo ed un martire della tirannia. Il governo, disprezzando tali leggerezze, ammoni alcuni di quegli ardenti ed inesperti liberali, scacciò dalla Toscana varii forestieri compiici e fautori di quelle idee, e la cosa svanì».

Questo fatto ricorse alla memoria di molti, quando il conte Walewski, ora ministro degli affari esteri del governo imperiale di Francia, prese nel Congresso di Parigi l'iniziativa sulle cose d'Italia, e pensarono che, nonostante il 2 dicembre, il Walewski del 1856 fosse quello del 1832, patrono dei rivoltosi un po' più che S. Giovanni Battista. E se un tal sospetto s'affacciò ai privati, è da supporre) che n'abbia anche partecipato qualche governo italiano, e massime quel di Napoli, che fa tanto conto della storia, ed applica ai rivoltosi d'un giorno quel detto semel abas, semper abas.

- 151 -

Perciò, quando il conte di Walewski col suo dispaccio del 21 di maggio notificò alla Corte napoletana la conferenza di Parigi che la risguardava, il commendatore Carafa, ministro sopra gli affari esteri del Re delle Due Sicilie rispose fuori dei denti al ministro francese, dimenticando forse che egli non più vagava nella Toscana come nel 1832, ma dalla forza degli eventi era stato collocato presso ad un grande Imperatore, e nei consigli d'un potentissimo Impero. Questa dimenticanza obbligò il Carafa a correggere la forma della sua risposta, riservandone tuttavia la sostanza; e la sostanza trasse dietro a se la rottura delle relazioni diplomatiche tra la Francia ed il regno delle Due Sicilie.

Sono quattro i documenti della questione napoletana, due di Walewski e due di Carafa. Nel 1° del 21 di maggio Walewski chiede al Re di Napoli una savia amnistia, ed una riforma dell'amministrazione della giustizia; nel 2° del 30 di giugno il ministro Carafa risponde: «Nessun governo ha il diritto d'immischiarsi nell'amministrazione interna d'un altro Stato, e sopratutto in quella della giustizia». Nel 3° del 26 d'agosto lo stesso ministro Carafa avendo saputo per relazioni venutegli da Parigi e da Vienna ohe il governo imperiale s'era offeso della risposta, dichiara che non ha avuto nessuna intenzione di offenderlo, ma che il Re di Napoli è il «giudice più indipendente e più illuminato delle condizioni di governo che s'addicono al suo reame». Nel 1° del 10 di ottobre, il conte Walewski richiama da Napoli l'ambasciata francese, ed annunzia che una flotta sarà in Tolone per attendere gli eventi, mentre la flotta britannica starà a Malta col medesimo scopo.

Dopo la lettura di questi quattro documenti, resta ancora da sapere quali sieno i delitti del governo napolitano. Il conte Walewski ha formolato due domande: amnistia, e riforma della giustizia. Ma a quali fatti le appoggia? A nessuno. Egli afferma, e non prova. Noi siamo persuasi che se il governo di Napoli domani scrivesse al francese suggerendogli di dare un'amnistia, e di riformare l'amministrazione della giustizia, il conte Walewski gli riderebbe al naso mandandogli in risposta qualche cosa di peggio della nota del 30 di giugno. In questo caso però Napoli avrebbe torto, perché è debole, in confronto della Francia, che è potentissima. Eppure si potrebbe dimostrare coi fatti che v'è più materia in Francia che a Napoli per una riforma giudiziaria ed una savia amnistia.

Che se il ministro francese non da nessuna ragione dei consigli che offre al Re di Napoli, il ministro napoletano dice perché li rigetti. Li rigetta 1° perché sono rivoluzionarii, e diretti a suscitare torbidi; 2° perché la quiete presente del regno depone in favore del presente organamento dello Stato; 3° perché l'esperienza insegna che le riforme accordate in Napoli furono sempre il principio di nuove sommosse in tutta l'Italia; 4° perché il Re di Napoli bastò da sé a reprimere ogni sedizione.

Fu più facile al conte Walewsky di richiamare l'ambasciata francese, che di ribattere queste ragioni. Noi siamo ben lontani dal dire che il governo imperiale abbia avuto torlo nell'interrompere le sue relazioni con quel di Napoli. Esso anzi operò logicamente; imperocché stimando necessaria un'amnistia e una riforma per evitare una rivoluzione, e non trovandosi d'accordo colla Corte partenopea doveva necessariamente abbandonare a se stesso un governo che diceva di voler far da sé.

- 152 -

Ora sta a vedere chi l'indovina. La Francia ha detto: se il Re di Napoli non riforma o perdona, una rivoluzione è imminente. Napoli ha risposto: la rivoluzione verrà se riformo e perdono. Il tempo sicuramente deciderà chi siasi apposto. Imperocché o Ferdinando persiste nel suo sistema, e vedremo se la rivoluzione arriva secondo il vaticinio di Walewski; o accetta i consigli del Congresso di Parigi, e vedremo se avvengono torbidi secondo la profezia di Carafa.

Per vero dire il Walewski intende di fare tutto il possibile, perché i fatti gli dieno ragione. Egli annunzia che di tratto in tratto un bastimento della flotta di Tolone andrà nelle acque di Napoli a visitare i porti del regno delle Due Sicilie, a corrispondere coi consoli francesi, a vedere se i nazionali abbisognano di protezione. Sarà questo un continuo eccitamento alla rivolta; imperocché il bastimento francese, che va in visita, ricorderà sempre ai sudditi del Re di Napoli, che, a giudizio della Francia, quel governo é crudele, perché non vuoi dar l'amnistia; è ingiusto, perché non vuoi riformare l'amministrazione della giustizia. Che sarebbe se, nonostante, il popolo restasse tranquillo? Se il bastimento francese dovesse andare per una dozzina di volte inutilmente in visita? Se i consoli di Francia rispondessero bene spesso al comandante della flotta: nulla di nuovo?

Da questa parte il governo imperiale corre rischio di fare una bruttissima figura. Ed un rischio eguale corre, qualora il governo di Napoli ne accettasse i consigli, concedesse le riforme, e sopravvenissero tumulti. Nella quale ultima ipotesi, la Francia dovrebbe intervenire in favore di re Ferdinando, come già l'Austria nel 1821, giacché egli per colpa di lei si troverebbe a mal partito. E se qualche tumulto avvenisse in Napoli, quel conte Walewski, che fa buono a dare consigli, sarebbe ancora in grado di portare soccorsi, o non ne avrebbe pur troppo bisogno per sé?

È difficile prevedere il futuro in questo caos politico. Abbiamo una questione, che solo il tempo può decidere. La diplomazia europea sembra risoluta di lasciar sempre il mondo nell'incertezza. Capace pur troppo a suscitar le liti, non riesce dipoi a definirle. E in ciò non sappiamo, che cosa debbasi deplorare di più se l'inettezza dei diplomatici, o il danno che ne risulta ai popoli. Questo danno è gravissimo per tutti i versi, e non v'è condizione ptu trista di quella, che non ha nome né di pace, né di guerra.

Noi non possiamo e non dobbiamo sperare che nella Provvidenza di Dio, la quale a suo tempo apre il tesoro dei miracoli. E d'un miracolo abbisognano oggidì i Re per reggersi, i popoli per essere felici, e la società per sussistere, Non tentiamo il Signore, ma non dimentichiamo la sua misericordia.

- 153 -

IL MONITEUR DI PARIGI E LA QUESTIONE NAPOLETANA

NEL 1856.

(Dall'Armonia, n.145,21 ottobre 1856)

Il Moniteur ha parlato sulla questione napoletana, e il telegrafo ci. recò un sunto del suo articolo (1). Esaminiamolo parola per parola, e Conchiusa la pace di Parigi, allo scopo di assicurarne la durata, i plenipotenziarii ivi raccolti hanno esaminato gli elementi di disordine esistenti tuttora particolarmente in Italia, in Grecia, nel Belgio».

I signori plenipotenziarii veggono oggidì cogli occhi loro, che questo esame, ben lungi dall'assicurate la durata della pace, l'ha messa gravissimi rischi. E ciò per moltissime ragioni.1° Perché l'ararne fu fatto senza che i governi esaminati potessero dire le loro difese, e senza che i plenipotenziarii esaminatori conoscessero pienamente gli affari interni degli Stati che giudicavano. Perché questo esame non fu imparziale, e gli elementi di disordine non si ricercarono già dove erano, sibbene dove volevansi ritrovare.

Gli elementi di disordine doveansi ricercare in Inghilterra, dove liberamente si predica il regicidio e l'assassinio politico. Doveansi ricercare in Piemonte, dove si spoglia, si perseguita, si bestemmia impunemente, e si dice che la rivoluzione dee levare dal mondo Napoleone III. Doveansi ricercare nella stessa Francia, dove le società segrete trionfano, la Marianna si allarga, «non s'impera che colla più rigida ed attenta polizia.

Il disordine fu ricercato dove tornava a conto. Fu ricercato in Napoli, che fa gola a Francia e a Inghilterra; in Grecia dove Inglesi e Francesi vogliono comandare a bacchetta; nel Belgio, verso cui si sentono sempre certe velleità imperiali. «Tali osservazioni, continua il Moniteur, furono accolte dappertutto: esse fanno fede del rispetto verso l'indipendenza degli Stati sovrani».

Nel Belgio vennero accolte coi famoso JAMAIS del ministro degli esteri; in Grecia continuò l'occupazione anglo-francese, sicché la Russia ebbe a muoverne altissime e giustissime lagnanze, tu Napoli, lo dice il Moniteur stesso, vennero rigettati con alterezza i consigli. È questo l'accoglimento, che le osservazioni s'ebbero dappertutto?

E che fede fanno del rispetto verso l'indipendenza degli Stati sovrani? Forse perché son consigli e non comandi? Meschinissimo ripiego! Noi vi diciamo che sono comandi e non consigli. L'ingenuo consigliere rimette al giudizio di chi consiglia arrendersi o no alle sue osservazioni. Ma Francia e Inghilterra vogliono imporre la loro volontà al Re di Napoli, si offendono perché ne respinge gli avvisi.

Se realmente intendessero di rispettarne l'indipendenza, dovrebbero oggidì sostare. Esse hanno consigliato, mettiamo, con buone intenzioni. Il Re di Napoli la vede altrimenti. Egli ha più agio a conoscere le cose interne dello Stato suo, e il suo giudizio dee prevalere. Se s'ingannerà peggio per lui!

Ma soggiunge il Moniteur: «La sola Corte di Napoli ha rigettato con alterezza i consigli che la Francia e l'Inghilterra le hanno amichevolmente presentato».

(1) Moniteur del 20 ottobre 1850.

- 154 -

La Corte di Napoli ha risposto con dignità; e la dignità non è alterezza. Francia ed Inghilterra erano avvezze alle umili condiscendenze del Piemonte, e restarono meravigliate trovando animo risolato e fermo in un principe italiano.

La Corte di Napoli osservò la sua parte di questo canone di diritto internazionale: II faut ciré juste à l'égard de toutes les nations, puissantes ou faibles, amies ou non; mais il faut se refuser, à l'égard des premières, à tout acte d'une lâche complaisance, comme, à l'égard des dernières, à tout acte de rigueur et d'indifférence». (Rayneval, Institution de droit de la nature et des gens, pag.523). Francia ed Inghilterra possono dire egualmente d'avere osservato la parte che loro toccava come Potenze forti? L'alterezza non è piuttosto da rimproverarsi a chi vuole imporre i proprii consigli? A chi non si cura della Polonia, perché in potere della Russia, e pensa a Napoli, perché vi regna Ferdinando?

» Le misure di rigore adottate dal governo napoletano agitano l'Italia e compromettono l'ordine d'Europa»,

Quali sono in grazia, signor Moniteur, queste misure e questi rigori? Perché accusate così in generale? Scendete ai particolari, venite ai confronti, e troverete maggiori misure di rigore in Francia ed in Inghilterra che non in Napoli. Perché dunque perfidiate nelle vostre pretese? E l'Italia agitata dov'è? Noi veggiamo uno Stato solo agitato in Italia, ed è il Piemonte, dove si raccolgono fucili contro i Re, dove si grida morte agli imperatori. Ma forse che tale agitazione dipende dal Re di Napoli? Quando questi adottasse i consigli dell'Inghilterra e della Francia, il Piemonte tornerebbe in pace? Il Piemonte sarà, dopo le cose di Napoli, agitato perché v'è il Papa in Roma, il Granduca in Toscana, in Austria, in Italia. Qualunque concessione di re Ferdinando non iscemerebbe d'un apice l'agitazione. E quando tutto avvenisse nella penisola secondo le idee del Piemonte ufficiale, esso continuerebbe ad essere agitato, se non altro, perché impera in Francia Napoleone.

Quanto all'ordine d'Europa non lo compromette il Re di Napoli, ohe sa si bene conservar l'ordine in casa propria; ma lo compromettono la licenza della. stampa, la briglia gettata sul collo alla rivoluzione, le spogliazioni della Chiesa, le persecuzioni contro i buoni, i protocolli del Congresso di Parigi, e gli articoli del Moniteur. E fra poco la Francia stessa ci saprà dire chi abbia compromesso l'ordine d'Europa!

«Non fu dato ascolto ai saggi consigli; l'ostinato rifiuto non permetteva di continuare il mantenimento delle relazioni diplomatiche».

Saggi consigli! Francia e Inghilterra avranno dunque il monopolio della saggezza, il privilegio dell'infallibilità 1 Queste due Potenze tennero in conto di saggi ì consigli dati al Re di Napoli. Il Re invece li giudicò imprudenti. Come adunque avrebbe dovuto accettarli? Egli li respinse, e fé' bene. l«e due' grandi Potenze interruppero le relazioni diplomatiche, e noi non diciamo che facessero male. Ma restino le cose così: il tempo deciderà se i consigli fossero imprudenti o saggi.

«Questa sospensione però non costituisce affatto un intervento negli affari interni del paese; e meno ancora un atto d'ostilità».

- 155 -

Siamo facilmente d'accordo col Moniteur. Se Francia e Inghilterra escono da Napoli interrompendo le relazioni, non intervengono perché uscire non è entrare; e in pari guisa se rinnegano per lo innanzi i loro consigli a re Ferdinando, ben lungi dal mostrarsegli ostili, incominciano da questo punto ad essergli amiche.

Ci piace notare come il Moniteur insista sul punto dell'intervento, e tolga a sostenere che Francia e Inghilterra non vogliono intervenire in Napoli.1 sofismi del Moniteur non fanno da questo lato che velare una ritrattazione i.

Le squadre riunite non sono inviale nelle acque di Napoli». Poveri giornalisti, poveri corrispondenti, che creavano tante notizie coll'aiuto dì queste due flotte! Essi restano arenati dalla dichiarazione del Moniteur.

Però hanno un rinforzo da ciò che segue: «Questa misura di protezione eventuale non deve essere considerata come un incoraggiamento per coloro che cercassero di rovesciare il trono delle Due Sicilie». Se le squadre non sono inviale oggi, potrebbero essere inviate domani per misura di protezione. In questo caso si protesta che non si vuole rovesciare il trono del Re di Napoli. Colle quali parole Napoleone difende se stesso da un'accusa d'interesse di famiglia, che gli venne apposta più volte. È bene che gli imperatori sì purghino da taccia simili; ma sarebbe molto meglio che non si esponessero nella necessità di doversene purgare.

Eccoci alla conclusione: «Se il gabinetto napoletano comprende finalmente il proprio vero interesse, le Potenze saranno liete di rinnovare le interrotte relazioni», Qui abbiamo i giusti termini della questione napoletana: o il Re di Napoli persiste ne' suoi rifiuti, e Francia e Inghilterra non avranno più nessuna relazione con lui; se aderisce, saranno liete di rinnovare le interrotte relazioni. Queste ultime parole, se noi ben veggiamo, ci paiono dirette a preparare una soluzione a questa lite ornai troppo lunga, fisse da prima mettono il re Ferdinando nella pienezza de' suoi poteri.

Il Moniteur ha dichiarato di rispettare l'indipendenza degli Stati sovrani;ha soggiunto, che la sospensione delle relazioni diplomatiche non costituisce affatto un intervento negli affari interni del paese} ha riconosciuto l'inviolabilità del trono delle Due Sicilie. Breve, ha detto che il Re di Napoli (può far ciò che vuole, ed ha finito per «cantar la palinodia.

Pubblichiamo per intero la nota del Moniteur del 20 ottobre 1856 relativa alla quistione napoletana. Eccola: Conchiusa la pace, fu prima sollecitudine del Congresso di Parigi di assicurarne la durata. A quest'uopo, i plenipotenziarii hanno esaminato gli elementi di perturbazione che esistevano ancora in Europa, ed hanno particolarmente rivolta la loro attenzione sullo stato dell'Italia, della Grecia, del Belgio. Le osservazioni fatte in questa occasione furono accolte dappertutto in une spirito di cordiale accordo, perché erano ispirate da sincera sollecitudine pel riposo dell'Europa, e perché nello stesso tempo facevano testimonianza del rispetto dovuto alla indipendenza di tutti gli Stati sovrani.

«Cosi nel Belgio, il governo, d'accordo col l'opinione sugli eccessi di certi organi della stampa, si mostrò disposto ad arrestarli con tutti i mezzi che aveva in suo potere.

- 156 -

In Grecia, il piano di riordinamento finanziario, sottomesso al giudizio delle Corti protettrici, attesta la premura del governo ellenico a tener conto degli avvisi del Congresso. In Italia, la Santa Sede e gli altri Stati ammettono l'opportunità della clemenza e quella degli interni miglioramenti. La Corte di Napoli sola respinse con alterigia (hauteur) i consigli della Francia e dell'Inghilterra, benché presentati nella forma pili amichevole. Le misure di rigore e di compressione convertite da lungo tempo in mezzi di amministrazione dal governo delle Due Sicilie agitano l'Italia e metton a pericolo l'ordine in Europa. Convinte dei pericoli di una simile condizione di cose, la Francia e l'Inghilterra avevano sperato di scongiurarli con sa vii avverti menti dati in tempo opportuno. Questi avvertimenti furono avuti in non cale. Il governo delle Due Sicilie, chiudendo gli occhi alla evidenza, volle perseverare in una via fatale. La cattiva accoglienza fatta a legittime osservazioni, un dubbio ingiurioso gettato sulla purezza delle intenzioni, un linguaggio offensivo opposto a consigli salutari, ed infine ostinati rifiuti non permettevano di mantener più a lungo le relazioni amichevoli.

«Cedendo alle suggestioni di una grande Potenza il gabinetto di Napoli tentò dì attenuare l'effetto prodotto da una prima risposta; ma quest'apparenza di accondiscendenza non fu che ima prova di più della sua risoluzione di non tenere nessun conto della sollecitudine della Francia e dell'Inghilterra per gl'interessi generali dell'Europa. L'esitazione non era più permessa. Fu d'uopo rompere le relazioni diplomatiche con una Corte, che ne viveva essa stessa alterato cosi profondamente il carattere; Questa sospensione dei rapporti ufficiali non costituisce punto un intervento negli affari interni, molto meno un atto di ostilità. Tuttavia, potendo la sicurezza d$i nazionali dei due governi essere compromessa, essi hanno per provvedervi riunite le squadre; ma non hanno voluto mandare i loro bastimenti nelle acque di Napoli, per non dare appicco ad interpretazioni erronee. Questa semplice misura di protezione eventuale, che non ha nulla di commina torio, non potrebbe nemmeno essere considerata come un appoggio od un incoraggiamento a quelli che cercano di smuovere il trono delle Due Sicilie. Se il gabinetto napoletano, tornando ad un sano giudizio del sentimento che guida i governi di Francia e d'Inghilterra, comprenderà infine il suo vero interesse, le due Potenze si faranno premura di riannodare con esso le stesse relazioni di prima, e saranno liete di dure con questo ravvicinamento un nuovo pegno al riposo dell'Europa».

- 157 -

L'INGHILTERRA E LA SICILIA

(Dall'Armonia, n° 245,21 ottobre 1856).

Alcune parole del Times ci spiegano l'accanimento inglese contro il Re di Napoli. Austria e Francia, scrive questo giornale, hanno un piede in Italia, e l'Inghilterra vuole entrarvi essa pure. Ecco lotta l'umanità, tutto il liberalismo della Gran Bretagna; mettere un piede in Italia, ossia conquistare o prepararsi alla conquista della Sicilia.

Aceto, in un suo scritto intitolato: De la Sicile et de ses rapports avec l'Angleterre, nota a pagina 103, che la Sicilia è il punto pio, strategico per tutti gli avvenimenti possibili nel Mediterraneo e nell'Oriente, la porta d'Italia dalla parte del mare, che protegge l'indipendenza delta milione, e in mano d' forestieri può divenire per l'intera Penisola un solenne disastro. L'Inghilterra vi tenne sempre l'occhio sopra, perché essa generalmente tende all'ingrandimento ed alla conquista, e perché la Sicilia le servirebbe a bilanciare l'influenza russa in Grecia, e l'influenza francese a Costantinopoli.

Di fatto gli Inglesi non si lasciarono mai sfuggire veruna occasione per metter piede nell'Isola, e si prevalsero talora delle condizioni d'Europa, talora dei dissidii interni per signoreggiarla. Fin dal trattato d'Utrecht tolsero la Sicilia alla Spagna per darla a Casa Savoia, acni avrebbero potuto più facilmente ritoglierla.

Dal 1806 al 1814 riuscirono ad occuparla militarmente, e affine di perpetuarvi la loro signoria colla discordia, furono essi i principali promotori della Costituzione del 1812. La quale indeboliva oltre ogni dire la Sicilia col separarla dal Regno di Napoli. Ma a questo miravano appunto gli Inglesi; giacché, stretti in lega coi Siculi pei trattati del 30 marzo 1808,13 maggio 1809, e 18 settembre 1812, capivano, che più isolata fosse la Sicilia, e più preponderante e vicina a signoria sarebbe stata la loro amicizia.

Né queste sono semplicemente congetture nostre, ma ne abbiamo l'espressa confessione del marchese di Londonderry, il quale, nel suo celebre discorso detto alla Camera dei Comuni nella tornata del 21 di giugno 1821, dichiarò in termini non essere per assicurare la felicità della Sicilia che le truppe inglesi vi si piantarono dal 1805 «1814».

«Quanto alla natura delle relazioni colla Sicilia, sono le parole precise del marchese di Londonderry, quantunque il governo abbia portato sempre molta stima ed affezione a questo paese, non è però tutt'affatto per tale motivo, o per assicurare la felicità della Sicilia, che truppe inglesi vi stanziarono. Questa era in realtà un'occupazione militare. Il governo, considerando lo stato d'Europa, stimò necessario, tanto pel meglio della famiglia reale, quanto per opporre un argine ai progressi sempre crescenti della Francia, di difendere la Sicilia. La sua posizione insulare la rendeva acconcia a profittare della nostra potenza navale. Non solo era facile di metterla al coperto d'ogni esteriore violenza, ma ancora era evidente che visi potea stabilire una posizione militare, dalla quale potrebbesi fare un utile diversione in favore della libertà d'Europa, o nello scopo di riprendere l'Italia ai Francesi».

Queste parole sono chiare abbastanza.

- 158 -

Ne' tempi andati Francia e Inghilterra disputavansi tra loro il regno delle due Sicilie. Quando gli Inglesi stavano in Sicilia, la Francia avea dato il continente napoletano prima a Giuseppe e poi a Gioachino. Queste due Potenze ab antico lottano fra loro per la dominazione suprema del Mediterraneo. La Francia possiede l'Algeria, e l'Inghilterra l'Indostan: il commercio delle due nazioni è immenso, e quasi eguale, ed amendue hanno lo stesso interesse alla libera navigazione del Mediterraneo. Ora se la Francia potesse acquistare Minorca, e divenire padrona di Portomaon, di Tunisi o di Tripoli, il Mediterraneo diventerebbe un lago francese. Se per contrario l'Inghilterra potesse entrare in possesso della Sicilia, padrona com'essa è già di Gibilterra, delle Isole Ionie e di Multa, comanderebbe tutto il Mediterraneo.

Ecco le ragioni che indussero sempre Francia ed Inghilterra ad immischiarsi nelle cose napoletane. Il loro antagonismo politico, commerciale, marittimo, si svolgeva a danno della povera Italia. A' nostri giorni però abbiamo due fatti singolari, he resteranno memorandi nella storia: l'uno che Inghilterra e Francia operino di conserva contro il regno delle Due Sicilie. L'altro che sieno riuscite ad avere complico in simile impresa un governo italiano.

Il primo fenomeno si spiega colla guerra d'Oriente. La preponderanza della Russia ha stretto in lega due Potenze naturalmente ostili, quali sono la Francia e l'Inghilterra. Nonostante la pace di Parigi, la lotta continua, e re Ferdinando ne paga le spese, Gorkiakoff l'ha capita, e non ha tardato a scrivere la sua circolare. Per ispiegere però il secondo fatto bisogna ricorrere alla pili sfrenata ambizione, che acceca l'uomo; alla truce rivoluzione, che annienta ogni amore di patria; ad una imbecillità superlativa, che non lascia vedere l'ultimo termine delle cose.

L'Inghilterra fin dal 1846 ha capito che per mettere un piede in Sicilia le servirebbe assai la rivoluzione. Nel 1847 mandava in Napoli lord Minio, affinché si adoperasse presso il Re. per attenere alcune concessioni in favore de' suoi sudditi. Ciò risulta da un dispaccio del medesimo lord Minio a lord Palmerston, sotto la data del 18 gennaio 1848. Mentre parlasi di concessioni, la Sicilia levasi a tumulto, e si sottrae all'obbedienza del suo legittimo sovrano. Allora lord Minio con un dispaccio del 12 di febbraio al sig. G. Goowin, console di S. M. Britannica a Palermo, fa conoscere al comitato palermitano, ch'egli era disposto ad entrare mediatore tra i Siciliani ed il loro Re. Il Comitato accettò l'offerta, e con suo dispaccio del 14 di febbraio invitò lord Minto, come rappresentante della Gran Bretagna a recarsi in Palermo. Scoppiata però la rivoluzione di Parigi, lord Minto restò in Napoli; e sollecitò pronte riforme dal Re.

Il quale pubblicò quattro decreti, che convocavano il Parlamento siciliano in Palermo in un giorno determinato, e secondo tutte le forme adottate dal Comitato di Palermo nell'atto di convocazione del 24 di febbraio, e collo scopo di applicare ai tempi correnti la costituzione del 1812. Il 10 di marzo lord Minto giunse in Palermo con questi decreti, e nel presentarli ai Palermitani consigliava loro di rifiutarli. Non si udì mai più ribalda e traditrice politica!

Le concessioni napoletane vennero rifiutate di fatto, ed elevate altre pretese, che preludevano all'esautorazione del Re.

-159 -

E lord Minto accettò queste pretese, incaricandosi di appoggiarle presso Ferdinando. Cosi il mediatore inglese avea il doppio aspetto di servire e di spogliare il Borbone. Ma questi, che non è zotico, capì dove voleasi andare, e ben lungi dall'aderire al suicidio, rigettò risolutamente le domande sicule. Allora il gabinetto di St. James eccitò il ministero siciliano a dichiarare l'esautorazione della dinastia dei Borboni dal trono della Sicilia, conservando tuttavia la forma monarchica del governo.

In quei tempo la Francia era governata a repubblica. Se questa forma di governo prevaleva in Sicilia, l'influenza francese v'avrebbe preponderato, cosa che cuoceva assai agli Inglesi. Laonde, per mettere immuro di divisione ira Siculi e Francesi, l'Inghilterra insisté per la forma monarchica, e volle che fosse nominato Re di Sicilia il nostro Duca di Genova. E il 21 di luglio del 1848 partiva da Palermo una deputazione per recare la corona al Principe subalpino.

Ha forse piaceva all'Inghilterra, che il Duca di Genova diventasse Re di Sicilia? No per fermo. L'Inghilterra non voleva la Sicilia unita con Napoli, perché non fosse napoletana. Non la voleva governata a repubblica, perché non fosse francese. Non la voleva retta dal Duca di Genova, perché non fosse di Casa Savoia. Voleva la Sicilia per l'Inghilterra: ecco tutto.

Di fatto, il 30 di luglio re Ferdinando protestava; contro l'elezione del Duca di Genova, e la protesta veniva comunicata dal conte di Londolf, ministro di Napoli, al nostro ministro marchese Parete, che ne die comunicazione a lord Abercromby, domandando consiglio. E il nobile lord rispose, che non avrebbe dato mai il suo avviso. Questa risposte, dice l'autor delle Memorie storiche, inchiudeva il consiglio dì rifiutare la corona; e l'Inghilterra mirava a ciò, che la Sicilia dovesse rimanere sempre in uno stato provvisorio, per divenire sua preda. «L'Inghilterra, scrisse Gioberti nel suo Rinnovamento, nutriva gli spiriti municipali dei Siculi per ridarseli in grembo».

Oggidì Francia e Inghilterra paiono calate agli accordi, e che abbiano tenuto segretamente fra lord questo linguaggio: «È da tanto tempo che ci combattiamo a vicenda per conquistare la Sicilia, ed essa per la nostra inimicizia non é né dell'uno né dell'altro. Facciamo meglio: dividiamoci il regno: Napoli a me, e la Sicilia a voi». Dopo il che mossero quel piato contro re Ferdinando, che dura tuttavia.

L'amore dell'umanità pertanto non c'entra per nulla. L'Inghilterra è sempre intervenuta in Italia con questo preteste; ma la ragione vera dell'intervento ora l'amor di se stessa, il desiderio d'ingrandirsi a spese nostre.1 poveri Italiani furono sempre giuocati, e in parte sei meritarono, perché lasciaronsi giuocare.

Ed oggidì Francia ed Inghilterra continuano a giuocarsi di noi, e se dobbiamo dire tatto il nostro pensiero, la questione napoletana ci pare una partita al pallone. Il pallone è il regno di Napoli: l'Inghilterra caccia, la Francia ricaccia, e il Piemonte serve amendue i giuocatori, e presenta loro umilmente il pallone|

-160 -

PRIMI ATTENTATI DI NAPOLEONE III

CONTRO IL RE DI NAPOLI.

Pubblichiamo i due seguenti documenti che servono per meglio comprendere gli articoli che ristampiamo.

N.1.

Il conte Walewski al barone Brénier, a Napoli.

Parigi,21 maggio 1856.

Sig. Barone, ebbi l'onore di mettervi a parie delle legittime preoccupazioni che sonosi manifestate in seno del Congresso di Parigi. Credo dover ritornare quest'oggi su questo oggetto, per determinare io un modo esatto il senso e la portata di questo incidente in ciò che concerne il regno delle Due Sicilie.

Come lo avrete rilevato, i plenipotenziarii riuniti a Parigi sonosi mostrati tutti egualmente penetrati dal sentimento di rispetto che anima i loro governi per l'indipendenza degli altri Stati, «nessuno fra essi ebbe, il pensiero di provocare un'ingerenza od una manifestazione di natura tale che poteste recarvi offesa.

Il governo delle Due Sicilie non potrebbe prendere abbaglio sulle nostre vere intenzioni; ma vogliamo credere che riconoscerà con noi che i rappresentanti delle grandi Potenze europee non potevano, conchiudendo la pace, restare indifferenti al cospetto di alcune situazioni, le quali sembrarono loro capaci di compromettere l'opera loro in un'epoca più o meno vicina. Egli è unicamente ponendosi su questo terreno che il Congresso fu naturalmente condotto ad investigare le cagioni che mantengono in Italia uno stato di cose, la cui gravezza non poteva a lui sfuggire. '.

Il mantenimento dell'ordine nella penisola italiana è una delle condizioni essenziali per la stabilità della pace; egli è dunque nell'interesse e benanco nel dovere di tutte le Potenze il non negligentare alcuna cura, né alcun sforzo, onde prevenire il ritorno di qualunque agitazione in questa parta dell'Europa. A questo riguardo i plenipotenziarii furono unanimi. Ma come raggiungere questo risultato? Ciò non può farsi evidentemente con dei mezzi, di cui i latti dimostrano ogni giorno l'insufficienza. La compressione mena con sé dei rigori, cui non è opportuno ricorrere se non quando sono imperiosamente comandati da urgenti necessità; altrimenti, lungi dal ricondurre la pace e, la confidenza, si provocano dei nuovi pericoli col porgere alla propaganda rivoluzionaria nuovi elementi di successo.

Egli è di tal sorta, che il governo di Napoli va errato, secondo noi, nella scelta dei mezzi destinati a mantenere la tranquillità nei suoi Stati, e ci sembra urgente, ch'esso si arresti nella falsa via, su cui si è impegnato. Noi crediamo superfluo d'indicargli le misure adottate a raggiungere lo scopo, che senza dubbio ha di mira: esso troverà, sia in un'amnistia saggi amen te ideata e lealmente applicata, sia nella riforma dell'amministrazione della giustizia, le disposizioni appropriate alla necessità, che noi ci limitiamo a fargli notare.

- 161 -

Noi abbiamo la convinzione, che la situazione attuale a Napoli come in Sicilia costituisce un grave pericolo, per il riposo dell'Italia, e questo pericolo, minacciando la pace dell'Europa, doveva necessariamente fissare l'attenzione del governo dell'Imperatore; esso c'imponeva in ogni caso un dovere, quello di svegliare la sollecitudine dell'Europa e la previdenza degli Stati più direttamente interessati a scongiurare deplorabili eventualità. Noi abbiamo adempiuto a questo dovere prendendo l'iniziativa nel seno del Congresso; noi lo adempiamo ugualmente facendo appello allo spirito conservativo del governo stesso delle Due Sicilie, il quale darà testimonianza delle sue buone intenzioni, dandoci notizia delle disposizioni, che giudicherà conveniente di adottare.

Come voi vedete, i motivi che c'impongono l'ufficio che a voi è demandato, e del quale avrete a sdebitarvi di concerto col ministro di S. M. britannica, sono perfettamente legittimi: essi sono attinti nell'interesse collettivo di tutti gli Stati europei, e siamo autorizzati a credere d'altra parte, che a Napoli si risolveranno a prenderli in seria considerazione. Astenendosi dal tener conto dei nostri avvertimenti, esporrebbe» a nuocere ai sentimenti, di cui il governo dell'Imperatore non cessò di mostrarsi animato verso la Corte delle Due Sicilie, ed a provocare in conseguenza una freddezza deplorabile.

Voi vi compiacerete di dar lettura, e lasciar eopia di questo dispaccio al ministro degli affari esteri di S. M. Siciliana.

Ricevete, ecc.

N.2.

IL COMMENDATORE CARAFA AL MARCHESE ANTONINO A PARIGI

(Traslato dall'italiano in francese dal Moniteur, e dal francese in italiano)

Napoli,30 giugno 1856.

Signor Marchese,

Il mio dispaccio del 7 corrente mese, N° 278, vi ha già fatto conoscere il sunto della comunicazione che mi è stata fatta dall'inviato francese, il quale mi rimise nello stesso tempo, dopo avermene data lettura, la copia di un dispaccio a lui indirizzato a quest'uopo dal suo governo.

Dalla copia del documento francese, che credo utile rimandarvi qui inclusa, vedrete che il governo imperiale intese determinare, facendone l'applicazione agli Stati del He, il senso e la portata delle preoccupazioni ch'esso dice essersi manifestate in seno delle conferenze, che ebbero luogo per la pace, ed i cui plenipotenziarii tutti si mostrarono egualmente compresi dei sentimenti di rispetto, che son proprii dei loro governi per l'indipendenza degli altri Stati.

Il conte Walewski, protestando che non ci sarebbe modo di dubitare delle vere intenzioni della Francia a nostro riguardo, credette, nell'interesse della conservazione della pace, dover avvertire alla necessità di prevenire il rinnovarsi di qualunque agitazione in Italia; ciò che, secondo lui, non potrebbe ottenere che adottandosi provvedimenti di amministrazione interna giudicati convenienti

- 162 -

ad allontanare i pericoli, cui l'esponeva un sistema di rigore, il quale fornirebbe nuovi elementi di successo alla propaganda rivoluzionaria, aumentando il malcontento.

Il governo francese, operando in un senso contrario al principio rispettato da tutte le Potenze, crede poter suggerire che la nostra amministrazione interna dovrebbe subire cambiamenti»che esso dice superfluo indicare, pur non tralasciando di precisare di qual carattere debbano essere quelli che s'appartiene al governo del Re il considerare come proprii ad assicurare la conservazione della pace.

Non si può capire come il governo imperiale, che si dice ben informato delle condizioni degli Stati del Re, possa giustificare T inammissibile ingerenza che esso piglia nei nostri sfibri per la urgente necessità di riforme, in mancanza delle quali esso è convinto che lo stato presente di cose a Napoli ed in Sicilia costituirebbe un grave pericolo pel riposo dell'Italia.

Nessun governo ha il diritto d'ingerirsi nell'amministrazione interna di un altro Stato e sopratutto in quella della giustizia.

Il mezzo immaginato per mantenere la pace, per reprimere e prevenire i moti rivoluzionarii è tale che esso stesso conduce alle rivoluzioni. E se avesse a succedere qualche disordine pubblico, sia qui, sia in Sicilia, sarebbe precisamente suscitato da un tal mezzo; e questo provocherebbe disordini, appunto fomentando tutti i sentimenti rivoluzionarii, non solo, negli Stati del re ma anche in tutta l'Italia, con quest'inopportuna protezione accordala ai principali agitatori.

Il Re nostro signore ha in ogni tempo esercitata la sovrana sua clemenza verso un gran numero dei suoi sudditi colpevoli o traviati, commutando loro la pena q richiamandoli dall'esilio, e il suo cuore benefico «enti il più gran dispiacere al vedere come la più parte degli uomini di questa specie sieno incorreggibili, di maniera cbe, se il nostro angusto signore poté pel passato usare la sua clemenza, egli è ora, ben suo malgrado costretto, nell'interesse del ben pubblico, a non più adoperarla, in seguito all'agitazione prodotta in Italia dalle suggestioni mal calcolate dei governi da cui i nemici dell'ordine si sentono protetti.

Se la più perfetta calma regna ora negli Stati dei Re,, in cui la rivoluzione ha sempre trovato, nella devozione del popolo verso il suo Sovrano e nella fermezza del governo, il pili potente ostacolo ai suoi tentativi di disordini, gli è ugualmente certo che i malcontenti non mancherebbero di riuscire nelle loro audaci mene, per dar corso alle pazze speranze concepite allo scopo di avvolgere di nuovo il paese nel disordine e nella costernazione.

Il governo del Re, che evita scrupolosamente di ingerirsi negli affari degli altri Stati, intende esser solo giudice dei bisogni del suo regno al fine di assicurar la pace; la quale non sarà turbata se i malintenzionati! privi di ogni appoggio, saranno infrenati dalle leggi e dalla forza del governo. Così soltanto si allontanerà per sempre il pericolo di nuovi sconvolgimenti, che potessero compromettere la pace d'Italia, e con il benefico cuore del Re nostro signore potrà trovare l'opportunità e la convenienza di esercitare ancora la sua abituale clemenza.

- 163 -

Siete autorizzato, signor Marchese, a dar lettura al conte Walewsky di questo dispaccio, ed a lasciargliene una copia in risposta alla Suaccennata comunicazione.

I REGICIDI DI CARLO ALBERTO

OSSIA

STORIA DEL PIEMONTE DAI PRIMI TEMPI ALLA PACE DI PARIGI

DEL 30 MARZO 1856

DI ANTONIO GALLENGA.

Torino, Era di Botta, tipografi, e Giahioi e Fiore, librai.1856.

(Dall'Armonio n.252,30 ottobre 1856).

Sono pochi mesi, e venne pubblicata in Torino una Storia del Piemonte d'un deputato ministeriale, per nome Antonio Gallenga, la quale, scritta originaria' mente in lingua inglese e data in luce in Londra nel dicembre dell'anno scorso, fu volta dall'autore medesimo in lingua italiana. È una storia come quella del Gualterio e del Ferini, storia scritta da scoiattoli, direbbe il Guerrazzi, e ad usum Delphini, ossia della parte ministeriale. Un gravissimo incidente ci obbliga a discorrerne contro il nostro primitivo disegno.

Il Gallenga maltratta Mazzini ed i Mazziniani. Egli dice Mazzini giovine entusiasta, retta di cuore, ma obliquo di mente, esule impaziente, autore di matte congiure, e a pag.459 del secondo volume, così discorre gli eccessi della Giovine Italia e i tentativi di regicidio.

«Mazzini intanto, cacciato di Francia, aveva posto a Ginevra il quartier generale di quelle sue matte congiure. Aveva intorno a sé alcune migliaia tra fuorusciti Italiani e Polacchi, per mezzo dei quali meditava un attacco in Savoia.

Trovatasi presso del capo della così detta Associazione Nazionale un giovane fanatico, stanco della vita d'esilio, e nodrito alla scuola classica del patriottismo d'Alfieri, - avvezzo al teatro dell'opera a vedere in Guglielmo Teli esaltato il più bel tipo di eroismo. Giunse allora in Ginevra la madre di Ruffini col rimanente della famiglia che veniva a ricovero in Svizzera ancor tutta trambasciata dalla ferale tragedia che aveva insanguinatele mura del carcere di Genova. Quello spettacolo di muto dolore scaldò la fantasia del giovinetto ammiratore dei Broli e dei Timoleoni, il quale si offerse di vendicare quella desolata madre, togliendo di vita il «Tiranno». Fu fornito da Mazzini di passaporto, danaro, e lettere, e venne così a Torino, nell'agosto del 1833, sotto mentito nome di Luigi Mariotti. I partigiani di Mazzini a Torino erano però tutti o presi, o fuggiti, o nascosti. Non trovò lo straniero chi gli desse consiglio o direzione a condurre ad effetto il suo intento, niuno che potesse avvantaggiarsi dell'esito, per quasi due mesi indugiò egli invano cercando opportunità di ferire.

- 164 -

N'ebbe sospetto finalmente la polizia; ed alcuni amici che ne avevano in parte indovinato il terribile secreto, tanto gli stettero intorno che lo fecer partire. Uno scrittore poco temperato dei tempi nostri ha creduto poter portare altro giudizio di quell'attentato, di cui ha anche travisati i fatti principali: ma ba dovuto poi ricredersi dopo pili maturo esame, e confessare che il giovine regicida, per quanto sconsigliato e demente potesse dirsi, non era però né «furfante, né «vigliacco». Carlo Alberto non ebbe mai distinta idea delle trame ordite contro la sua persona; ma siccome fu poco dopo arrestato un altro emissario di Mazzini, portatore di un pugnale col manico fatto di pietre preziose a mosaico, ne rimase nell'animo del Re e in quello dei più fidi suoi sudditi una impressione che Mazzini non rifuggiva dall'uso del coltello dell'assassino. r Ne vuole alla vita del Re» - è quanto si udiva spesso, parlando di Mazzini, tra gli uffiziali dell'esercito piemontese alla campagna del 1818».

Il Gallenga nel brano citato accenna alla madre di Ruffini ed alla ferale tragedia che aveva insanguinato le mura del carcere di Genova. Per chi non fosse molto addentro alla storia della rivoluzione, ecco quel fatto colle parole dello stesso Gallenga:c Jacopo Raffini, amico di Mazzini, arrestato a Genova, temendo chela straziante tortura morale, a cui lo assoggettavano, avesse a strappargli parola che compromettesse altrui, si determinò al suicidio, ed eseguì il disegno con efferata barbarie contro di se medesimo. Strappò una rugginosa lamina di ferro, di cui era foderato l'uscio del carcere, la arrotò al macigno del davanzale della finestrate «e ne segò la gola n. Ecco lo spettacolo di muto dolore, che scaldò la fantasia del giovinetto ammiratore dei Bruti e dei Timoleoni!

Dopo le quali cose Antonio Gallenga passa a raccontare la spedizione de' Mazziniani contro la Savoia ne) 1834; e ride di Mazzini, che strinse la fida sua carabina, e volle accorrere al Conflitto: ma cadde subito svenuto nelle braccia dei compagni, che lo trasportarono così in salvo oltre il confine».

Questo frizzo e le cose sopra narrate, ed i giudizii del Gallenga offesero i Mazziniani, uno dei quali, Federico Campanella, stimò opportuno di giudicare la nuova Storia del Piemonte per ciò che riguarda la spedizione di Savoia del 1834, e lo fé' in due notevolissime appendici stampate sull'Italia e Popolo, N° 294 e 295 del 23 e del 24 di ottobre.

Nella prima appendice Federico Campanella rimprovera al Gallenga ben tredici bugie stampate nel raccontare un fatto solo, oltre un diluvio di bugie, che tace; e conchiude: «Ah! Gallenga, Gallenga, che cosa avete fatto! Voi avete abbeverato di fiele la logica, flagellato il buon senso, crocifisso la storia; avete accumulato bugie sopra bugie, vi siete reso colpevole di falso in scrittura storica.

