Eleaml - Nuovi Eleatici



Avv. LUIGI BRANGI

I MORIBONDI di MONTECITORIO

L. ROUX E C. Editori

ROMA-TORINO-NAPOLI.

1889

(2)

Sezione Seconda. — La Sinistra
§ 1° — I precedenti
§ 2° — Il Capo
§ 3. — I Comandanti
§ 4. — I Luogotenenti
§ 5° — Lo Stato Maggiore
§ 6. I Militi
§ 7. Il Gruppo degli Economi


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11 Luglio 2013

Sezione Seconda.

La Sinistra.

§ 1° — I precedenti. 

Sommario. — La Varenne — Il 50 O|O d'inesattezze — Il restaurant della Sinistra — I piatti freddi della Destra — La cucina del terzo Partito — La Giovane Sinistra — Il bagaglio rivoluzionario — Musica centralista — Pentarchi e triarchi — Mitologia politica.

Il partito di Sinistra propriamente detto non ha gloriose tradizioni da vantare nella storia del parlamento subalpino. Fin quasi alla vigilia del 1859 non vi furono, nella Camera dei deputati torinesi, come gradazioni o divisioni della Sinistra, che il Centro e la punta estrema.

Un gruppo di Sinistra chiamato precisamente cosìe senz'altra sfumatura di terminologia politica apparve, con una certa evidenza, nel 1858$ e il La Varenne ne parlava nel seguente modo: «Ce qu’on appelle ici la gauche de la Chambre ne possède ici qu'un loin tain rapport avec l'ancien parti de ce nom dans nos assemblées parlementaires, les dernières surtout. Les députés auxquels s'applique cette désignation sont presque tous des propriétaires de province ou des hommes à professions libérales, appartenant à la bourgeoisie, et qui soumis jadis a un régime fort dur, avant le statut, apprécient, un peu passionnément peut-être, la liberté que Charles Albert leur a rendue.

96 CAPO TERZO

Attachés, du reste, à la Maison de Savoie, dévoués au roi actuel, ils suivent volontiers M. de Cavour dans sa politique italienne et ne craignent pas de rendre hommage à son patriotisme, à la grandeur de ses vues, à l'habileté de sa diplomatie.» L'autore osservava, nondimeno, che nelle altre quistioni, diverse da quella nazionale, gli uomini di Sinistra non mostravano la medesima acutezza di vista. Io gli cedo novellamente la parola, sorpreso e compiaciuto che un francese abbia potuto commettere, in uno scritto riguardante l'Italia, soltanto il 50 0|0 d'inesattezze: «On pourrait maintenant reprocher aux gens de la gauche une certaine mesquinité de vues en matière de gouvernement, une manie d'opposition plutôt nuisible qu'utile avec un premier ministre tel que M. de Cavour; enfin, de dangereuses et impolitiques idées à l'égard du clergé, qui fut jadis et qui sera encore pour beaucoup dans la rédemption de l'Italie. Mais il faut tenir compte de l'origine de ces hommes qui produit chez eux une tendance involontaire à imiter nos libéraux parlementaires, car la gauche de la chambre sarde est composée de professeurs, d'avocats et de médecins. Si ce parti c'est la défiance, c'est aussi le dévouement à l'idée italienne, l'horreur profonde de l'étranger en Italie, et pour cela je sympathise avec ces représentants. J'aime les instincts gouvernementaux de la droite, son désir d'un pouvoir fort et concentré; mais l'enthousiasme national du parti oppose, son ardeur de délivrance ne me touchent pas moins.

«Il n’y a du reste rien d'inconciliable entre eux: ils ont le même drapeau, la même affection dynastique; ils combattent pour la même cause, et les dissidences qui les séparent peuvent facilement s’oublier au grand jour du triomphe.»

97 COLORI E VALORI

Il Petruccelli, facendo la statistica della Sinistra italiana nel 1862, trovò le seguenti gradazioni: Garibaldini, mazziniani, repubblicani, federalisti, oltramontani, autonomisti, liberali, indipendenti, dipendenti, misteriosi, indecisi, imbronciati o boudeurs, esploratori, uccelli di passaggio, smarriti, scettici, dottrinarli, pretendenti.

Il menu non poteva essere più completo. Diamine! Si poteva mangiar carne e pesce nel giorno stesso — alla maniera dei canonici. Con gli anni il quadro dipinto dal Petruccelli cominciò a diventare più sbiadito. Parecchi colori sparirono. Pure, ciò non avvenne in un momento solo, e durante il lavorìo consumatore del tempo, la Sinistra seguitò ad offrire al palato italiano le più svariate vivande. Sì, noi potevamo entrare nel restaurant all'insegna della Sinistra, e chiedere per antipasto une douzaine d'huìtres oltramontane o dei carciofi à la poivrade repubblicana, senza omettere i ravanelli federalisti. Nè sarebbe stato un horsd'oeuvre domandare des sardines fraìches esplorataci dello stomaco. Per pranzo, poi, l'avventore era libero di chiedere, a piacere, un bouillon liberale o un consommé autonomista; delle crevettes mazziniane o un chapon au gros sei garibaldino; un canard sauvage boudeur o dei cavoli fiori indecisi: des asperges con olio dottrinario o un fricandeau con salsa misteriosa — cosa solita a succedere nelle trattorie; dei maccheroni conservatori della fame smarriti in un brodo democratico, simile al brodetto spartano, o dei rognons à la brochette pretendenti all'egemonia gastronomica. Però —vedete caso strano! — la Sinistra, appunto perché teneva una speisekarte così eccletica, si discreditò.

98 CAPO TERZO

Per appagare tutti i gusti, il restaurant scontentava; tutti i palati. Ogni guai volta la cucina della Destra, celebre pei suoi piatti freddi, dava la nausea, il cittadino italiano, anziché onorare dei suoi ordini il cuoco della Sinistra, ricorreva al cuoco del terzo partito o a qualche aiutante di cucina del centro. Nel 1862, licenziato Ricasoli, venne chiamato Rattazzi, capo scuola, del terzo partito. La sua apparizione fu salutata come quella di un arcobaleno. Lo stesso Garibaldi abbandonò il restaurant della Sinistra, e si affrettò a venire a gustare i manicaretti politici dell'ex-amico ed emulo di quell’altro cuisinier famoso ch'era stato il conte di Cavour. Delusione! Rattazzi, che doveva offrire a Garibaldi, nientemeno che una frittata à la vénitienne o à la romaine, si avvide a un tratto che aveva posto troppo fuoco sotto i fornelli. Volle diminuir con l'acqua la divampante fiamma. Vi fu lotta.

L'acqua smorzò il fuoco, ma... la frittata non fu Roma né Venezia. Fu semplicemente Aspromonte! Dopo questo smacco, gl'italiani continuarono a gustare piatti freddi della Destra, salvo nel breve intervallo del 1867.

Durante il tempo trascorso, sino al 1876, nella Sinistra si fece un lavorìo di selezione. I repubblicani se ne staccarono, gli ultramontani se ne distinsero, i radicali si appellarono monarchici. La Sinistra, senza diventare perfettamente omogenea in se stessa, diventò almeno omogenea con la monarchia. Era un progresso. Per lo innanzi aveva ondeggiato tra il partito e la fazione. Poi divenne partito parlamentare. Naturalmente questa evoluzione non successe in pace. Vi furono strepiti, urti e fischi.

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La Giovane Sinistra, capitanata dal De Luca e illustrata dalla penna del De Sanctis, surse nelle provincie meridionali con un programma di Sinistra conservatrice. Invece, la Sinistra intransigente non voleva che si mettessero così chiaramente le carte in tavola. Monarchici, sì; ma perché dirlo tanto apertamente perché rinnegare con tanto strepito il passato, e privarsi dell’aiuto dei repubblicani, dei federalisti e di tutto il treno misto deimalcontenti politici Gli uomini della Sinistra storica volevano, per fare più effetto sull'immaginazione del Paese e per terrorizzare la Destra, continuare a marciare con tutto il bagaglio rivoluzionario. La Giovane Sinistra preferiva di licenziare le persone inutili o compromettenti, e di andare contro il nemico, non come un'invasione barbarica, ma come un esercito regolare. Con la morte di De Luca la pace tornò, e il Depretis, pontefice massimo delle Chiese unite della Sinistra, potè, pochi anni dopo, afferrare il potere. £Nel paese fuvvi un grido di gioia. Pareva un sogno la caduta della Destra; eppure era una realtà:A Napoli, specialmente, si salutò con selvaggia esultanza lascensione di Depretis e ses amis.

La storia del partito succeduto al Minghetti nell'amministrazione dello Stato è troppo recente per dover essere raccontata. Senonché non deve dimenticarsi che dal 1876 all'aprile 1887, meno l'apparizione meteorica di Cairoli, la suprema direzione del governo stette sempre nelle mani di un uomo di Centro: il Depretis. Depretis, capo dell'orchestra, non dette la battuta giusta, se non quando gli fu lecito eseguire musica sua, cioè centralista. Con lui avemmo, forse, il Governo della Sinistra, ma, certo, non avemmo un Governo di Sinistra.

La Sinistra autentica non è venuta al potere se non nell'aprile 1887, col Crispi,

100 CAPO TERZO

Della pentarchia — la quale fece pendant alla celebre triarchia dei leaders Whigs dei regni di Guglielmo d'Orange e di Anna — è inutile parlare. Essa fa già parte della mitologia politica.

§ 2° — Il Capo.

Sommario. — Francesco Crispi — I giornalisti — Crispi reporter — L'amicizia di Mazzini — L'idea di Fabrizi — Le gite in Sicilia — I fratelli Di Benedetto — Crispi che modella bombe all'Orsini — Il quarantesimo genetliaco di Crispi — Il grande uomo — L'uomo dalla cravatta bianca — La spedizione dei Mille — Garibaldi garante del mare — Crispi garante della terra— Giuseppe Crispi— Un trono per Garibaldi —Cavour e Crispi — L'influenza del signor Crispi Abbasso Crispi! — Farini e Lafarina — L'appartamento magnifico — Lo Spirito folletto — La barba grigia di Crispi — LaPistola in tasca! — Saint-Just e l'ombra di Bruto — Bonghi e Crispi —,a celebre frase — La lettera di Mazzini — Le tendenze guicciardinesche — La cessione del Piemonte — Le interruzioni indecenti — È pazzo! — La Riforma — All'albergo di New Yorck — Crispi e Garibaldi nel 1867 — La risposta epica di Garibaldi — Le barricate nel 1870 — L'ideale di Gioberti. — I dandoli dell'on. Crispi — Crispi oratore — Crispi e Casimiro Perier — La fortuna d'Italia — Giudizi e profezie.

Ministri degli esteri beniamini della nazione, ne abbiamo avuti e ne abbiamo visti: Richelieu, Chatam, Castlereagh, Palmerston, Cavour, Bismarck, Gortciakoff. Ma, prima di diventare gli enfants gatés dei loro concittadini, Richelieu aveva dovuto lottare per lungo tempo con la Corte e fiaccare la potenza austriaca, — Chatam aveva inondato la Storia inglese di una fiumana di vittorie, — Castlereagh si era illustrato con Mettermeli contro Napoleone e a Vienna aveva troneggiato, — Palmerston si era affermato di fronte all'Europa qual paladino del cittadino britannico, idealizzandolo nel civis romanus,

101 COLORI E VALORI

— Cavour aveva, a Parigi, nel celebre Congresso, difeso l'Italia a viso aperto, — Gortciakoff aveva vendicata l'onta del trattato del 1856. — Bismarck era riuscito a domare l'Austria e la Francia. Crispi, anch'egli, è il beniamino del popolo italiano; ma. a differenza dei poveri mortali testé citati, non ha compiuto ancora grandi cose. Il suo atteggiamento e i suoi precedenti, più che le sue azioni, hanno ispirato nel popolo italiano immensa fiducia a suo riguardo. Io non so se alla fine questa fiducia sarà giustificata dagli eventi, e se la politica dei viaggi (Friedrichsruhe. Roma, Napoli), sarà pure la politica delle vittorie. Certo è che, se il Crispi non ha ottenuto finoggi grandi risultati nell'interesse del

l'Italia, ha però preparato convenevolmente la via per ottenerli. L'amor proprio dell'Italia per ora. grazie al Crispi, è stato appagato. Speriamo che anche il desìo di gloria sarà soddisfatto.

Francesco Crispi-Genova nacque, nel 1819, a Ribera, presso Girgenti. da famiglia di origine albanese.

Laureatosi in legge, venne in Napoli per difendervi in giudizio le ragioni della Chiesa greca. Veniva per domandare ai magistrati l'osservanza della legge nell'interesse privato. Vi restò per violarla nell'interesse pubblico. Divenne cioè un cospiratore. Tornato in Sicilia, fu nel gennaio 1848 magna pars della rivoluzione palermitana. Palermo, in quell'anno fatidico, dette il segnale all'Europa. Parigi non fece le barricate che nel febbraio. Milano seguì nel marzo.

Nel Parlamento siculo Crispi rivelò i suoi sentimenti unitarii. Parlò fiero contro il Borbone, e frattanto consentì, col voto, all'offerta della siciliana corona al Duca di Genova, figlio di Carlo Alberto.

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Domata dai Borboni la rivoluzione in Sicilia, Crispi esulò. Egli fu compreso fra i 43 ribelli esclusi dall'amnistia. Venne in Piemonte, dove si adattò a fare il giornalista. Scrisse nella Concordia, nella Gazzetta di Torino, nell’Archivio storico italiano. Quando Depretis, nel 1850, fondò il Progresso, Crispi entrò nel nuovo periodico con l'incarico di scrivere il resoconto parlamentare. Era, quindi, il reporter delle Camere.

La sua condizione economica non era affatto fiorente. Della sua opera di avvocato non si avvalevano. Mancini faceva fortuna. Crispi languiva fra le strettezze finanziarie. Il futuro Presidente del Consiglio, l'uomo destinato a divenire cugino del Re d'Italia nel 1852 concorreva per titoli al posto di segretario comunale di Verolengo presso Chivasso. I routiniers gli preferiscono il signor Federico Osasco. Rifiutato come segretario, continuò il Crispi a lavorare privatamente per vivere. Nel 1853, sospettato falsamente di aver favorita la tentata sedizione di Milano del 6 febbraio, veniva, per ordine superiore, condotto ai confini da una coppia imponente di portatori del cappello alla Padre Eterno, Nella stessa Torino, ventiquattro anni appresso, nell'ottobre 1887, l'espulso del 1853, il quale, uscendo dal Piemonte, non sapeva dove andare a cercare ricovero, era accolto in trionfo come ministro dell'interno e Presidente del Consiglio! Corse a Malta. Gli si disse che doveva andar via. Venne a Londra, e vi restò per lungo tempo. Mazzini lo conobbe e lo amò. A Londra Crispi affilò il suo ingegno, completò la sua coltura. Crispi posò per molto tempo da repubblicano; ma agì sempre da monarchico. Fu uno dei primi e dei pochi credenti nell'unità.

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Secondando un'idea geniale di Nicola Fabrizi. lavorò con altri compagni per fare del Sud la base di operazione in una futura rivoluzione. Appunto per la sua agitazione unitaria, era stato espulso, nel 1854. dal governo locale di Malta. Da Londra e da qualunque altro punto Crispi continuo nella propaganda. Ned egli diceva: Andate, io verrò, No: partiva egli stesso per esplorare, pronto ad arrischiare la vita. Nel 1855-56 fece frequenti gite, non di piacere, nell'isola. Raffaele Villari, nel suo libro Cospirazione e rivolta. Scrive: «Il Crispi penetrò più volte in Sicilia da incognito, con audacia degna di un Procida. e vi creò, alimentò e sostenne comitati rivoluzionarii. Effetti di quel lavoro furono, per infrenabile entusiasmo, i tentativi di Bentivegna e di Spinuzza. e più tardi, la spedizione di Sapri. Nel 1859 si fecero più attive le pratiche di Rosa lino Pilo, di Crispi e di Fabrizi per fare insorgere la Sicilia specialmente dopo l'armistizio di Villafranca. la loro attività si quintuplicò. Crispi, sempre impaziente e voglioso di tutto esaminare da sé. commise la nobile temerità di venire secretamente a Palermo. Lo aspettavano Salvatore e Raffaele Di Benedetto, (morto, nel 1867. a Monterotondo), e lo nascosero in una loro Casina di Campagna (!). Ivi Crispi. professore laureato nella costruzione di bombe alla Orsini, ne modellò alcune in creta. Esaminato lo stato degli animi e quello dei preparativi, Crispi stabilì il 4 ottobre 1859, quarantesimo anniversario della sua nascita, per l'insurrezione palermitana. Egli voleva solennizzare il suo genetliaco col sangue dei borbonici e con la vittoria della Libertà.

