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Questo testo, a parer nostro, è uno dei primi capolavori della lamentazione meridionalistica.

Da un alto si fa la conta dei torti subiti dalle regioni meridionali nella attribuzione di ministri e parlamentari e dall'altro si riconosce al potere sabaudo il diritto di esercitare una supremazia, che le sarebbe dovuta per avere unificato l'Italia.

Sul che concordiamo in parte anche noi, peccato che tale supremazia però non abbia impedito a regioni come la Toscana di far valere le proprie ragioni e i propri interessi. Nei confronti delle regioni meridionali il potere sabaudo, fin dai primi mesi di cosiddetta unità, assume un atteggiamento coloniale che la nostra classe politica non ha mai voluto denunciare, girandosi dall'altra parte e turandosi il naso per non sentire il fetore delle migliaia di morti. Rendendosi in tal modo complice del colonialismo sabaudo-italiano. La consorteria napoletana non fece altro che ritagliarsi una fetta di torta per sé ed in cambio puntellò la nascente amministrazione italiana in tutte le sue scelte. Basta leggere le circolari di Spaventa in cui si invitavano i prefetti regi a sciogliere i consigli comunali che si mostravano poco allineati col nuovo regime. In barba ad ogni norma statutaria.

Il testo è costruito sulla falsariga del più famoso “I moribondi del Palazzo Carignano”, opera del giornalista e politico Ferdinando Petruccelli della Gattina.

 Buona lettura.

Zenone di Elea – 11 Luglio 2013

Avv. LUIGI BRANGI

I MORIBONDI di MONTECITORIO

L. ROUX E C. Editori

ROMA-TORINO-NAPOLI.

1889

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CAPO PRIMO — Le regioni
CAPO SECONDO — La età
CAPO TERZO — Colori e valori
Sezione Prima. — L'Estrema Sinistra § 1
Sezione Prima. — L'Estrema Sinistra § 2.





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CAPO PRIMO

Le Regioni.

Sommario. — Rappresentanza nella Camera e nel Ministero — Una statistica interessante — 145 ministri — Una conseguenza paradossale — L'egemonia dei piemontesi — Diritto e dovere — I quattro fondatori dell'unità — Gl'italiani in Piemonte — Necessità politica — La concorrenza della Toscana e dell'Emilia — Il Mentore — Il Mezzogiorno — Il Veneto ostracizzato — Le tre B della Liguria — I Capipartito in Romagna — Il Centro mobile in Toscana — I toscani apportatori di discordia — l romagnoli senza Spleen — Il carattere ed il genio in Piemonte — La specialità — I lombardi  — Gli agrarii e il conte Sola — Veneti allegri — Il coraggio e la petulanza dei liguri — La regione meno regionale — I deputati della Campania — I paglietti — Il resto del Mezzogiorno — Perché Del Zio fu abbandonato — Siciliani, sardi e calabresi.

In questo capitolo che non è un hors d'oeuvre e tanto meno sarà un chef d'oeuvre, io voglio tentare una cosa che mi pare nuova. Esaminerò, cioè, con brevità più che laconica, l'influenza esercitata da ciascuna regione d'Italia nei campo parlamentare e governativo, dal 1861 in poi, e quindi indicherò l'importanza che vi ha acquistata.

Ma, prima, vediamo in che modo sono le vane regioni rappresentate alla Camera, Gli onorevoli piemontesi sono cinquantasette; i lombardi, cinquantanove; i veneti, quaranta sette; i liguri, sedici; i romagnoli o emiliani, trentotto; i toscani, quaranta; i marchigiani, diciassette;

2  CAPO PRIMO

gli umbri, dieci; i romani sedici; i meridionali del continente, centosessanta cinque; i sardi, undici; i siciliani, quarantasette. Fo osservare, a guisa di postscriptum che io ho compreso in ciascuna regione anche quei signori deputati i quali la rappresentono per diritto di nascita e non per diritto di elezione. Così ho messo Comirt tra i veneti, quantunque rappresenti un collegio del Mezzogiorno, e Bonghi tra i meridionali, ad onta che la grazia del Destino e la volontà del Popolo lo abbiano forzato a ricorrere alla sovranità elettorale del Veneto.

Se tale è la rappresentanza regionale nella Camera, ecco qual è nel Ministero. Nell'attuale Gabinetto siedono un siciliano con tre portafogli, due liguri, due piemontesi, due meridionali continentali e un lombardo.

Questa rivista involontaria dei signori portatori di portafogli non avrebbe alcun significato, se non fosse seguita dal defiler, un po' disordinato, ma in fondo esatto, dei precedenti gentlemen, i quali vennero ugualmente inchiodati alla croce del potere. È una statistica interessante.

Orbene, sovra 145 ministri da noi avuti dal 1861 finoggi, al Piemonte ne appartengono quarantotto, alla Liguria cinque, alla Lombardia quindici, al Veneto quattro, all'Emilia quattordici, alla Toscana dieci, all'Umbria due, al Lazio uno, al Mezzogiorno continentale trentadue, alla Sicilia tredici, alla Sardegna tre. Le Marche non ne hanno avuto alcuno.

Paragonando la rappresentanza di ciascuna di queste regioni nella Camera con quella ottenuta nel Governo, si vede che qualcuna di esse è stata, in qualche modo, trattata con un po' di severità.

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La più trascurata è stata la Venezia; poi viene il Mezzogiorno continentale. È il Piemonte che ha avuto un numero maggiore di ministri. Però da quest'ultimo fatto io deduco una conseguenza che a parecchi sembrerà un paradosso. Pur lamentando la parte infinitesimale data a noi meridionali e ai veneti, per ventott'anni, nel Governo d'Italia, non posso biasimare l'egemonia dei piemontesi. Tale egemonia non fa una botte à surprise: i piemontesi avevano il diritto di esercitarla, e l'Italia aveva il dovere di permettere che l'esercitassero. Ricordiamoci che senza il Piemonte l'Italia non si sarebbe fatta. Due dei quattro massimi creatori dell'unità d'Italia furono, piemontesi: Cavour e Vittorio Emanuele. Gli altri due, Mazzini e Garibaldi, appartenevano anch'essi alle Provincie sarde, perché liguri.

L'uomo, che rese popolare nelle masse l'idea della libertà, cercando di conciliare patria e religione, era piemontese: il Gioberti. E piemontese era d'Azeglio, — colui, cioè, che fece palpitare di entusiasmo i cuori italiani, mentre Guerrazzi li faceva fremere di vergogna.

Di più, il rischio maggiore nelle guerre d'indipendenza fu corso dal Piemonte. Le altre regioni non potevano temere, nella peggiore ipotesi, che di rimanere nello statu quo. Era il Piemonte che rischiava tutta la sua esistenza. Nel 1848 Carlo Alberto metteva a repentaglio la vita, la corona, la dinastia, e dopo Novara, per non spergiurare, andava a morire di cordoglio in esiglio. Se nel 1859 una palla austriaca avesse colpito Vittorio Emanuele a Palestro, che cosa sarebbe avvenuto del Piemonte?

4  CAPO PRIMO

E non fu il Piemonte che, anche dopo il 1859, soffrì i maggiori sacrificii? La cessione della Savoia importò poco al resto d'Italia, ma fu essa uno strappo fatto alle carni del povero Piemonte. Nel 1860 furono tre gli uomini d'Italia che tra i fremiti delle vittorie dovettero versar lagrime, e tutti e tre appartenevano alle Provincie sarde: Garibaldi, che si vedeva strappare la sua culla, Nizza; Vittorio Emanuele, al quale si toglieva la culla degli avi, la Savoia; e Camillo di Cavour, che dovè farsi il becchino dei ricordi d'infanzia del primo e dei ricordi dinastici del secondo. E il Calvario non si era ancora asceso abbastanza! Doveva avvenire il trasloco della capitale, e il sangue piemontese, sparso dalle bajonette austriache a Novara, a Palestro e a San Martino, doveva essere sparso, per le vie di Torino, dalle bajonette italiane. Sì, l'egemonia italica era un diritto del forte e nobile Piemonte. Contrariamente all'ordine cronologico delle ispirazioni omeriche, bisognava che quel generoso popolo, dopo l’Odissea, avesse la sua Iliade.

Ma v'è ancora qualche altra cosa. Prima del 1861, quando Torino era capitale non dell'Italia, ma dei soli Stati Sardi, furono ministri di Vittorio Emanuele uomini nati in altre parti della penisola. Non erano piemontesi Gioia, Fanti, Farini, Paleocapa, ecc.

Se nel governo sardo si era fatto posto, e non piccolo, per gl'italiani, nel governo italiano bisognava far posto, e grande, pei piemontesi. Era un obbligo di onore.

Ma era pure una necessità politica. Dal 1848 al 1860 il Piemonte aveva goduto dodici anni di regime costituzionale, cioè di un regime in cui avevano pigliato parte gli uomini più notevoli per ingegno, per coltura e per carattere.

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Durante lo stesso periodo di tempo, che cosa avevano fatto gli uomini più notevoli delle altre regioni d'Italia? Avevano nobilmente sofferto nelle carceri e nei bagni penali, o cospirato nell'esilio. Mancava, quindi, ad essi l'esercizio o la pratica del Governo. Senza dubbio, ciò non era successo per loro volontà, ma soltanto per la fatalità della lotta del più debole col più forte: però era un fatto indiscutibile, e bisognava tenerne conto.

A poco a poco, nelle altre parti d'Italia andò diffondendosi quell'educazione politica, che prima era stato privilegio esclusivo del Piemonte; e così, a grado a grado, il primato piemontese ebbe la concorrenza di nuove influenze: prima quella della Toscana, poi quella delle Romagne. Oggi, mentre le Romagne mostrano, con soverchia evidenza, di voler prendere la egemonia nella penisola, la Sicilia alza la testa fieramente, e il Mezzogiorno continentale apre la bocca per lamentarsi, pur non riuscendo mai a farsi intendere e a farsi valere. Il Piemonte, frattanto, nobilmente tace e guarda. Il vecchio Mentore del nostro Risorgimento, che, con lo spirito e la sapienza di Minerva, ha saputo guidare nell'aspro cammino il Telemaco italiano, è contento di ciò che ha oprato e non chiede compensi. Ma se il Piemonte sa obliarsi, non dobbiamo obliarlo noi delle altre parti d'Italia. L'Italia è opera sua. E giusto rammentarlo e tenerne conto. Ed augurandomi che dei piemontesi l'Italia vorrà sempre trarre profitto utilizzandone la capacità e l'esperienza, amo qui indicare quale regione della nostra penisola meriti, a mio avviso, più larga rappresentanza nel Governo.

6  CAPO PRIMO

Pel Mezzogiorno continentale è indiscutibile la necessità di una più ampia partecipazione al potere esecutivo. Durante ventisette anni nessun meridionale è stato mai alla testa del Governo. E non solo dalla presidenza del Consiglio, ma ancora dai due ministeri politici (affari esteri ed interni) i napoletani furono quasi sempre tenuti lontani. Meno il Mancini e il Nicotera, nessun altro napoletano, dal 1861 finoggi, ha avuto la suprema direzione della sicurezza esterna o la suprema sorveglianza dell'ordine interno. Dopo il Mezzogiorno, la regione più trascurata è stata la Venezia. Appena quattro ministri in ventidue anni! Tecchio, Varè, Pasini, Seismit-Doda, — ecco tutti i ministri che il Veneto ci ha dato dal 1866 finoggi. Eppure il Veneto ha nei suoi uomini politici stoffa di statisti. Messedaglia, Maurogonato e Luzzatti reggerebbero con decoro le finanze. Gli stessi Luzzatti e Messedaglia starebbero bene anche all'agricoltura e all'istruzione pubblica. Maldini onorerebbe la marina. Paulo Fambri, ingegnere, letterato e scienziato, potrebbe portare sulle sue erculee spalle il peso di quattro o cinque dicasteri. Paolo Lioy e Aristide Gabelli porterebbero alla Minerva la genialità del loro ingegno. Righi, Billia, Giuriati, Parenzo sono illustrazioni del foro. Federigo Gabelli sarebbe un ottimo ministro dei lavori pubblici. Perché non è venuto mai in mente ai nostri capipartito di affidare il portafogli degli esteri a qualche figlio di quella Veneziana quale seppe spargere per l'Europa i diplomatici più brillanti, geniali ed astuti? E anche al ministero dell'interno i veneti avrebbero fatto e farebbero ottima prova.

Se il Veneto deve dirsi trascurato, non può dirsi lo stesso della Liguria, la quale, con sedici deputati ha avuti cinque ministri.

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Oggi la Liguria è la regione d'Italia meglio rappresentata nel Governo. Essa ha due ministri (Boselli e Bertolè Viale), non altrimenti che il Piemonte, ed inoltre la presidenza della Camera. Bertolè, Biancheri, Boselli sono le tre B del Genovesato che oggi occupano maggiori posti. Del resto, questa preponderanza parziale dei liguri non è un poourboire carpito con dolo. Erano della Liguria Mazzini e Garibaldi, cioè i due uomini che, insieme a Vittorio Emanuele e a Cavour, crearono l'Italia.

La Romagna, attualmente, non ha alcun rappresentante nel Governo; ma essa non tarderà ad averne. L'attività dei suoi statisti nel Parlamento e nel paese è grande. La Romagna, che ha già avuti due de'  suoi figli alla testa dello Stato, è una delle regioni d'Italia le quali si presentano come candidate all'egemonia politica della penisola. La vita pubblica, nelle Romagne, appassiona non solo le intelligenze elette, ma ancora le masse. I capipartito par che vi nascano come i funghi. Sono, infatti, romagnoli il Codronchi, successore del Minghetti e leader della giovane Destra, il Fortis, duce dei repubblicani convertiti, il conte Ferrari, condottiere dei radicali, il Baccarini, uno dei capitani della Sinistra monarchica e della defunta Pentarchia, il Costa, capo parlamentare dei socialisti extraparlamentari. Alle Romagne dovettero i loro natali Marco Minghetti, il più grande nostro oratore, Luigi Carlo Farini, il più energico, simpatico e geniale dittatore che mai siavi stato al mondo, Manfredo Fanti, il più insigne stratega dell'Italia contemporanea, Nicola Fabrizi, tipo di patriottismo disinteressato, e conservatore costante del pensiero unitario.

8  CAPO PRIMO

E delle Romagne sono pure Enrico Cialdini, il più brillante condottiere di eserciti regolari, e Domenico Farmi, modello inarrivabile di speaker o presidente di Camere elettive.

Se volessi ancora per un poco proseguire su questo tema, mi allontanerei troppo dal mio. Meglio è fermarsi, e, invece, studiare brevemente l'attuale fìsonomia politica, morale e intellettuale di ciascuna regione d'Italia nel campo parlamentare di Montecitorio. E uno studio fatto senza pretese d'infallibilità, ma che non manca d'interesse.

In Toscana non alligna la pianta repubblicana. I suoi deputati sono tutti monarchici. Predomina, fra di essi, il partito del Centro. Un Centro, però, niente fìsso e superlativamente mobile, perché attivo, irrequieto, moqueur et frondeur, e portato più ad agire che a guardare. La maggior parte dei deputati toscani propugnano la conciliazione fra il Quirinale e il Vaticano, o per lo meno la vagheggiano. Il genio toscano è eminentemente conciliativo ed armonico. S'intende. La Toscana è la terra dell'arte, e l'arte è armonia. L'attuale deputazione toscana non ha nessun grande oratore. Conta bensì molti facili ed arguti parlatori, ai quali sono comuni lo spirito e la facezia aristocratica.

A toscani hanno in loro il germe della dissidenza. Dove vanno portano la discordia. Sebbene di Destra, pure, iniziarono nel 1861 la lotta contro la prevalenza 'dell'elemento piemontese. Nel primo gabinetto Ricasoli, e più nel ministero Minghetti (186264), i toscani, ottenuto il sopravvento, tirarono a palle infuocate contro i piemontesi. Peruzzi fu il capo della consorteria toscanoromagnola.

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Nel 1873, sempre dicendosi di Destra, rovesciarono il ministero Lanza Sella. Nel 1876 si unirono a Depretis e al Nicotera, e rovesciarono Minghetti. Dopo le elezioni del 1882, cominciarono a vedere di mal occhio l'accordo esistente fra Depretis e gli altri capi della Sinistra, e costrinsero l'expresidente del Consiglio ad abbracciare Minghetti. Non contenti ancora, formarono la famosa Dissidenza, che ebbe per giornale la Rassegna, ma non per virtù la rassegnazione.

I toscani, nelle quistioni amministrative, vagheggiano, in maggioranza, il discentramento. Nelle quistioni economiche e commerciali sono liberiscambisti.

Fiorentissima è la deputazione dell'Emilia. Tra i deputati romagnoli, non v'è, forse, neanche una testa di legno. L'ingegno adorna tutti. Il patriottismo si lega al nome di parecchi. Hanno lo spirito d'iniziativa. Non soffrono di apatia né di spleen. Non hanno un momento di stanchezza o di scoraggiamento. I deputati del Mezzogiorno, i piemontesi, i lombardi spesso si disgustano e si ritirano, come Achille, sotto la tenda. Quelli delle Romagne combattono sempre, restando costantemente sulla breccia. Crispi, per molti anni dopo il 1878, non si fece sentire. Nicotera, attraversa, ad intervalli, delle ecclissi più o meno totali. Zanardelli fu il pentarca più svogliato. Sella e Lanza morirono lontani dalla scena politica, che avevano abbandonata con disgusto. Invece Minghetti, ch'era romagnolo, rimase sul campo e scese a patti con Depretis. Baccarini fu il pentarca più violento ed instancabile.

L'Emilia conta nella Camera sei forti oratori: Baccarini, Luigi Ferrari, Fortis, Costa, Codronchi e Pasquali.

10  CAPO PRIMO

In generale, l'eloquenza dei romagnoli è una completa e ben riuscita fusione del ragionamento filato e logico del debater coll'impeto del tribuno. Nei discorsi dei romagnoli mancano lo spirito e la celia dei toscani. Vi fanno, invece, capolino l'ironia e il sarcasmo.

Tutti i partiti hanno nella deputazione emiliana una scelta rappresentanza. Specialmente il partito radicale brilla per la ricchezza degl'ingegni. La nobiltà romagnola sta alla testa del movimento politico.

Fra i deputati piemontesi, più che nelle altre deputazioni, prevale la forza del carattere. Però vi domina pure l'ingegno, e con l'ingegno il genio. Io, forse, affronto un pregiudizio diffuso in qualche parte d'Italia, quando affermo che il genio non è una pianta esotica pel Piemonte. Eppure, la storia subalpina degli ultimi tempi mi dà ragione. Cavour e Gioberti erano uomini di genio.

Fra i deputati piemontesi parecchi sono gl'ingegni versatili; per es. : Chiaves, Berti, Villa. Più forte, tuttavia, è la tendenza alla specialità. Il piemontese, che fa sempre le cose seriamente, ama di perfezionarsi in una cosa sola per diventarne padrone. Così il Chiala è il più dotto cultore di storia patria contemporanea, e il Brin è il primo ingegnere navale che vanti l'Italia. Le quistioni militari e le finanziarie, sono quelle in cui i deputati piemontesi sono maggiormente versati. Attualmente la Camera ha un forte gruppo di rispettabili finanzieri piemontesi: Giolitti, Plebano, Lucca, Ferraris. Piemontesi erano Prina, il ministro di Eugenio Beauharnais, Sella, Nervo. E della stessa regione sono Marazio, Saracco, ecc. Nessun repubblicano trovasi fra gli onorevoli del Piemonte.

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Contansi, all'opposto, parecchi partigiani delle economie e non pochi agrarii.

Come i piemontesi, i deputati lombardi sono costanti nei loro principi! e nelle loro idee, né sanno dividere l'interesse regionale da quello nazionale. Sanno armonizzarli senza cadere nell'eccesso regionalista dei toscani o nella posa nazionale dei napoletani. Però, quando il conflitto è evidente, con nobile generosità e con simpatico entrain, non esitano a sacrificare la utilità provinciale all'utilità nazionale. Cosi, nella discussione dell'ultima interpellanza Nicotera sulle condizioni militari dell'Italia, fu visto il Sola dichiarare, a nome suo e di tutti gli agrarii lombardi, ch'essi erano pronti a sacrificare l'abolizione dei decimi alla difesa della patria comune.

Leali quanto i piemontesi, i lombardi hanno un'indole più impetuosa, e sono più facili ed entusiasmarsi.