Nella seconda appendice poi passa a parlare del giovane fanatico, che nell'agosto del 1833 venne in Torino sotto il falso nome di Luigi Mariotti per pugnalare Carlo Alberto. E qui lasciamo la parola a Federico Campanella:

«Chi è desso? Perché cela la faccia sotto la maschera dell'anonimo? Perché non dice il suo nome? Chi meglio di Antonio Gallenga conosce Luigi Mariotti?

- 165 -

«Costui non si trovò a caso col capo della Giovine Italia, né ebbe bisogno delle lagrime d'una madre, né degli incitamenti di Mazzini, per decidersi al regicidio. Venne dalla Corsica, ignoto a tutti, Bruto calo, Bruto cresciuto, Bruto fatto, Bruto determinato, Bruto prima di vedere Mazzini e la madre di Jacopo Ruffini. Lungi dall'incitarlo, Mazzini OBBIETTÒ, DISCUSSE, MISE INNANZI TUTTO CIÒ CHE POTEVA SMOVERLO. Bruto 1° rimase irremovibile... per allora. Se non commise il regicidio, non fu certo per mancanza d'indicazioni in Torino: ebbe anzi tutte le indicazioni possibili, e noi non faremo l'ingiuria a Bruto 1° di credere ad un motivo così frivolo e meschino messo innanzi dallo storico. Noi crediamo invece che ciò accadesse per un ritorno felice a sentimenti più sani, più umani, e - diciamolo pure - più proficui. Nell'atto di vibrare il colpo Bruto I pensò a' fatti suoi; e fatto rapidamente il calcolo dei profitti e perdile Ira il mestiere di Bruto e quello di entusiasta monarchico, il nostro bravo Mariotti, uomo alquanto scettico in politica, ma eccellente in aritmetica, si decise pel mestiere dell'entusiasta. Questa savia risoluzione ebbe la sua ricompensa; e di suddito parmense ch'egli era, divenne tosto cittadino sardo, indi deputato al Parlamento di Torino, indi ambasciatore in Germania, indi cavaliere di non so qual ordine, indi... e perché no? i son veduti ministri Bruti e Mariotti quanto il nostro Luigi. Fatta si è, che nella dolce speranza d'un portafoglio, un bel giorno, in un momento di crisi ministeriale. Bruto 1°, consultando più il suo buon cuore, che le sue forze, fece omaggio al ministro periclitante dell'aiuto di tutta la sua eloquenza, si slanciò animoso alla tribuna, e giunto proprio nel mezzo, balbettò tre o quattro parole, si confuse, fece fiasco, prese un bicchier d acqua inzuccherata, scese dalla tribuna, e disgustato dell'arte oratoria, diede di piglio alla penna, e finì collo scrivere tre volumi di robba, intitolata (Dio sa perché): Storia del Piemonte.

«Siccome queste cose meritano di essere messe in chiara luce, noi cederemo la parola a chi è meglio informato di noi.

«Caro Federico,

«Non mollo prima della spedizione di Savoia, dopo lo fucilazioni dei nostri e in Genova, Alessandria, Chambery, sul finire del 1833, mi si presentò all'albergo della Navigazione a Ginevra, una sera, un giovine ignoto. Era portatore di un biglietto di L. A Melegari, oggi professore, deputato ministeriale e in Torino, allora nostro, che mi raccomandava con parole più che calde e Tannico suo il quale era fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi t meco. Il giovane era Antonio Gallenga. Veniva di Corsica. Era un affratellalo e della Giovine Italia.

«Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso e di vendicare il sangue dei suoi fratelli, e d'insegnare ai tiranni, una volta «per sempre, che la colpa era seguita dalla espiazione: ch'ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo Alberto il traditore del 1821 e il carnefice de' suo(e fratelli; che egl haveva nudrito l'idea nella solitudine della Corsica, finché si «era fatta gigante e più forte di lui. E più altro

«Obbiettai, come ho fatto sempre in simili casi: DISCUSSI, MISI INNANZITUTTO «CIÒ CHE POTEVA SMOVERLO, Dissi che io giudicava Carlo Alberto degno d morte,

- 166 -

ma che la sua morte non salverebbe l'Italia; che per assumersi un ministero «d'espiazione, bisognava sentirsi puro d'ogni senso di povera vendetta, e «d'ogni altroché non fosse missione; che bisognava sentirsi capaci di stringere le roani al petto, compito il fatto, e dorsi vittima; che in ogni modo ei e morrebbe nel tentativo; che morrebbe infamato dagli uomini come assassino, e e via così per un pezzo.

«Rispose a tutto; e gli occhi gli scintillavano mentr'ei parlava. Non importargli la vita; non si arretrerebbe d'un passo; Compito Tatto griderebbe: «viva l'Italia! I tiranni osar troppo, perché securi dall'altrui codardia; bisognava romper quel fascino. Si sentiva destinato a quello. S'era tenuto in camera un ritratto di Carlo Alberto, e il contemplarlo, gli avea fatto più sempre dominante l'idea. Finì per convincermi che egli era uno di quegli esseri, le t cui determinazioni stanno tra la propria coscienza e Dio, e che la Provvidenza caccia da Armodio in poi di tempo in tempo sulla terra per insegnare ai despoti che sta in mano d'un uomo solo il termine della loro potenza. E gli chiesi che volesse da me,

«- Un passaporto e un po' di danaro.

Gli diedi mille franchi, e gli dissi che avrebbe un passaporto in Ticino.

«Fin là ei non sapeva neppure che la madre di Jacopo Ruffini fosse in Ginevra e appunto nell'albergo dove era io.

«Gallenga rimase la notte e parte del giorno dopo. Pranzò con la Ruffini e e con me; non si disse verbo tra loro: lasciai la Ruffini ignara delle intenzioni. Essa era generalmente ammutolita dal dolore, e non mosse quasi «parola.

«Nelle ore in cui egli rimase, sospettai che ei fosse condotto più da una «sfrenata ambizione di fama che non dal senso di una missione espiatoria da a compiere; mi ricordò sovente che da Lorenzino di Medici in poi non s'era «compiuto un simile fatto; e mi raccomandò che io scrivessi, dopo la sua e morte, alcune linee sui suoi motivi. Partì.

«Valicando il S. Gottardo, mi scrisse poche parole, piene d'entusiasmo; e s'era prostrato dall'Alpe, e aveva tornato a giurare all'Italia di compiere il fatto.

«Ebbe in Ticino un passaporto col nome di Mariotti. Giunto in Torino, si abboccò con un membro del comitato dell'associazione del quale aveva avuto il nome da me. Fu accolta l'offerta. Furono presi concerti. Il fatto si compirebbe in un lungo andito in corte pel quale il Re passava ogni domenica e per andare alla cappella regia. S'ammettevano taluni per vedere il Re con un biglietto privilegiato. Il comitato poté provvedersi di una. Gallenga andò con quello, senz'armi, a studiare il luogo; vide il Re, e fu più fermo ohe mai, lo a diceva almeno. Fu statuito che la domenica ventura si compirebbe.

«Allora, impauriti dal procacciarsi, in quei momenti di terrore organizzato, e un'arme in Torino, mandarono un membro del comitato, Sciandra, commera dante; oggi morto, per la via di Chamberv a Ginevra a chiedermi l'arme ed avvertirmi del giorno: un pugnaletto con manico di lapislazzoli, che m'era e dono carissimo, stava sul tavolo: accennai a quello. Sciandra lo prese, e partì.

«Ma intanto, io non considerando quel fatto come parte del lavoro insurrezionale

- 167 -

ch'io dirigeva, e non facendone calcolo, mandava per cose nostre «a Torino un Angelini nostro, sotto altro nome. L'Angelini, ignaro del Gallenga, e d'ogni cosa, prese alloggio appunto nella via dove stava in una cameretta il Gallenga. Poi, commettendo imprudenze di condotta, fu preso a sospetto: tornando a casa, la vide invasa da carabinieri; tirò di lungo e si pose in salvo.

«Ma il comitato, inteso che a due porte da quella del regicida erano scesi i e carabinieri, e non sapendo cosa alcuna dell'Angelini, argomentò che il governo avesse avuto avviso del progetto e fosse in cerca di Gallenga.

«Per ciò lo fece uscir di città, lo avviò ad una casa di campagna fuori Torino,. dicendogli, che non si potea tentare la domenica, ma che, se le cose si vedessero in quiete, lo richiamerebbero per un'altra delle successive.

«Una o due domeniche dopo mandarono per lui; non lo trovarono pili: era partito. Ed io lo rividi in Isvizzera.

«Rimanemmo legali; ma si sviluppò in lui un'indole più che orgogliosa, e vana, una tendenza di egoismo, uno scetticismo insanabile ed uno sprezzo e d'ogni fede politica, fuorché l'unica dell'indipendenza italiana.

«Lavorò meco, fu membro del vomitato centrale. Firmò un appello stampato agli Svizzeri contro la tratta di soldati sgherri che fanno. Poi s'astenne,

Si diede a scrivere articoli di riviste e libri» Disse e misdisse degli Italiani, et degli amici e di me.

«Prima del 1848 si riaccostò, e fece parte d'un nucleo che s'organizzò sotto nome nostro. Venne il 48. lo partiva, mi chiese di partire con me. A Milano e si separò, dicendomi ch'egli era uomo di fatti e andava al campo. Invece di andare al campo, si recò a Parma, dove cominciò a congregare il popolo in piazza, e a predicare quella malaugurata fusione che fu la rovina d'Italia, e Diventò segretario d'una società federativa presieduta da Gioberti, del quale avea scritto plagas nei suoi libri inglesi sull'Italia. Sottoscrisse circolari stame pale in Torino, destinate a magnificare la Monarchia piemontese. Fu scelto«dal governo a non so quale piccola ambasciata in Germania, più tardi fu ed è deputato.

Io lo incontrai a Ginevra dopo la caduta di Roma. Mi parlò; indifferente t al biasimo ed alla lode gli parlai. Egli accusava i Lombardi di non aver secondato il Re; gli narrai quella storia di dolore ch'io avea veduta svolgersi, egli no; gli provai la falsità dell'accusa; parve convinto, e insistette perch'io scrivessi qualche cosa.

«Dopo un certo tempo tornato in Londra, trovai ch'egli, giuntovi appena, «avea pubblicato un libello contro i Milanesi, dov'ei li chiamava persino codardi. Nauseato, e dolendomi di vedere così calunniato da un italiano tra' stranieri un popolo di pi odi traditi, deliberai di non più vederlo, e non lo«vidi più.

«Ama il tuo

«Giuseppe Mazzini».

«Tra l'uomo sincero e lo storico libellista, tra il patriota italiano ed il detrattore degl'Italiani, giudichi il lettore.

«Federico Campanella»

- 168 -

Naturalmente il lettore dirà: ma tutto questo è vero? Ma possiamo credere a Mazzini, credere a Campanella? Anche noi abbiamo esitato dapprincipio, e non abbiamo voluto far cenno delle appendici dell'Italia e Popolo. Ma oggidì come tacerne, quando della verità del racconto mazziniano abbiamo tale testimonianza, di cui non si saprebbe desiderare più solenne? Quando lo stesso Antonio Gallenga dichiara, che MAZZINI SCRIVE IL VERO?

Leggete la seguente lettera stampata nel Risorgimento del 28 ottobre, N° 1749:

«Signor Redattore,

«Torino,27 ottobre.

«Alcuni amici m' han posto nelle mani il giornale Italia e Popola del 24 corrente.

«Vi trovo in un'appendice la continuazione di un articolo su quei i tre volumi di robba, intitolata da me (Dio sa perché) Storia del Piemonte! Si accenna in esso articolo un fatto da me narrato in quell'opera, ed attribuito a Luigi Mariotti. Raccontai quel fatto, e nell'edizione inglese di quel mio lavoro e nella traduzione italiana. Molte persone in Inghilterra, e non poche in Piemonte - di quelle che mi conoscono - sanno che Luigi Mariotti ed Antonio Gallenga sono una sola persona. Di più, questa identità risulta da pio. Luoghi dell'opera stessa. Nella traduzione italiana si cita anche un passo della Storia Militare di Pinelli, nella quale vien narrato il fatto stesso, alterandone alquanto le circostanze, e facendone carico ad un certo Gg; colle quali lettere comparvero nei giornali di Torino parecchie lettere mie.

«L'autore dell'appendice dell'Italia e Popolo non rivela dunque fatto alcuno, di cui io non abbia fatta confessione pubblica da due anni, e di cui io abbia mai in privato fatto mistero agli amici miei. Di quel fatto io son pronto a dar ragione a chicchessia ed a subirne le conseguenze. L'appendice cita una lettera di Mazzini, uomo di cui ho sempre ammirato ed ammiro il genio sommo, di cui ho sempre amato ed amo l'anima schietta, gentile e generosa, sebbene differissi e differisca da lui quasi sempre d'opinioni politiche. Non mi pare che la lettera di Mazzini in sostanza contraddica di alcuna guisa là mia narrativa o vi aggiunga alcun particolare di rilievo. Ad ogni modo dichiaro che Mazzini scrive, com'io scrivo, il vero.

«Solamente dalla sua lettera potrebbe forse inferirsi che l'amico mio Luigi Amedeo Melegari fosse in modo alcuno motore od istigatore del fatto ivi accennato. Ove le parole di Mazzini potessero dar luogo a tale interpretazione, credo mio dovere raffrettarmi ad affermare solennemente, che di quell'attentato fui io solo primo autore. e consigliere, che il pensiero spuntò volontario ed immediato nell'animo mio, e che non può e non deve apporsene ombra di biasimo né a Melegari né ad alcun altro.

«Ho l'onore di essere, signor Redattore,

«Dev.mo sua

«A. Gallenga».

Qui ci cade di mano la penna. Non sappiamo se sia maggiore il delitto del 1833, o il cinismo del 1856. Povero Piemonte! Povera Casa di Savoia! Nel 1833 si volle pugnalare Carlo Alberto, e si stampa oggidì in Piemonte sotto gli occhi di suo figlio!

- 169 -

Lo volle pugnalare Antonio Gallenga, ed è deputato, e fa le leggi, e provvede alla pubblica sicurezza! Amedeo Melegari, sebbene non motore, istigatore del fatto, ne era però conscio, e die al Gallenga il mezzo per eseguirlo. Ed ora è deputalo e professore nella nostra università! Abbiamo avuto ministri rei dello stesso delitto del Gallenga, e lo dice Federico Campanella, e pur troppo noi veggiamo, che suoi dire la verità i Che serie d'orrori, Dio mio!.... Forse un'altra volta ritorneremo sull'argomento. Ma chi non apre gli occhi dopo documenti di questa fatta, costui, oh SÌ, COSTUI E' O CONNIVENTE O IMBECILLE.

RASSOMIGLIANZE

TRA LA RIVOLUZIONE FRANCESE E L'ITALIANA

(Dall'Armonia, n.276, 28 novembre 1850).

Il Principe di Talleyrand, che può considerarsi come il capo della diplomazia rivoluzionaria; quest'uomo, il cui passaggio sulla terra non si saprebbe dire a chi riuscisse più funesto, se alla religione od alla società, essendosi personificata in lui la rivoluzione; riconciliato colla S. Chiesa, indirizzando al S. Padre, poco prima di morire, un suo scritto, uscì in questa frase notevolissima: «La rivoluzione, che dura da cinquantanni..... Tali parole nella bocca del Talleyrand aveano un immenso significato. Quando vennero conosciute da Luigi Filippo, gli cagionarono un grandissimo dispiacere; e s'adoperò in tutte le guise, affinché non riscuotessero quella pubblicità, che dovea naturalmente ottenere l'atto di sottomissione alla Chiesa, nel quale erano registrate. Imperocché racchiudevano una smentita a Napoleone, a Luigi XVIII, a Luigi Filippo, a tutti coloro, che si vantarono d'aver finalmente chiuso l'era delle rivoluzioni. La rivoluzione francese continua; ecco la sentenza d'uno de' più ardenti suoi figli.

Quanto diceva il principe di Talleyrand (osserva Monsignor Rendu nella sua ammirabile Notice historique sur M. le Corate Paul Francois de Sales), noi possiamo ripetere ancora oggidì appoggiati come siamo a nuovi mezzi di certezza. E l'esimio Prelato dimostra, che lo sconvolgimento sociale dell'89 sussiste in ispecie nel magistero diplomatico, e nei principii della politica odierna; verità che dopo il Congresso di Parigi, e le conseguenze che né derivarono, acquistò l'evidenza d'un assioma.

Noi procedendo nella regione dei fatti, come si addice ad un giornale, e lasciando in disparte quelle considerazioni che non possono afferrarsi dall'universale, siamo venuti in pensiero di dimostrare che la rivoluzione italiana è figlia della rivoluzione francese del 1789. L'Italia, che in quegli anni fé' testa ai principii della demagogia, nel 1848 gli abbracciò, e fu vinta per la debolezza de' Principi, per l'inerzia dei buoni, pel lento lavorio delle società segrete, per l'ipocrisia dei rivoltosi, per la soverchia tolleranza delle loro dottrine; e la rivoluzione del 93 s'impiantò sotto questo nostro bellissimo cielo.

- 170 -

Di fatto tra gli inni innumerevoli del 1848 lo stabilimento nazionale di Giovanni Ricordi pubblicava la Marseillaise di Rouget de Liste. La Montagna, che aveva preso in Francia per impresa le date 1789,1793,1830,1848, indirizzava nel 1849, addì 24 di febbraio, parole di congratulazione e d'incoraggiamento alla repubblica romana. Gli studenti del Circolo universitario democratico di Bologna, quelli del Circolo repubblicano di Ferrara, gli altri del Circolo universitario di Roma, del Circolo repubblicano d'Urbino, dell'Associazione universitaria di Perugia, addì 26 di aprile, rivolgevansi agli studenti della Repubblica francese, da cui i nostri maggiori avevano riconosciuto auspicii ed aiuti per fondare e difendere Stati liberi popolari. Ed in quest'anno 1856 ancora noi abbiamo udito il conte di Cavour perorare presso la Francia, ricordando le invasioni della rivoluzione in Italia, e sollecitando Napoleone III a rinnovarle nelle Legazioni pontificie.

La rivoluzione, strozzala nelle altre contrade della Penisola, non potè dare i suoi frutti; ma liberamente e fecondamente fruttificò in Piemonte, Noi non entreremo a parlare dei punti di rassomiglianza più culminanti come sono gli assalti contro il clero, la guerra rotta al Romano Pontefice, le dottrine della sovranità popolare, l'incameramento dei beni ecclesiastici, l'abolizione degli Ordini religiosi, la distruzione delle opere pie. Vogliamo fermarci sopra certe circostanze più minute, e che appunto per ciò dimostrano più chiaramente la fratellanza delle due rivoluzioni.

Fin dal 1848 noi avevamo la presa della Bastiglia, quando nella tornata del 22 di maggio il deputato Angiolo Brofferio proponeva la liberazione di tutti i condannati in via economica, e dei malandrini del castello di Sai uzzo, dei lavoratori di Sardegna, e del Corpo Franco inondavano il Piemonte. Il 90 di settembre del 1791, l'Assemblea nazionale francese decretava che «tutti coloro i quali per ammutinamento o rivolta erano stati imprigionati, banditi, o condannati alle galere dopo il 1° di maggio del 1788, verrebbero tosto restituiti in libertà E costoro riscuotevano applausi ed ovazioni, come vittime del pia caldo patriottismo. (Vedi Mercurenat. tom. I, pag.439; e Moniteur 22 maggio 1790). E in Piemonte il 30 (di giugno del 1848 il deputato Lanza proponeva la riabilitazione dei condannati dal 1821 al 1847 per fatti politici, i quali dovettero pagare il fio del loro patriottismo nelle prigioni in lungo e doloroso esilio, ed alcuni sul patibolo.

Il club dei patrioti svizzeri scriveva a quello di Lons-le-Saulnier: «Noi abbiamo, cari amici e fratelli, due compatrioti, che dimorano a Cerneux Pequignot, spartimento del Dotìbs, parrocchia di Morteau; essi chiamarsi Sudati; Fillio è chirurgo della guardia nazionale; e suo fratello è uno dei galeotti liberati dall'Assemblea nazionale; amendue vittime del pili caldo patriottismo. Questi titoli sono i migliori che si possono addurre per patrioti come voi». E i medesimi titoli valsero potentemente in Piemonte. Pensioni, cariche, decorazioni, rappresentanze nazionali, vennero accordate a quanti avevano tramato ne' tempi andati contro il governo. Costoro traevano innanzi, dichiarandosi con una frase rubata all'antica rivoluzione francese: martiri della libertà] e come tali venivano ammessi alle sontuose cene del bilancio nazionale.

- 171 -

Il nome ridicolo di codino, apposto a quegli onesti che odiano la rivoluzione, credete voi che sia cosa nostrana? Signori no; è una servile imitazione della Francia, che con decreto del 1° frimaire, anno li, abolì le parrucche, siccome un'invenzione aristocratica. E i vestiti all'italiana colla penna di cappone sul cappello sono forse un ritrovato dei nostri? Nemmeno. Leggete la Dècade philosophique, tona. II, pag.211,286, e vi troverete i modelli del vestito che indossavano i bellimbusti del 1848. Chenier aveva trovato inartiste l'antica foggia di vestire, e v'era stata sostituita la tonaca.

Gli imprestiti forzati noi li abbiamo ricopiati dalla rivoluzione francese, e si fu nel Moniteur del 6 thermid., anno III, che l'onorevole conte di Cavour, ministro delle finanze, ritrovò la sua legge d'imposta sulle persone di servizio, sulle carrozze, e sui cavalli. Ha tralasciato però l'imposta sui camini e sulle stufe; ma non siamo ancora a sera, e la trascriverà forse più tardi negli Atti del governo.

E le medaglie e i busti che si offrono al conte di Cavour, non sono pure tradizioni della rivoluzione francese? Leggete l'opera preziosa del signor Fellemann, intitolata: Médailles de la révolution frangaise, e vedrete quali sono le fonti a cui attingono i rivoluzionarii del Piemonte.

L'onnipotenza dello stato in fatto d'insegnamento, principio che governa tutte le nostre leggi sull'istruzione pubblica dal 1848 in qua, è pure dovuta alla rivoluzione francese, li 22 di gennaio del 1794 Gregoire esclamava dall'alto della tribuna: «L'educazione è in tutti i rami sottomessa all'autorità del governo». Rabaut Saint-Etienne, Danton, Jacob Dupont, Petit, ecc., ripetevano la stessa dottrina: «ne usciva la legge draconiana del 17 di dicembre, madre della nostra legge Boncompagnu

Noi saremmo troppo lunghi se tutti volessimo accennare i tratti di rassomiglianza. Abbiamo avuto le apoteosi di Voltaire e di Rousseau nei Viva Gioberti! d'una volta, e nei Viva Cavour! dei nostri giorni. Abbiamo il PerBuchine nella Gazzetta del Popolo con i suoi f.....e b.....tradotti in lingua italiana. I nostri giornali ricopiano i medesimi titoli di quelli del 93:l'Arlecchino, la Lanterna Magica. La Francia inette sull'altare la dea Ragione, e Ausonio Franchi, non potendo fare di più, scrive la Ragione in capo alla sua rivista, e la vuole dea della politica, della morale, della religione. Migliaia di voci gridano i fogli democratici lungo le vie della città, come appunto avveniva in Parigi nel 1792. Bianchi-Giovini pubblica tra noi le sue Prediche Domenicali, o a Parigi il regicida Poultier pubblicava i suoi Discours dècadaires pour toutes les fétes répub. La Maga di Genova stampa essa pure le sue Prediche, e confrontandole con quelle del predicatore Poultier sulla libertà dei popoli, sui martiri della libertà, ecc. ecc., vi si trovano gli stessi pensieri e le medesime parole.... I moderali riflettano seriamente su questo confronto, e sappiano che la rivoluzione francese ha finito per divorare i proprii figli, e non dimentichino la sorte dei Girondini.

- 171 -

ATTENTATI IN SICILIA

(Dall'Armonia, n.581,4 dicembre 1856).

Il mattino del 4 dicembre 1856 leggevansi scritte sotto i portici di Po in Torino le seguenti parole: Italiani, sorgete! Aiutate la Sicilia! Il momento è supremo, Vota è suonata] Questa iscrizione alludeva ad un tentativo di rivolta avvenuto in Sicilia per opera di un certo Bentivegna. Ecco come questo attentato veniva riferito dalla Gazzetta di Genova del tre dicembre 1856. Il 22 novembre un movimento insurrezionale scoppiò nel Comune di Mezzojuso, che è popolato da 5,000 abitanti, e che è posto alla distanza di 24 miglia da Palermo. Alcuni individui di questo paese, appartenenti alla classe agiata, inalberano il vessillo tricolore, gridando: Vita la Costituzione, viva la libertà, viva l'indipendenza della Sicilia! Essi cacciarono il giudice ed il maire, e disarmarono la guardia urbana. Nella notte arrestarono la vettura corriera, che fa il servizio da Messina a Palermo, s'impadronirono dei cavalli, e lasciarono i viaggiatori perfettamente tranquilli.

Il luogotenente generale principe Castelcicala, avendo avuto notizia di questi fatti, spedì immediatamente a Mezzojuso il 7° battaglione dei cacciatori, che conta 1,000 nomini, e un mezzo squadrone di cavalleria. Questa forza partita nella notte della domenica, è giunta a Villefrati, Comune vicinissimo a Mezzojuso, e vi stabilì il quartier generale. La polizia di Palermo prese molte precauzioni;, ella procede all'arresto di parecchie persone sospette. La sera numerose pattuglie. Le truppe son consegnate nei loro quartieri.

RIVOLUZIONE SICILIANA

(Dall'Armonia, n.281,4 dicembre 1856).

E dalli, e picchia, e mena, finalmente scoppiò la sollevazione nel regno dello Due Sicilie! Sono più di sei anni che il giornalismo libertino, il quale ha il monopolio della pubblica opinione, predica giorno e notte ai Napolitani: Ribellatevi. Il Re di Napoli è trattato da questi diarii colla moderanza, che loro è propria; quindi non havvi titolo d'obbrobrio o d'infamia, che non sia gittato in Taccia a quel sovrano. Fanno eco a' giornali gli uomini di Stato ne' loro scritti e alle ringhiere dei Parlamenti, specialmente inglese e piemontese, e costoro s'avviliscono al segno di muovere guerra svergognata ad un sovrano con cui sono in relazioni d'amicizia. E intanto gli Inglesi specialmente, per mezzo del loro rappresentante in Napoli, cercano ogni modo di attaccare brighe cogli uffiziali dello Stato, e massime della polizia, pretendendo d'essere esenti dalle leggi e da' regolamenti, a cui tutti sono soggetti pel mantenimento del buon ondine.

Sono più di sei mesi che la diplomazia, con iscandalò inaudito, osò nel Congresso di Parigi condannare il Re di Napoli come reo di lesa umanità, e pigliare sfacciatamente il patrocinio di qualche decina di ribelli, i quali, assumendo il compito di rappresentare il paese delle Due Sicilie, vanno gridando dappertutto contro la tirannia, la crudeltà, la ferocia del loro sovrano.

- 173 -

Ma dicendo che la diplomazia assunse il patrocinio di un branco di fuorusciti, non parliamo del tutto esattamente, perché, delle sette Potente a quel Congresso rappresentate, tre solamente dimenticarono i più elementari principii del diritto delle genti; e se le altre permisero che nel protocollo fosse posta quella disonorevole tirata contro Napoli, forse ciò avvenne perché altrimenti l'opera della pace avrebbe incontrato nuovo scoglio.

Ma il colmo a questo indegno procedere fu posto colle note di Francia e d'Inghilterra al governo delle Due Sicilie, e colla minaccia dell'imminente partenza delle flotte anglo-francese per recarsi nelle acque di Napoli. E questo disonesto divisamente sarebbe stato messo ad esecuzione se in buon punto la Russia non si fosse posta in meditazione. Essa protestò che non teneva il broncio contro i soprusi fatti dalle due grandi Potenze al Re di Napoli; ma che solamente meditava. Quali fossero le considerazioni fatte in quella meditazione, noi sappiamo bene esattamente. Come neppure sappiamo in modo certo quali fossero i proponimenti (dicono i maestri che la meditazione senza proponimento è adoprar l'ago senza filo) della Russia. Tuttavia Francia ed Inghilterra, che se ne intendono, non pronosticarono nulla di buono per loro da quella meditazione. Ma siccome esse si trovavano già troppo impegnate in questo non troppo onesto affare, non vollero dare indietro per puntiglio d'onore: «come (intravviene in casi simili, diedero un colpo sul cerchio e l'altro sulla doga. Non mandarono più le armate navali nelle acque di Napoli, e con ciò cedettero alla meditazione della Russia: richiamarono i loro rappresentanti da Napoli, e con ciò dichiararono esse stesse soddisfatto all'onore. Tutto il mondo però dice che tanto fracasso finì in una chiassata, e che le due prime Potenze del mondo intascarono uno schiaffo ricevuto dal piccolo Re di Napoli.

Ciò che non poterono far le flotte francese ed inglese, ciò che non poté fare la diplomazia, cioè di ribellar il paese delle Due Sicilie contro il Sovrano, si tentò di fare per altra via. Perciò si die mano a spargere in Napoli ed altrove scritti scellerati eccitanti il popolo a tumulto; e di que' scritti a modo di cartelloni furono alcuni trovati appiccicati alle cantonate di Napoli, non sappiamo quante mattine. Quello che sappiamo si è, che in Piemonte i giornali stamparono proclami quasi Io stesso giorno, che erano stati pubblicati in Napoli: ed altre volte in Piemonte fu stampato, che a Napoli il mattino del tal giorno eransi veduti affissi alle mura proclami eccitanti il popolo a sollevazione, e non vi era nulla. La qual cosa vuoi dire, che il divisamente non poté essere mandato ad esecuzione. Imperocché bisogna sapere, che quei proclami furono stampati in Piemonte da coloro stessi che fecero pubblicare sui nostri diarii la notizia della pubblicazione a Napoli, e che furono introdotti sul suolo napoletano per vie proibite dal diritto delle genti. Della qual cosa niuno farà meraviglia: la diplomazia che violò il diritto delle genti contro il Re di Napoli ne Congresso di Parigi e nelle Note posteriori al Congresso, non può avere alcuno scrupolo nel coprire col suo sigillo gli involti di bandi per ribellione.

- 174 -

Questi bandi non sono più rivoluzionarii che il Congresso, che le Note, che le flotte, le quali si avviarono alla volta di Napoli.

Ora tutta questa tempesta, tutto questo fracasso, tutto questo turbine, diretto a mettere a tumulto il paese, dove andò a parare? Parturient montes, nascetur ridiculus mus. La sollevazione non trovò presa, che in un villaggio della Sicilia, lontano dal centro del governo, Palermo, in cui non avvenne altro che un 100 arresti di persone più o meno sospette. Per noi non solamente non siamo meravigliati di questa sollevazione, ma siamo meravigliati che sia stata fino al presente differita, e che non abbia avuto altro risultato tutto quel fracasso che d'ingannare qualche centinaio di villani. A quei poveretti chi sa quali fandonie furono fatte credere I Che le imposte saranno non solo diminuite, ma tolte affatto; che il pane sarà dato ad un soldo la libbra; che tutti potranno essere nominati ad alti impieghi; che ogni loro desiderio sarà esaudito, ed altre somiglianti promesse, che i tribuni della plebe sogliono gittare al popolo per accalappiarlo, e per indurlo a sostenere le loro pretese di governare a nome del popolo.

Come? Quel popolo che geme sotto la feroce schiavitù del Re di Napoli, il cui governo non trova nessuno scontro neppure ne' Neroni e ne' Caligola; quel popolo che ad una voce grida alle Potenze di correre in suo aiuto per sottrarlo dalle unghie di quel barbaro; quel popolo che odia cane pejus et angue i suoi oppressori, dopo tanti eccitamenti, sapendo che le navi inglesi sono lì per sostenerlo nella sua ribellione, se ne sta così tranquillo come godesse le beatitudini dell'Eden? Noi vorremmo che si permettesse di fare un centesimo di quel che si è fatto per ribellare il popolo napoletano retto a feroce dispotismo, ad un altro popolo qualunque retto a libertà, e mettiamo pegno di cento contro uno, che da lunga pezza sarebbe andato in fiamme. Poniamo, per esempio, il Piemonte: chi dubita che qui tutto il popolo, senza distinzione, è affezionatissimo, anzi innamorato fradicio della libertà? Chi dubita che l'immensa maggioranza è devotissima al ministero Cavour? chi dubita che il rispetto e la soggezione al sovrano è tale, che nulla può smuovere il popolo dalla più rigorosa legalità, anzi dalla più illimitata sommessione?

Eppure dite un po', che i diplomatici facciano stampare sui nostri giornali contro il Piemonte ciò che fecero stampare contro Napoli? Dite un po' che un giornale osi gittar un motto meno che riverente, anche solo in apparenza, per isbieco, per doppio senso, contro le libere istituzioni: il Ciel ne liberi! Noi, solamente per aver detto che il dì della festa dello Statuto faceva cattivo tempo, abbiamo avuto un migliaio di lire di multa, ed il nostro gerente a battere le gazzette in cittadella per quattro mesi. Ed ora, non abbiamo un altro processo, perché riportammo una menoma parte e la meno rea di un pessimo scritto contro il Re, protestando e riprotestando, che biasimavamo quelle ingiurie, e che in ogni caso dovevano cadere sopra il ministero, e giammai sul Sovrano sempre irresponsabile?

Tutto questo significa, che, anche dove le libere istituzioni gittarono così profonde radici come in Piemonte, il ministero opina, che una sola nostra parola può schiantarle issofatto. E come adunque in Napoli, dove il terreno era tutto polvere da fuoco,

- 175 -

a cui bastava una scintilla per farlo saltare io aria, da sei anni si versano torrenti di fiamme, ed invece di andar tutto a fuoco, non diede che un po' di fumo in un angolo remoto di un'isola! Diacinel che una parola dell'Armonia sia più potente a distruggere le libere istituzioni in Piemonte, che non la Francia, l'Inghilterra e la rivoluzione insieme confederate, per distruggere il dispotismo a Napoli? Per noi siamo fuori del secolo dallo stupore!

Ad ogni modo, salvo miglior giudizio, troviamo più semplice e naturale la cosa, ed è, che il dispotismo napoletano non esista che nel cervello dei Francesi, che vorrebbero sostituire Murat a Ferdinando II, e degli Inglesi, che agognano alla Sicilia.

________________

L'8 dicembre 1856, festa dell'Immacolata Concezione, Ferdinando II Re di Napoli aveva assistito alla S. Messa insieme colla Famiglia Reale con tutti gli alti funzionarii, col Municipio, e 25,000 uomini d'ogni arma. Dopo la Messa le truppe presenti vennero passate in rivista. Re Ferdinando presiedeva allo sfilare della truppa, quando un giovane soldato, Agesilao Milano, uno degli insorti in Calabria nel 1848, amnistiato nel 1852 ed entrato nell'esercito con carte false, osci dalle file, e lanciossi sul Re, avventandogli un colpo di baionetta. Il colpo fu ammortito dalla fonda delle pistole sospese alla sella del cavallo, ed il Re n'ebbe lievissimo danno. Un colonnello degli Ussari, il sig. di Latour precipitossi sull'assassino, e lo atterrò. Questi venne arrestato, e la sfilata proseguì. La sera grandi feste in Napoli, e il popolo tripudiò perché il suo sovrano era scampato da tanto pericolo. Agesilao Milano venne processato, condannato il 12 dicembre e giustiziato il mattino del giorno seguente.

ATTENTATO CONTRO IL RE DI NAPOLI

(Dall'Armonia, n.187,12 dicembre 1856)

L'attentato d'assassinio contro il Re di Napoli è la più solenne e la più incontestabile condanna di tutta quella orda rivoluzionaria che da parecchi anni spira fuoco e fiamme contro quel monarca. Esso mette il suggello all'infamia, di cui si coprirono que' plenipotenziarii del Congresso di Parigi, i quali si avvilirono al segno di farsi eco degli schiamazzi della piazza e del trìvio. Quell'attentato da una mentita a tutte le calunnie della stampa inglese, francese e piemontese, ed alle asserzioni che tutto il popolo del regno delle Due Sicilie odia e detesta in modo orrendo la tirannia del suo sovrano.

Come? un popolo bollente come quello del regno; un popolo che sa di essere sostenuto da tutta la stampa, che si arroga il monopolio della pubblica opinione; un popolo che ha dalla sua le due maggiori Potenze del mondo; un popolo che da tutti questi mezzi incendiarii è eccitato alla rivolta contro il suo sovrano, non solo non si ribella contro di lui, ma è preso da indignazione contro un branco di sconsigliati, che alzano l'insegna della rivolta, e, non che aiutarli nella loro sollevazione, piglia le parti del suo sovrano!

- 176 -

E questo popolo odia il suo sovrano? E questo popolo è oppresso dal più duro dei tiranni da non trovare riscontro che nei Neroni e nei Caligola? E coloro che spacciano queste fole trovano ancora chi loro presta fede? E fra questi credenzoni vi hanno uomini di Stato, diplomatici, ministri, sovrani, imperatori? Philosophorum credula natio, disse Seneca; noi potremmo dire dei politici ciò che quegli disse dei filosofi: Politici, razza di credenzoni. E diciamo i politici da caffè e da bettola; perché i politici da gabinetto s'infingono di credere per darla a bere

Intanto avete veduto la galleria che fecero i nostri diarii di quella rivoluzione in miniatura? e come s'accapigliarono tra loro? Sì, la sollevazione corre trionfante tutta l'isola: anzi ha già preso di qua dal Faro; - no, non vi sono che due o tre villaggi ed una cittadella, che parteggiano pei sollevati. - Tutto è tranquillo. - No, tutto è in fuoco. - Vi dico che è finita. -Vi dico che non fa che cominciare. - Tutto il paese è a soqquadro, altrimenti il governo di Napoli ci farebbe sapere qualche cosa. - Tutto è finito, altrimenti il governo inglese, il francese, il piemontese, avrebbero già pubblicato le vittorie dei ribelli.

Ed ecco il telegrafo che tronca i dibattimenti; l'8 di dicembre si attenta alla vita del Re di Napoli. Dunque la rivoluzione è spenta; dunque la rivoluzione non consistette che nell'inganno di quel centinaio di contadini che furono abbindolati da un barone Bentivegna (e sta volta fu Maltivegna) e trascinati a quel pazzo molo. Ah! vedete un po', se la rivoluzione si condusse dignitosamente, civilmente, non (spargendo U sangue, come ce la piantavano i nostri carotai: Non ispargere sangue! fuorché quello del sovrano, ci s'intende. -Che volete? tirarono a far le cose bene; e cacciare il Re con buona grazia, come Carlo X, e Luigi Filippo. Ma quel popolo lazzarone, invece di pigliarsela contro il suo abborrito sovrano, se la piglia coi Don Cìcilli (i libertini). Non c'è modo, né verso, questo popolo maccarone bisogna farlo beato anche a suo dispetto; e noi siamo qui per uno, anzi per cento a beatificarlo. Non vogliono cacciare dal paese il Re Bomba; e noi lo caccieremo dal mondo.

E quindi capirete quanta rabbia abbia messo in corpo ai libertini il vedere, che la popolazione si mostrò sdegnata contro quell'infame e vilissimo attentato. Di fatto il dispaccio telegrafico trasmessoci ieri, dopo quelle parole: la popolazione si mostrò sdegnata, recava un sic! Il che vuoi dire, che colui che fece il dispaccio, o dubita del fatto, o lo disapprova. Ora il dispaccio a noi viene per gli ufficiali del governo; ed il ministero esercita la misura preventiva sopra tutti i dispacci. Dunque... ognuno può tirarne la conseguenza. Ah, dunque potete dubitare un'istante, che un popolo non sentasi sdegnato in vista di siffatta infamia? Si capisce che coloro, i quali ricettano gli assassini del proprio sovrano, che li onorano, che li ascrivono nel novero dei cavalieri, dei legislatori, dei si capisce, che rimangano impassibili alla vista d'un regicidio; anzi, vi facciano plauso. Ma chiunque non ha cuor di tigre in petto, chiunque non ha fatto il giuramento di spegnere col braccio, ed infamare colla voce i tiranni e la tirannide politica e morale, cittadina e straniera, sente raccapricciarsi per l'orrore a sì orrendo misfatto; ed è preso da sdegno contro quel vilissimo, che vigliaccamente assale un uomo, il quale pacifico e senza sospetto se ne va per la sua via.

- 177 -

Non havvi che la civiltà libertina, la quale sia indulgente ai traditori ed ai vili assassini.

Noi vorremmo per l'onore d'Italia poter dire che l'assassino è un misero fanatico, il quale, accesosi la fantasia per la lettura dei giornali, delle arringhe parlamentari, delta note diplomatiche, si è lasciato condurre a quell'infame parricidio. Ma la verità storica ci toglie quest'ultima consolazione in tanto dolore per l'infamia che ridonda a questa povera Italia, che gli stranieri per orrendo strazio chiamano terra degli assassini. Non vogliamo far conto dette parole vaghe di coloro, i quali, prima che arrivasse la notizia dell'assassinio, davano per sicuro che, riuscisse o no la sollevazione siciliana, le cose del regno dovevano cambiare, e che ad ogni modo la Costituzione vi sarebbe ristabilita. Ci piange il cuore d'avere troppi argomenti per provare che nel nostro paese si sapeva che al Re di Napoli doveva incogliere ciò che a Pellegrino Rossi. Ed appunto siccome i giornali di Parigi pubblicarono la morte di Pellegrino Rossi quasi nello stesso tempo che accadeva in Roma: così tra noi lo stesso giorno dell'attentato contro il Re di Napoli si scriveva con parole coperte di velo trasparente quanta avveniva a Napoli.

La Vespa di Genova, N° 7, erede della fu Maga, stampava il 9 (e quindi era scritto il dì 8} un articolo intitolato: Povero Bomba, che comincia così: «Se vi «saltasse mai, o lettori, di pregare ad un vostro nemico un malanno, ma di quei t buoni (parlo per modo di dire), augurategli la posizione PRIVATA e politica del povero Bomba: «vi assicuro che in quanto a me non vorrei essere «io la regina di Napoli. Figuratevi un uomo come quello che ha contro tutto «l'universo, che è detestato da tutti i Re, da tutte le nazioni, come può vivere a tranquillo nella sua reggia». E dopo avere riandato ciò che fecero contro dì lai diplomatici e sovrani, dice che egli non ha tanto da temere de' suoi nemici esterni, quanto da' «suoi popoli, che lo amano alla pazzia, che vorrebbero averlo un poco nelle mani por farlo ballare. E ricapitolando con un po' di geometria gli elementi di questa sua posizione imbarazzata, trova che dinnanzi, a destra, a sinistra, ha nemici da per tutto: «Di dietro poi, ed anche e tutto all'intorno, il fermento dei popoli, le imprecazioni, i lamenti dei torturati, le larve delle vittime e il PERICOLO IMMINENTE DI UNA BOTTA SUL CRANIO - e aggiungete momentaneamente la rivoluzione in Sicilia, e giacché si dice ohe l'abbia fatta comprimere, avrà di più nuovi rimorsi, nuove stragi sull'anima, ecc.» Dal che si vede che la compressione della rivoluzione di Sicilia e la botta sul cranio sono due cose correlative. Come «dire: abbiamo fatto l'ultimo tentativo; non è riuscito, dunque una botta sul cranio.

Il fine dell'articolo è d'una feroce ironia, che ricorda i frizzi di Don PirIone il giorno avanti l'assassinio di Pellegrino Rossi. Eccolo tale quale: - «Dunque vedete, lettori carissimi, se non è un brutto impiccio quello del povero Bomba! E si può dire che è l'unico al mondo che ai trovi così bersagliato! È come un debitore alla vigilia della Malapaga, che si danna e non trova più un soldo da nessuno perché ne ha truffati abbastanza. - Ora badate un po' all'umana fortuna, come travisa le cose! Un re così divoto, così santo, che si confessava tutti i giorni a Gaeta, che ha non so quanti milioni di benedizioni addosso, doverla finire cosi malamente! s'io fossi, povera Vespa, un po' più ardita, vorrei andargli all'orecchio e dirgli:

- 178 -

Maestà, voi siete in grazia di Dio, date una tolta bando alle cure del mondo, lasciatevi mettere nel Calendario dei Santi..."»» A noi non regge l'animo di commentare più oltre le parole di questa sentinella perduta dei mazziniani. Lo scherzare sulla vittima che ha scannata, è proprio degli Uroni e degli Irocchesi. Dio ha stornato la Malapaga, di cui il Re di Napoli era alla vigilia, ed invece del luogo nel Calendario de Santi, destinato da'mazziniani a quel sovrano, vi ha un nuovo martire nel martirologio del pugnale, consacrato dalla scuola italianissima. Ci cade la penna di mano pensando che questo nuovo marchio d'infamia è stampato sul nostro paese.

RISPOSTA DEL NOSTRO RE

A UN INDIRIZZO PROTESTANTE

(Dall'Armonia, n.1,2 genn.1856).