1 Nome di borgo.

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Il celebre Cromwell, in due giorni anniversarii della sua nascita, riportava appunto due famose vittorie contro gli Stuart. Il modo in cui doveva scoppiare la rivoluzione era questo: Assalire i soldati mentre recavansi al Foro italico. Il progetto era magnifico; ma svanì pei consigli dei moderati. Crispi, sdegnato e compromesso, s'imbarcò per Atene con falso nome; di là passò a Malta; poi. a Modena. A Modena Crispi conferì col Farini. Egli voleva promessa di aiuto in un possibile movimento siciliano. Farini lo rimandò a Rattazzi, il quale, allora, trovavasi al potere. Rattazzi, senza neanche ispirare un nuovo poeta Carbone, rispose come uri Eccellenza Tentenna. Frattanto il signor Urbano capitombolò. Il suo successore, il conte Camillo, non doveva avere molte simpatie per Crispi. il quale lo chiamava ironicamente il grande uomo. Certo è che fece chiamare l'esule siciliano in questura come un ammonito qualunque Crispi andò e si sentì domandare:Dite un po voi che ci fate a Torino? l— Crispi fece lo gnorri, e, senza pronunziar verbo, prese la via di Genova.

A Genova trovò Rosalino Pilo, reduce da Londra, dove si era recato dietro accordo preso con Crispi stesso, e donde ritornava dopo accordo stipulato con Mazzini per una spedizione nell'isola vulcanica. Rosa lino Pilo, visto Crispi, si pose in viaggio con Corrao per la Sicilia, onde scandagliarvi il terreno e prepararlo all'insurrezione. Crispi restò a Genova per cercare di ottenere il concorso di Garibaldi, e possibilmente quello del Governo, per una spedizione. Dirigendosi a Messina, Corrao e Pilo dovevano incontrare sulla strada un uomo con la cravatta bianca.

105 COLORI E VA LOBI

Questa cravatta doveva essere il segno di riconoscimento della persona, la quale, per disposizione data da Crispi, aveva l'obbligo di farsi trovare sulla via per aiutare i due eremiti politici. In realtà non fu rinvenuto alcun uomo con o senza cravatta.

Partendo per la Sicilia, Rosalino Pilo aveva lasciato a Crispi l'incarico d'indurre Garibaldi a capitanare uno sbarco nell'isola. L'idea di utilizzare Garibaldi era venuta a Rosalino. Crispi la realizzò. Nel frattempo Garibaldi era giunto a Torino. Crispi andò a vederlo, e gli parlò della terra dei Vespri che lo aspettava. Garibaldi, sul principio, fu titubante; poi, parve convinto, e mandò Crispi a Milano per avere le armi dal Fondo dei Fucili. In quei giorni l'attività di Crispi sembrò fenomenale. Parlava, trattava, corrispondeva con tutti: Lafarina, Bertani, Bixio, Sirtori, La Masa. AI suo ritorno da Milano, trovò Garibaldi nuovamente titubante. Crispi cercò d'incoraggiarlo. Vani tentativi! Garibaldi era un uomo di impressione, e il suo animo era allora impressionato dalle cattive notizie che arrivavano dalla Sicilia. L'insurrezione della Gancia abortiva. Il preteso vulcano pareva spento, e per sempre. Fuvvi un momento in cui Garibaldi, il quale voleva l'iniziativa popolare, smise definitivamente l'idea di mettersi in mare. I siciliani emigrati, non potendo frenare più a lungo la loro impazienza, decisero di affidare il comando a La Masa nell'ipotesi che Garibaldi persistesse nel diniego. Chiesero, però, che Garibaldi desse loro le armi e i danari raccolti. Il generale parve non trovarvi difficoltà.

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Crispi e Bixio si opposero. Dichiararono di non voler partire senza Garibaldi. E sapendone il debole, Crispi concertò con Fabrizi una fantastica corrispondenza siciliana, in cui si favoleggiava di una formidabile insurrezione nei dintorni di Palermo. Garibaldi si scosse. Frappolli, Sirtori, Medici invano tentarono di sconsigliarlo dalla partenza. Bixio, focoso quanto Crispi, ma meno rispettoso, disse a bruciapelo al Generale: «Ebbene, andremo soli; comanderò io la spedizione. — Sotto l'impressione di queste parole, che suonavano quasi un rimprovero, e delle notizie d'immaginarii successi degl'insorti, Garibaldi ebbe un colloquio decisivo col Crispi il 2 maggio 1860:

— Voi solo m'incoraggiate ad andare in Sicilia, mentre tutti gli altri me ne dissuadono.

— Ed io lo fo, perché convinto di fare cosa utile alla patria nostra, ed a Voi di sommo onore. Ho un solo timore, ed è la incertezza sul mare.

— Io vi garantisco sul mare — rispose il Generale.

— Ed io garantisco in terra — replicò il Crispi.

Convinto Garibaldi, la spedizione fu allestita. L'epopea dei Mille è conosciuta. Crispi seguì il Generale e ne divenne l'uomo di fiducia. Eppure, generalmente, s'ignorava la parte da lui presa nei preparativi della spedizione, e che, dopo Rosalino Pilo, a lui spettasse il maggior merito di quel portentoso avvenimento. Molti ne ignoravano anche il nome di battesimo. Per Cesare Abba, uno dei Mille, che scriveva le sue Noterelle giorno per giorno, il futuro Presidente del Consiglio, Francesco Crispi, diventa Giuseppe Crispi.

» Con Garibaldi lavora Giuseppe Crispi, un ometto che, quando lo veggo, mi fa pensare a Pier delle Vigne.»

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Lasciando stare Pier delle Vigne, che proprio non ci ha che vedere in questa faccenda, e mettendo in quarantena quel signor Giuseppe, egli è certo che il Crispi, nel 1860, teneva ambo le chiavi del cuor di Federico, il quale, viceversa, era Garibaldi. Fu per l'influenza di Crispi e di Bertani che a Lafarina fu intimato lo sfratto dalla Sicilia come un volgare malfattore. Sfrattarlo, poteva esser giusto; ma no, ciò non bastava: bisognava cacciarlo insieme a due spie!

Questa mise en scène, fatta per colpire l'immaginazione, era evidentemente opera di Crispi.

Depretis, successo al Lafarina, non volle prender di fronte il Crispi. Gli usò, invece, tutte le possibili cortesie, pur cercando di girarlo di fianco. I caporioni della parte lafariniana e cavouriana insistevano presso Depretis perché, con la sua influenza, inducesse Garibaldi a licenziare il Crispi. Ma Depretis, che sapeva l'umore del Generale, temporeggiava più che mai, sperando così di mantenersi gradito agli uni e agli altri. Il sistema depretisino non garbava agli annessionisti immediati, che vedevano di giorno in giorno aumentare la potenza del loro nemico. Bianchi-Giovini scriveva nell’Unione che Garibaldi, sebbene restìo personalmente, pure avrebbe finito per cedere ai consigli di Crispi, di Raffaele ed altri, e per la felicità dei siciliani avrebbe condisceso a salire sul trono. Il conte di Cavour, naturalmente, non pigliava sul serio cette tirade semihumoristique del Bianchi; cependant — soggiungeva il conte in una lettera ad un amico — vous comprendree que je serai bien aise le jotir oh Depretis aura promulguè le Statut et déclaré l'annexion.

108 CAPO TERZO

Depretis, mentre si teneva cucito al Crispi, per non perdere interamente la fiducia della parte opposta, pensò di offrire un portafogli al Cordova, lafariniano. Cordova esitò. Chiese consiglio a Lafarina e a Cavour. Lafarina gli rispose: — Non accettate se non dopo che dal Ministero sarà uscito il Crispi. — Cavour, invece, più sagace e come colui che contro Crispi non aveva motivi personali di odio, scrisse:Ella mi chiede un consiglio intorno alla proposta che il sig. Depretis gli ha fatto del portafogli delle Finanze, alla condizione di accettare quale collega all'interno e alla polizia il signor Crispi.

Stante la fiducia che il generale Garibaldi ha riposto nel signor Crispi, credo che ella non debba ricusarsi ad un temperamento conciliativo: epperò non la consiglierei a fare della esclusione del Crispi dal Gabinetto una condizione assoluta della sua accettazione del portafogli delle Finanze. Ma, nello stesso tempo, ritenuto essere egli, a torto o a ragione, considerato come rappresentante di un sistema politico contrario a quello che ella ha sempre professato, non credo che ella possa entrare in un Ministero a cui il Crispi dia nome ed indirizzo. Lo accetti come collega, ma non come ministro dell'interno. E pochi giorni dopo, lo stesso Cavour scriveva a Lafarina:Autorizzai Cordova a far leggere la mia lettera a Depretis, cui diedi così, per via indiretta, il consiglio di ritener Crispi per non mettersi male con Garibaldi, ma di non dargli, in realtà, alcuna efficace autorità sull'andamento politico in Sicilia. Pare che il Depretis non seguisse appuntino questi consigli del Conte. Nonché pensare a bandire il plebiscito, egli non pensava neanche a promulgare lo Statuto.

109 COLORI E VALORI

Cavour, un po' seccato, continuò a bombardare Cordova di lettere: «Continui ad operare come fa, onde ricondurre le cose sulla buona via, ed ella avrà fatto un gran bene all'Italia. Confido che il sig. Depretis, svincolandosi affatto dall'influenza del signor Crispi seguirà i suoi consigli pubblicando lo Statuto, e preparando ogni cosa pel plebiscito...»

Crispi era, dunque, la bete noire di Cavour. E senza dubbio si deve al signor Lafarina, se Cavour teneva di Crispi un concetto così incendiario. Depretis, posto fra l'incudine e il martello, mostrava tutta la buona intenzione di uscirne libero e sano. Nel 1876-77 si gridò alla meraviglia dinanzi alla sua squisita arte di trimmeggiare. Ma, evidentemente, Depretis aveva appreso quest'arte stando in Sicilia. Per non far più gridare Cavour e per non disgustarsi Crispi e Garibaldi, il Depretis, mentre promulgava lo Statuto, si palesò propenso a proclamare l'annessione per decreto dittatoriale anziché per plebiscito. Cavour, saputolo, s'irritò. Per lui era chiaro che Depretis agiva in quel modo sol perché non voleva o non poteva svincolarsi da Crispi. Tuttavia, comprendeva che, in quel momento, non era possibile imporre al Generale di licenziare il siciliano. Si augurava di mandarlo a gambe in aria subito dopo la venuta di Garibaldi a Napoli.

Non erano dello stesso avviso i lafariniani, i quali anelavano di liberarsi di Crispi presto presto. E giacché Depretis, per licenziarlo, non voleva fare un atto di dittatura o di prodittatura, essi tentarono un colpo di piazza. Un bel giorno si misero a gridare per le vie di Palermo: Abbasso Crispi!

110 CAPO TERZO

I crispini reagirono, e successe una fiera zuffa di parole e di grida, condite di reciproci complimenti e di sinceri augurii di felicità. Con la prudenza le cose si calmarono un pochino; «Cavour scriveva a Lafarina, il quale dal Piemonte dirigeva i moti palermitani contro Crispi:» Adoperi, caro Lafarina, la sua influenza in Sicilia, per mantenervi la concordia e la moderazione,— Era come dire al fuoco: — Adoperati a non bruciare!

A Palermo, intanto, sbarcavano i volontarii della spedizione Nicotera. I nuovi venuti cominciarono a mantenere il buon ordine, mettendosi a sgambettare per la città e a gridare — tanto per esercizio gutturale: Abbasso Depretis! La parte contraria se l'ebbe a male. e a grandi grida strepitò contro Crispi. Cosa strana! in quel giorno Crispi, cioè un siciliano, fu costretto ad abbandonare la sua isola perché ai suoi compaesani era saltata la mosca al naso per le minacce fatte a Depretis, piemontese. Ormai il temporeggiare non giovava più. Depretis venne a Napoli per indurre Garibaldi all'annessione immediata per plebiscito. Garibaldi si rifiutò. Depretis si dimise. Crispi, senza tornare in Sicilia, conservo a Napoli, presso il Dittatore, tutta la sua autorità.

Nella città delle Sirene seguitò il Crispi ad essere en butte all'avversione, per non dire all'odio, dei moderati. Nel profilo di Bonghi riferirò le parole che, in quell'epoca, scriveva quest'uomo politico contro l'amico di Garibaldi. Tutta l'emigrazione napoletana, di fresco rimpatriata, si mise ad avversare Crispi. Il programma di costui non ha bisogno di essere chiarito: Crispi, insieme a Bertani, voleva che Garibaldi proseguisse la sua marcia trionfale fino a Roma per proclamarvi Vittorio Emanuele Re d'Italia.  

111 COLORI E VALORI

Però, per varie circostanze, prevalsero consigli più borghesi, e l'annessione fu proclamata anche a Napoli. Nella quale venne, alfine, il Farini in qualità di Regio Luogotenente. Mentre appunto stava in Napoli il Farini, vi si fermò, per pochi giorni, il Montezemolo, destinato a Regio Luogotenente in Sicilia. Con Montezemolo era pure il Lafarina, il quale, come consigliere di Luogotenenza, proponevasi di disfare in Sicilia quanto vi avevano fatto Crispi e Mordini. Farini non fece una buona accoglienza a Montezemolo, e tanto meno a Lafarina — non ostante l'omonimia approssimativa. Onde Lafarina sfogò, al solito, il suo dispetto, nelle lettere a Cavour. Scandalo inaudito! non si erano trovate due stanze da offrire a Montezemolo, mentre Crispi teneva un appartamento magnifico, era ricevuto da Farini, gli scriveva e ne riceveva risposte. Sorvoliamo su queste miserie, ed eleviamoci in più spirabil aere.

Crispi, eletto deputato al Parlamento, andò a sedere all'Estrema Sinistra, atteggiandosi a garibaldino indipendente. Pur sedendo all'Estrema Sinistra, era però monarchico. Gli uomini di Destra lo vedevano di mal occhio, l'odiavano. L'odiavano tanto più in quanto che erano obbligati a riconoscere in lui qualche capacità. Talvolta erano perfino forzati a lodarlo, sebbene lo facessero a denti stretti.

Nel 1863 pubblicavasi a Milano un giornale di Destra intitolato Io Spirito Folletto. Era scritto con gusto e con brio. Orbene, lo Spìrito, per quanto Folletto, non si dimostrò di partito, e fu piuttosto assennato e spassionato nel giudicare Crispi. Evochiamo, quindi, questo Spirito, e facciamolo parlare:

112 CAPO TERZO

«Una fronte severa ed una gran barba grigia (Crispi con la barba?!!!), l'occhio abitualmente fosco a lampi lucenti sotto un osso sopraccigliare pronunziato che indica forza e tenacità di volere; l'aria tra cupa e riflessiva; il sorriso tra sardonico e fiero; un po' di studiatezza nella posa, un po' di affettazione democratica nel piglio, nella parola, nella stessa ricorrenza dell'ironia; qualche ostentazione, di buona fede, nel suo liberalismo fremente, ma non senza civiltà; delle pretese alla ferocia delle virtù repubblicane antiche commiste alle studiate tradizioni del famoso comitato francese di salute pubblica; un tribuno che è passato per lo sconquasso del 92, che ha subito il falso Machiavellismo in prosa poetica di Mazzini, ed ha fatto capo alla forma di buon senso del Garibaldi; un figurino di Saint-Just (1) tallito sopra un'ombra di Bruto, con delle aspirazioni ad essere uomo di Stato e delle velleità al potere... Noi confessiamo schiettamente che, malgrado la perfetta dissonanza di opinioni in cui siamo il più delle volte col signor Crispi, la sua è una figura che ci aggenia (2), e per cui proviamo deferenza non poca (3)...

«Venne alla Camera a personificare in certi suoi discorsi troppo frequenti, gravi, anzi pesanti più che no, solidi, ben costrutti, la dialettica rivoluzionaria di quel partito della Sinistra che, come il colosso di Rodi, sta su due promontori, un piede nella repubblica, l'altro nel monarcato...

(1) Senza il collo torto — mi auguro!

(2) Ci credo, ma col benefizio dell'inventario.

(3) Ma non simpatia o affezione...