Il partito radicale conta fra i deputati lombardi le sue più numerose reclute. Sono radicali, e alcuni repubblicani: Boneschi, Ferri, Panizza, Moneta, Cavallotti, Mussi, Marcora, Maffi, Majocchi, Sacchi. Ciò non deve maravigliare. Non erano forse lombardi Giuseppe Ferrari, Agostino Bertani e Carlo Cattaneo?

Come il partito radicale, così ogni altro partito è fortemente rappresentato nella deputazione lombarda. Ben organizzata è la parte moderata, e di questa è notevole la frazione degli agrarii, formata dagli on. Taverna, Casati, Sola, Colombo, Carmine, D'Adda, Arna boldi ed altri. L'on. Zanardelli guida i progressisti monarchici,l'on. Maffi rappresenta il partito operaio

Gli oratori lombardi devono essere annoverati in prima linea.

12 CAPO PRIMO

Sanno essere ragionatori sagaci e sottili senza dimenticare l'impeto degli affetti, la forma artistica, la plaisanterie, lo spirito a getto continuo, l'ironia e l'invettiva.

I deputati veneti hanno quasi tutti vigoroso intelletto, che in alcuni è genialmente originale. Sono, per lo più, di carattere. Però non si dimostrano mai seguaci di un partito sino al quand mème. Non si dilettano nel mestiere di bouledognes politici. Sono di maniere cortesi, d'indole affabile e tollerante. Giammai tetri e meditabondi, eccetto il Seismit-Doda, il quale, del resto, è originario di Ragusi. Paleocapa, DeBoni, Pasini, illustri figli del Veneto, amavano le facezie e il linguaggio scintillante di brio. Aperti, spiritosi, allegri, sono, ordinariamente, calmi. Talvolta, tuttavia, la loro indole è tanto bollente da farli sembrar simili ai meridionali. Tale è il Cavalletto. Tale era pure il compianto Varè.

Nel Veneto le materie finanziarie sono coltivate con la stessa passione che in Piemonte. E insieme alle materie finanziarie ed economiche, sono studiate con amore le scienze giuridiche. Finanziere illustre era il Pasini. Finanzieri sono il Luzzatti, il Doda, il Gabelli, il Maurogonato, il Messedaglia. Di giuristi illustri il Veneto non ha, attualmente alle Camere, che il Righi.

I liguri hanno ingegno pronto e svegliato, e sono forniti di gran coraggio. Canevaro, semplice capitano di vascello, non esitò a dir cose dure al ministro Acton in pubblica Camera. Sono pure lavoratori ed assidui: Berio è un modello del genere. Sono pertinaci e talvolta petulanti. Adolfo Sanguinetti, nella discussione per le convenzioni ferroviarie, imitò mirabilmente l'ostruzionismo del Bonghi contro il Baccelli.

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Non mancano di humour: Pellegrini insegni. Amano le situazioni nette e chiare. Odiano gli equivoci. Barrili si dimise, perché sospettava di essere tollerato dagli elettori.

Dell'Umbria è degno di nota che su dieci deputati, i quali la rappresentano alla Camera, cinque non appartengono alla provincia. E, dunque, la regione meno regionale che sia in tutta Italia.

I deputati della Campania (Napoli, Caserta e Benevento) brillano per l'ingegno vivace, ma non per la forte coltura né per la fibra energica (1). I soli Marselli e Bonghi hanno una coltura vastissima. Nessuno dei deputati campani è un valore politico. Eccettuati i due onorevoli summenzionati e il De Renzis, gli altri rappresentanti campani della sovranità popolare sanno di diritto costituzionale e di storia diplomatica tanto quanto il Gran Sultano conosce di lingua italiana. Mancano di principii politici e di fede nei grandi ideali. Hanno facile la parola, ma nessuno di essi è oratore. I numerosi avvocati, quindici sovra trentacinque rappresentanti, non hanno saputo acquistare un'oratoria parlamentare. Credono sempre di arringare dinnanzi alle Corti d'Assise. Non sono divenuti giureconsulti né uomini di Stato. Sono rimasti paglietti.

I Principati (Salerno e Avellino) e il Molise sono rappresentati meglio della Campania. V'è più stoffa di statisti. Pei campani la politica è un espediente, quando non è un pisaller. Per parecchi deputati dei Principati e del Molise essa è tutto.

(1) Tastarmi e Sandonato non vengono da me compresi fra i deputati della Campania, essendo nati l'uno negli Abruzzi, l'altro nel Salernitano.

14 CAPO PRIMO

I deputati della Basilicata sono dieci rispettabili individui, dotati di ingegno pratico, e quasi sempre unilaterale. Fortunato, il più geniale fra tutti, è un economista con vernice letteraria. Branca è finanziere. Plastino, Rinaldi e Imperatore sono giuristi. Torraca è un cultore di diritto pubblico. Senise è un medico di buon nome. Lovito e Lacava sono due conoscitori di pratica amministrativa. Non v'è scintilla di genio in alcuno dei dieci rappresentanti della Basilicata. Del Zio, che, per molti anni, rappresentò uno dei collegi di quella Provincia, portava una nota originale nel monotono spartito della deputazione di Basilicata: però egli faceva troppa politica superiore, troppa iperpolitica, e fu abbandonato dal popolo sovrano.

I deputati della Basilicata sono accorti, diligenti, sagaci, assidui. Abili, quasi tutti, nell'intrigo e nel lavoro sotterraneo delle congiure di palazzo. Esperti nelle lotte della vita, hanno. saputo conquistarsi il posto che occupano. Capaci, però, più di ubbidire che di comandare, più di seguire che di pigliare un'iniziativa. Il solo Branca si atteggia a duce di un partito che non esiste, pur non avendo alcuna delle doti del leader. Egli solo ha capacità di ministro, mentre gli altri sono elementi di segretariato generale. E segretarii generali sono stati, oltre il Branca, anche il Lovito, il Lacava e il Correale.

Non possono essere accusati di girellismo, ma neppure debbono venir chiamati uomini di carattere ferreo. Non meritano né questa lode né quel biasimo, perché mai scelgono, con risolutezza, un colore politico. Un grande pensiero par che non sovrasti mai alle loro determinazioni, le quali, non poche volte, sembrano motivate dall'egoismo e dalla vanità.

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Gli onorevoli abruzzesi, fra quali si notano Spaventa, Vastarini Cresi e Angeloni, sembrano svogliati per la politica. Lo stesso Spaventa è troppo adoratore di se stesso per poter essere un uomo politico.

I deputati pugliesi, fatta eccezione del Bovio, mancano di originalità. Sanno, tuttavia, ficcarsi dovunque, grazie alla loro abilità. Sono minuziosi e analitici. Hanno ingegno assimilatore e grande resistenza al lavoro.

La nota caratteristica dei deputati siciliani è l'irrequietezza. Non sono mai contenti. Cercano sempre di fare qualche cosa di nuovo che li distingua dagli altri. Non vogliono esser confusi con la folla. Tengono molto alla loro personalità. Sono orgogliosi come Capaneo e sprezzanti. Gli oratori siciliani mancano di brio, di verve, di enjouement, di scoppièttìo di frasi immaginose. Arcoleo possiede lo spirito e la caricatura, ma non ha il brio di Mussi o di Cavallotti. Del resto, le sue stesse moqueries, egli le riserva pei salons, per la cattedra, o al più, per i corridoi di Montecitorio. Nelle pubbliche discussioni è glaciale come un abitante della Lapponia o della Groenlandia. Ciò avviene perché Arcoleo e i suoi colleghi insulari credono che, per fare buona figura e acquistare la stima del Parlamento e degli elettori, si debba essere spaventosamente, orribilmente serii. Una volta il marchese PandolfiGuttadauro, valente siciliano, avendo, senza intenzione dolosa, fatto ridere la Camera, si sentì dire dall'onorevole Mussi che tutti e due avevano il bel dono di mantenere in allegria i colleghi. Questo complimento invece di lusingare, irritò il Pandolfi, il quale rispose piuttosto acremente all'oratore lombardo.

16 CAPO PRIMO

Molti sono gli uomini eminenti nella deputazione siciliana. Egli è che gli elettori dell'antica Trinacria tengono assai a mandare in Parlamento persone che li rappresentino bene.

Dei deputati sardi è presto detto. Per due terzi sono avvocati. Salaris, PaisSerra, Ferracciù sono i più illustri rappresentanti della Sardegna. CoccoOrtu è, fra i suoi colleghi, quegli che oggi gode di maggior credito politico. Al contrario dei siciliani, i sardi sono di facile contentatura, e punto orgogliosi. Non parlano che raramente in quistioni d'indole generale. Preferiscono le quistioni speciali o quelle locali.

I calabresi alla Camera sono ventisei. Sovra tutti, come aquile, volano De Zerbi e Nicotera. Poi vengono Grimaldi, Chiinirri e Miceli. Seguono Sprovieri, Nanni, Alimena. Hanno tutti e ventisei ingegno svegliatissimo. Quando vogliono, sanno pigliare iniziative stupende. Cadono e si rialzano come Anteo, né trovano l'Ercole che riesca a sollevarli in alto per soffocarli. Stanno sulla breccia, per anni, senza stancarsi. Poi ad un tratto, si annoiano, si disgustano e si ritirano. Si fanno dimenticare, e quando più nessuno pensa a loro, ecco che un bel giorno saltano novellamente sulla scena come altrettanti diavoletti di Norimberga. Sanno a seconda delle circostanze, adattarsi all'ambiente o elevarsi al disopra di esso. È gloria delle Calabrie che due loro figli, De Zerbi e Nicotera, abbiano osato, nell'82, gridare all'Italia ch'essa doveva pensare ad armarsi. E nell'86 furono gli stessi Nicotera e De Zerbi che nella lotta elettorale portarono una nota originaie, propugnando l'idea di fare del mezzogiorno il baluardo della Monarchia.

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Fra i deputati calabresi manca l'elemento repubblicano, e financo quello radicale. Predomina il colore di sinistra costituzionale. Non sono agrarii alla lombarda né socialisti della cattedra o della piazza.

I deputati calabresi non hanno un carattere di roccia granitica. Mutano spesso, e facilmente, di opinioni. Sono franchi, aperti, sinceri e pieni di brio. Capaci di reggere un segretariato generale o un ministero, di presiedere la Camera o un meeting. d'improvvisare un discorso o di compilare una relazione di bilancio, essi hanno tutta la versatilità dell'ingegno meridionale. Sono abili ad improvvisare una battaglia parlamentare o a farla riuscire con le moine, le seduzioni, i sorrisi, le strette di mano, le paroline e le promesse all'orecchio. Coraggiosi ed imprudenti, non si arrestano di fronte alle grandi responsabilità. Apostoli ferventi,'diventano, senza difficoltà, apostati accaniti.

I deputati della Basilicata hanno dato, politicamente, tutto ciò che potevano dare. Voi potete misurare la forza di un Lovitó, diun Lacava, di un Fortunato, e giurare, e financo scommettere, sulla parte che rappresenteranno in un prossimo avvenire. Non si può dir lo stesso dei calabresi. Molto hanno operato De Zerbi, Nicotera, Chimirri, Grimaldi. Ma chi può dire ciò che da loro è ancora lecito sperare? Essi stessi non si conoscono. V'è qualche cosa in loro che essi medesimi ignorano, e che non sarà rivelata se non dalle circostanze.

CAPO SECONDO

Le Età.

Sommario. — La vita politica in Italia — La Società e la Logge — Minorità politica — Bonghi che corteggia le signore — L'amico venerando — Varè che giovaneggia — Il vecchio illustre — L'ilotismo politico — Le capacità storiche — Alimena e Disraeli — L'ipocrisia della modestia — Dilettanti routiniers — Il partito dei giovani — La Giovane Sinistra e la Sinistra archeologica — I giovani in Inghilterra e in Francia — La superiorità dei giovani — Vecchi irascibili — Il loro dovere — Statue non portafogli.  

La vita politica in Italia comincia tardi. Fox, a diciottenni, mercé l'influenza del padre, ottenne di sedere alla Camera dei Comuni. Pitt, a ventun'anno era Cancelliere dello Scacchiere, e a ventitré, primo Lord della Tesoreria, cioè capo del Gabinetto. Presso di noi la cosa va abbastanza diversamente. Se non si ha trent'anni, non si ha diritto di domandare il suffragio degli elettori politici. E bastassero! La Società è ancor più rigorosa della legge: da trenta a quarantanni vi ritiene sempre come un ragazzo.

Considerato questo stato di prolungata minorità politica dei nostri maggiorenni giuridici, la giovinezza politica degli onorevoli italiani non può reputarsi finita prima dei quarantacinque anni, quando comincia l'età matura che si protrae sino ai sessanta.

20 CAPO SECONDO

I vecchi della nostra Camera sono giovani di cuore.

Parecchi di essi se ne avrebbero a male, se si sentissero ricordare l'atto di nascita. Bonghi, con quella sua personcina di Tom Ponce migliorato ed allungato, fa l'elegante e corteggia le signore come un letterato del secolo di Voltaire. Sandonato vi diverrebbe nemico, se voi gli proponeste di entrare nel Senato. Fino a pochi anni fa era di questa schiera ribelle all'età il compianto Varè. Salvatore Morelli, un giorno, lo fece indispettire, quando, credendo di fargli un elogio, così gli rivolse la parola:lo debbo rispondere, o signori, due parole all'accusa che mi ha diretta, ieri, il mio venerando amico, l'on. Varè. (Voci: Venerando! Ilarità). Sì, venerando! Benché egli giovaneggi, pure è venerando per sapere e per età». Lo stesso Depretis, ch'era tanto positivo e così poco vanitoso, non amava che lo si chiamasse vecchio. Baccelli, nella seduta del 29 aprile 1880, parlandone con ossequio, diceva:Ognuno di noi, messo al suo posto, forse crederebbe sé non capace di fare quanto ha fatto quell'illustre vecchio. . .». E il Depretis, ridendo, ma un po' indispettito:Che cos'è questo vecchio?» (Ilarità prolungata). E il Baccelli:Dissi vecchio, perché la vita degli uomini è breve; ma, alla sua età, egli mostra che, volendo, si può esser giovani, e lo ha mostrato anche troppo». (Ilarità prolungata). —Non è mai troppo» — interruppe di nuovo Depretis; e così le sue velleità senili furono rispettate.

Però i vecchi, se da un lato vogliono sembrar giovani, dall'altro pretendono che i giovani facciano i vecchi.

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I novellini devono nella Camera, adattarsi  all'ilotismo politico, e contentarsi della magra soddisfazione di essere annoverati nella schiera dei lavoratori muti. a Guai a loro, se si azzardano ad aprir  bocca su di una quistione di politica generale. Questa dev'essere riservata alle capacità storiche. La tradizione non può essere violata. Chi la rompe ne paga le spese, e a caro prezzo. Enrico Ferri e Alimena insegnino. Alimena, nel maggio 1883 voleva parlare sul trasformismo. Il poveretto si era industriato a prepararsi un discorsone coi fiocchi. Whigs. tories, canninghiti, grenvilliti, peeliti, io credo vi entrassero tutti a danzarvi un mostruoso ballo di ammaestramenti storici come in un gran veglione. Urli, grida, sghignazzamenti accolsero le meditate considerazioni di un giovane deputato il quale, per la prima volta, come debutto, osava parlare su di una quistione di politica interna. Alimena non perdette il sangue freddo né il filo del discorso, e le sue felici risposte agl'interruttori fecero pensare a quelle date dal Disraeli ai suoi nemici la prima sera che parlò alla Camera dei Comuni. Però fu forzato a tacere, e da quel giorno non si è ancora riabilitato.

I giovani, i quali vogliono farsi apprezzare, e, in seguito ascoltare, sono obbligati a fingersi ignari del proprio valore, e profondamente entusiasti delle capacità di tradizione. Devono sfoggiare l'ipocrisia della modestia, accettare gl'incarichi noiosi delle leggi, e lavorare negli ufficii e nelle commissioni.

Questo sistema, questa routine, che da tanti anni esiste nella nostra Camera, ha il suo lato buono, non ne sconvengo. I giovani si addestrano nei lavori parlamentari, nelle quistioni di bilanci, e in generale, in tutti gli argomenti tecnici.

22 CAPO SECONDO

Ciò non pertanto, è impossibile negare che un tale addestramento duri troppo. A furia di farli lavorare e sgobbare, fanno loro perdere la primitiva vigoria di carattere e l'originaria elasticità di mente. Dopo dieci anni di questo improbo lavoro, i giovani spesso diventano, moralmente, più vecchi dei vecchi stessi. Relatori o commissari a perpetuità, essi si trasformano, senza avvedersene, in burocratici senza stipendio, in impiegati col medaglino, in dilettanti routiniers. Molti fra di essi, riandando colla mente sugli anni passati, scoprono, con estrema loro sorpresa, di esser rimasti sempre giovani di belle speranze.

Fu in parte come reazione contro la tirannia dei vecchi che surse, pochi anni fa, nella Camera il così detto partito dei giovani, al quale avevano preparato la strada gli sforzi di un altro giovane invecchiato, il Marselli, per fondare un partito nazionale. Il partito dei giovani mirava a scuotere il giogo dei vecchi caporioni politici; però esso aveva pure un altro scopo: sostituire alle infeconde lotte della Destra con la Sinistra, un sistema di guerra più logico e più conforme alla vita pubblica della nazione. Trascurando le riforme d'indole politica, esso teneva d'occhio le riforme sociali. Parimenti come protesta contro il programma antiquato della Sinistra archeologica, era surta, nel 1872, la Giovane Sinistra, la quale, guidata da De Luca, mirava al problema amministrativo e finanziario più che a quello politico.

Questi tentativi dei giovani non sono rari nei governi parlamentari. In Inghilterra, quando Walpole spadroneggiava, il primo Pitt prese a capitanare i giovani repubblicani, detti per dileggio i ragazzi.

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Più tardi, suo figlio fu a capo di un gruppo di radicali, i quali volevano, fra l'altro, la riforma elettorale e l'abolizione della schiavitù. Quando i tories parevano propensi a fossilizzarsi, Palmerston divenne centro di un gruppo di giovani conservatori liberali, che già erano stati attirati nell'orbita di Canning, scomparso repentinamente come una cometa. In seguito Disraeli capitanò la Giovane Inghilterra; e ai giorni nostri lord Randolfo Churchill ripigliandone ed allargandone il pensiero, si è messo alla testa di un battaglione di ambiziosi gentleman, i quali sognano un partito conservatore con vernice radicale.

Se si guarda la Francia, non sarà difficile di trovarvi tracce di un partito di giovani. Es. , i dottrinarii sotto la Restaurazione, suddivisi in quelli del Globe e in quelli così detti mondani; les jeunes gens, di cui circondavasi Thiers salendo al Ministero dopo il capitombolo di Mole; i giovani conservatori con Duvergier de Hauranne, surti verso il 1846.

Non deve, adunque, far meraviglia che anche in Italia sia nato, più di una volta, un partito di giovani. Io non intendo, tuttavia, di fermarvi sopra la mia attenzione. Più che il partito, è l'elemento giovine sparso sui varii banchi della Camera, che merita di esser segnalato all'attenzione del paese. Coi giovani, e in generale, con i deputati inferiori ai sessant'anni, fatto uno scrutinio imparziale, si potrebbe formare un Ministero ideale — un Ministero di talentoni, come quello formato nel 1806 in Inghilterra. Oggi, invece, i giovani più distinti per capacità politica sono esclusi

24 CAPO SECONDO

da qualsiasi partecipazione al Governo (1). Se si andrà innanzi di questo passo, è probabile che non avranno un portafogli se non dopo che la neve sarà caduta sui loro capelli.

Francamente parlando, a questa condizione di cose, è necessario che si ponga fine. Se oggi abbiamo alla Camera una generazione di giovani che si è preparata da un pezzo alla vita politica studiandone tutti i problemi, — perché continuare a tenerla lontana dal Governo? perché credere che in Italia non si debba saper governare se non a sessant'anni? Crispi, Baccarini, Cairoli, Miceli, Taiani. Ceppino, Ferracciù e pochi altri — ecco gli uomini ai quali l'Italia si è ipotecata. Eppure, i giovani superano i vecchi per intuito dell'avvenire, coltura e temperamento politico. Sono i giovani che hanno capita l'importanza assorbente del problema sociale: basta ricordare Sonnino e Franchetti del Centro, Fortis e Ferrari Luigi dell'Estrema Sinistra. Furono essi che nel 1881 pensarono a costituire il gruppo delle Economie, mentre il venerando Fabrizi loro rimproverava aspramente lo spirito prosaico.