Quasi tutti i Piemontesi restarono santamente dolenti ohe, durante la dimora del nostro Re in Londra, si fossero augurati buoni successi ad un'associazione protestante; giacché simili augurii non si poteano conciliare col cattolicismo, e oltrepassando i termini della tolleranza, giangevario, interpretati strettamente, fino ad una dichiarata apostasia. Noi, riferendo quegli augurii tra la più viva amarezza, non abbiamo tralasciato di osservare come si dovesse distinguere tra il p. e e il ministero, e questo fosse che augurava buoni progressi al protestantesimo, mentre quello manifestava la sua fede recandosi alla cappella cattolica, che Casa Savoia fondò da tanto tempo in Londra.

Ciò nondimeno tale era lo scandalo venuto in Piemonte per quelle malpensate parole, che v'aveva bisogna assoluto d'una dichiarazione tanto rispetto ai cattolici quanto ai protestanti; affinché i primi non piangessero come perduto il loro fratello, e non s'inorgoglissero i secondi per una preziosa conquista.

Eia cosa fu fatta,, e apposto al male un qualche rimedio. Imperocché è da sapere, che mentre il nostro Re stava in Inghilterra, alcuni caldissimi protestanti d'Edimburgo furono a consiglio per presentargli un indirizzo, e nell'adunanza o meeting, come dicono, che tennero per ciò, uscirono nelle più villane contumelie contro il Papato, e deliberarono infine un indirizzo, ne) quale, dopo alcune parole di complimento, esprimevano al nostro Re l'ammirazione degli abitanti d'Edimburgo per gli sforzi magnanimi da lui fatti affine di stabilire Me' suoi Stati la libertà civile e religiosa.

Vittorio Emanuele II non volle accettare quegli encomii senza una qualche dichiarazione, epperò die ordine al suo rappresentante in Londra, che leggesse ai signori d'Edimburgo una risposta, nella quale si ritrovasse un'aperta professione della sua fede cattolica. Noi non sappiamo quando questa risposta venisse comunicala, ma essa non vide la luce che di questi giorni. Il Morning Advertiser pubblicala in Londra, e poi in Parigi i principali diarii, e tra questi l'Universe il Journal des Débats.

Quanto si contiene in essa, non è tatto oro in verga, e parecchie espressioni non paiono misurate colla stregua del puro cattolicismo.

- 179 -

Ad ogni modo, la professione di fede, che vi fa il nostro Re, è franca e completa. Il ministro poi, che la stese, fu dalle circostanze condotto ad aggiungervi certi tocchi, certe riserve, certe accuse, che non sono né giuste, né vere, né convenienti.

Incominciamo in prima dal riferire questo documento, e poi ci appiccheremo alcune osservazioni, le quali ci paiono indispensabili. Noi vogliamo il cattolicismo in tutto e per tutto, e non ammettiamo su questo punto né transazioni, né condiscendenze. Come che si parli e straparli di tolleranza, bisogna, riconoscere, che la verità è intollerantissima, e se sa tollerare gli erranti, non può però mai tollerare Terrore.

Ecco dunque la risposta all'indirizzo. Risposta all'indirizzo dei protestanti d'Edimburgo, data dal Re di Sardegna

per mezzo del suo rappresentante in Londra.

Signori, il Re si é dimostrato molto soddisfatto dei voti che voi formate, nell'indirizzo che gli rimetteste, per la prosperità del suo regno e per la sua confederazione con Inghilterra e Francia a difesa delle libertà europee. S. M. fu altamente sensibile agli elogi che voi compartite alle truppe sarde, le quali partecipano in Crimea ai comuni pericoli, e fortunatamente ancora agli allori, che ne sono la ricompensa.

Nondimeno io non posso dissimularvi, che S. M. provò un estremo dispiacere in udire le espressioni di disprezzo, colle quali il vostro indirizzo offende la Corte di Roma. Il Re, ad esempio de' suoi antecessori, ha creduto suo dovere di mantenere intatto presso di sé il potere civile. Poté deplorare profondamente la linea di condotta, che la Santa Sede si credette in dovere di adottare in questi ultimi anni a suo riguardo. Ma, come discendente d'una lunga serie di Principi cattolici, e Sovrane di sudditi quasi totalmente cattolici romani, non potrebbe ammettere parole tanto severe di riprovazione, e cotanto ingiuriose per il Capo di questa Chiesa sopra la terra. Non può aderire a questi pensieri di disprezzo, che non solo non troverebbero accesso nel suo cuore, ma che sopratutto non potrebbero mai trovar posto in una risposta come quella, che ho l'onore di dirigervi.

«Il vostro indirizzo esprime in seguito la speranza, che Sua Maestà estenda, a' suoi sudditi di tutte le credenze i privilegi, che sono stati conceduti ai valdesi. Sono lieto d'informarvi, che i vostri voti sono già adempiuti. Il re Carlo Alberto emancipando i valdesi, ha voluto estendere questa misura non solo ai protestanti di tutte le denominazioni, ma anche agli israeliti, i quali ne' suoi Stati godono in comune degli stessi diritti civili e religiosi.

Rivendicando in tal modo i sentimenti ben conosciuti del Re, non dubito punto d'avergli procacciato un titolo di più alla vostra stima, poiché, Sovrano cattolico romano, egli ha provato, che agli occhi suoi la religione era il simbolo della tolleranza, dell'unione e della libertà, e che uno dei principii, che formano la base del suo governo, era la libertà di coscienza.

«Gradite, o signori, l'attestato della mia alta considerazione.

«Marchese V. E. D'Azeglio».

Ora a noi. e II Re, dice il Marchese d'Azeglio, ad esempio de' suoi antecessori, ha creduto suo dovere di mantenere intatto presso di sé il potere civile».

- 180 -

Ma il sig. Marchese s'inganna a partito, giacche fu fatto in Piemonte tutto l'opposto di quello che fecero gli antecessori del nostro Re. Di fatto Vittorio Emanuele 1 stabilì i conventi tra noi, e que' conventi vennero distrutti; Carlo Felice contrasse l'obbligo di pagare le congrue ai parrochi, e quel pagamento venne negato: Carlo Alberto stabilì con un concordato l'immunità ecclesiastica in fede e parola di Re, e quel Concordato fu rotto. Gli antecessori del nostro Re avevano fondato l'Accademia Ecclesiastica di Superga, e non esiste pili; proteggevano la Compagnia di S. Paolo, e venne incamerata; rispettavano i beni dei conventi e delle chiese, che ora si trovano in quel sacco senza fondo, che chiamasi Cassa Ecclesiastica,

Noi non abbiamo mai preteso, che il nostro Sovrano facesse più di quello, che fecero i suoi gloriosi antecessori. A lui chiediamo colle mani a croce e colle lagrime agli occhi, che ordini ai suoi ministri di accordarsi colla S. Sedecome Vittorio Amedeo 11 accordavasi con Benedetto XIII; come Carlo Emanuele III accordavasi con Benedetto XIV, Clemente XIII, Clemente XIV; come Vittorio Amedeo III accordavasi con Pio VI, Vittorio Emanuele I con Pio VII, Carlo Felice con Leone XII, e Carlo Alberto con Gregorio XVI. Questo chiediamo, e nulla di più.

Ma il Marchese d'Azeglio deplora profondamente la linea di condotta che la S Sede si credette in dovere di adottare in questi ultimi anni. Il signor Marchese ha dimenticato che la linea di condotta della S. Sede verso il Piemonte non è più un mistero. Tutti hanno potuto leggere il volume di documenti pubblicati dalla segreteria di Stato del governo pontificio, e vedere l'amorevolezza, la condiscendenza, la longanimità del Santo Padre verso di noi; e il modo indegno e sleale adoperato dai diversi gabinetti subalpini. Che cosa seppe ridire il nostro ministero a quei documenti? Nulla affatto. Almeno il ministero spagnuolo tentò una risposta; ma il nostro non seppe che ricorrere ad un epigramma.

Non deplori adunque il Marchese d'Azeglio la condotta della S. Sede, ma deplori quella piuttosto de' suoi ministri. Altrimenti egli si 'governa come le donne ebree, che piangevano su Gesù Cristo, mentre dovevano piangere invece sui suoi crocefissori e proprii mariti.

Il Marchese d'Azeglio, che sta in Londra, non conosce gran fatto la legislazione del suo paese, se no egli non avrebbe detto a que' d'Edimburgo che Carlo Alberto, emancipando i valdesi, ha emancipato tutti i protestanti. Carlo Alberto non potea emancipare altri protestanti che i valdesi, essendo questi i soli che tollerava nello Stato, a seconda dello Statuto fondamentale del regno.

Finalmente il sig. Marchese d'Azeglio entrando in teologia disse ai protestanti, che la religione cattolica è il simbolo della tolleranza. La sentenza ò falsissima nel senso in cui s'intende; imperocché tolleranza vuoi dire indifferenza per ogni maniera di culto. Ora la Chiesa Cattolica è intollerantissima per l'errore, sebbene, come dicevamo, amantissima verso gli erranti. Essa non vedrà mai di buon occhio sorgere un tempio valdese, e piangerà sempre quel fatto come una grande disgrazia; mentre con tutti i mezzi legittimi s'adopererà sempre per l'estirpazione dell'eresia, e pel trionfo della verità.

- 181 -

La libertà di coscienza sarà sempre rispettata dalla Chiesa, che de intemis non judicatm non la libertà dei culti, che essa solennemente condanna. Nonostante questi principii, la Chiesa Cattolica non ricorse mai ai mezzi abbracciati dalle sette pel trionfo dei loro errori, E il Marchese d'Azeglio parlando a que' d'Edimburgo, che chiedevano tolleranza, avrebbe molto a proposito potuto ricordare la fine sciagurata che fece, tempo è, nella capitale della Scozia il cattolico e torinese Davide Rizzio.

Costui erasi recato in Edimburgo col conte della Moretta, rappresentante di Casa Savoia presso Maria Stuarda, e le. serviva da segretario. Enrico Stuart Darnlev, sposo alla Stuarda, era messo sii dai fanatici seguaci di Knox, e mentre aspirava alla Corona, volea pure sottrarre la Scozia alla Santa Chiesa Cattolica. Rizzio, fedele alla sua Sovrana ed alla sua religione, vi si opponeva coi consigli; onde i settarii divisarono di trucidarlo. E fecero secondo il divisamento, giacche due sicarii, il Duca di Rothsav e Ruthwen, lo pugnalarono dopo di averlo strappato dai fianchi della sua Regina. Questa fu la tolleranza che c'insegnarono i protestanti d'Edimburgo sulla persona di un nostro concittadino. Ma, viva Dio! i Reali di Savoia non impararono, né saranno mai per imparare la dolorosa e sanguinosa lezione.

I FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE

E IL MUNICIPIO DI TORINO

(Dall'Armonia, n.4,5 gennaio 1856).

La malizia, la calunnia, l'empietà, l'odio della buona educazione, lo sperpero del pubblico denaro, vinsero il partito, e i Fratelli delle Scuole Cristiane vennero licenziati nella tornata del 3 di gennaio 1856 dalle scuole elementari del Municipio di Torino. Nepomuceno Nuytz, assunte diligenti ed accurate informazioni, dichiarava che le medesime riuscirono in gran parte ad elogio dei Fratelli delle Scuole Cristiane e non v'avea per certo luogo a sospetto che questa dichiarazione muovesse da parzialità. Ma lo spirito di parte pili potò che l'amore del bene.

I Fratelli, secondo Nuytz, sono attivissimi e precisi nell'adempimento dei loro doveri. Eppure il Municipio di Torino li licenzia dalle scuole per affidarle a chi più tardi farà un brutto mercimonio dell'insegnamento! Le scuole dei Fratelli, secondo Nuytz, sono perfettamente ordinate. Eppure il nostro Municipio le toglie ai medesimi per darle a chi vi getterà lo scompiglio, il disordine, la corruzione, l'empietà! L'insegnamento che danno i Fratelli, secondo Nuytz, è eccellente: il superiore che presiede le scuole, è meritevole dei maggiori encomii. Eppure e Fratelli e superiore vengono ripagati del tanto bene che fecero ai fanciulli con un insulto, e sono messi alla porta con un'inciviltà, con una barbarie finora inudita negli annali della nostra capitale.

I Fratelli delle Scuole Cristiane sono innocenti, e negli appunti, che vennero scritti contro di loro, non v'ha nulla di vero. Nepomuceno Nuytz lo dichiara. Lo spionaggio, non esiste prova che sia incoraggiato; non shanno argomenti per credere alla diffusione delle massime contrarie alle nostre istituzioni. L'insegnamento religioso, che danno, è superiore ad ogni rimprovero; i

- 182 -

libri, che fanno studiare, sono abbastanza buoni. Eppure i Fratelli vengono licenziati!

Ma voi dunque avete castigato gli innocenti; voi avete privato il paese d'cccellenti educatori; voi ci avete tolto scuole elementari perfettamente ordinate; voi spogliaste la nostra città di attivissimi istitutori. E questa è buona amministrazione? E così si serve un paese? E pretendete al titolo di uomini civili, di amministratori liberali? con che logica vi governate? quale è la vostra coscienza? che cosa intendete per amor della patria?

Licenziati i Fratelli delle Scuole Cristiane, bisogna ricorrere ad altri istitutori. Questi, per confessione vostra, costeranno diciassette mila lire di più. E saranno poi egualmente eccellenti, egualmente attivi, dotti, ordinati, temperati, immuni da ogni rimprovero? 11 dubbio è permesso; e dato ancora che non si perdesse nel cambiamento, perché questo nuovo aggravio cagionato al Comune? Così dunque si scialacqua il denaro de' Torinesi? Per un puro vostro capriccio, non giustificato da nessuna ragione, noi dovremo gettare in malora diciassette mila lire?

La deliberazione del Municipio torinese è un Arbitrio, un'inciviltà, un'ingiustizia. È un arbitrio, perché le mutazioni non si debbono operare senza un qualche motivo, altrimenti sono argomento di stoltezza e di despotismo. È un'inciviltà, perché non si possono licenziare le persone benemerite che ci servono con affetto, con zelo, con frutto, ed alle quali non si può muovere il benché menomo rimprovero. È un'ingiustizia, perché bisogna spendere il meno che si può, ottenendo l'utile maggiore, e non è lecito squattrinare una città con balzelli continui, per poi adoperare quel denaro inutilmente, e forse in danno medesimo degli amministrati.

Voi ora chiamerete alle scuole elementari di Torino altri maestri. Lasciate correre un anno, un anno solo, e poi ci saprete dire se, fatta un'inchiesta su quelle scuole, colla metà della diligenza e dell'investigazione adoperata quando erano nelle mani dei Fratelli, ci saprete dire se le informazioni riusciranno egualmente favorevoli!

Ma quale è Io scopo principale, che s'ebbe nel licenziare i Fratelli delle Scuole Cristiane? Lo scopo si legge assai chiaro nella relazione di Nepormiceno Nuytz. L'istituto dei Fratelli, egli disse, sarà sempre proelite a sostenere le autorità ecclesiastiche. Ossia i Fratelli non insegneranno giammai ai loro allievi l'odio della religione, il disprezzo del Pontefice, del clero, della S. Chiesa. Epperò bisogna licenziarli.

Questa è l'unica accusa, che sia meritata e giusta. Sì, i Fratelli delle Scuole Cristiane sono i degni figli del beato De la Salle, e i caldi propugnatori del cattolicismo. Nelle lettere posfulatorie inviate al Sommo Pontefice Gregorio XVI da moltissimi tra Vescovi, Arcivescovi e Cardinali della Cristianità, affine di promuovere la beatificazione del loro fondatore, e pubblicate in Roma nel 1836, ritrovansi quaranta e più testimonianze di dignitarii della Chiesa in favore di questi religiosi.

In una di esse dicesi, che i Fratelli fanno un bene immenso nella diocesi di Mompellieri; in un'altra, che nella Chiesa Cattolica, dopo i ministeri sacerdotali, non ci ha cosa più utile delle umili e pie fatiche di questi religiosi; in un'altra che i successi di questi buoni Fratelli sono inauditi; in una quarta,

- 183 -

che destano ammirazione anche in coloro, che abborrhcono la virtù; in una quinta, che sono altrettanti nuoti Apostoli, che il nostro divin Salvatore teneva in serbo pei cattivi e difficili tempi in cui ci troviamo.

Il Cardinale Bartolomeo Pacca lasciò scritto dei Fratelli delle Scuole Cristiane: «Non è qui mestieri il menzionare tutti i frutti, coi quali Iddio già da circa due secoli ha rimunerato sopra tutto nella Francia le premure e le fatiche di questi religiosi per inspirare nei fanciulli ottimi principii di religione e di pietà. Ma quello che pare degno sopratutto di meraviglia si è, che questa congregazione si sia propagata maravigliosamente, e dapertutto sia chiesta in questi nostri tempi, tra quasi innumerevoli difficoltà, e nonostante gli inutili sforzi degli avversarii.

«Per queste ragioni volendo io provvedere al bene ed all'utilità della mia diocesi di Velletri, nulla mi parve più opportuno a ciò del chiamare questi religiosi nella città primaria del luogo, perché io affidassi alle loro cure la gioventù cristiana, e sopratutto i fanciulli. Né la mia speranza fu vana. Conciossiaché, in breve tempo quella tenera età fu coltivata da essi così diligentemente e cosi bene instruita circa ogni dovere della vita cristiana, che l'evento superò non solamente la mia, ma la comune espettazione».

In questi attestali dei Vescovi stanno le ragioni delle ire dei rivoluzionarii contro l'istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Immaginate 1 Chi fa le carte nel nostro municipio è un cotale che inventa di suo capo un calendario del 1813 per calunniare un prete; che scrive i più sconci articoli della Gazzetta del Popolo. E a suo collega sta all'amministrazione del municipio di Torino uno scrittore del Fischietto pagato dal pubblico per fare il buffone del popolo, come una volta si pagavano i buffoni dei Re.

La Gazzetta del Popolo e il Fischietto vi definiscono pertanto il municipio della città di Torino, e questo municipio licenziando i Fratelli delle Scuole Cristiane ba scritto un articolo buono pei due giornali. Buono pel primo, stante l'empietà della misura e l'odio alla religione, di cui è figlia; ottimo pel secondo, giacché nulla di più ridicolo d'un potere municipale, il quale licenzia istitutori eccellenti, si mette al rischio di non ritrovarne eguali, e intanto sottosta alla spesa maggiore |di 17 mila lire! Oh! si mandi al Fischietto ed alla Gazzetta del Popolo il famoso deliberato, affinché così Tu no come l'altro giornale lo pubblichino ufficialmente! La Gazzetta del Popolo potrà metterlo in luogo del suo articolo di fondo; e il Fischietto..... invece della sua ordinaria caricatura!

Del resto Luigi Napoleone, che conosce assai bene i Fratelli, e sa in quanta rinomanza sieno salite le scuole di Passy, e quanta venerazione portino i Parigini all'istituto che ha sede in rue Plumet, giudichi i suoi confederati e le opere loro! Tra noi il Governo non ebbe il coraggio di sopprimere gli Ordini religiosi addetti all'insegnamento. Ma ciò che non fecero i grandi, fanno i minori, e così l'opera di distruzione continua, e il povero Piemonte vede di giorno in giorno cadere i suoi migliori istituti.

- 184 -

LA PAROLA DI PIO IX

OSSIA IL DOLORE, LA GIOIA E LA SPERANZA DELLA CHIESA

(dall'Armonia, n.17,21 gennaio 1856)

Celebre predicatore belga, e degno emulo dei padri Ravignan e Lacordaire, è il padre Dechamps, Redentorista, la cui orazione funebre in morte della Regina del Belgio levò gran fama in tutta Europa, mostrando non essere spenta quella eloquenza cattolica, che ispirava il gran Bossuet. Il Vescovo di Langres diceva di quest'orazione funebre: «io Tho letta con ammirazione. Ingegno, grazia, profondità, sentimento, tutto vi trovai, e in un grado che m'avvenne raramente di trovare, massime nei moderni. E il signor Guizot, giudice così valente: «L'orazione funebre della Regina del Belgio, detta dal padre Dechamps, è, a mio avviso, il miglior brano d'eloquenza cristiana, che venisse scritto da venticinque anni in qua».

Il padre Dechamps recita sovente conferenze nelle chiese di Brusselle, ma di rado, come il padre Ravignan, le manda alle stampe. Pubblicò di corto tre conferenze col titolo: La parola di Pio IX, ossia il dolore, la gioia e la speranza della Chiesa. In questi ultimi tempi il Sommo Pontefice parlò tre volte solennemente al mondo. La prima volta annunziava il giubileo del 1854 con un'Enciclica relativa ai dolori della cristianità ed alla definizione sospirata del domma dell'Immacolata Concezione. Allora il Papa esprimeva il dolore della Chiesa.

La seconda volta il Pontefice parlava per proclamare la definizione dommatica dell'Immacolata Concezione di Maria Santissima ed in quel giorno manifestava tutta la gioia della Chiesa Cattolica.

La terza volta il Sommo Pontefice parlava nel Concistoro del 9 di dicembre, e constatando il progresso degli spiriti verso la verità, e un ritorno verso la fede, scopriva gli errori, che restavano da combattere, e le armi che bisognava scegliere per aiutare le anime a vincerli. Era quella la speranza della Chiesa.

Ecco l'idea madre, che domina il libro del padre Dechamps, idea ammirabilmente svolta in tre conferenze.

Parlando dei dolori della Chiesa, discorre di tre epidemie, che fecero tanta strage delle nazioni: le epidemie corporali, l'epidemia demagogica, che è il male pubblico per eccellenza, e il flagello della guerra.

Ma v' ha un'altra epidemia più fatale ancora, che rode i visceri della società, ed è quella delle dottrine perverse. Ecco il male morale, che bisogna scongiurare; ed è per questo, che Pio IX ha domandato le preghiere del mondo. Questo male morale è l'indifferenza in punto di religione, è la morale senza dommi, è il culto della natura, è quella religione, che si chiama del libero esame e del progresso. L'oratore ribatte uno ad uno questi errori, dimostra, che il razionalismo è irrazionale, e che, mentre invoca la libertà d'esame, nega di esaminare la dottrina della Chiesa. Per dare un saggio dello stile del padre Dechamps, citiamone alcune linee:

- 185 -

«Del progresso tocca a noi cristiani parlare, a noi, i quali sappiamo, che chi non progredisce, va indietro, e che tutti gli sforzi degli uomini e dei popoli non raggiungeranno giammai la perfezione dell'Evangelio, costituzione divina del progresso, data all'uomo scaduto dal Capo della nuova umanità. Non enim Angelis subiecit Deus orbem terrae fulurum de quo loquimur.

«Tocca a noi cristiani parlare del progresso, i quali, non solo conosciamo Taltezza dei nostri destini, ma che inoltre, quando vogliamo segnare col dito sulla carta del mondo il cammino dei lumi, non dobbiamo far altro, che badare al cammino della fede.

«Tocca a noi cristiani parlare del progresso, perché sappiamo essere questo lo svolgimento sull'unità e la realizzazione sempre più completa di una verità conosciuta ed invariabile: Ego sum via, et verità, et vita.

«Ma per voi, per voi de' quali io parlo, che cosa è il progresso? Non è egli un continuo allontanamento dal passato, e il culto indefinito di un insaziabile avvenire? E in questa dottrina che cosa adunque la verità? Un errore, che ha il pregio d'essere attuale, ma infallibilmente destinato, nascendo, ad essere abbandonato a sua volta. Dottrina desolante, dottrina di morte, vero sepolcro imbiancato, in fondo del quale, sotto una pomposa iscrizione, giace la verità immolata. Imperocché che cosa è la verità se non Tessere che ha detto di se stesso: Io sono e non muto? La verità è Dio vivente».

Se Pio IX, padre della cristianità, ci apre il suo cuore per implorare le preghiere di tutti, vuoi dire che vi hanno mali universali da scongiurare, e una grazia universale da ottenere. E il padre Dechamps, detto dei mali, passa a discorrere di questa grazia, grazia che Pio IX volle ottenere pronunziando una parola da tanto tempo sospirata, la definizione dommatica dell'Immacolata Concezione. U Papa, nel giubileo del 1854, chiedeva ai fedeli di gettarsi ginocchioni, di purificarsi colla penitenza, di pregare con lui, affinché Dio spandesse questa misericordia sui popoli castigati. E qui l'oratore entra a dire della dottrina delle indulgenze, dell'efficacia della preghiera e della penitenza sacramentale.

La seconda conferenza sulla definizione dommatica dell'Immacolata Concezione è la più ammirabile di tutte. Noi vorremmo, dice il Journal de Bruxelles noi vorremmo, che coloro i quali domandano che cosa sia l'Immacolata Concezione, e parlano con ignoranza d'un nuovo domma e della contraddizione alla dottrina sul peccato originale, leggessero queste riflessioni, nelle quali il Padre Dechamps si solleva ai più alti pensieri, dove il dubbio svanisce, e la verità si mostra in tutto il suo splendore del domma, e sempre vivente nella tradizione, di cui Gesù Cristo ba promesso alla Chiesa l'intelligenza fino alla fine.

L'oratore stabilisce l'ammirabile figliazione tra il domma dell'Immacolata Concezione e i dommi sulla maternità divina di Maria, sulla sua verginità, sulla sua innocenza, su quella pienezza di grazie, che ba fatto dire non esservi in lei veruna macchia. Questi dommi non vennero inventati dalla Chiesa, ma definiti ne' suoi Concilii, qualunque volta il dubbio e Terrore li assaliva.

Il padre Dechamps considera la definizione dell'Immacolata sotto il doppio aspetto teologico e sociale; egli descrive la grande emozione che ha prodotto

- 186 -

questo sublime avvenimento, emozione di gioia nei fedeli e di rabbia negli increduli. Questa parola, che trovò un'eco in tutte le lingue, e sotto tutti i gradi di latitudine, che risvegliò lo spirito di fede presso tutte le nazioni, che produsse tante feste, servì ad irritare coloro, che non poté consolare. Questa potenza di Pietro che agita il mondo, esclamava l'oratore, è una nuova prova della sua forza che non può perire.

Il padre Dechamps stabilisce dipoi, che il grande avvenimento dell'Immacolata è un segno di ritorno alla verità, è una caparra di pace. Dopo aver provato quanto siasi indebolito il rispetto all'autorità nella famiglia e nello Stato, dimostra l'utile che verrà al mondo dal consolidarsi in esso l'autorità della Chiesa, questo fondamento di tutte le autorità. Invoca perciò la potente intercessione della Vergine, e ripete la profezia del beato Leonardo, che questa definizione sarà il portico di una grande epoca.

E queste cose, egli dice, già incominciano ad avverarsi. La rivoluzione sociale spira presso alla rocca di S. Pietro. L'islamismo muore, l'Oriente s'apre alle sue due estremità, la Turchia e la Cina, all'apostolato cattolico; lo scisma greco è minacciato nelle sue invasioni: la Francia e l'Austria espiano grandi errori con grandi esempi nell'ordine religioso.

La terza conferenza del padre Dechamps è un commentario delle parole pronunziate dal sovrano Pontefice il 9 dicembre 1854, il giorno dopo la definizione dommattea dell'Immacolata. Il dotto scrittore accenna, che in questo secolo vi ha un ritorno alla fede; ne esamina le cause e ne rivela gli ostacoli. Sugli ostacoli si ferma di vantaggio, ed a suo avviso i principali sono i seguenti: presso i potenti, la confusione delle due potestà, presso i dotti, il razionalismo; presso i più, l'indifferenza religiosa.

L'autore divide in due classi i razionalisti: razionalisti puri e razionalisti moderati. E trova varie maniere di razionalismo, il filosofico, che confonde la potenza dell'umana ragione con quella della ragione divina, ed il razionalismo sociale, che confonde la potestà spirituale colla temporale.

Gli errori e le inconseguenze del razionalismo sono mostrati bellamente dal chiarissimo autore, il quale far vedere come questo sistema sia irrazionale, antistorico ed antisociale, e fa toccare con mano come la fede, ben lungi dal chiedere il sacrifizio della ragione, non rigetti verun esame, meno quello che è rigettato dalla ragione medesima. Di maniera ché questi poveri razionalisti non sono altro che gli scomunicati della ragione, come giustamente li chiamava il padre Gratrv.

- 187 -

STATISTICA DEGLI ORDINI RELIGIOSI

NEL REGNO DI SARDEGNA PRIMA DELLA LEGGE DI SOPPRESSIONE

DEL 29 MAGGIO NEL 1855.

Nella sessione 1853-54 del Parlamento il Ministero presentò ai deputali (tornata del 28 novembre 1854) uno Stato delle Comunità monastiche, e delle rendite di cui sono provviste, non che del numero degli individui componenti ciascuna Comunità nei Regii Stati di terraferma. Pubblichiamo un estratto di questa statistica, la quale mostrerà che cosa si guadagnasse distruggendo gli ordini religiosi. Nota bene. La classificazione è opera del Ministero.

Terraferma

DENOMINAZIONE

DELLE

CASE

NUMERO DEGLI

INDIVIDUI

REDDITO

UOMINI DONNE

Ordini mendicanti

Padri Cappuccini 74 1140 11,241 29 »

Minori Osservanti 34 34 15,038 54 »

id. Riformati 28 28 12,623 25 »

136 2175 38,903 08 »

Minori Cappuccine 3 87 » 120

139 2262 38,903 08 120

Ordini consacrati alla predicazione ed alla preghiera.

Agostiniani calzati 5 47 17,557 58 »

Id. scalzi 2 33 3,424 45

»

A riportarsi

7 80 20,678 73

»

- 188 -

DENOMINAZIONE

DELLE

CASE NUMERO

DEGLI

INDIVIDUI

REDDITO

UOMINI DONNE

Riporto

Segue

Ordini consacrati alla predicazione ed alla preghiera

7 80 20,678 73

Benedettini cassinesi 4 31 19.400 02 »

Canonici Lateranensi 4 27 16,096 98 »

Carmelitani scalzi 11 119 69,363 56 »

Monaci cistercensi 4 59 49,115 40 »

Id. certosini 2 20 17,205 77 »

Padri Domenicani 13 137 97,760 54 »

Preti dell'Oratorio di S. Filippo 11 90 90,494 40 »

Minori conventuali 2 20 21,185 38 »

Minori di S. Francesco da Paola

2 36 6,000 » »

Padri Ministri degli Infermi 5 46 16,380 33 »

Padri Olivetani 1 10 4,462 70 »

Oblati di M. V 5 75 35,837 84 »

Oblati di S. Carlo e Ss. Eusebio e Carlo

6 30 35,037 43 »

Passionisti 1 16 1,452 88 »

Redentoristi 1 » 572 70 »

Sacerdoti della carità (Rosminiani)

1 45 7,036 60»

Padri servi di Maria 5 49 55,045 20 »

Preti della missione 9 128 90,036 41 »

97 1048 742,864 94 »

Agostiniane scalze 1 20 » 2,754 67

Sacramentine 1 43 » 15,952 68

Battistine 4 42 » 3,407 48

Benedettine cassinesi 3 46 » 39,707 42

Canonichesse Lateranensi 3 94 » 66,460 53

Carmelitane scalze 5 86 » 21,735 64

Chiarisse 10 352 » 125,725 43

A riportarsi 100 1731 712,864 94 275,443 85

- 189 -

DENOMINAZIONE

N °DELLE CASE NUMERO DEGLI

INDIVIDUI

REDDITO

UOMINI DONNE

Riporto

Segue

Ordini consacrali alla predicazione

ed alla preghiera

400 4734 742,864 94 275,443 85

Cistercensi 2 63 » 32,945 54

Crocifisse 1 »

»

1,996 62

Domenicane 3 88 » 35,938 57

Gianelline 1 5

Agostiniane 10 232 « 83,749 09

Madri pie 4 27 » 7,766 84

Maestre pie 2 54

»

11,134 89

4 132

»

24,145 14

Rosminiane 2 42

»

255

Terziarie Domenicane

1

23

» »

Turchine 3 406

»

23,169 67

Visitandine 11 349 120,729 58

165 2819 742,864 94 617,221,76

Ordini addetti all'istruzione

ed al servizio degli infermi

Scolopii 8 98 21,229 49 •

Soraaschi

8 72 44,077 59

»

Barnabiti 6 63 59,630 40 »

Dottrinari 3 38 13,063 13

»

Fratelli delle Scuole Cristiane 23 224 2,464 18 »

Fratelli de la Croix

2 9 » »

Fratelli della Sacra Famiglia 3 6 » »

53 510 140,461 49

»

Suore di Carità (fondate da san Vincenzo di Paolo)

41

327

»

12,990 27

A riportarsi 94 837 140,461 49 12,990 27

- 190 -

DENOMINAZIONE

DELLE

CASE NUMERO

DEGLI

INDIVIDUI

REDDITO

UOMINI DONNE

Riporto

Segue

Ordini addetti all'istruzione

od al servizio degli infermi

94 837 140,461 49 12,990 27

Suore di Carità (sotto la protezione di S. Vincenzo di Paolo) 39 180 » 26,145 72

Suore di S. Giuseppe 28 344 » 34,046 49

Suore fedeli compagne di Gesù 3 63 » »

Dame del Sacro Cuore 1 20 » 1,880 »

Dame del Buon Pastore 4 42 » 3,452 78

Monache della Presentazione 1 8 » 500 »

Monache di N. S. della Neve 1 10 » 1,473 33

Madri Ospitaliere 2 11 » 250 »

Oblate di S. Luigi 2 12 » 907 »

175 1527 140,161 49 78,285 29

Conservatori

Conservatorii 26 403 » 237,371 94

Corporazioni estere possidenti ne' Regi Stati.

Congregazione Barnabitiea di Roma » » » »

Monaci del Sempione (Canonici Lateranensi)» » » »

» » » »

- 191 -

Isola di Sardegna

DENOMINAZIONE

DELLE

CASE NUMERO

DEGLI

INDIVIDUI

REDDITO

UOMINI DONNE

Ordini mendicanti

Minori Cappuccini 22 389 44,933 90 »

Minori Osservanti 21 397 27,657 23 »

43 786 42,591 13 »

Cappuccine 4 110 » 17,594 75

47 896 45,594 43 17,594 75

Ordini consacrati alla predicazione e preghiera

Scolopii 7 83 52,309 30 »

| Agostiniani 5 '26 9,746 28 »

Carmelitani calzati 7 89 47,825 42 »

Domenicani 5 63 20,465 47 »

Minori Conventuali 7 94 53,640 54 »

2 16 43,653 89 »

Ospitalieri di S. Giovanni di Dio 4 16 10,099 » »

Servi di Maria 2 23 9,884 54 »

Mercenarii 3 54 24,159 36 »

Missionari

! 1 5 4,655 64 »

43 ' 469 246,405 81 »

Francescane o Chiarisse .... 8 171 » 100,967 46

Domenicane 1 16 » 8,466 72

52 656 246,405 81 109,434 48

- 192 -

RIEPILOGO GENERALE

Da questa statistica risulta che nel Regno di Sardegna prima della legge 29 maggio 1855 che soppresse molti ordini religiosi, e ne incamerò i beni, trovavansi negli Stati di Terraferma case religiose 505, con 7011 individui, e con una rendita di L. 933,827 40 per gli uomini, e L. 932,998.99 per le donne. Nell'Isola di Sardegna erano 99 case, con 1562 individui e una rendita di L. 288,996 94 per gli uomini, e 127,028 93 per le donne. In tutto trovavansi nel Regno di Sardegna 604 case di ordini religiosi (cioè 373 conventi, e 232 monasteri) con 8593 individui (4988 nei conventi, e 3575 nei monasteri) e una rendita complessiva di L. 2,282,852.26. Vedremo in seguito come una gran parto di questi danari andassero in fumo, restassero affamati i frati e le monache, e il Governo sull'orlo del fallimento!

____________________________

Proudhon scrisse: «senza il socialismo noi non avremmo avuto giammai l'idea d'una repubblica democratico-sociale; senza il socialismo non avremmo avute le giornate di giugno, di maggio, d'aprile; non avremmo avuto le deliberazioni del Luxembourg, dove fu definita la rivoluzione di febbraio. Senza il socialismo, in una parola, noi non saremmo niente, noi non esisteremmo nemmeno».

Dunque tutto questo amore del popolo è una ciancia, e non v'è di vero che l'amore del capitale? Proprio, disse lo stesso Proudhon al popolo: Il n'y a qu'une coalition de charlatans, dont vous n'êtes tous que les misérables dupes.

Eppure molti del popolo non badano all'avvertenza e ci dan dentro. «Questi» diceva Dante nel Convito, «sono da chiamar pecore e non uomini; che se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte le altre andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d'una strada salta, tutte le altre saltano eziandio nulla veggendo da saltare, e l' ne vidi già molte in un pozzo saltare, per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro; non ostante che il pastore piangendo e gridando colle braccia e col petto dinanzi si parava.

- 193 -

IL MONASTERO DELLA NOVALESA

NEL 719, NEL 1856 E NEL 1863.

L'Armonia del 12 e 13 di novembre 1856 (n.262 e 263) pubblicava due articoli intitolati: Nuova invasione de' Saraceni nel monastero della Nova Usa. Siccome di questi giorni si tornò a parlare della Novalesa, dove non è più un monastero, ma, come dicono, una casa di sanità, ossia un ospedale pei pazzi, così noi incomincieremo il quarto quaderno delle Memorie per la storia de' nostri (empi ristampando que' due articoli.

I.

I Saraceni erano barbari, usciti da Sara nell'Arabia, che fin dai tempi di S. Gerolamo, come egli scrive nel lib. Il delle sue epistole In vita Marci, devastavano i paesi, e vivevano di rapine. Se sono giusti i calcoli di Cesare Balbo nella Storia d'Italia, essi valicarono i Pirenei nel 719, e si diffusero (nelle provincie meridionali della Gallia. Entrati nella Provenza, presero la via di Sospello, e guadagnate le Alpi marittime discesero a devastare il Piemonte. Un povero Vescovo d'Asti, mentre visitava la sua diocesi, fu fatto a pezzi da que' barbari, li monastero di Pedona, il castello, la chiesa, il borgo, soggiacquero all'empia devastazione. Ma il peggio incolse ai poveri monaci della Novalesa.

La Novalesa è un villaggio del Piemonte su quel di Susa, che dee tutta la sua rinomanza all'antichissimo monastero, che vi venne eretto. Fin dal secolo X questo monastero era celebre per la coltura delle scienze, e dai dotti si cita anche oggidì come una gloria non solo del Piemonte, ma dell'Italia, e come una prova del primato italico, in fatto di coltura, su tutta l'Europa nei secoli più tristi della barbarie.

Ludovico Antonio Muratori, nel tom. I Rerum ilalicarvm, parte II, riferisce, secondo la cronaca dell'Abbadia della Novalesa, il mal governo che fecero i Saraceni del monastero e de' monaci. Beni sacri e profani, le chiese, le case, gli armenti, le vettovaglie e le persone caddero sotto i feroci artigli di quella gente brutale. Due vecchi monaci eransi lasciati alla custodia del monastero, ed amendue battuti e feriti vennero stesi boccone sul pavimento. Quei barbari, vergogna dell'uman genere, non conoscevano altro termine alla loro voracità, che là forza propria è là miseria altrui. Torino, città fortificata, dove Guglielmo era Vescovo, accolse i monaci della Novalesa sfuggiti alla morte. I quali, cercando di salvare la propria vita, cercavano egualmente di salvare le scienze, e recavano in Torino, secondo il Pingonio, ben 6,666 codici preziosissimi.

- 194 -

Ora asciamo dal medio evo per entrar nell'ero della libertà, del progresso, delle Costituzioni, dei principii dell'89. La scena si rappresenta ancora in Piemonte; il monastero della Novalesa è di bel nuovo conquistato, e vengono dispersi i monaci. Ma i conquistatori non sono più forastieri, non Saraceni, non barbari; sono Italiani, sono Piemontesi, sono liberali che violano il domicilio altrui, che cacciano i padroni dalla casa propria: Italiani e Piemontesi che distruggono le loro glorie, e cancellano le nobili memorie che illustrano la propria storia.

Il 10 settembre del 1856 il reverendo Padre Pereno, priore del monastero dei Ss. Pietro ed Andrea della Novalesa, riceveva la lettera seguente:

Susa,10 settembre 1856.

Il sottoscritto, desiderando di essere in grado di riscontrare prontamente al superiore ufficio sull'importante oggetto infrascritto, si fa debito di trascrivere 11 dispaccio dell'Amministrazione centrale della Galea Ecclesiastica direttogli l'8 corrente, del tenor seguente:

«In riscontro al foglio in margine distinto, il sottoscritto partecipa al siti gnor Insinuatore di Susa, che quest'Amministrazione, debitamente autorizzata, è disposta a corrispondere tanto ai sacerdoti quanto ai laici del monastero dì Novalesa il maxmum della pensione previsto dall'articolo 0 della legge 29 maggio 1855, che è di L. 500 per gli uni, e di L. 240 per gli altri, tuttoché abbandonino il chiostro per vivere al Secolo.

Vorrà, per conseguenza, il signor Insinuatore compiacersi di tal cosa notificate prontamente ai religiosi predetti e di eccitarli a far conoscere con sollecitudine le loro determinazioni in proposito, onde aver norma nelle disposizioni a darsi in ordine ai concentramenti e ad indicare nel tempo stesso l'epoca, in cui, per effetto dell'uscita loro dal chiostro, sarà disponibile il locale da essi attualmente occupato ad uso di monastero.

«Occorre nel tempo stesso, che venga indicato il luogo del domicilio a scegliersi da ciascun religioso ciò pel conveniente recapito di mandati a spedirsi in avvenire.

Firmato all'originale: Il Direttore generale OTTANA

L'insinuatore A. DATTIER.

Il Padre Priore rispondeva, tre giorni dopo, all'Insinuatore di Susa nei seguenti termini:

«Ill.mo signor Insinuatore,

«Novalesa, il 13 settembre 1856.

«I sottoscritti religiosi nel monastero di Novalesa, in riscontro alla nota del 10 corrente settembre, debbono osservare all'Ill.mo signor Insinuatore, come avendo emesso voto di stabilità in detto monastero, dal quale non trovatisi dispensati dalla S. Sede, non possono coscienziosamente aderire all'invito loro fatto d'abbandonare il chiostro per venire al secolo:

- 195 -

In pari tempo dichiarano, che per solo dovere di coscienza sono entrati nella suespressa risoluzione, quale si fanno carico di partecipare al signor Insinuatore, cui presentano i loro ossequii.

Firmati: D. Romano Pereno

D. Michele Blanc

D. Antonio Macchia.

Il 22 di settembre giunge una nuora lettera al Padre Priore. Non è più l'Insinuatore che scrive, mail ministro di grazia e giustizia, signor Deforesta. Ecco il dispaccio:

«Torino, addì 22 settembre 1856.

«In eseguimento delle disposizioni della legge 29 maggio 1855, il Governo ba determinato che il Reverendo Padre Priore del monastero dei Benedettini Cassinesi di Novalesa, ed il Padre Macchia, monaco appartenente alla stessa famiglia religiosa, debbano passare, prima dello spirare del prossimo venturo mese di ottobre, nel monastero dello stesso Ordine di Savigliano; e, ritenuto poi lo scopo delle menzionate disposizioni, non che le spedali circostanze, in cui si trovano gli altri religiosi esistenti attualmente nel monastero sovra menzionato, ha pure determinato, che abbiano essi a godere fuori chiostro la pensione loro rispettivamente assegnata dall'articolo 9° della precitata legge, con che lascino codesto monastero fra tutto il prossimo mese di ottobre

«Il sottoscritto, nel partecipare quinto sovra al Reverendo Padre Priore del monastero dei Benedettini della Novalesa, lo prega di accennargli, se desidera provvedere essomediante rimborso delle spese, al trasferimento di lui e del Reverendo Padre Macchia nell'indicato monastero di Savigliano, ovvero se preferisca, che l'Amministrazione della Cassa Ecclesiastica vi provveda essa medesima direttamente, per cui sta attendendo un sollecito riscontro per quelle altre determinazioni, che potessero essere del caso.

«E mentre il sottoscritto nutre fiducia, che il prelodato Reverendo Padre Priore ed i membri della sua famiglia saranno per uniformarsi a queste determinazioni del Governo, e che vorranno dal loro canto procurare, che la cosa segua colla dovuta convenienza, si vale dell'opportunità per esternargli i sensi delta distinta sua considerazione.

«Il Ministro DEFORESTA,

A questo dispaccio ministeriale il Priore del monastero della Novalesa rispose così:

«Eccellenza,

«Il sottoscritto non avendo riscontro da' suoi Superiori alla comunicazione del dispaccio N°4 d'ordine, in data del 22 settembre, dell'Ecc. V., sul che fare riguardo all'uscita da questo monastero di Novalesa, e d'altronde considerando il giuramento prestato nell'alto di sua professione col voto di stabilità in questo monastero,

- 196 -

ha il dovere di osservare all'Ecc. che non può dipartirsene, che quando venga messo fuori, ed allora sarà in grado di passare in quello di Savigliano; ed in pari tempo coi sensi di tutta stima e considerazione si protesta

«Dell'Ecc. Sua

«Um.mo servo D. Romano Pereno.