113 COLORI E VALORI

Certo gli è con animo sincero che Crispi accettò e giurò la formola monarchica; ma il regno, egli lo vorrebbe così stretto nell'abbraccio ardente e consumatore della rivoluzione, che facile sarebbe vi rimanesse soffocato; e se ciò avvenisse, e ne avesse da saltar fuori un'altra forma, non egli, pensiamo, se ne vorrebbe desolare. Come tutti i democratici estremi, Crispi è violento ed assoluto, più nella teoria e nelle parole, affrettiamoci a soggiungere, che nei fatti. Quando parla, disse un tale, e disse arguto e giusto, vi pare debba ad ogni istante tirar fuori dalle tasche, in cui tiene le mani, la pistola e puntarla in faccia agli avversari (1). Gli stessi suoi discorsi sono revolvers a più colpi che scoppiano con vera regolarità... Il suo animo è buono e mite (2), ma il cervello è concitato e soggetto alla prepotenza intollerante del demagogo. Molte volte, nella sua mente, pur lucida e ferma, riesce ad offuscare il ragionamento una certa tendenza all'enfasi tribunizia, ed un cieco ossequio alle tradizioni rivoluzionarie... Crediamo impossibile nel fatto, ma in immaginazione Crispi non è lontano da vagheggiare il terrore, e di aggiustarci bellamente in salsa di ghigliottina noi moderati, tutti quanti siamo!... Instancabile, incommovibile nelle sue opinioni, ostinato nei suoi propositi, calcolante anche nei suoi entusiasmi, freddo nei suoi trasporti, tipo di congiurato sbocciato alla luce della pubblica discussione; libéralissimo, ma poco tollerante, avversario leale e uomo schietto, ci piace vederlo sul suo banco di deputato, in atteggiamento il più spesso ostile, o ironico, o severo, come una rampogna vivente,

(1) Questa è caricatura.

(2) Mite no, per Dio! tutt'altro!

114 CAPO TERZO

monotono, nei lagni della sua scontentezza universale e nel suggerimento dei suoi rimedi inefficaci ed impossibili; capo della Sinistra, la testa più governativa dell'opposizione solo perché fornito di un'ombra di senno pratico e di tatto delle convenienze; ma grandemente ci dispiacerebbe, e la crederemmo una meno lieve ventura pei paese, quando, per un passo più che improbabile, dovessimo vedere quella barba brizzolata campeggiare al di sopra del tappeto verde che ricopre la tavola su cui appoggiano i gomiti nel riposo e battono i pugni nel calore oratorio della discussione quei miseri mortali alla berlina che si chiamano i signori ministri.» Che direbbe oggi lo Spirito Folletto, se vedesse campeggiare al disopra del famoso tappeto verde non la barba brizzolata, ma i mustacchi bianchi dell'on. Crispi?.

Bonghi, che di Crispi aveva già detto molto male nel 1860, ne scrisse sullo stesso metro nel 1864, dicendo che quegli si stupefaceva continuamente di se stesso e della sua grandezza, e parlava per manifestare idee ch'egli reputava non pensate né rivelate da nessun altro per lo innanzi. Lo stesso Bonghi, verso il 1867, ebbe di nuovo occasione di parlare del Crispi; e il suo giudizio fu più giusto e più benevolo. Lo chiamò nomo di mente capace ed anche pratico, quando non l’acceca Vardore di parte o il fumo dell'orgoglio, come gli succede a sbalzi e alVimprovviso. Più tardi ancora, nel 1879, il Bonghi, nel suo Congresso di Berlino, reputava il Crispi l'uomo più capace e più colto che avesse la Sinistra. Come è chiaro, l'on. Ruggero del 1879 non la pensava come Fon. Ruggero del 1860! Sarei pur curioso di sapere il suo giudizio attuale!

115 COLORI E VALORI

Crispi, nella Camera, continuò a distinguersi pei suoi principi! di monarchicismo radicale ed unitario, e per la sua condotta piuttosto moderata. Questo contrasto colpiva ed impressionava gli uomini di Destra. Crispi, oramai, era capace di fare un discorso rivoluzionario ma non un atto idem. Rompicollo talvolta nel parlare, pratico sempre nell'agire.

Però anche nei discorsi imparò, a poco a poco, a moderarsi Nella seduta del 18 novembre 1864, discutendosela legge pel trasloco della capitale, egli pur parlando e votando contro il Ministero, dichiarò di restar fedele al programma del 1860: Italia e Vittorio Emanuele. Fu allora che pronunziò la storica frase: La Monarchia ci unisce; la Repubblica ci divide.

Mazzini, dolorosamente sorpreso da questa dichiarazione così esplicita e dommatica, rispose a Crispi nel Dovere di Genova. Scrisse fra l'altro:Vi so d'ingegno troppo arguto per ammettere che voi, oggi, siate monarchico di fede. Voi siete soltanto opportunista. Vedete un simulacro di forza che chiamasi monarchia, e la credete forza effettiva. Unitario sincero, ma educato a tendenze politiche che io potrei chiamare guicciardinesche, voi porgete omaggio alla Forza o ad un sembiante di Forza. Voi trovate che la monarchia potrebbe agevolmente, volendo, fare l'Italia, e l'accettate come mezzo all'interno. Se domani ci vedeste forti, voi sareste di nuovo con noi. È per dolore di antico affetto, memore di ciò che faceste pel Paese che io parlo.

116 CAPO TERZO

Non ostante sì aperta rottura col Mazzini. Crispi non divenne più accetto alla Destra La sua potenzialità pratica o mìnisteriabilità spaventava, anziché rassicurare, i signori moderati. Nella seduta del 23 marzo 1865, discorrendosi alla Camera delle voci corse circa la pattuita cessione del Piemonte alla Francia, il Visconti-Venosta, ex-ministro degli esteri, disse di quelle voci ch'egli le voleva meno ridicole per poterle meno disprezzare. Ma Crispi, che di quelle voci appunto si era pomposamente avvalso per discreditare maggiormente il Ministero, rispose: Non basta il disprezzo a smentirle. Altre denunzie consimili — per Nizza, per la Convenzione di settembre — disdette prima ufficialmente, essersi poi avverate. La Destra interruppe fragorosamente, ma Crispi l'apostrofò, chiamandone indecenti le interruzioni.

La Destra e il Crispi ebbero un nuovo travaso di bile nel 1866, poco prima della guerra. Mazzini era stato eletto deputato a Messina. Si trattava di convalidare la elezione. Il Ministero, secondato da tutti i moderati, voleva che l'elezione fosse annullata perché il Mazzini era ancora un condannato a morte in contumacia. Crispi, sebbene disgustato col Mazzini, insorse a protestare contro l'eccesso di legalità, che a danno del suo antico Maestro intendevasi consumare. Egli disse:La coscienza del paese ritiene cancellata la condanna. L'elezione è una censura a chi lo sgoverna.»

— È pazzo! è pazzo! — grida un onorevole di Destra — Siete pazzo voi! — ribatte il Crispi, — e, con questi complimenti alla Starcevic, l'incidente è chiuso.

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Crispi, che nel 1862 aveva rifiutato di seguire il Bertani nelle dimissioni da deputato, nello stesso anno 1866, qualche mese dopo l'incidente sovra accennato, diede novella prova del suo carattere moderato. Egli non solo consentì ai mezzi finanziari dal Ministero domandati per far fronte alle necessità della guerra, ma fu ancora relatore favorevole di una legge restrittiva delle libertà personale e di stampa. Era questo il maggiore dei sacrifici da Crispi fin allora consumati sull'altare della Necessità di Stato. Lamarmora, Dio benefico, offerse a Crispi un portafogli. Crispi rifiutò il pourboire. La sua condotta, in quell'anno, fu nobile e disinteressata. L'antico rivoluzionario agì con senno di patriota, ma non con smania Babagas.

Non molto tempo dopo, Crispi, Bertani, Cairoli, De Boni e Carcassi fondarono un gran giornale monarchico-raclicale, e lo chiamarono la Riforma. Il programma del giornale era precisamente quello del

Crispi. intanto, maturavasi sempre più ai principi! di governo. Aveva saputo rompere l'incantesimo di Mazzini, scuotendone il giogo. Nel 1867 ruppe un altro incantesimo: resistette al fascino di Garibaldi, osò guardare in faccia il Nume, parlargli e confutarlo. Garibaldi bramava ritentare l'impresa di Roma. Crispi vi era contrario, sapendone l'impossibilità pratica. A Andò a trovare il Generale a Firenze, all'albergo di New Yorck. Garibaldi non gli parlò di niente, conoscendone il modo di pensare. Per la seconda volta si videro senza far motto della città eterna. La terza volta, Crispi non seppe più restar muto, e risolutamente cercò dissuadere il Generale dalla marche en avant su Roma.

118 CAPO TERZO

Secondo lui, il Governo si sarebbe opposto, e la Francia sarebbe intervenuta. Garibaldi, epicamente, rispose ch'era stanco di vivere fra quelle vergogne e che voleva morire con le armi alla mano. Quanto poi alla guerra con la Francia, egli la desiderava come mezzo di rigenerazione per l'Italia. E Crispi:Se la Francia interviene, sarò con voi; altrimenti no.» La catastrofe di Mentana diede ragione alle previsioni di Crispi.

L'azione di Crispi si accrebbe d'importanza nel periodo 1869-71. Vuolsi che, allora, egli entrasse in secrete trattative con Bismarck, e gli assicurasse la resistenza del popolo italiano contro un'alleanza con la Francia a danno della Prussia. Checché sia di ciò, egli è certo che Crispi e i suoi amici di Sinistra, nel 1870, forzarono il Ministero Lanza a marciare su Roma. Se Lanza non li avesse intesi, e se, al contrario, avesse fatto l'alleanza con la Francia, essi avrebbero innalzate le barricate!

La vita politica di Crispi dopo il 1876 non ha bisogno di essere ricordata. Nel dicembre 1877, l'onorevole rappresentante di Palermo divenne ministro dell'interno. Nel marzo 1878 cadde. Non ritornò al potere che nell'aprile 1887.

L'on. Crispi venne al Governo coll'intento di democratizzare la monarchia. E lo stesso ideale di Gioberti. Come intende raggiungerlo? Con queste riforme: Suffragio universale; scrutinio di lista per provincia; indennità ai deputati; abolizione di ogni culto privilegiato; abolizione della leva militare e trasformazione degli eserciti permanenti in milizia nazionale; soppressione dei grandi comandi militari;

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responsabilità ministeriale determinata per legge; giustizia più accessibile ai poveri; istruzione secondaria affidata alle Provincie; istruzione superiore lasciata interamente alle università rese autonome; esclusione dell'insegnamento religioso; decentramento amministrativo; imposta progressiva; abolizione dei monopolii bancari, delle dogane, degli impedimenti daziari, delle imposte sul consumo. Questo è l'ideale di Crispi. Ma si può dire che ne sia anche il programma politico? Ne dubito assai.

Come uomo di partito, Crispi è rimasto sempre lo stesso. I Destri sono tuttora i suoi nemici. Alla maniera degli antichi Greci verso gli stranieri, egli ripete contro gli avversari: Cam alieniginis, cani bar baris aeternum omnibus Graecis bellum est. Li considera con orrore. Potrà seguire una politica di Destra, ma giammai consentirà ad accostarsi agli uomini storici della medesima. Accostandosi ad essi, temerebbe di contaminarsi. Un bramano non avrebbe steso la mano per salvare un dandolo da un precipizio. Agli occhi suoi un cavallo, un elefante, un serpente avevano maggior valore. Tale è appunto il sentimento di Crispi verso l'antica Destra. Contro Civinini, perché appartenente a questo partito, Crispi fu senza pietà. Civinini era stato un eroe sui campi di battaglia. Crispi dimenticò il passato glorioso del suo compagno, e aprì contro il povero pubblicista le batterie micidiali del suo odio. Fu inesorabile. Lo fece morire di crepacuore. In quell'occasione egli mostrò di avere un animo fiero, ferreo, inesorabile, ma non generoso e magnanimo. Si può ammirare la tenace fermezza del partigiano, ma non si può amare l'uomo.

120 CAPO TERZO

Come oratore. Crispi non occupa un gran posto nella Camera. Nessuno dei suoi discorsi ha avuto un successo di tribuna. Amici e nemici lo ascoltano, quelli con deferenza, questi con interesse; giammai con entusiasmo. Crispi. del resto, non ha che pochissime delle doti dell'oratore. Viso regolare, non antipatico ne simpatico, statura piuttosto bassa: voce saccadee. sorda, non sonora né fragorosa: parola punto rapida, punto facile e niente uguale: dizione talvolta imprecisa, non rispondente all'intenzione del parlatore; stile non curialescamente gonfio ne burocraticamente umile, ma semplice e piano, sebbene senza eleganza; non brio, non spirito, non humour; non di rado qualche freccia ironica; concetti non peregrini ne originali, eppur non volgari; argomentazione punto serrata uè stringente, ma accentuata in due o tre parti del discorso: analisi imperfetta: sintesi esatta ed efficace: frasi frequentemente felici e scultorie: conclusione gagliarda e con mise en scène. Crispi non è un fiume di eloquenza, né un torrente, né un lago. La sua eloquenza rassomiglia alla pioggia del mese di marzo: un po" in gran quantità, poi una pausa, poi un altro poco in piccola quantità, poi un'altra pausa, e, come accompagnamento sinfonico e apparecchio scenico, un frequente rumoreggiare del tuono e un intermittente guizzar dei lampi. Interrotto bruscamente, Crispi perde le staffe, e minaccia. Nel dicembre 1632, parlando sulla legge del giuramento, la Destra, forse per incoraggiarlo, cominciò ad interromperlo. Crispi si rivolse da quel lato, e, con piglio irato, proruppe: Rei 1861, cera una maggioranza più intollerante di questa, e la tenni a dovere; farò altrettanto di voi.

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Di tattica parlamentare Crispi è perfettamente digiuno. Non ha studiato Bentham, o l'ha dimenticato. Non sa o non vuole dirigere un'Assemblea. Preferisce dominarla spaventandola. Con Crispi gli onorevoli deputati non si possono permettere di esprimere tutto ciò che. parlamentarmente, è lecito dire. Per un nonnulla Crispi si alza in piedi, si agita, gesticola, batte i pugni sul tavolo ministeriale. Rassomiglia in ciò a Casimiro Perier. il quale, alla Camera, stava sempre in uno stato d’indescrivibile eccitazione nervosa. Tenez bon — diceva egli al suo collega Montaìivet importunato dall’Opposizione — et à ceux qui vous menacent, f... leur votre verre d'eau sue ree au vìsage! E non solo nella mimica. ma ancora nel linguaggio. Crispi non rispetta le giuste velleità dell'Assemblea. L'anno passato, disse in piena Camera: — Voi non avete il coraggio delle vostre opinioni. Votate a scrutinio secreto in maniera diversa da quella in cui avete poc'anzi votato per appello nominale. — La maggioranza si pose a ridere come se le si fosse rivolto un complimento! Senza necessità Crispi è solito pigliare a tu per tu un onorevole per apostrofarlo così: «Dove ti trovavi nel 1860 quand'io combatteva? e nel 1866? et similia. Loda sempre, e sperticatamente, sé medesimo. Vale molto, non v'è dubbio, ma è troppo vano di sé stesso. La modestia non è il suo difetto. Una volta, in un battibecco col Mancini, giunse perfino ad affermare:Quando sono stato al potere, i miei consigli furono sempre utili al mio paese; non ho fatto se non la fortuna d'Italia; né potete non riconoscerlo, neanche voi. In quest'anno, rispondendo al Boufadini, che gli aveva parlato di economie da farsi, Crispi fu più che mai superbo e fiero: Bonfadini mi ricorda il 1864 in cui i ministri diedero l'esempio di ridurre i loro stipendi.

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Io potrei ricordarle un altro tempo, onorevole Bonfadini: il 60, in cui i ministri non furono pagati, ed io fui — e me ne compiaccio — fra essi. Ma crede ella, in buona fede, che gli stipendii dei ministri sieno tanto pingui da farli degnamente vivere? Non lo credo. Molti di noi, che, prima di trovarsi a questo posto, esercitavano delle professioni liberali, guadagnavano, ogni anno, qualche cosa di più delle misere venticinquemila lire che ora ricevono. E quel che è peggio, venendo al Ministero, non abbiamo potuto diminuire la spesa, né mettere le nostre famiglie in condizioni di una vita meno conveniente di quella che tenevamo quando non eravamo ministri. Non suggeriamo alla folla di chi non riflette ricordi incompleti, i quali possono dare occasione a critiche intempestive.» Francamente, queste vanterie non si possono approvare.

Di Crispi, Presidente del Consiglio e ministro dell'interno, bisogna portare tutt'altro giudizio. Egli ha tanta coltura quanta gli può bastare per sorvegliare e, all'occorrenza, dirigere i varii dicasteri. Come ministro dell'interno ha la mano ferma ed abile. Nel 1878, quando scendevano nella tomba il primo Re d'Italia e l'ultimo Papa-Re, nessun disordine, grazie all'energia di Crispi, si verificò. Durante i recenti viaggi dei nostri Reali in Romagna e dell'Imperatore in Italia, l'ordine pubblico neanche fu turbato, quantunque si turbasse, non sempre per necessità assoluta, la quiete privata di parecchi cittadini, i quali non desideravano di meglio che di godersi le feste. Oltremodo lodevole è poi la condotta di Crispi come Ministro degli esteri.