Sfugge parimenti ai vecchi l'importanza o la peculiarità del movimento scientifico odierno. In diritto internazionale, stanno ancora al puro e semplice principio di nazionalità ; nel campo del giure penale credono tuttora che il reo pecchi perché vuole peccare e che la pena di morte debba abolirsi, perché non è lecito ripetere sul delinquente quel delitto ch'egli commise sulla vittima;

(1) Il lettore comprenderà di leggieri come la capacità politica non possa andare confusa con l'abilità tecnica, che può anche chiamarsi capacità speciale.

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nel diritto costituzionale, giurano pur sempre sull'infallibilità e sull'onnipotenza delle maggioranze; e così di seguito. La politica è un donna senza cervello, e i vecchi la considerano come una donna tutta cuore o, per lo meno, tutta fegato. La politica è una scienza sperimentale ed essi la ritengono un'arte emozionale.

Di più, i loro precedenti vietano loro di governare coi prestigio e con l'autorità necessarie all'Ente Governo. Come possiamo noi venerare in Crispi il principio di autorità, se Crispi, trentanni fa, modellava bombe all'Orsini? All'estero la loro azione è ancora più pregiudicata. A Cairoli recarono nocumento non tanto gli errori diplomatici quanto i ricordi rivoluzionarii. Ma... glissons n'appuyons pas! Sdruccioliamo pure, ma per cadere nella quistione del temperamento politico dei vecchi, E anche qui la loro inferiorità è chiara. Le sedute scandalose le scenate di Montecitorio, non si devono che ai vecchi, e, in generale, agli antichi rivoluzionarii. E Bonghi che accusa un intero Gabinetto d'incapacità mentale; è Crispi che rinfaccia al Mancini la poesia dedicata a Maria Cristina, e al Magliani i servigi prestati al Borbone; è Miceli che pronunzia le parole: indecenti, vergognatevi, ecc. ; è Sandonato che insulta Depretis; e Nicotera che sputa in viso a Levito; è Cantelli che chiama calunnie le affermazioni di Cesarò; è Spaventa che gitta in faccia a Laporta il volgare epiteto di sciocco; sono Salaris e Castagnola che nel 1875 si coprono di contumelie e stanno per venire alle mani. Sempre i vecchi! Ritiratevi, ritiratevi! Avete fatta l'Italia, e ve ne siamo grati.

26 CAPO SECONDO

Lasciate, però, che i giovani la governino. Avete troppo lavorato e lottato. Riposate. Voi seduce l'odor della polvere. L'olivo di pace non parla ai vostri cuori. In ogni questione vedete l'addentellato per la pugna. Valorosi reduci delle cospirazioni e dei campi di battaglia, gloriosi avanzi di galera e di esilio, voi non sapete la vita. Siete sempre l'antica gente. Sospettate continuamente — e in ogni avversario vedete un nemico.

Sì, ritornate alle vostre case, e riposate! Narrate ai figli vostri le sventure sofferte, scrivete memorie e libri che ci descrivano le lotte da voi sostenute per darci una patria. Educate i nostri cuori coi ricordi della vostra grandezza passata. Non ci rendete scettici con lo spettacolo dei vostri pettegolezzi presenti. Fate largo ai giovani. Sennino. Budini, Vastarini, Giolitti, Berto, De Zerbi, Fortis, Ferrari, Luzzatti, Branca, aspettano che li si chiami al Governo. Si consumano nell'ozio. S'irruginiscono. Usateli. Non li fate invecchiare.

Gloriosi vecchi, separatevi dalle picciolezze dell'ambiente attuale! Le statue sono per voi. non già i portafogli. Salite sul piedestallo, e noi ci toglieremo il cappello!

CAPO TERZO

COLORI E VALORI

SEZIONE PRIMA.

L'Estrema Sinistra.


§ 1.

Sommario. I radicali italiani — Spirito di educazione e spirito di legalità — I girondini d'Italia — La Montagna piemontese — La prima evoluzione — L'occhio clinico — Depretis e Brofferio spaventati — La seconda evoluzione — I radicali nel 186163 — Successive metamorfosi — Crispi e Mordini — Inerzia dell'Estrema Sinistra — Programma.

Io sono di opinioni moderate, e appartengo precisamente alla Destra ideale, cioè a quella Destra che non ha avuto mai esistenza pel passato, è non ne avrà nell'avvenire. Per cortesia politica comincio, H quindi, dall'Estrema Sinistra.

Non arrivano a quaranta i deputati dell'Estrema Sinistra. Però, meno qualche eccezione, ognuno di essi è un valore. Non formano un partito: sono semplicemente un gruppo. Mancano loro l'unità di scopi e la disciplina. Non hanno un duce né un programma.

28 CAPO TERZO

Maftì. preoccupato della quistione operaia, la crede, forse, solubile con la Monarchia. Costa, mirando allo stesso fine, reputa come mezzo necessario la Repubblica. Vagheggiano la Repubblica come ideale politico, Bovio e Cavallotti, ma non nell'istesso modo. Cavallotti sarebbe pronto ad affrettare il quartd'heure con un moto di piazza; Bovio non accetterebbe un mutamento nelle cose, se non fosse effetto naturale e spontaneo di imo svolgimento delle idee. L'uno, il poeta, crede nella Rivoluzione. L'altro, il filosofo, crede nell'Evoluzione. Andiamo oltre. Nelle stesse file dell'Estrema Sinistra vediamo non pochi deputati che si lusingano di poter fare con la Monarchia l'esperimento sociale. Sono Aventi. Fortis. Luigi Ferrari. Caldesi, Majocchi. L'Estrema Sinistra conta 17 avvocati, di cui dodici esercitano la professione, 2 operai, 1 agricoltore, 4 professori, 1 poeta, 3 pubblicisti, 1 scultore, 2 medici, 3 exmilitari, 1 industriale, 2 conti.

È un gruppo a cui non manca la rappresentanza di alcun ceto sociale. Vi manca solo quella del clero. Un prete. , dotto di mente e repubblicano di spirito, un Asproni redivivo, sarebbe una nota curiosa. Nella prima Rivoluzione francese quattro preti rappresentarono con sufficiente destrezza la loro parte. Maury difendeva il Re; Sievès, il terzo Stato, e propriamente la borghesia: Grégoire, il popolo: Talleyrand. tutti, cioè se stesso. Certo è che se non salvarono lo Stato, salvarono la collottola, e morirono non nell'amplesso del patibolo, ma nel proprio letto. Un prete radicale, alla nostra Camera, potrebbe difendere i diritti del basso clero.

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Anche sotto il rapporto delle facoltà intellettuali, il gruppo dell'Estrema Sinistra può dirsi au grand complet. Ha il suo poeta nel Cavallotti, il filosofo e il tribuno nel Bovio, l'oratore parlamentare nel Fortis, e più, nel conte Ferrari, lo scrittore nei Saffi, l'artista nello scultore Ferrari Ettore, All'uopo, potrebbero giovargli le ricchezze di un Mussile di altri e l'esperienza militare di un Majocchi, di un PaisSerra, e dei figli di Garibaldi.

Un po' per ipocrisia parlamentare, un po' per la mancanza di programma comune, i deputati dell'Estrema Sinistra sono chiamati radicali, non repubblicani. Di tanto in tanto scambiano qualche lettera di congratulazione o qualche telegramma di felicitazione coi repubblicani francesi. Tuttavia non si va al di là di questo lusso di affratellamento mediante le Regie Poste e Telegrafi. Sia per lo chauvinisme iperbolico dei monsieurs parisiens, sia per la maggiore serietà dei nostri repubblicani, i figurini politici dei Boulevards e del Quartiere Latino non godono la simpatia dell'Estrema Sinistra italiana. Per la perfetta conoscenza del Codice della buona creanza, e per la non meno perfetta cognizione del Codice del buon cittadino, i radicali italiani somigliano più ai radicali britannici che agli omonimi francesi. Hanno lo spirito di educazione di fronte alla Società, e lo spirito di legalità di fronte allo Stato. Sono gentlemen e patrioti. Se, per capriccio del caso, in Italia si dovesse avere lo spettacolo nauseante della Comune parigina, la maggioranza dei nostri radicali emulerebbe i Girondini, e preferirebbe di donare la testa al boia anziché d'ipotecarla ai capricci della plebe.

L'Estrema Sinistra, in Italia, non è nata ieri.

30 CAPO TERZO

Essa è coeva delle istituzioni parlamentari piemontesi. Sino dal primo Parlamento subalpino si ebbe nella Camera una non sottile schiera di radicali. Ai quali, però, mancò sempre comunanza di tendenze. Brofferio, pontefice massimo di quella chiesa, era nemico acerrimo dell'unità. Incalzando gli avvenimenti, la concordia restava soltanto un'opinione, o tutt'al più rimaneva un giornale — quello di Lorenzo Valerio che così chiamavasi.

Dopo la battaglia di Novara, l'Estrema Sinistra apertamente si divise in sé stessa. Rattazzi, Buffa, Cadorna, Lanza ed altri pochi costituirono il CentroSinistro. Fu questa la prima evoluzione dell'Estrema Sinistra. Rattazzi, che aveva esordito come radicale sol perché il suo compaesano ed emulo Pier Luigi Pinelli si era messo coi conservatori costituzionali, non poteva restare in un partito in cui si trovava spostato.

In seguito all'allontanamento di Rattazzi, l'Estrema Sinistra andò sempre perdendo terreno nella Camera subalpina. Ciò non pertanto, essa adempì una missione gloriosa in quel piccolo parlamento. Da un lato, propugnò la necessità di riforme liberali all'interno, e combattette strenuamente pel trionfo del principio laico contro le usurpazioni della Chiesa. Dall'altro, si fece paladino del diritto delle nazioni e della libertà quando l'ordine di Varsavia regnava nella penisola, dal banco dei deputati radicali del Piemonte spesso levavansi voci di protesta contro l'oppressione e il servaggio dei fratelli italici. Mellana, Depretis, Josti, Sineo, Brofferio, Asproni stavano sulla breccia per ricordare ai ministri che l'era piemontese doveva tramontare nell'era italiana.

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I poveri esuli trovavano aiuto e conforto presso i deputati radicali, i quali, al bisogno, sapevano anche farsi cospiratori. Valga per tutti l'esempio del buono ed onesto Depretis, il quale raccolse una rispettabile somma di danaro per il movimento milanese del febbraio 1853, mentre nel 1852 aveva preso parte ad un'altra congiura.

Tuttavia, l'occhio clinico della situazione politica mancava all'Estrema Sinistra. Nel 1852, allorché D'Azeglio propose la legge restrittiva della libertà di stampa, i deputati radicali, meno l'on. Josti, protestarono con eloquenti discorsi. Non comprendevano che quella legge retriva era la chiave, la quale, mentre chiudeva, per poco tempo, la Libertà in cancello, doveva poi aprire la carcere in cui stava rinchiusa l'Italia. Ugualmente nel 1855, in occasione della guerra di Crimea, i radicali piemontesi diedero prova della medesima miopia diplomatica. Financo nel 1859, alla vigilia della grande guerra, parecchi di essi non sapevano celare l'antipatia che nutrivano per Cavour. Quando la Camera votò i pieni poteri governativi, gli onorevoli Brofferio e compagni ne furono offesi e sgomentati. Ammettere la dittatura, fosse pure in tempo di guerra, pareva ad essi lo stesso che sradicare l'albero della libertà. Ora, essi erano radicali patrioti, ma non patrioti radicali Volevano la guerra con l'Austria, ma volevano. , anzitutto, la pace coi loro principii. A tal proposito ecco un grazioso aneddoto. Lo racconta Leone Fortis, il più arguto e simpatico pubblicista lombardo.

«Conobbi l'on. Depretis, la prima volta, a Torino, nel 1859, ai prodromi della guerra. Cavour, in quel dì aveva chiesto alla Camera i pieni poteri.

32 CAPO TERZO

Noi si arrivava dalla via della Svizzera scappando dall'Austria. C'erano con noi dei giovani che venivano ad arruolarsi volontaria e c'era pure Brofferio, per cui un vaporetto austriaco, il Madetehv che batteva il Lago Maggiore, aveva riempito di terrori nervosamente muliebri la traversata. Depretis venne a trovare il collega alla stazione. Era più spettinato, più irsuto del solito, voce tetra.

— Ebbene? — gridò Brofferio.

— Tutto è finito! — rispose Depretis.

Si strinsero tristamente la mano, e si appaiarono.

— Votati? — insisté Brofferio.

— Votati! — replicò l'altro.

— Povero paese! — mormorarono tutti e due.

“Confesso che per un momento ho creduto a un trattato di pace con l'Austria. Ne fummo tutti sgomenti e sconvolti. Ora, sa Lei che cosa deploravano così? I pieni poteri accordati a Cavour per fare la guerra, mentre il paese ne aveva trasalito di gioia!!!”

Questo aneddoto così grazioso, e raccontato con tanto brio, vale più di qualsiasi considerazione più o meno prolissa.

Brofferio sentiva, adunque, una forte antipatia per Cavour. Ed il suo radicalismo derivava più da questo sentimento negativo che da sincera passione repubblicana. Nel 5960 egli spasimava per un portafogli, avendo la nobile ambizione di servire il paese. L'amicizia personale di Vittorio Emanuele e quella di Rattazzi lasciavano sperare al brillante poeta ed oratore di potere anche lui mettersi al fianco lo spadino di ministro. Questa speranza parve realizzabile verso la fine del 1859. Però altrimenti era scritto nei libri del Destino, e Brofferio non divenne un 'Eccellenza.

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Nondimeno, egli non tornò indietro, e rimase, con altri colleghi, fra i monarchici convertiti. Fu questa la seconda evoluzione dell'Estrema Sinistra. Cosi la formazione del Regno d'Italia quei pochi repubblicani dottrinarii, quei rivoluzionarii all'acqua di rosa, che nella Camera Subalpina avevano fatto un'opposizione piuttosto accademica alla monarchia di Savoia, scomparvero, o meglio, restarono sopraffatti dai rivoluzionarli puro sangue, che le altre regioni della penisola avevano mandato a sedere nella Camera italiana. Accanto a Brofferio, Sineo, Mellana, rappresentanti del radicalismo monarchico piemontese, noi troviamo non pochi repubblicani di convinzioni come Giuseppe Ferrari o di tradizioni come Guerrazzi. Ferrari era l'unico federalista della Montagna. Erano anche repubblicani, ma con tinta mazziniana. Saffi, Macchi, De Boni, Campanella, Libertini e qualche altro. Del Saffi scriveva, in quell'epoca, il Petruccelli della gattina: Egli è un uomo ardente, quantunque a giudizio esatto e moderato; uno spirito elevato e molto colto; un polemista vigoroso nella stampa. Sventuratamente, la sua voce fievole e velata gli osta di tuonare alla tribuna come la tempra del suo animo e della sua mente gliene darebbe l'attitudine. Questo giudizio dell'illustre scrittore era, nel tempo stesso, una divinazione. Aurelio Saffi si è rivelato, in prosieguo, pubblicista sempre più dotto, vigoroso ed elegante: le prefazioni da lui poste agli scritti di Mazzini sono monumenti di dottrina e di lingua. E neanche si sbagliava il Petruccelli, allorché definiva il Saffi, uomo di giudizio esatto e moderato.

34 CAPO TERZO

Il contegno dell'illustre uomo di fronte al viaggio di re Umberto in Romagna giustifica le parole di Petruccelli.

Veniva, in seguito, la schiera dei deputati garibaldini. costoro avevano stipulato con la monarchia una obbiezione condizionale risolutiva. Mi spiego meglio. Essi si erano impegnati a rispettare la casa di Savoia fino a quando questa li aiutava a completare l'Italia. Dall'altro lato, avevano stipulato con l'idea repubblicana un'obbligazione condizionale sospensiva; avevano cioè, moralmente promesso di concorrere alla formazione della repubblica, caso mai si avvedessero dell'incapacità della monarchia per dare l'ultima mano all'unità italiana Erano di questo gruppo Garibaldi. Mordini, Crispi, Bertani, Cairoli, Sirtori, Cadolini, Bixio, Musolino, Zuppetta!

In quell'epoca la questione nazionale teneva la precedenza su quella politica; cosicché i numerosi repubblicani, per amor di patria, sacrificavano i principi? al principe. Garibaldi non consentì, nei primi mesi del 1862, di presiedere il Comitato centrale di provvedimento per Roma e Venezia, se non dopo aver ricevuta da Mordini e Crispi la dichiarazione che essi nulla volevano tentare contro la casa di Savoia. Nel marzo dello stesso anno, il teatro Paganini di Genova fu spettacolo di un solenne pronunciamiento monarchico da parte dell'élite dei democratici. Un monarchicismo, s'intende, non di convinzione ma di convenzione e di convenienza. La monarchia doveva servire a fare l'Italia. Poi, sarebbe stata gittata via come un limone senza sugo.

Aspromonte disingannò o disilluse moltissimi repubblicani che avevano preso il velo.

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I criterii moderati perdettero il 90 per 100, e l'Estrema Sinistra apparve degna del suo nome. L'agitazione della Camera si propagò nel paese. Quei democratici per formare la Patria, avrebbero, in buona fede, sfasciato lo Stato. Il pericolo era grande. Ciò capirono gli onorevoli Crispi e Mordini, i quali, accampando come pretesto la loro qualità di deputati, non aderirono alla proposta di Bertani e di altri onorevoli, di costituire, con gli elementi garibaldini, battaglioni di volontari per combattere il brigantaggio nelle Provincie meridionali! I veri briganti (lo dico in un orecchio à monsieur tout le monde) che Bertani e gli amici volevano combattere, non erano gli autentici delle Calabrie, ma i soldati papalini e i militi austriaci, Trattandosi di rinnovare Aspromonte, Crispi e Mordini fecero un passo en arrière. Furono uomini pratici. Il loro monarchicismo per situazione nazionale era sulla via del monarchicismo per elezione politica. L'obbligazione condizionale stava per divenire pura e semplice. L'evoluzione, che già si maturava in una parte dell'Estrema Sinistra, apparve più manifesta verso la fine del 1863, allorquando il ministro Minghetti combatté la proposta fatta dall'on. Bertani per un'inchiesta sulla condotta del Governo negli affari di Sicilia e la Camera gli dava ragione. In seguito a questo voto l'Estrema Sinistra e una porzione della Sinistra tennero una seduta plenaria. Bertani gittò in campo l'idea delle dimissioni in massa. Ciò importava lo sciopero degli onorevoli. Crispi, invece, fu di contrario avviso, e, pur continuando a riprovare la politica del Gabinetto, sostenne la necessità di rimanere tutti sulla breccia.

36 CAPO TERZO

Giuseppe Ferrari fu dello stesso parere, e la maggioranza decise di restare al suo posto. La minoranza, composta da Garibaldi, Campanella, Saffi, Bertani, Miceli, Nicotera, ecc. , si dimise.

Molti dei dimissionari, rieletti, tornarono alla Camera, ove si mostrarono meno intransigenti della prima volta. Con la convenzione di settembre (1864), l'onorevole Crispi e varii suoi amici passarono apertamente il Rubicone e fecero la loro confessione monarchica. Fu questa la terza evoluzione dell'Estrema Sinistra.

Nel periodo 186163 questo partito comprendeva le seguenti gradazioni: 1° repubblicani partigiani dei mezzi violenti per fare l'Italia e disfare la monarchia; 2° repubblicani, che, per raggiungere il primo scopo, volevano servirsi dell'influenza della monarchia, salvo ad abbattere questa dopo aver raggiunta la meta nazionale; 3° repubblicani, che, pei mutamenti interni, se ne rimettevano interamente all'evoluzione naturale delle idee; 4° repubblicani, i quali, abituandosi a rispettare momentaneamente e per carità di patria, la monarchia come espressione della legalità, senza avvedersene, si avviavano a considerarla come espressione del diritto; 5° radicali monarchici.