«Novalesa, il 1° di ottobre 1856».

Dopo questa risposta, nulla di nuovo fino al 21 di ottobre, quando la polizia minaccia que' poveri monaci. Ecco la lettera dell'Intendente di Susa:

«Susa, addì 21 ottobre 1856.

«Dopo quanto lo scrivente ebbe l'onore di significare a voce alla S. V. IlL. ma e molto Rev.ma, Ella non può ignorare, che per incarico del Ministero di grazia e giustizia, deve, chi scrive, dare le occorrenti disposizioni, perché a termini della legge 29 maggio 1855, i RR. PP. Benedettini abbiano a lasciar libero il convento di Novalesa entro tutto il corrente ottobre.

«Preciso ed imprescindibile essendo un tale ordine, il sottoscritto è in dovere di farlo eseguire; e poiché riuscirono vane le persuasioni usate per mezzo di rispettabile persona a lei spedita, onde risolverla ad uscire spontaneamente; vedesi, chi scrive, costretto con suo rincrescimento ad usare di tutti i mezzi legittimi, e quindi anche della forza, se ne fosse il caso, per ottenere l'intento.

«Fermo nel proposito di adempiere il proprio dovere, ma pur volendo usare colla S. V.111.ma, e suoi Compagni, i riguardi col medesimo compatibili, pregiasi chi scrive di far conoscere alla S. V.111.ma e RR. suoi Compagni, queste definitive, estreme, inevitabili risoluzioni, onde evitar loro ogni sgradevole sorpresa all'arrivo costì degli agenti di pubblica sicurezza, incaricati di accompagnarla coi reverendi suoi Compagni nel convento di Savigliano.

«L'Intendente Tholosano.

Detto fatto, il mattino del 25 di ottobre giungono alla Novalesa Ire agenti di pubblica sicurezza e due delegati della Cassa Ecclesiastica, si presentano nella cella del Priore, e gli mostrano l'ordine che hanno ricevuto di sfrattare lui ed i suoi dal proprio monastero. Il Padre Priore legge la protesta collettiva, in presenza dei suoi compromessi, e tutti soggiacciono alla forza. Il Padre Priore, ultimo a partire, viene accompagnato per breve tratto dalle persone, che avevano avuto il nobile incarico di cacciar via i monaci. Le quali poi ritornarono nel monastero, per toglierne subilo i quadri, che la bugiarda Gazzetta del Popolo avea detto trafugati dai monaci fin da un anno fa. Ecco la protesta del Padre Priore. Egli la consegnava al delegato di pubblica sicurezza, che recavala in Susa al suo superiore. E poi il giorno medesimo,25 di ottobre, questo delegato ricercava in Susa il ramingo Padre, e restituivagli la protesta, dicendogli che il suo superiore non poteva accettarla. Se non l'accettò il Ministero l'accetteranno i Piemontesi, per giudicare a suo tempo i nuovi Saraceni; l'accetterà l'Europa civile, per correggere i barbari che infieriscono contro i deboli e gli inermi;

- 197 -

e in qualunque caso l'accetterà il Signore iddio, nel cui nome fa scritta, e non tarderà a vendicare la sua causa ed i suoi servi. La protesta diceva adunque così:

«In nomine D. N.. C. Amen.

«Il sottoscritto, come Superiore prò tempore del Monastero dei Santi Pietro ed Andrea di Novalesa, a nome proprio ed a nome della Comunità di detto Monastero, non che a nome pure del Rev.mo Priore abate D. Arsenio Rosset-Carel, membro anche egli di questa monastica famiglia, benché assente per motivo di suo ufficio di ubbidienza, dichiara che tanto esso, che i singoli individui componenti questa monastica famiglia trovansi vincolati alla Congregazione Cassinese, e segnatamente al Monastero dei Santi Pietro ed Andrea di Novalesa per voti solenni da loro emessi liberamente e volontariamente in faccia a Dio onnipotente fino dalla loro gioventù: perciò senza farsi rei di apostasia non possono liberamente abbandonare questo Monastero a meno che vi concorra il consenso della Santa Sede, o la licenza dei Superiori della detta Congregazione, per la qual cosa si vede nella dura necessità di protestare a nome proprio, ed a nome dei suddetti, come protesta che nel sortire da esso Monastero cede soltanto e puramente alla forza, come pure protesta che intende serbare tutti i diritti che i suddetti hanno sopra al sullodato Monastero, riserbandosi a farli valere ove di ragione.

«Dato dal Monastero de' Santi Pietro ed Andrea di Novalesa, il 25 ottobre 1856.

«D. Romano Pereno, Priore ed Amministratore».

II.

CONSIDERAZIONI

Riguardo alla nuova invasione dei Saraceni moderni nel celebre monastero della Novalesa, da noi esposta coi documenti alla mano, quattro punti sono da considerarsi: 1° il genio distruttore della rivoluzione, che non la perdona alle cose più preziose ed alle istituzioni più benefiche; 2° la generosità straordinaria della Cassa Ecclesiastica; 3° il piglio altero del signor Deforesta e dei suoi; 4° finalmente l'immoralità del Ministero e la sua tirannia nel costringere i monaci al sacrilegio ed allo spergiuro. Veggiamo il tutto parte a parte.

La rivoluzione è il Nihilum armatum. Tallevrand, nella sua relazione dell'11 di febbraio 1790, dichiarò la sua impresa in queste parole: Tout de' fruire a fin de tout refaire; impresa, che i tempi giustificarono solo nella prima parte; laonde a buon diritto Proudbon la corresse così: Tout détruire et ne rien refaire.

Uno sguardo a questa rivoluzione dominante in Francia, Nell'ordine religioso distrugge l'antica disciplina della Chiesa, sopprime cinquanta Vescovati» trecento Capitoli, ducento istituzioni religiose, abolisce i Sacri voti, gli Ordini della cavalleria, sopprime le Congregazioni insegnanti dell'uno e dell'altro sesso, le Accademie, i Collegi, i Seminarii, e perfino quegli Istituti, che si consacrano in nome della carità al sollievo degli infermi e dei poveri.

- 198 -

Nell'ordine politico distrugge la Francia antica, l'aristocrazia, la Monarchia, Luigi XVI e la sua famiglia, i nomi perfino delle città e le più belle memorie della storia francese, quelle che ricordano i vincitori di Bouvines, di Damietta, di Tolemaide, di Gerusalemme, di Denaia, di Fontenov.

Nell'ordine scientifico saccheggia più di ottanta mila biblioteche. Gli officiali municipali corrono a emmagasiner libri, come dicevano, li misurano a piedi ed a tese, e li vendono per la maggior parte ai droghieri. «Noi abbiano visto, dice un testimonio oculare, dei zuccherini avvolti in fogli del S. Atanasio di Montfancou, magnifica opera, che costerebbe oggidì tre o quattrocento franchi». (Mémoires d$ la Révol, pag.424). Nell'ordine artistico, manda in malora i capi d'opera di scultura e di pittura, i quadri delle chiese diventano insegue delle botteghe dei venditori di vino. La tela, purifiée de ses couleurs, è adoperata per vestire i piccoli sansculottes. Si vide un soldato che facea bollire la marmitta con pezzi d'un quadro dorato, ed avea un grembiale da cucina formato con una tela del Guido, del valore di trentamila franchi (ib. pagina 418).

Ora une sguardo alla rivoluzione medesima in Piemonte. Essa non foche abolire. Abolizione dei Gesuiti; abolizione delle dame del Sacro Cuore; abolizione del foro ecclesiastico; abolizione della Compagnia di San Paolo, della Compagnia della Misericordia, delle dame della Compassione; abolizione dell'accademia di Soperga; abolizione delle collegiate: una cosa sola non abolisce,. le imposte, che invece aumenta di continuo. Ma da questa parte edificare equivale a distruggere.

V'era in Piemonte un monastero celebre nelle nostre cronache, che contava una vita di dieci secoli almeno, che aveva reso immensi benefizii alle città ed ai cittadini, alle arti ed alle scienze, il monastero della Novalesa, ed anche questo fa distrutto il 25 di ottobre 1856. Già ne furono conquistati i quadri, invasi gli archivi, e chi sa a quale uso verrà destinato il locale! 0 Vandali, o Saraceni, ed è a questo modo che intendete promuovere la civiltà? Il vostro delitto non è solo di lesa religione, ma di leso onor patrio. Non chiamate barbaro il medio evo, barbari voi, che avete distrutto quello che in quel tempo era nato!...

I documenti di quest'atto vandalico da noi riferiti dicono, che la Cassa Ecclesiastica e il signor Oytana si mostrarono questa volta generosi co' monaci. Dichiararonsi prontissimi a pagar loro intiera la pensione a patto che abbandonassero il monastero ed uscissero nel secolo. Perché questa strana generosità? Come si concilia colla fame che si fa patire a tante povere monache?

I rivoluzionarii amano la pecunia, ma odiano ancora di più la religione, fissi sarebbero pronti a sborsare larghe somme, se riuscissero al trionfo dell'empietà. L'abolizione dei conventi nasce bensì in parte dalla fame, che s'ha dei loro Beni, ma principalmente dall'odio, che si nutre contro il cattolicismo. Se i frati si sfratano da loro, quest'odio è soddisfatto, e la piaga recata alla 'Chiesa diviene più sanguinosa. Ecco il perché di questa generosità inaudita della Cassa Ecclesiastica. Le duole all'anima di dover pagare sussidii a coloro che restano frati; e quindi assottiglia il più che può le sovvenzioni. Ma se la qualità di frate cessa, allora largheggia, e paga di buonissima voglia.

- 199 -

Rimettiamo ai nostri concittadini il giudizio della moralità del fatto; se la Cassa Ecclesiastica ba ancora bricciolo di cattolicismo, non può a meno di andar persuasa, ohe il Crete, il quale abbandona il suo Ordine sentii le necessarie dispense, commette una scelleratezza. E come osa acconsentire a questa astone? Come ornanti eccitarla, e promuoverla con promessa di guadagno?

Pongasi pure, che tra' frati trovisi taluno, il quale, vuoi per ignoranza, vuoi per tristizia, sia pronto a commetterà tale delitto; la Cassa Ecclesiastica dovrebbe impedirlo, negando invece i pagamenti, Ciò sarebbe secondo lo spirito della legge medesima del 29 di maggio 1855, che volle lasciare, i frati nel chiostro, e impedirne la dispersione. E perché la Cassa Ecclesiastica vuoi essere ancora più.... della legge, che la creava? Perché il signor Oytana vuoi vincere in.... il ministro Battezzi? Che cosa è mai questa gara d'incredulità e di audacia?

Ma la risponsabilità dei latti e degli scritti pesa principalmente sul signor Deforesta e su tatto il ministero. Abbiamo visto di questi giorni eoa quanta dolcezza si trattassero i regicidi: ed ora veggiamo con quanta crudeltà si trattino i monaci. La nostra polizia è tutta in movimento, gli intendenti scrivono, i delegati viaggiano, le guardie si armano. Ma a che fare? A reprimere i delitti? Eh no, che gli assassini son fatti in Piemonte cavalieri dei Ss. Maurizio e Lazzaro. La polizia corre, vola a cacciar via i frati dalle case proprie, ed adopera la sue armi per lare violenza ai Padri Priori. E volete che benediciamo questa politica?

Sig. Deforesta, voi siete ministro di grazia e giustizia, e ben ci date a vedere come sapete amministrare la giustizia e la grazia. Le grazie vostre sono pei Gallenga e pei Melegari. Verso di loro voi vi mostrate tutto viscere di clemenza e di compassione; ma a riguardo dei frati, siete inesorabile. Avete stabilito, il termine del mese di ottobre, perché i Monaci della Novalesa abbandonassero il monastero; e non voleste ritardare nemmeno d'un giorno. I vostri sgherri compivano l'ordine, eseguivano l'ukase fin dal 25 di ottobre!

E notate che in quel tempo il p. Superiore dei Monaci trovavosi assente per dovere d'obbedienza; notate che chi ne sosteneva le veci, aveva ragguagliato il ministro di tale astenia, e d'aver scritto a' suoi per riceverne le opportune, istruzioni. Tutto fu inutile, ed il sig, Deforesta non volle patire indugio di sorta, I ministri transigono coi partiti politici, fanno il connubio coi repubblicani; ma stanno fermi come un termine in faccia ai frati.

Essi sanno, gli sciagurati, che i frati non rovesciano ministeri, sanno che le Poterne estere pensano bensì ai Poerio di Napoli, non ai Monaci della Novalesa: sanno che il conte Walewsky trova solo anormale la condizione degli Stati Pontificii, dove sono rispettate le proprietà di qualunque natura; sanno che nei conventi non si pronunziano i giurì della Giovine Italia, che là non si trovanoo i pugnali col manico di lapislazzoli; e certi di tutto ciò, giuocano sul sicuro, impennano, minacciano, adoperano la forza, e mostrano fermezza!

Finalmente noi dobbiamo fulminare l'immoralità commessa dal ministero riguardo ai Monaci della Novalesa.

- 200 -

I quali trovansi in una condizione differente da quella dei membri degli altri Ordini religiosi, non essendosi soltanto obbligati il voto all'Ordine, ma anche a quel particolare monastero. Essi giurarono sui sacri altari di restare alla Novalesa per tutto il tempo della loro vita, e il ministero li trascina fuori della propria casa, e li rende involontariamente apostati e spergiuri!

Questo delitto di spergiuro e di apostasia non pesa già sulla coscienza di que' monaci, che hanno dovuto cedere alla forza, ma pesa tutto sull'anima vostra, o ministri, e dovrete renderne conto agli uomini ed a Dio. In qual concetto avete il valore d'un giuramento, se con tanta facilità costringete gli altri a violarlo? E non rispettando i giuramenti altrui possiamo sperare che siate per avere maggior rispetto pei giuramenti vostri? Se tenete in non cale il voto dei PP. della Novalesa, vorrete dirci che vi farete inIzare per impedire più tardi la repubblica, e sostenere la monarchia costituzionale?

Quest'ultimo punto è gravissimo, e noi lo raccomandiamo, alle meditazioni del Re e del paese. Non vi corre nessun divario tra voto e voto, tra giuramento e giuramento. Se taluno dei monaci della Novalesa avesse cercato d'abbandonare il chiostro, un buon governo avrebbe dovuto opporsi a questo disegno. Invece no: dapprima il ministero eccita i frati all'apostasia e dipoi ve li costringe!

E dov'è quella libertà di coscienza che tanto ci decantate? Che differenza passa ornai tra voi, o ministri, che obbligate i frati a violare i loro voti, e i primi persecutori della Chiesa che obbligavano i cristiani a rinnegare la loro fede? A nostro avviso ci passa questa sola differenza, che quelli dicevansi pagani, e voi vi spacciate cattolici. L'empietà e la tirannia è la medesima: solo gli antichi erano sinceri, e voi siete mascherati.

III.

Espulsi i Monaci dal loro monastero di Novalesa ne prese possesso la Cassa Ecclesiastica, che avendo bisogno di danaro,, non tardò a metterlo in vendita. Pochi avventori si presentarono, e nessuno lo volle pagare quella poca moneta che la Cassa richiedeva: ma un medico, trovato che il monastero della Novalesa sarebbe acconcio per una casa di pazzi, lo comperò e convertì in tale uso, sicché il Piemonte ebbe un monastero di meno, e un manicomio di più. Già il governo stesso avea convertito in Manicomio la Certosa di Collegno tolta a' Certosini, e l'esempio del governo fu seguito da un privato riguardo al monastero della Novalesa. Or sapete chi fu dei primi a doversi recare in questa nuova Casa di Sanità? Fu il cavaliere Carlo Luigi Farini, presidente del Consiglio dei ministri.

Nel precedente quaderno delle nostre Memorie abbiamo notato come il Farini con decreto del 9 dicembre 1862 fosse nominato presidente del Consiglio dei ministri. l'Opinione del 24 di marzo 1863, N° 83 annunziava: «Il cavaliere Farini, presidente del Consiglio ha rassegnate le sue dimissioni, ed è partito per Novalesa presso Susa, affine di ristabilir la sua salute».

Del Farini e delle opere sue parleremo a suo tempo. La nostra storia non giunse finora che al 1856.

- 201 -

Tuttavia poiché i fatti ci condussero a nominare il Farini non sarà inutile un cenno biografico su quest'uomo, cenno spoglio d'ogni giudizio e ristretto semplicemente ai fatti. Questi fatti sono tolti da una biografia, o meglio da un panegirico intitolato Luigi Carlo Farini per Vittorio Bersezio, Torino, Unione Tipografico Editrice 1862.Luigi Carlo Ferini nacque in Russi, provincia di Ravenna, il 22 di ottobre 1812. Studiò medicina in Bologna, e fu laureato in quell'università nel 1831. Pigliò parte alla rivoluzione di quell'anno insieme collo zio, Domenico Farini. Questi era nominato dal governo provvisorio direttore della polizia nella provincia di Forlì, e conduceva qual segretario il nipote Carlo Luigi. Ma egli sdegnando tale uffizio di segretario, si unì coi volontarii che volevano muovere alla conquista di Roma, La rivoluzione fu vinta facilmente, e Ferini, prevalendosi dell'amnistia, tornò in Bologna collo zio a terminarvi i suoi studii pratici di medicina. Esercitò da medico prima a Montesudolo, piccolo paese dell'Apennino nelle Romagne, indi a Ravenna. Lo zio Domenico Farini fu barbaramente assassinato, ed il nipote Carlo Luigi andò medico primario nel suo paese natio, e pose la sua dimora in Russi. Die' il suo nome alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, e combinò un'insurrezione pel luglio del 1843. Scoperto abbandonava gli Stati Pontificii rifugiandosi in Toscana, donde venne espulso, e mosse per Parigi. Vivendo mal volontieri fuori d'Italia tornò chetamente in Toscana, e stette ora a Lucca, ora a Firenze. Quivi ordì l'insurrezione di Rimini nel 1845, e scrisse il manifesto degli insorti. Ma quel moto non ebbe seguito; nessun'altra città la assecondò, ed appena cominciato dovette finire.

Pio IX generosissimo e clementissimo Pontefice, appena assunto al Pontificato die l'amnistia. A que' di Farini era medico del figlio di Gerolamo Buonaparte, e stava in viaggio coll'augusto infermo. Ma, morto il Principe, si valse tosto dell'amnistia e rientrò nello Stato Romano. Gli fu offerta la carica di medico primario in Osimo e l'accettò. Più tardi andò a Roma, perché Gaetano Becchi, ministro degl'interni nel gabinetto del 10 marzo 1848, l'avea eletto suo sottosegretario. Poi corse in Lombardia al campo di Carlo Alberto, e dopo l'armistizio di Milano tornò a Roma, e fu deputato al Parlamento per Russi sua patria. Sotto il ministero del conte Rossi, Farini venne nominato direttore della sanità pubblica e degli ospedali, e restò nell'uffizio fino alla repubblica. Durante il dominio mazziniano visse in Toscana, e rientrava in Roma coi Francesi riprendendo l'abbandonato uffizio, da cui fu licenziato poco dopo, riparando in Torino colla famiglia, Qui nel 1850 scrisse un giornaletto intitolato La Frusta, e difese il ministero d'Azeglio, aiutando le leggi Siccardi. Lavorò nel Risorgimento e conobbe e si fece conoscere dal conte di Cavour. Stanco del giornalismo, dettò Lo Stato Romano dall'anno 1814 al 1850, opera in quattro volumi. Tornò a lavorar ne' giornali, e ne fondò uno dandogli il nome di Piemonte. Se ne stancò nuovamente e divisò una storia d'Italia in continuazione di quella del Botta, di cui non iscrisse che due volumi. Fu creato cittadino piemontese, poi deputato, poi ministro sopra la istruzione pubblica dal 21 ottobre 1851 al 21 maggio del 1852. Nel 1859 andò in Modena commissario straordinario del Re di Sardegna; ma dopo Villafranca rinunciò a questa carica per essere nominato dittatore prima di Modena, poi di Bologna e di Parma

- 202 -

che riunì chiamandole provincie dell'Emilia, il 18 di marzo 1860 cessava dalla dittatura, recava in Torino le tre Corone, e ne otteneva il collare della SS. Annunziata. Fu poi a Ciamberi con Cialdini prima dell'invasione delle Marche e dell'Umbria; accompagnò il Re a Napoli e sottoscrisse il famoso proclama d'Ancona (9 ottobre 1860); restò anzi nel reame luogotenente del Re, ma sul Sebeto perde prima il genero ammogliato di fresco, poi la tornita, e non si riebbe mai più. Il 9 dicembre 1862 fu eletto presidente del ministero, vi durò pochi mesi, e sfinito di forze rassegnava il portafoglio addì $4 marzo del 1863.

PERCHÉ SI ODIANO

I FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE?

Abbiamo sotto gli occhi la relazione letta al Consiglio Municipale di Torino nella tornata del 27 dicembre 4855 sui Fratelli delle Scuole Cristiane dal cavaliere Nepomuceno Nuytz, vicesindaco, professore della facoltà legale, e rettore dell'Università. Il Conte di Revel ne procurò la stampa, e n'ebbe molti rimproveri dal giornale l'Opinione. Tanto studio nel voler tener celata questa relazione è indizio, che dalla sua pubblicità dovea venirne largo vantaggio alla causa nostra; e di fatto non v'ha nulla di meglio per difendere i buoni Fratelli, e condannare i municipali, che H bandirono.

Una Commissione venne nominata per esaminare le scuole dei Fratelli, e questa componevasi dei consiglieri Sineo, Valerio e Nuytz. L'ultimo rendiconto del fatto esame nei seguenti termini:

«Le informazioni riuscirono quali siamo per riferirle, ed in gran parte ad elogio.

«I Padri Ignorantelli, edotti dai clamori sollevatiti nell'addietro pei modi villani di taluni di loro, hanno procurato di farli sparire, essi si sono avvicinati all'affabilità e alla dolcezza.

«Sapendo di non essere bene nell'opinione di molti del popolo, ed adocchiati, èssi hanno pur fatto ogni loro sforzo per dare buon frutto del loro insegnamento: «pur essi, fuori delle ore, in cui insegnano, con apposite scuole, in cui si fanno imparanti, cercano di abilitarsi a bene insegnare; somma è poi la loro pazienza nel dirozzamelo dei ragazzi loro mandati: «quindi avviene, che nelle parti più materiali, come la lettura e la scrittura, essi riescano ottimamente, e forse meglio che molti altri dei nostri insegnanti.

«Nell'esecuzione del loro dovere essi sono esattissimi. Non mai una loro scuola va circondotta, provvedendosi prontamente dal superiore alla supplenza degli impediti. La scuola comincia con ' precisione all'ora stabilita, e continua sino al suo legai termine; ed è condotta con ordine: cosa questa, a coi molto conferisce la cieca obbedienza, che i Padri Ignorantelli debbono al loro Superiore, il quale ha ben altri mezzi di coercizione, e più pronti, che non possiamo aver noi verso i nostri insegnanti, quando non compiono al loro dovere, o, svogliati, cercano pretesti per sottrarsi ad esso: «massimamente ciò avviene, perché presiede al governo della Congregazione il Padre Tbéoger, persona di cui ogni informato delle loro cose fa sommi elogi». (Relazione, Torino, tipografia di G. Pelazza,1856, p. 5).

- 203 -

Ebbene, la conseguenza di ciò è, che i Fratelli delle Scuole Cristiane debbano essere licenziati! Così argomenta il rettore dell'Università di Torino! Voi siete buoni, utili, esalti, virtuosi, dorili: dunque andate via. E il Municipio di Torino ha potuto sancire questo nuovo genere di logica? E noi fummo riservali a vedere un simile scandalo? Consolatevi, o buoni Fratelli. Ciascun di voi può ripetere: De bonis operibus lapidatus sum. V'hanno ascritto «colpa le vostre virtù. Vi trovarono troppo buoni, troppo santi pel sistema che vige tra noi, e per le persone che ci governano.

Niivtz, dopo d'aver celebralo le doti dei Fratelli delle Scuole Cristiane, passa a discorrere due accuse, che vennero fatte ai medesimi; l'ima che formassero allo spionaggio i fanciulli, l'altra che insinuassero massime avversi alla libertà. Ed ecco le sue parole:

«Dello spionaggio i membri della vostra Commissione, non avendo potuto venire in chiaro, essi non ne parlano, sebbene esso si supponga connaturale alla regola dell'Ordine, che tra essi lo pone; generalmente lo pongono le regole di simili Ordini.

«Sulle massime che possono aver tratto all'ordinamento nostro politico, e sull'insegnamento religioso dato dai Fratelli della Dottrina Cristiana, i membri della Commissione non hanno a presentarvi fatti speciali venuti a loro notizia.

«Possono essi dirvi soltanto, che i Fratelli della Dottrina Cristiana insegnano, quanto alla religione, il catechismo della diocesi da voi conosciuto; che a questo altro ne aggiungono chiamato Catechismo di perseveranza, fatto da un canonico francese, scritto da lui nella natia sua lingua, tradotto in italiana favella, pervenuto a mie mani, e restatovi pel breve tratto di un'ora.

«Questo catechismo, per nulla corrispondente al suo titolo, è un miscuglio di Storia sacra e di profana, di nozioni geografiche e fisiche, di botanica e di altro vario sapere, congiunto con nozioni religiose. Esso tende a dare ai ragazzi una nozione di tutto.

«Esaminatolo celeremente, io non potei scoprirvi alcunché di pericoloso. A mio avviso questo è un libro abbastanza buono, il quale ha per altro il difetto di essere fatto per interrogazione e risposta; metodo questo che accresce senza prò, ansi con danno di chi debbe imparare, il numero delle parole, ed è inconciliabile colla sintesi, che, coll'ordinare e concentrare in poco le cose, tanto giova alla memoria». (Relax., p. 6).

Che cosa dite del modo d'accusare del Nuytz e della Commissione? Questa non parla dello spionaggio, perché non ne sa nulla. Lo suppone però connaturale alle regole dell'Ordine. Ma queste regole le ha viste? Signori, no; il relatore se la cava dicendo: generalmente lo pongono le regole di simili Ordini,

Adoperando questo metodo ricerchiamo se Nuytz sia un demagogo. «Della demagogia di Nuytz. L'Armonia non ne parla; ma però la suppone connaturale alla sua professione. Generalmente sono demagoghi i professori dell'Università». Che direste d'un ministero clericale che mettesse alla porta Nuytz, fondandosi soltanto su di un simile raziocinio?

Il professore Nuytz, dettando diritto, insegna che nemo supponitur malus nisi probetur.

- 204 -

E perché egli poi viola questo canone a danno dei Fratelli delle Scuole Cristiane? Come i suoi scolari possono dar retta alle sue parole se vi disdicono così palesemente le opere?

Quanto all'avversare i principii di libero governo, t membri della Commi»' sione, dice il Nuytz, non hanno a presentarvi fatti speciali venuti a loro notizia. Notiamo questa dichiarazione, che ci verrà in taglio più innanzi.

Ora ascoltiamo la relazione sul punto economico, il professore Nuytz ne parla ne' seguenti termini:

«Sotto il rapporto del civico erario, la Commissione riconobbe che certamente tra l'avere le scuole nelle mani dei Fratelli della Dottrina Cristiana, e l'averle nelle mani di persone viventi al secolo, vi è un sensibile divario.

«Dei Fratelli della Dottrina Cristiana, i quali vivono in comune, e segregati dal mondo, pochi sono i bisogni; poca perciò è la retribuzione che essi domandano.

«Giusta i dati graziosamente fornitici dall'egregio vicesindaco e collega cavaliere Baricco, attualmente le scuole da essi dirette ci costano L. 25,200, senza che si abbia più a pensare ad altro.

«Le stesse scuole affidate ad altri ci costerebbero la spesa di L. 43,000, e così di L. 17,800 di più; in fuori ancora delle giubilazioni dei maestri e professori divenuti inabili all'insegnamento». (Relax., p. 8).

La considerazione era grave abbastanza. Eppure nulla poté sull'animo del Nuytz, nulla sull'animo della Commissione, nulla sull'animo del Municipio. Si priva Torino d'ottimi istitutori, e si aggrava l'erario per soprappiù! Ila dove siamo noi? Chi governa le cose nostre? S'imparò forse l'amministrazione da quel simbolo, che sta per impresa della nostra città?

Fratelli d'Italia, o voi della lega italiana: venite, e vedete: la città di Torino ha ottimi maestri, e li licenzia; la città di Torino può risparmiare migliaia e migliaia di lire, e le scialacqua! Dovea certo preludere a questi fatti, quando Gioberti asseriva, che in Torino si vive come nel secolo d'Abele, il quale fu anche il secolo di Caino, e che non è facile a vivere in Torino a chi è nato dopo il diluvio!

Una delle ragioni, per cui voleva il Nuytz, che si licenziassero i Fratelli delle Scuole Cristiane, si era perché questi parevano figli prediletti dei Gesuiti. Uditelo:

a Gli Ignorantelli sono figli prediletti di quell'altra corporazione, che voleva pure il bene sì civile che religioso, ma che per avere fallita la via, la quale vi conduce, tante ire e tanto odio concitò contro di sé; e pretendendo al comando, dovunque riuscì ad averlo, tanto ebbe cattive le sorti. Pertanto gli Ignorantelli, massime che debbono essere ottusi per ragione della loro origine, cioè perché presi in età non più tenera tra persone non istate ancora dirozzate, non possono non avere le stesse mire, gli stessi pregiudizi!, gli stessi desiderii, che quell'altra corporazione, a cui accenno, era in fama di avere. Non illudiamoci: gli Ignorateli!, sebbene desiderosi del vero bene, sia per le limitate loro idee e cognizioni, sia per istituzione, vedranno sempre questo bene nell'abbassamento dell'impero civile e nell'esaltazione viceversa di quell'ecclesiastico potere, che oggidì in tutto il mondo disputa audace ai civili governi i diritti di impero,

- 205 -

e vorrebbe penino avere a sua disposizione la spada, e ricondurci, se potesse, assolto l'inquisizione, ignaro che la nostra religione, libera, inerme, priva di civile influenza, ed a sé abbandonata, fa i martiri, i grandi, gli eroi; armata ed elevata a civile influenza, da gli ipocriti e da i traditori. Gli Ignorantelli vedranno pertanto il bene sempre pia nel dispotismo, a cui è foggiato il loro reggime, e sotto di cui possono sperare favore, che nelle libere istituzioni, più adatte a mantenere al governo civile i suoi diritti di impero, e più fermo nell'opporre un argine a tutte le invasioni. Perciò per essi tutto quello che suona dispotismo e abbiezione del potere civile con elevazione dell'ecclesiastico a sfera non sua, tutto quello che importa potenza per questo potere e per danaro e per comando, deve essere religione: irreligione viceversa tutto quello che suona libero ed oculato reggime, possesso pel governo civile dei suoi diritti, riduzione al contrario del potere religioso ai limiti suoi legali statigli fissati ab eterno dalla natura, e indi dal sacro deposito della rivelazione, col divieto non osservato di non trascenderli» (p.11).

Se gli Ignorantelli debbono essere ottusi per ragione detta loro origine dopo d'aver letto questa pastocchiata siamo quasi tentati di credere che il Nuytz origini dagli Ignorantelli. Egli ha detto testé, che le scuole dei Fratelli danno buon frutto. Ora, ci dichiara, che debbono essere ottusi. Ma dunque un ottuso maestro può produrre buon fruito e far fiorire una scuola? E voi siete rettore dell'Università, e date in tali castronerie?

Quanto al resto tutta la relazione del Nuytz si raggira sul sospetto. Si hanno dei sospetti a carico de' Fratelli, sospetti smentiti dai fatti; ma non monta: quei sospetti bastano per condannarli. E poi si ha il coraggio di parlare dell'inquisizione? Prendete i tempi più tristi dell'inquisizione spagnuola, e trovateci una relazione tirannica come la vostra?

Abbiatevene un ultimo saggio in quest'altre parole del Nuytz, che sono in sul fine della sua scrittura:

«Noi vediamo, è vero, nella nostra solennità dello Statuto la vispa nostra gioventù guidata dai Padri Ignorantelli passeggiare nelle nostre vie al seguito del tricolore vessillo, acclamare festante con porto di bandiere, che sono simbolo del nostro civile progresso; ma queste esteriorità, anziché rallegrarci, contristare ci debbono. L'Ordine avendo altre tendenze, o quanto meno una gran parte dell'assennata nostra popolazione essendone profondamente persuasa, questa scena si risolve nel cattivo, nel pessimo esempio dato a tutta quanta una popolazione di una detestabile simulazione, la quale scandalizza invece d'intenerire, e demoralizza lungiché elevare ad onestà, a franchezza di procedere, a nobiltà di sentimento. È dover nostro di far cessare questo cattivo esempio o vero o supposto» (Relax., p. 14).

Che cosa ne dite, o persone oneste, o galantuomini di qualunque parte, d qualsiasi opinione? Se i Fratelli delle Scuole Cristiane non conducessero i loro alunni alla festa dello Statuto, sarebbero rei di lesa libertà. Perché ve li conducono, sono egualmente rei d'ipocrisia. Come dunque potevano regolarsi costoro? Doveano avere necessariamente torto, ed essere licenziati, da VoL. E li licenziaste, ma colla ragione dei tiranni, coi pretesti dei lupi, colle arti dei libertini, non come usano le persone civili.

- 206 -

Li licenziaste; ma meglio è assai ricevere simili insulti, che farli, e chiunque onesto amerebbe piuttosto d'essere coi Fratelli mandati via, che con coloro che li bandirono.

La relazione di Nepomuceno Nuytz resterà negli archivi del nostro Comune per «piegare il deliberato del Municipio, per dire ai posteri in mano di chi, in questi anni dolorosi, era caduto il governo della nostra città.

ASSASSINIO DI MONSIGNOR SIBOUR

ARCIVESCOVO DI PARIGI.

(Dall'Armonia, i.4, e paralo 1856),

Per dimostrare dove a poco a poco conduce la ribellione de' preti a' propri superiori e per parlare coll'eloquente linguaggio de' fatti ad alcuni preti apostati che disonorano se stessi e l'Italia tutta, ristampiamo i seguenti articoli sull'assassinio dell'Arcivescovo di Parigi, avvenuto il 3 gennaio dei 1657.

Il 27 K ottobre dell'anno 1848 Domenico Augusto Sibour, Arcivescovo di Parigi, dopo di avere celebrato solenni funerali pel riposo dell'anima di Monsignor Affretto predecessore, s'avviò a piedi insieme con due suoi vicarii generali e col suo segretario per visitare nel sobborgo di Sant'Antonio i luoghi, dove l'illustre martire delle barricate avea trovato la morte. Circondato dalla folla che lo seguiva religiosamente commossa, fermossi dirimpetto alla casa, donde il S. Prelato era stato ferito, e indirizzo agii assistenti queste nobili farete t «lo la cedo e colui, ohe voi piangete, in scienza e in virtù, ma non gli cedo in amore per voi, miei diletti fratelli: a Dio non piaccia, che io abbia l'occasione di tettare il mio sangue come lui, perché allora nuove sventure cadrebbero sul vostro capo! Ma sono disposto a morire affranto dalla fatica in meno elle opere di carità». E la folla, lagrimando, rispondeva: Viva il nuovo Arcivescovo!

Ebbene, domenica il telegrafo ci annunziava che Monsignor Sibour avea versato il suo sangue come Monsignor Affre, e che egli pur era morto assassinato. E chi l'avea assassinato? Un prete, risponde gongolante di gioia la Gazzetta dei Papato, ma un prete interdetto, soggiunge il telegrafo veridico. Monsignor Affre e Monsignor Sibour caddero amendue vittime del proprio zelo nell'adempimento del loro ministero. Monsignor Affre fu vittima della carità, Monsignor Sibour vittima della giustizia episcopale. L'uno fu ucciso, perché in mezzo alle ire fratricide pronunziava la parola di pace; l'altro venne morto, perché giustamente severo cacciava dai santi altari l'indegno ministro. Il primo riscosse l'odio del rivoluzionario, il secondo la rabbia del sacrilego; amen due illustrano la Chiesa francese, amendue nobilitano l'Episcopato e il clero cattolico.

Non possiamo esprimere a parole il dolore che ci recò la morte di Monsignor Sibour. Dopo il caso di Giuda, non ci ricorda d'avere mai letto un caso simile nelle storie, d'un prete cioè che assassinasse il suo Vescovo per averlo interdetto. Finora ci mancano i particolari dell'avvenuto; ma siccome la Gazzetta del Popolo non li attese per ingiuriar noi, per pascersi del nostro dolore, cosi noi pure non li attenderemo per darle la meritata risposta.

- 207 -

E vogliamo ricordare dapprima come il medesimo principio che armò la mano di Agesilao Milano contro il Re di Napoli, armasse pure quella del prete interdetto centro l'Arcivescovo di Parigi. È il principio dell'insubordinazione, dell'indipendenza assoluta, che si ribella contro l'autorità. Un prete sta ad un vescovo, come un suddito ad un sovrano. Il sovrano imprigiona il suddito fellone; il vescovo interdice il sacerdote traviato. Amendue si ribellano, resistono, ed in fin dei conti giurano morte al proprio capo.

Ora chi cerca gettare l'insubordinazione nel clero dopo avere sparso il seme dell'anarchia nella società? Noi siamo obbligati di ricordare alla Gazzetta del Popolo una memoria di famiglia. La smemorata dimentica le glorie sue, e non bada a raccogliere il fruito de' suoi lavori. Questa gazzetta nel 1850 stabiliva in Torino un comitato di preti interdetti collo scopo di proteggere il clero contro il dispotismo vescovile; apriva le porte del suo uffizio a quattro sacerdoti sospesi e cedeva lo spazio delle sue colonne pei loro indirizzi. Dopo di aver detto ai sudditi: Voi potete fare a meno della costosa spesa di un Re; diceva ai preti: Voi dovete fate a meno della noiosa sorveglianza di un Vescovo 1 Uno dei preti della Gazzetta del Popolo progredì nella carriera lubrica della resistenza all'Episcopato, e si rese protestante!

Se l'indegno sacerdote di Parigi si fosse trovato in Torino nel 1850, senza dubbio sarebbe andato a bussare alle porte della Gazzella del Popolo, facendosi scrivere tra' membri del suo comitato contro il despotismo vescovile. Trovandosi invece in una diocesi dove non sapea come sfogare il suo mal animo né colle calunnie, né cogli improperii, ricorse al pugnale. Oh la scelleratezza é inaudita! Un sacerdote del Dio della pace, che s'arma di coltello, che uccide il suo Vescovo! Ma noi possiamo fulminarla; la Gazzetta del Popolo, no, perché questa è la conseguenza dai suoi principii. I sacerdoti interdetti non lodano certo l'Armonia, e nessuno vorrà obbligarci ad addurne le prove, come a Parigi non leggono al certo né l'Univers, l'Ami de la Religion. I sacerdoti interdetti leggono que' giornali che deprimono l'episcopato, che dividono il clero in due parti, ed aizzano di continuo quello che chiamano basso contro quello che dicono alto clero; che combattono ogni maniera d'autorità, ed eccitano al disprezzo della disciplina de' canoni.

Badate un po' che differenza immensa corre tra l'Univers ed il prete assassino! Monsignor Sibour nel 1850 interdice l'Univers; egli scrittori dell'Univers non indugiano un istante solo a far atto di sommessione al suo decreto, promettealo di riparare in avvenire quello io coi avessero potuto errare. Lo stesso Arcivescovo il 3 di ottobre scrive ai redattori dell'Univers; «L'omaggio che voi rendete all'autorità episcopale mi riempie il cuore di consolazione per l'onore che ne ridonda alla religione ed alla Chiesa». Monsignor Sibour interdice un prete; e questi, ben lungi dal sottometterei alla sua sentenza, la disprezza, ed assassina il suo pastore!

Gli sentieri dell'Univers sono laici. Dunque, dirà taluno, v'hanno laici migliori dei preti? Francamente soggiungeremo; che non v'hanno esseri peggiori de' preti cattivi. Corruptio optimi pessima. Il prete che da nel reprobo, non sente più nessun freno, e cade in piena balia delle proprie passioni.

- 208 -

E debito nostro avvertirne i nostri concittadini, e lo facciamo colla massima ingenuità. Guardatevi dai preti cattivi, cioè dai preti che non obbediscono ai loro Vescovi, dai preti che non vestono il loro abito, dai preti che sono interdetti dall'esercizio del loro ministero. Meglio un secolare pessimo, che un prete cattivo. L'esperienza l'ha tante volte dimostriate. E il prete voi lo dovete riconoscere facilmente per le sue relazioni col Vescovo. 0 si comporta con lui da figlio devoto ed amorevole, e dite pure che è buon prete; o lo denigra, l'offende, o semplicemente gode delle offese, che gli fa il giornalismo libertino, ed abbiate per certo, che è un pessimo prete, e fuggitelo, fuggitelo per carità!

Del resto noi non crediamo, che v'abbiano pusilli al punto da patire scandalo d'un prete assassino. Questo fatto invece dimostra come i preti sieno sorvegliati, e rimossi dai divini ministeri gli indegni; la qual cosa dee ingenerare maggiore confidenza nel popolo. D'altra parte la storia di Giada è antica, e fu pure un Apostolo che tradì con un bacio il divino Maestro |Noi non sappiamo, se taluno de' nostri giornali vorrà uscire in difesa dell'assassino dell'Arcivescovo di Parigi; questo sappiamo, che Giuda Iscariota fu già difeso in Torino da un scrittore libertino, e non solo in un articolo del suo giornale, ma in un'opera di due volumi; e quest'opera è la Critica degli Evangeli, e questo scrittore non abbiamo il coraggio di nominare.

PARTICOLARI

SULL'

ASSASSINIO DI MONSIGNOR SIBOUR

(Dall'armonia, supp. n.4,7 gennaio 1857).

I giornali francesi riboccano di particolari su questo esecrando delitto, che commosse tutta Parigi. Riportiamo gli estratti dei principali:

IlMoniteur scrive: - «Un delitto orribile fu commesso oggi (3) nella chiesa di S. Stefano del Monte. Dopo la processione, e mentre s'avvicinava alla sacristia, Mons. Arcivescovo di Parigi fu colpito di stile da un prete di nome Vergès, testé interdetto.

«L'Arcivescovo fu portato negli appartamenti del parroco di S. Stefano, dove morì immediatamente. L'assassino fu subito arrestato.

«Non potremmo dipingere a parole la profonda commozione dei numerosi fedeli, che si trovavano riuniti in chiesa, e la dolorosa impressione che la morte del virtuoso Prelato produsse questa sera in tutta Parigi».

La Gazette des Tribunaux aggiunge:

«Oggi, sabato 3 gennaio, festa di S. Genoveffa, si comincia la novena che si celebra annualmente a S. Stefano del Monte in onore della protettrice di. Parigi. Monsignor Arcivescovo, secondo il consueto, presiedeva a questa funzione. A 4 ore, nel momento in cui la processione s'avanzava nella navata della chiesa, un uomo vestito di pastrano nero uscì improvvisamente dalla folla, che sinchinava divota, s'avventò contro il Prelato, e sollevando con una mano i sacri abiti pontificali, coll'altra gli conficcò nel onore un pugnale catalano.

- 209 -

Il movimento dell'assassino fu così rapido da render impossibile ogni tentativo d'impedirlo, e quando gli astanti si argomentarono di aggranchio, lo sventurato Prelato cadeva agonizzante tra le braccia dei sacerdoti che lo circondavano.

«L'assassino si lasciò arrestare senza resistenza, e consegnò egli stesso a chi l'arrestava lo stiletto cruento. Monsignore fu trasportato subito in sacrìstia: ma tutte le cure furono inutili: morì subito. Lo stile gli aveva passato il cuore. L'assassino fu condotto in prigione tra le imprecazioni della folla indignata per questo orribile sacrilegio. Il fisco, rappresentato dal procuratore imperiale de Cordoén, dal sostituito Moignon e dal giudice d'istruzione Treilhard, si recò sulla faccia del luogo, e cominciò l'istruttoria. L'assassino rispose con calma a tutte le interrogazioni.

«È un prete di nome Vergès, di 31 anno. Prima addetto come semplice prete alla parrocchia di S. Germano: in seguito appartenne alla diocesi di Meaux, come curato nel circondario di Melun. Là avea meritato più volte i rimproveri dei suoi superiori ecclesiastici, e recentemente era stato interdetto per un suo sermone, in cui impugnava violentemente il domina dell'Immacolata Concezione. Era ricorso contro questo interdetto (del Vescovo di Meaux) alla giurisdizione dell'Arcivescovo, che credette dover mantenere la decisione. Da quell'epoca Vergès s'era fatto notare per altri atti, che aveano chiamato su lui l'attenzione dell'autorità giudiziaria.