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Dalla morte di Cavour finoggi l'Italia non fu giammai tanto rispettata quanto oggi. Lo ripeto: grandi cose Crispi non ha ancora fatto; ma, se esse non si avvereranno, ciò non sarà stato per mancanza di buona preparazione. Temperamento rivoluzionario, carattere dittatorio,

Crispi ha grandi difetti, ma ha pure grandi qualità.

E rude, brusco, superbo col Parlamento, verso cui ama cromwelleggiare o bismarcheggiare; ma ha un giusto concetto del potere esecutivo, ch'egli vuole forte, semplice, accentrato. Depretis intendeva governare con le Camere. Crispi intende governare col paese come il Palmerston degli ultimi tempi. Manca di mitezza e di generosità; ma ha coraggio civile, sentimento della dignità nazionale e amore di gloria. Il carattere nazionale non si rialzerà sotto l'amministrazione di Crispi, perché questi, per dominare, vuole che tutti pieghino la testa e obbediscano senza discutere; però la patria potrà acquistare maggiore prestigio. Dieci anni di dominazione crispina ci daranno un'Italia gloriosa e un Italiano abbietto.

124 CAPO TERZO

§ 3. — I Comandanti.

Sommario. — Zanardelli — L'insofferenza dei guanti — I ministri simpatici — Dupin padre di una scimmia — Zanardelli repubblicano —Francesco I parodiato — Il ministro — Il giudizio di Catone — Le medita zio lidi Zanardelli — Dicasteri accivettati — Le memoriette anemiche — La medicina omeopatica — L'oratore — Zanardelli e Bonghi — Medire, non maudire — Gladstone e Zanardelli — Ciò che Zanardelli non potrà dire — Il Guizot della libertà e il Baiardo della democrazia —L'esposizione generale di cicatrici — Cairoli che arresta il duca di Parma — Il rapimento dell'imperatore d'Austria — I fratelli Cairoli — Il 1861 e il 1878 — La vittima infiorata — Cairoli e Cicerone —  Il capitombolo nel Mediterraneo —  Il franose di Cairoli — Il bien assez di Mellana — Cairoli e Lafayette — Che cosa dirà la storia — Baccarìni — Gì'ingegneri politici e ingegni omonimi — Il calcio della Fortuna. — IL ministro dei lavori pubblici— La vera Italia irredenta — Baccarini e il problema sociale — L'attività e il riposo della politica — Mancini discendente da Mazarino — I genitori — L'enfant prodige — Avvocato a diciotto anni — Il lavoro sul Paratremuoto— Le lodi di Macedonio Melloni — Lo scritto sul Colera — L'insegnamento di Mancini — Il professore arrestato — Il colloquio di Mancini col Re Ferdinando — La spedizione in Lombardia — La protesta del 15 maggio— Mancini difensore dei processati politici — L'ordine di arresto — La fuga — La condanna — Esilio glorioso — L'avvocato improvvisatore — Il professore di diritto internazionale — Le proteste austro-borboniche e la risposta di D'Azeglio — Il ritorno a Napoli — Mancini che mette in furore il Papa — Il ministro degli esteri — L'oratore — Un futuro ministro, scrivano di Mancini — Nicotera allievo di Settembrini — Nemico del greco, amico dell'Italia — Il soldato di Napoli e di Roma — Sapri — Rosolino Pilo in convulsioni — Un duello all'americana — Un bagno involontario — Padula — Sanza — Dogali in anticipo — La descrizione del Faldella — Il calamaio di bronzo e la testa di un Procuratore Generale — Il leoncino di Mazzini — Ricasoli che vuole levarsi la maschera — La protesta, — Mazzini che difende Nicotera — Ricasoli che mentisce — L'evoluzione — Nicotera che balla al Quirinale — Bismarck che non sa danzare la quadriglia Brididi — La congiura dei baroni — Il ministro dell'interno — Il melodramma — Le armi di un brigante offerte al Re — Nicotera contro Depretis — Sogni svaniti — La figlia di Pisacane — Nicotera è liquidato?

— Sandonato — L'affetto per la madre — Il cospiratore— Il giornalista a Parigi — Sandonato espulso dalla Francia — Colpi di Stato e colpi di scopa — Il giudizio di La Va renne — A Napoli — Sandonato ferito — Sandonato che nasconde Depretis — Vittorio Emanuele che viene nel vicereame del Duca — l difetti di Sandonato — L'onorevole Villa — L'avvocato-letterato — Il giornalista — Il Corriere delle Alpi— Villa e Mazzini — La Permanente — Il viaggio a Londra — Villa ministro — La relazione sul Codice penale.

Dell'attuale guardasigilli scriveva Fortis nel 1876:Veste di nero, ma ha la insofferenza dei guanti. Al banco ministeriale dà alle lunghe membra della sua allampanata persona i contorcimenti più bizzarri, le ripiegature più strane. Si attortiglia sovra se stesso, prende degli scorci fantastici — ora si ritira quasi dentro come la lumaca — ora si estende e quasi si esplica come la lucertola. Cairoli e Zanardelli hanno questo di comune che sono simpatici. L'esser simpatico è tanto necessario ad un ministro quanto ad una donna.»

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Accetto pienamente la teoria della simpatia ministeriale come necessità di Governo, sebbene, a dire il vero, vi siano stati ministri brutti o antipatici: p. e Cavour, Thiers, Dufaure, Dupin — che rassomigliava ad una scimmia. — A Dupin, una volta, capitò una curiosa avventura, grazie alla formosità del sua volto. Egli aveva avuto in dono un intelligente scimmiotto. Lo teneva nell'anticamera. Un giorno, un contadino venne a chiedere un consiglio al famoso avvocato, e nel tempo medesimo gli portò un cestina di frutta. Fu fatto aspettare nell'anticamera, dove stava lo scimmiotto. Gentile di animo, il contadina offrì delle mele a quel formoso nostro predecessore — secondo Darwin. — L'offerta irritò il creatore del genere umano, e il contadino, confuso e vergognoso,, si ritrasse da parte, né più parlò. Poco dopo fu chiamato nello studio di Dupin. Discusse dell'affare; poi,, ad un tratto, licenziandosi, disse, tutto mortificatoT che temeva di aver irritato le petit del signore, e faceva le sue scuse. — Quale petit? — domandò Dupin sorpreso. — Quello che stava nell'anticamera — rispose Jacques Bonhomme. Tableau! Il contadino aveva preso lo scimmiotto per figlio di Dupin!

Zanardelli è nato nella forte Brescia. Ha cinquantanove anni. Prima di essere giureconsulto fu soldato. Le armi e la toga convengono a lui ugualmente.

Volontario, fece la campagna del 1848. Poi, emigrò in Toscana, dove manifestò spiriti repubblicani, siccome il tempo e il luogo richiedevano. A Pisa prese la laurea in legge. Ritornato a Brescia, volle fare l'insegnante di diritto.

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Petruccelli dice che la polizia austriaca vietò a Zanardelli d'insegnare nel caso che non consentisse a riconoscere per iscritto la legittimità del Governo austriaco in Italia, e riferisce la sdegnosa risposta del fiero bresciano:Potete togliermi tutto fuorché l'onore!» Spero che questa frase sia più autentica di quella attribuita a Francesco I in seguito alla battaglia di Pavia.

Fino al 1859 Zanardelli fece il pubblicista e l'agitatore. Non volle, però, essere cospiratore: simile, in ciò, ad Alberto Cavalletto. Col Gabinetto di lettura tenne vivo il fuoco del patriottismo nella sua città.

Subì anch'egli gl'influssi della corrente di simpatia savoina, e divenne monarchico, ossia credente in Vittorio Emanuele. Il genio di Cavour e il galantomismo del Re lo abbagliarono. Nel 1859 Cavour, il quale ne aveva intuita l'energia remuante e la forza magnetica di attrazione, lo mandò a Brescia perché la facesse sollevare. Nel 1860, inviollo a Napoli con Venosta e Finzi, ex-repubblicani anch'essi, per controminare il lavoro dei mazziniani. Nel 1866 Zanardelli fu Regio Commissario nel Veneto, ma ricusò di essere prefetto. Bisogna dire il vero: I Ministeri di Destra ebbero sempre una grande simpatia per Zanardelli; ma Zanardelli si mostrò sempre restìo a rispondere con cordiale effusione alle loro cortesie. Se la smania del potere lo avesse più presto invaso,, egli sarebbe stato ministro molto tempo prima del 1876. Preferì di rimanere fedele alla Sinistra, e aspettò. Nè le sue speranze furono deluse.

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Difatti, Zanardelli è stato ministro dei lavori pubblici con Depretis (1876-77), dell'interno con Cairoli (1878), di giustizia nuovamente con Depretis (1881-83). È ritornato al dicastero della giustizia nel 1887.

Zanardelli ha lasciato traccia del suo passaggio in ogni singolo ministero. Ai lavori pubblici ripetette il miracolo di Spaventa, e meravigliò per la grande competenza. Lo dice Zini, e bisogna credere a questo giusto Catone delle nostre miserie contemporanee. All'interno non seppe impedire l'ingerenza della politica nell'amministrazione. Sentì, seguì con troppo ossequio, le minacce, camuffate da consigli, che osavano pronunziare i signori deputati. Trascurò l'amministrazione per le conferenze con gli onorevoli. Ciò da un lato. Dall'altro, con la sua politica liberale, operò il miracolo di attirare molti repubblicani nell'orbita di Casa Savoia, se non in quella della monarchia. Zuppetta scrisse che Zanardelli facendo repubblicano il Re, aveva fatto realisti parecchi repubblicani. Forse, il ministro fu troppo roseo nelle sue previsioni. Ebbe lo sguardo troppo lontano — non lo sguardo giusto. Presbite, vide, in lontananza, il carro trionfale della monarchia che a sé portava aggiogati i repubblicani; ma non vide i delinquenti o i pazzi che aguzzavano i pugnali e preparavano le bombe. Con gli occhi fissi nelle stelle, cadde in una pozzanghera. La pozzanghera si chiamò Passannante. Sull'opera complessiva di Zanardelli come ministro dell'interno, lo Zini portò un giudizio severo e con tinte un po' accese, ma in fondo giusto. Io amo qui riferirlo: Strana cosa che le cure materiali, le sollecitudini dei grandi servizi amministrativi, i particolari, la distribuzione (a dirla) dei lumi superiori alla gerarchia dipendente,

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egli abbandonasse facilmente agli ufficiali maggiori e minori del suo dicastero, e in arroto alli faccendieri parlamentari non mai più assidui ed impacciosi. Egli, il ministro, chiuso nel sancta sanctorum, d'onde l'inesorabile usciere respingeva i profani, ed un famigliare dischiudeva ai privilegiati beatitudine di quei misteri, egli passava i giorni e le notti a meditare... non già che Dio non fosse, come Guido Cavalcanti, fra gli avelli; ma di quanto si avesse a scemare la ragione del Dio Governo negli ordini di libertà. Stupendissima quistione, ben meritevole di essere scrutata e analizzata dalla sottile sua intelligenza di statista filosofo: ma fuori di tempo. — Bontà divina! — e sopra tutto fuori dell'ufficio; imperocché, sotto questi influssi di luna, al ministro dell'interno si domandi piuttosto dell'operare che del meditare a governo. Aggiungi a contrasto l'indole calda, il temperamento subitaneo e insofferente; che lui traevano di spesso a guizzare d'imperiosità, di voglio e di disvoglio, a urti nervosi, con grandissima confusione delli Dicasterici accivettati, e non piccola confusione di cui si era messo a lato, di quei generici, coadiutore zelantissimo, divotissimo

«Che poi dell'aulica — frusta prendea

«la sua rivincita — sulla livrea!

«Il quale penso che meglio d'ogni altro potrebbe confermare come lo amico Zanardelli proprio di ministro dell'interno poco intendesse e meno ci attendesse; tutto assorto a speculare di metafisica, ed a versare con mano diurna e notturna sui commentari e le effemeridi di altri Parlamenti a riscontro di sue disquisizioni: e solo umanandosi per fare ragione e conferenza con deputati.»

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Come ministro guardasigilli, Zanardelli ha ottenuto la duplice soddisfazione di apporre il suo nome a due nuovi Codici: il Codice di commercio e quello penale. Però egli bada troppo alle leggi e poco agli uomini che devono eseguirle. Cerca di scrivere la giustizia nei Codici, ma non sceglie i mezzi adatti ad ottenerla nella pratica. S'egli volesse passare alla posterità con la fronte cinta dall’aureola della gloria imperitura, dovrebbe fare una riforma radicale nella magistratura, e rendere facile a tutti l'adire la giustizia. Fra i magistrati oggi sono verità giuridiche l'ignoranza e la perversità, la nonchalance e il dolce far niente. Eccezioni vi sono, ma poche. Noi giovani, che da poco siamo entrati nella vita del foro, abbiamo di già perduto ogni fede nella Dea Temi. E inutile studiare, è vano consumar tempo e cervello. I giudicanti amano le memoriette anemiche e la dottrina giuridica a spiccioli. Si spaventano dei grossi processi, e vogliono che gli avvocati s'ispirino ai principii della medicina omeopatica applicata al diritto. E i mali si restringessero in questi limiti. V'è ben altro! Il libro di Minghetti sull'ingerenza della politica nella giustizia espone — pur troppo! — verità assiomatiche. Zanardelli dovrebbe purificare il corpo della magistratura e rendere la giustizia gratuita; ma egli non farà né l'una cosa, né l'altra.

Ciò non pertanto, Zanardelli è e rimarrà una nobile figura. Il disinteresse suo è proverbiale. È tradizionale l'idealità delle sue aspirazioni.

130 CAPO TERZO

Zanardelli è scrittore ed oratore. Scrive come parla. La relazione sulla legge elettorale politica è un lavoro classico. Quella sul nuovo Codice penale è anche pregevole, ma non uguaglia la prima. Il libro sulla avvocatura è originale e zeppo di erudizione. È un libro di educazione e distruzione. Leggendolo, il giovane sente un'aura d'idealità carezzargli l'anima! Come oratore, Zanardelli non ha nessuno, nella Camera attuale, che lo superi. Elevato e profondo nei concetti, impetuoso, quantunque non corretto, nel porgere, splendido nella forma. Fluido, elegante, ispirato, veemente è il suo débit. La parola è facile, veloce, ornata. Il suo dire, con un poco più di enfasi, di posa, di teatralità, sarebbe tribunizio, e, con un poco meno di questi elementi, somiglierebbe al modo di parlare del débater. Zanardelli non ha spirito, non humour, non enjouement. Talvolta ha l'ironia e il sarcasmo. Mai adopera la caricatura. La serietà profondamente sentita è la nota caratteristica dei suoi discorsi. Non è avaro di citazioni classiche e di ricordi storici. È sopratutto felicissimo nelle risposte agli attacchi personali. Nel dicembre 1878, fuvvi un duello di reparties fra lui e l'on. Crispi. Crispi chiamò inqualificabile una interruzione dello Zanardelli, il quale lo aveva eccitato, sardonicamente, a passare a Destra. Disse che era proprio meravigliato di vedersi così apostrofato da uno di quei deputati che avevano permesso alla Destra di entrare, nel dicembre 1877, come il cavallo di Troja, in mezzo alla Sinistra, e che avevano servito sotto Ministeri del partito caduto nel 1876. Zanardelli, piccato, rispose subito che lasciava qualificare alla Camera le parole sue e quelle di Crispi.

131 COLORI E VALORI

Smentì di aver parlato o votato nella seduta del 14 dicembre 1877, e rispondendo, particolarmente, all'accusa di essersi lui fatto promotore di meetings, disse in tuono solenne: «Quis tulerit Graccos de seditione quaerentes? — perché io non fui mai promotore o presidente di meetings quanto l'on. Crispi.»

Vivi furono gli applausi a sinistra, al centro e a destra. Crispi replicò tirando in ballo l'on. Cairoli, ma uscì dalla questione, e non trovò nella sua faretra un dardo abbastanza avvelenato da ferire a morte l'avversario.

A somiglianza dell'on. Bonghi, lo Zanardelli non ha peli sulla lingua, e dice senza orpello il suo pensiero. Senonché Zanardelli non attacca con violenza, se non quando è stato personalmente provocato; mentre Bonghi scende in campo senza che nessuno ve lo abbia chiamato: le sue invettive sono, quasi sempre, scoppi di fulmine a ciel sereno. La risposta di Zanardelli è sarcastica nella forma, ma piena di serietà nell'intenzione; essa conquide, soggioga, schiaccia. Invece, la risposta di Bonghi, fatta in forma di caricatura e in tuono burlesco, stuzzica e provoca. La critica di Zanardelli è fatta a malincuore, e da essa spira un'aura di melanconia, simile a quella dei discorsi di Martignac, il celebre ministro liberale della Restaurazione. Al contrario, la critica di Bonghi tradisce l'intima soddisfazione dell'oratore di poter dir male. Bonghi non brontola per la dura necessità di dover biasimare questo o quell'atto del Ministero. Egli è contento che un errore si sia commesso per poterlo rilevare. Non maledice; dice male. Medire, non maudire — ecco il suo debole e la sua tendenza.