Ora, verso la fine del 1864, le tre prime gradazioni non avevano più rappresentanti nella Camera, dove non rimanevano che le ultime due. Bertani, tornato in Parlamento, prese a capitanare i repubblicani della quarta categoria, mentre Crispi si atteggiò a duce dei radicali monarchici. Il programma, però, era comune e comprendeva: l'armamento popolare; l'educazione idem; il suffragio universale; l'imposta unica e progressiva; l'abolizione del primo articolo dello Statuto;

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l'esclusione di ogni sacerdote dall'istruzione; la restituzione dei beni del clero alle rispettive Provincie

Il senno pratico di una parte dell'Estrema Sinistra ebbe occasione di rivelarsi con maggior lusso alla vigilia della guerra del 1866. Crispi, Bertani e compagni consentirono alla proposta del Ministero di mettere un bavaglio più o meno stretto alla stampa, e di fare della libertà individuale una licenza governativa. Crispi, che fu il relatore della legge, ebbe in compenso l'offerta di un portafogli. Rifiutò, e fece bene. Per semplice carità di patria e non per ambizione i democratici avevano fatto elemosina della libertà.

Verso il 1870, l'Estrema Sinistra subì una quarta evoluzione. La provocarono Nicotera, Cairoli, Miceli e pochi altri, i quali divennero monarchici. Pure, continuò nell’Estrema Sinistra la distinzione fra i due gruppi: il gruppo radicalemonarchico, che aveva fiducia nella capacità democratica detta, Casa di Savoia; e il gruppo repubblicano possibilista, che, guidato dal Bertani, aspettava con sorriso scettico il risultato del l'esperimento democratico della monarchia

Con la breccia di Porta Pia finì il ciclo epico dell'Estrema Sinistra. Questa dal 61 al 70, come partito di azione, avea continuamente tenuto d'occhio il Governo, incitandolo e spronandolo a completare l'unità d'Italia. Per poter meglio arrivare all'unità, essa si era rassegnata a chiudere la libertà nella sua valigia parlamentare, proponendosi di farle riveder la luce nella città dei sette colli. Errori ne commise, e non pochi. Tuttavia, la sua missione fu nobile, generosa e quasi provvidenziale. Il dilemma posto al Governo era terribile ma logico: 0 con noi a Roma e a Venezia, o contro di noi.

38 CAPO TERZO

I deputati del partito di azione furono i più fieri sostenitori del diritto patrio e della dignità nazionale. Quando i moderati — talvolta per fatale necessità — s'inchinavano troppo alla Maestà imperiale di Napoleone III, dai banchi dei radicali levavasi un grido d'indignazione. Coraggiosi e franchi nella Camera, quei discepoli di Mazzini e compagni di Garibaldi, se lo squillo della tromba guerriera facevasi udire, correvano al campo per versare il loro sangue contro lo straniero. Erano oratori e soldati.

Dopo il 1870, mentre Crispi diventava sempre più della Sinistra pura e semplice, l'Estrema Sinistra,esaurita la massima parte del problema dell’unità, ricominciò a pensare a quello della libertà. Non sperandone la soluzione dalla Destra, aiutò, nell'opposizione, l'onorevole Depretis, e contribuì alla preparazione del 18 marzo 1876. Però la lega si ruppe l'indomani della vittoria, e, meno in pochi casi, i radicali della Camera fecero al Governo di Sinistra la medesima guerra fatta alla Destra. Tale guerra, tuttavia, fu condotta senza abilità e con deplorevole mancanza di concetti direttivi. L'azione dei nostri Montagnardi, nel campo delle riforme, fu fievole e senza entrain. Ebbero il loro appoggio la nuova legge elettorale politica, l'abolizione della tassa sul macinato e quella del corso forzoso; ma tali riforme erano già nel programma della Sinistra i monarchica, e sarebbero state attuate anche senza il debole sprone dei deputati radicali.

Sebbene le elezioni generali del 1882 aumentassero il numero degli onorevoli della Montagna, pure, questa non si dimostrò capace di formare un partito forte e disciplinato.

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Né, in seguito, ha saputo acquistare tale capacità. Essa, che, dopo il 1870, doveva guardare non tanto alla quistione della libertà, non minacciata dalla Monarchia, quanto a quella della miseria, nulla ha operato di serio in questo campo. Oggi solo alcuni dei suoi componenti cominciano "a preoccuparsene, ma nel tempo stesso pare che questa preoccupazione li spinga a scendere dal monte alla pianura. Manca nelle file dell'Estrema Sinistra l'apostolo costante, ardito, passionato. Non v'è un lord Brougham in abbozzo né un Hume in germe.

Se gli onorevoli della montagna fossero meno ammalati di noia e di spleen, essi dovrebbero accantonare la quistione della forma repubblicana o monarchica, e proporsi non solo come ideale ma ancora come programma politico la seguente speisel carte: Rispetto dell’unità nazionale; discentramento sino alla regione; separazione completa della Chiesa dallo Stato, e quindi abolizione della legge delle guarentigie; propaganda internazionale per l'abolizione degli eserciti permanenti e delle marinerie da guerra, e per la sostituzione dell’arbitrato giuridico alla eloquenza bruta delle baionette, anteponendo i canoni del diritto alla forza dei cannoni; imposta progressiva e tassa unica sulla rendita; istruzione di qualunque grado in mano ai privati e ai Comuni, con l'autonomia delle Università, economie in tutti i rami della burocrazia.

Né basterebbe scrivere il programma; bisognerebbe agitare ed agitarsi, nelle vie legali, per farlo trionfare; e prima di tutto, organizzarsi a partito, disciplinarsi, scegliersi un leader, e crearsi un organo, un giornale. Senza di ciò, il partito dell'Estrema Sinistra, in cui l'evoluzione degli onor.Fortis, e compagni, ecc. (1) ha messo il disordine, finirà per perdere qualunque importanza parlamentare.

40 CAPO TERZO

§ 2.

Sommario. — Sacchi — Panizza — La figura accigliata — Paniea e Marat — Gattelli — Fazio — L'on. Paternostro o il secondo egiziano della Camera — Caldesi — Pais e Ferri che incanta — Pellegrini e "la fortuna delle frasi — Le potenzialità politiche e le potenze, idem — Bovio a Trani — Giovanni Ghiaia — Il letteratone — L'istmo di Suez in versi — Concertisti poetici — II primo amore di Bovio — Il primo scritto — La scomunica dei preti e quella dei filosofi — Bonghi che regala Aristotile a Bovio — A Napoli con ottanta lire — Un testamento poetico — Un filosofo truffato da un poeta — Il concorso pel Principe Umberto — Le proposte di Scialoja — Rivoluzione rogo la menta ria — Il pareggiamento di. Bovio — I due dispiaceri di Bonghi — Un superstite — I sei filosofi — Le agapi dei pensatori — Bovio professore e scrittore — La stima di Depretis — Una domanda della Regina — Bovio tribuno — CT Connel che dice il Tosario — Bovio e Brofinno —I genitori di Marcora—Il volontario del 1859 — Un medico-avvocato — La spedizione dei mille — Marcora sergente — Due volte avvocato — Marcora nel 1866 — L'attività parlamentare — Democratici imperiali — Marcora amico della borghesia  — L'oratore — Il volto canonicale di Fortis — Il pallore dì Cassio! — Fortis avvocato — Fortis e Orilia — Manuel — La trasformazione — Il nodo della cravatta di Olivier — Mussi federalista teorico — Il brio e ]e immagini — Mussi, Toscanelli e Siotto Pintor — Una relazione gioiello — Taddeo e Veneranda — Il reddito dell'orto — I galli di miss Libertà — Il conte Ferrari discepolo di Bertani — Socialisti prima, e repubblicani dopo Ettore Ferrari — Cavallotti nel medioevo — Il suo carattere — Cavallotti che giura e lo scandalo di un naturalista — Cavallotti e Depretis — Le braccia di lord Beaconsfìeld — Gli altri militi.

Io non scrivo un dizionario parlamentare, e quindi non posso né debbo intrattenermi di tutti gli onorevoli. Scelgo solo i più importanti e i più noti politicamente. Boneschi e Sacchi, tipi simpaticissimi, avvocati eloquenti, radicali convinti, forse repubblicani, troveranno il loro biografo di qui a pochi anni.

(1) Di questa quinta evoluzione parlerò nel profilo di Fortis,

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Sacchi fu, nello scorso anno, incaricato dai suoi colleghi dell'Estrema Sinistra d'interpellare il ministro Zanardelli sul contegno del Governo di fronte alle lettere dell'Episcopato e alle petizioni in favore del potere temporale del Papa. Sostenne che, anche quando dal Pontefice si rinunziasse al pensiero di riacquistare il potere temporale, non si dovesse pensare ad una riconciliazione, essendo obbligo dell'Italia di continuare la lotta contro la potestà spirituale, non già coi mezzi violenti, sibbene con l'istruzione laica e con la funzione regolatrice della proprietà ecclesiastica. Conchiuse esortando il ministro a non occuparsi delle petizioni. Egli parlò con calma, senza enfasi, senza bile. Non fece dello spirito né dell'erudizione, e in certi punti fu un poco indeterminato. Rispose con garbo, grazia e prontezza alle osservazioni del Presidente. Interrotto, non capì che cosa si volesse da lui, e disse:Non capisco l'interruzione». Fuvvi allora questo scoppio di reparties con Biancheri.

Pres. — Ella non deve badarci.

Sacchi. — Le interruzioni, bisogna farle chiare perché vi si possa rispondere.

Pres. — Non bisogna farle. (Ilarità).

Basetti e Panizza sono i due discepoli di Esculapio che siedono sui banchi dell'Estrema Sinistra. Al Basetti piace più l'agitazione nel paese che quella nella Camera. Si distinse nella propaganda contro il macinato. Panizza è più corretto, più dottorale. Dario Peruzzi così lo ritrasse nell'86:statura giusta; figura tra accigliata e melanconica; contegno serio; modi e parole cortesi; voce alquanto opaca.» In generale, i medici non sono stoffa di uomini politici. Le eccezioni sono rare, e Panizza non va fra queste.

42 CAPO TERZO

Però, non ostante la sua figura accigliata, egli non ha nulla in sé del Marat. Il 30 maggio 1886. interrogando il ministro Taiani sugli arresti arbitrarli di Mantova, parlò con vigoria e calore. Le sue parole destarono generale simpatia. Taiani rispose da avvocato penale, non da ministro: e Panizza, replicando, glielo ricordò con felicissime frasi.

L'avvocato Gattelli è un reduce delle patrie battaglie. Egli ha cinquantatré anni, e può vantare un passato patriottico quale pochi posseggono. Nato in Ferrara, il Gattelli fu, come ogni buon romagnolo, cospiratore e soldato. Combattette nelle guerre nazionali dal 60 al 66, e fu insignito di due medaglie al valore militare.

Anche una bella figura è il Fazio. Fazio, valentissimo avvocato, gode la stima non solo dei suoi confratelli politici, ma ancora degli avversari!. Ha il ticchio delle interrogazioni sulle quistioni ferroviarie. Ultimamente nella discussione della legge di pubblica sicurezza, ha parlato con molta felicità di pensiero e di espressione. Però non prende nella Camera quella parte attiva che gli spetterebbe grazie all'ingegno e al carattere.

Il professore Alessandro Paternostro, giovanissimo, è il secondo egiziano della Camera. Il primo è Fon. SidneySonnino. Paternostro nacque in Alessandria d'Egitto nel 1852, mentre il padre vi era esiliato. Fece l'avvocato ma senza lasciare traccia. Si dette, poi, completamente all'insegnamento, ed era professore di diritto costituzionale all'Università di Palermo quando fu eletto deputato alla Camera. Sorteggiato, si ripresentò agli elettori dopo essersi dimesso da professore. Fu rieletto. In Parlamento debuttò bene.

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Tuttavia egli non è un oratore affascinante né un facile parlatore. Quando insegnava, come professore pareggiato, diritto internazionale all'Università di Napoli, talvolta gli accadeva di fermarsi di botto perché la parola non gli veniva pronta o le idee gli s'ingarbugliavano nella mente. Ma egli è convinto di ciò che dice, ed è questa la ragione per cui lo si ascolta con deferenza. Ha scritto di svariati argomenti giuridici, e nella sua coltura v'è pure un pizzico di letteratura. Ha studiato financo arte militare, augurandosi, forse, di potere un giorno capitanare un battaglione di volontarii contro l'Austria.

Caldesi e PaisSerra sono due insigni patrioti, il primo dei quali ha fatto molto parlare di sé, pochi mesi or sono, scrivendo la nota lettera di sapore monarchico al conte Ferrari.

Enrico Ferri, il leader della scuola penale positivista, non conduce nella Camera alcun gruppo. Forse, non sa condurre neppure se stesso. È oratore affascinante. A Napoli ammaliò l'uditorio. L'avvocato Manfredi — la Sirena dei penalisti napoletani,— ne rimase incantato. Ferri, però, è oratore troppo cattedratico, troppo unilaterale, e mancante di abilità. In Parlamento esordì in maniera infelice. Si riabilitò nella discussione del nuovo Codice penale.

Tipo opposto è il ligure Antonio Pellegrini. Anch'egii repubblicano, è oratore pieno di impeto e di spirito. Ferri, sempre professore, è profondamente serio, e fa un discorso politico come se spiegasse una lezione. Pellegrini, penalista insigne, ha portato alla Camera l'argomentazione cavillosa dell'avvocato.

44 CAPO TERZO

Una frase poco felice, da lui pronunziata nei dibattiti occasionati dalla catastrofe di Dogali, parve che lo avesse definitivamente liquidato come oratore politico. Invece un'altra frase, non spiritosa ma semplicemente arguta, pronunziata in risposta al Ferri, lo riabilitò, creandogli una fama esagerata di parlatore superlativamente ricco di brio e di railleries.

Ma lasciamo queste potenzialità politiche per fermare la nostra attenzione su di una potenza idem. sovra Giovanni Bovio, pontefice massimo dell'Estrema Sinistra.

Giovinetto, stava a Trani. A Trani viveva, e vive tuttora, Giovanni Chiaia, letterato di vaglia, conoscitore di varie lingue moderne, e grecista e latinista di prim'ordine. Specialmente è latinista esuberante di fantasia e di forma classica. Ora è cieco, ed ha 92 anni. Però studia ancora, e detta un poema latino sul taglio dell'istmo di Suez. Al tempo, di cui parliamo, la casa di Chiaia (chiamato da Pessina il letteratone) era il ritrovo di uomini preclari per ingegno e coltura; e una sera, in uno dei soliti convegni, si parlò con ammirazione di un giovanetto che sapeva tutto Tacito a memoria. Chiaia, meravigliato, volle conoscerlo. L'enfant prodige gli fu presentato. Egli era Giovanni Bovio.

Cosi Bovio cominciò a frequentare la casa del letteratone, nella quale si davano, per dir così, periodiche di versi. Bovio fu anch'egli dei concertisti poetici. In casa Chiaia egli raffinò il suo gusto, e... cominciò ad amare. Il suo primo amore — un amore puro ed innocente — fu appunto per la figlia del Chiaia. Questi, che di giorno in giorno sentiva crescere in sé la stima e l'affetto per quel piccolo grand'uomo,

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non avrebbe visto con dispiacere un matrimonio fra la sua figliuola e lo studioso di Tacito. Egli, anzi, soleva ripetere:Giannetto tu dovresti imparentarti con la mia famiglia.» Tuttavia, per diverse circostanze, il matrimonio non ebbe luogo.

A ventuno anno Bovio scrisse il Saggio di filosofia universale, in cui mostrò come Gioberti e Hegel avevano fatto il loro tempo non altrimenti che San Tommaso e seguaci. Subito ebbe due scomuniche: una dal vescovo di Trani, l'altra dai filosofi hegeliani Vera e Spaventa. Cosa curiosa! Bovio regalò una copia del suo libro a Ruggero Bonghi, il quale non solo gli rispose con una lettera d'incoraggiamento, ma gli mandò ancora in dono i primi quattro libri dell'Etica di Aristotile da lui tradotti in italiano.

Gli effetti della scomunica vescovile si fecero sentire molto presto. Bovio teneva, allora, a Trani, uno studio privato di filosofia; e questo insegnamento gli dava da vivere. Ora, appena fu nota la scomunica, i discepoli si allontanarono dal maestro come da un Anticristo. Non rimasero che pochissimi studenti delle Provincie. E il mal volere della gente si rifletteva sull'innocente famiglia del giovine filosofo; cosicché il povero padre, il quale vedevasi da tutti fuggito come un appestato, mestamente ripeteva:Chi doveva predirlo! Io che speravo da questo mio figliuolo vita più lieta e gloria, oggi appunto per lui veggomi perseguitato dall'antipatia universale!» E queste erano parole le quali non piccolo cordoglio davano al giovine professore.

Non sapendo più in qual modo tirare innanzi la vita, Bovio pensò di lasciar Trani e di venire a Napoli.

46 CAPO TERZO

Non aveva che ottanta lire in tasca, ma nella testa portava un ingegno originale e una vasta coltura, e in petto un cuore nobile e fiero. Appena arrivato in Napoli, incontrò un poeta improvvisatore. Venanzio de Anna, da lui già conosciuto a Trani.

Venanzio gli fece un mondo di buone accoglienze; ma soggiunse che, per mancanza di danaro, non poteva soddisfare alcune spese giudiziarie, fatte le quali, sarebbe divenuto possessore di una rispettabile quota ereditaria, toccatagli per testamento. Bovio, commosso dalle strettezze economiche dell'amico, prese le ottanta lire, e gliele prestò. Da quel giorno Venanzio non si fece più vedere. Il testamento era semplicemente un'invenzione poetica: Abituato alle licenze col codice poetico, Venanzio si era piermesso una licenza col codice penale, ed aveva commessa una truffa, con tutte le regole di rito a danno di un filosofo. Morì, poi, all'ospedale. Avrebbe dovuto finire la vita nelle carceri.

Non molto tempo dopo del suo arrivo in Napoli, Bovio concorse al posto di professore di letteratura italiana al liceo Principe Umberto. Gli hegeliani, memori del Saggio di filosofia universale, mossero al concorrente la più aspra guerra. Bertrando Spaventa voleva, ad ogni costo, che il Bovio non fosse messo in grado di dar lezioni, perché, in questo caso, avrebbe trasformato la cattedra in tribuna. La Commissione esaminatrice, nonostante le prevenzioni e i preventivi, non poté celare la sua sorpresa di fronte alla vasta erudizione del giovine ribelle, e dovette includerlo nella terna proposta al Ministro per la scelta.

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Gli altri due proposti furono Carlo Lanza e Cassetti. Fu preferito il Cassetti perché legato a fil doppio col partito moderato. L'ingiustizia fatta a Bovio era palese. Per rendergli meno amara la pillola o, per meglio dire, per allontanarlo da Napoli, il ministro Scialoia propose al

Bovio di andare come insegnante titolare di filosofia al Liceo di Avellino, oppure come professore incaricato dello stesso insegnamento all'Università di Catania. Bovio rifiutò.

Dopo la rivoluzione regolamentarla consumata dal Bonghi nella qualità di ministro della pubblica istruzione, il Bovio si presentò agli esami di pareggiamento universitario nella Storia del diritto. Era presidente della Commissione esaminatrice l'illustre romanista Poìignani. Bonghi aveva raccomandato alla Commissione di non ammettere quel rivoluzionario agli esami, e in ogni caso di riprovarlo. Inutili precauzioni! Paolo Emilio Imbriani, uno degli esaminatori, sostenne col giovine una lunga e dotta discussione. Tutti rimasero storditi dalla dottrina e dalle opinioni originali del Bovio. Lo approvarono a pieni voti e Bonghi dovette firmare il decreto di nomina. Fu questo il secondo dispiacere politico che ebbe in quell'anno, avendo provato il primo in occasione del concorso drammatico pel premio di cinquecento lire, vinto da Felice Cavallotti.

Entrato nell'Università, Bovio cominciò ad insegnarvi con successo sempre più crescente. Quando l'on. Perez divenne ministro della pubblica istruzione, egli dette al Bovio la laurea di avvocato e la cattedra di professore pareggiato di enciclopedia giuridica.

Oggi Bovio è, a Napoli, il superstite glorioso di una generazione di filosofi, perseguitati tutti dal duro governo di quel partito moderato che corrompendosi come ogni cosa umana, divenne oligarchico.