«Interrogato sui motivi del suo delitto, rispose che non avea nessun odio personale contro l'Arcivescovo: ma volle, ammazzandolo, protestare contro il domma dell'Immacolata Concezione, e molte volte ripete: Non voglio Dee I Dichiarò aver comprato ieri il pugnale, e non negò d'essersi recato in chiesa coll'intensione d'uccidere l'Arcivescovo.

«All'udire questa risposta, nasce il dubbio, se quest'uomo conosca la gravita del suo delitto.

«Però, verso la fine dell'interrogatorio, pianse, e quando gli fu detto che avea commesso un delitto enorme, soggiunse: Sì veramente enorme It

Il Constitutionnel:

«Vergès non appartiene alla diocesi di Parigi, fu ordinato sacerdote a Meaux; ma interdetto 5 volte, ed assoluto dietro le sue istanze e promesse. Fu eziandio addetto per breve tempo alla cappella imperiale in qualità di crocifero; ma venne licenziato pei suoi violenti trasporti.

«È un uomo di statura mezzana, un po' magro, aveva al momento del delitto un cappotto nero ed un pastrano.

«Alle otto di sera il cadavere del Prelato fu trasportato al palazzo arcivescovile.

» L'avviso seguente venne affisso alle porte della chiesa:

«Monsignor Arcivescovo essendo staio morto da mono scellerata nella chiesadi S. Stefano, oggi, alle 5 di sera, la chiesa rimane interdetta fino alla ceri"monta espiatoria che sarà ulteriormente annunciata.

«Firmato: E. Bories, Curato.

- 210 -

«Oggi domenica, là chiesa, ore fu commesso l'atroce delitto, venne esternamente coperta di drappi neri. In tutte le altre chiese e cappelle di Parigi non vi fu messa solenne. Si celebrò una messa piana, dopo la quale furono recitati i salmi penitenziali.

«Molte carte scritte e stampate si trovarono nelle tasche di Vergès, come pure una lettera sigillata. La maggior parte di tali scritti conteneano ingiurie contro i superiori di lui o attacchi contro alcuni dommi. Del resto tutto dinota in questo assassino un turbamento dette facoltà intellettuali. Or ha qualche tempo, diede uno scandalo alla Maddalena, ponendosi alla porta principale con un cartello affisso sul petto, in cui v'era scritto? lo sono un prete interdetto e muoio di fame.

«Una folla considerabile si recò oggi a S. Stefano: ma trovando le porte chiuse, i pellegrini, venuti da lontano, si recavano a S. Genoveffa, dove furono portate ed esposte le reliquie della Santa. Il domani Vergès dovea essere arrestato per un suo scritto contro una sentenza del magistrato». (Vedi a questo proposito quanto scrive il Droit riferito qui appresso).

L'Univers: «Prima d'ora Vergès era stato denunciato alla polizia per le sue minaccie contro un rispettabile curato di Parigi, da cui aveva ricevuto beneficii: ma non avea mai lasciato trapelare nessun cattivo disegno contro Monsignor Arcivescovo. Era ritornato dalla sua diocesi il 24 di dicembre, ed avea preso alloggio via Rad ne, N° 2. Passava, dicono, i suoi giorni a studiare nelle biblioteche, e lo stesso dì,3, vi s'era pure recato. Frattanto covava il suo progetto, e spiava l'occasione di eseguirlo. Comprò lo stile dal coltellato della via Dauphine».

L'Univers aggiunge che Vergès nacque a Parigi nella parrocchia di S. Sulpizio, ma fu ordinato prete a Heaux, alla qual diocesi appartiene. Lo stesso Univert scrive correre voce che il padre, la madre ed un fratello di Vergès sieno morti per suicidio: i primi, ha qualche anno: l'ultimo, da soli pochi mesi. Secondo gli ani, nell'atto dell'assassinio avrebbe gridato (scrive sempre l'Univers): Non si lascia morire di fame un prete! Secondo altri: Non voglio Dee, alludendo all'Immacolata Concezione.

Omettiamo ulteriori ragguagli dell'Univers, perché in tutto conformi a quelli dei giornali già riferiti.

Il Droit scrive: «L'assassino è un prete che rimase impassibile, collo stile in mano grondante sangue, vicino alla sua vittima che vide "venir meno con gioia satanica. A Melun Vergès prese con sommo impegno a difendere una donna accusata di veneficio contro suo marito. Venne condannata alla galera in vita. Vergès protestò, dicendo in pubblico che la era innocente; fece stampare la sua protesta: ma il fisco la sequestrò. Era scritta con modi ingiuriosi contro i magistrati che avevano pronunciato la sentenza; l'autorità ecclesiastica credette doverlo interdire, e Vergès manifestò una grande esasperazione.

Gli fu chiesto se aveva dato più d'una stilettata a Monsignor Arcivescovo? No rispose, una sola! Perché io aveva ferito il cuore e sapea che il colpo era mortale. «Perché, gli fu ancora domandato, avete gridato ferendo: abbasso le Dee! Perché non credo all'Immacolata Concezione, sulla quale mi sono spiegato chiaramente in pulpito; volli protestare una volta di pia contro questo culto empio.

- 211 -

Perché avete commesso questo massimo delitto? Perché fui interdetto; e mi venne annunciato questa volta che l'interdetto non sarebbe tolto.

«La calma di quest'uomo, dopo un sì grande delitto, le stesse circostante tra le quali lo commise, sembrano indicare che non avesse l'intelletto sano; e fa d'uopo credere, per l'onore dell'umanità, che quest'uomo insignito delle sacre funzioni di prete, è un matto e non un mostro».

Tali sono i ragguagli che troviamo di questo tristissimo avvenimento nei giornali di Parigi sopracìtati, un po' confusi, incerti e contraddittorii nelle circostanze di minor levatura, come suole succedere nei primi momenti. Ora mettiarao il racconto d'altri giornali minori, perché in tutto conformi ai riportati. Solo aggiungiamo queste circostanze:

L'assassino non era vestito da prete, ma da secolare nell'atto di commettere il delitto. L'Arcivescovo, appena trafitto, guardò in volto il suo carnefice, ed esclamò: Ah! lo sventurato (malheureux)! L'ab. Surat, vicario generale, diede subito l'assoluzione al moribondo Prelato. Il cadavere dell'Arcivescovo fu imbalsamato ed esposto il 4 nell'aula dell'arcivescovato: non pare morto, ma dormente. Non è ancora fissato il dì dei suoi funerali. Egli era sonatore dell'Impero.

CONDANNA DELL'ASSASSINO

DELL'

ARCIVESCOVO DI PARIGI

(Dell'Armonia, n.18,43 gennaio 1857 ).

L'assassino dell'Arcivescovo di Parigi è condannato a morte. Coloro che assistettero ai dibattimenti, avvocati, magistrati incanutiti nell'esercizio del foro e della magistratura, attestano non aver mai assistito a spettacolo più schifoso, più doloroso, e reso più orribile da quel non so che di comico, che il ciarlatanismo dell'accusato vi andò mescolando. L'audacia, la svergognatezza, il cinismo, e la pretesa di darsi l'aria d'importanza, congiunta con un sacrilego misticismo, formano un complesso di tragico e di comico, che vi strazia i nervi, alternandosi nell'animo l'orrore che ti fa raccapricciare, e l'ilarità che ti muove, tuo malgrado, a riso: orrore e riso del pari molesti e dolorosi.

Noi tenteremo di darne qualche cenno, togliendo parola per parola dagli atti del processo. Dall'atto di accusa consta che il Vergès fu trattato colla massima dolcezza e colla massima accondiscendenza, sia dal Vescovo di Meaux, sia dall'Arcivescovo di Parigi, come pure da' suoi colleghi nella cura delle anime, coi quali ebbe relazioni. Ammesso per la carità d'una Suora di Carità nel piccolo Seminario di Saint Nicolas du Chardonnet, ne fu cacciato nel 1844 pour fante la probité etait compromise. Dopo essere stato ordinato prete, non contento alla cura delle anime in campagna, recossi a Parigi, ove il parroco di Saint-Germain-l'Auxerrois lo accolse in casa. Essendo il Vergès carico di debiti, il buon parroco gli diede 800 fr. per pagarli. Per riconoscenza il Vergès, vedendo che il parroco non soddisfaceva a tutte le sue brame, corrispose con abbominevoli calunnie contro il suo benefattore.

- 212 -

Nel 1855 l'Arcivescovo lo sospese dalle sue funzioni. Il Vergès passò sette mesi a Parigi, importunando ora l'Arcivescovo, ora i tribunali con calunnie contro il suo benefattore, il parroco di S. Germano. Finalmente il Vescovo di Meaux, per le preghiere dell'Arcivescovo di Parigi, lo accolse di nuovo in diocesi. Ma nel dicembre 1856 il Vescovo dovette sospendere il Vergès per i seguenti motivi: t 1° Per avere scritto un libello ingiurioso contro una sentenza della Corte d'Assise di Mélun; 2° per predicazioni fatte nella sua parrocchia contro il domma dell'Immacolata; 3° per uno scritto avente per titolo: Testament, pieno di violente invettive contro i dommi della religione, e contro l'autorità diocesana». Partì per Parigi il 26 dicembre 1856, ed il 3 di gennaio 1857 eseguiva il sacrilego assassinio.

L'assassinio però era già dal Vergès deliberato fin dal 31 di gennaio 1856, quasi un anno prima dell'esecuzione: perché uno scritto con quella data trovato tra le carte dell'assassino termina così: «Solo ho premeditato, ho commesso, e fatto il colpo scagliato contro l'Arcivescovo di Parigi». Interrogato dal giudice istruttore, Vergès rispose: «Questa carta fu scritta da me; è vero che l'anno scorso quando mi trovava senza mezzi di sussistenza, perché eranmi state tolte le facoltà, ho deliberato di uccidere Monsignore: rinunciava a questo divisamento quando ebbi la speranza d'essere di nuovo collocato nella diocesi di Meaux, Io ripigliai e l'eseguii» ecc. Fin qui Tatto di accusa.

Nei dibattimenti abbiamo due deposizioni di testimoni presenti al colpo, e che contribuirono all'arresto dell'assassino, da cui risulta che questi, dopo il colpo fatale, brandendo il coltello, gridò: via le de esse] 11 Vergès nulla oppose a questa deposizione.

Inoltre abbiamo la deposizione del sig. Montandoli, pastore della chiesa riformata, che dice essersi a lui presentato il Vergès, dicendo aver molto a lagnarsi de' suoi superiori, e che voleva farsi protestante. Il Vergès risponde: «Dopo aver visto, ho rinunciato a' cattolici come a' protestanti, perché ho riconosciuto che sono tutti nell'errore».

Del resto poi il Vergès insulta e sbeffeggia i testimoni, il fisco, il presidente, tutto il tribunale. Diffama presenti ed assenti, e vuole che si leggano i suoi scritti, diffamatorii e calunniosi. E perché il presidente lo fa tacere, e nega di far leggere quelle calunnie, il Vergès infuria, impreca, maledice. Dice all'abate Bautain, vicario generale di Parigi, uno dei testimoni: «Voi siete uno scellerato innanzi a Dio ed agli uomini». Al presidente, che gli rimprovera l'abborninevole sua proposizione, in cui diceva che non gli restava più che ad uccidersi da se stesso, Vergès risponde: a Menzogna, menzogna mille volte al presidente! Anatema!» II presidente, voltosi ai giurati, dice: «Non si può a meno che aver pietà di siffatta esaltazione; vuole giustificare il suo delitto con orribili dottrine». Il Vergès di ripicco: «Menzogna, signor presidente, menzogna!».

L'assassino tenta di spargere schifose calunnie contro due Vescovi, ed il Presidente gli intima silenzio. L'assassino si volge all'uditorio, e grida: «Vedete! Non sono libero». Finalmente il furore dell'assassino monta al colmo, ed il Presidente lo minaccia di farlo condurre via, ed egli risponde furibondo: «La porta, o la ghigliottina! Non temo nulla.

- 213 -

Mi riderò delta morte, come mi rido del tribunale: siete una mano di miserabili. Non temo che Dio»: «così dicevo, si contorce, si dimena, e mugghia come un indemoniato. Il Presidente ordina che sia condotto via; allora grida: «Popolo, difendimi!» A queste parole un immenso grido si leva dall'uditorio, e tra lo schiamazzo, s'intendono da ogni lato le grida: «No, no! I Assassino! Assassino!».

Ricondotto di nuovo innanzi al tribunale, l'accusato vuole impedire il fisco di pronunziare la requisitoria, t Voi tremate, grida, avendo a fronte un così terribile avversario! Sì, avversario, signore: sono vostro avversario. Voi non parlerete, non voglio che parli. Gli tolgo la parola; voi me Pavete tolta. Non parlerà; noi permetterò». Non c'è modo, né verso: per terminare il dibattimento bisogna condur via quell'energumeno. La sentenza gli è letta da un segretario in prigione.

Da questi rapidi cenni risulta, che il Vergèè ribelle alla Chiesa contestandone i domini, è ribelle ai Vescovi negando di riconoscerne l'autorità, è ribelle allo Stato attaccando la parte più sacra, quale è l'amministrazione della giustizia. Quindi, non solo non è più cattolico, ma venne rifiutato perfino da protestante: ed esso, irritato da questo rifiuto, maledisse a' cattolici ed ai protestanti.

Dove siete ora, signor Risorgimento, che con tanta compiacenza ascriveste il Vergès tra gli ammiratori dell'Univers e del partito clericale? Traete innanzi, e diteci un po' a qual parte appartenga questo mostro. Noi possiamo dire che non è dei nostri, giacché da noi uscì, ma non era de' nostri. «Sono usciti di tra noi (dice l'Apostolo S. Giovanni, parlando di certi anticristi, cioè di Cerinlo, di Ebione, ecc.), ma non erano de' nostri; perché se fossero stati de' nostri, si sarebbon certamente rimasi con noi; ma si dee far manifesto che non tutti sono de' nostri». (I. loan. II,19).

Né si potrà dire che la durezza dei Vescovi spinse questo sciaurato al mal passo. Se havvi colpa ne' Vescovi, potrebbe essere di troppa indulgenza per i costui falli, e già qualche giornale, sebben timidamente, mise innanzi quest'accusa. Ipocriti! Se i Vescovi tengono testa a' preti che non sono de nostri, voi li accusate di rigidezza, e sopra dei Vescovi riversate la risponsabilità della colpa del prete malvagio, come appunto fece l'Opinione accusando l'Arcivescovo di Parigi dell'assassinio di cui fu vittima, perché lo avea punito. Che se i Vescovi, imitando il Signora, il quale è multae misericordiae et patiens, soffrono lungamente i discoli colla speranza di ridurli a migliori sentimenti, allora inveite contro i Vescovi perché proteggono l'iniquità dei loro chierici

Vedete adunque, o signori, che non sono le dottrine dell'Univers e dell'Armonia, che armano la mano del sacrilego assassino. Sono le dottrine di coloro che esaltano Milano come forbissimo uomo, che ne fanno l'apoteosi: sono coloro che trattano da giovani generosi gli assassini di Carlo Alberto, e ne patrocinano la causa ne' giornali.

Verger è prete, è vero: ma è prete come vuole i preti il Risorgimento, ribelli all'autorità della Chiesa; come li vuole la Gazzetta del Popolo, né cattolici, né protestanti, ma senza fede e senza legge; come li vuole il ministero, sempre pronti a ribellarsi a Roma ed al Vescovo. Eccovi il prete assassino dell'Arcivescovo di Parigi. Se lo pigli chi lo vuole: nostro non l'è. Esso medesimo ci ha rinnegati; ed i fatti suoi lo rinnegarono per nostro.

- 214 -

LA MEDAGLIA DEL CONTE DI CAVOUR

E

I ROMANI DI TORINO

(Dall'Armonia, n.11,15 gennaio 1857).

I signori Farmi, Mamiani, Ercolani, Zenocrate Cesari, componenti la deputazione, che presentò al conte di Cavour una medaglia d'oro in nome delle popolazioni romane per averle difese a viso aperto nel Congresso di Parigi, ci mandano due lettere in una, indirizzate la prima al nostro Direttore, e l'altra al nostro corrispondente o corrispondenti di Roma, chiedendoci d'amendue la pubblicazione in cortesia, e, bisognando, a termini della legge.1 termini della legge forse non favorirebbero affatto que' signori, ma alla nostra cortesia non si ricorrerà mai inutilmente. Ecco adunque la prima lettera.

Signor direttore dell'Armonia.

Torino, il 13 di gennaio 1857.

«Nel foglio dell'11 di gennaio del suo diario, sotto il titolo di Smentite ai giornali nelle cose di Roma, si leggo una corrispondenza particolare, in cui è scritto che, la deputazione, la quale presentò il conte di Cavour di una medaglia, ed il generale Lamarmora di una spada, in nome delle Romagne e della Marca, si eresse arbitra dell'opinione del paese, si arrogò il diritto di parlare a nome di un milione e mezzo di abitanti: più sotto, che sì fatte dimostrazioni sono un motto d'ordine fatto partire da Torino, o dato a Torino, e qui eseguito.

Non avendo noi altro modo di mandare una risposta al suo anonimo corrispondente di Roma, invitiamo Lei, sig. Direttore, a pubblicare, in cortesia, e, bisognando, a termini della legge sulla stampa, la seguente lettera».

Qui segue la lettera al nostro corrispondente o corrispondenti; ma affinché il lettore possa avere sotto gli occhi la proposta e la risposta, vi premetteremo quel brano di corrispondenza, a cui i signori della deputazione della medaglia d'oro rispondono, o pretendono di rispondere. La corrispondenza diceva adunque cosi:

«Sul principio del passato anno fu presentata a? conte di Cavour, che si disponeva a partire pel Congresso di Parigi, una memoria, che si fece credere scritta dai Romani. Essa fu fatta a Firenze (ed il signor marchese Gualterio ne potrebbe fare testimonianza), e portata in Roma fu sottoscritta da alcuni; ma nondimeno Tenne pubblicata poi come se quanto conteneva fosse l'espressione dei sentimenti delle popolazioni degli Stati Pontifici. Ora la Correspondance Italienne, e dopo lei gli altri giornali, fanno noto, che una deputazione delle Romagne presentò al signor conte di Cavour una medaglia d'oro fatta coniare dagli abitanti delle Legazioni e delle Marche, per eternare la memoria del Congresso di Parigi; e a nome degli stessi abitanti presentò una spada d'onore al generale Alfonso Lamarmora.

- 215 -

Ella è pur cosa strana veder un pugno d'emigrati erigersi arbitri della opinione di un paese, e parlare a nome di popolazioni, di cui la più parte ignorano che siasi coniata a spese loro una medaglia, e consegnata al degno oratore di Vittorio Emanuele, specchio dei Re. Infatti, la deputazione, secondo i giornali, che ne hanno dato contezza, era formata del medico Carlo Farini, di Rossi di Biancoli, ed Ercolani bolognesi, e di Mamiani di Pesaro, tutti emigrati (eccetto il Farini che non ebbe esilio), che si arrogano il diritto di parlare a nome di più che un milione e mezzo di abitanti, e di farlo essere riconoscente a Camillo Cavour, perché nel Congresso di Parigi propugnò i diritti dell'Italia conculcati. Il degno oratore mi sembra che doveva quasi vergognare nel ricevere la deputazione che presentò la medaglia; ma la Corretpondance Italienne ci fa sapere al contrario, che accolse con riconoscenza questa lusinghevole testimonianza della profonda simpatia che la politica del governo del re Vittorio Emanuele inspira alle popolazioni d'Italia. Anche i Napoletani ed i Lombardi (è un motto d'ordine fatto partire da Torino, o dato a Torino, e costì eseguito) hanno fatto altrettanto, e sono certo che il degno oratore ogni deputazione avrà accolto con riconoscenza, vedendo che gli presentava una moneta d'oro, la quale da un ministro delle finanze non è cosa da disprezzare. Peccato;che le nuove conferenze di Parigi abbiano chiusa la via a nuovamente chiacchierare sull'Italia 1 11 signor conte di Cavour stimolato da tanto lusinghevoli accoglienze, sarebbe volato sulla Senna a dire il resto; e sono persuaso che qualche patriota napoletano rifuggito in Piemonte lo avrebbe pregato a giustificare......»

Ora ecco la risposta dei signori della deputazione;

AI corrispondente ed ai corrispondenti particolari dell'Armonia a Roma.

Le persone dalle quali ricevemmo la coommissione di presentare il conte di Cavour di una medaglia, ed il generale La Marmora di una spada, sono tante e così spettabili, che ci rechiamo ad onore di esserne stati i mandatarii.

«Si vorrebbe forse che ne pubblicammo i nomi?

«Per ora non possiamo appagare di questo pio desiderio i romani corrispondenti dell'Armonia!

«Noi abbiamo già dato a chi ai Conveniva i debiti documenti.

«Non abbiamo bisogno di documentare a otri d incaricò dell'onorevole ufficio, come sieno pienamente false le insinuazioni stampate nella corrispondenza particolare del 2 gennaio.

Del rimanente ogni onesta e discreta persona dello State Romano, la quale, grane all'imprudenza dei corrispondenti particolari dell'Armonia, leggerà questa nostra risposta, sarà capace dei motivi, per cui non possiamo pubblicare quei nomi.

«Accenneremo soltanto alcuni di siffatti motivi ai galantuomini d'altri paesi, i quali per avventura non conoscessero abbastanza le condizioni politiche degli abitanti dello Stato Romano.

- 216 -

«1° Il governo papalino condannò agli arresti ed in denaro i Bolognesi che in principio del ristauro osarono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile.

«2° Colle circolari riservate distrugge anche i MOTU-PROPRII del Papa, dando ad intendere all'Europa che questi sono pienamente effettuati.

«3° La polizia mette e tiene in prigione ohi vuole, poi da l'esilio perpetuo a coloro che i tribunali mandano assolti dalle sue accuse.

«4° Gli Austriaci per conto proprio fanno inquisizioni ed arresti, e danno la tortura nelle carceri.

«Queste poche avvertenze basteranno a spiegare la ragione per la quale noi a malincuore manchiamo di urbanità, non appagando la legittima curiosità dei corrispondenti romani dell'Armonia.

LUIGI CABLO FARINI,

TERENZIO MAMIANI,

G. BATTISTA ERCOLANI,

ZESOCRATE CESARI,

altro della Deputazione, dimenticato dal corrispondente romano.

Noi qui potremmo lasciare l'incarico al nostro corrispondente (numero singolare) di replicare ai signori della medaglia; ma costoro radunando tutte le possibili accuse contro il governo pontificio, non riuscirono a mettere fuori che quattro punti, ai quali non è difficile rispondere stans pede in uno. Epperciò, lasciando al nostro corrispondente pienissimo il diritto di parlare o di tacere, come stimerà meglio, da parte nostra pubblichiamo la seguente replica:

Ai signori della medaglia presentata al conte di Cavour in Torino.

Il conte di Cavour difese l'Italia a viso aperto; i Romani, che voi dite di rappresentare, difendono il loro paese colla maschera sui volto,

I mandanti a detta vostra sono tanti e spettabili. Riguardo ai tanti, voi, che non credete al governo pontificio, pretendereste che credessimo a voi? Riguardo agli spettabili, non ci pare che questo epiteto quadri a chi cospira contro il proprio legittimo sovrano Pio IX, e si nasconde fra le tenebre»

Vincenzo Gioberti era della nostra opinione quando nel 1846 scriveva «Lodar Roma sotto Pio non è gran merito, poiché oggi solo i ribaldi e gli stolti la maledicono. (Gesuita Moderno, VoL. I, pag.290).

Noi non pensiamo del resto che il nostro corrispondente abbia desiderato mai che voi pubblicaste i nomi de' vostri mandanti. Per avere un nome bisogna esistere.

E voi, o signori della medaglia, ci imboccate la risposta quando dite: «Non abbiamo bisogno di documentare a chi c'incaricò dell'onorevole ufficio come sieno pienamente false le insinuazioni stampate nella corrispondenza particolare del 2 gennaio».

Trascrivendo le vostre parole, possiam dire a nostra volta:

- 217 -

Non abbiam bisogno di documentare come sieno pienamente false le accuse che si danno dai signori della medaglia al governo Pontificio.

Eppure vogliamo essere più larghi di voi, e sottoporre al giudizio d'ogni onesta e discreta persona, non solo dello Stato Romano, ina di tutto l'universo, una nostra semplicissima osservazione.

Voi in sostanza, signori della medaglia, dite che non volete pubblicare i nomi de' vostri mandanti, perché ne incoglierebbe loro la peggio per parte del governo, e citate a prova i Bolognesi condannati agli arresti e in danaro, perché m principio dei restauro osarono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile; «la polizia che tiene in prigione chi vuole, e gli Austriaci che danno la tortura nelle carceri.

Non vi chiederemo nomi e documenti; ci rispondereste: per ora non vi possiamo appagare di questo pio desiderio. Abbiamo già dato a chi si conveniva i debiti documenti. Solo vi ricorderemo due numeri della Gazzetta Piemontese, l'uno del 31 luglio, e l'altro del 6 di agosto 4856.

Nel primo si raccontava che il Consiglio comunale di Bologna avea discusso delle spese dell'occupazione militare austriaca, ed espresso apertamente un voto che, rimesse le cose nel suo stato normale, cessasse il più presto possibile.

Ciò prova, signori della medaglia, due cose contro di voi; l'una, che i Bolognesi possono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile, senza essere condannati agli arresti ed in danaro, giacché non sappiamo che il Consiglio comunale di Bologna sia stato in corpo, o tassato, od arrestato. L'altra, che non regna nello Stato Romano tutta quella tirannia che voi dite, ma che i Municipi! possono anche a suo tempo fare un po' d'opposizione.

Voi ci venite contando, che gli Austriaci fanno inquisizioni ed arresti, e danno la tortura. Nessuno però del Municipio di Bologna, che per sentenza della Gazzetta Piemontese avea chiesto lo sfratto degli Austriaci, patì, che sappiam noi, o tortura, od arresto, od inquisizione.

L'altro articolo della Gazzetta Piemontese diceva: «Ci scrivono da Ravenna, in data del 2 corrente (agosto): il Consiglio Municipale di questa Città ba imitato l'esempio dato da quello di Bologna. Otto fra i più ragguardevoli componenti del Consiglio hanno presentato una memoria ragionata, nella quale si 4omaqdaoo Consigli municipali elettivi, perché i veri bisogni ed i giusti desiderii delle popolazioni vengano conosciuti».

Nessuno di questi fu, o tassato, o torturato, o arrestato. Dunque, signori della medaglia, è falso che il governo papalino condanni agli arresti ed in danato.ehi, osa pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile.

Di qui non si sfugge: o non sono vere le notizie che i vostri scrissero sulla Gazzetta Piemontese di cinque mesi fa, o non reggono le accuse che fate stampare presentemente nell'Armonia. In certi casi, signori della medaglia, è indispensabile una buona memoria.

Voi date la taccia d'imprudenza al nostro corrispondente, perché v'ottenne la facoltà di far giungere questa vostra risposta negli Stati Pontificii. Ma se le cose che dite sono vere, non vi giungerà nulla di nuovo! Come dunque ve ne rallegrate?

- 218 -

Sapete che cosa si dirà negli Stati Pontificii ed in Piemonte dalle oneste e discrete persone,

che leggeranno queste linee? Si dirà che quando vi torna a conto, voi fate parlare e protestare i sudditi Pontificii, e quando questo non vi riesce, ve ne uscite pel rotto della maglia, dicendo che tacciono perché non possono parlare t Di questa guisa avete sempre ragione»

Signori della medaglia, quando i sudditi dei Papa seppero (che voi avevate fatto coniare nella zecca di Torino una medaglia al conto di Cavour e offertagliela coll'indirìzzo in loro nome, sapete ohe cosa dissero? Esclamarono ridendo: Dove eravamo noi quando queste cote pensavamo e scrivevamo?

E poiché avranno letto questa vostra risposta, sapete che cosa diranno? Diranno: Dove eravamo noi quando c tassavano ci arrestavano! torturavano!

L'Armonia però stima conveniente di rendere avvertiti i sudditi Pontificii d'una cosa che forse ignoreranno, ed è obese un municipio in Piemonte, sotto il governo del conto di Cavour, avesse fatto quello, che a detta della Gazzetta Piemontese fecero i municipi! di Bologna e di Ravenna, a quest'ora sarebbe stato sciolto. Invece que' due municipii continuano a governare a loro bell'agio.

Questo basti per ora. Quanto alle circolari riservate non sappiamo ohe il governo pontificio n'abbia mai scritto di quelle per raccomandare il noto rimedio economico. In fatto di circolari i ministri di Roma avrebbero molto da imparare dai ministri di Torino, e non impareranno mai più.

Signori della medaglia, accettate i complimenti ed i ringraziamenti

Della vostra serva

L'Armonia.

IL CONTE DI CAVOUR

SI FINGE NEMICO DELLA RIVOLUZIONE

(Dall'Armonia, n.14,18 gennaio 1867).

Le interpellanze avvenute nella Camera de' deputati il 15 di gennaio versarono principalmente su questo argomento, che gl'interpellanti A. Brofferio e Giorgio Pallavicini pretendevano dal ministero che si facesse il campione della rivoluzione; ed il ministero, per mezzo del conto di Cavour, dichiaravasi antirivoluzionario. Intorno alla qual cosa sono da esaminarsi i seguenti due punti: 1° Il ministero area dato sufficienti speranze a Brofferio ed a Pallavicini perché potessero pretendere da lui un abbraccio cordiale alla rivoluzione? 2° Non volendo i ministri dichiararsi rivoluzionari, furono consegnanti ai toro principii ed ai loro fatti, o non piuttosto s'inchinarono docilmente alfa mutata condizione de' tempi? Veggiamo questi due punti.

Il deputato Brofferio incominciò le sue interpellanze col ricordare le parole dette dal conte di Cavour dopo il suo ritorno dal congresso di Parigi. In quel tempo il Presidente del Consiglio dei ministri credeva d'aver l'Italia in tasca. Lord Clarendon e lord Palmerston gli avevano promesso Roma e toma, e gli pareva d'esser a cavallo.

- 219 -

Epperò, senza tanti complimenti aperse l'animo suo non tanto moderato come nel 1857. Ecco su questo proposito come parlò il deputato Brofferio:

«Il signor Cavour, interpellato dal signor Buffa a dichiarare quali fossero le intenzioni degli alleali a favor nostro, rispondeva con queste precise parole che ho letteralmente trascritte:

«Il plenipotenziario della Gran Bretagna, disse egli, mostrò tanta simpatia per la causa d'Italia, un così vivo desiderio di sollevarla dai mali che l'affliggono, da meritare la riconoscenza non solo dei Piemontesi, ma di tutti gli Italiani.

«Il plenipotenziario della Francia, soggiunse il signor ministro, tenne un identico linguaggio, e dimostrò eguale simpatia per la sorte dei nostri concittadini; e le sue parole furono tali da meritare il plauso di tutti gli Italiani».

«Poscia, assumendo più esplicito linguaggio, conchiuse:

«Sebbene il Congresso non sia arrivato ad un atto definitivo, è però lecito il credete che i consigli, di cui discorriamo, avvalorati come sono dall'autorità della Francia e dell'Inghilterra, sieno per riuscire talmente potesti od efficaci da sortire quei risultati che da essi ci ripromettiamo».

Né qui si conchiusero le parole del ministro; altre ne ascoltammo, e son queste:

«Le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l'Austria»; e come se queste parole così gravi non dicessero abbastanza, soggiuugeva: essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d'accordo, essere inconciliabile la politica dell'uno e dell'altro paese»; e conchiudeva fra generali applausi, che «la lotta potrebbe esser lunga, che molte potrebbero essere le peripezie; ma noi, esclamava egli con ardito accento, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l'esito finale». E qui gli applausi e le acclamazioni diventarono più fragorose che mai.

«Commossi da queste parole alcuni oratori dalle più opposte parti della Camera, e fra essi i deputati Valerio e Revel, sorgevano dicendo, che coteste parole avrebbero avuto eco in Italia, la quale non sarebbe stata lungo tempo senza farsi sentire, e chiedevano dinanzi ad avvenimenti che credevano prossimi, che vedeano gravi per noi, e più gravi ancora per le altre parti d'Italia, quale sarebbe stato il contegno del Piemonte.

«Al che rispondeva fieramente il ministro: «La via che seguirà il governo, sarà sempre quella che più direttamente conduce al maggior bene dell'Italia».

A questo guerriero appello del ministro faceva eco tutto il Piemonte; in ogni parte si parlava di prossimi incontri e di guerre e di vittorie; la stampa imboccava la tromba, e suonava a riscossa; il popolo sottoscriveva con unnime slancio alta proposta dei cento cannoni di Alessandro, molto bene completata dall'altra proposta dei 10m. fucili di Genova; piovevano le manifestazioni a favor nostro da tutte le capitali dell'Europa; l'emigrano!» si costituiva in comitati per essere pronta ad accorrere quando che fosse in compatta schiera verso fu commosso suolo natio; e tanta era l'ansia del supremo momento, che le più cospicue città dell'Italia affirettavansi ad attestarla al signor Presidente del Consiglio con patriottiche felicitazioni e coll'invio

- 220 -

di sculti marmi, di effigiati metalli. E chi lo chiamava Farinata, e chi Ferruccio e chi Cola di Rienzo (Ilarità generale). Ed intanto, che faceva il signor ministro?

I suoi compagni che facevano? Come si scioglieva questo strepito d'armi? All'italico entusiasmo come si corrispondeva? Come?».

Le parole dette dal Presidente del ministero nel maggio del 1856 erano pienamente rivoluzionarie, come sostiene il deputato Brofferio, e chiaramente apparisce. Il conte di Cavour pronunciandole sperava che Sicilia e Napoli, Roma e Toscana, sarebbero insorte come un sol uomo, e venute ad unirsi col Piemonte. Ma egli fé' i conti senza l'oste. Imperocché i Napoletani benedissero il loro Re, e lo benedicono ancora oggidì con continui indirizzi, che leggiamo nel Giornale ufficiale delle Due Sicilie; ed anzi, pensano di levargli un monumento. I Siciliani si tennero fortunatissimi d'essere uniti con Napoli, e di vivere sotto il governo del Borbone. I Romani si chiarirono contentissimi del Romano Pontefice, e pregarono Dominedio di liberarli dalle imposte, dalle vessazioni, dalle lotte innocenti del liberalissimo Piemonte, che contava perfino i regicidi tra i suoi legislatori. I Toscani restarono fedeli al Granduca; fedelissimi i Modenesi; ed i cittadini del Lombardo-Veneto accolsero l'Imperatore d'Austria colla devozione di sudditi, e colla gioia e l'affetto di figli.

Tutti i mezzi adoperati dai nostri ministri e dai nostri ministeriali per levare l'Italia a tumulto non valsero. Il Barone Bentivegna, che viaggiava dalla Sicilia a Torino, e da Torino alla Sicilia, fé fiasco. Il Piccolo Corriere Italiano, spedito clandestinamente in tutti gli Stati d'Italia, non riuscì a nulla. I discorsi detti nel Parlamento Subalpino da Cavour, da Mamiani, da Buffa, nel maggio del 1856, raccolti e sparsi per tutta la Penisola, furono un buco nell'acqua. Le sottoscrizioni pei cento cannoni d'Alessandria, si ridussero a somme di nessun conto. Le medaglie, i busti, gli indirizzi giungevano a Torino senza far gran viaggio,, giacché da Torino partivano colle diverse date di Roma, Firenze, di Modena, di Corno, e di Milano, ecc.

Il ministero non tardò ad avvedersi, che il giuoco non gli riusciva; e fallitogli il compito del rivoluzionario, indossò la veste del moderato. Brofferio rimproverai ministri, perché non s'erano serviti dell'insurrezione di Sicilia, né dell'attentato contro la vita del Re di Napoli. Ma perché questo rimprovero? - Perché i ministri col loro contegno, e principalmente il conte di Cavour colle sue parole, avevano lasciato sperare ai Brofferio e compagni, che di simili mezzi si sarebbero a suo tempo serviti.

Il deputato Giorgio Palla vicini nella stessa tornata stimolava il ministero colle seguenti parole:

«Il Piemonte, Stato italiano, deve seguir costantemente lo nobili e sante inspirazioni della politica italiana, la quale, fino al giorno del nostro riscatto, non può essere che rivoluzionaria, prudentemente sì, ma sinceramente rivoluzionaria. Non si cancellano i fatti compiuti, e noi dobbiamo accettarne le conseguenze. È scritto lassù che l'Inghilterra colorisca il disegno provvidenziale nelle Indie, la Francia in Africa, la Prussia in Germania ed il Piemonte

«..................................Nel bel Paese

«Che Apennin parte e il mar circonda e l'Alpe».

- 221 -

Volersi opporre al natural andamento delle cose egli è un cozzare nel decreto di Dio, e non si cozza impunemente ne' decreti di Dio!

«Se il governo subalpino (lasciò scritto quell'altissimo ingegno di Vincenzo Gioberti), se il governo subalpino dismette il pensiero d'Italia, se si ferma nella via degli avanzamenti, se tituba, trepida, s'inginocchia... entrerà in disaccordo coi tempi, che traggono irrevocabilmente al trionfo delle nazioni: avvilirà la Gasa Sarda: screditerà il principato, e lo perderà, se mai accada che sia messa sul tavoliere la posta fatale e attrattiva della Repubblica».

«E soggiungea: «Le vie di mezzo nei tempi forti rovinano gli Stati».

«Ma che dovrà fare il governo piemontese nelle presenti congiunture? Apparecchiarsi, ma seriamente, alla lotta suprema con quel governo, nostro vicino, i cui principii, disse il signor Presidente del Consiglio, sono inconciliabili coi nostri.

«Ma con quali forze lotteremo noi coll'esercito austriaco? Con quelle che l'Austria e gli aderenti suoi ci vengono preparando per sommo beneficio della Previdenza, colla rivoluzione.

»De tels raovens de gouvernement (dicevano i nostri oratori al Congresso di Parigi), de tels moyens de gouvernement (rapine, carceri, patiboli!) doivent nécessairement maintenir les populations italiennes dans un etat d'irritation constante et de fermentation révolutionnaire».

«La rivoluzione! Ecco l'alleato ed il solo alleato sul quale possa far disegno, ragionevolmente, il Piemonte italiano. Implorare il patrocinio de' potentati forestieri sarebbe una viltà; sperare in quello, demenza.

«Le grandi soluzioni, o signori, non si operano colla penna. La diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli; essa non può, al pia, che sancire i fatti compiuti e dare ad essi forma legale».

«Così diceva, non è molto, l'uomo illustre che presiede ai Consigli di Vittorio Emanuele. Ma se le grandi soluzioni non si operano colla penna, se la diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli... perché il ministero sardo s'appoggia sulla diplomazia ed avversa la rivoluzione?».

Il conte di Cavour, rispondendo ai deputati Brofferio e Pallavicini, dichiarò francamente che egli ed i suoi colleghi volevano cessare dall'essere rivoluzionarii; che mai più non si sarebbero appigliati a questo genere di politica.

«L'onorevole deputato Brofferio ci ha fatto rimprovero di non aver mandato un naviglio in Sicilia, ma i motivi appunto che egli ha addotto per provare che avevamo avuto torto in questa circostanza, ci avrebbero consiglialo a non farlo quando fossimo stati in forse di spedire navi su quelle coste. Le nostre parole, la nostra politica non tendono ad eccitare od appoggiare in Italia moti incomposti, vani ed insensati tentativi rivoluzionarii.

«Noi intendiamo in altro modo la rigenerazione italiana, e ci asteniamo da tutto quello che può tendere ad eccitare simili rivolgimenti. Noi abbiamo sempre seguito una politica franca e leale, senza linguaggio doppio; e finché saremo in pace cogli altri potentati d'Italia, mai non impiegheremo mezzi rivoluzionarii, non mai cercheremo di eccitare tumulti o ribellioni. Se ci fossimo proposti lo scopo, cui accenna l'onorevole Brofferio, se avessimo voluto mandare un naviglio per suscitare indirettamente moti rivoluzionarii, prima di farlo avremmo rotto la guerra e dichiarato apertamente le nostre intenzioni.

- 222 -

Quindi lo dichiaro altamente, io mi compiaccio del rimprovero che l'onorevole Brofferio mi ha rivolto.

«Rispetto a Napoli, egli è con dolore che io rispondo all'onorevole Brofferio. Egli ha ricordato fatti dolorosissimi; scoppio di polveriere e di navi da guerra con perdita di molte vite» ed un attentato orrendo. Egli ha parlato in modo da lasciar credere che quei fatti sieno opera del partito italiano: io li ripudio, li ripudio altamente, e ciò nell'interesse stesso dell'Italia. (Vivi segni d'approvazione).

a No, o signori, questi non sono fatti che si possano apporre al partito nazionale italiano; sono fatti isolati di qualche disgraziato illuso, che può meritare pietà e compassione, ma che devono essere stimatizzati da tutti gli uomini savii, e massimamente da quanti hanno a cuore l'onore e l'interesse italiano. (Bravo! Benissimo!).

È questa la favola della volpe, che lasciò stare l'uva, dicendola immatura, perché non poteva coglierìa? Oppure noi possiamo davvero congratnlarci col conte di Cavour e coi suoi colleghi convertiti pienamente dalla inala via, per cui s'erano incamminati? Non sapremmo ben dire se le parole conservatici del Presidente del ministero sieno figlio della disperazione o della conversione. Certo noi abbiamo onde goderne, e ne godiamo di cuore. Godiamo che il conte di Cavour non voglia rivolgimenti in Italia, e speriamo che quindi innanzi egli si asterrà da tutto ciò che possa provocarli. Speriamo che egli sia, a suo tempo, per infrenare la stampa, reprimerne la licenza, dar pace al Piemonte. Bravo, signor Conte, seguite questa via, e ci avrete de' vostri. Noi per lo innanzi vi giudicavamo rivoluzionario, perché tale vi dichiaravano i fatti e le parole. Ora protestate di non esserlo, e noi accettiamo le vostre proteste; le quali vogliamo credere, che saranno più consentanee coi fatti posteriori, che non furono conformi coi detti e coi fatti precedenti. Voi non siete rivoluzionario? Ebbene ricordatevi le parole del deputato Giorgio Pallavicini: «La diplomazia, che ha buona memoria, non ha dimenticato il quarantotto: essa diffida, e diffiderà sempre del Piemonte, fino a tantoche il Piemonte farà sventolare nelle sue città e nelle sue terre la bandiera tricolore. Questa bandiera, inalberata in Italia dalla rivoluzione, significa rivoluzione, né altro potrebbe significare: la diplomazia lo sa, che la diplomazia e trista, ma non è stolta».

APOTEOSI DI MILANO IL REGICIDA

(Dall'Armonia, n.19,24 gennaio 1856).

Oggimai niuno più si deve mare vigliare se i regicidi hanno gli onori dell'apoteosi nel nostro sventurato paese. Il Municipio di Torino, in Sul cadere dell'anno 1866, decretava che la Via d'Italia venisse chiamata Via di Milano. Immediatamente fu dato l'ordine di eseguire il decreto. Ma quale fu Io stupore de' cittadini, i quali videro sulle nuove lastre di marmo bianco scritto non Via di Milano, ma Via Milano! Tutti domandarono se era Milano la città, o Milano il regicida?

- 223 -

Oggi la Gazzetta del Popolo, N° 20, interprete e guida del Municipio, risponde col seguente epigramma;

Dunque la Via d'Italia (un sacrestano

Dicea) si chiamerà Via di Milano?

Ma di quale Milano, in cortesia,

Delle Calabrie o della Lombardia?....

Si dell'un che dell'altro,

Risposi al prete scaltro;

E il prete scaltro mi voltò il codino.

Citando e borbottando:

È un libertino!

N. R.

Dunque la risposta è chiara alla domanda qual è il Milano inciso sulle nuove lastre? Non il Milano città, perché dovea dirsi Via di Milano, come decretò il Municipio. È dunque il Milano regicida, come fece incidere il Municipio, appunto come diciamo Via Carlo Alberto, Via Socchi, via Lagrange, Perciò non ci meraviglie™ che domani si decreti e si scriva Via Gallenga in vece di Via Carlo Alberto, Via. Vergès invece di Via dell'Arcivescovato. Tanto più che corre voce per Torino che si aspettano le ossa di Agesilao Milano per innalzargli un monumento, non sappiamo in qual luogo, ma si dice che sarà sulla piazza reale. Già i nostri giornali ministeriali annunciarono che la fossa del Milano si è trovata vuota un bel mattino, ed il cadavere rubato da non si sa chi. Non ci stupiremo se domani i giornali annunzieranno che le ceneri di quel generoso frementi nell'urna sepolcrale, giunsero felicemente a Genova, per essere trasportate a Torino.