132 CAPO TERZO

Indole impressionabile, sensibile, nervosa, l'on. Zanardelli non ha saputo sempre resistere od assistere, freddo e sprezzante, al torrente della decadenza morale che ne circonda e travolge. Talora si è scoraggiato ed ha anelato alla giubilazione politica. Tale proposito manifestò a Venezia nel novembre 1885. Questi momenti di sconforto, li ha avuti pure Gladstone. Ma tutti e due, l'italiano e l'inglese, sono poi rimasti sulla breccia. Zanardelli ha la sincerità politica e la serietà di Gladstone, ma non ne ha la fibra di apostolo. Gladstone significa iniziativa; Zanardelli vuol dire resistenza — resistenza per la libertà, s'intende. Con Gladstone un paese è sicuro di conquistare la libertà; con Zanardelli, è sicuro di conservarla. Gladstone si presenta ai suoi concittadini, si fa largo nella folla, combatte coi concorrenti, afferra il potere, lo perde, lo riacquista; Zanardelli, quando non è ministro vive per lo più nella sua Brescia, e per prendere parte attiva alla vita politica si fa pregare.

Zanardelli, illustre giureconsulto, scenderà dal posto di guardasigilli con onore, ma non con gloria. Avrà le congratulazioni dei dotti, ma non le lodi degli avvocati né le benedizioni dei poveri. Egli non potrà dire ciò che lord Brougham desiderava poter dire di sé: — Trovai la giustizia libro suggellato; l'ho lasciata libro aperto a tutti. Era la privativa dei ricchi e dei potenti; l'ho resa patrimonio dei poveri. Serviva di sgabello all'iniquità; io l'ho fatta divenire bastone degli oppressi e palladio degl'innocenti!

Insieme a Zanardelli, il Guisot della libertà, la Lombardia vanta in Cairoli il Baiardo della democrazia.

133 COLORI E VALORI

Cairoli. infatti, non altrimenti che il leggendario guerriero francese, può chiamarsi cavaliere sans reproche et sans pear. Non è un vecchio decrepito. Ha soli sessantadue anni. Ma le ferite riportate in servigio della patria lo hanno, da un pezzo, relegato fra gl'invalidi. E della città di Pavia, e di nobile famiglia.  Il suo corpo è una esposizione generale di cicatrici — ricordi di una vita di battaglie. Il suo sangue è stato sparso prima contro, poi pei principi, sempre, però, per l'Italia e per la libertà. Giovanissimo, fece parte, nel 1848. della compagnia dei volontarii pavesi, ch'egli comandò, e che tanto onore recò al nome lombardo. Cairoli ha raccontato egli medesimo, in un manoscritto affidato all'egregio prof. Ottolini, alcune delle glorie di questa compagnia. Sentiamole, adunque, ricordare dalla bocca stessa del comandante di quel pugno di eroi:Questa compagnia si distinse assai, ed ebbe due volte la menzione onorevole dopo i combattimenti di Pastrengo. di C'isauo e di Colmasino. Venne organizzata in poche ore, appena sgombrata Pavia dagli Austriaci, e partì immediatamente. Accolta festosamente a Cremona, non molto lungi dalla detta città, arrestò il duca di Parma, che in carrozza da posta recavasi a Mantova, sperando che il travestimento potesse agevolargli la fuga. Ma un toscano, che si era arruolato nella compagnia dal punto ch'essa partiva da Pavia, lo riconobbe, ed insistette tanto, e con tale accento di verità, da togliere ogni dubbio.

Quindi il giovane Duca, malgrado il suo diniego ed il passaporto che lo indicava servo di un tale Hernandez, suo compagno di viaggio, fu condotto a Cremona, scotato da pochi volontarii, tra i quali colui che lo aveva riconosciuto.

134 CAPO TERZO

Mentre nella sala del Municipio stende vasi il verbale per la consegna del prigioniero, prese a costui vaghezza d'interpellare l'incognito toscano, che si rivelò per Domenichini da Campomaggiore, già suo mozzo di stalla a Lucca battuto più volte brutalmente da lui e finalmente ridotto, per disperazione, alla fuga. Fui più anni ramingo — soggiunse — povero, sofferente, avido di vendetta. Me fortunato che, nel compierla oggi, posso colpire non solo il mio nemico, ma ancora quello della patria,

Dopo il 1843, Benedetto, non potendo combattere, cospirò. Cosa curiosa! Cairoli pare avesse, in quell'epoca, il debole di arrestare o di rapire i sovrani. Dopo il duca di Parma, ecco l'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Questa volta, è vero, il rapimento fu soltanto pensato. Si era nel 1852, e l'attuale nostro alleato stava al campo di Somma, in Lombardia, per assistere alle grandi manovre. Alcuni patrioti lombardi, fra i quali il Cairoli, idearono di rapire l'Imperatore e di non lasciarlo libero se non dopo averne ottenuta, per atto scritto, la cessione della Lombardia al Piemonte. L'idea era bella, e, in seguito, fu Orsini che tentò di attuarla contro Napoleone III. La fortuna non fu propizia agli arditi rapitori.

Implicato, nello stesso anno, nei fatti che dettero luogo al processo di Mantova, Cairoli fuggì in Piemonte, dove continuò a cospirare contro l'Austria. Nel 1859, spronato sempre dalla eroica madre, egli andava a combattere sotto le bandiere di Garibaldi, e con sé conduceva altri quattro fratelli. Perdeva il fratello Ernesto a Varese. Nel 1860 Benedetto seguiva in Sicilia il Garibaldi, al quale portò 45 mila lire del. Municipio di Pavia. Nei Mille egli comandò la 7a compagnia. Perdette il fratello Luigi. Nel 1866 combatté nel Trentino. Nel 1867 fu tra i soldati di Mentana.

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Perdette, ai monti Parioli, gli altri due fratelli Enrico e Giovanni. Egli, per conto suo, scherzò sempre con la morte, la guardò in viso con ischerno, la disprezzò, la vinse. Restò ferito a Calatafimi, a Palermo e in molti altri incontri. La ferita di Palermo fu la più grave, e lo costrinse, dopo una dolorosa operazione, a pigliar le grucce. Con le grucce appunto fece la sua entrata nella Camera italiana, nel 1861. Le alzava, quando doveva votare. Poi le smise, avendo ricuperato il libero esercizio delle sue gambe. Più tardi, nel 1878, Cairoli entrava nella stessa Camera italiana, e anche con la gamba offesa. Zoppicando, si appoggiava al braccio dell'on. Bertani. La ferita, questa volta, aveala riportata rischiando la vita non contro ma per un Re — il Re d'Italia aggredito da Passannante. Nel 1861, gli applausi erano stati parziali: lo spirito di partito impediva l'espansione della simpatia personale. Nel 1878 gli urrah furono generali. Entrando Cairoli nell'aula, tutti i deputati, repubblicani, radicali, destri, sinistri, centralisti, alzatisi in piedi, freneticamente applaudirono. E dopo gli applausi, gli votarono contro. Esaltato l'uomo, condannavano il ministro. Infiorata la vittima col lauro della Libertà, l'immolavano sull'altare dell'Ordine.

Cairoli, nella Camera, sedette sempre alla Sinistra Estrema. S'impose presto col fascino della sua eloquenza tribunizia. Nella prima Legislatura del nostro Parlamento parlò concitatamente a favore della proposta di concedere la cittadinanza italiana agli emigrati delle Provincie non ancora unite al Regno. Scrive il Faldella:

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«Cairoli declamò un discorso fiammeggiante per impetrare la cittadinanza italiana agli esuli veneziani e romani; discorso, che, in una antologia di oratoria universale, non isbiadirà daccanto al discorso pronunziato da Marco Tullio nell'anno 691 di Roma per confermare la cittadinanza romana, secondo la legge Plauzia Papiria, al suo maestro A. Licinio Archia poeta.»

Cairoli, più che repubblicano, fu garibaldino. Con gli anni si affiatò sempre più con la monarchia. Nell'Opposizione rappresentò una gran parte. Nel 1878, i malcontenti di Sinistra lo alzarono sugli scudi, e l'opposero a Depretis. Vacando il seggio presidenziale della Camera, Cairoli vi fu portato candidato. Fu eletto. Il Depretis interpretò l'elezione dell’amico come una lezione data a lui Agostino. Col trionfo di Benedetto ritenne sé maledetto dalla Chiesa sinistra, e si dimise Cairoli, chiamato al Governo, prese in mano le redini dello Stato, con l'interim del Ministero di agricoltura. Chiamò, di botto, nel Gabinetto tre uomini di Destra: Bruzzo, Brocchetti e Corti. Questo fatto gli procurò le simpatie degli avversari. Gli amori proibiti continuarono comodamente un pochino, ma Zanardelli ruppe le uova nel paniere agli amanti. Zanardelli, con la sua teoria di reprimere e non prevenire, e con le parole dolci e le strette di mano ai radicali e ai repubblicani, fece uscire il Cairoli dalla carreggiata della Destra, e lo spinse sulle rotaie della Sinistra, compresa la coda estrema. Il discorso d'Iseo fu come una bomba all'Orsini gittata nel campo dei moderati. Le posteriori bombe di Firenze, quantunque reali, vi fecero minore impressione.

137 COLORI E VALORI

Caduto dal potere nel dicembre 1878, Cairoli vi tornò nel luglio 1879, non senza taccia di contraddizione. Prese questa volta il portafogli degli esteri. Nello stesso anno, a pochi mesi di distanza, accettò la collaborazione di Depretis. Cairoli guidò la barca ministeriale fino all'aprile 1881, quando, pei fatti di I Tunisi, fecero tutti un capitombolo nel Mediterraneo. VjCairoli affogò — politicamente parlando. Depretis, dopo aver errato di scoglio in scoglio, riuscì a riacchiappare la riva e a rimettersi in mare su di una nuova navicella, portante la sua bandiera di comando.

Cairoli, dal 1881, non è tornato più al Governo, e, forse, non vi tornerà. Egli fu un ministro degli esteri inabile. Non seppe prevedere né provvedere; non fu capace di prevenire né di reprimere. Dal 79 all'81, in quasi due anni, non riuscì a procurare, nonché un alleato, neanche un amico all'Italia. Viveva alla giornata senza occuparsi dell’avvenire. Cosa incredibile! Cairoli — un dottore in legge — e Cialdini — un generale — si fecero infinocchiare da un Barthélemy St. Hilaire — un filosofo traduttore, se non traditore, di Aristotele, Cairoli cadde e fu sepolto senza neppure le oratorie pompe funebri, solite ad accompagnare i decessi ministeriali.

In verità, quel che successe all'antico compagno di Garibaldi era da prevedersi. Cairoli non ha nessuna dote per essere un ministro degli esteri. Gli mancano la coltura storico-diplomatica, il tatto, la scaltrezza, la conoscenza delle lingue straniere. È privo, quindi, del fondo e delle forme di un direttore supremo di politica estera. Financo la lingua francese non gli è familiare.

138 CAPO TERZO

Allorquando a Corte, nei balli, egli conduceva le signore al buffet, sbagliava sempre nel designare gli egregi componenti del medesimo, i quali non aspettavano di meglio che di essere divorati. Ai pranzi diplomatici, pigliava un pigeon à la crapaudine per un poulet en mavonnaise. e un merlati au gratin per un rouget grille" Questi sbagli di linguistica gastronomica, riferiti nei circoli e nei crocchi diplomatici. non aumentavano la stima dei rappresentanti europei pel nostro ministro. Il francese di Cairoli faceva ricordare ai signori ambasciatori il hien assez di Filippo Mellana. Bien assez! — gridava il buon Mellana in un banchetto dato, a Napoli. a Rattazzi, nel 1867. Parlava la moglie del signor Urbano, donna coltissima, e faceva il suo discorso in francese. Naturalmente. si applaudiva anche nella lingua d'oc. Ad un punto gli applausi e le grida di entusiasmo scoppiarono col massimo grado di rabbia canina. Fra le altre, distinguevasi la voce di Mellana. il quale gridava: bien assez! — credendo che assez significasse soltanto assai, e che quindi, bien assez dovesse equivalere ad assai bene. Non sapeva il buon uomo che assez, in francese, significa pure: basta! assez di Mellana sul principio destò dolorosa sorpresa; ma presto si comprese l'ignoranza gallica del signor Filippo, e si tirò innanzi.

Questi amminicoli di commerage. se lasciavano per Mellana il tempo che trovavano, facevano, invece, non lieve danno al Cairoli ministro. E una volta cominciato l'esame dell'apparecchio scenico con cui il ministro degli esteri recitava la sua parte di fronte all'Europa, i critici non la finirono più.

139 COLORI E VALORI

Così, essi notarono pure che Sua Eccellenza, allorché parlava alla Camera e si riscaldava pel troppo calore degli affetti, amasse, per produrre più effetto, di cacciarsi indietro, con immenso scandalo del sesso forte e del sedicente sesso debole occupanti la tribuna diplomatica, lo sparato del soprabito e facesse ammirare il gilet!

Siffatte miserie di posa politica, scorretta dal punto di vista del dandysme diplomatico, procurarono lo scredito di Cairoli prima ancora della caduta.

Post hoc, non è lecito ricavare la conseguenza che il Cairoli non abbia alcun valore politico. Cairoli è pur sempre uno dei più felici tribuni della nostra Camera non solo, ma ancora di tutta la Rivoluzione.

Non è l'oratore del banco ministeriale, né, sui banchi dell'Opposizione, potrebbe essere adoperato in tutte le specie di assalti e di battaglie. Non è buono alla guerriglia, all’ostruzionismo, e alla discussione minuta e circostanziata. Cairoli oratore non sa guardare le ali dell'esercito né esplorare il campo nemico alla maniera della cavalleria leggiera; non sa compiere l'ufficio del bersagliere, né sostenere o mantenere il fuoco nutrito e fitto della fanteria di linea; non può, infine, a somiglianza dell'artiglieria, espugnare una posizione e spazzare il terreno. Egli, invece, è imponente, maestoso ed irresistibile nel mot de la fin di una giornata. Quando le sorti di una battaglia sono già decise favorevolmente, e il nemico vacilla, allora è il momento di lanciare innanzi il Cairoli, — alla maniera della famosa e finale carica di cavalleria pesante nella giornata di Marengo. Nei meetings Cairoli sarebbe il primo tribuno. Nella Camera non può aspirare che a quel solo ufficio che ho testé indicato. E oratore popolare dell'antica scuola — la scuola quarantottista, figlia di quella della prima Rivoluzione francese.

140 CAPO TERZO

La sua eloquenza è calda, appassionata, satura di patriottismo.

Cairoli ha la fede politica e l'ingenuità del generale Lafayette; ne ha la vanità benigna, l'amore delle pompose apparenze, la smania della popolarità, la tenerezza fiera e dignitosa. Come ministro degli esteri, è liquidato e dimenticato. Resta, però, il patriota, resta il tribuno. Sotto questo duplice aspetto Cairoli passerà alla Storia — se Storia vi sarà per i nostri politici contemporanei, esclusi i quattro fondatori dell'unità.

Gl'ingegneri che si danno alla politica non sempre sono ingegni politici; pure, nella Camera italiana abbiamo avuto e abbiamo parecchi costruttori di rotaie e di edificii i quali, nel tempo stesso, si sono dimostrati esperti nel dirigere o nel progettare una costruzione politica. Paleocapa, Gabelli, Fambri, Baccarini sono altrettanti splendidi esempi dell'eccezione.

Alfredo Baccarini è la fibra più elastica e l'uomo più fulmineo che possegga la Romagna. Egli contemporaneamente pensa ed agisce, vuole e crea. Spirito eminentemente impastato d'idealismo e di positivismo, egli non si tiene incastonato al presente né vagheggia un avvenire impossibile. È all'estremo limite che separa la monarchia dalla repubblica. Nella nostra monarchia costituzionale rappresenta, in certo modo, ciò che l'Odilon Barrot rappresentava in quella di Luigi Filippo. Senonché il Barrot era un cicalone magniloquente, e Baccarini è un uomo eloquente, energico e pratico.

Baccarini nacque a Russi nel 1626. Non è, quindi, tanto giovine; ma porta bene i suoi anni. Nel 4849 combattette, tra i volontari, contro gli austriaci. Pel suo valore fu promosso ad ufficiale.

141 COLORI E VALORI

Finita la guerra, Baccarini si laureò in ingegneria. Le costruzioni di ponti e strade non gli fecero dimenticare che v'era un ben altro edificio a costruire: l'Italia. E per l'Italia lavorò prima del 1859, e poi nel 60, secondando gli sforzi di Farini a vantaggio dell'annessione.