48 CAPO TERZO

Erano sei i filosofi ribelli: Alessandro Novelli. Pier Vincenzo De Luca. Nicola Del Vecchio, fra Giovanni Pantaleo, Giuseppe Migliorini e Giovanni Bovio. Avevano due gravi colpe agli occhi dei consorti: pensare col proprio cervello; essere gelosi della propria dignità. Li perseguitarono. Negarono loro ogni mezzo di vivere lavorando. Volevano spegnerli tutti, e ne spensero cinque. Novelli, De Luca, Pantaleo. Migliorini, Del Vecchio, morirono di fame e di stenti. 11 povero Del Vecchio, che pure aveva un istituto, non ne ritraeva che L. 125 al mese. Non lo lasciarono un momento in pace. Egli si vide morire. Migliorini finì i suoi giorni all'ospedale. Ivi andarono a prenderlo i pochi amici, e lo portarono, a proprie spese, al cimitero. Ahimè! anche la bara non volle esser benigna al povero morto. Essa era troppo corta, sì che i piedi del misero penzolavano al di fuori. Sul feretro furono pronunziati commoventi discorsi. Bovio dette l'ultimo vale all'estinto amico. Egli fu sublime e fece piangere. Pianse financo Avezzana, il vecchio fiero e ferreo!

Poveri e negletti quei sei valorosi sorreggevansi e aiutavansi a vicenda nell'aspra battaglia. Bovio, quando i magri guadagni dell'insegnamento glielo permettevano, riuniva i cinque amici alla sua casa, e insieme desinavano. Allora un raggio di letizia rischiarava quelle fronti maschie e severe. Quei forti si sentivano fratelli, ed erano orgogliosi che l'uno pensasse all'altro, e non sapesse godere i pochi istanti di pace senza dividerli col compagno. Erano quelle le feste sante della

Miseria e dell'Intelligenza! Feste fugaci anch'esse! Dei sei amici cinque morirono anzi tempo. Erano giovani e forti; erano baldi e fieri. E caddero. Caddera nobilmente ravvolti fra le pieghe della bandiera Lavoro e Libertà!

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Il solo Bovio, più vigoroso e più fortunato, sopravvisse ai compagni. Egli divenne presto l'enfant gate il beniamino dei giovani, e, nel tempo stesso, il cauchemar, lo spauracchio dei moderati. La sua cattedra si trasformò in tribuna — una tribuna, però, grave, decente, solenne. Il povero professore, che nel 1861, si era visto, a Trani, abbandonato dai suoi alunni perché scomunicato, dopo tre lustri vedeva accorrere alle sue lezioni gli studenti di tutte le Provincie meridionali e di tutte le Facoltà. Il nome di Bovio entusiasmava, elettrizzava la gioventù. Contemporaneamente il Bovio scriveva nel giornale la Spira, e i suoi articoli erano letti avidamente.

Oggi, come professore, egli continua a godere il favore della gioventù studiosa. La sua cattedra è sempre affollata, e non di soli studenti, ma ancora di uomini già entrati nel mondo degli affari. Financo i preti vi fanno atto di presenza. Bovio ha una maniera d'insegnare larga e sintetica. Non scende fino ai giovani, ma cerca di elevare i giovani sino alla sua persona. Ragiona, ma non discute. Afferma, ma non dimostra. L'umanità, la patria, la scienza, la libertà sono i fari, verso cui egli cerca di tener rivolti gli occhi intellettuali dei discepoli. Ne deriva che dalla sua cattedra si esce con l'animo sollevato in più spirabil aere, ma difficilmente con la mente convinta. Lo studente non saprebbe ripetere ad altri il ragionamento udito dal professore. Questo e un difetto dei modo d'inegnare del Bovio, aggravato dalla tendenza di adoperare formoli nebulose, sebbene espresse in una forma chiara.

50 CAPO TERZO

I lavori principali finora pubblicati dai Bovio sono i seguenti: Sistema di filosofia universale: Scienza del Diritto: Storia del Diritto in Italia: Saggio critico del Diritto penale e del nuovo fondamento etico: Sistema della filosofia: Scritti filosofici. Itinerari e politici. Fra i lavori politici il più noto e fortunato e stato quello sugli Uomini e Tempi, nel quale il Bovio giudica con rara imparzialità, sii attori e gli autori dell'Italia presente. L ritratto di Vittorio Emanuele e quale avrebbe potuto farlo un monarchico spassionato. Nello scorso anno dette il Bovio alle stampe un bozzetto drammatico intitolato: Cristo alla  festa di Purim. In esso l'autore, facendo tesoro degli studi di Salvador. Renan. Strauss e altri. lascia che la figura di Giuda metta nell'ombra quella di Cristo. L'ambiente. in mezzo al quale si svolge Fazione drammatica abbastanza fiacca; è saturo di calda fantasia. Però questa è più calda che originale: e forse l'idea dei lavoro surse nel Bovio dalla lettura delle Memorie di Giuda del Petruccelli. Frattanto egli prepara la sua opera magistrale sul Naturalismo e uno studio sovra San Paolo.

Alla Camera Tom Bovio, quantunque faccia parte dell'Estrema Sinistra, è amato e stimato dai colleghi di tutti i partiti. Il più accanito conservatore rimarrebbe dispiaciuto, se vedesse il Bovio lasciato fuori del Parlamento. La rivoluzione dei quarto stato, vista attraverso un discorso del Bovio, non spaventa tanto. Allorquando, per ragioni finanziarie, il Bovio, in cui

l'onestà è pari all’ingegno, mandò le sue dimissioni da deputato, nella Camera si levò un grido unanime per non accettarle. La sera stessa l'on. De Zerbi scriveva nel Piccolo nobilissime parole.

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La moderazione dei giudizi è nel Bovio effetto della gentilezza dell'animo. Bovio è nemico del chiasso e dello scandalo. Sdegna l'attacco violento e plebeo. Odia il sistema delle insinuazioni, e non l'adopererebbe neanche contro il suo più fiero avversario. Sette od otto anni fa, il Petruccelli, avendo scritto nel Pungolo di Napoli un profilo biografico di Depretis, invitò il Bovio, che con lui trovavasi a Montecitorio, a leggerlo. Bovio lo lesse, e francamente disse al Petruccelli ch'egli non sapeva né poteva elogiarlo per le basse accuse dirette contro il vecchio Presidente del Consiglio. Un deputato piemontese, amico intimo del Depretis, udì le generose parole, e le riferì al vecchio ministro. Depretis rimase commosso di una difesa sì nobile ed insperata. Volle vedere il Bovio, e personalmente lo ringraziò di quanto aveva saputo dire in risposta al Petruccelli.

In altre due occasioni l'on. Depretis dette prova della sua stima per Bovio. Era il tempo in cui a Roma avevano libero corso la letteratura pornografica e le pubblicazioni dello Sbarbaro. Un giorno l'onorevole Depretis, parlandone 1 col Bovio, se ne mostrò dolente. Bovio, pigliando la palla al balzo, gli fece balenare alla mente l'idea di una cattedra dantesca. Con lo studio di Dante si sarebbe posto un argine all'invadente corruzione, ritemprando gli animi degli italiani. L'idea piacque al Depretis, che consigliò al Bovio di farne obbietto di un progetto di legge. Gli promise all'uopo tutto il suo appoggio. Bovio presentò il progetto, e Depretis mantenne la promessa.

Molti furono gli ostacoli che il Presidente del Consiglio dové superare, specialmente in Corte; ma, infine, vinse la puntaglia.

52 CAPO TERZO

Poco tempo dopo il Depretis dette una nuova attestazione della stima che aveva pel professore napoletano. Sbarbaro aveva pubblicato il suo famoso libro: Regina o Repubblica. In questo libro, supponendo l'esistenza della repubblica in Italia, lo Sbarbaro metteva in bocca al Bovio, nel processo contro la regina, un fiero discorso concludente per la condanna a morte dell'augusta accusata. Una sera in una riunione di Corte, il Depretis fu avvicinato dalla Regina, la quale, sorridendo, gli domandò se davvero il Bovio fosse quel feroce uomo che lo Sbarbaro aveva dipinto nel suo libro. Depretis non volle sentir altro, e protestò energicamente contro la gratuita ed odiosa supposizione dello Sbarbaro, concludendo:Maestà, Bovio è un gentiluomo!»

In Parlamento Bovio ha un posto a parte. Egli non lavora negli uffici né nelle commissioni. Nell'aula non piglia la parola ogni giorno, né su qualunque quistione. Si riserva, invece, per le giornate campali. Egli è l'oratore delle grandi occasioni. È tipo di tribuno, ma non del tribuno tradizionale. Il tribuno tradizionale è l'uomo delle grandi frasi, dalla parola violenta, villana, impetuosa, dal porgere convulso e incomposto: es. Mirabeau, O'Connell, Gambetta. Il tribuno tradizionale è plateale nel pensiero, plebeo nella forma. Egli si serve di un linguaggio volgare per lusingare i bassi istinti del popolo, e così farsi intendere, approvare ed applaudirà Non avendo fede nel giudizio degli uditori, parla ai loro pregiudizi. O'Connell, che dava il braccio all'habitué delle taverne, non ometteva nei suoi discorsi la preghiera religiosa, e una volta, mentre parlava contro gli inglesi, si mise a recitare il rosario, Bovio, al contrario, è un tribuno di nuovo genere. Egli ha le grandi frasi, ma ha pure le grandi idee.

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Quando il cuore glielo impone, egli pure non sa resistere all'impeto tumultuoso degli affetti, e pronunzia, senza affettazione o posa, parole calde, concitate, appassionate. Di solito, però, Bovio è calmo e freddo — ma di una freddezza maestosa, di una calma imponente. E un tribuno ben educato e nemico delle personalità. I tribuni, per lo più, mancano di buon senso, e talvolta di senso comune. Bovio, al contrario, è il buon senso personificato, e, appunto per ciò, urta il senso comune della maggioranza. Egli è armonia, misura, equazione; eppure, non lo si può chiamare uomo pratico. Egli è un esempio luminoso della natura originale dell’ingegno meridionale; ingegno, in cui la facoltà di astrazione, propria dei tedeschi, si sposa mirabilmente al positivismo latino.

Brofferio era un altro tribuno differente dal tipo tradizionale. Come Bovio, egli rispettava il Galateo, e dilettavasi della celia senza fiele Brofferio, però, era poeta, mentre Bovio è filosofo. L'uno, impetuoso e veemente; l'altro, calmo e maestoso? Brofferio lanciava nell'aula quei lunghi periodi, pieni di calore e di entusiasmo, che sembravano inni in prosa. Bovio ha un periodo meno abbondante di parole, ma ha più facile la vena delle frasi scultorie. Brofferio improvvisava spesso i suoi discorsi, ma, non rare volte, la frase sonora copriva la vacuità dell'idea, e l'avvocato criminale pigliava la mano all'artista; Bovio, all'opposto, prepara i suoi discorsi, e ogni parola che pronunzia riveste un pensiero su Brofferio, non altrimenti che Bovio, ricorreva alla Storia;

54 CAPO TERZO

ma nell'uno il fatto storico spariva nell'aneddoto, nell'altro si eleva a dignità di principio. Quegli amava di diffondersi e di divagare; questi è portato dall'indole e dagli studi a condensare. L'analisi ammiravasi nel primo; la sintesi si pregia nel secondo. I discorsi di Brofferio erano quadri parlati; quelli di Bovio sono colpi di scalpello.

Il paradosso è un'altra nota caratteristica dei discorsi dell'on. Bovio. Per questo riguardo, come pure per qualche concetto nebuloso e per l'analogia delle rispettive dottrine filosofiche, Bovio fa pensare a Giuseppe Ferrari.

I successi oratorii del Bovio sono aumentati dai pregi fisici. Di statura giusta, di aspetto regolare e simpatico, di costituzione forte ed ossuta, egli ha voce potente, rimbombante, cavernosa, e un porgere corretto e dignitoso. Posa da Sibilla cumana. Coll'indice teso par che voglia sfidare il Fato od evocare il responso dell’avvenire. O1 Connell aveva lo sguardo obliquo. Bovio lo ha limpido e sereno; ma, nella concitazione degli affetti, i suoi occhi mandano lampi di sdegno, e diventano foschi e severi. Il nero pizzo che ne adorna il mento, contribuisce a rendere più imponente la persona dell'oratore. Bovio lo sa, e se ne giova. Così avviene che, quando vuole eccitare maggiormente la curiosità e l'attenzione degli uditori, fa una pausa e con la sinistra mano si carezza il pizzo.

Tutti allora aspettano, con interesse, che cosa dovrà uscire da questa contemplazione. Spesso l'aspettazione non resta delusa, perché la frase, che l'oratore pronunzia ripigliando a discorrere, è davvero bella ed originale.

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Però, qualche volta, si resta disillusi, perché la frase è povera e scolorita, e riveste un pensiero già espresso per lo innanzi. Questo fatto, verificatosi più di una volta, fa sospettare che il pizzo serva al l'on. Bovio come un bel mezzo per pigliar tempo a pensare o a trovare la parola, quando il pensiero o la favella non gli ubbidiscono prontamente. Così il pizzo gli servirebbe non altrimenti che la tosse ser |. viva al conte di Cavour e a Fox, il tagliacarte al Depretis, lo sputare ad altri oratori.

Ma, checché sia di ciò, egli è certo che, quando l'on. Bovio è di vena e l'occasione glielo permette, pochi oratori sanno e possono parlare come lui. Nel febbraio 1883, pigliando la parola per rispondere al l'on. Bonghi, il Bovio, dimenticando la sua persona e quella dell'avversario, si elevò in una sfera superiore, e invocò il ritorno del libero insegnamento. Filosofo, parlò come un artista; pensatore, parlò come un poeta. Sentite la conclusione del suo discorso, la quale sarà pure la migliore conclusione del suo profilo n

«Non vogliamo contatti velenosi: vogliamo quello ) che avevamo: la libera dottrina, la libera parola; e quei giovani che venivano e studiavano non per l'esame, ma per la scienza, e che cercavano non soltanto un impiego, ma se medesimi, una patria onorata ed una coltura degna di un gran paese. Restituiteci questo che fu grande e fu buono; restituiteci la serenità della mente, impossibile dove la concorrenza ci abbassa e ci umilia; restituiteci la fierezza della coscienza, senza la quale la scienza è una menzogna, la libertà un'ipocrisia.

56 CAPO TERZO

Questo era nostro: ci dava lavoro, onore e pane: ce lo avete levato. Voi dovete restituircelo; voi dovete risparmiare all'Italia la possibilità di ritornare ad una discussione parlamentare così tormentosa ed umiliante. Ad altri i titoli, i ciondoli, gl'impieghi. Noi vogliamo libero pensiero e libero lavoro.» Sembra il lamento di Fausto che invoca l'amore' e la perduta giovinezza!

Un altro forte campione dell'Estrema Sinistra è l'on. Giuseppe Marcora. Marcora nacque a Milano nel 1841, e i suoi genitori furono Giuseppe e Paolina Civelli, sorella dell'illustre tipografo, e donna adorna di eletto ingegno e di virtù preclare. Il padre del Marcora era esimio educatore in un pio istituto, e si distinse ancora come autore di opere didattiche tuttora in pregio. Entrambi di sentimenti liberali e patriottici, i genitori del Marcora educarono il figliuolo, fin dall'infanzia, al sacro amore della patria.

Fino ai principii del 1859 il giovanetto frequentò il ginnasio liceo di P. Nova. La scuola fu la continuazione della casa. I maestri seguitarono l'opera di educazione liberale incominciata dai genitori. Assiduostudioso, il Marcora manifestò fin d'allora il suo forte ingegno, sì che non gli mancarono particolari distinzioni scolastiche.

Avvicinatasi, intanto, l'anno fatidico, la grande annee del 1859. Il giovane Marcora, che già si era distinto con altri compagni nelle dimostrazioni politiche, pensò infine, che il tempo era venuto di sostituire le dimostrazioni armate a quelle parlate. Emigrò, quindi, durante il mese di febbraio, e se ne venne in Piemonte.

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Si arruolò volontario nel secondo reggimento dei Cacciatori delle Alpi, comandato dal Medici, ed ebbe per suo comandante immediato Benedetto Cairoli, col quale contrasse subito indelebile amicizia. Combatté valorosamente a Varese, a San Ferino, a Rezzate, allo Stelvio. Conosciuto Giuseppe Garibaldi, ne acquistò presto la stima e l'affetto. Il generale, che ne aveva sperimentato non solo il valore di soldato ma anche l'acutezza della mente, lo scelse, in seguito, come suo avvocato nella difesa dei suoi diritti di proprietà letteraria pei varii romanzi che scrisse.

Dopo la campagna del 1859, il Marcora s'iscrisse come studente all'Università di Pavia, e s'iscrisse con temporaneamente alla Facoltà di giurisprudenza e a quella di medicina. Egli è che, mentre i parenti ne volevano fare un avvocato, il Marcora desiderava diventare un medico. Noi non sappiamo se il Marcora sarebbe divenuto un illustre discepolo di Galeno. Certo si è che è diventato un illustre avvocato, e bisogna perciò riconoscere che i suoi genitori non mancassero di perspicacia.

Non stette molto a Pavia l'ardente giovine; perché nel mese di aprile del 1860, sparsasi per l'Italia la notizia della rivoluzione siciliana, egli, insieme ad Enrico Cairoli e ad altri, accorse a Genova. Ivi giunti, seppero che la rivoluzione era stata soffocata; laonde il Marcora, visto che non si pensava ad una spedizione nell'isola, tornò momentaneamente a Pavia. La troppa precipitazione nocque ai suoi desiderii. Infatti mentre egli faceva ritorno a Pavia, e di là andava a Milano per raccogliere danaro, la spedizione dei Mille faceva partenza dallo scoglio di Quarto.

58 CAPO TERZO

Non è a dire come restasse desolato il povero giovine! Pure, ebbe presto motivo di confortarsi, quando seppe che pro gettavasi una seconda spedizione. Con febbrile attività, egli si diede a raccogliere danaro e compagni. Dopo pochi giorni condusse al generale Medici circa quattrocento volontari fra studenti e cittadini pavesi. Ricevette il grado di sergente, a cui già era pervenuto nel 1859. Sbarcò a Castellammare, e, dopo varie vicende, prese parte alla battaglia di Milazzo, nella quale spiegò tanto valore da meritare la promozione a sotto tenente. Con la divisione Medici passò sul continente, e partecipò a tutti i combattimenti di quella campagna. Pugnò alla famosa e decisiva battaglia del 1° ottobre, e fu promosso luogotenente. Sino alla fine della guerra il Marcora comandò una compagnia di volontari della Basilicata.

Prima di abbandonare il servizio militare, il Maricora si presentò agli esami universitari in Napoli, e ottenne la laurea in legge. Egli era, dunque, avvocato. Pure, conosceva di non aver fatto sufficientemente i suoi studi; epperò, con rara modestia, appena tornato a Pavia, vi fece un completo studio di diritto, e si laureò novellamente in Giurisprudenza nel 1863. In quell'occasione pubblicò una monografia intitolata: Teorica dello Stato. Questa monografia, lodata assai dagli Annali universali di Statistica, dalla lìevue germanique e da altri periodici, doveva formare la parte generale di un intero trattato di Filosofia del Diritto pubblico e privato che l'autore, per le cure professionali, non ha più pubblicato.

Dopo il 1863, l'on. Marcora si diede ad esercitare la professione di avvocato.

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Dotto ed eloquente, egli mise la sua parola a servizio dei giornali e degli uomini politici processati dal Governo di Destra. Nel frattempo collaborava nell'Italia, giornale di Mazzini, e nel Repertorio amministrativo, periodico di pubblica amministrazione.

I pensieri della vita e le occupazioni professionali non lo distolsero dalla politica attiva. In lui l'ardente volontario del 59 e del 60 era sempre vivo, e faceva, di tanto in tanto, capolino attraverso l'avvocato. Marcora ebbe mano in tutti i tentativi per la liberazione del Veneto e del Trentino e nei lavori del Comitato di Azione, il quale preparava in quelle Provincie la rivoluzione del 1864, non riuscita per imprudenza o tradimento. Nel 1866 si arruolò nuovamente fra i volontari, e propriamente nel terzo reggimento comandato dal colonnello Bruzzesi. Combattette valorosamente in tutta la Campagna del Trentino, distinguendosi in articolar modo nei fatti d'arme del 3, del 7 e del 10 luglio. Su proposta di Garibaldi, ebbe la medaglia al valor militare e fu incaricato delle funzioni di capo di stato maggiore della brigata Corte. Fu, infine, promosso a capitano; ma, avendo mandato contemporaneamente le sue dimissioni, non ebbe il decreto ufficiale di nomina. Ritornato alle occupazioni del Foro, il Marcora, per incarico del Mazzini, andò al 13° Congresso delle Società operaie. In quest'occasione sostenne fiera ed animata discussione cogl'Internazionalisti, ma, infine, riuscì a far prevalere le sue proposte, concertate precedentemente col Maestro genovese.