Intanto ecco ciò che scriveva l'Italia e Popolo del 10 di gennaio, N° 10, a proposito delle interpellanze di A. Brofferio, e della risposta del conte di Cavour: Una sola osservazione e una protesta. Il conte Cavour nella sua qualità di diplomatico, ha solennemente ripudiato per sé, e pel partito ch'egli rappresenta, ogni simpatia per quel fortissimo uomo, che si chiama Agesilao Milano. Sia pure: noi prendiamo atto di quella dichiarazione. Per parte nostra dichiariamo che desideriamo avere per figli e per amici uomini che gli somiglino. Quando l'Italia libera potrà esprimere la propria opinione, si vedrà a chi darà ragione, se a Cavour e ai signori dell'Opinione], o ad Agesilao Milano. Curvatevi pure, o servi della diplomazia, fino a rinnegarci migliori figli d'Italia, il paese vi giudicherà!»

L'iscrizione per il nuovo monumento è semplice, ma sublime,

Ad Agesilao Milano

Il migliore

De' figli d'Italia

I..... riconoscenti,

- 224 -

PROCESSO CONTRO IL CATTOLICISMO

NELLA CAMERA DEI DEPUTATI

(Dall'Armonia, n.83,24,85, del 29,30,31 gennaio 1857),

Spesse volte toccammo del carattere eterodosso ed empio della rivoluzione; ma oggidì è giunto il tempo di discorrerne di proposito. Nella nostra Camera dei deputati, lo sappiano i Piemontesi, sei sappia l'Italia, si gira un processo, non più all'Arcivescovo di Torino od al Clero di Aosta; ma alla medesima religione cattolica. Da due giorni si discute se il cattolicismo debba essere conservato, se possa stare colla libertà, ovvero se non sia meglio distruggerlo, e sulle rovine della croce piantare la bandiera tricolore. Ed il presidente della Camera dei deputati Carlo Cadorna dichiara che ognuno nella Camera può esprimere liberamente Improprie opinioni! (Atti Uff.; N°36, pag.137). Raccontiamo la storia di questo assalto dei pigmei contro del cielo.

Il deputato Alessandro Borella il 26 gennaio 1857 ingaggiò la battaglia contro il cattolicismo. E il Borella era degno di capitanare l'impresa. Egli aveva già fatto nella Gazzetta del Popolo una supplica al Papa, affinché lo comunicasse; uscito da una malattia poco pericolosa, avea dichiarato con empio cinismo che non s'era confessato, ed osò perfino chiamare l'Ostia santissima un gnocco volante. Nonostante venne eletto deputato al Parlamento, ed il collegio di Saluzzola è quello che fé questa scelta preziosa. Elettori, gloriatevi pure del vostro buon criterio!

Discutevasi da qualche giorno la legge sul pubblico insegnamento, allora quando si venne a trattare del seguente articolo: La religione cattolica sarà il fondamento dell'istruzione e dell'educazione morale, che lo Staio farà dare nelle scuole degli istituti pubblici. Vi potea essere qualche difficoltà nell'accettare questo articolo? Lo Statuto dichiara che la religione cattolica è la sola religione dello Stato. Dunque lo Stato negli istituti pubblici dee insegnare la religione cattolica. Così l'aveva intesa perfino il ministro Lanza.

Imperocché nel primitivo progetto ministeriale sull'istruzione non parlavasi né punto né fiore d'insegnamento religioso. Ma «parve al Senato, disse il ministro Lanza, che la prima volta, in cui una legge sulla pubblica istruzione veniva discussa in pieno Parlamento, fosse necessario, od almeno conveniente, di sancire il principio dell'istruzione religiosa». E il ministro Lanza s'era arreso al voto de' Senatori, proponendo il suo progetto ai deputati in guisa che toccasse della religione cattolica come base dell'insegnamento. Ma la Giunta incaricata di esaminare il progetto eliminò tosto quell'articolo. Del che si dolse fortemente quel valentissimo oratore e fervente cattolico che è il deputato Tola, ed ottenne dal ministro Lanza che sostenesse: «Negli istituti e nelle scuole pubbliche la religione cattolica è fondamento dell'educazione morale e dell'istruzione religiosa».

Lorenzo Valerio, uno de' caldi patroni della Repubblica Romana, prese tosto a dire: «Mi pare, che l'emendamento proposto dal signor Ministro sia troppo grave, perché si possa votare così a prima giunta! Intendete, o Piemontesi, il latino?

- 225 -

É troppo grave dichiarare che noi siamo cattolici, che il Parlamento è cattolico, che lo Statuto piglia le mosse dalla religione cattolica, che i nostri figli saranno cattolicamente educati? È troppo grave? A noi pare che sia troppo grave il solo mettere in discussione quest'articolo, perché è mettere in dubbio i fondamenti medesimi della nostra libertà.

Il deputato G. B. Michelini, caldo democratico, andò più innanzi di Lorenzo Valerio, e disse incisamente: «lo intendo opporrai all'articolo proposto dal signor Ministro, come a qualunque altro che avesse simile significazione». E subilo dopo pigliando la parola il deputato Borella, sostenne una tesi, che in sostanza si può ridurre alla seguente: nelle nostre scuole non solo non si dee insegnare la religione cattolica, ma anzi combattere. Si avverta come si proceda a passo a passo in questa faccenda. Valerio dice: Andiamo adagio nello stabilire il cattolicismo come base dell'insegnamento, nichelini soggiunge:

10 rigetto questi base. Borella conchiude: lo voglio l'insegnamento anticattolico.

Ecco come esordiva il deputato Borella: € Signori, la quistione vi fu proposta in questi termini: che la religione cattolica, apostolica e romana debba essere il fondamento della morale delle nostre scuole ufficiali; ed io vengo a dirvi, e spero di provarvi, che lo Stato non deve mettersi nell'impegno d'insegnare la religione cattolica, apostolica e romana nelle sue scuole, a meno che si voglia deliberatamente e scientemente mettere in questo pericolo, o di dare un insegnamento religioso contrario allo Statuto, o di dispensare un'istruzione religiosa avversa al diritto canonico».

E poi entrava a provare, che il nostro Statuto era avverso al cattolicismo, e il cattolicismo al nostro Statuto. Se l'Armonia avesse emesso una proposizione simile, il fisco non avrebbe tardato un minuto solo a sequestrarla. Invece il presidente Cadorna, non solo non richiamò all'ordine il deputato Borella, ma rispose al deputato Tola: Ognuno nella Camera può esprimere liberamente le proprie opinioni.

L'opinione adunque del deputato Borella è, che lo Statuto si opponga nel suo articolo al cattolicismo, perché tollera i falsi culti, mentre la religione cattolica li proscrìve, e Gregorio XVI riprovò le dottrine dell'Avenir intorno alla libertà dei culti; vi si opponga nell'articolo 24, che vuole tutti i regnicoli eguali in faccia alla legge, mentre il cattolicismo dichiara che i laici non sono preti, né i preti laici; nell'articolo 25, che vuole tutti i cittadini obbligati di contribuire in proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato, mentre il cattolicismo dichiara inviolabili i beni ecclesiastici; finalmente nell'articolo 88, che lascia libera la stampa, mentre Gregorio XVI ha esecrato la tristissima licenza dei torchi.

Per comprendere tutta l'empietà di questa pretesa dimostrazione conviene apprezzarne le conseguenze. Supponiamola conforme alla verità, che cosa ne deriva? Ne deriva che, essendo lo Statuto opposto diametralmente al cattolicismo, bisogna decidersi o per l'uno o per l'altro; professarsi o costituzionali, o cattolici. Ne deriva che la Camera, esistendo in forza dello Statuto, pena la vita, é obbligata a dichiararsi nemica mortale della S. Chiesa Cattolica. Ne deriva in ultimo, che, volendo i deputati nelle nostre scuole un insegnamento

- 226 -

conforme alla Costituzione, debbono di necessità esigere un insegnamento avverso ai cattolicismo, perché l'una e l'altro non possono conciliarsi.

Se noi fossimo avversi allo Statuto, come ci dipingono, presenteremmo le nostre congratulazioni al deputato Borella, dicendogli: vero, verissimo; lo Statuto e il cattolicismo non possono stare insieme; la croce e la bandiera tricolore si escludono a vicenda; o una cosa, o l'altra: o costituzionali, o cattolici. Piemontesi, eleggete. E noi saremmo certi della scelta. Ma non essendo noi liberticidi, proveremo invece contro il deputato Borella, che la libertà e la religione cattolica non sono dichiarate nemiche.

E dapprima il signor Sorella non credeva la libertà in opposizione col cattolicismo quando nel 1848 chiamava Pio IX un angelo e il primo redentore d'Italia (Gazzetta del Popolo, N° 16,4 luglio), e scatenavasi contro quella genìa che tenne in non cale l'autorità del Pontefice, l'autorità di Più IX (16, ) e dichiarava ohe lo spirito del Pontefice avea formato l'Europa novella (N° 26,13 luglio), e volea aggiungere al grido di viva Carlo Alberto, quello di viva Pio IX, cioè alla forza che vince, la santità che consacra (N° 33,24 luglio).

Nel 1848, signor Borella, il cattolicismo, ben lungi dall'essere opposto alla libertà, le recava vantaggio; ed ora invece a vostro avviso ò la sua rovina. Voi siete adunque in perfetta contraddizione con voi medesimo: o ipocrita allora, o imbecille oggidì; scegliete.

E i nostri lettori forse v'appiccheranno e l'uno e l'altro titolo. Imperocché ci

?

noie un'insipienza superlativa per rilevare un contrasto tra la dottrina, cattolica e la tolleranza stabilita dallo Statuto verso alcuni eretici, Lo Statuto in ciò non variò in nulla il Codice civile, e lasciò le cose nei termini medesimi in cui si ritrovavano prima del 1848. E pretendereste che il Codice (civile fosse contrario al cattolicismo?

La tolleranza verso gli eretici non è la connivenza. Questa verrà sempre condannata dai cattolicismo, e non quella. Forse che il Papa non tollera gli ebrei negli Stati Pontificii? E voi stesso, signor Borella, non avete citato le parole dette dal Cardinale Pacca a Lamennais in nome di Gregorio XVI, che la prudenza esige in certe circostanze di tollerare certe dottrine come un male minore? Dunque la tolleranza prudente non è contraria al cattolicismo, e voi vi deste dell'accetta sui piedi.

Contraria al cattolicismo è la libertà dei culti, perché trae con sé l'indifferenza in materia di religione. Ma questa ò egualmente contraria al nostro Statuto; e voi avete parlato di Statuto e di cattolicismo senza conoscere né l'uno né l'altro.

Ci duole, signor Borella, di non essere stati deputati il 26 gennaio, perché avremmo voluto dirvi nella Camera due semplici parole. Ve le diremo in pubblico, e sarà ancor meglio. Voi osate fare il processo d'intolleranza al cattolicismo, voi? E non iscrivete forse la Gazzetta del Popolo? E qual è la vostra tolleranza in quel giornale? La tolleranza forse delle stangate e dei capestri? Non vi ricordate pio come una volta abbiate desiderato d'essere dappresso al generale d'Aviernoz, ohe manifestava liberamente una sua opinione, per mettergli due dita alla gola, e piantargli un coltello nel cuore?

Voi volete ohe il cattolicismo faccia a pugni collo Statuto.

- 227 -

Ma il primo articolo di questo dichiara la religione cattolica sola religione dello Stato. Dunque se la vostra sentenza è vera, lo Statuto fa a pugni collo Statuto. E voi avete giurato questo Statuto, il cui primo articolo cozza fra sé, ed inoltre cogli articoli 24,25,28? Qua! è il vostro criterio? Perché osate giurare le contraddizioni? E qnal peso hanno i vostri giuramenti?

Posto che gli articoli successivi si opponessero al primo, certo è che lo Statuto si dovrebbe coordinare colla sua base, che è il cattolicismo, e spiegare in modo consentaneo. Ma nessuno pretenderà mai che la nostra Costituzione abbia violato la proprietà ecclesiastica, che anzi dichiara inviolabile; o preteso di dare al deputalo Borella la patente di confessione a titolo d'eguaglianza; o permesso la bestemmia e l'eresia in nome della libertà.

L'onorevole deputalo Revel dio il fatto suo al Borella. Egli lo avvertì che la Cambra non era la Gazzella del Popolo, e si lagnò vivamente perché egli avesse osato di gettare la derisione e lo sfregio su una religione, che lo Statuto di" chiara essere la sola religione dello Stato, e che è quella dell'immensissima maggioranza della nazione.

II.

In sul finire della tornata del 26 di gennaio il deputato Revel, rispondendo ad Alessandro Borella, osservava mollo a proposito: «Domando io se, ove taluno da questo lato avesse parlato della religione protestante od ebraica nel modo con cui il preopinante ha discorso della religione cattolica, non sarebbero sorti dai banchi dove egli siede, molti mormoni contro quanto sa ne sarebbe detto? (Alti Uffic. del Parlamento, N° 36, p 138).

Verissimo. Se un deputato cattolico avesse ricordato le crudeltà dei protestanti, e rilelto solo nella Camera ciò che ne dice il protestante Cobbet nelle sue lettere, noi vi Accertiamo ohe il presidente Cadorna gli avrebbe dato sulla voce, avvertendolo che' voleansi rispettare tatto le religioni. Invece, poiché il deputato Borella assaliva il cattolicismo, e gettava lo sfregio sulla disciplina cattolica, il presidente, a luogo di richiamarlo all'ordine, disse: «Ognuno nella Camera può esprimere liberamente le proprie opinioni». Ciò prova che i rivoluzionarii non odiano altra religione all'infuori del cattolicismo, e se non avessimo altri argomenti, questo solo proverebbe che la religione cattolica é ja vera.

Continuiamo la storia degli assalti che patì nella Camera dei Deputati il 27 di gennaio. Il signor Chenal ci dichiarò perché non voleasi ne' collegi l'istruzione religiosa: La religion de Rome imposée dans les collègues a pour conséquence de l'être à toute la société». (Atti Uffic. del ParL. N 38, pag.145). La piega che prende la pianta da palloncello, la mantiene poi fatta albero. Ciò capiscono i rivoluzionarii, e quindi con Rousseau vorrebbero per ora che alla gioventù non si parlasse di religione, salvo più tordi a discorrergli lungamente d'empietà.

Il Piemonte è cattolico, dice il demagogo, parche ha imparato il cattolicismo nei collegi. Sopprimiamo adunque in questi l'insegnamento religioso, e sarà un buon ripiego per iscattolicizzare il paese. Cosi sottosopra ragionò il signor CbenaL.

- 228 -

Il quale fra i molti errori disse una verità ai ministri ed è la seguente:

«Si le catholicisme doit être la religion de l'etat, soyez allora conséquent avec vous mêmes; adoptez la politique de Rome, celle de M. Solaro della Margherita, mille fois plus logique que la votre. (Ilarità). Jusque là vos subtilités, votre éclectisme politicarde-religieux, votre doctrinarisme dogmatique ne satisferont ni le catholique romain, ni les hommes qui veulent que la religion soit indépendante de la politique, qui regardent la liberté de la conscience comme un droit sacre.

«Avec vos principes hybrides, qui s'annihilent les uns les autres, la pensée est hésitante; elle ne sait on se reposer; elle n'est ni catholique, ni philosophique; elle est sans force comme le doctrinarisme, dont elle est] l'expression; elle est impuissante à rien fonder. C'est une nega ti on, si vous le préférez, un compromis des plus compromettants. (Ilarità). Avec elle l'on n'arrive qu'à un pastiche sabaudo-catholique (Ilarità), qu'à une monstruosité morale».

Il deputato Moia fu tra i libertini dei più espliciti, dei pili franchi nel dimostrare la sua avversione al cattolicismo. Tra lui e il deputato Borella non sapremmo a chi dare la preferenza. Egli disse, che se il Piemonte è cattolico, ciò proveniva dacché la religione cattolica eragli stata imposta; e, forse alludendo a se stesso, dichiarò che non tutti i cattolicamente battezzati sono veramente cattolici. Ci permettano i nostri lettori di riferirne le parole, quali si leggono negli Atti Uffic. del Pari., N° 39, pag.148:

«Dopo che, in seguito agli avvenimenti del 1814, fu restaurato nel nostro paese tutto ciò che dell'antico reggi me si poteva ancora instaurare, la religione cattolica fu dalla legge, dal braccio secolare, dalla forza pubblica imposta a tutti coloro, i quali non erano nati in qualcuno dei culti tollerali. Lo stato civile essendo in mano dei preti, il padre era obbligato a presentare al battesimo i suoi 6gli. Nelle scuole l'insegnamento religioso essendo obbligatorio, non essendo nelle scuole ammesso nessuno che non sapesse il Credo ed il Pater noter, bisognava che i padri e le madri un po' colle dolci, un po' colla severità, con qualche ciambella (si ride), e con molte scoppole, insegnassero ai loro figli il Credo ed il Poter noster.

«Poi, se volevate presentarvi all'esame, ci voleva l'admittatwr firmato dal direttore spirituale, il quale non ve lo firmava se non avevate seguiti assiduamente tutti gli esercizii religiosi, e non eravate muniti del biglietto mensile di confessione.

«Così la società, lo Stato, il governo, che al vostro nascere, e senza il vostro consenso, vi aveva imposto il Battesimo, v'imponeva la Cresima, la Penitenza e l'Eucaristia. Usciti dalle scuole, intrapresa una professione qualunque, se volevate condurre una sposa legittima, e dare uno stato legittimo ai vostri figli, la legge vi ordinava di andare in chiesa a far benedire il vostro connubio; e la legge v'imponeva un altro sacramento, il Matrimonio.

«Giunto al termine della sua mortale carriera, quando sembrerebbe che l'uomo dovesse riunire in sé tutte le forze dell'animo, e giacché non gli fu permesso di vivere a sua voglia, potesse almeno morire secondo le sue convinzioni, anche allora, il cimitero e le pompe funebri essendo nelle mani del clero, se voi volevate che la vostra spoglia riposasse in luogo che non potesse essere profanata, se voi volevate che le vostre ossa riposassero accanto a quelle dei padri vostri, era necessario di sottomettervi

- 229 -

all'ultimo dei sacramenti, all'Estrema Unzione, perché se il prete non veniva al vostro capezzale di morte, non potevate sperare gli onori della sepoltura.

«Dopo di questo venite a dirci che la maggioranza del paese è cattolica? Sicuramente; questa religione gliel'avete imposta, come può essere altrimenti?».

Queste parole sono importantissime. Tutti i nemici del cattolicismo partono dal principio, che la Religione si succhia ne' collegi, che il Piemonte è cattolico, perché tale lo creò l'insegnamento. In conseguenza, secolarizzato l'insegnamento, vogliono scompagnarlo da ogni principio di religione. Lo stesso ministro Lama osservò, che gli oratori da noi citati aveano rivelato evidente mente il pensiero di non volere che vi sia istruzione religiosa negli istituti e nelle scuole pubbliche; e prese a confutare gli avversarii dal lato del tornaconto:

«Vi domando, o signori, se credete possibile, che possano sussistere dei con» vitti pubblici, entro i quali gli alunni sieno intieramente affidati alle cure dei direttori dei convitti medesimi, senza che vi s'impartiscano principii di morale e di religione. Come è possibile, che un padre di famiglia si risolva a collocare un suo figlio in uno stabilimento, in cui non s'insegni assolutamente alcuna religione? Ne verrebbe per conseguenza, che, contemporaneamente all'adozione di questa massima, di non insegnare nessuna religione negl'istituti de governo, si dovrebbero chiudere tutti i convitti pubblici, e di limitare l'insegnamento dello Stato unicamente alle scuole per gli allievi esterni».

Questa discussione ha sempre pia dimostrato la necessità, in cui trovasi il Piemonte di avere la libertà d'insegnamento. Concentrata l'amministrazione dell'istruzione pubblica nelle mani del ministro, quale guarentigia resta ancora ai padri di famiglia? Domani saranno ministri i Moia, i Chenal, i Borella, i Valerio, i Michelini, ed allora in nome della tolleranza staranno freschi i cattolici! Per esempio, oggidì che il ministro Lanza pare spedito dai medici, già ai annunzia, che il deputato Buffa gli succederà nel ministero. Ora il Buffa è di coloro che vogliono eliminare dai collegi l'insegnamento religioso. Mettete nelle sue mani ogni potere sull'istruzione, e poi mandate, se vi basta l'animo, i vostri figli alle scuole pubbliche!

Se il cattolicismo venne così rabbiosamente assalito nella Camera dei Dopatati, da eloquenti e coraggiosi oratori fu pure difeso. Noi ne registreremo a lode i nomi, e taluna delle sentenze.

Il deputato Tola. «Lo Stato non può, non debbe occuparsi delle verità religiose....! È ben vero. Né allo stato, né a nessuno si aspetta, ma alla Chiesa, alla Chiesa sola, sedere donna e maestra delle verità religiose. Ma poiché lo Stato è l'espressione governativa della nazione, poiché lo Statuto proclama solennemente che la religione cattolica è la religione nazionale, lo Stato è costretto ad accettarla, ed a professarla e riconoscerla colle sue verità. Lo Stato, o signori, ente complessivo, rappresenta i cittadini, che hanno ciascuno individualmente anima e fede. Se dunque lo Stato proclama la religione e la fede dei cittadini, e ne professa eziandio il culto esteriore, non può non attuarla nel pubblico insegnamento senza tradire la nazione, e senza professare l'ipocrisia. E voi, dottrinali del silenzio legale in fatto di religione, non volete Io Stato né ipocrita, né traditore.

- 230 -

«Voi non volete la religione e fondamento dell'istruzione e della educazione nelle scuole pubbliche dello stato. Ma non sapete voi, che nel pubblico insegnamento lo Stato è il mandatario della paternità e della famiglia? O volete forse far rivivere le teorie proclamate da Robespierre e da Danton nel Comitato di salute pubblica? le nefande teorie, Che, strappando i figliuoli dal paterno tetto, ti dicevano nati allo Stato, anzi che ai parenti, per coniarne l'anima cittadina? Teorie luttuose e bestiali, contro cui finalmente si sollevò la Francia insanguinata, e la voce libera e potente, non già del Clero, che gemeva e soffriva, ma dello stesso Condorcet, di Talleyrand, e di Cbaptal? Non la volete questa religione per informare l'intelletto ed il cuore della giovane generazione che sorge, della vergine generazione che corre vogliosa a dissetarsi alle fonti del pubblico insegnamento. Ma questa fu già la dottrina insensata dello scetticismo, che sul finire del passato secolo s'incarnò nelle menti stravolte di uomini, che di uomini ebbero soltanto la figura e l'accento.

«E l'illustre Troplong ancora vivente, sublime intelletto, e di tutte umane leggi solenne duca e maestro, la fulminò dottamente ragionando, non tono molti anni, al cospetto dell'Accademia francese. lo voglio, egli dicea, io voglio la religione negli avamposti del pubblico insegnamento, per aprire lo spirito dei fanciulli e dei giovani, per impossessarsi del loro cuore) e per dirigere la loro ragione»».

Solaro della Margarita non tardò ad unirsi col deputato Tola per prete» stare contro la malaugurata opposizione che in un Parlamento cattolico vide sollervarsi con molto suo dolore contro un articolo che alla religione si riferisce.

Il deputato GASTINELLI, «Io non posso più assistere silenzioso al dibattimento della quistione, né mi è più libero il voto stesso. Perciocché, essendosi spinta la discussione sino ad insinuare che la religione cattolica sia ostile allo Statuto, Io Statuto ostile alla religione cattolica, io dichiaro ingenuamente che, ridotto a questo stremo, non mi è più lecito oltre discutere, ma io debbo solennemente votare per raggiunta del ministero; percioccché io debbo protestare in faccia agli elettori, io debbo protestare in faccia alla nazione, siccome protesto in faccia alla Camera, contro ogni ombra di dubbio che lo Statuto sia utile alla religione cattolica, questa allo Statuto.

«Poiché di fatto, o signori, la maggioranza immensa della nazione è cattolica: dire alla maggioranza della nazione, o lasciar sospettare soltanto che la sua religione non possa conciliarsi collo Statuto, vede la Camera a quali conseguerize ne conduca. Per me non reputo certamente che sia questo né punto, né poco patrocinare le nostre libere istituzioni, qualora si tenti insinuare chele medesime sieno contrarie alla religione che la maggioranza del paese professa».

Costa Della Torre. «Fondamento di pubblica, non meno che di privata morate, la Religione, o signori, non può, cilecche se né dica, andar disgiunta dalle precipue cure di qualunque civile governo, che non voglia cadere in dissoluzione e rovina. Essa è d'interesse generale di ogni popolo congregato in Civile società, non altrimenti che è d'interesse della società famigliare e dello stesso individuo. Quindi fu sempre studio principale e fondamentale di tutti i legislatori di appoggiare le loro leggi alla Religione come maestra di morale, senza il cui sussidio riconobbero sempre vana od inefficace

- 23

1 -

ogni legge a qualunque ordine di cose essa volga; questa è una necessità posta dall'Attore stesso della natura nel mondo, perché l'uomo nel Creatore solo riconoscesse e venerasse il fonte, il distributore e il conservatore d'ogni bene, d'ogni medio.

«Sia dunque lode e gratitudine al Re Carlo Alberto, che, largendo al suo popolo, una legge statutaria, perché si conservasse, progredisse e migliorasse, l'ha fondata sul principio religioso professalo dalla grandissima maggioranza della nazione, senza neanche dimenticar quello che nelle minime sue parti si fonda su diverse credenze, condannando per tal modo implicitamente il rovinoso sistema, che la Religione debba essere relegata nel puro e semplice giudizio, nel puro e semplice interesse dell'individuo».

Il deputato Folto, a II sentimento generale della nazione, il quale è quello che, non solo sospinge, ma forza anzi la legge a dare quei provvedimenti che gli sono più consenzienti, e che maggiormente lo appagano, niun dubbio è, o signori, che questo sentimento generale, se potesse matematicamente comprovarsi (ciò che non è, perché ciò che si sente non sempre si dimostra), l'insegnamento religioso non dovrebbe per certo mai andare disgiunto dall'insegnamento ufficiale. E per verità, quanti noi qui siamo padri di famiglia, ed io sono tra questi, la mano sul petto, desidereremmo noi che i nostri figliuoli acquistassero quelle cognizioni che sono utili bensì in ordine alle scienze, alle arti, all'industria, ma non avessero poi quell'indirizzo interno morale e religioso, nel quale appunto si distingue il carattere del credente da quello del cittadino? lo francamente rispondo che nessuno di noi in sua coscienza rifiuterebbe l'insegnamento religioso, nissuno non lo vorrebbe».

III.

Iddio detesta e castiga il male, ma lo permette perché rientra nell'ordine della sua Provvidenza, e ne sa trarre il bene. Perciò è necessario che gli scandali avvengano, che le eresie insorgano, giacché da queste derivano sempre stragrandi vantaggi, le verità si chiariscono, le finzioni cessano, ed i ciechi sprone gli orchi e veggono. Si è questa la ragione per cui noi, deplorando gli scandali e le bestemmie proferite nella nostra Camera dei Deputati il 28 ed il 27 di gennaio, vogliamo tuttavia farne il nostro prò, raccogliendole ed offrendole agli Italiani come saggio di quella rigenerazione, che i libertini preparano alla nostra patria.

Italiani, che non godete le beatitudini del Piemonte, leggete e meditato queste pagine, e vi sarà manifesto che cosa i Bofella, i Mellana, i Moja, i Valerio, ecc, intendono sotto il nome di libertà. Essi vogliono spiantare dalle nostre contrade la fede cattolica. Sono divisi in tre drappelli, e tolti diretti contro il cattolicismo. Il 1° drappello assale il dominio temporale del Papa ed il suo governo per togliere al Capo della Chiesa quell'indipendenza che e tutta la sua vita. Il 2° drappello si fa patrocinatore delle dottrine protestanti, e vuole sostituire il principio d'autorità il fuoco fatuo del libero esame. Il 3° drappello, pio. franco e più impudente, assale di fronte il cattolicismo, e non vuole né fede, né legge: oggi nega il Papa, e domani rinnegherà Iddio.

- 232 -

Nel numero precedente abbiamo visto l'intolleranza dei libertini contro i cattolici, l'odio che essi nutrono contro l'insegnamento religioso, ed in quanto vogliamo raccontare come accordino il loro favore agli empi, e sieno tutt'altro verso gli eretici.

Il deputato Mellana il 27 di gennaio volea che si sancisse per legge che nelle pubbliche scuole non si darebbe l'istruzione cattolica ai figli contro la volontà dei parenti. Vi sono in Piemonte molti è molti padri, che senza far contro il governo costituzionale raffazzonato alla piemontese, pure noi possono amare. S'è mai pensato a stabilire per legge che non si parlerebbe di politica italianisima ai figli contro la volontà dei parenti! No, per certo. Anzi, i parenti furono sempre costretti a fare il sacrifizio delle loro opinioni politiche, ed a mandare i propri figli nelle Università e nei collegi a ricevere le lezioni del professore Melegari. Perché dunque tanta libertà vuolsi accordare in fatto di religione, e così poca in punto di politica?

Eppure, il ministro dell'istruzione pubblica si adagiò subito alla pretesa del deputato Mellana. lo credo (così egli) che non si possa assolutamente contestare queste proposizione dell'onorevole deputato Mellana. Non si può violentare la volontà dei padri di famiglia per dare a loro controgenio un'istruzione religiosa ai loro figli; ma in tal caso essi ne assumono la responsabilità. Queste l'ho già detto più volte, ed è quello che si è d'altronde praticato dal 1848 in qua. Se poi si vuole che sia inserito nella legge, io non ci ho difficoltà, giacché credo che non si possa assolutamente fare in modo diverso. (Atti Uff. del Parlamento, N° 39, pag.150).

Che tenerezza pei padri empi! Ma perché non si manifesta eguale tenerezza pei padri anticostituzionali e pei padri cattolici? Perché volete obbligare i padrifamiglia a mettere nelle mani dei loro figli le famose antologie, dove si parla sempre d'odio ai pretesi tiranni, e di pretesi risorgimenti d'Italia? Perché, e questo è molto più importante, perché non accordate piena ed intiera libertà d'insegnamento, affinché un padre possa affidare cui vuole il proprio figliuolo, senza neppur mandarlo all'Università, basta che in fin dei conti sia in grado di dar prova del suo sufficiente sapere?

La ragione della tolleranza su di un punto, e dell'intolleranza sull'altro ò chiara. Si amano i padri empi, e si vogliono proteggere con legge; si detestano i padri religiosi, e si cerca di tiranneggiarli. Basta non essere cattolico per ottenere il patrocinio di certi deputati, per ottenere da loro perfino un articolo di legge!

L'onorevole deputato della Motta osservava egregiamente al ministro della pubblica istruzione:

«Se un genitore di testa strana, mettendo il suo figlio in un convitto, non vorrà che partecipi all'educazione ed alle pratiche religiose dello stabilimento, sarà autorizzato a pretenderlo. Dunque ne verrà per conseguenza, che nei convitti ci saranno dei giovani, che se così piace ai loro genitori, non avranno veruna sorta d'istruzione, religiosa. Ora domando io, se questo possa sancirsi in verun modo, e se possa nemmeno comporsi colla disciplina e buon ordine dei convitti, rispetto anche agli esami e diverse altre conseguenze? Per le scuole questa libertà la capirei possibile, mai pei convitti...».

E il ministro Lanza diceva e disdiceva nel medesimo tempo. Conciossiacbé, messo alle strette dalla giusta osservazione del conte Della Motta gli rispondeva così:

- 233 -

«Quanto ai convitti, è impossibile di ammettervi giovani che rimangano destituiti di qualsiasi istruzione religiosa. Per la disciplina stessa dei convitti questo sarebbe impossibile. Quando fra gli allievi di un convitto vi fossero degli alunni, i quali non attendessero a veruna pratica del culto, i quali non ricevessero alcun insegnamento religioso, ì quali non soffrissero che si potesse loro dirigere una parola, che riflettesse un principio di religione, io domando, se sarebbe possibile, che questi alunni potessero convivere cogli altri. Non sarebbe questo uno scandalo per tatti gli altri allievi, e un fomite continuo d'indisciplina? Io consento bea di buongrado, che in quanto agli esterni i padri di: famiglia, tuttavolta che vogliano assumersi l'educazione e l'istruzione religiosa dei loro figliuoli, la possono assumere liberamente; questo è il modo di rispettare la libertà di coscienza; ma non potrò mai ammettere, che ciò si faccia a riguardo degli alunni interni, dei convittori»((Atti Uff. della Camera, N.39, pag.150).

A questa dichiarazione sorse il deputato Valerio, e parlò nei seguenti termini: «L'onorevole deputato Mellana propone che sia tutelata la libertà dei padri di famiglia, che non vogliono che i loro figli sieno soggetti a quella istruzione religiosa che si vuoi rendere obbligatoria, non solamente nel presente, ma anche nell'avvenire, negli istituti del governo, il sig. ministro accetta: il deputato Della Motta chiarisce quante contraddizioni tal cosa possa arrecare, ed il signor ministro viene a dire che i figli dei padri che non vorranno assoggettarsi all'insegnamento religioso ufficiale non saranno accettati. Bella libertà davvero che voi accordate ai padri di famiglia! Voi negate loro quella libertà che concedete agli ebrei ed ai protestanti. I protestanti e gli ebrei collocano i loro figli nei nostri convitti.........

Voci, No! No!

Berti. Sono ammessi alle scuole, non ai convitti,

Valerio. Come! non sodo ammessi?

Lanza. ministro. Ma no, è vietato dalla legge.

«Valerio. Allora, lo dico altamente, ho vergogna per il mio paese che i protestanti e gli ebrei non sieno accolti nei convitti, che quei cittadini col loro danaro contribuiscono a mantenere, ed a cui han diritto di mandare i loro figli! Questo chiaro appalesa qual sia la libertà, l'eguaglianza civile che è nelle leggi vecchie, e che si vuole statuire in quelle che si preparano 1

«Io affermo che cattolici, ebrei e protestanti hanno diritto di essere accettati nei collegi convitti, è di non venire assoggettati a quell'insegnamento religioso ufficiale, che volete rendere obbligatorio; perché accanto al collegio convitto su la parrocchia, nel paese ove vi sono ebrei esiste la sinagoga, in quello ove vi sono famiglie protestanti v'è il loro tempio, e gli allievi possono quindi attingere l'educazione religiosa, come stimano i loro parenti, o nella parrocchia, o nel tempio protestante, o nella sinagoga». (Atti Uffic., loc. cit.)

Or bene, voi vedete, che zelo, che tenerezza, che calore pei padri empi, per gli eterodossi e pei loro figli t!nostra libertà è questa: permettere ai buoni di diventar tristi, ai tristi di renderei peggiori, e impedire che i cattolici rimangano cattolici, e possano rassodarsi nella loro fede, e professare liberamente il proprio culto! Si fa in Piemonte quotidianamente violenta agli onesti padri di famiglia,

- 234 -

che sostengono un qualche impiego, e si obbligano a cooperare a certi latti dalla Santa Sede solennemente riprovati, e nessuno de' libertini dice una parola nella Camera, affinché sia lasciala a questi la libertà di coscienza. E invece si sposano così caldamente le parti dei padri, che vorrebbero uccidere i loro figli, ucciderli nell'anima» che è la più grande scelleratezza; che si possa commettere!

Questa discussione, a nostro avviso, fu un insulto ai padrifamiglia subalpini, perché suppose ohe tra loro si potessero trovare persone cosi empie e scellerate; fu una contraddizione tra la politica e la teologia de' nostri libertini; fa una prova in favore della libertà d'insegnamento; fu un assalto indiretto contro la religione cattolica.

BILANCIO TOSCANO

PEL 1857.

(Dall'Armonia, n.45, del 31 gennaio 1857).

In Piemonte il conte di Cavour prima ci disse che le nostre finanze erano quasi ristorate. E quel quasi durò due anni. Poi aggiunse che le finanze erano ristorate, e pareggiate le entrate colle spese. Ma avvertì che intendeva parlare delle spese ed entrate ordinarie. Finalmente presentò il suo famoso bilancia pel 1868) e trovammo che in quel bilancio pareggiato v'ha ancora uri deficit di tre milioni di franchi. In Toscana il Monitore pubblicò il bilancia pel 1857, che è molto più semplice:

Entrate............................L. 88,048,500

Spese................................» 38,000,800

Dunque un avanzo di......L. 48,3

UNA CURIOSA POLEMICA

TRA LA GAZZETTA UFFICIALE DI MILANO E LA GAZZETTA PIEMONTESE

NEL FEBBRAIO DEL 1857

La Gazzetta ufficiale di Milano nel suo N° 34 del 9 di febbraio 1857 pubblicava il seguente articolo ristampato dall'Armonia N° 34 dell'11 di febbraio dell'alino medesimo.

» Lo storico Botta descrive minutamente le pratiche mosse nel 1797 dal conte Balbo, ambasciatore a Parigi, e sostenute col molto danaro mandatogli dalla zecca o voltato a quella città dai banchieri più ricchi di Torino, per entrare più facilmente di sotto al Direttorio di Francia, colla cui protezione e amicizia combattere l'Austria in Italia ed aggregare al Piemonte la Lombardia. Queste piemontesi insinuazioni tendevano (sono parole del Botta), seconde il costume dei tempi, a spodestare altrui, erano astutissimi.

L'ambasciatore della Sardegna usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti e con messi più forti ancora delle ragioni, acciocchè il trattato d'alleanza (conchiuso il di 5 d'aprite dell'anno suddetto) si apprestasse per la ratificazione dal Direttorio ai Consigli, che finalmente lo autenticarono.

- 235 -

«A che crudeli espiazioni gli ambiziosi statisti d'allora serbassero i popoli di quella Corona, a quale catastrofe il Principe, l'atto di sua abdicazione 9 di dicembre 4798 sommariamente il dimostra. Piemontesi non sapeano più (afferma il Botta) né che cosa sperare, né che cosa temere, né che cosa desiderare, stantechè i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortune. Maledicevano il destino che gli aveva fatti piccoli fra due grandi.

«La politica di sentimento non involge che un termine dell'idea infinitamente complessa, la quale, abbracciando ogni forma di reggimento, si denomina stato.1 politici della realtà, in ogni parte da prendere, consultano l'esperienza, alle cui norme risolvono le deliberazioni del presente, misurano le probabilità del futuro.

«Gli uomini del potere in Piemonte, rinnovando le prove dei loro antenati, non che avventurare il paese agli stessi ludibrii della fortuna, hanno contro di sé il fondamento d'ogni riuscibile impresa politica, la consonanza col genio dei tempi.

I Priocca ed i Bulbo pescavano allora nel torbido. La Francia repubblicana avea «cosso le basi dei troni d'Europa, e scatenato il turbine della rivoluzione a invasarne le menti dei popoli. Le effimere nostre repubbliche sappiamo qual frutto ne raccogliessero. Il 18 di brumaire la fece finita coi saturnali dell'anarchia; il 48 di maggio inaugurò il primo Impero francese. Col 2 di dicembre, rivendicando M trionfo dell'ordine, Napoleone III instaurava esso Impero, e, conoscitore sperimentato dei tempi, lo intitolò dalla pace.

«Il 30 di marzo suggellava una guerra, combattuta dallo stesso Piemonte, per difendere il debole dai sorprusi del forte. La pace conchiusa colla partecipazione dei ministri sardi a Parigi, consacrando il principio della inviolabilità dei trattati, è una minaccia, logicamente implicita, del concerto europeo contro chi s'arrischiasse d'infrangerli.

«In tale assetto di tranquillo avvenire dei governi e dei popoli, i periodici interpreti della politica subalpina, e gli uomini del potere che, complici o conniventi, la inspirano, snaturando i falli e calunniando la fede degli occidentali, cavillano pretesti per eludere la coscienza pubblica, e simulare l'Inghilterra e la Francia ausiliarie alle mire d'ingrandimento della Sardegna. Prestano all'Occidente la maschera della toro doppiezza, e disuguali al cimento coll'Austria, ma ostinati a sfidarla, coonestano l'insufficienza delle armi loro coll'appoggio illusorio delle anglofrancesi.

Il 30 di marzo rassodava a Parigi l'equilibrio europeo. L'ènfant gàté della pace di Utrecht e del Congresso di Vienna, dopo di aversi augurato colla guerra d'Oriente novelle ampliazioni, non sa rassegnarsi al disinganno delle Conferenze parigine, il contegno della sua stampa e de' suoi statisti è di una temerità incomparabile negli annali della diplomazia e del giornalismo. Ogni longanimità ha il suo confine. Se le delusioni della politica sarda all'uscire dell'ultimo secolo, o le recenti, non bastano ad insegnarle moderazione in tempo ancor utile, gioverà ricordarle, pronostico d'un avvenire possibile, l'ammonizione, che il Guicciardini raccolse dai senno pratico dell'antica Venezia.

- 236 -

«Nelle cose degli Stati è somma infamia quando l'imprudenza è accompagnata dal danno. La penitenza di chi ti ha offeso sia tale esempio agli altri che non ardiscano provocarti».

La Gazzetta Piemonte» non lasciò senza risposta quest'articolo, e così scriveva nel suo N.36 dell'11 di febbraio 1857, in capo al giornale, e con caratteri straordinarii (Arm.12 febbraio 1857, N.35).

«La Gazzetta di Milano in parecchi articoli, che portano evidente impronta ufficiale, prende a combattere con insolita acrimonia il Piemonte e gli uomini di Stato, che vi reggono il potere. Mettendo in campo i dubbi servizi resi dall'Austria alla causa dell'Occidente, ostentando la pretesa riconquistata amicizia dell'Inghilterra, contro a cui si scatenava, ' non è guarì, come a fomite della rivoluzione europea, valendosi di argomenti tratti dalla nostra storia per dimostrare i pericoli ed i danni, che derivar possono al Piemonte da una cieca fiducia nell'alleanza francese, il foglio ufficiale austriaco rivolge al governo sardo rimproveri, contumelie e minaccia con forme non solite ad impiegarsi da chi è considerato qual organo ordinario di un regolare governo.

«Senza voler impegnare colla Gazzetta di Milano una polemica, che sarebbe in certo modo fare scendere la. diplomazia nell'arena del giornalismo, crediamo dovere alle sue provocazioni una breve ed unica risposta.

«Poiché il foglio austriaco ci ha tratti sul terreno della storia, invitandoci ad attingere da essa utili insegnamenti, accettiamo l'invito, e ne' fatti passati cercheremo la luce per rischiarar le vie dell'avvenire. Nel ricordar la catastrofe del 1797, la Gazzetta di Milano con maligna e perfida allusione, assomigliando l'attuale governo napoleonico al corrotto regime direttoriale, ci addita i risultati che sortirono gli sforzi del Priocca e del Balbo per istringere un'alleanza colla Francia a danno dell'Austria. Giacché ricorda quei tempi, noi noteremo che questi più d'ogni altra cosa dimostrano i frutti delle alleanze austriache. Congiunto nel 1790 coll'Austria, il Piemonte profuse sulle Alpi tesori e soldati a prò d'un alleato, che, senza aver serbato mai le fatte promesse e gli assunti impegni, lo abbandonò, al primo rovescio, a sicura rovina. Le guerre della rivoluzione francese hanno insegnato all'Europa, ed al Piemonte in ispecie, ciò che valga l'amicizia austriaca. Non ha d'uopo lo scrittore ufficiale di ricordarcelo. Gli scarsi aiuti datici nei primi anni, la precipitosa ritirata dopo le battaglie di Montenotte e di Dego, i patti di Campoformio, i tentativi per impedire il ritorno della Gasa di Savoia ne' suoi Stati quando vennero riconquistati coll'aiuto principale delle armi russe, sono fatti che gli statisti del Piemonte non dimenticheranno mai.

«Ma perché ricorrere agli avvenimenti del secolo scorso? Assai più efficaci tornano gl'insegnamenti ricavati dai fatti accaduti sotto gli occhi nostri.

«La distruzione della repubblica di Cracovia, l'occupazione della città di Ferrara, l'arbitraria misura dei sequestri c'insegnano qual sia il rispetto dell'Austria per i trattati, quale il suo interesse per la causa dei deboli minacciati dai forti.

Gli eventi dell'ultima guerra ci somministrano materia a più serie considerazioni. Dalla condotta dell'Austria verso la Russia, a cui va debitrice della propria esistenza, ben si può argomentare come essa intenda la riconoscenza, e qual prò si ricavi dal renderle i pio segnalati servizii.

- 237 -

«Il luogo suo esitare fra le parti contendenti, e la posizione militare da essa presa per potere a seconda degli eventi rivolgere le sue armi contro l'una parte o l'altra, mentre furono cagione che la lotta diventasse più lunga e più sanguinosa, posero anche in chiaro il suo vantato amore per la causa della giustizia.

«Quali risultati debbansi attendere i governi europei da una politica proclive a seguire i consigli del gabinetto di Vienna, ed a subirne l'azione, lo dimostrano le presenti condizioni di parecchi Stati d'Italia. L'Europa oramai edotta su questo argomento potrà giudicare, se male o bene abbia operato il Piemonte battendo una via affatto opposta a quella seguita dalle altre italiane provincie.

«Illuminati dalle lezioni della storia del passato e del presente secolo, dagli antichi e dai nuovi esempi, gli statisti, a cui la Gazzetta di Milano rivolge le amare sue parole, sono decisi a proseguire nella via intrapresa.