Nella professione fece rapidissimi progressi; ma ebbe il calcio della Fortuna. Paleocapa lo conobbe ed aiutò, gittandolo nelle grandi intraprese. Baccarini si distinse sovratutto nelle costruzioni idrauliche e nei lavori di bonifica. Nè agì solamente, ma scrisse ancora. Nell'amministrazione del genio civile raggiunse cariche elevatissime.

Entrò tardi nella Camera: appena nel 1874. Ma — al solito suo — salì rapidamente. Nel 1876, Zanardelli, chiamato al Ministero dei lavori pubblici, scelse Baccarini a segretario generale. Fu il segretario che pose il ministro in grado di fare splendida figura, nell'Assemblea, in materia non sua. Nel primo Ministero Cairoli il Baccarini ottenne il portafogli dei lavori pubblici. Caduto nel dicembre 1878, riottenne quel portafogli nel luglio 1879, e lo conservò sino al 1883 (maggio), quando uscì dal Gabinetto insieme allo Zanardelli.

Baccarini non fu un ministro dormiglione. Ai lavori pubblici lavorò pel pubblico bene. Egli, che aveva pronunziato la frase: la vera Italia irredenta è quella che ha bisogno di bonifica, — alle bonifiche prestò principale parte della sua attività. Inoltre, spinse innanzi, con premura febbrile, le costruzioni ferroviarie, e seppe, prima ancora di Genala, e con più sincerità, rendersi gradito alle provincie meridionali.

142 CAPO TERZO

Egli vide con dispetto l'avvicinamento di Depretis alla Destra. Nelle celebri giornate del maggio 1883 — cosa rara negli annali del parlamentarismo — fu udito un ministro, il Baccarini, parlare in senso contrario del Presidente del Consiglio. Depretis, con l'arte di dire e di non dire, voleva fare abilmente dimenticare il passato per dare un cordiale abbraccio, politico s'intende, al Minghetti. Baccarini, invece, parlò col deliberato proposito di metter le carte in tavola, e per vieppiù invelenire gli animi, richiamò alla memoria del Minghetti il tempo non lontano in cui si erano combattuti aspramente a Ravenna. Conchiuse dichiarando che la Destra era senza dubbio nel suo diritto di disertare passando nel campo della Sinistra, ma che non doveva aspettarsi dai nuovi amici una transazione nei principii. Zanardelli, finallora esitante, fu trascinato dalla parola e dall’esempio di Baccarini. Invano la Destra cercò di applaudirlo, per separarne la causa da quella del collega. Zanardelli uscì dal Ministero in compagnia dell'energico ministro dei lavori pubblici.

Baccarini, che sino a quel momento non si era atteggiato a capopartito, acquistò, di un tratto, un'influenza grandissima nella Sinistra, e ne divenne uno dei leaders. Nello stesso anno, a Genova, cominciò quella campagna oratoria contro il Depretis, la quale fu poi coronata dal banchetto di Napoli, nel mese di novembre. Baccarini fu uno dei cinque pentarehi:gli e il Nicotera furono i due condottieri dell'Opposizione di Sinistra che combatterono il predecessore di Crispi con maggiore accanimento. Non ebbero dubbiezze né défaillances.

143 COLORI E VALORI

Venuto Crispi al potere, Baccarini ha assunto un contegno di aspettativa. Il suo discorso di Faenza è un atto protestativo.

Dall’83 finoggi l'on. Baccarini non ha limitato la sua azione politica alla sola parte negativa. Mentre, da un lato, cercava di distruggere un sistema di Governo, combattendo il Depretis, dall'altro, cercava di edificare, democratizzando la monarchia e monarchi cizzando il partito radicale delle Romagne. Non è a lui che può esser dato l'epiteto di Vitruvio della distruzione — complimento che Edmondo Burke indirizzava ai rivoluzionarii francesi. E, invece, al Baccarini che deve essere attribuita gran parte di merito nell'evoluzione dinastica di una porzione dell'Estrema Sinistra.

Baccarini comprende che il vero problema odierno è il problema sociale. Egli, perciò, s'industria a scioglierlo. Le sue idee, sul proposito, sono ragionevolissime. Egli intende giungere, come meta finale, alla determinazione del limite minimo della mercede sudata, e del limite massimo della ricchezza speculata e non guadagnata. Nell'intervallo, come palliativi, vorrebbe: riordinamento delle opere pie; casse di assicurazione contro gl'infortuni e per le pensioni della vecchiaia; partecipazione del lavoro agli utili del capitale; cooperazione: mutuo soccorso; istituti di credito e di beneficenza popolare; case operaie.

Baccarini è un elemento preziosissimo. Egli ha energia e flessibilità — doti che di rado si trovano insieme in un solo uomo. Parla meravigliosamente, ed è vero oratore.

144 CAPO TERZO

Simpatico di aspetto, con voce chiara e bene intonata, discute e commuove, convince e seduce. Come Freycinet in Francia, Baccarini è, oggi, il più grande uomo politico che l'Italia vanti fra i suoi ingegneri. Ingegnere del genio civile, Baccarini è uno statista di genio idem.

Se Baccarini rappresenta l'attività della vita politica italiana, Mancini ne rappresenta il riposo. Egli è un altro dei comandanti della Sinistra, ma semplicemente onorario. Nestore degli avvocati napoletani, Mancini nacque il 17 marzo 1817 a Castelbaronia, nel circondario di Ariano. La sua famiglia è nobile, e vuolsi discenda da una nipote del cardinale Mazarino. Questa può ben essere una verità, se non è una leggenda. Sarà storia, se non è una storia. Non ho elementi per giudicare. Ma ciò non deve preoccuparci. Sia o non sia nobile la famiglia di Mancini, la vera nobiltà gliela ha data l'illustre uomo con la prestanza dell'ingegno e la facondia della parola. Mancini, se gli si dimostrasse l'insussistenza della sua nobiltà, potrebbe dire come Cicerone a Catilina:La nobiltà della tua famiglia finisce in te; la nobiltà della mia famiglia comincia con me.»

Egli ebbe educazione accurata e liberale. Suo padre, Francesco Saverio, era un giurista. Sua madre, Grazia Maria Riola, era una donna di alti sensi patriottici. La signora Riola ispirò al figlio quell'amore all'Italia di cui si sentiva essa stessa riscaldata, e sempre, nei giorni lieti e nei tristi, gli fu di nobile sprone nella nobile lotta per la libertà. Mancini, a sua volta, non ha mai dimenticato la diletta madre. Finché essa visse, egli le professò amore e devozione. Morta, la ricorda tuttora con tenerezza ed effusione. Tanta delicatezza di affetti onora altamente il Mancini, e non trova riscontro se non nell’amore idolatrico che il Duca di Sandonato sentì costantemente per la sua genitrice.

145 COLORI E VALORI

La Riola lasciò un libro di Ricordi. Spero che il figlio vorrà pubblicarlo.

Mancini fece i suoi primi studii nel seminario dì Ariano. Fu un enfant prodige. A dodici anni appena, divenuto padrone di quella coltura che nei seminarii era lecito di acquistare, fu ritirato in famiglia. Studiò sino a diciassette ore al giorno.

Il dottore Bartolomeo de Rinaldis, che del Mancini scrisse, molti anni fa, un'accurata ed affettuosa biografia, dice di aver visto ed esaminato i volumi inediti, scritti dal giovanetto in quel tempo. In quattro volumi di essi si ammirava scritta, con carattere fermo e giovanile, la storia degli antichi stati della Siria, della Persia, della Grecia e dei Romani, con tale succosa chiarezza e riflessioni filosofiche, quali si potrebbero sperare solo da un ingegno robusto e adusato a lunghe meditazioni. Altri quattro volumi contenevano trattati di Fisica, di Chimica, di Botanica, di Anatomia, di Fisiologia, e financo un corso di Teologia e di Morale sino al trattato dei Sacramenti.»

A quindici anni venne a Napoli. Studiò legge col Furiati, chimica col Lancellotto, botanica col Tenore anatomia e fisiologia col Dimitri. A diciottanni cominciò ad esercitare la professione di avvocato, stando nello studio del barone Poerio, Scriveva memorie, e discuteva e difendeva cause tanto civili che penali. Contemporaneamente scriveva e mandava alla Società reale delle scienze in Londra un lavoro sul Paratremuoto. In esso preannunziava, pel primo, l'unità degli imponderabili, e, qualche anno dopo, riceveva grandi lodi da Macedonio Melloni. A vent'anni scrisse un dottissimo lavoro sul colera.

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Mentre faceva l'avvocato e vi s'illustrava, il Mancini non trascurava i suoi prediletti studi letterarii. Caro anche alle Muse, sovente ad esse offriva sacrificii. I giornali che allora pubblicavansi a Napoli, abbondavano dei suoi fiori poetici. A ventitré anni pubblicò la traduzione italiana delle poesie di Béranger; e l'illustre poeta francese, in una lettera, gli faceva le sue lodi.

Giovanissimo aprì scuola di diritto, frequentata da gran numero di allievi. La maggior parte, dice il De Rinaldis, uguagliavano o superavano l'età del maestro. Con le lettere sul diritto di punire, indirizzate al cconte Mamiani, il Mancini si fece conoscere in Europa. Mohl, Mittermaver, Lucas lodarono grandemente lo acume e la dottrina del giovine napoletano. Mancini non era un professore routinier. ingegno originale, egli, insegnando, innovava. Le sue non erano soltanto lezioni di legge, ma anche lezioni di diritto nel vero senso della parola. Fin d'allora egli parlava e scriveva contro la pena di morte. La polizia lo lasciava dire. Era quello, o pareva, uno sfogo accademico. Nel 1846 la cosa cangiò d'aspetto. Condannati all'estremo supplizio e giustiziati i fratelli Bandiera, la voce di Mancini si levò, in quell'anno, più gagliarda di prima. La sua parola elettrizzò i giovani. Oramai non era più il dottrinario che parlava. Era il patriota che arringava. La cattedra si era trasformata in tribuna. La polizia soltanto allora vide il lato politico dell'insegnamento. Allarmatasi, imprigionò il Mancini. Così chi voleva si serbasse la vita agli uomini, perdeva egli stesso la libertà. Fortunatamente, la prigionia non fu lunga.

147 COLORI E VALORI

Nel gennaio 1848 Mancini fu tra i pochi napoletani che chiesero arditamente la Costituzione. Cavour agiva in modo analogo in Piemonte. Appena banditosi lo Statuto, Mancini, il quale si era già illustrato come direttore del giornale le Ore Solitarie e della rivista intitolata Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche», fondò un nuovo giornale, chiamandolo il Riscatto. In seguito, quando nella città nostra si domandò ad alta voce di andare in aiuto dei lombardi e dei piemontesi, Mancini fece una petizione in cui esortava Ferdinando a prendere l'egemonia della guerra d'indipendenza conducendo egli medesimo l'esercito napoletano. Ferdinando, uomo astuto, chiese di vedere il Mancini. Mancini andò a Corte, parlò lungamente col Re, lo convinse. Non si resiste alla eloquenza. La spedizione di Lombardia fu decisa. Il popolo, saputo la determinazione di Ferdinando e a chi ne andava debitore, inneggiò a Mancini. Questi fu, per un momento, l'uomo più popolare di Napoli.

È conosciuta la parte importante presa da Mancini nella celebre giornata del 15 maggio 1848. La protesta di Mancini fatta a nome di tutta la Camera, rimarrà nella storia non altrimenti che la protesta di Settembrini, l'apostrofe di Mirabeau al maggiordomo di Luigi XVI, il grido di dolore del discorso reale del 1859.

Nella nuova Camera napoletana, riunitasi dopo le stragi del 15 maggio, Mancini si distinse per assiduità ed intelligenza. Quando il Re, seccato delle discussioni parlamentari, fece chiudere l'importuna Assemblea, Mancini tornò al Foro. Scompariva il deputato, rimaneva l'avvocato.

148 CAPO TERZO

E l'avvocato imprese coraggiosamente a difendere i processati politici. La sua parola, nelle aule di giustizia, riuscì al Governo più molesta ancora che nel Parlamento. Quel gigante di eloquenza e di dottrina turbava le coscienze dei magistrati, i quali, posti nel bivio di dispiacere al Governo o di rinnegare la giustizia, così bene rappresentata dal difensore, restavano perplessi e dubbiosi. Ora, non bisognava mettere i giudicanti in questa critica condizione. Era mestieri che il molesto avvocato fosse tolto di mezzo. Dissero, forse, il Re e la camarilla: — Mancini vuole difendere gli accusati politici? Sta bene; difenda allora se stesso. — E contro di lui fu rilasciato mandato di cattura. Avvertito da qualche fata benigna, Mancini fuggì in casa del legato francese. Di là, imbarcatosi su di una nave della gallica repubblica, passò in Piemonte. In contumacia fu condannato a venticinque anni di ferri.

L'esilio per Mancini non fu un Calvario. Tutt'altro! Fu una serie di trionfi. Forse egli dovè dire: «A quelque chose malheur est bon!» A Torino fu accolto a braccia aperte. Meravigliò giudici e colleghi per la parola facile, elegante e dotta, e specialmente per la prontezza delle repliche e per il genio d'improvvisazione. Egli non aveva bisogno di prepararsi. L'improvvisazione, appunto, fu l'oggetto principale della meraviglia dei torinesi. In Piemonte bisognava che gli avvocati, per arringare, leggessero, e per replicare, domandassero un rinvio. Mancini distrusse l'una e l'altra consuetudine. Il signor Allou narra la cosa nel seguente modo: «Il giorno in cui Mancini assisté per la prima volta, ad un'udienza della Corte, fu grandemente sorpreso.

149

Gli avvocati delle due parti leggevano le loro difese ai giudici, e questi seguivano, se si può dir così, gli oratori sull'esemplare stampato, distribuito precedentemente ai magistrati. Mancini, l'uomo dell'improvvisazione, si meravigliò di simili abitudini. e si permise scorgere in esse il segreto dell'assopimento, che s'impossessava di qualche magistrato. Il giorno in cui fu chiamato per la prima volta a difendere, spiegò dinnanzi a sé, con una certa ostentazione. una difesa scritta; poi indirizzandosi alla Corte, disse: «Non vorrei abusare degl'istanti della Corte, ma l'affare attuale è lungo, e mi pare che poche spiegazioni rapide possano facilitarne l'intelligenza. Non dirò che il necessario, e nulla più.»

Il presidente fece un segno di assentimento ed il Mancini cominciò. Godé subito della soddisfazione profonda di seguire sul viso dei suoi giudici lo studio attento dello svolgimento del proprio pensiero... Gli sguardi si ravvivano. Le fisonomie si animano. Mancini parla per un'ora. Quando ha finito, è circondato e felicitato da tutti. Aveva conquistato iì suo posto nel Foro torinese. Aveva compito, nel tempo stesso, una piccola innovazione, che il pubblico, anziché i suoi confratelli, gli hanno perdonato.

Immenso fu il numero di cause affidate, in Torino, al patrocinio di Mancini, il quale non pareva sgomento del gran numero di affari. Un rapido sguardo al processo gli bastava. Per il resto, si affidava all'improvvisazione. Talvolta, però, lo sguardo era stato tanto rapido che l'avvocato stentava a ricordare quale dei litiganti fosse appunto il suo cliente. Un giorno, specialmente, l'avventura fu graziosa.

150 CAPO TERZO

Non avendo il Mancini letto che a vol d'uccello il processo, cominciò a sostenere la tesi della parte contraria anziché quella del suo difeso. Forse sarebbe giunto sino alla conclusione, se, per sua buona fortuna e per fortuna del povero cliente, non si fosse avveduto dell'absence of mind, in cui era incorso. Non si avvilì, non si smentì, non si corresse. Mutando soltanto intonazione alla voce, disse: — Senza dubbio, in questa maniera vi parlerà il mio avversario. Ma alle sue deduzioni io potrò rispondere in questa guisa... — E qui fece la sua difesa, confutando l'avversario, cioè confutando se medesimo.

In Piemonte il Mancini non si limitò a fare l'avvocato. Il Governo creò per lui una cattedra universitaria: la cattedra di diritto internazionale pubblico e privato. E Mancini l'illustrò, facendosi banditore del principio di nazionalità. Il suo insegnamento ebbe un'importanza non solo scientifica, ma ancora politica. Perciò i rappresentanti diplomatici dell'Austria e del Borbone di Napoli fecero istanza presso il d'Azeglio perché costringesse il molesto professore a non disturbare la quiete di Sua Maestà Imperiale e di Sua Maestà Reale. D'Azeglio rispose da par suo alla superba intimazione, che celava un'intimidazione, ed il d'Appony non parlò più. Lavorò pure il Mancini con lo Scialoja e col Pisanelli a commentare il Codice di procedura civile sardo. Il commento riuscì un monumento di sapienza giuridica. Però Vittorio Imbriani scrisse, parecchi anni fa, che poco vi lavorarono Mancini e Scialoja, avendo il solo Pisanelli fatto la massima parte della fatica.