Nel 1873 sposò una signora impareggiabile; però le cure del pater familias non lo distrassero dal suo ideale democratico, che continuò ed aleggiargli nella mente.

60 CAPO TERZO

Propostagli nel 1874 la candidatura del quinto collegio di Milano, egli non l'accettò. L'accettò, invece, nel 1876, e fu eletto deputato. Venuto alla Camera, andò a sedere all'Estrema Sinistra, e con Bertani si cooperò per dare a questo gruppo una fisionomia particolare, sì da non farlo confondere con la Sinistra monarchica. Alla Camera rivelò presto attività ed attitudini politiche; cosicché i colleghi lo scelsero a componente di varie commissioni, fra cui quella del nuovo Codice penale, e l'altra della riforma del regolamento della Camera.

Né solo nelle commissioni e negli uffici, ma ancora nelle pubbliche discussioni l'on. Marcora dimostrò la vigoria del suo intelletto, la serietà della sua coltura e l'efficacia della sua eloquenza. Interrogò il Ministero sull'arresto di alcuni italiani nel Trentino, parlò sul progetto di legge per la dotazione della Corona, propose emendamenti al bill sullo stato degli impiegati e a quello per l'aumento degli stipendi del personale giudiziario. Notevole specialmente fu il discorso, col quale svolse un ordine del giorno per avocare allo Stato l'insegnamento primario. Egli giustificò questa proposta (firmata pure da Pellegrino, Antongini, Maver, Cadenazzi, Patrizi, Ronchetti, Maiocchi, Mussi e Friscia) con la seguente dichiarazione:Democrazia non significa contraddizione con l'azione vigorosa dello Stato. Sovratutto, poi, io penso che la cura dei bisogni assolutamente nazionali, e fra questi è la istruzione dei cittadini, non sia attributo di attività individuale.»

Lo confesso: Questa dichiarazione, fatta da un uomo di molto valore e appartenente all'Estrema Sinistra, mi sorprende.

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I veri democratici dovrebbero propugnare la necessità di garantire la libertà dell'individuo, non già di legarne le mani, affidando allo Stato il capo della corda. Ma — pur troppo! — la democrazia odierna ha le tendenze del despotismo illuminato. Del cesarismo essa ha, non dico lo scopo, ma l'istinto.

Ho già sopra accennato alla lotta che, nel 1871, dové il Marcora sostenere cogli Internazionalisti nel Congresso delle associazioni operaie. Ora aggiungo che egli, sebbene radicale, non è uno di quei democratici che inneggiano continuamente agli operai, creando in costoro l'illusione dell'onnipotenza. Marcora vuole il bene degli operai; ma desidera che il primato, l'egemonia politica rimanga sempre alla borghesia. Così, nel maggio 1886, in un discorso pronunziato innanzi ai suoi fedeli elettori di Milano, egli combattette il criterio secondo cui ogni singola classe sociale dovrebbe mandare in Parlamento il suo rappresentante. Ammettendo che vi potessero essere delle eccezioni, respinse l'idea in tesi generale. Chiamò traviati quei, cittadini che pensavano di scegliere un contadino, un industriale, un operaio qualunque a deputato, affinché l'agricoltura, l'industria e il lavoro meccanico avessero rispettivamente un rappresentante. Conchiuse:Il deputato deve avere il valore di trattare anche tutte le altre quistioni che riguardano gl'interessi generali di tutta la nazione; non dev'essere un semplice specialista.»

Come oratore parlamentare, l'on. Marcora non possiede il linguaggio immaginoso e brioso degli onorevoli Mussi e Cavallotti, ma ha l'argomentazione più stringente e vigorosa.

62 CAPO TERZO

I suoi discorsi sono uguali, misurati, pieni di buon senso ed ispirati ai principii della libertà e del diritto. La sua parola impone, perché frutto di profonde convinzioni. Se Bovio è il filosofo dell'Estrema Sinistra, Marcora ne è il giureconsulto. Marcora, oratore del diritto, serio e convinto, occupa sulla Montagna il posto che Zanardelli tiene nella Sinistra monarchica.

Simpatica figura è pure quella di Alessandro Fortis. Fortis è di Forlì, ed ha di poco superato i quarantanni. Di statura né alta né bassa, egli ha l'occhio limpido e sereno, il volto canonicale e la tendenza ad impinguare. Niente rivela in lui l'oratore della democrazia. Fortis è un democratico come Chamberlain, Dilke ed altri radicali britannici. In Inghilterra sarebbe già ministro. In Italia, dovrà percorrere la via gerarchica e attraversare un segretariato generale.

Di lui scrisse nella seguente maniera il Petruccelli poco dopo il 1880:Ha il tipo sabino ed il pallore di Cassio. Parola spigliata, chiara, esatta, frase giusta. Accento della voce insinuante e simpatico. Dice ciò che vuole, non più non meno, lo si voglia udire con benevolenza o con astio, gli si dia sulla voce o gli si mostrino i pugni. Crede nella sovranità del popolo. Non è federalista, ma non ha simpatia coll'accentra mento. Non ha antipatia dinastica. Ha forma, fibra, accento, volontà, audacia da tribuno — un tribuno ben educato, benché intransigente. Non prova emozione di sorta di fronte alle tempeste che suscitano gli avversari suoi. Non si fa imporre. È radicale — della specie ortodossa e fedele al giuramento prestato: ciò basta. Fortis ha la stoffa solenne della terza riscossa della Sinistra. E questa avrà luogo, quando l'ora della democrazia socialista scoccherà.»

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Questo ritratto è in gran parte esatto, ma in certi punti è paradossale, e in qualcuno è addirittura falso. Così quel pallore di Cassio è tanto fuor di posto sul volto di Fortis, quanto sul viso di un ben pasciuto parroco.

Fortis appartiene ad una famiglia di discreta condizione economica. Fece parte della spedizione di Mentana, e al ritorno in Romagna, si distinse fra le teste calde. Fu uno degli arrestati di Villa Ruffi.

Fatta la pratica forense col Regnoli, Fortis cominciò ad esercitare la professione di avvocato. È civilista e penalista. Però manca di profondità. Non ha mica la stoffa del giureconsulto. Nelle discussioni forensi la parola non gli viene facile. Talvolta si ripete nelle frasi e nelle idee. In quest'anno, innanzi alla Corte d'Appello di Napoli, nella causa d'Avalos, venne meno alla generale aspettazione. Attaccato piuttosto con asprezza dal suo avversario Orilia, egli parve fiacco e debole nella replica.

Alla Camera, l'on. Fortis è tutt'altro oratore. Non è già che egli sia un oratore nel vero senso della parola, mancandogli la vis divina. Però nell'aula parlamentare, più che nell'aula di giustizia, è un parlatore felice. Col tempo e con un po' di pratica ministeriale, Fortis diverrà il tipo del débater.

L'onorevole deputato di Forlì non ha un animo volgare. Se la monarchia italiana avesse continuato nel sistema degli arresti di Villa Ruffi, Fortis, a quest'ora, non sarebbe candidato al segretariato di Stato dell'interno, ma inveirebbe in Parlamento contro i soprusi governativi. Se Re Umberto avesse imitato i Borboni della seconda Restaurazione, Fortis avrebbe, a sua volta, imitato il celebre Manuel,

64 CAPO TERZO

e alla fine si sarebbe fatto espellere dalla Camera. Manuel, che veniva ed è considerato come un repubblicano, era invece contento del Governo monarchicocostituzionale, e se divenne antidinastico per gli eccessi reazionarii di Villèle, non divenne del pari antimonarchico. Eppure Manuel, se in Francia non fosse stato troncato il governo moderato del Centro, avrebbe finito coll'amare i Borboni e sarebbe stato nominato ministro. La contraria fortuna volle che fosse cacciato dalla Camera, e morisse negletto e sconsolato. Ora, lo stesso sarebbe avvenuto di Fortis, se i ministri del regno d'Italia avessero imitato quelli della Restaurazione francese. Quelle medesime circostanze che, verificatesi in Francia, fecero di Manuel un antidinastico ed un martire, non essendosi realizzate in Italia, hanno fatto di Fortis un uomo devoto a Casa Savoia e un candidato al Ministero. Manuel e Fortis, ecco due nomi che ho collegati non per smania di paragoni storici, ma per evidenza di analogia. Il loro avvicinamento non è casuale ma causale. In entrambi voi scorgete la stessa calma, la medesima logica, l'identico ardore compresso, che, se scatta talvolta come molla, non esplode giammai come mina. Ambidue non amano le grosse frasi; ambidue non hanno le grandi idee. L'uno e l'altro non giureconsulti, ma avvocati di gran nome; non tribuni, ma parlatori valenti. In Manuel la parola è più facile, in Fortis è più pronta la percezione. Non v' è brio, non v'è verve, nei loro discorsi. Nelle loro orazioni mancano l'ispirazione poetica, le reminiscenze classiche, le alte vedute filosofiche. Entrambi, però, sono felicissimi nelle repliche e nelle reparties, e forniti, ad esuberanza, dell'arte del tattico parlamentare.

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Pure, questi uomini così simili hanno avuto destini abbastanza dissimili. I tempi spiegano tutto. Manuel nacque troppo presto; Fortis è nato all'ora giusta. L'uno fu un Fortis anticipato, l'altro è un Manuel maturato.

I discorsi di Fortis sono tutti abili. L'oratore dice! e non dice: mostra la spada, ma non l'usa; minaccia, i ma non aggredisce. Il suo più felice discorso fu quello del maggio 1883 a proposito dell'interpellanza Nico tera. Allora battagliò con Depretis, e, a giudizio di molti uomini politici e di parecchi valenti pubblicisti, fra i quali il Peruzzi, non rimase vinto. A proposito dell'indirizzo di risposta al discorso della Corona, Fortis pronunziò nel 15 giugno 1886 un'orazione eloquentissima. Egli parlò con garbo di gentiluomo, con sentimento d'italiano, con finezza di statista, con riserbo di diplomatico. Biasimò l'inazione della nostra politica africana, ed ebbe per la debolezza della nostra politica estera in Europa tali parole di amarezza quali non erano state, per lo innanzi, pronunziate se non da Rocco De Zerbi.

Fiero e generoso fu ancora il discorso fatto alla Camera, allorché il Ministero chiese nuovi fondi finanziarli per vendicare l'eccidio di Dogali. Fortis parlò come nelle grandi occasioni sanno parlare gli uomini di cuore e di mente. Arringava dai banchi dell'Estrema Sinistra, ma poteva ugualmente arringare da quelli dell'Estrema Destra. E non meno felice fu l'orazione del 23 aprile 1887 per la petizione Cipriani. Abile e misurato, l'oratore parlò in maniera calma, sebbene non fredda. Le idee da lui esposte sembrarono non solo giuste, ma ancora opportune. La forma non fu aggressiva, ma cortese. Insomma un discorso-ministro.

66 CAPO TERZO

Anche in quest'ultima occasione il Fortis seppe, con rispetto non scompagnato da dignità, accettare le osservazioni del presidente Biancheri, e con meravigliosa prontezza sostituire ad una parola troppo violenta un'altra meno vivace. Così egli non ebbe difficoltà di qualificare come errore e non più come ingiustizia la sentenza di condanna del Cipriani. In questa schermaglia di parole rasentanti il Galateo parlamentare, Fortis aveva cominciato ad addestrarsi col precedente Speeker, on. Farini. Allora avveniva spesso che il Farini richiamasse il suo compatriota romagnolo ad un linguaggio più calmo, e il Fortis senza scusarsi né ribellarsi, attenuasse semplicemente la sua frase, quasi volesse dire: Non fo questioni di parole. Mi basta che mi abbiate compreso.

Parlando di Fortis, non si può tacere della sua recente evoluzione in senso monarchico. Fortis è, oramai, un convertito. La cosa era prevedibile. Dopo le quattro precedenti evoluzioni da me menzionate, ecco la quinta secessione dell'Estrema Sinistra dal tempio repubblicano. — E questo un bene o un male? Merita il Fortis biasimo o lode? — Senza rimetterla ai posteri, io darò la non ardua sentenza.

Certi avvenimenti non si possono deplorare né encomiare. Succedono fatalmente. Da parecchi anni si prevedeva una scissura nell'Estrema Sinistra qualora si verificasse l'ipotesi dell'ascensione al potere di un ministro radicaleggiante. L'ipotesi, alfine, si verificò.

Crispi apparve come il Redentore dei radicali dall'ostracismo, a cui li aveva condannati il Governo di Depretis.

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Crispi prometteva di non smentire il suo passato democratico, e subito una mezza dozzina di onorevoli semirepubblicani gl'ipotecavano il loro avvenire. Radicali per posizione alcuni, per elezione altri, 1 fecero tutti di cappello al Crispi, radicale dì tradizione.

L'avvenimento, quindi, non dev'essere discusso; basta che sia constatato. Sono, invece, gli uomini che, pel modo come vi hanno preso parte, possono meritare lode o censura. Orbene — sia eletto senza offesa — la velocità e la elasticità, con le quali il Fortis ha saltato il fosso, hanno destato non poca meraviglia nel rispettabile pubblico e nell'inclita sottintesa. Il salto mortale, con cui dalla montagna è venuto a cadere in vicinanza del banco ministeriale, è sembrato chic solamente agli ammiratori dell'acrobatismo politico.

Libero il Fortis di mutare opinione da un giorno all'altro, ma la sua conversione non doveva coincidere con la sua promozione. I repentini cambiamenti atmosferici danneggiano la salute; e chi per molto tempo ha passato la sua vita sulla Montagna, non potrà sentirsi a suo bell'agio respirando di botto l'aria della Pianura.

Del resto, questa è cosa secondaria. La cosa principale sta nell'esaminare il problema dal punto di vista monarchico, sta, cioè, nel vedere se il salto del l'on. Fortis abbia fatto o possa fare bene alla monarchia.

La maggioranza dei monarchici crede di sì. Io credo di no. So bene che non bisogna mettersi in urto con Sua Maestà la maggioranza. È una Maestà assoluta, intrattabile ed intollerante.

68 CAPO TERZO

Essa si crede infallibile come Pio IX prima della breccia della Porta omonima, e come la Porta (non il deputato) di Costantinopoli, quando giura di non tenere un quattrino per pagare gl'impiegati. Ciò non pertanto, io oso contraddire alla Maestà sullodata. e sostenere che la conversione di Fortis alla monarchia, massime se accompagnata dal l'ascensione al banco ministeriale, non farà alcun bene alla Casa di Savoja. Perché, o in Italia esiste un vera partito repubblicano, o non esiste, Se non esiste, è inutile chiedere ed ottenere l'amplesso di un battaglione di capitani senza soldati. Se poi esiste, si avrà semplicemente l'illusione, ma non la realtà dell'amor bi mento del partito antimonarchico. La conversione del leader di un partito giova sol quando avviene nell'ora del pericolo imminente. Fatta prima, non giova a nessuno. Diventato Fortis un monarchico puro e semplice, sia pure col belletto rosso se non col berretto idem, perderà presto tutta l'influenza esercitata per lo innanzi, nel partito, ed il suo posto verrà occupato da altri dotati di minori scrupoli e di più scarsa moderazione. La politica, non altrimenti che la natura, ha orrore del vuoto.

E vano, è illusorio sperare che Fortis possa, nel tempo medesimo, essere un consigliere della Corona e un duce dei repubblicani. Moderando le sue opinioni politiche, non potrà più moderare le passioni dei suoi examici. È stato un errore l'aver incoraggiato il Fortis nel suo movimento di changement de dame. Era meglio riservare integra quella forza per Fora del pericolo. Usandola oggi, la si è sciupata in parte e la si sciuperà totalmente.

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Se s'interroga la Storia, che quel paglietta portentoso di Cicerone aveva la melanconia di chiamare la maestra della vita, si avrà un responso confortante la mia noiosa tesi. Mirabeau, se Madama Morte non lo avesse rapito alle donne e ai fiori, avrebbe forse salvato Luigi XVI, o per lo meno avrebbe impedito che, insieme alla corona dalla testa del re, cadesse pure la testa dal busto dell'uomo. Ma egli non avrebbe avuto questa potenzialità di guastare il mestiere a monsieur Sanson, il boja della Rivoluzione, se agli amori monarchici si fosse abbandonato prima della riunione degli Stati generali. Strafford, il celebre ministro inglese, non sarebbe morto sul patibolo e avrebbe impedito a Carlo I di commettere la stessa corbelleria, se per diventar codino avesse avuto minor fretta. Se Strafford fosse rimasto per un altro po' di tempo a capo dell'Opposizione, e se solamente nel quarto d'ora del pericolo avesse cominciato la sua promenade verso la Corte, egli avrebbe assicurato il trionfo del Trono, e reso impossibile la venuta di Cromwell. — Il generale Monk, che richiamò in Inghilterra Carlo II, non sarebbe stato in grado di far passare la Manica al figlio del re decollato, se fino al momento psicologico non avesse continuato a dirsi repubblicano. Se si fosse immaturamente rivelato partigiano degli Stuart, gli avrebbero tolto il comando dell'esercito, e col comando dell'esercito la possibilità di fare quel prodigioso tour de main attraverso la Manica, per cui il re in esilio cessò di essere nel medesimo. E venendo ad esempi più recenti e più latini — che cosa giovò a Napoleone III la chiamata di Emilio Ollivier al potere? Ollivier stava alla testa dell'opposizione liberale parlamentare.

70 CAPO TERZO

Napoleone lo volle ministro, e credette di aver così sgominato l'opposizione. Illusione! Egli non riuscì neanche a sgomentarla. Ollivier fu gridato traditore dai suoi, e la sua voce, che, per lo innanzi aveva avuto un' eco di simpatia nel paese, dopo, non sollevò che un'eco di maledizioni. Ollivier, se fosse stato chiamato al governo, non quando il pericolo mancava, ma solamente il giorno prima della guerra del 1870, o Fin domani della prima sconfitta, avrebbe portato all'Impero tutto il prestigio della sua popolarità, e impedito o per lo meno ritardato il parto cesareo della Repubblica.

Rammentando Ollivier, io non ho voluto far torto all'on. Fortis. Ollivier fu quasi sedotto dalle moine femminili dell'entourage di Napoleone III. Egli debuttò nella parte di Rabagas con un notturno e secreto colloquio nel castello di Choisy, dove la visita all'imperatore fu preceduta dalla vista della contessa di Morny, la quale, lusingando l'amor proprio del famoso democratico, osservò che un uomo di tanto talento come l'Ollivier avesse torto marcio di stare in compagnia di rompicolli, e di portare la cravatta di color rosso e con un nodo punto chic. Emilio Ollivier

fu sedotto, conquistato. L'eterno femminile reale gli fece adorare il temporaneo maschile imperiale.

Per Fortis, invece, sono mancati questi mezzucci. Il nodo della sua cravatta non è stato sciolto e rifatto da nessuna mano profumata, ned egli ha avuto secreti e notturni rendezvous in castelli o foreste. Fortis si è convertito perché... Fora sua era giunta. Fortis sente in sé la vocazione ministeriale. Ed è stoffa di uomo di Stato. Su quei banchi dell'Estrema Sinistra si sciupava. Perché limitarsi al mestiere del critico, quando si può compiere un'opera d'arte?

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Ognuno porta con sé il suo destino. E Fortis è destinato ad essere Presidente del Consiglio. Se la monarchia dovrà perire, non sarà certo il Fortis che la potrà salvare. L'Italia, però, guadagnerà un buon ministro parlamentare.

Un altro dei numerosi comandanti in capo dell'Estrema Sinistra è l'on. Giuseppe Mussi. Mussi è nato a Milano, e non ha che cinquantadue anni. Possiede un ingegno svegliato e svogliato e una coltura polilaterale. E avvocato, ma non esercita la professione; è letterato, ma non ha scritto alcun libro degno di sfidare la polvere delle biblioteche e i denti dei topi. E stato giornalista, collaborando in varii periodici politici, come il Secolo, la Ragione, il Diritto, e in diverse riviste letterarie e scientifiche. È un ricco industriale ed un repubblicano ali 'acqua di rosa. Amico di Giuseppe Ferrari, egli è, forse, il solo che nella Camera ne rappresenti le idee. È federalista teorico, il quale, però, accetta l'unità come fatto compiuto, cercando di renderla più conforme al genio italiano mediante le autonomie locali.