«Reggitori di uno Stato italiano, essi sanno che loro incombe il dovere, come spetta loro il diritto, di promuovere con ogni onesto mezzo il bene d'Italia. Da questo proponimento non li distoglieranno né le ingiurie, né le minaccio che scagliano contro di essi i fogli ufficiali d'oltre Ticino. Fidenti non nella longanimità dell'Austria, ma nella lealtà delle loro intenzioni, e nella giustizia dei mezzi da essi impiegati; appoggiati all'amicizia dei loro alleati, alla simpatia dell'Europa intiera: essi non si lacereranno smuovere da comminati perìcoli, che saprebbero, all'occorrenza, affrontare con animo risoluto, e convinti che oramai non dal solo numero dei soldati, o dall'estensione dei territorii, dipende l'esito delle lotte impegnate a nome dei grandi principii della civiltà e della giustizia».

LE LODI DI FERDINANDO II

RE DI NAPOLI

DETTE NEL PARLAMENTO INGLESE IL 3 FEBBRAIO DEL 1857.

(Dall'Armonia, a.35 e 36, dell'11 e 12 febbraio 1857).

I.

Quest'oggi le lodi di Ferdinando II l'intrepido (tale è il nome che gli riserva la storia spassionata e veridica!) non le canteremo noi, ma le sentiremo cantare in Inghilterra, in Londra, nel Parlamento inglese dai membri della Camera dei Lordi e dei Comuni. Le canteranno il conte Derby, lord John Russel, sir Gladstone, il signor d'Israeli e Milner-Gibson. Ascoltiamoli.

Lord Derby parlò in questa sentenza alla Camera dei Lordi il 3 di febbraio:

«Noi avevamo fatto al Piemonte promesse, ohe ci era impossibile di mantenere, e per uscire da questa difficoltà ci siamo imbarcati in una politica d'intervento, e sotto il pretesto di conservare la pace. dell'Europa, noi abbiamo elevato la pretesa d'immischiarci nel governo interno del regno delle Due Sicilie 1. Sostiamo un momento.

Secondo queste parole di lord Derby, l'Inghilterra ha mostrato la lana nel pozzo al semplicissimo Piemonte, e dopo d'essersi preso giuoco del fatto suo,

- 238 -

voleva giuocare il Re di Napoli. Ma Ferdinando II ste bene in sugli avvisi, e non si lasciò corbellare. Ed ecco qui la prima lode che gli tocca; di non essersi cioè fidato di lord Palmerston, né lasciato gabbare dalla politica inglese.

«Voi dite, soggiungeva lord Derby, che la condizione del regno delle Due Sicilie era un pericolo, una minaccia per la tranquillità generale novellamente stabilita. Ma io sarei curioso di vedere il nobile lord, che rappresenta qui il governo di Sua Maestà, sorgere e dire seriamente a quest'assemblea, che i suoi colleghi e lui hanno paventato per un momento solo, che la condotta seguita dal Re di Napoli riguardo ai suoi sudditi potesse arrecare il benché menomo disturbo alla pace d'Europa.... Non era questo che un pretesto, e un pretesto senza alcun fondamento».

Ed i gabbiani si lasciarono accalappiare e bevettero grosso, stimando proprio che i politici inglesi dicessero quello ohe sentivano. Ma il Re di Napoli si ricordò che la politica era l'arte di mentire il proprio pensiero per mezzo della parola, e sventò i pretesti e lo cabale altrui. Lode adunque a quel Re che dimostrò molta saviezza e perfetta conoscenza dei diplomatici e delle arti della diplomazia.

Voi non siete intervenuti negli affari di Napoli, continuò lord Derby, che per obbedire alla necessità di rimanere fedeli a certe dichiarazioni che avevate anteriormente fatte, e sospinti nel medesimo tempo da quella infelice mania d'intervento, da cui il nobile Visconte che sta alla testa del governo trovasi così potentemente posseduto».

E il re di Napoli fu uno dei pochi che coraggiosamente resistettero all'infelice mania di lord Palmerston, e mentre questi erasi fisso in capo di voler ad ogni costo comandare nel regno delle Due Sicilie, quegli si ostinò a voler solo governare in casa propria. Avea ragione, e fé' benissimo.

Avea ragione, e lo dimostrò lord Derby, dicendo ai ministri inglesi: «Se taluno dei sudditi della Regina avesse avuto a lagnarsi degli atti del governo di Napoli,0 di qualche altro governo d'Italia, il vostro dovere era d'intervenire e di difenderlo. Ma, quanto a ciò che avviene tra un sovrano ed i suoi proprii sudditi, io dico, che secondo tutte le regole del diritto internazionale qualche rappresentanza è tutto ciò che possa essere permesso. E rompere ogni relazione amichevole con un sovrano per la sola ragione ch'egli rifiuta di accettare i vostri consigli relativi all'amministrazione del suo regno, è una condotta che non può essere difesa da chiunque abbia la menoma conoscenza dei principii di diritto internazionale».

I ministri inglesi pretendevano di violare il codice delle nazioni, ed il Re di Napoli coraggiosamente si oppose a questa violazione. Egli resisté ai potenti, e con ciò non solo sostenne la causa sua, ma la causa di tutti i Principi Italiani, la causa di tutti i deboli. Lode al Re di Napoli, si difensore del diritto internazionale!

«Io penso, conchiuse lord Derby, che l'intervento dei ministri di S. M. a Napoli fu indegno della politica del nostro paese, ed io credo che questo affare, incominciato con un assalto ingiusto, si terminerà con una conclusione senza onore».

E viceversa possiamo dir noi, che la condotta del Re di Napoli fu degnissima d'un Principe italiano ohe vuole l'indipendenza propria» la dignità del proprio governo,

- 239 -

l'autonomia del suo regno, e la sua resistenza, incominciata tra l'universale ammirazione, si terminerà tra generali e vivissimi applausi

Beniamino d'Israeli fé nella Camera dei Comuni eguali elogi al Re di Napoli lo stesso giorno del 3 di febbraio. Egli disse cosi: «Ma come possiamo noi spiegare la condotta del primo ministro quando domandava l'anno passato l'appoggio della parte liberale in ragione delle sue simpatie per l'Italia? Conseguenza della sua politica fu un aggravarsi di tutti i mali onde si lagnano gli Italiani. V'ebbero orribili assassinii «tentativi d'insurrezioni intanto che il Redi Napoli si rideva delle nostra minaccia».

Questo, ripetiamo, è un grande elogio a Ferdinando II. Imperocché se la politica di lord Palmerston riuscì infesta agli Italiani, per la ragione dei contrarii dovette tornar loro vantaggiosissima la politica del Re di Napoli diametralmente opposta alla prima. Laonde questi fu tasto benemerito della Penisola, quanto quegli se le dimostrò nemico.

«Il ministero, proseguì d'Israeli, ha minacciato il Re di Napoli. E quale ne fu il resultato? Il Re di Napoli si rise delle nostre orinacele».

Se il Piemonte fosse una volta sola minacciato dall'Inghilterra, avrebbe il coraggio di resistere e ridarla in feccia? Oh no per foravo, e ben lo vedemmo quando ci venne imposto di prendere parte alla guerra d'Oriente. Allora chinammo il capo e cedemmo. Noi liberi, siamo legati agli Inglesi, e il Re di Napoli non si volle lasciar legare per verun conto. Lode al Re di Napoli!

Conoscete, o lettori, sir Gladstone? E chi nol conosce? È egli colui che gettò la prima pietra contro il Re di Napoli nelle sue lettere a lord Aberdeen. Ebbene sir Gladstone ha dovuto ammirare la fermezza di Ferdinando II, e riconoscere che l'Inghilterra era dalla parte del torto.

Nella tornata della Camera dei Comuni del 3 di febbraio mv Gladstone si espresse così: Dorante gli ultimi sei mesi, noi siamo stati continuamente m lite. È strano, che., quando lord Palmerston trovasi alla testa degli alari, noi abbiamo dieci volte più di liti che negli altri tempi. Incominciamo sempre dal menare molto scalpore, e dal mettere innanzi grandissime pretese, e terminiamo in ultimo col cadere sottosopra d'accordo colle protese dei nostri avversarii».

Questo bel frutto, che raccoglie l'Inghilterra della politica di lord Palmerston, era già indicato fin dal 1851 dal Time, il quale dicea: «La sua politica ha lasciato l'Inghilterra. senza pure un alleato, e forse senza un solo amico in Europa». Il 3 di febbraio del 1857 ripose la sentenza, oltre sir Gladstone, anche lord Derby nell'Alta Camera, dicendo: «Io credo sinceramente, e me ne duole, che la politica seguita in questi ultimi tempi abbia tolto al nostro paese ogni amicizia, meno quella della Francia». E mentre la condotta di lord Palmerston indispettiva contro l'Inghilterra, quella del Re di Napoli acquistavagli sempre più un maggior numero di amici.

Sir Gladstone dichiarava: «Io non so comprendere con quale diritto i plenipotenziarii si sieno occupati nelle conferenze della condizione interna d'un paese che non vi era rappresentato». E con ciò dava ragione al Re di Napoli, che non volle piegare alle pretese straniere.

- 240 -

E per verità, notate quale enorme contraddizione! Si critica il governo napoletano pel modo che tiene nell'amministrazione della giustizia, e nel medesimo tempo si commette in suo danno un'ingiustizia infinitamente maggiore. Il Re di Napoli quando vuoi condannare taluno, lo chiama in giudizio, gli gira un processo, ne ascolta le difese. Invece nelle Conferenze di Parigi venne accusato e condannato il governo partenopeo senza citazione, senza processo, senza avvocato difensore! Che cosa si direbbe se un tale metodo fosse stato applicato ad un semplice individuo? E che cosa dovremo dire vedendolo applicato ad un governo, che merita maggiori riguardi dell'individuo?

Questo possiamo affermare francamente che i plenipotenziarii di Francia e d'Inghilterra commisero una flagrante ingiustizia, e che II Re di Napoli ha dato loro una buonissima lezione, ed ebbero la sorte de' pifferi della montagna, che andarmi per tuonare e furono suonati.

Ci resta ancora a parlare dei discorsi di lord Russell e di Milner-Gibson, e ne parleremo in un secondo articolo.

II.

Sir J. Ramsden, facendo nella Camera dei Comuni il 3 di febbraio la mozione d'un indirizzo in risposta al discorso del Trono, disse: «Quanto alla Sicilia, da ciò che la Monarchia di Napoli sia debole, non ne segue che essa non presenti un'importante questione». Noi aggiungeremo che la questione napoletana è appunto importante per la debolezza del Monarca ohe sta da una parte, e la forza delle Potenze che gli mossero querela. La sua importanza è grandissima anche per noi, perché tardi o tosto potrebbe venire la nostra volta, e al Piemonte essere intimato di mutare registro. Basterebbe un cambiamento di Ministero in Inghilterra, e una politica più spiccata in Francia. E i ministeri e le politiche si variano a' nostri giorni così facilmente 1

Laonde noi stimiamo di fare un'opera buona pigliando le difese del Re di Napoli, e celebrando un Principe che in tanta prostrazione d'animi e servilità di persone sa resistere e difendere il diritto. Ma i deputati d'Inghilterra ci furarono le mosse, ed essi prima di noi recitarono il panegirico di re Ferdinando; così che non ci resta altro da fare, che raccogliere le loro sentenze con qualche parola di commento a suo luogo. E questo abbiamo già fatto nel numero precedente, e ci accingiamo oggidì a compire l'opera, senza curarci delle stridule cicale.

Il sig. Milner Gibson trovò che l'Inghilterra non avea indirizzato al Re di Napoli quelle rimostranze che era in diritto di porgergli, «e che la risposta fu quale il Re avea diritto di farla; la causa dell'umanità e della libertà, egli disse, sarebbe meglio servita astenendosi completamente dallo spedire richiami simili a quelli che vennero presentati».

Dunque noi abbiamo dal canto del Re di Napoli un sovrano che si prevale di un suo diritto, che rispetta l'Inghilterra, e pretende a ragione di essere rispettalo, che non s'intromette nel regno della Gran Bretagna, e non vuole che gli Inglesi s'intromettano nel regno delle Due Sicilie.

- 241 -

Viceversa abbiamo il ministero britannico che col nome della libertà

e dell'umanità in bocca offende l'umanità e la libertà. Così almeno la pensa Milner-Gibson.

Il quale accennando a' suoi prosiegue: «Noi non interveniamo che per tradire, noi non facciamo promesse che per mancare alla nostra parola». Gravissima sentenza non già scritta su di un giornale, ma pronunziata in un Parlamento! Ora il Re di Napoli potea egli permettere ne' suoi stati l'intervento di coloro che non intervengono se non per tradire! Non fé bene, egregiamente a respingerlo con tutte le sue forze? Non rese un segnalato servizio al suo Stato?

Oh sì, ripiglia lord John Russell:

«Il Re di Napoli ha creduto che fra due pericoli la migliore risoluzione fosse quella di rigettare le fattegli proposte, ed io debbo soggiungere che molte persone, le quali non avevano avuto considerazione per re Ferdinando, lo stimarono dappoi per la fermezza da lui dimostrata in simili circostanze».

La Gazzetta Piemontese che ha riferito un brano del discorso di lord John Russell, si guardò ben bene dal ridire ai Piemontesi queste parole, come anche le precedenti dove il lord inglese dichiara, che se Francia ed Inghilterra non avessero voluto fare un solennissimo fiasco, avrebbero dovuto andar d'accordo coll'Austria.

Lord John Russell tributò elogi all'animo conciliatore del Re di Napoli, e sostenne che se le due grandi Potenze avessero preso altra via e dato consigli veramente amichevoli, il Re avrebbe immediatamente acconsentito perché il suo onore era salvo. Invece col metodo che tennero, col mezzo termine che adottarono, lasciarono al Re ogni possibilità di rifiuto e per soprappiù gli offerirono il destro di farne un argomento di onore e di orgoglio.

Ognun vede da se quanta lode si racchiuda in queste parole. Se noi le sommeremo con quelle dette da Milner-Gibson, da sir Gladstone, da lord Derby, e dal sig. d'Israeli, ne avremo il più stupendo panegirico che possa in tessersi ad un sovrano. Ne avremo che il Re di Napoli non e cocciuto nelle sue idee, né testereccio, ma solo zelante del proprio onore e della propria indipendenza; ch'egli, perfetto conoscitore dogli uomini e delle cose, non si lasciò accalappiare da futili pretesti; che guardò in faccia i proprii nemici, e li umiliò col suo coraggio; che sorse difensore del diritto nazionale, mentre si cercava di stracciarne il codice; che fu benemerito del suo popolo, opponendosi all'intervento di coloro che intervengono per tradire.

Simili confessioni dovrebbero produrre due effetti; primo mortificare un po' gli Italianissimi, e mandarli ad imparare l'indipendenza, l'onoratezza, l'amor patrio, il sentimento italiano dal Re di Napoli; dipoi indurre l'Inghilterra a mettere le pive in sacco, a lasciar da parte l'Italia, e pensare a se stessa.

L'Inghilterra ha da pensare al proprio popolo che muore di fame, ed alle sue imposteche scorticano i contribuenti. Frotte di operai (150 mila!) traversano di questi giorni le vie di Londra gridando: All out of work tutti senza lavoro. I Napoletani saranno, se volete, senza libertà, ma hanno pane; mentre il popolo inglese non ha pane, e senza pane la libertà è una ciancia.

- 242 -

I MINISTRI, I CIARLATANI

(Dall'Armonia, n.49,22 febbraio 1857).

La Camera dei Deputati, nella tornata del 25 di febbraio, trattò dei tre punti apposti per titolo al presente articolo. Dalla relazione ufficiale, N° 101, pagine 884,98§, rileviamo ohe in quella tornata il deputato Polto ci disse che il ciarlatanismo in Torino si è fatto all'ordine del giorno; il deputato Revel ci raccontò come i ministri propongano i loro disegni di legge, come dovrebbero proporli; è il conte di Cavour s'intrattenne de' fatti suoi come giornalista, dichiarando come si regolerebbe qualora dal portafoglio dovesse ritornare al giornale. Il lettore sarà curioso d'avere su questi tre temi qualche citazione, e udì ci affrettiamo a compiacerlo. E incominciamo dai ciarlatani»

I preti trovano nella nostra Camera pochissimi amici; ma i farmacisti ne rinvennero in buon numero. E non ce ne duole; anzi ci piace, che la causa della giustizia aia caldamente sostenuta; giacche questa è la medesima, qualunque sia la classe dei cittadini che protegge. Tra i difensori dei farmacisti fuvvi il deputato Polto, il quale, rispondendo a chi avea toccato dei larghi guadagni degli spedali, entrò a parlare così:

«Del resto, quali possono essere poi questi tanti guadagni, che possono fare ancora i farmacisti in un paese» in una città come la nostra, dove il ciarlatanismo si è fatto all'ordine del giorno? (Ilarità)Dove si vendono le pillole e le tavolette dai droghieri, dai confettieri d dai liquoristi? (Nuova ilarità). Dove su tutti gli angoli della città si vedono e si espongono affissi per rimedi, specifici per lotti i inali? Ma come potete voi ancor credere che, a fronte di questa immensa e libera concorrenza, ohe si fa tuttogiorno sotto gli occhi del governo, possano ancora i farmacisti realizzare questi immensi beneficii?

«Dirò di più: il giornalismo stesso si presta, e persino la Gazzetta uffiziale, a far concorrenza agli speziali (nuove risa) e poiché l'onorevole signor presidente del Consiglio si ride di questo, io gli dirò che, anche il suo figlio primogenito, il Risorgimento, fin dalle prime sue comparse coadiuvava la concorrenza fetale, (fiorita generale e applausi dalle tribune).

» Io sono dolente di dover accennare a tutte queste particolarità (in questo recinto, le quali d'altronde mi piace che eccitino un po' d'ilarità; ma doveva accennarle appunto perché non bisognava che passassero inosservate le parola del presidente del Consiglio, il quale diceva l'altro giorno che i signori farmacisti facevano dei lauti guadagni, e ohe era giustizia che venissero tassatilo allora ho pensato all'espressione del deputato Sineo, cioè che le parole che partono da quel banco non sono tu d'oro d'orpello; e queste osservazioni che ho fatto sono osservazioni di esperienza, di pratica e di buon senso, le quali no creduto appunto dovere addurre in seguito al principio emesso dal presidente del Consiglio nell'ultima tornata, e da cui io inaugurava il mio dire».

Noi non sapremmo quale ampiezza il deputato Polto abbia inteso di dare alla sua sentenza, che in Torino il ciarlatanismo si è fatto all'ordine del giorno! Supponendo ch'egli non abbia voluto uscire dalla cerchia della medicina,

- 243 -

noteremo come la mortalità sia tra noi aumentata in proporzione della moltiplicità dei rimedi, delle pillole e dello tavolette! Il conte di Cavour rise dell'osservazione del deputato Tolto, ma forse non è tale da prendersi a gabbo. La povera gente viene tra noi squattrinata dai ciarlatani tra' quali tengono il primo luogo i magnetizzatori, e converrebbe apporci un qualche rimedio.

Il nostre presidente del ministero die la seguente risposta al deputato Polto:

«Poiché ho la parola, debbo rispondere alle allusioni ed alla interpellanza dell'onorevole deputato Pollo, alla quale avrei dovuto immediatamente replicare chiedendo la parola per un Tatto personale. (Si fidi). Egli mi ha Tatto due gravi appunti: il primo, di avere esagerato i guadagni dei farmacisti; il secondo» di avere cooperato e di cooperare tuttora ad assottigliare loro questi profitti, tollerando ohe nei fogli pubblici vengano annunziate le vendite di rimedii, nella efficacia dei quali esso non ha maggior fede, ohe alcuni de' suoi colleghi avevano nei rimedii che vantava l'altro giorno l'onorevole suo collega il deputato Demaria. (Viva ilarità).

Polto (interrompendo). Non ne ho fatto colpa a questo, perché farei colpa alla libertà della stampa; bisogna rettificare le espressioni.............. io non mi sono........ espresso in questo modo........(interruzioni).

«Presidente del Consiglio (ridendo). Ha detto che ho cooperato non solo come ministro, ma come giornalista

«Polto. Dissi che la concorrenza ai farmacisti era anche coadiuvata dai giornali, che fra questi ci era l'antico Risorgimento.

«Presidente del Consiglio. Ha invocato persino dinanzi a me l'ombra dell'antico Risorgimento. (Ilarità).

«lo ricordo con soddisfazione e compiacenza i tempi nei quali dirigevo quel giornale; ho incontrato allora molte responsabilità, e forse, se io facessi il mio esame di coscienza come giornalista, dovrei riconoscere d'avere, come tutti i giornalisti, commesse delle imprudenze, e qualche volta, involontariamente, fors'anche delle ingiustizie; ma, a dir vero, pensando seriamente alle ricette (ilarità), pubblicate nella quarta pagina del Risorgimento, io non mi sento rimordere la coscienza né punto, né poco (nuova ilarità); e se mai il caso facesse che io ritornassi nelle filo dei combattenti nella stampa per iodica, dichiaro che avrei una grande tolleranza per gli annunzi d'ogni genere di rimedii e di ricette».

Il conte di Cavour vuoi dunque la libertà degli empi astri, la libertà dei ciarlatani, la libertà de!le ricette. Tutte le libertà trovano difensori nei nostri ministri, e difensori tanto più caldi, quanto le libertà Sono pili balzane e pericolose. Solo a' chierici è negata la libertà del pulpito, la libertà del confessionale, là libertà di dirigere il culto divino!

L'onorevole presidenti? del ministero, facendo il suo esame di coscienza come giornalista, ha riconosciuto A.' avere commesso qualche imprudenza, forse anche delle ingiustizie. In che cosa teme il conte di Cavour d'essere stato ingiusto quando scriveva il Risorgimento? Forse nel combattere il ministero di Novara? Nel dare addosso ai Buffa, ai Rattazzi, al Cadorna, a cui presentemente stringe la mano?

Questi però sono pettegolezzi. Veniamo al punto di maggiore importanza,

- 244 -

che è il metodo tenuto dai ministri nel proporre i loro disegni di legge. Essi dicono ai deputati: votate, e non danno ai medesimi gli schiarimenti necessarii per emettere un voto secondo coscienza. Si tratta presentemente di approvare una legge che riuscirà d'aggravio al governo, d'aggravio ai contribuenti, e si cammina al buio, e non si conoscono le conseguenze di quello che si discute. Sta per votarsi una legge, e gli uni dicono che importerà un peso di quattro milioni, e gli altri soggiungono che saranno invece sei milioni, ed i terzi ripigliano che saranno otto milioni, ed i quarti perfino aggiungono che si tratterà d'una spesa di dieci milioni. Nessuno ne sa il netto, mancano gli stati, mancano i documenti, e si discute da dieci giorni! Lo sconcio è gravissimo, e così lo rivelò il deputato Revel:

«Signori, in questa discussione che dura da tanti giorni, e che con qualche punto di ragione l'onorevole presidente del Consiglio ha accennato in una delle antecedenti tornate che dovesse essere spinta con maggior alacrità, noi, convien dirlo, camminiamo a tentoni.

«La legge ha due scopi: l'uno morale e, direi, politico, che è quello di dare la libertà all'esercizio di parecchie professioni ohe ora sono privilegiate; l'altro è economico sotto doppio aspetto, vale a dire della spesa che il governo incontra nel liquidare queste piazze, e del vantaggio che ritrarrà dal sottoporle al pagamento del diritto di patente.

«Quanto allo scopo morale-politico, la è una quistione di apprezzamento, sulla quale ognuno può farsi un criterio, e dire se convenga o no che l'esercizio di queste professioni sia o non libero: ma quanto alla quistione economica finanziaria, io non veggo che noi abbiamo mezzi sufficienti per potercene fare un'idea.

«Io ho però inteso su questo punto taluni accennare che il risultato di quest'operazione sarà un peso al governo di quattro milioni, di sej, di otto, e vi è persi no chi lo porta a dieci milioni: ma intanto sappiamo noi realmente qual gravame andiamo ad incontrare? No, certamente. E potevamo saperlo? Sì, signori, noi potevamo saperlo, se il ministro della giustizia, che ha iniziata questa proposta di legge, fosse andato un po' più d'accordo con quello delle finanze, che ne doveva subire le conseguenze.

Io credo, o signori, che sarebbe stato agevolissimo il fare la Camera ed il paese capaci della portata economica di questa legge. Il governo conosce il numero dei professionisti, le cui piazze si tratta di liquidare; esso doveva unire al progetto di legge uno stato, in una colonna del quale si dicesse: vi sono tanti procuratori presso il tribunale A, tanti presso il tribunale B, e così di seguito nei liquidatori, pei farmacisti, pei venditori di robe vive, in sostanza per tutti i provvisti di piazze: in un'altra colonna doveva indicarci quale è il prezzo che è stato originariamente pagato per ciascuna di queste piazze; e da quanto ci viene via via dicendo l'onorevole commissario regio, noi vediamo che questi documenti erano nelle mani del governo; in un'altra colonna doveva additare quale sarebbe stata la somma che, secondo la proposta ministeriale, si sarebbe conceduta a titolo di liquidazione a questi varii professionisti: in una quarta colonna esso doveva accennare quale è il prezzo corrente attualmente di queste piazze, prezzo che poteva desumere dagli ufficii d'insinuazione nella guisa stessa

- 245 -

che ha desunto quello delle farmacie di Torino; finalmente avrebbe potato ancora in una quinta colonna palesare i pesi che gravitano su queste piazze; ed in una sesta avrebbe dovuto indicare quale era il provento che egli si proponeva di ricavare dalla tassa patenti applicata a tutti questi professionisti.

«Cosi avremmo veduto qual carico dalla proposta del ministero veniva adsato alle finanze, e per conseguenza calcolare gli effetti degli aumenti e delle diminuzioni che la Camera portasse a quella proposta; avremmo veduto qual capitale rappresentasse la liquidazione di queste piazze, e confrontandolo colla rendita al cinque per cento che essa ci costava, avremmo potuto giudicare del benefizio che lo Stato sarà per ri trame. Allora la Camera avrebbe veramente saputo fin dove andare, dove arrestarsi; invece ora si discute pili o meno sottilmente, si vaga sulla materia, ma in ultima analisi non sappiamo quale effetto pratico avrà questa legge».

Il conte di Cavour si lagna spesso della lunghezza della discussione, e teme che il paese ne patisca scandalo. Il paese, signor Presidente del ministero, si scandalizza, ed a ragione, che i progetti di legge sieno dati da preparare agli avvocati diciottenni, con una mesata di L. 250; il paese si scandalizza che i progetti di legge sieno presentati alla Camera senza gli opportuni schiarimenti; il paese si scandalizza che vogliano obbligarsi i deputati a giuocare a mosca cieca, e a decidere al buio dei milioni dei contribuenti; il paese si scandalizza che dopo dieci tornate spese dalla Camera intorno ad una legge, un deputato sia costretto ad alzarsi per insegnare ai ministri come si debbano proporre le leggi al Parlamento!

CRONACA PIEMONTESE

DELL'ANNO 1856.

La mattina del 1° gennaio, alle ore 10, S. M. tiene solenne ricevimento dei Cavalieri dell'Ordine della SS. Annunziata, dei ministri secretarii di Stato, e quindi delle deputazioni del Parlamento nazionale, Consiglio di Stato, Municipio di Torino e R. Università degli studi. - Alle ore 14 S. |M., accompagnata da S. A. R. il principe di Savoia Carignano si dirige alla R. Tribuna in S. Giovanni - Alle 3 e 3|4 pomeridiane giogne a Torino dalla Crimea il generale Alfonso La Marmora. Alcuni minuti prima i ministri del re, sir James Hudson, ministro di S. M. Britannica, e parecchi onorevoli senatori e deputati si recano alla stazione della via ferrata a ricevere il comandante in capo del nostro esercito in Oriente.

Il 7 gennaio. - 11 generale Alfonso La Marmora parte alla volta di Parigi per prender parte alle conferenze militari, e prende la via del Cenisio. - 11 14 Nella chiesa di San Lorenzo si celebra l'anniversario della morte della compianta regina Maria Teresa, vedova di Carlo Alberto.

Il 19. - Una mesta cerimonia compiesi in San Lorenzo nell'anniversario della morte della regina Maria Adelaide. Il re Vittorio Emanuele ne ordina la celebrazione.

Sulla porta del tempio legge: «Il Re Vittorio Emanuele 11 rinnovi sacrifizii e preghiere per la consorte impareggiabile, Maria Adelaide, che da dodici mesi ha deserto dei santi esempli e dell'angelico sorriso il suo trono e i suoi popoli».

- 246 -

Il 7 febbraio. - Giungono in Torino, provenienti da Parigi, S. E. Mehtmed Djiamil-Bey, ambasciatore della Sublime Porta presso S. M. il re di Sardegna, e il generale Alfonso La Marmora, comandante in capo del corpo dì spedizione in Crimea.

Il 9. - S. M. nomina suoi ministri plenipotenziarii alle conferente di Parigi il conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, ed il marchese Salvatore Pes di Villamarina, suo io vinto straordinario «ministre plenipotenziario presso S. M. l'imperatore dei Francesi.

Il 13. - 11 conte Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, parte per Parigi.

Il 14. - S. A. R. la Duchessa di Genova fa celebrare, nella chiesa di S. Lorenzo, solenni esequie anniversarie, in commemorazione della morte del compianto marito il Duca di Genova, Sulla porta del tempio leggesi: «I funerali nel primo memorabile anniversario, all'animi generosa del prode in battaglia, Ferdinando di Savoia, duca di Genova, reggitore di legione nella guerra dell'indipendenxa italiana, capitano supremo delle artiglierie piemontesi. Cittadini, la vedova sconsolata abbruna il tempio, e voi tornate a pregare la requie eterna».

Nello stesso giorno, in una delle sale dell'Albergo Trombetta, si di il banchetto che il Parlamento offre al generale Alfonso La Marmora. Il numero dei commensali è di circa centosessanta.

Il 16 marzo. - II conte Cavour si reca alla Legazione di Francia affine di presentare, in nome di S. M. il Re e del suo Governo, vive congrinazioni all'inviato straordinario e ministro plenipotenziario signor duca di Gramraont, per la nascita del Principe imperiale ereditario di Francia. Il 22. - Una meteora si mostra sul nostro orizzonte, seguendo la direzione da levante a ponente, scoppiando con un fragore simile al tuono, dopo di aver mandata una luce vivissima che illumina tutta quanta la città - La sera medesima cadono nella provincia d'Ivrea alcuni bolidi, uno presso la città d'Ivrea che ai getta nella Dora, un altro pelle vicinanze di Pont-St.-Martin, ed un terzo dal Biellese, si scarica sui monti di Quassolo, dove sparisce. Il 24. - Per cura della Legazione imperiale di Francia è cantato un solenne Te Deum nella chiesa della Madonna degli Angeli, in rendimento di grazie all'Altissimo per la nascita del Principe imperiale di Francia. Il 30. - Lo sparo dei cannoni da l'annunzio del trattato di pace, segnato a Parigi alle 2 1|4 pomeridiane.

Il 3 aprile. - Si celebra nella chiesa di San Giovanni la messa funebre in commemorazione dei morti sui campi di Novara nel marzo 149. Si legge nella Ca9fetta di Genova del 14 aprile: «La festa inaugurale per l'apertura della nuova via ferrata che congiunge la nostra città con uno dei più industri comuni dell'occidentale riviera, seguiva ieri, secondo il riferito programma, e con un felicissimo risultato. Può dirsi veramente che una gran parte degli abitanti di Genova si trovò quasi per incanto trasferita sul ridente lido di Voltri, tanto era il numero degli accorsi a riempire la interminata fila dei vagoni preparati al tragitto».

Il 24. - Giungono alla Spezia, provenienti dalla Crimea in ottimo stato di salute, e trasportati sui vapori inglesi Imperator e Colombia il terzo reggimento provvisorio

- 247 -

del Corpo di spedizione, composto dei battaglioni di guerra delle brigate Cuneo e Pinerolo oltre ad un battaglione di bersaglieri ed a due compagnie della brigata Piemonte. La truppa è comandata dal generalo Cialdini. Il 29. - S. M. riceve in udienza privata il conte Camillo di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, reduce dalle conferenze di Parigi, ed in pegno della sua piena soddisfazione, si degna di decorarlo di propria roano del Collare dell'Ordine supremo dell'Annunziata.

Il 3 maggio. - Oltre i duo cannoni che il Governo inglese donava all'armala sarda, un altro tratto di cortesia volle usarle cedendo le batterie inglesi, che gli artiglieri sardi avevano adoperato nella giornata della Cernaia. L'8. - II conte di Stackelherg, generai maggiore al seguito di S. M. l'Imperatore di tutte le Russie, incaricato dalla M. S. di una missione speciale presso di S. M. il Re nostro augusto Sovrano, giunge in Torino. L'11 - È celebrata la festa dell'ottavo anniversario dello Stallilo costituzionale. Il 12. - S. M. incarica il luogotenente generale cavaliere Dabormida, senatore del Regno e comandante del corpo reale d'Artiglieria, di portare all'Imperatore delle Russie la risposta alla lettera in cui lo stesso Imperatore partecipava la notizia della sua salita al trono.

Il 26. - Con l'ultimo convoglio della via ferrata di Genova giugne in Torino un battaglione dell'11° reggimento di fanteria reduce dalia Crimea. Il 28. - Gli ufficiali dell'11° reggimento danno nella sala dell'Albergo Trombetta un banchetto ai loro compagni reduci dalla Crimea.

Il 4 giugno. - Giugne in Torino S. E. il generale Alfonso La Marmora veniente dalla Crimea.

Il 10. - Il Municipio di Novara offre un banchetto agli ufficiali del 17° reggimento di fanteria che hanno preso parte alla campagna di Crimea. La stia del banchetto è decorata di trofei, di bandiere nazionali e d'iscrizioni allusive alle gesta dei nostri soldati in Oriente. Una di queste iscrizioni dice: O guerrieri del Ponto - Vorranno conoscervi mill'altri fratelli - E si dorranno di essere nati altrove. Il 14. - Il Comitato centrale per un ricordo alle truppe in Crimea, nella sua radunanza del 28 aprile p. p. , deliberò di offrire una spada di onore al Generale comandante in capo il corpo di spedizione. Questa spada è presentata a S. E. il generale Marmora, che l'accoglio con riconoscenza. Il lavoro dell'elsa rappresenta il Piemonte con giovanile aspetto e con divisa guerriera.1114. - 11 Re distribuisce le medaglie commemorative della guerra di Crimea e legge la seguente allocuzione: Uffiziali, sott'uffiziali e e soldati; è scorso appena un anno dacché io vi salutava dolente di non esservi compagno nella memorabile impresa. Or lieto vi riveggo, e vi dico: avete ben meritato della patria. Voi rispondeste degnamente all'aspettazione e mia, alle speranze del Paese, alla fiducia de' nostri potenti Alleati, che oggi «ve ne danno una solenne testimonianza. Fermi nelle calamità che adissero e una eletta parte di voi, impavidi nei cimenti della guerra, disciplinati sempre, voi cresceste di potenza e di fama questa forte e prediletta parte d'Italia. Riprendo le Bandiere che vi consegnava, e che riportate vittoriose dall'Oriente. Le conserverò come ricordo delle vostre fatiche, e come un pegno sicuro che, quando l'onore e gli interessi della Nazione m'imponessero di rendervele,

- 248 -

esse sarebbero da voi sui campi di guerra dovunque, sempre, «ed in egual modo difese, e da nuove glorie illustrate».

Il 16. - Nella chiesa di Santa Teresa si celebrano le esequie di monsignor Roberti, uditore di Nunziatura, morto l'altrieri repentinamente. Alla religiosa e funebre cerimonia assistono 8. E. il conte di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri ed i componenti del Corpo diplomatico estero residente in Torino. Il 20. - II cavaliere Pietro Paleocapa, senatore del Regno e ministro dei lavori pubblici, parte per Parigi ad oggetto di prender parte ai lavori della Commissione incaricata dell'esame delle quistioni relative al progetto del taglio dell'Istmo di Suez. Il 25. - I giornali di Ciamberì recano la descrizione delle cordiali accoglienze e delle feste fatte in quella città l'altroieri al battaglione del 5° reggimento ed allo squadrone di Novara Cavalleggieri reduci dalla Crimea. - I giornali di Nizza narrano le feste fatte da quella popolazione ai battaglioni del 9 e del 10 di fanteria reduci dalla Crimea. Il 28. - II Consiglio comunale di Torino ha deliberato di erogare la somma di L. 2,000 a sussidio dei Francesi danneggiati dalle recenti inondazioni

Il 1 luglio. - Le IX. AA. RR. i Principi e le Principesse intraprendono un viaggio al Lago Maggiore. Il 16. - Giunge a Pietroburgo il generale conte Broglia, invialo straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. il Re di Sardegna presso S. M. l'Imperatore delle Russie. La Gazzete de Savoie del 22 annunzia l'arrivo a Ciamberì del maresciallo Canrobert, e soggiunge: «Ieri l'altro la musica dei Cavalleggieri di Novara diede una serenata all'illustre vincitore d'Inkermann, il quale, dopo avere passati alcuni giorni a Aix, deve partire, da quanto si assicura, per Torino». Il 28 - Ricorrendo il settimo anniversario della morte di S. M. il re Carlo Alberto, è celebrata nella chiesa metropolitana solenne messa funebre.

Si legge nella Gazzetta Piemontese del 6 agosto 1856: «II progetto di una sottoscrizione per cento cannoni ad Alessandria, ha incontralo molto favore nel paese; le sottoscrizioni procedono con alacri là. Il paese coglie con premura le occasioni di testare la sua devozione a quei principii d'indipendenza e di dignità, dai quali s'informa la politica del governo del Re». L'11. - Nell'adunanza che ha luogo in Vogherà la Commissione Sardo-Parmense delibera che la congiunzione della ferrovia Sarda con quella Parmense avrà luogo in un punto di passaggio della Bardoneggia, riconosciuto il più conveniente ad ambedue gli Stati, e che il ponte sarà costruito dalla Società della ferrovia da Alessandria a Stradella a spese comuni colla Società cui sarà concessa la ferrovia sullo Stato di Parma. Il 14. - II cavaliere Raffaele Benzi è nominato da S. M. a Commissario nei Principati Danubiani. Il 15. - lai occasione della festa di S. H. l'Imperatore dei Francesi, S. E. il duca di Grammoot da uno splendido banchetto.

Si legge nella Gazzetta Piemontese del 16 agosto: «Oggi ricorre un fausto anniversario: compie l'anno da quel giorno in cui sulle rive della Cernaia otto secoli di nobili tradizioni ebbero una nuova e solenne consacrazione, ed i nostri soldati, combattendo a fianco di eroici alleati e contro un valoroso nemico, abbellirono di nuovo lustro quel vessillo, dove l'antica e venerata croce di Savoia splende fra i colori nazionali, e che non fu mai disertato né dal valore né dalla fede.

- 249 -

Tutta Italia plaudisce con noi all'anniversario del glorioso e non più dimenticabile evento; e mentre invia cordiali augurii ai prodi superstiti, consacra un pensiero di rimembranza mesta ed affettuosa ai valorosi che andarono e non tornarono». Il 18. - Buon numero di veterani degli eserciti napoleonici, in questo giorno celebrano la ricorrenza del nome del loro capitano. Il 22. - I giornali di Savoia annunciano l'arrivo ad Aix-les-Bains di S. A. il principe Luciano Murat, senatore dell'impero Francese e del maresciallo Baraguay d'Hilliers.1129. - 8. M. riceve in udienza particolare il conte Ernesto di Stackelberg, che presenta le lettere che lo accreditano presso la M. S. iri qualità d'inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. l'imperatore di tutte le Russie.

Il 7 settembre.- È inaugurata la linea di strada ferrata da Santbià a Biella.1117. - S. M. riceve S. E. Mehemed Djiamil, ambasciatore di S. M. imperiale il Sultano, il quale ha l'onore di presentare al Be i magnifici regali mandatigli dall'augusto suo alleato. Questi regali consistono in due selle colle rispettive gualdrappe e finimenti ed in una sciabola. Le gualdrappe sono oltre ogni dire ricche e splendide: una di esse in drappo azzurro oscuro è coperta di argento, l'altra in drappo rosso è coperta d'oro e di brillanti a profusione. La sciabola è ammirabile per la squisitezza e per la finitezza del lavoro: la impugnature è in oro e tutta tempestata di diamanti e di pietre preziose. Il 25. - Pranzo a Corte.8. M. ha alla sua destra l'ambasciatore di S. A.1. il Sultano, ed alla sinistra il ministro inglese, decano del Corpo diplomatico.

Il 1° ottobre. - Giunge da Baveno la notizia della morte del cavaliere Giacinto Provana di Collegno, tenente generale e senatore del Regno, ivi succeduta (29 settembre) alle ore 5 pomeridiane. Il 4. - Lord John Russel giunge in Torino. Il 20. - È fatta l'apertura della via ferrata di Savoia. Il convoglio partito da Saint-Jean-de-Maurienne alle ore 8 e 40 del mattino, giunge a Ciamberì alle ore 11 e 30 e ad Aix a mezzogiorno. Il 21. - Giunge a Torino il conte di Minio, pari d'Inghilterra. Il 22. - Verso le 4 e 25 pomeridiane ar. riva felicemente in Arona S. M. l'Imperatrice madre di Russia col suo seguito. S. M. I. è ricevuta allo' sbarco con tutti gli onori dovuti all'eccelso suo grado da S. A. R. il Principe di Savoia Carignano e dalle Autorità divisionali e locali, ed è accompagnata all'albergo ove prende stanza.1123. - Alle ore 8 e 20 antimeridiane S. M. il Re si reca per convoglio speciale a Genova. S. M. I. con convoglio speciale muove alla volta di Genova accompagnata dalla prefata S. A. R. Il 24. - S. M. il Re dopo aver passato la rivista delle truppe, si porta a visitare i nuovi quartieri della città. S. M. l'Imperatrice di Russia pranza con S. M. il Re, con S. A. R. il principe Eugenio e con S. E. il conte Cavour.

Il 5 novembre. - Si legge nella Gazzetta di Genova: «Ieri verso le ore 6 e 1|2 pomeridiane, salpava da questo porto per alla volta di Costantinopoli il R. piroscafo Monzambano, comandato dal signor Giraud capitano in secondo di vascello, con settanta persone d'equipaggio, avendo a bordo il luogotenente generale Giacomo Durando, senatore del Regno, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. il Re di Sardegna presso S. A. imperiale il Sultano». Il 10. - Il ministro degli affari esteri di S. M. il Sultano informò non ha guari il R. Rappresentante a Costantinopoli

- 250 -

che S. M. volendo porgere una nuova testimonianza de' suoi sentimenti verso le truppe Sarde che combatterono a fianco delle troppe Ottomane, ba ordinato di cingere di muro apposito il sito dove furono sepolte a Yenikoi le ossa dei militari sardi morti colà durante la guerra d'Oriente. Il 16. - S. A.. I. la granduchessa Elena di Russia sbarca felicemente a Villafranca, ed un'ora dopo giunge in Nizza io una delle carrozze reali.

Il 16 dicembre. - Si legge nella Gazzetta Piemonte: «Il Consiglio di famiglia dei figli di fu S. A. R. il Duca di Genova ha pregato S. M. il Be di assumere la tutela delle LL. AA. RR. il principe Tomaso e la principessa Maria Margherita.8. M. ha aderito a questa domanda, ha ordinato che 8. A. R. il principe Tomaso, duca di Genova, venga educato coi suoi proprii augusti figliuoli, e per quanto concerne la parte amministrativa, ba prescritto che essa venga affidata al cavaliere Remigio Panizzera. Il 45. - II generale Rostolao è ricevuto alle 2 pomeridiane insieme co' suoi tre ufficiali di seguito da S. M. l'Imperatrice madre di Russia; si reca quindi a far visita a 8. A. I. la granduchessa Elena.

Il 26. - È presentata a S. E. il conto di Cavour una medaglia in oro offerta da parecchi abitanti della città di Napoli. Questa medaglia è opera dell'incisore Galeazzi. In una delle sue faccie si vede il ritratto del conte di Cavour, intorno a cui si leggono le parole: A Camillo di Cavour propugnatore animoso all'indipendenza d'Italia i Napoletani riconoscenti. Nell'altra faccia si vede una corona di quercia in mezzo alla quale sono le parole Vili Aprili 1856. - Giunge per via telegrafica la notizia della morto di 8. A.1. l'arciduchessa Elisabetta, sorella del Re Carlo Alberto, avvenuta ieri sera a Botano.

- 251 -

CENNI AMMINISTRATIVI

SULLO STATO ESTENSE

I presenti cenni sulle condizioni amministrative dello Stato Estense negli anni 1850 sino a tatto il 1857 sono precisamente quelli che venivano inseriti nell'Almanacco della R. Corte per l'anno 1859, il quale non fu pubblicato pel corso degli avvenimenti.