151 COLORI E VALORI

Nel 1859 il Mancini entrava nella Camera subalpina come rappresentante del collegio di Sassari. Il 29 giugno 1860 pronunziò un eloquentissimo discorso contro il Governo napoletano, che allora mirava ad allearsi al Piemonte e impedire così l'unità d'Italia. Poco dopo il Cavour, che lo aveva precedentemente invitato ad accompagnarlo come segretario a Zurigo per la stipulazione della pace, lo mandò in Toscana e nell'Emilia per prepararvi l'unità di legislazione col Piemonte. Nello stesso anno, Mancini fu consigliere di Luogotenenza a Napoli col Farini e col principe di Carignano. Affidatagli l'amministrazione della giustizia e dei culti, egli ristabilì fra noi l'antica disciplina ecclesiastica, ed abolì il concordato conchiuso fra la Santa Sede e la Corte borbonica. I suoi decreti irritarono sommamente la Curia romana. Il Pantaloni scriveva, in quei giorni, al Cavour: «Le disposizioni Mancini a Napoli hanno messo in furore il Papa!»

In seguito divenne il Mancini maestro di diritto pei principi reali. A lui si deve principalmente la ripugnanza mostrata sempre dall'attuale Re d'Italia contro la pena di morte. Nel primo Ministero Rattazzi otteneva il Mancini il portafogli dell'istruzione pubblica. Dimettevasi presto per dissensi coi colleghi. Nel 1876 veniva nominato ministro di grazia e giustizia, e restava al Governo sino al marzo 1878. Nel 1881 succedeva al Cairoli nel dicastero degli esteri. L'Italia allora era isolata e vilipesa in Europa. I nemici la minacciavano. Gl'indifferenti la deridevano. Di amici mancava qualsiasi traccia. Mancini tolse l'Italia dall'isolamento, e stipulò il trattato con l'Austria e con la Germania.

152 CAPO TERZO

Il viaggio a Vienna fu opera sua. A Vienna Mancini fu festeggiato, mentre verso Depretis, che vedeva a malincuore lacerate le tradizioni, quei signori si mostrarono un po' boudeurs. Con la triplice alleanza, Mancini ci salvò dalla Francia. Commise tuttavia l'errore di trascurare l'alleanza, o almeno, l'amicizia inglese, negandosi a prestare alla Gran Bretagna l'appoggio o il concorso dell'Italia nella quistione di Egitto. Mancini iniziò pure la nostra politica africana. Per questo motivo molto contro di lui si è gridato: ma io non ho il coraggio di unirmi al coro dei critici. L'ex-ministro degli esteri non mandò i nostri soldati in Africa pel piacere di una passeggiata transmarina. Egli dovette avere le sue buone ragioni. Il tempo è galantuomo. Il tempo ha giustificato Mancini per la triplice alleanza. Lo giustificherà, forse, per la spedizione africana.

Mancini, uomo politico, manca delle qualità del capopartito. Egli, che ha pur conosciuto e trattato tanta gente, non sa che cosa sia il cuore umano. È troppo ingenuo, credulo e debole. A lui non piace udire la verità, quando è amara. Non ha orgoglio, ma vanità.

Non ha ambizione, ma desio di brillare. Col suo ingegno e con la sua coltura, avrebbe potuto essere Presidente dei Ministri. Per riuscirvi gli sono mancate l'abilità pratica e la fibra.

Oratore, Mancini è un atleta. Ha pregi rari e indiscutibili: la chiarezza e la profondità delle idee, la sottigliezza dell'argomentazione, l'italianità della forma, la facilità della parola. Però è troppo prolisso, non è immaginoso, è privo di animazione e di brio, e non fa sfoggio di coltura letteraria, sebbene ne sia fornito ad esuberanza.

153 COLORI E VALORI

La voce è monotona, monocorda. La Destra ebbe, un tempo, il Mancini fra i suoi principali oratori. La Sinistra non tardò ad attirare nelle sue file un elemento sì prezioso. Mancini divenne l'aiutante maggiore di Rattazzi. I suoi discorsi sono tutti notevoli. Memorabili specialmente sono quelli del 29 maggio 1860 e del 7 dicembre 1861, nonché quelli contro la pena di morte e contro la legge sulle guarentigie papali.

Mancini, il più grande giureconsulto d'Italia, è, oggi, il più illustre deputato delle provincie meridionali.

Verso il 1850, a Torino, mentre Mancini troneggiava fra gli avvocati principi di quel foro e guadagnava i denari di un Creso, nel suo studio legale, fra gli scrivani a cui egli dettava comparse conclusionali e memorie, osservavasi un giovane calabrese povero e negletto. Quel giovine doveva poi divenire ministro dell'interno. Il suo nome era: Nicotera.

Giovanni Nicotera nacque a San Biase nel 1831 da famiglia nobile ma non ricca. Nel collegio di Catanzaro ebbe a maestro il Settembrini; ma non pare che della lingua greca, insegnata appunto dal Settembrini, il Nicotera fosse molto entusiasta. La scuola non era il campo in cui il Nicotera era destinato a brillare. Settembrini non riuscì ad inculcare al suo allievo l'amore del greco: riuscì, invece, facilmente, ad inculcargli l'amore dell'Italia.

Entrato a far parte della Giovane Italia, Nicotera ebbe mano nell'insurrezione di Reggio nel 1847. Nel 1848 si trovò in Napoli e fu tra i combattenti del 15 maggio. Da Napoli corse nel Cilento e nelle Calabrie, partecipando a moti eroici ma infelici, fra cui quello di Angitola e non di Afragola come afferma il Faldella.

154 CAPO TERZO

Sottoposto a processo, prese il largo e fuggì in Grecia. Con una condanna sulle spalle, ebbe l'animo di tornare in Italia per rischiare la sua vita nella difesa di Roma contro i francesi. Si distinse in molti scontri. Pel suo valor? ottenne successivamente di essere promosso a capitano. E aveva cominciato la campagna non tenendo alcun grado e portando il fucile come l'ultimo soldato! Fu ferito, ebbe la medaglia d'amento, ma conservò la vita e la libertà.

Caduta Roma, egli fuggì in Piemonte, dove trasse vita misera e meschina, sebbene avventurosa. A Torino il Mancini lo ammise nei suo studio affidandogli l'umile ufficio di scrivano, Gli attesoché dei le comparse conclusionali non erano cibi gustosi per l'animo del bollente calabrese. Nicotera voleva la lotta, anelava il pericolo. Conobbe il Pisacane e ne divenne il confidente. Con lui tentò l'impresa di Sapri. Io non amo di ripetere cose note. Quella spedizione fu la seconda edizione dell'impresa dei fratelli Bandiera. Gli Argonauti della libertà, i precursori dei Mille di Marsala. il 25 giugno 1857 prendevano imbarco sul vapore Cagliari, comandato dal capitano Daneri. Il vapore apparteneva al Rubattino — nome destinato a rimanere legato a parecchi grandi avvenimenti della nostra storia. Pisacane e i suoi compagni non erano che semplici passeggieri. Essi dovevano incontrare in alto mare parecchie barche che loro s'era impegnato di mandare il Mazzini. Le barche, comandate da Rosalino Pilo, contenevano armi, munizioni e uomini. Consegnate le armi e fatti passare gli uomini sul vapore, le barche dovevano essere guidate verso Genova. Il Mazzini, che a Genova si trovava, appena vistele di ritorno, avrebbe subito spedito un telegramma a Napoli per avvertire il Comitato locale onde cominciasse l'insurrezione.

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Sventuratamente, Rosalino Pilo non incontro il vapore, e fece ritorno senza aver potuto adempiere l'incarico affidatogli. Mazzini, saputo ciò. si augurò che Pisacane non avendo trovato le barche, non andrebbe oltre, fermandosi in Sardegna, e quindi fece passar due giorni senza mandare il telegramma a Napoli, Pilo, a sua volta, allorché conobbe che la spedizione era andata oltre, e che non vi era più speranza di aiutarla, fu colpito da tale dolore da cadere in violentissime convulsioni. Bertani io curò senza guarirlo. Frattanto Pisacane, Nicotera e gli altri loro compagni, rimasti privi della speranza di aver le armi, pensarono d'impossessarsi di quelle che trovavansi sul vapore. Daneri e i marinai non opposero che un simulacro ai resistenza. Con gioia consegnarono quanto era in loro potere, e volenterosi si offrirono a guidare il vapore a Sapri. Ma prima, fecero una punta a Ponza per impadronirsi delle armi e liberare i carcerati. Poco lungi, a Santo Stefano, trovavansi Settembrini. Spaventa e gli altri prigionieri politici. Essi si erano già rifiutati a consentire alla loro liberazione. se questa era accompagnata da quella dei condannati per reati comuni. Naturalmente gli Argonauti Mazziniani preferirono di mettere in libertà i secondi, che non facevano tante distinzioni. Lo sbarco a Ponza venne diretto da Nicotera, il quale dimostrò energia, sangue freddo e colpo d'occhio. Si battette con un uffiziale. L'uno, il Nicotera, aveva in pugno una pistola. L'altro, il militare, impugnava una sciabola. Il combattimento fu breve. Il piombo fe' ragione dell’acciaio, L' uffiziale cadde morto, immerso nel proprio sangue.

156 CAPO TERZO

Il comandante, spaventato, implorò pietà. La pietà non gli fu negata, ma egli dové, prima, consegnare le armi. Nicotera, intanto, non si sa come né perché, prese un bagno involontario, essendo caduto in mare. La conclusione fa che la partenza si eseguì in gran disordine. Dopo aver fatto tanto rumore, ucciso un uomo e messo tanta paura addosso a quel povero comandante, si partì col bel carico di cinquecento malviventi, liberati dalla galera di Ponza, e senza le armi. Messisi di nuovo in mare, si prese la via di Sapri. Lo sbarco a Sapri avvenne tra l'indifferenza generale. Fino a Padula non si verificò nessun incidente notevole. A Padula trovarono i soldati borbonici. Vi fu lotta ed aspra. I relegati, in maggioranza, disertarono. I poveri eroi s'incamminarono per Sanza. Qui la lotta si tramutò in carneficina. La plebaglia e il contadinume aiutarono la soldatesca briaca e stupida. Sanza offrì lo spettacolo di una scena africana. Fu una Dogali anticipata. Pisacane e Falcone si uccisero per evitare le sevizie. Nicotera tentò di fare lo stesso. Naso di Cane, reduce dalla galera, glielo impedì. Scrive il Faldella col suo stile scultorio e fosforescente: «Nicotera aveva la destra forata da una palla; e la testa e il tergo tagliati da due colpi di scure. Giaceva col suo gran cappellone calabrese. Lo sospettarono, lo riconobbero per un capoccia. Intorno al suo corpo inferocì il vespaio degli assalitori; lo strapparono; lo denudarono, togliendogli persino le calze; lo schernirono, lo graffiarono, lo punzecchiarono, lo trafissero; poi, legatolo piedi e mani, lo avvolsero dentro una coperta di lana, abballottarono; quindi, coricatolo su una barella, poi sopra un ciucciarello, lo condussero in deposito. Al suo passaggio le donne, le megere, lo maledicono, e si avvicinano per infliggergli, profondargli pizzicotti come bottoni roventi.»

157 COLORI E VALORI

Il contegno di Nicotera dinanzi alla gran Corte criminale di Salerno fu quello di un eroe. Nicotera fu fiero e baldanzoso. Minacciò di gittare il calamaio in viso al Procuratore Generale, il quale aveva osato di chiamarlo mentitore; e poiché quel magistrato non sembrava abbastanza corretto da quella minaccia, il Nicotera, pochi giorni dopo, gridò di volergli strappare la testa dal busto. La condanna fu di morte.

Governo britannico intervenne, e la pena capitale fu commutata in quella dell'ergastolo a vita. Fu mancato il Nicotera alla Favignana, in Sicilia, e gli fu posta la catena al piede. Vi soffrì orribilmente, e vi restò sino al 1860, quando Garibaldi lo pose in libertà.

Uscito dalla Favignana e rifiutata l'offerta di Garibaldi di un comando di una brigata in Calabria, Nicotera venne a Genova per vedervi Mazzini. Questi, dopo una sola conversazione, ne apprezzò tutto il valore. Ne rimase incantato, e quando, in seguito, il Nicotera lo abbandonò facendosi monarchico, Mazzini ne fu oltre ogni dire dolente e rimpianse sempre la perdita del suo leoncino. A Genova, insieme, concertarono di fare una spedizione negli Stati romani. La spedizione doveva partire da vari punti. A Nicotera fu affidato l'incarico di comandare la brigata toscana. Perché tutto si compisse in buon ordine e con perfetto accordo tra i non pochi leaders della democrazia militante, Mazzini mandò Nicotera da Bertani, munendolo di una lettera, dove contenevansi le seguenti lusinghiere espressioni:

158 CAPO TERZO

«Vedrai oggi a mezzogiorno Nicotera; lo apprezzerai da per te. Bada che è uomo eccezionale e di stoffa militare insurrezionale. Garibaldi gli offriva nientemeno che il comando della brigata invadente la Calabria. Me lo scrive Crispi; e potrai chiederne ragguaglio al medesimo.»

Nicotera, postosi di accordo col Bertani, andò in Toscana. Ivi conobbe il barone Ricasoli che faceva da dittatore. Sentirono l'un per l'altro, e viceversa, una mutua simpatia. Ricasoli si mostrò propenso a favorire il progetto d'invasione degli Stati romani, ed aiutò la formazione della brigata Nicotera a Castel Pucci. Egli promise a Nicotera di permettergli il passaggio nelle terre del Papa per mezzo della ferrovia Firenze-Asinalunga, e soggiunse: «Se il Governo di Torino vorrà opporsi, io mi caverò la maschera, e verrò con voi.» Per quanto barone, e barone toscano, cioè impastato di guelfismo, Ricasoli non sentiva ripugnanza alcuna per le idee di Mazzini — le idee unitarie s'intende. Una volta, dopo avere letta ed approvata una lettera, disse al Nicotera, con aria misteriosa: «Se fosse possibile che nessuno al mondo lo sapesse, io sarei contento di avere una conferenza col Mazzini.» Ad un tratto le cose cambiarono di aspetto. Certo per ordine venuto da Torino, Ricasoli fece sapere al Nicotera che non poteva più permettergli la spedizione nelle terre del Pontefice. Gli propose l'imbarco per la Sicilia. Poi, come mezzo termine, si convenne di far dirigere i volontari sulle coste del Napoletano, dalle quali sarebbero a loro rischio e pericolo partiti per gli Stati del Papa o per casa del diavolo — a loro piacere.

159 COLORI E VALORI

All’ultima ora s'impose a Nicotera di consentire alla partenza per Palermo sotto pena di veder sciolta la brigata. Nicotera, protestando, si dimise, ma annunciò ai volontari che, come privato, non più come comandante, era pronto a guidarli in Sicilia. Indi, scrisse nel giornale l'Unità Italiana una dichiarazione di repubblicanismo. I giornali moderati gridarono allo scandalo; ma Mazzini intervenne, e a favore dell'ex-abitante della Favignana scrisse parole che lasciavano scoprire la profonda ammirazione per quell'uomo di ferro. Che! un uomo dissente da voi su quistioni vitali alla Patria; — ei crede, nella sincerità dell'anima sua, in un ideale diverso dal vostro; — tutta la di lui vita è testimonianza della propria fede; — ei tenta, esponendosi a suggellarle col sangue, imprese che voi biasimate come inopportune, ma pur costretti a chiamarle sublimi follie; — ei soccombe, e col piglio della vittoria affronta il nemico del Paese nei ferri con lo stesso core con che ei l'affrontava in campo aperto un dì prima; — cerca salvare i compagni, chiamando sul proprio capo tutta la responsabilità dell'impresa; — vive per anni in una prigione, serbando incontaminato il pudore dell'anima e portando in alto impavido la propria fede... e voi osate chiamare quest'uomo sleale!...»

In quei giorni Nicotera penò molto a non perdere interamente la pazienza. Se commise imprudenze, queste, almeno, furono imprudenze di parole e non di azione. L'inerzia, a cui l'ordine di Ricasoli lo condannava, era una dura trafittura al suo cuore. Egli era determinatissimo alla guerra contro il Papa. Si immagini la sua delusione.

160 CAPO TERZO

Achille Sacchi, un po' di tempo prima dell’ukase ricasoliano. scriveva al Bertani: «...Nicotera ti previene ch'egli non si rassegnerà in alcun modo a cedere. Se si tratterà di qualche giorno di dilazione, sarà possibile accordarsi; ma, se tu ti lasci condurre prigioniero in Sicilia, egli, che sente impegnato nella spedizione dell’Umbria quell'onore che con tanto sacrificio seppe elevare a vera gloria, marcerà con quelli che seguirlo vorranno. Già ne fece dichiarazione esplicita a Ricasoli; questi rispose con timore e deferenza, perché il carattere fermissimo di Nicotera lo rende qui più padrone del governatore.»