Alla Camera l'on. Mussi non è dei più assidui. Viene sempre al terzo atto, cioè nelle sole grandi occasioni. Fa il deputato en grand seigneur. Tuttavia, quando viene, non manca di prender la parola, e quando parla, conquista subito non solo la solita e volgare attenzione generale, ma ancora l'ammirazione dei colleghi di buon gusto. Dotato di parola facile, simpatica, spigliata, egli sparge pel suo discorso ricordi storici, sfumature letterarie e nozioni scientifiche.

72 CAPO TERZO

Non sa urtar di fronte né flagellare. L'apostrofe zanardelliana non è lanciata mai dalle sue labbra: il sarcasmo feroce non sfugge mai dalla sua bocca. Il forte di Mussi sta nelle immagini e nella celia, sicché egli, compenetrando le une nell'altra, usa la celia immaginosa — che è proprio la sua prerogativa oratoria. Ai Mussi mancano l'arditezza delle vedute di  Bovio, l'argomentazione serrata di Fortis. il ragionamento graduato e la serietà imponente di Marcora e del conte Ferrari, l'humoir di Petruccelli.

I discorsi di Mussi sono altrettanti avvenimenti parlamentari, dal punto di vista artistico. Notevole, fra gli altri, deve dirsi quello pronunziato il 29 aprile 1880 per deplorare la tardiva presentazione dei bilanci. Un discorsetto pieno di grazia e di spirito. Stupenda fu la relazione del bilancio dell'interno presentata dal Mussi nel 1879. Tutti gli oratori, che ne parlarono, la elogiarono, ad eccezione del marchese Pandolfi-Guttadauro. Cavallotti esordì dicendo: E una relazione arguta e dotta, poetica e brillante; è una delle più belle relazioni che siensi lette in questo genere

Egli ha rischiarato con un raggio di poesia l'uggiosa prosa del bilancio dell'interno. E l'onorevole ministro Depretis, allorché venne il suo turno, non fu meno cortese. Ecco le sue espressioni;L'onorevole Mussi ha fatto una relazione che io non esito a dichiarare perfetta; è un gioiello. Io non presumo di avere molta autorità; ma, deputato al Parlamento già da una lunga e non interrotta serie di anni, credo che non mi si vorrà negare un po' di gusto in questa materia, e dico che la relazione mi piace tanto per quello che il relatore dice, quanto per quello che non dice (Ilarità).

73 COLORI E VALORI

— C'è un velo di pudicizia giovanile, sotto il quale si scoprono i concetti (Ilarità); per modo che la si legge proprio volentieri.» Parecchi altri oratori parlarono sulla detta relazione, e l'onorevole Mussi, rispondendo loro, fece un discorso inarrivabile per brio e enjouement. Una corrente di buonumore, ogni tanto, si riversava sulla Camera.

L'on. Mussi disse che credeva anch'egli in una Trinità: la forza della ragione, la potenza della verità e la vigoria del carattere. L'on. Toscanelli. udendo questa novità teologica, non mancò di farsi la croce.

Rivolgendosi, poi, al Cavallotti, l'oratore radicale ne invocò la pazienza:Acquistiamo tutti e due, onorevole Cavallotti, la virtù della pazienza, e non rompiamo l'uovo. Da un uovo è nato il mondo, secondo gli antichi filosofi; e da un altro uovo può nascere qualche frutto di libertà... Qui il Mazzarella si credette in obbligo d'interrompere per fare quest'acuta osservazione:Dall'uovo nascono i polli!» — E il l Mussi, ripigliando la parola:Accettiamo anche i polli.» — Soddisfatto l'on. Mazzarella, il Mussi potè continuare a parlare. Egli combattette la proposta di Cavallotti, di non votare il bilancio. Il bilancio è il viatico dello Stato; ella dice che lo Stato è ammalato: sta bene, ordiniamo la dieta; ma un cibo conveniente è necessario.» E siccome lo stesso Cavallotti gli k aveva detto che egli, Mussi, se non era munito della medaglia di deputato, poteva essere mandato a domicilio coatto, l'oratore se ne offese quasi, e rispose con un po' di stizza:No, onorevole Cavallotti, io non sono stato mai condannato, né mi si può applicare l'art. 70 della legge sulla sicurezza pubblica perché, bene o male.

…col reddito dell'orto

Sbarco il mio lunario.

74 CAPO TERZO

Perciò neppure un Ministero di amici potrebbe mandarmi a Pianosa; dico un Ministero amico, perché dei Ministeri avversarli ho meno paura (Ilarità).» — Continuando ad esporre le sue idee. l'on. Mussi disse che dopo il bilancio finanziario era necessario che l'Italia avesse subito il pareggio economico. E passando ad esporre le sue tendenze semifederaliste, aggiunse: L'Italia potrà conservare l'unità se si saprà assicurarle florida vita locale. La varietà nell'unità è il carattere di tutta la nostra penisola. Guardatela nei suoi vulcani e nei suoi ghiacciai, nelle sue produzioni che confinano con quelle della zona torrida, e dànno la mano a quelle dell'estreme regioni del Nord. Il nostro paese è microcosmo: per costumi, per storia, per indole; non sforzate la natura, onorevoli amici; sappiate essere, a un tempo, unitarii senza rinunziare ai vantaggi di un discentramento quasi federale,» La chiusa del discorso fu felicissima. Mussi voleva esortare gli uomini della Sinistra a non dilaniarsi fra di loro, e a mettersi in guardia contro il ritorno della Destra. Scegliendo la forma di discorrere preferita da Cristo, l'oratore raccontò una parabola — la parabola di Miss Liberty. La riporto integralmente:Siamo in Inghilterra. Una bellissima miss, molto ricca, coltissima, adora dei bellissimi galli (si ride). Erano i galli più battaglieri che esistessero in tutti i felicissimi regni della Gran Bretagna.

75 COLORI E VALORI

Miss Liberty mandò i suoi galli ad una pugna. Questi si scontrarono con degli altri galli molto rispettabili, con un aspetto un po' canonicale (ilarità), più pesanti, meno ardenti. Questi ultimi appartenevano ad un Lord dei più distinti d'Inghilterra. Avvenne una prima battaglia, ed i galli di miss Liberty riportarono una splendida e completa vittoria. Immaginatevi quanto piacere per quella bella signorina! (si ride). Li adorò più di prima, i suoi galli! Ma il Lord domandò, per cortesia, la rivincita; e miss Liberty dovette accordarla. Ordinò, quindi, che i suoi galli fossero mandati nella città dove doveva seguire il combattimento. Ma vedete imprudenza! Quelli incaricati di spedire queste preziose bestiole, le misero in un solo scompartimento. Erano quei galli troppo vivaci ed irrequieti (ilarità). Sulle prime viaggiarono in pace. Ma, dopo qualche tempo, uno punzecchiò l'altro; un colpo alla cresta, un altro alla testa, ed in un momento i poveri galli sanguinarono da più parti. Visto il sangue, crebbe il furore. In un subito, fu una confusione generale, una lotta indemoniata. Giunti alla città, si portò avanti alla signorina la cesta che conteneva tutti questi poveri combattenti; si aperse, e orrore! la signorina vide che erano conciati in uno stato deplorevole. Quale provvedimento prese allora miss Liberty? Eh, qualche volta le donne sono crudeli; Li mandò diritto diritto in cucina, e li affidò alle amorose cure dei cuochi (viva ilarità). Onorevoli amici, prudentia docet. Ricordiamoci tutti, ricordiamoci sempre della fine dolorosa e poco eroica che hanno fatto i galli di miss Liberty: finire allo spiedo rosolati!»

76 CAPO TERZO

Considerato semplicemente come uomo politico, il Mussi non è una forza della democrazia. L'amore del brillante deputato milanese con la signora Democrazia rassomiglia molto a quello di Taddeo con Veneranda.

E precisamente l'amor pacifico di Giusti. Sul banco dei ministri o in qualità di capo di un'opposizione costituzionale, l'on. Mussi potrebbe rivelare doti invidiabili di tattica parlamentare e capacità pratica di amministratore. Sui banchi cieli' Estrema Sinistra è spostato e sciupato.

Il conte Luigi Ferrari è nato a Rimini, ed ha quarant'anni. È il tipo dell'aristocratico radicale. Laureatosi in legge nell'Università di Pisa nel 1870, entrò subito nella vita pubblica, e nelle amministrazioni locali cominciò ad addestrarsi nella pratica dello statiat. Per un decennio, il Comune, la Provincia e diverse Opere pie lo ebbero come solerte e sagace amministratore. Nel 1871 entrò nella vita politica, e con la democrazia riminese accettò il programma di Bertani. E Bertani fu il suo candidato nelle elezioni generali del 1876. Grande fu l'affetto che pose in lui quel sommo organizzatore di spedizioni garibaldine. Dal 1875 al 1880 il Ferrari stette quasi sempre vicino all'illustre uomo, ai principii del quale è rimasto fedele. Oggi egli è, in Parlamento, il più insigne rappresentante delle idee di Bertani, nel modo stesso che il Mussi è il più geniale rappresentante di quelle di Giuseppe Ferrari. Nel 1880 il conte Ferrari si presentò, o meglio, fu presentato come candidato alla Deputazione politica di Rimini; e chi lo presentò fu appunto il Bertani, il quale raccomandavalo agli elettori con una nobile lettera.

73 COLORI E VALORI

Era Rimini il Collegio di Bertani. Or bene, questi, ritirandosi, indicava agli amici un suo discepolo: il Ferrari. Quale era l'ideale di Bertani? Avanti il 1870 era questo: Unitarii prima repubblicani poi: ed intanto accettava la monarchia come strumento di unità. Dopo il 1870, raggiunta l'unità, pareva che del famoso poi fosse venuta finalmente L'ora. Vana parvenza! Non aveva Bertani combattuto sotto la bandiera monarchica? Non aveva egli giurato fede a Vittorio Emanuele? Bertani non sapeva obliare un passato comune di palpiti e di speranze, di gioie e di dolori: non poteva spezzare i vincoli di undici anni. Rimase, perciò, repubblicano possibilista, ma seguitò a serbar fede alla monarchia. Le serbò fede perché aveva ancora in essa fiducia. Sperava che la monarchia potesse risolvere la questione sociale. Senza dirlo, sostituì all'antica formola quest'altra:Socialisti prima, repubblicani poi — intesa la parola socialista non già nel senso volgare, sibbene nel significato di persona che si preoccupi della quistione sociale.

Ora, il programma del conte Ferrari è precisamente questo: Socialisti prima, repubblicani poi. — Il Ferrari si augura che la monarchia avrà la capacità di risolvere il problema della fame, e per agevolarle un tale compito, vorrebbe che l'Estrema Sinistra, escludendo dal suo seno i socialisti piazzaiuoli e i repubblicani a priori, formasse un partito omogeneo, serio e forte. Egli manifestò, con sufficiente chiarezza, le sue idee nel 1885, in un discorso elettorale ed i una lettera alla Rassegna. Io ne do un sommario.

Il Ferrari conviene con l'on. Aventi che il momento torico attuale domandi riforme sociali anziché politiche.

78 CAPO TERZO

Risolto il massimo problema politico per l'Italia, cioè l'esistenza nazionale, gli altri sono divenuti mezzi. Mezzi, cioè, all'interno ordinamento, di cui è parte principalissima il problema sociale, ossia la giusta partecipazione delle classi lavoratrici ai benefizi della vita comune. L'oltrepotenza della borghesia, in cui si accentra la somma delle forze politiche e delle forze economiche del paese, e che ha per istrumento il Parlamentarismo, costituisce il vero ostacolo all'avvento della classe operaia, e quindi costituisce la vera quistione politica dei nostri giorni. Monarchia borghese e repubblica borghese si equivalgono. Quale la via per uscire da queste strette? La rivoluzione violenta, non conforme alla nostra indole, o l'educazione cosciente e progressiva delle masse, che lavorano,aiutata da uno Stato riformatore e democratico? All'uopo sono necessarie la giustizia e l'energia di un potere esecutivo liberato dalle inutili pastoie creategli dalla diffidenza del potere legislativo; ciò che non ci menerebbe al Cesarismo, perché rimarrebbe intatta la sostanza della libertà, cioè la piena sovranità popolare e la seria responsabilità del potere.»

Pronunziare a trentasette anni un simile discorso, significa avere una rara maturità di giudizio ed un invidiabile occhio clinico della situazione politica. Però sarebbe stato buono che l'onorevole deputato di Rimini avesse spiegato meglio, e in forma meno indeterminata, la sua idea riflettente la maggiore autonomia del potere esecutivo liberato dalle pastoie creategli dalla diffidenza del potere legislativo. Questa parte del discorso è un po' troppo sibillina.

79 COLORI E VALORI

In quest'anno l'on. Ferrari, in occasione del viaggio del Re in Romagna, ha spiegato quale, a suo avviso, dovrebbe essere la missione dell'Estrema Sinistra nel Parlamento italiano. Gentiluomo perfetto, egli si credette obbligato dal Galateo e dai doveri di ospite, di ossequiare il Re. Era un atto di educazione. Fu interpretato da un gruppo di signori rossi come un atto di diserzione. Quei signori andarono sotto i balconi del palazzo Ferrari per strepitare contro il proprietario, reo di aver usato ad un Sovrano lo stesso trattamento che si usa verso ogni privato che vada a casa altrui. Strepitavano in nome dell’Uguaglianza. Il conte doveva dire al Re: Sire, non vogliamo vedervi, toglieteci l'incomodo. Urlarono in omaggio della Fratellanza. Ferrari non doveva pensare diversamente dai democratici quand-méme. Fischiarono in ossequio della Libertà. Ferrari non si avvilì. Il giorno seguente, incontrati alcuni dei suoi avversarli sibilanti, li apostrofò coraggiosamente. Fu in seguito di un tale incidente che l'on. Caldesi indirizzò al Ferrari una lettera, alla quale questi rispose così: «Ho voluto indugiare a rispondere alla tua nobile lettera, che ha ornai fatto il giro della stampa italiana, perché le mie frasi non fossero in niun modo interpretate come l'eco dei fischi, che per la prima volta risuonarono al mio indirizzo. Molta importanza io detti agl'insulti, che accompagnarono la dimostrazione ostile; pochissima a questa, attribuendola ai troppi equivoci che circondano la vita politica italiana. Primo fra questi, mantenuto ad arte da avversari e da amici, che l'Estrema Sinistra parlamentare e il partito repubblicano siano una identica cosa, mentre, sebbene sia innegabile per loro l'affinità di principii, debbono essere e sono due cose distinte.

80 CAPO TERZO

Il partito radicale è legalitario; il partito repubblicano è, di sua natura, rivoluzionario. Il partito repubblicano pone al di sopra del programma la forma di Governo; il partito radicale antepone la formola: imprescrittibilità della Sovranità nazionale, potere costituente della Nazione rappresentata dai suoi organi legali. Posta e mantenuta la distinzione con lealtà e correttezza, non vedo la necessità di nuovi partiti ai quali non credo. L'Estrema Sinistra ha una gloriosa tradizione da conservare; partito eminentemente nazionale, sarà sempre forte, se saprà conservarla; sparirà nel nulla, se la lascierà pervertire da nuove correnti. Per la nostra diletta Romagna non vedo che un rimedio. La vita della libertà è vita di lotta: prenda ognuno il suo posto senza debolezze e senza esitazioni, e l'intolleranza, mala pianta di una falsa educazione politica, sarà per sempre estirpata.»

L'on. Ferrari ha pronunziato notevolissimi discorsi.

Egli, anche più che l'on. Fortis, si è rivelato come il deputato dell’Estrema Sinistra più degli altri capace di pigliar la parola sovra qualsiasi argomento. Ha parlato nelle grandi e nelle piccole occasioni, nelle battaglie campali e nelle scaramucce. Oratore caldo, simpatico, elegante. La forma è italiana, il periodo non è intricato né prolisso, ma snello e leggiero, sebbene non sia monco o strozzato.

L'on. Ferrari gode nella Camera le simpatie generali sia per l'ingegno e la coltura, sia per la gentilhommerie squisita. Essendo ricchissimo, si è dedicato esclusivamente alla vita politica. Giovane di talenti monetari e di talenti intellettuali, egli andrà innanzi.

 

81 COLORI E VALORI

81

Alla maniera dei signori inglesi, il conte Ferrari considera la politica come una missione, non come un mestiere o uno strumento d'influenze. Ei vi porta il gusto e la genialità dell'arca, non già la sans-faconerie  e la volgarità dell'artefice. L'avvenire è per lui. Ferrari è una carta su cui si può giuocare con certezza di vincere.

Il nome di Ferrari è glorioso in Parlamento. Dopo Giuseppe, il grande filosofo, abbiamo il conte_Luigi, e insieme al conte l'artista Ettore. Il conte è romagnolo. L'artista è romano. Ettore Ferrari, se avesse avuto i natali in Francia e al tempo della prima rivoluzione, sarebbe stato il David della celebre Convenzione. Di aspetto simpatico, egli ha l'occhio meditativo (ma non meditabondo) e rèveur. L'originale e paradossale Ugo Flères così ne ha scritto:Ettore Ferrari è di media statura, smilzo, con la barba rada, rossiccia, il profilo acuto. Al suo aspetto severo, fin quasi ascetico, corrisponde, in certa maniera, la scelta dei soggetti delle opere. Di lui non abbiamo mai vedute bambocciate di marmo o di terra cotta, di gesso o di bronzo, e, per quanto, d'ordinario, nei lavori di artista, io soglia attribuire scarsa importanza al tema in se stesso, non posso esimermi dal citare con lode la tendenza costantemente severa che lo scultore ha fin'oggi mostrata nell'esercizio della sua nobilissima arte.

Ettore Ferrari è repubblicano. È un repubblicano intransigente nei principii, ma senza impazienze nella pratica. E uno dei più illustri scultori d'Italia. Cominciò a farsi nome nel 1874, allorquando fu dal Municipio di Roma bandito un concorso per due statue da mettersi all'ingresso del camposanto. Ferrari presentò due bozzetti: il Silenzio e la Meditazione.

82 CAPO TERZO

La vittoria spettava a lui: in tal senso fu il suffragio universale degli artisti. Ma fu in senso contrario il suffragio particolare o partigiano della commissione esaminatrice. Ferrari aveva un gran peccato sulla coscienza: era giovine. Secondo gli onorevoli commissarii, lo scultore, che aveva raffigurato il Silenzio e la Meditazione, avrebbe fatto meglio a meditare e a star zitto.

Lo stesso giochetto fu ripetuto a danno del Ferrari in occasione di un altro concorso municipale. Il tema era: un Crocefisso. La destinazione era pure pel Camposanto. Ferrari superò i suoi competitori, ma, viceversa, non superò il concorso. Gli onorevoli commissari seviziando la verità e la giustizia, si divertivano a torturare moralmente lo scultore. Essi pensavano ch'era meglio crucifigere l'artista anziché Cristo.

Decisamente a Roma non spirava buon vento pel Ferrari. Ma Roma non era tutto il mondo. E se i romani si erano rivelati incontentabili, i rumeni si mostrarono contentoni. Allora trovavansi nella nostra capitale alcuni distinti cittadini della Rumenia per la scelta di un valente artista, al quale affidare l’incarico di lavorare intorno ad una statua a Giovanni Heliade, da innalzarsi a Bukarest. Videro i tre bozzetti dei Silenzio, della Meditazione e del Crocefisso,ne rimasero oltremodo compiaciuti. Incaricarono, quindi, il bravo giovine del monumento a Heliade; né la loro fiducia fu demeritata.

Dopo questa vittoria internazionale, che vendicava lo scacco municipale, i trionfi di Ferrari si seguirono, o meglio, s'inseguirono con velocità accelerata. Una sua statua su Jacopo Ortis fu premiata a Napoli e a Parigi.

83 COLORI E VALORI

Clini Spartaco pugnanti è un gruppo, che, mentre rivela un artista che palpita lavorando, ne mostra, non altrimenti che Ovidio, Lesbia col passero ed altre sculture, la mente adorna di studii classici. Ferrari vinse successivamente i concorsi per i monumenti al Sella in Roma, a Garibaldi a Vicenza, a Vittorio Emanuele in Venezia, a Giordano Bruno in Nola. Il monumento a Vittorio Emanuele è opera stupenda. Camillo Boito, giudice competentissimo, ne parla con compiacenza, quasi con entusiasmo. Vedete. È una grandiosa e vivace statua equestre. Il cavaliere pianta con ferma naturalezza sul generoso animale, che torce il collo, morde il freno, e, trattenuto a forza, sbuffa e si agita. Le linee appariscono varie e robuste, la modellatura sembra facile e larga... L'autore di questo monumento veneziano è, cosa rara fra gli scultori, un uomo assai colto, e si conosce dall'invenzione dell'opera. La statua equestre incarna il punto più monumentale della vita del Re: il coronamento della sua opera, il compimento dell’unità e dell’indipendenza nazionale in Roma. Il Ferrari ha sentito che gli episodii, per quanto gloriosi potessero parere e statuarii, non erano abbastanza degni del simulacro di Vittorio Emanuele: bisognava guardare al fine dei suoi destini, al colmo del suo trionfo.