PROSPETTO DIMOSTRATIVO dei prodotti e delle spese dello Stato nell'anno 1857, col confronto della media dei prodotti e spese riferibili agli anni dal 1850 al 1856.

TITOLO DEI PRODOTTI

PRODOTTI ED INTROITI

dell'anno

1857

Prodotto della vendita dei generi di privativa, cioè Sali, Tabacchi, Polvere e Carta bollata...............................L.

8,331,480

51

Prodotto dei Dazii doganali e di consumi...................» 2,178,211 07

Prodotto delle Tasse Successioni e contratti, della Tassa del mezzo per cento sui capitali ipoterarii e di commercio, della Tassa personale, della Tassa bestiami, del Lotto, dei ponti, passi ecc........................................»

1.463,624

74

Prodotto della Posta Lettere .........................................» 136,451 40

Prodotto dei Beni in amministrazione della R. D. Camera..........................................................................»

705,685

16

Prodotto dell'Imposta prediale......................................» 2,430,808 81

Prodotto del Patrimonio degli Studii, dei Telegrafi, ed altro in dipendenza del Ministero dell'Interno..............»

417,009

73

Introiti per Tasse d'Ipoteche, e tasse giudiziarie ecc. io dipendenza del Ministero di Grazia e Giustizia...........»

273,260

80

Introiti della Casa di Forza alla Salicela, e tasse di polizia, in dipendenza dei Ministero di Buon

Governo........................................................................»

100,451

71

Totale dei prodotti e degli introiti.................................» 11036,793 02

Spese e pagamenti complessivi come contro................» 10014,020 49

Avanzo 122,172 58

TITOLO DELLE SPESE

SPESE E PAGAMENTI

dell'anno 1857

Costo dei generi di privativa esitati, e spese relative alla vendita................................................................................»

1,074,043

78

Spese per la riscossione dei Dazii e delle Tasse................» 267,439 85

Spese pel trasporto, il ricevimento e la distribuzione delle Lettere, Gazzette, Pacchi e Gruppi....................................»

124,736

29

Spese per la Guardia di Finanza........................................» 319,528 79

Spese generali del Ministero e delle Intendenze di Finanza 293,371 53

Spese pei Beni Camerali, Censi, Livellli e Congrue

alle Parrocchie ecc.............................................................»

617,454

31

Debito pubblico di rendite di consolidato, e di frutti

di prestiti............................................................................»

453,720

86

Pensioni Civili, Militari ed Ecclesiastiche.........................» 445,642 36

Spese per la R. Corte, per le Fabbriche, per la R. Galleria

e le Postali interne.............................................................»

759,209

04

Stipendi i ad Impiegati nella Biblioteca Estense Ragioneria di Revisione, Archivio Segreto, Capella di Corte ecc. ecc.»

40,325

99

Dozzene a diversi in Stabilimenti d'educazione, assegni e sussidi mensili e straordinari, retrodazione di Prediale ai Possidenti di Vigneti nel Massese, ed altro.......................»

200,050

68

Spese per la pubblica istruzione........................................» 333,103 70

Simili pel mantenimento degli Stabilimenti di pubblica beneficenza, e delle Case di lavoro...................................»

315,130

54

Spese per gl'Impiegati nel corpo d'acque e strade negli Uffizii dei Telegrafi, Manutenzione ordinaria delle strade, degli argini ecc., Spese straordinarie per nuovi fabbricati, nuove strade e canali, e lavori straordinarii alle arginature

986,661

71

Spese generali, del Ministero dell'Interno, delle Delegazioni, e del Censimento, ed assegni straordinari per spese arretrate....................................................................»

617,999

59

Spese generali del Ministero degli Affari Esteri................» 85,578 25

Spese generali del Ministero di Grazia e Giustizia, e mantenimento dei detenuti sotto processo ........................»

867,613

27

Spese generali del Ministero di Buon Governo, mantenimento dei detenuti correzionali, e condannati criminalmente, e spese per la Casa di Forza alla Saliceta

822,000

00

Spese pel Militare Estense.................................................» 2,081,609 76

Spese pel mantenimento delle II. RR. Truppe Austriache.»

Totale delle spese e pagamenti........................................L. 10,702,220 30

Debito pubblico ammortizzato........................................» 212,400 19

Somma complessiva........................................................» 10,14'620 49

- 253 -

- 253 -

- 254 -

Le rendite nel 1857 presentano un aumento di L. 738,908.45, sulla inedia di quelle del settennio; e le spese pure lo offrono di L 622,821.45; il maggior reddito stante la invariata misura dei pubblici tributi in detto periodo è ascrivibile a miglioramenti naturali e progressivi della amministrazione, come la maggiore spesa ha occasione dalle molte circostanze anormali degli anni anteriori al 1857, mentre d'altronde anche il conseguimento di un maggior incasso provoca di conseguenza una corrispondente alterazione ne' dispendi.

Ove si divida sulla popolazione Estense (ritenuta in 600,000 abitanti) l'ammontare delle entrate dello Stato pel 1857, avrassi per testa la cifra di L 18,39, la quale però non non da il carico d'imposta che ciascuno corrisponderebbe: se quindi dal complessivo delle rendite si sceveri il prodotto dei Beni Camerali, il costo effettivo dei generi di privativa, che figura nel prodotto lordo dei medesimi, e che non è imposta, ed altri redditi proprii oche stanno per correspettivo di mere anticipazioni fatte dallo Stato, residuerà la somma dei veri aggravi pubblici a L. 8,339,791.35, e così per testa L. 13,88.

L'imposta fondiaria figura precipuamente nelle rendite. Nel 1857, è salita ad una cifra ben poco superiore, dipendente da liquidazioni arretrate e da rettifiche, a quella del settennio in media, talché non merita considerazione la differenza. Il maggior reddito dello stato derivasi da tale imposta perché la più opportuna nella condizione e nelle circostanze economiche dello Stato, e perché più d'ogni altra offre mezzo ad una giusta proporzionale ripartizione essendo gli elementi di produzione, su cui si fonda, agevolmente calcolabili.

Essa infatti costituisce quasi il quarto della rendita generale dello Stato, ed il 30. per % delle restanti imposte: dividendo il redditto per ogni abitante, risulta di L. 1.05.

Vengono successivamente le privative, il cui prodotto al netto salì a L. 2,257,146.73, ciò che da il 24 per delle imposte, ed un quinto circa del reddito generale: sulla media degli anni 1850-56 in L. 1,972,152.15, evvi l'aumento riflessibile di L. 278,994,55. Ciascun abitante come imposta di privativa paga. L. 3.76.

Le Dogane e i dazii di consumo presentano per l'anno che si esamina un aumento di L. 53,713.73 in confronto della media del settennio. Il reddito di tali imposte ascende ad 1/5 del prodotto generale, e da per testa L. 3.63.

Nelle tasse successioni e contratti, del 1/2 per % sui capitali, dei bestiami, del Lotto, dei pedaggi ecc. abbiamo un aumento di L. 184,956.59 sulla media di confronto: dividendo anche il ricavato complessivo da tali rami d'imposta sulla popolazione, avremo una cifra di L. 2.44 per ogni abitante.

I proventi infine delle tasse ipoteche, e giudiziarie, il prodotto dei telegrafi, del patrimonio degli studi, ed altri redditi minori ci presentano, confrontati colla media relativa, un aumento di circa 140 mila lire.

Anche perciò che riguarda le spese si aggiungono alcune poche osservazioni che servono come di complemento alle risultanze già sufficientemente distinte nel prospetto.

E primieramente credesi di avvertire alla proporzione che riscontrasi fra il reddito di alcune imposte, e le spese d'esazione relative.

- 255 -

Il prodotto dei dazi doganali e di consumo, delle tasse successioni e contratti, della tassa del 1/2 per % sui capitali ipotecarii ed in commercio, della lassa personale e dei bestiami, del Lotto e dei pedaggi ascende a L. 8,641,885.81; e siccome lo stato sostiene una spesa di riscossione di 367,439.85, così si ba la proporzione del 7.35 per cento.

La spesa sostenute sulle privative fu di L. 1,074,04378, che sta al prodotto di L. 3,331,490.64, nella ragione del 39.43, per cento

L'aumento di spesa in L. 168,471.48, ohe si riscontra pel 1857, rispetto alla media di confronto sul costo dei generi di privativa, è in partioolar modo ascrivi bile ai maggiori acquisti fattisi dei medesimi per ragione dell'aumentato consumo; e vi contribuì poi l'elevato prono a cui salirono le foglie di tabacco nell'anno in discorso, a negli antecedenti.

L'interesso del debito pubblico assorbo appena un ventesimo della rendita generale, e la differenza in meno che rilevasi sulla somma pagata por tale oggetto nel 1857, con riguardo alla media di confronto, dipende dalle ammortinasiont seguite; questo poi dal 1849 a tutto il 1857, ebbero luogo per una somma di L. 4,225,446.60, compresa l'estinzione del prestito di L. 95,000 fatto nel'1848 dal già Ministero di pubblica Economia.

Ove Io Stato volesse estinguere il proprio debito redimibile, e consolidato nel capitale nominale di L. 9,074,417,20, non dovrebbe gravare li 600,000 suoi abitanti che di sole L. 15.12.

Le spese per la pubblica istruzione e pel mantenimento degli Stabilimenti di pubblica beneficenza offrono nel 1857 un aumento, essendosi estesi i mezzi di ben applicare alle scienze ed alle arti per la coltura dello spirito coll'ammissione di vari istituti civili e religiosi; ed offerto in modo più congruo un asilo alla sventura che non può sempre essere dalla privata carità soccorsa.

Anche nei Miniatori di Grazia e Giustizia, nel Buon Governo, nel Dicastero Militare ebbesi in complesso un aumento di spesa di circa L. 286,000 sulla media: perché fra gli altri titoli come crebbe il prezzo delle derrate, così aumentò l'importo pel mantenimento del soldato e dei detenuti per crimini, e in via correzionale.

Si accenna inoltre che le maggiori spese sostenute dal 1850, al 1857 furono occasionate pel cambiamento avvenuto in due volte nel sistema doganale, per lo impianto della nuova legislazione civile e criminale; per la istituzione di un grandioso stabilimento pei forzati ed oziosi nella casa di forza alla Salicela; per l'attivazione di una fabbrica di panni; per una casa di correzione per le donne; per l'aprimento di due strade interessanti il commercio delle Provincie montuose, quella delle Lame e l'altra delle Radici, e cosi per altri lavori a pubblica cognizione.

Anche la scarsezza dei raccolti che elevò in modo straordinario per alcun tempo il prezzo dei generi di prima necessità, e la malattia delle uve che tolse all'agricoltura uno de' suoi (maggiori prodotti, occasionarono significanti dispendi e per le provvidenze annonarie adottate, e per retrodazioni d'imposte a possidenti maggiormente danneggiati; né di minor importanza

- 256 -

furono le spese sostenute per l'invasione del cholera, sia per le precauzioni sanitarie attivate, sia pei sussidi prestati a pubbliche amministrazioni.

Un ulteriore titolo di spesa finalmente ebbesi per migliorare la condizione della media ed infima classe degl'Impiegati, i cui emolumenti pel caro dei generi di prima necessità, delle pigioni ecc. non potevano più corrispondere al bisogno, al decoro «buon servigio dell'Amministrazione. Vi fu per benefica Sovrana disposizione dapprima provvisto con soprassoldi regolati sull'adequato prezzo dei grani, e nel tempo stesso con parziali stabili aumenti di solfo. Finalmente col 1 aprile 1858, fu disposta ed attivata per ordine di S. A. R. una pianta normale degli Impiegati e degli stipendi regolati alcuni in misura invariabile» altri sopra un minimo ed un massimo, a cui gradatamento devono avvicinarsi gli emolumenti attuali degli Impiegati.

Dalla tabella qui annessa desumesi lo stato degli stipendi complessivi e del numero degli Impiegati di tutti i dicasteri al 1 gennaio 1854 e al 1° gennaio 1858. Ove si confronti la cifra del soldo in dette due epoche, con quella calcolata in media fra il minimo e massimo stabilito dalla nuova Normale, si rileverà agevolmente il miglioramento già incamminato.

Conte FERDINANDO CASTELLANI TARARINI

Guardate che cosa i liberali facessero del Piemonte. Parli il deputato Gallenga nel Cimento del 30 di giugno 1855, pag.1071: «In Piemonte la tirannide vera non fu mai, ma piuttosto quello stretto reggimento che cerca il bene e ad ogni suo potere lo promuove, ma lo vuoi far solo ed a modo suo».

Questa stessa sentenza del Gallenga era già stata pronunziata nella Camera dei Deputati dal signor Josti nella tornata del 7 di marzo 1850: «Se veramente vogliamo essere sinceri, non era il governo assoluto arbitrario che ci fosse odioso, il quale era piuttosto paterno».

Ebbene dal governo paterno in quale altro siamo caduti noi? Abdicato il potere della Corona, amor del giuoco, furti, e grassazioni hanno assunto gravi dimensioni. Il Governo non solo transige, ma scherza sulla pubblica morale». Così Gallenga nel Cimento, a pag.1071.

«Il giuoco gode all'ombra delle franchigie costituzionali quella tolleranza che non avrebbe mai trovato sotto l'antico dispotismo. Mentre grandi sciami rubacchiano a man salva, il ministero si schermisce dicendo, che la guardia di sicurezza non è ancora ordinata. Un Ministro propone a sangue freddo di immolare i frati grassi e risparmiare i magri, e fa di ogni più sacro principio una questione finanziaria». Così ancora Gallenga nel Cimento, pag.1082.

- 257 -

CIRCOLARI CONTRO IL CLERO CATTOLICO

SPEDITE DAI MINISTRI CHE GOVERNARONO IN TORINO

DAL 1848 AL 1863.

Scriviamo una pagina eloquentissima di storia contemporanea, raccogliendo le circolari che vennero spedile per tribolare il Clero cattolico, dai ministri che governarono il Piemonte in questi quindici anni. Non sarebbe possibile dipingere più vivamente l'opera della rivoluzione, il suo odio, il suo livore, la sua slealtà e l'empietà che la divora. Le circolari incominciano con quella che il ministro Giacomo Plezza indirizzava ai parrochi. Il 1 agosto del 1848, e finiscono colle altre scrìtte nel 1863, o direttamente dal guardasigilli Pisanelli, o dai pubblici officiali dipendenti da lui. Il quadro non potrebbe avere più bella cornice. Il Plezza promette libertà alla Chiesa, loda le prerogative della Santa Sede, combatte l'Austria che ne fu sempre nemica, ed «intende a diffonderò ne' suoi Stati e in quelli su cui ha qualche influenza, principii, e massime, e regole di disciplina e di culto poco ortodosse, e contrarie alla sovrana autorità della Chiesa». E dopo queste magnifiche promesse, eccoli, tre mesi appresso, la circolare di Urbano Rattazzi (25 dicembre 1848), nella quale s'intima a' Vescovi che f debbano conformarsi alle viste, intenzioni e deliberazioni del governo!»

Dippoi una serie di circolari che spaventano per la moltiplicità del numero, la severità delle minaccie, la vigliaccheria degl'insulti. Ora è una circolare del ministro delle finanze, Vincenzo Ricci (25 dicembre 1848), che domanda, colla massima circospezione accurata notizia di tutti i beni della Chiesa; ed ora una circolare del ministro dell'istruzione, signor Gioia (13 maggio 1851), che pretende di governare l'insegnamento teologico. Quando è una circolare come quella del ministro dell'interno Pernati (15 luglio 1852) contro i sacerdoti che, valendosi del diritto di liberi cittadini, raccolgono petizioni per oppugnare il disegno di legge sul matrimonio civile; e quando lo stesso ministro con una sua circolare osa attribuire al Clero le sommosse avvenute pel caro dei viveri in sullo scorcio del 1853. Un anno trovi la circolare del ministro S. Martino (21 ottobre 1853) per tormentare gli Ordini religiosi; quindi la circolare della Questura di Torino (27 ottobre 1853), che dice doversi rivolgere la più continuata attenzione ai Pastori delle anime, t ai quali pili facile si apre l'orecchio delle popolazioni», perché sieno infrenati; e da ultimo la circolare del guardasigilli Rattazzi (3 novembre 1853), che cerca di mettere la mano sui beni delle parrocchie. Un altr'anno incontri la circolare contro l'Allocuzione pontificia del 22 gennaio 1855 J Qui è il guardasigilli Deforesta, che da le più energiche istruzioni contro il Clero (8 giugno 1856). Là è nuovamente Urbano Rattazzi che esorta i sindaci a sopravegliare, affinché i parrochi non vendano i vasi sacri d'oro e d'argento (13 agosto 1857).

- 258 -

Nel 1859 si riproduce il fatto medesimo di dieci anni prima. Una circolare del signor Vigliarli, governatore della Lombardia (22 giugno 1859), fa le più. belle promesse a' Vescovi, e ripete le ipocrisie del Plezza nel 1848. L'Austria, dice Vigliani, «esercitava sulla chiesa un patrocinio che riuscita ad una vera servitù, e sempre lo subordinava a' suoi politici intendimenti». Invece, soggiunge il Vigliani, «non è mestieri che io accenni alle S. V. Ill.me e Rev.me qual valida guarentigia debbano essere pel Clero le tradizioni della R. Gasa di Savoia, la quale in ogni tempo si distinse per illuminata sollecitudine dei più preziosi interessi della religione e della morale». Ma, pochi mesi dopo, lo stesso signor Vigliani ordina che sieno illuminate le chiese, il palazzo arcivescovile e il duomo di Milano per festeggiare l'arrivo di coloro che si ribellarono ai Santo Padre Pio IX, e scrive (22 settembre 1859) a Monsignor Gaecia, Vicario capitolare: «La invito a dare gli ordini opportuni, affinché gli anzidetti edifizii e tutti gli altri che da lei dipendono direttamente o indirettamente sieno domani illuminati».

Seguono i processi contro i Vescovi e i parrochi che non vollero festeggiati là rivoluzione; e la circolare del ministro dell'interno, Malto Minghetti (e sfoggiò 1881); che esorta i preti a violare gli ordini de' proprii Superiori; e la circolare dei guardasigilli Mìglietti (26 Ottobre 1861), che in un libello fazioso contro l'Episcopato italiano; e la circolare del guardasigilli Raffaele Conforti (1 aprile 162), che invita i capi del pubblico ministero a vigilare le condotta del Clero; e la circolare (12 maggio 1862), con cui si sovvertono i sindaci di stare in sugli avvisi e impedire che i preti scrivano indirizzi al Romano Pontefice; e una nuova circolare del guardasigilli Conforti (8 luglio 1862), che ordina di processare in massa Vescovi e preti!

Il ministero del signor Peruzzi e del signor Pisanelli è forse il più fecondo in circolari contro la Chiesa ed il Clero. Peruzzi, ministro dell'interno, ne scrive una (23 dicembre 1862) contro le Opere Pie, e le Corporazioni che si fecero, dito il ministro; il veicolo dell'ipocrisia e dell'ignoranza. Pisanelli ne fè scrivere un'altra dal Procuratore generale (10 gennaio 1863) contro i Vescovi che «negassero là patente di confessione a tutti que' sacerdoti, i quali barino sottoscritto il noto ridirizzo al Santo Padre del professore abate Carlo Passaglia». Poi lo stesso guardasigilli Pisanelli con una sua circolare (4 di gennaio 1863) costringe i frati ad associarsi al sacrilego giornale il Mediatore; in appresso (18 gennaio 1663) incoraggia i preti di Lombardia a ribellarti ai proprii Vescovi; e pubblica un avviso d'asta (21 febbraio 1863) per la distribuzione del benefizii ecclesiastici a colorò che saranno infedeli al Papa, e servili seguaci del ministero. Un prefetto, d'ordine del Pisanelli, scrivé (28 febbraio 1863) contro la Bolla delta S. Crociata; è un altro chiede (12 dicembre 4862) là nota dei preti che non festeggiarono la rivoluzione italiana ber impedire che sieno assunti al ministero parrocchiale. Lo stesso Pisanelli decreta (5 maggio 1863) che nessuna provvisione ecclesiastica potrà ricevere pubblicazione od esecuzione senza il nostro assenso; poi decide con una Circolare (24 marzo 1863) sugli Oremus è stilla liturgia cattolica; mentre i suoi prefetti, d'ordine suo, ora chiedono 11 concorso del Clero alla repressione del briganaggio (Foggia,6 marzo 1863);

- 259 -

ora avvertono che è pensiero del guardasigilli di riordinare l'amministrazione delle chiese parrocchiali (Ancona 30 marzo 1863); ed ora invitano a non tener conio delle dispense pontificie, e regolare il vitto nel periodo di Quaresima» secondo il criterio della proprii cosciente» (Bari, 28 febbraio 1863).

Tutti questi documenti, non senza grave fatica, abbiamo raccolti nel presente quaderno, e ci pare che essi riescano a provare vittoriosamente tre fatti. 1° L'odio che la rivoluzione porta alla Religione ed al Clero, e come adoperi ogni irte per iscreditare o incatenare la Chiesa ed il sacerdozio; 2° La pazienza, la longanimità, il generoso e nobile contegno dei Vescovi e de' preti, che ai difendono bensì, ma non si ribellano, e circondati di spie e di sgherri non possono mai venir appuntati di fellonia; 3° Le contraddizioni de' ministri che colle loro circolari contro il Clero condannano se medesimi, di Rutta ohe beo furente una circolare serve per confutare la circolare anteriore.6 sotto quest'ultimo rispetto la nostra raccolta può servire non solo pel futuro, ma eziandio pel presente, giudicando e condannando i ministri colle loro stesse parete,

Troppo sovente i persecutori della Chiesa fanno assegnamento sul rapido succedersi degli avvenimenti e sulla umana smemorataggine, e dimenticando e cercando che sieno dimenticate le passate persecuzioni, le commesse soperchierie, le ricevute smentite, si spacciano come i liberatori e gli amici di quel Clero che crudelmente costantemente tormenteranno. Di già Giuseppe Siccardi, ch'ebbe la disgrazia d'inaugurare più apertamente tra noi la guerra contro il Cattolicismo, gloriavasi in pieno Senato d'avere elevato i chierici ai grado di liberi cittadini; «Camillo di Cavour, dopo Castelfidardo, osava formulare la stia politica in quella ornai ridicola sentenza: libera Chiesa in libero Stato! A costoro non conviene rispondere coi discorsi, ma bisogna svergognarli co' fatti e co' documenti. Ed eccoli in questa filatessa, di circolari, che sono quaranta in circa. Qui si hanno le prove degli arbitrii libertini, giacché le circolari non tengono giustificate da nessun delitto né anteriore, né posteriore; qui vedeei come i rivoluzionarii frequentemente Inani tasserò ad una classe, che è la più ragguardevole della società, e chiaramente apparisce come cercassero ogni tomo per aizzare le popolazioni contro il cattolico sacerdozio.

Eppure in faccia a tante ingiurie, a tante provocazioni, a tante ingiustizie il Clero Don insorge mai; si difende bensì, e, come Gesti schiaffeggiato nel tribunale di Caifa, domanda talvolta: cur me caedis? Ma perdona sempre le offese, e continua a beneficare i persecutori. Se qualunque altra classe di cittadini, ad esempio i medici, gli avvocati, i militari, avessero dovuto patire un centesimo di ciò che i Vescovi e preti soffrono da quindici anni, vorreste dire che se l'avrebbero sopportato in pace, senza far ingoiare a qualche ministro mezza serqua delle sue circolar!? Ma il Clero sa quali doveri gl'impone il nome stesso che porta, sa che Clero vuoi dire sorte, e che 1 chierici furono chiamati alla sorte del Signore, di che vanno lieti di patir contumelia, e invocare le divine misericordie sui propri crocifissori.

E questo spettacelo di pazienza da Una parte e di persecuzioni dall'altra è per gli uomini che pensano e sentono uno splendido trionfo della Chiesa Cattolica.

- 260 -

Il principe di Wurtemberg, trovandosi a Parigi durante la rivoluzione, diceva che, se avesse avuto un qualche dubbio sulla divinità del Cattolicismo, Barebbesi dissipato vedendo la lega dei filosofi per distruggerlo. E ci pare che chi prenda a leggere tutte queste circolari contro il Clero, se è uomo di buona fede, e non si arresti alla corteccia delle cose, debba riflettere dapprima sull'odio che i rivoluzionari portano a chierici, sull'efficacia poi del ministero sacerdotale e sul diverso contegno dei ministri protestanti, dei popi russi e dei sacerdoti cattolici, e da questi riflessi e confronti n'abbia ad argomentare quanta vita, quanta potenza, quanta virtù stia nella nostra Chiesa Cattolica per suscitare tanta guerra, ed ispirare tanta e sì nobile e sì paziente resistenza.

Da ultimo noi abbiamo avvertito un vantaggio singolare, che deriva, anche pel presente, da questa raccolta di circolari, ed è che le une combattono e distruggono le altre; quella di Plezza condanna quella di Rattazzi, quella di Vigliani riprova l'altra di Pisanelli, quella di Marco Minghetti distrugge quella dell'avv. Miglietti, e via discorrendo. Nous marchons à la vérité sur le dos et sur le ventre de nos ennemis, come diceva Voltaire. Di fatto, la circolare del ministro Plezza dichiara che le massime Giuseppine sono poco ortodosse e contrarie alla disciplina della Chiesa; e così risponde alle circolari di Pisanelli. che vuole introdurre, dove non sono, queste massime, o conservarle dove si trovano introdotte. Lo stesso Plezza, sfolgorando l'Austria che voleva togliere al Papa le Legazioni con grave danno della libertà ecclesiastica», risponde a Marco Minghetti che domanda colte sue circolari feste e Te Deum. Il ministro Pisanelli, che viene a dirvi come i preti non sieno obbligati a recitare certi Oremus, anzi, che la liturgia cattolica li proibisce, fa giustizia di quelle circolari, che ascrivevano a delitto del Clero l'avere ommesso queste stesse orazioni. E Vigliani, governatore di )Lombardia, che condanna l'Austria perché proteggendo la Chiesa, «subordinava il, patrocinio a' suoi politici intendimenti», condanna egualmente Rattazzi, il quale scriveva ai Vescovi che e debbono conformarsi sulle viste, intenzioni e deliberazioni del governo». Lo stesso potrebbesi dire di tutte le altre circolari. Quantunque noi in questa nostra raccolta vi apponessimo qua e colà qualche parola di confutazione, tuttavia non era mestieri, perché fanno fra loro a pugni e si distruggono a vicenda.

Non prolungheremo di più queste poche parole di prefazione, per non togliere lo spazio ai documenti che seguono. Spesso si ode nel Parlamento inglese commendare la libertà di coloro che vivono in Piemonte, e il liberalismo dei nostri ministri, e un di questi panegirici fu fatto non ha guari da Palmerston, Russell e Gladstone. Lord Lennox però ruppe quel concerto di lodi e parlò dei sequestri de' nostri giornali. Avendo detto in mezzo a molte verità un'inesattezza, cioè che l'Eco di Bologna venne soppresso, il ministro Peruzzi rispose nel Senato del Regno il 15 maggio del 1863: «L'onorevole signor Lennox asserisce aver noi soppresso l'Eco, giornale clericale di Bologna; ebbene, signori, ecco l'Eco di ieri, del quale ho dato l'ordine sia mandata una copia all'onorevole gentiluomo» (Atti Ufficiali del Senato del Regno, N° 435, p. 4486).

- 261 -

Seguiremo l'esempio del signor Peruzzi, e noi pure manderemo una copia di queste circolari ai signori Palmerston, Russell e Gladstone, e li inviteremo a leggere e meditare che cosa sia e come viva la libertà italiana!

I.

Circolare del signor Giacomo Piena ministro dell'Interno indirizzata a' Parrochi degli Stati Sardi perché predichino la guerra contro l'Austria, la quale vincendo TORREBBE AL PAPA LE LEGAZIONI!!!

MINISTERO DELL'INTERNO

Gabinetto

Circolare ai signori Parroci.

Torino,1° agosto 4848.

Il Governo di S. M. ha ordinato un arruolamento straordinario sotto nome di leva in massa, e prese altre determinazioni, che abbisognano del concorso spontaneo di tatti i cittadini, e richieggono da essi pitùd'un sacrifizio. Desiderando che tali ordini abbiano pronta ed efficace esecuzione, egli è d'uopo che «nascano sia convinto della convenienza e necessità loro, e che vengano sanciti dalle supreme autorità della religione. Io ricorro pertanto a V. S. M.to Rev.da, pregandola a concorrere coll'opera sua a questo doppio effetto, affinché tutto proceda non solo coll'attività che il tempo richiede, ma eziandio tranquillamente e pacificamente. Nessuno può meglio di lei persuadere a' suoi popolani la necessità e la santità della guerra che ora ci travaglia, e l'obbligo in cui sono tutti i cittadini di concorrervi, potendo, coi denari e colla persona. Si tratta di difendere le nostre istituzioni, e in particolare la monarchia della Casa di Savoia dallo straniero che la minaccia; imperocché se l'Austria prevalesse in Italia, il suo dominio nocerebbe non solo alle libertà nostre, ma ai diritti dei nostri Principi e pregiudicherebbe alla pienezza del loro potere e alla dignità della loro corona. Inoltre la religione cattolica ne soffrirebbe non poco, essendo noto che l'Austria fu sempre nemica delle prerogative della Santa Sede, e intende a diffondere nei suoi Stati e in quelli su cui ha qualche influenza principii e massime e regole di disciplina e di culto poco ortodosse e contrarie alla sovrana autorità della Chiesa. Oltre che, se l'imperatore vincesse in Lombardia, egli non si contenterebbe più degli antichi dominii: terrebbe al Papa le Legazioni; distruggerebbe la sua indipendenza politica con grave danno della libertà ecclesiastica. Lascio stare i pericoli di un altro genere che correrebbe la religione, quando le milizie del nostro Re fossero prostrate dalla superiorità numerica dell'inimico. Imperocché i partiti esagerati, che ora sono piccoli ed impotenti, piglierebbero dal regio infortunio ardire e forza, e trionferebbero, almeno per qualche tempo, con gravissimo discapito delle sane credenze, a cui tali partiti sono ostili non meno, che alla monarchia ed alla tranquillità pubblica. Avremmo dunque da principio l'anarchia e l'irreligione insieme; e poi la tirannia straniera, come accadde nei secolo scorso, quando vinte le armi piemontesi,

- 262 -

l'Italia e la fede furono ludibrio ai repubblicani interni e ad un imperatore forestiero; onde due santissimi Pontefici non solo vennero spogliati dei loro temporali domini!, ma l'uno di essi fu tratto prigioniero in esilio, e l'altro fu spento. All'incontro, se le armi del nostro principe trionfano, la monarchia sarà salva, e con essa la religione; e la libertà regolata dalle leggi non potrà partorire l'empietà e la licenza.

Tali sono le considerazioni che debbono indurre tutti i buoni cittadini ed i buoni cattolici ad aiutare la guerra lombarda con ogni loro afono. Esse acquisteranno maggior valore dalla sua autorità, Rev.do Signore; la quale gioverà pure a vincere certe preoccupazioni che potrebbero rallentare e intiepidire l'entusiasmo dei popoli. Una delle quali si è il credere, che si tratti di guerra lontana, che poco importi a molte nostre provincie, come sa si poteste esser sicuro in Piemonte, senza vincere in Lombardia. Bisogna persuadere a tutti, che pugnando nelle pianure lombarde, essi combatteranno per le proprie città, per le famiglie, per gli averi, per le cose e le persone più care; perché l'invasione del Piemonte sarebbe inevitabile, se l'Austriaco giungesse a ricuperare i dominii che ha perduti. E quali sieno le violenze, le atrocità, le nefandezze ch'egli commette nei paesi occupati, qual rispetto abbia alle proprietà) alle persone, alle chiese; non occorre descriverlo, giacché i fatti recenti di Lombardia e della Venezia, sono a tutti notissimi.

Io mi affido adunque che V. S. M.to Rev.da vorrà soddisfare al nostro desiderio, e usare la tua autorità grande a persuadere e infiammare coi consigli colle prediche i suoi popolani per una causa sì pia e generosa. Ed effettuano dolo, posso assicurarla che fari cosa grata specialmente al Re, il quale non dimenticherà certamente un tal servigio resogli nelle circostanze difficili, in cui si trova la comune patria.

Mi onoro intanto di protestarmi con ben distinta stima

Dì V.8. M.to Rev.da

Dev.mo Obbed.mo

Servitori Plezza.

II.

Nel 1848 si scriveva al Clero con molta cortesia, e il sig. Domenico Buffa, Ministro d'Agricoltura e Commercio indirizzava agli Arcivescovi e Vescovi degli Stati Sardi gotto la data del 15 dicembre 1848, una circolare pregandoli di aiutarli nell'introduzione del sistema metrico decimale. Il Ministro diceva ai Vescovi «di volere concorrere meco per ottenere dai signori parroci dipendenti dall'alto di lei ministero quella più utile collaborazione che si possa richiedere in materia, che interessa certamente ogni classe di persone, ma pia specialmente quelle classi, che meno istruite e più povere, hanno maggior bisogno d'essere sorrette e tutelate non solo moralmente, ma anche nelle loro bisogne materiali.

«Un'altra preghiera mi occorre di sottomettere a V. S. lll.ma e Rev.ma, ed è quella di voler esaminare, se ad imitazione di quanto deve praticarsi in tatto le scuole

- 263 -

dello Stato, non sembrerebbe opportuno che il sistema metrico venate anche insegnato in codesto seminario vescovile; nel caso ove ella concorro!meco in questo pensiero, il Ministero somministrerebbe i quadri sinottici e te istruzioni necessaria».

III.

Circolari del ministro di grazia e giustizia Urbano Rattazzi, colla quale intima ai Vescovi di conformarsi alle VISTE, INTENZIONI A DELIBERAZIONI DEL GOVERNO!

Torino, 25 dicembre 1848

Ill.mo e Rev.mo Sig. Sig. p. ron Cel.mo

Nel succedersi di gravi politici avvenimenti a cui assistiamo da qualche tempo, la zelante parole dei Pastori proposti al governo delle diocesi di questi Regii Stati fu spesse volte animatrice di opera di patria carità e di fraterna concordia. Mentre io non posso a meno di applaudire alle rette e generose intenzioni di quei Prelati, non debbo peraltro dissimulare la dolorosa sensazione da cui fu compreso l'animo mio leggendo in alcuni scritti recentemente stampati da tafano dei Monsignori Vescovi, allusioni politiche e personali, tendenti a muovere il disprezzo verso egregi personaggi eminentemente benemeriti della patria, ed a rendere gli animi avversi alle attuali nostre libera instituzioni.

Il Governo dei Re non può, né intende permettere che questi inconvenienti si rinnovino, ed io mancherei al dover mio se in simili contingenze serbassi il silenzio.

Ho piena fiducia ohe un semplice avvertimento genericamente diretto a tutti i Vescovi sarà bastevole perché non abbiano a sorgere nuovi motivi di doglianza riguardo a qualcuno di loro. Perciò mi rivolgo indistintamente ad essi, e loro ricordo che negli Scritti, nelle Circolari e Pastorali debbano astenersi da qualsiasi espressione, la quale possa esser interpretata contro persone rive» stile di un carattere politico. Loro rammento del pari che sempre quando vogliono entrare in materia politica, debbano conformarsi alle viste, intenzioni e deliberazioni del Governo, ed annone avversare, corre loro il dovere di promuoverà e consolidare quelle libere instituzioni, sopra cui il medesimo è fendete.

Confido nell'esimio loro zelo, ed in quell'affetto che lega tutti i buoni a questa nostra patria; ma debbo ad uh tempo soggiungere: che se per caso questo avvertimento non bastasse, il Governo del Re è determinato di prendere tutte quelle misure,. e dare quei provvedimenti che sono nel suo polene, per mantener saldi ed inviolati i suoi principii, e perché siano da tutti senz'alcuna distinzione rispettati.

Ho intanto l'onore di dichiararmi col più distinto ossequio

Di V.S. Ill.ma e Rev.ma

Devono ed Obb.mo servitore

RATTAZZI

Alla circolare che precede l'Armonia del 5 gennaio 1849 N° 3 rispondeva: «Una lettura assidua delle Circolari e Pastorali dei Vescovi ci pone in grado di affermare

- 264 -

che neppure una sillaba uscisse mai da verun di loro tendente a muovere disprezzo verso egregi personaggi eminentemente benemeriti della patria ed a rendere gli animi avversi alle attuali nostre libere instituzioni.

Siamo di tal convinzione su questo punto, che ne facciamo appello allo stesso signor ministro Rattazzi, pregandolo a volerne produrre una qualunque prova; e non producendola, conchiuderemo che essa non esiste ed egli fu ingannato.

«Vorrà esso alludere alle Pastorali concernenti le preghiere per Pio IX e l'empia ribellione di Roma? Non ci par possibile che il Ministro voglia nei ribelli vedere personaggi eminentemente benemeriti; né ci par possibile ancora ch'egli voglia confondere le ribellioni colle nostre libere instituzioni. Via dunque questa supposizione. Del resto i più dei nostri Vescovi furono su quest'argomento cosi ritenuti, da aver già eccitato la censura di altre nazioni.. «II signor Rattazzi è uomo dall'alto comando. Governo del fa, egli dice, non può né intende permettere che questi inconvenienti si rinnovino. Ma dove sono questi inconvenienti? Il Governo del Re intenderà forse di crear fantasmi per instituire fra le nostre libere instituzioni un tribunale d'inquisizione contro i fantasmi?

«Ad ogni linea di questa lettera senti più la verga del militare che la parola del magistrato. Ho piena fiducia che un semplice avvertimento sarà bastevole. Grazioso 1 Ma quest'avvertimento a quale colpa si indirizza, positiva e particolare? A nissuna: il Ministro si ravvolge nel mistero. All'incontro esso taglia il pane della parola e lo da in mano ai Vescovi. Loro ricordo che negli Scritti, nelle Circolari e Pastorali debbano astenersi da qualsiasi espressione, la quale possa esser interpretata contro persone investite di un carattere politico. Se parliamo di prudenza, i Vescovi non abbisognano di quest'avvertimento; se parliamo di stretta legalità, ci stupisce che un ministro costituzionale pretenda che la libertà della parola e della stampa debba rompersi ai piedi d'ogni uomo rivestito d'un carattere politico. Simile bando non fu mai pronunciato così severamente dall'assolutismo. Dunque ministero democratico nella parola, vorrà dire assoluto nella sostanza?

«Avanti ancora. Loro rammento del pari che sempre quando vogliono entrare in materia politica, debbano conformarsi alle viste, intenzioni e deliberazioni del Governo. La parola debbano è famigliare assai e troppo al signor Rattazzi. Com'è alto e potente quel seggio ministeriale! Altri pregherebbe, inviterebbe, esorterebbe: il Ministro di grazia non conosce queste delicatezze: tutti i Vescovi debbono inchinarsi al girare del suo ciglio omerico, o piuttosto democratico. - Che dovranno dunque farei Vescovi? Essi debbono conformarsi alle viste... è poco, alle intenzioni... è ancora poco, alle deliberazioni... Di chi? Del Governo. Oibò! Il Governo costituzionale, e tanto meglio il democratico, è risponsabile, è sindacabile: dunque a tutti è lecito il discuterne e sindacarne non già le intenzioni che non si vedono, ma le deliberazioni. Né i Vescovi, perché abbiano la mitra, diventano già i valletti del Governo, né han fatto voto di obbedienza cieca al Governo, ma godono essi pure di tutte le libertà che ad ogni cittadino assicurano le nostre libere instituzioni, cui il signor Rattazzi nella stessa lettera commenda e distrugge.

- 265 -

IV.

Circolare del 25 dicembre 1848 con cui per ordine del Ministro di finanze incaricano gli insinuatori di prendere colla massima circospezione, accurata notizia di tutti i beni della Chiesa.

Il marchese Vincenzo Ricci, ministro delle finanze, addì 25 dicembre 1848, indirizzava una circolare ai Direttori dei Demanio, la quale risulta dalla seguente lettera, scritta da uno di questi Direttori, e pubblicata nell'Armonia del 22 di gennaio 1849, pag.40.

«M.to Ill.re Signore,

«Premendo al Ministero delle Regie Finanze di avere un'esatta cognizione della consistenza dei beni attualmente posseduti da corporazioni Religiose, dall'Economato Generale, dalle «mense vescovili, capitoli, parrocchie, succursali, ed altri stabilimenti di tal genere, debbo perciò, per incarico avuto dal sullodato Superior dicastero per mezzo dell'Azienda Generale, pregare V. S. M.to Ill.re di procurarmi i più esatti e precisi riscontri sulla consistenza anzidetta, mediante la formazione di apposite tabelle, in cui, oltre alla detta consistenza, sia indicato l'annuo reddito dei beni, ed il luogo in cui sono posti.

«È intenzione del prelodato Superior Dicastero che simili nozioni si assumano colla massima riservatezza e circospezione, che tale incarico si abbia quindi a ritenere come del tutto confidenziale, ed ella eseguirà la cosa in tal senso.

«Mi persuado perciò che V. S. M.to Ill.re compirà un tal incarico colla voluta precisione e diligenza, avvertendo che il lavoro presenti nel miglior modo le indicazioni suaccennate, con quelle altre maggiori che ella credesse di aggiungervi; le raccomando caldamente di adoprarsi con ogni maggior prudenza e sollecitudine, avendo il Ministero fatto in proposito una special premura.

«Colla stessa opportunità, ed in modo egualmente del tutto confidenziale, deggio altresì incaricare V. S. M.to Ill.re di assumere informazioni, onde accertare il numero e l'approssimativa dimensione di tutte le campane delle chiese locali, non che il numero e qualità degli arredi sacri d'oro e d'argento] e di qualunque altro metallo prezioso in dette chiese esistenti, facendo del tutto una nota la pili dettagliata che sia possibile.

«La special indole della sovraindicata incumbenza mi dispensa dal maggiormente insistere sul lodevole loro disimpegno dal lato dell'esattezza e della prudente cautela che esigesi nella loro esecuzione; bensì confido che V. S. saprà valersi di questa circostanza per viemeglio giustificare la confidenza in lei riposta dal Regio Governo. Nell'aspettativa perciò di un sollecito riscontro, ho il pregio ecc.

- 266 -

V.

Circolare in data 2 giugno 1849, con cui il guardasigilli De Margherita invita i Vescovi degli stati Sordi a ordinare preghiere per il nuovo re Vittorio Emanuele II.

«Ill.mo Rev.mo Sig. Sig. p. ron Cel,mo

«Emulo della pietà de' suoi maggiori, i quali in tutte le gesta loro presero ognora dal Cielo gli auspicii, S. M. il Re Vittorio Emanuele II non sì tosto salito al Trono, in lui venuto per l'inattesa abdicazione dell'Augusto suo Genitore, ebbe in animo d'inaugurare con pubbliche pregi l'alta difficilissima missione, a cui la Previdenza chiamavalo. Se non che le strìngenti necessità dell'esordiente suo regno tolsero che il santo desiderio fosse, com'era voto del no cuore, in quei primi giorni adempiuto.

«La prefata M.S. mal saprebbe in ora più oltre differire f appaiamento dell'accennata caldissima brama, che, mentre porge alla Subalpina Chiesa solenne malleverìa de' religiosi suoi sensi, presenta ai popoli novello argomento dell'affetto e della lealtà di chi veglia sui loro destini.

«Nel portare che fo a notizia della S. V. lll.ma e Rev.ma le prefate Reali intenzioni, affinché vengano, con que' riti ch'Ella crederà meglio acconci, mandare ad effetto, punto non dubito che tanto la S. V., in cui si degnamente rifulge la dignità del patrio Episcopato, quanto il Clero tutto di cortesia illustre sua diocesi, non siano per adoperarsi in ciò collo zelo che li distingue. né sarà certo poca mercede alla piissima opera, se avverrà per essa, che la Religione, coronando il voto dell'ottimo Principe, concilii al Piemonte le saperne benedizioni, ed afforzi quella civile concordia, di cui tanto abbisogna nelle presenti sue contingenze, onde vedere ogni di viemeglio assordate e svolte le liberali Istituzioni e pubbliche franchigie state dal magnanimo Cario Alberto alla Nazione impartite, e che 11 novello Re si assunse di religiosamente serbare Balde ed Inviolate per Io maggior bene dello Stato.

«Varranno pure, io spero, queste pubbliche supplicazioni ad affrettare, mercé gli implorati celesti aiuti, il pieno riaversi del giovine Monarca dal tormentoso malore che l'affligge, e che, resosi per poco stazionario, sta ora inviandosi felicemente a perfetta e non lontana guarigione.

Abbiami la S. V. Ill.ma e Rev.ma quale, xi sensi del più profondo ossequio, ho Tonore di profferirmi

Di V. S. Ill.ma e Rev.ma.

Torino, addì 2 giugno 1849,

Dev.mo ed Obb.mo Serv.re

DEMARGHERITA.








vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.