«Gli episodii, invece, trovano luogo opportuno ai lati del piedestallo, nei due altorilievi. A destra, il combattimento di Palestro, allorché, nel momento decisivo, il Re, seguito dal suo stato maggiore, spingendosi nel forte della mischia, viene circondato dagli zuavi, che trattengono il cavallo, e fanno, coi loro corpi, riparo al loro caporale.

84 CAPO TERZO

A sinistra, l'ingresso del Re a Venezia. quando, sbarcato sul Molo e lasciandosi dietro i ministri, il Corpo diplomatico ed il resto delle rappresentanze ufficiali, s'inoltra nella piazzetta, in mezzo alla fitta folla del popolo acclamante. Non mancano le allegorie: di fronte, la Venezia risorta a libertà; di dietro, la Venezia del quarantanove. Non mancano gli emblemi.

Non mi sono ancora fermato a quella che io reputo, quanto al pregio dell'arte, la migliore e più efficace e più singolare parte del monumento: la Venezia del quarantanove. È una figura nuova e potente: una di quelle figure che suscitano un mondo di sentimenti nell'animo commosso, un mondo di ricordi nella mente eccitata. Impugna la spada che le si è rotta in mano combattendo, e preme il piede su di un cannone arrovesciato. La stessa bandiera nazionale, che stringe convulsivamente con la mano sinistra, ha Tasta spezzata; ed il Leone, ai suoi piedi, ruggendo, morde le catene che lo tenevano avvinto. Il volto di Venezia è bello e terribile: in tutte le membra le corre un fremito di vendetta: questa è davvero la guerriera delle Lagune.

Ettore Ferrari è un artista che nell'arte vede un mezzo per realizzare i suoi ideali. L'arte per l’arte non è la sua formola. È un artista foderato di politica. È lo scultore del patriottismo e delle rivendicazioni sociali.

Ferrari, alla Camera, non piglia la parola, se non quando ciò è strettamente necessario. Allorché un sopruso governativo viene commesso o il diritto nazionale è conculcato, l'ardito scultore sorge a protestare.

Ettore Ferrari onora Roma e l'arte.

Senza uscire dal campo di quest'ultima, eccoci di fronte a Felice Cavallotti.

85 COLORI E VALORI

Cavallotti è democratico, ma semplicemente per spirito di opposizione. Se domani la repubblica venisse ad aggiungersi agli altri guai d'Italia. Cavallotti diverrebbe monarchico. Anima d'artista, Cavallotti non è nato per la politica, sebbene per essa appunto sia molto noto. E un uomo d'impressioni, non di convinzioni. La debolezza lo seduce. La prepotenza lo sdegna. Nel medioevo, sarebbe stato un guerriero-poeta. Con la sua lira (non in tasca) e la sua spada, egli sarebbe andato in cerca di avventure, sfidando la morte per salvare una donna o per riscattare il santo sepolcro. Ai tempi della famosa e famigerata Rivoluzione francese, cominciando dall’essere repubblicano, si sarebbe, a poco a poco, fatto sedurre da Maria Antonietta prigioniera, e per un sorriso dell'oppressa regina avrebbe offerto la sua testa a quel grande filantropo del boia.

I suoi genitori erano veneziani stabiliti a Milano, or egli nacque nel 1842; sicché, oggi, ha quarantasei anni. E avvocato, ma egli pel primo non ha preso mai sul serio la sua laurea in legge. E poeta, ma è stato anche soldato. Nel 1860 cercò di entrare nella spedizione dei Mille. Era troppo giovine. Non fu ammesso. Cavallotti tornò indietro, ma non a casa. Ormai, sentiva il bisogno di menar le mani, e un modo o un altro era pur mestieri di trovarlo. E lo trovò.

Il futuro avvocato, per diventare eroe, si fece delinquente, e, con un atto di nascita non suo, si ripresentò agli arruolatori garibaldini. La gherminella gli giovò. Cavallotti fu ammesso, e partì con Migliavacca. Portava con sé molti valori ed oggetti mobili; cioè cinque lire ed un paio di calze. Combattette con valore durante tutta la campagna.

86 CAPO TERZO

Nel 1866 ritornò a militare con Garibaldi nel Tirolo. Dopo la battaglia di Mentana prese in uggia popolo e governo francesi; cosicché, quando Garibaldi nel 1871, dimenticando l'offesa, corse a difendere gli antichi compagni d’arme del 1859, Cavallotti non lo seguì. Vi andò, invece, suo fratello Giuseppe, il quale, valorosamente combattendo, morì a Digione. Il povero Felice, oltremodo afflitto da questa perdita, sfogò il suo dolore in tenerissimi versi.

Come uomo politico, l'on. Cavallotti non è stato sempre un repubblicano à póigne. A somiglianza di tanti altri patrioti, egli, un tempo, amoreggiò con la monarchia. Con gli anni, in luogo di moderarsi, è divenuto più democratico. Nel 1873, eletto deputato, andò alla Camera. Dal primo giorno cominciò a dar noia al Presidente. Fuori della Camera, egli aveva dichiarato che al giuramento non dava alcun valore. Ciò non pertanto, egli veniva dinnanzi ai suoi colleghi per improvvisare appunto un giuramento. Figuratevi! Surse in piedi il naturalista Paolo Lioy, e domandò che a Cavallotti non si permettesse di giurare senza un preventivo mea culpa. Questo era impossibile. Tutt'al più, Cavallotti avrebbe potuto recitarlo in versi. Ma glielo chiedevano in prosa! Cavallotti, quindi, giurò senza ritrattar niente. Egli s'impegnava per l'avvenire solamente per ischerzo, e lasciava integro il passato. La baldanza dell'oratore radicale suscitò la tempesta nel seno della Destra. Rumori, urli, strepiti ed altre simili espettorazioni patologiche delle maggioranze ammalate accolsero il giuramento di Cavallotti. Tale fu la funzione religiosa con la quale fu celebrato l'omaggio di un repubblicano alla Deità monarchica!

87 COLORI E VALORI

Allorché nel 1874-1876 più attivo era il lavorìo della Sinistra per togliere dalle spalle della Destra la pesante croce del potere, l'on. Depretis, il quale cercava l'appoggio morale e politico di tutti gli avversarli del partito governante, qualunque fosse il loro colore o la sfumatura del medesimo, non esitò a carezzare i radicali, e fra gli altri, dimostrò speciale simpatia per Cavallotti. Spesso li avreste veduti passeggiare insieme per la Galleria Vittorio Emanuele di Milano o seduti presso un caffè, confortando il loro animo con le speranze e il loro stomaco con la birra. Depretis lusingava l'amor proprio del giovane radicale, facendogli sperare una possibile partecipazione al Governo. Nè lo sgomentava l'ostacolo formidabile del solito repertorio di frasi e di parole che gli avversarli tenevano pronte pel Cavallotti: testa calda} rompicollo, ecc. All'opposto, il Depretis elogiava precisamente il giovanile ardore del poeta lombardo, e con certi sorrisi maliziosi lasciava capire che in età meno matura ne aveva anch'egli fatto delle sue. Cavallotti sentiva e apprendeva. Quando poi, parecchi anni appresso, l'on. Depretis, in qualità di Presidente del Consiglio, stringendo i freni, si credette in diritto di inculcare la necessità di una condotta prudente, Cavallotti gli ricordò le conversazioni à la sauce révolutionnaire di Milano.

Prima di essere deputato, il Cavallotti fu giornalista.

Scrisse nel Gazzettino Bosa, nella Gazzetta di Milano, ecc. Il suo giornalismo fu una serie di battaglie con la penna e con la spada. Forse qualche Fata benigna lo assisteva.

88 CAPO TERZO

Cavallotti quando scampava a un processo, incorreva in un duello. Un suo articolo gli procurava costantemente la visita dei secondi, quando non gli procurava quella dei secondini. Sarebbe cosa curiosa la storia dei duelli di Cavallotti. Dopo il Bizzoni. è il giornalista italiano che ne abbia avuti di più. Una volta essi due mandarono il cartello di sfida agli ufficiali di un intero reggimento di cavalleria. Un'altra volta Cavallotti sfidò tre soci del Circolo Filologico di Firenze, si battette con tutti e tre nel medesimo giorno, e tutti li ferì. Si è battuto pure coll'Arbib, col marchese di Pascarola. credo pure col

De Zerbi. ecc. La vita politica non valse a distrarre il Cavallotti dal inondo letterario. Bohémien italiano, egli è uno dei poeti più affascinanti che la penisola abbia avuti nell'ultimo ventennio. Ha scrittole Battaglie —Sogni e Scherzi — Le Anticaglie e varii lavori drammatici, come I Pezzenti. I riesserli. l'Alcibiade. La sposa di Mènecìe. Più di tutti piacquero l'Alcibiade e I Messeni, che fecero financo rimpiangere a molti che l'autore non si consacrasse esclusivamente all'arte, lasciando da parte la politica. In questi ultimi tempi si è cercato di togliere al Cavallotti ogni merito letterario, e del clamoroso processo Della Vecchia durano ancora gli echi. L'esagerazione dei critici è evidente. Quand'anche il Cavallotti non fosse un ingegno poetico originale, egli rimarrebbe sempre il poeta del patriottismo e della libertà.

Povero e onesto, Cavallotti rifiutò una cattedra offertagli dal ministro Perez. Gli parve sconveniente che un repubblicano accettasse beneficii da un ministro del Re.

89  COLORI E VALORI

Cavallotti non è un dandy. Veste male e senza gusto. Non è un bell'uomo. Pure, si simpatizza subito con lui, grazie alla sua indole buona, cordiale e affettuosa. Ha abitudini un po' bizzarre, p. e. , quella della doccia fredda quotidiana. Il Capitan Fracassa, di parecchi anni fa, scriveva a proposito di questa cura idroterapica: Walter Scott ci ha dato la Donna del Lago. Felice Cavallotti sta per diventare l’Uomo del Lago. Il suo pellegrinaggio continuo attraverso il mondo e la vita, ora ha una stazione: anzi ne ha due. Ma l'una e l'altra sul Lago, e, per giunta, sul Lago Maggiore. L'estate, Felice Cavallotti sta a Ghevio, in una fresca vallata, con analoghe foreste imbalsamate. L'inverno egli sta a Meina, in un bel villino, che domina, da 50 metri di altura, il paese e il lago. La vista, di lassù, spazia da un lato sul Varesotto, dall'altro fino a Belgirate. E che sfondo di scenario... le Alpi! Per un'abitudine che si perde nella caligine dei tempi, Felice Cavallotti è abituato a far la doccia tutte le mattine. Parlo della caligine dei tempi, ma forse mi sbaglio. L'abitudine di Felice Cavallotti, forse, risale al 1878, quando lui — scrivendo la prefazione delle Anticaglie, sulle lunghe, sulle brevi, sui trochei, gli spondei, gli alcaici e gli asclepiadei — ci prese una congestione cerebrale, che auguro di cuore a tutti quelli che osano ancora trattare quistioni così perniciose alla pubblica moralità. Quando Felice Cavallotti stava a Roma, faceva la doccia allo stabilimento idroterapico in via dei Crociferi, dove s'incontrava ogni mattina con l'on. barone Nicotera, e spesso la doccia era complicata da discussioni politiche. Ma né a Ghevio, né a Meina esiste stabilimento di via dei Crociferi, ed il poeta ha dovuto girare — dirò così — di balza in balza, per cercare l'occorrente a una buona doccionata. Finalmente trovò.

90 CAPO TERZO

Trovò una bella sorgente d'acqua freschissima, perenne, un po' più su del paese di Da niente. Un paese che per solito Dàniente, non può dare meno di una doccia. Siamo giusti! La sorgente, scoperta da Felice Cavallotti, è in cima a una montagna, che da un lato, a mezzodì, prospetta e domina

San Cariane d'Arona, e dall'altro, dà sulla valle di Ghevio. In fondo, c'è Meina. A dieci passi dalla sorgente, l'acqua derivata forma una cascatella di quattro metri di altezza, con un getto d'acqua del volume del duca di Sandonato. Tutte le mattine, dal villino di Meina, faccia caldo o freddo, Cavallotti va a Daniente — e, in compagnia di una perla di contadino fittabile che si chiama Giovanni, e che gli porta la biancheria, si reca a prendere la doccia al cospetto delle Alpi e della vergine natura. Il poeta resta tre minuti primi sotto la doccia, mentre Giovanni conta rigorosamente questi minuti, secondo i precetti dell'idroterapia.»

Ma lasciamo stare il politico, il poeta, l'uomo. Guardiamo piuttosto l'oratore. "Come oratore, Cavallotti riunisce il brio veneziano alla grazia milanese. Scherza quasi sempre, di rado offende i suoi duelli oratorii col Depretis sono rimasti celebri. Si trattava di sapere chi dei due riuscisse meglio a dire all'altro un maggior numero di male parole in forma di scherzo. Cavallotti veniva alla Camera, determinato a schiacciare il Vecchio sotto una valanga di terribili accuse: prometteva a se stesso di voler essere inesorabile. Ahimè! egli faceva i conti senza l'oste. A misura che parlava, il suo sdegno calmavasi. Era là, dirimpetto a lui, il Vecchio, con aria burlesca, lisciantesi la barba e scuotente la testa con intenzione canzonatoria.

91 COLORI E VALGHI

Finiva Cavallotti, e non finiva con una apostrofe siccome aveva cominciato, ma con un epigramma. E cominciava allora, cioè seguitava Depretis sullo stesso metro. Quelle sedute erano artistiche; però la vittoria rimaneva al Vecchio. il quale era riuscito a disarmare lo sdegno del giovine oratore. Tenuto Crispi al Governo, le cose cangiarono. Dal banco dei ministri non partiva più il motto di spirito. Crispi non cercava di disarmare Cavallotti col sorriso o con la barzelletta. Intendeva vincerlo in regolare battaglia. Si venne ai ferri corti. Crispi, prepotentemente, ricusò di rispondere ad un'interpellanza del deputato milanese. Questi, sdegnato, si dimise. Gli elettori lo rimandarono in Parlamento, dove non mancherà di colpire o di trovare qualche altra occasione per suscitare una nuova tempesta.

Quasi tutti i discorsi pronunziati da Cavallotti alla Camera meritano di essere letti. Forse insistono e si pregiano più alla lettura che all'udito. infatti il Cavallotti non è un oratore fashionable —alla moda. Gli fanno difetto la facilità della parola e le sfumature della voce, sfumature che un autore inglese chiama corsivo. . Manca, inoltre, al Cavallotti l'estetica del porgere, e di lui si può dire ciò che un biografo scrisse di lord Beaconsfìeld:I suoi gesti sono spesso veementi ed eccitati, ma sono sempre angolosi e duri. Par qualcuno che tiri corde o fila con più o meno forza ed arte. V'ha un giuoco di cui i fanciulli si dilettano molto; due persone si nascondono dietro una tenda, e lasciano vedere solo la testa dell'uno e le braccia dell'altro.

92 CAPO TERZO

La testa declama e le braccia gesticolano, il più in armonia che possono, colle incongruità più risibili che si possano dare. L:t voce e i gesti di lord Beaconsfield non sembrano essere in più stretta relazione l'una cogli altri di quello che succede in cotesto oratore creato dalla fantasia dei fanciulli.

Notevolissimi fra i discorsi di Cavallotti sono quello del giugno 1886 contro i brogli e le influenze elettorali. e l'altro del 14 maggio 1883 a favore dell'ordine del giorno Nicotera.

Prima di porre termine a questa rapida rassegna dell'Estrema Sinistra, non è possibile passare sotto silenzio altri onorevoli rappresentanti di tal gruppo.

Come, infatti, tacere di quel glorioso mutilato di Achille Majocchi? Fino all'aprile 1887 la nostra Camera offri l'interessante spettacolo di due valorosi soldati mancanti entrambi di un braccio, e seduti l'uno sui banchi della Montagna, l'altro su quelli del Ministero. Il conte di Robilant rappresentava l'esercito regolare: Majocchi personificava l'esercito dei volontari. Majocchi. lombardo di nascita, perdette i! braccio sinistro alla battaglia di Calatafimi. Non è un oratore. La sua persona parla per lui. IL un radicale monarchico. Una volta protestò energicamente contro l'insinuazione che il partito radicale altro non fosse che il famoso ponte su cui si doveva passare per trovarsi nella repubblica. Egli vagheggia l'applicazione del sistema territoriale germanico all'esercito italiano.

Bosdari. repubblicano che posa, vorrebbe provare nella Camera quelle emozioni che provò nei viaggi.

93 COLORI E VALORI

Si qualifica agricoltore tout court. Con una carriera parlamentare di fresca data, egli può vantarsi d'aver di già provocato o suscitato due sedute burrascose: la prima volta, quando, interrompendo l'on. Fortis (nel mastio 1553). affermò che alla Camera esisteva un partito repubblicano: la seconda, allorché, facendo perdere la pazienza all'on. Depretis. lasciò uscire di bocca al vecchio e prudente ministro la famosa frase:» Così piace a me e basta: frase su cui l'on. Faldella j. ricamò nella Tribuna un articolo spiritoso ma ingiusto. Bosdari potrebbe distinguersi di più se fosse più solerte e laborioso.

Dopo l'agricoltore, ho l'onore di presentarvi gli operai. Sono due: Armirotti e Malti, appartenenti quegli alla Liguria, questi alla Lombardia! L'Armi rotti non ha finora rivelato talenti oratorii. Ex-volontario garibaldino ed ex-operaio, egli è ossi amministratore della Società cooperativa di Sampierdarena. Ha qualche velleità di nobiltà, ma pare che non voglia dimenticare gl'interessi della sua classe. Maggior valore ha Antonio Maffì. Quando, nel 1882. si annunziò alla Camera la venuta di un operaio qual rappresentante del popolo, fuvvi un momento di curiosità ed un movimento di sorpresa. Come sarebbe venuto? In blouse e con la pipa in bocca? Gli onorevoli ebbero presto agio di rassicurarsi. L'operaio era un buon borghese, dotato di discreto ingegno, di non scarsi studi e di sufficiente educazione. La soddisfazione e il compiacimento si accrebbero, allorché il Maffì prese la parola. Per un operaio, egli parlava abbastanza bene. In seguito l'on. Maffì non ha smentito, con la sua condotta, questa buona impressione moderata.

94 CAPO TERZO

Egli è vero che talvolta si è abbandonato ad un linguaggio insolitamente vivace; ma ciò ha fatto unicamente per non discreditarsi presso le teste calde del suo collegio. In lui si vede lo sforzo per apparir violento, mentre, per senno pratico, per carattere e per temperamento, egli è un moderato. In questa lotta fra il parere e l'essere il Maffi non potrà durare a lungo senza sciuparsi. Un giorno o un altro, egli sarà forzato a mettersi o coi conservatori o con gli scapigliati.

Di Andrea Costa, il quale è un rappresentante autentico del socialismo, ma che non occupa alla Camera un posto proporzionato all'ingegno, io non posso dir molto. Costa parla bene, ma si lascia talvolta trasportare troppo dallo sdegno. Ne diede prova nell'incidente con Ricciotti Garibaldi, nella burrascosa seduta del 28 novembre 1887. Del resto, il Costa stesso non ha saputo finora concretare un programma possibile del suo partito.

I due figli di Garibaldi appartengono pure alla Estrema Sinistra. Menotti ha la moderazione del padre, Ricciotti ne ha l'audacia. Entrambi eroi sui campi di battaglia, si distinsero a Digione, nella celebre giornata in cui Ricciotti strappò una bandiera all'esercito tedesco. In Parlamento Menotti gode la stima di tutti i partiti, perché serba un contegno dignitoso e corretto. Ricciotti, all'opposto, non è visto di buon occhio dalla gente seria. Lo trovano troppo irrequieto e novatore. Menotti, probabilmente, continuerà ad essere un deputato modesto, se non moderato. Ricciotti è destinato a suscitare a Montecitorio nuove tempeste.









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