Nicotera si limitò a sfogare il suo sdegno chiamando mentitore il Ricasoli. Egli non sapeva le lotte sopportate col Cavour dal barone toscano. né poteva leggere in fondo all'animo di chi era obbligato ad agire son malgré.

Dalla Toscana Nicotera si diresse in Sicilia. Si augurava di poter indurre il Depretis, allora prodittatore, ad una spedizione nel territorio pontificio. Depretis fece lo gnorri sul principio: poi. siccome quegli insisteva, ordinò che la brigata pigliasse senz'altro la via di Napoli. Nicotera parti ugualmente, e venne al quartiere generale di Garibaldi. Finita la campagna del Volturno, egli si dimise dal grado di colonnello brigadiere, e tornò semplice cittadino. Ma per poco. In occasione delle elezioni generali politiche, Nicotera fu eletto deputato al Parlamento dal collegio di Salerno.

Alla Camera fu. dapprima, uno spostato, un rompicollo. Nell'aula legislativa stava a disagio. Si trovava! meglio in piazza e sui campi di battaglia. Stette con Garibaldi ad Aspromonte.

161 COLORI E VALORI

Dopo la catastrofe, venne a Torino per proporre che si mettesse in istato di accusa il ministro Rattazzi. La pia intenzione non si realizzò, perché, nel frattempo, quel Ministero si era dimesso. Nel 1866 segui Garibaldi nel Tirolo, ove fu promosso al grado di maggiore generale. Nel 1SG7 fece parte della spedizione di Mentana.

Dopo il 70 Nicotera cominciò a rivelare qualità di uomo politico. Parve agli uomini scrii buono a qualche cosa. Certo è che anche in Corte principiò a bazzicare, e vi fu bene accolto. Vittorio Emanuele si degnò di dimostrargli speciale simpatia. In un ballo al Quirinale l'attuale Regina d'Italia, allora principessa ereditaria, volle ballare la quadriglia col Nicotera. Nicotera non si rivelò un ballerino horslione, ma neanche fece una magra figura. Più fortunato del principe di Bismarck. il quale mentre era ambasciatore a Parigi, in un ballo alle Tuìleries si era fatto deridere nella famosa quadriglia Brididi! La venuta della Sinistra al potere fu preparata, dietro le quinto, dal Nicotera. il quale spianò il terreno a Corte e in Parlamento. Nella Camera egli seppe Stringere alleanza coi toscani guidati dal Ricasoli. I due baroni ebbero frequenti colloqui, con grave scandalo degli ortodossi di Destra. Il 18 marzo 1876 può chiamarsi la congiura dei baroni.

Depretis, chiamato a formare il Gabinetto, offrì a Nicotera un portafogli. Nicotera dichiarò di voler quello dell'interno. Secondo lo Zini, il Nicotera avrebbe giustificato in questa maniera la scelta: Ne diede ragione, tra lo sciolto e l'ingenuo, perocché, digiuno totalmente di ogni studio (lo confessava) e di coltura men che volgare,

162 CAPO TERZO

profano alla tecnica e alla speculativa — non parliamo di scienze del Diritto — egli tutto e solo uomo politico, diceva, non saprebbe assumersi che il governo delle Provincie, dei Comuni, delle Opere pie, della Sanità pubblica in arroto, e principalmente della Polizia — desideratissima (et pour cause): insomma, quella parte del reggimento, alla quale bastasse (in suo credere) la vivacità dell'ingegno e la forte volontà.» Depretis tentò dissuadere il collega dal suo proposito, e pregò il Re d'invitare il barone a pigliarsi qualsiasi altro portafogli meno quello dell'interno. Il Re aderì all'incarico, ma nel tempo stesso disse al Nicotera ch'egli non divideva l'opinione di Depretis. Naturalmente, non era questo il miglior mezzo per indurre il calabrese a rinunziare al suo progetto; e Nicotera ottenne il portafogli dell'interno.

Al Governo il Nicotera palesò tutto se stesso. Mentre, secondato dal Lacava, suo segretario generale, preparava progetti su progetti, da sé solo, e senza consultare uomini e codici, badava a mantenere l'ordine pubblico nella penisola. Specialmente in Sicilia il disordine era all’ordine del giorno. La mafia e il brigantaggio vi fiorivano. Orbene il nuovo ministro dell'interno, continuando l'energica campagna iniziata dal Gerra, già prefetto di Palermo, se non riuscì a sradicare la mala pianta, ebbe almeno la fortuna e labilità di livellarla al suolo. Vera tempra di uomo politico, egli non mostrò, in questa lotta, velleità dottrinarie, non sentì scrupoli di moralista.

Guardando allo scopo, non fece quistioni di mezzi. Dotato d'intuizione pronta, quantunque non sempre esatta, egli mandava ad effetto i suoi propositi con rapidità fulminea.

163 COLORI E VALORI

Non essendo un dotto, non era inceppato, nell'esecuzione, dall'osservanza dei principii: non essendo un avvocato, non si sentiva legato dall'ossequio alla Legge scritta. Considerava questa e quelli come mezzi buoni per raggiungere lo scopo nei tempi ordinari; inidonei nelle circostanze straordinarie. Egli voleva che nello stesso modo la pensassero tutti i suoi subordinati, dal prefetto al delegato di pubblica sicurezza. Pigliando un grande qui prò quo, aveva mandato a Palermo, in qualità di prefetto, il senatore Zini. Lo credeva una marionetta, un instrumentum regni! Figurarsi la sorpresa reciproca quando l'uno scriveva da Palermo che per lui non v'era che la sola norma della legge, e l'altro rispondeva da Roma che la vera norma di Governo era la necessità di Stato. Finirono col seccarsi scambievolmente e licenziandosi a vicenda. Nicotera non si sgomentò di questo puri tomismo, e continuò nella sua via. E quel che è più meraviglioso, egli ebbe il coraggio di étaler la sua teoria in pubblico Parlamento. Alla Camera disse: «La quistione della pubblica sicurezza in Sicilia non è quistione di legge ma di persona. Chi governa quel paese deve sentire il coraggio di assumere certe responsabilità; e nel caso poi queste oltrepassassero anche di una linea le facoltà che concede la legge, sapersi sacrificare se occorre, purché abbia reso un grande servigio al paese.» Con le parole e coi fatti, Nicotera tendevaa terrorizzare briganti e mafiosi. E vi riuscì.

Il suo nome divenne lo spauracchio di quella brava gente. Talvolta pigliava degli equinozi, e li faceva pigliare ai suoi dipendenti. Ma, in generale, vedeva e colpiva giusto. Giusto, s'intende, nell'interesse dello Stato, non già in quello del cittadino.

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Perché in quanto a libertà individuale e a Galateo di Governo, come direbbe lo Zini, il Nicotera si mostrò avaro più che no. Le detenzioni ad arbitrio dì sua Eccellenza basterebbero a convincerne il più scettico.

Durante la permanenza del Nicotera a palazzo Braschi, se la Legge fu posta spesso a dormire, fiorì, in compenso, il melodramma. Un tale — un siciliano minacciato dall'ira legittima, ma forse non legale, del ministro — volle prendersi il gusto di farsi un viaggetto a Roma per mettere a dovere Sua Eccellenza. La cosa giunse all'orecchio di quest'ultima, che fece conoscere allo Spaccamontagne come in tal giorno e alla tale ora si sarebbe trovata a passeggiare sul Corso. Il ministro, munito di un revolver, mantenne la promessa, e vi andò. Il provocatore non si lasciò vedere. Talvolta, però, il melodramma era musicato dal ministro stesso. Così, allorquando il brigante Leone ebbe la felice idea di farsi uccidere, il Nicotera, inneggiando alla morte dell'ultimo bandito di Sicilia, si permise di offrire al Pie le armi trovate addosso a quel malvivente. Come se il Leone fosse stato un gran capitano o un monarca spento in battaglia! Qual ministro dell'interno e beniamino di Vittorio Emanuele, il Nicotera esercitò nel primo Gabinetto di Sinistra una grande influenza. Egli faceva concorrenza al Presidente del Consiglio. Tuttavia, alla Camera, non sempre riusciva a dominarsi, e con soverchia fretta troncava netto alle discussioni mettendo la quistione di fiducia. Con la posa autoritaria e con gli atti che parodiavano il Thorough di Strafford, Nicotera divenne odioso alla parte democratica ed antipatico a quei politici moderati che della Legge scritta si dichiaravano gelosi. Finzi, Pex repubblicano, in un discorso elettorale, improvvisò una filippica contro il ministro.

165 COLORI E VALORI

Questi, smanioso di vendetta e non potendo pigliarsela senza grave scandalo, promise di battersi in duello col provocatore appena Ridiventato semplice cittadino. Ma ciò che gli fece più male fu la violazione della libertà telegrafica. La famosa gamba di Vladimiro, ficcatasi fra quelle del ministro, lo fece cadere. Nel dicembre 1877 Nicotera scendeva dal potere, né finoggi vi è più tornato.

Nel dicembre 1878 l'on. Nicotera fu tra gli oppositori del Ministero Cairoli-Zanardelli. Egli pronunziò un discorso breve e stringente, dimostrando la necessità di lasciare alla polizia il diritto di prevenire. Nel 1879 fu l'unico leader di Sinistra che non mostrò entusiasmo per l'abolizione della tassa sul macinato. Egli parlò e votò contro. La sua opposizione al Depretis non ebbe più tregua. Più volte si credette in obbligo di biasimare la lentezza con la quale si completava la nostra difesa militare. Nell'aprile 1880, nella discussione della legge sull'esercizio provvisorio dei bilanci, espresse completa sfiducia nel Gabinetto Depretis-Cairoli. Baccelli propose un ordine del giorno di fiducia. I nodi vennero tutti al pettine. Le ambizioni insoddisfatte si ribellarono alla mente e al cuore della Sinistra. Baccelli, medico del Re, dei ministri e dei ministeri, fece la diagnosi, e sostenne che tanto la mente quanto il cuore erano sani. La Camera opinò diversamente, e il Gabinetto ebbe un voto di sfiducia. Invece di dimettersi, dimise i deputati, e convocò i comizi. Le nuove elezioni non cambiarono gran che alla situazione. Nicotera cercò di formare una coalizione fra i Dissidenti di Sinistra e la Destra. Un échantillon del connubio étaìé in occasione dell'elezione dell'ufficio di Presidenza, dette ottimi frutti, perché dei quattro vicepresidenti un solo apparteneva alla lista ministeriale.

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Gli scrupolosi del Partito non vollero continuare in questi amorazzi, e i Dissidenti tornarono a separarsi dalla Destra. Solo o accompagnato, Nicotera seguitò nella guerra contro Depretis. Nelle elezioni generali del 1882 sdegnò di ripararsi sotto l'ombrello di Stradala. Anticipando il miracolo del maggio 1880, egli andò viaggiando per le provincie meridionali per parlare e agitare contro il Depretis. Specialmente i discorsi di Frisio e di Salerno impressionarono per la violenza delle accuse, dette però in forma moderata e parlamentare.

Nel maggio 1883, con la sua interpellanza sull'indirizzo politico del Ministero, provocò la crisi di Gabinetto, in forza della quale lasciarono i loro portali fogli gli onorevoli Zanardelli e Baccarini. Nel mese di  novembre col diner di Napoli furono gettate le basi della Pentarchia. A distanza di un anno il Nicotera I era riuscito ad organizzare una formidabile opposizione I non di coterie, ma di partito, contro il Depretis. Nel 1882 egli era isolato. Nel 1883, aveva con sé Cairoli, Crispi, Baccarini e Zanardelli. Dal 1883 all'aprile 1887 il Depretis si trovò sempre di fronte la sua Nemesi: Nicotera. Nel 1886, per un momento, fu creduto possibile un connubio RobilantNicotera. La combinazione non riuscì, e Nicotera continuò a tirare a palle infuocate contro il vecchio di Stradella. Dopo la catastrofe di Dogali il sogno di Nicotera parve prossimo a realizzarsi. Sembrava fuor di dubbio che l'on. Depretis i dovesse essere giubilato e la Pentarchia chiamata in blocco al potere. Nicotera ne era sicuro, ma la diserzione di Crispi e di Zanardelli mandò in fumo tutti i suoi piani. Nicotera se ne addolorò, e per più mesi rimase lontano dal Parlamento. Ebbe torto. La politica è una commedia, ed essa non permette le pose i sentimentali.

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Se ne accorse a tempo il superstite di Sapri, e ritornando ai lavori della Camera, interrogò il Ministero sulla difesa delle nostre coste. Contro il solito, non improvvisò, ma lesse il discorso. L'impressione non fu lieta. Parecchi mormorarono: La voce del cantor non è più quella. Ma se l'effetto oratorio fu sciupato, nessuno fu l'effetto parlamentare. Perché il Crispi, con l'intesa del quale pare fosse stata presentata l'interrogazione, visto che l'umore della maggioranza era avverso a nuove ed immediate spese militari, non rispose o non fece rispondere dal ministro della guerra quello che era stato concordato.

Nicotera, in quel giorno, sembrò abbandonato da tutti. I critici politici lo dettero per bello e liquidato. Oggi ancora essi affettano scetticismo per la potenzialità parlamentare dell'antico rappresentante di Salerno. Io non ho diviso mai né divido questa opinione. Non passerà molto, e noi vedremo di bel nuovo alla prova il leoncino di Mazzini. Nicotera, che affascinò Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Ricasoli, è un uomo che ci guadagna ad esser conosciuto da vicino. Non è un quadro di lontananza.

Un uomo che ha saputo disarmare i suoi nemici con la franchezza e la bontà del suo cuore calabrese, non è destinato a morire nell'oscurità. Leone Fortis. Suo avversario politico, vistolo una volta sola e parlatogli, provò per lui la più grande simpatia. Egli scrisse:La prima volta che rincontrai da un amico comune, egli aveva di recente perduto un' amica a cui aveva consacrato un culto ardentemente devoto — la vedova di Pisacane.

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Gli aveva lasciato la custodia di una propria figlia, giovinetta, poetica, entusiasta... Cadde il discorso su questa giovinetta, di cui era il padre adottivo. Nicotera trasse di tasca una lettera di quella fanciulla — e me la volle leggere intera, e la lesse con l’enfasi con cui un credente legge il Vangelo, colorendo, accentando, fermandosi e guardandoci tutti per cogliere le nostre impressioni. E poi quando ebbe finito, non si trattenne più. — e pianse — pianse come un poeta, come un idealista trascendentale e nel lasciarmi mi strinse la mano come se fossi stato un suo vecchio amico!

Ed ora quella giovinetta, la figlia adottiva di Nicotera non è più! Un fiero morbo l'ha strappata all'affetto del padre di adozione. Grande è stato il dolore di Nicotera per questa perdita. Ma la fibra dell'uomo è tale da non permettere una lunga inerzia. L'immagine della figlia di Pisacane rimarrà come un ricordo gentile nel cuore dell'antico rivoluzionario; ma non avrà potenza di spezzare l’energia di quella fibra di acciaio. Commemorando il Robilant, Nicotera ha già dato ravviso di non lontane battaglie. L'organizzatore del 18 marzo 1876 e della Pentarchia non mancherà di toccare il polso della Camera all'ora giusta, o qualche minuto prima — se il suo orologio politico è come quello di Talleyrand che anticipava sempre di qualche secondo — e Foratore, a cui mancano la coltura per essere un ciébater e l'ambiente per restare un tribuno, lungi dal ripetere l'errore di leggere i suoi discorsi, ne pronunzierà di quelli che l'Assemblea sentì altre volte da lui; di quelli, cioè, in cui l'espressione tagliente del partigiano si sposa all'ispirazione fervida del patriota, la correttezza della forma riveste la sincerità del pensiero, l'argomentazione stringente si accoppia al movimento degli affetti, la facilità della parola è abbellita dalla voce vibrata e squillante.

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Quello stesso amore puro e santo, che il Nicotera sentì per la sua figlia adottiva, fu dal duca di San Donato provato per la madre. Era questa una gentile e veneranda signora, verso cui gli amici del duca professarono sempre stima ed ossequio. Urbano Rattazzi, allorché veniva a visitarla, le baciava la mano. E certo era uno spettacolo che impressionava e commuoveva il vedere il grosso Sindaco di Napoli, abitualmente autoritario con tutti, diventare timido come un fanciullo alla presenza della vecchia madre. Quando la veneranda matrona morì, si temette dagli amici una seconda sventura. La disperazione del povero duca non si descrive. S'immagina!

Gennaro Sambiase di Sandonato è l'uomo più popolare del Mezzogiorno d'Italia. È un nobile; ma giammai tribuno fu più di lui caro alle masse. Nacque nel 1823 a Sala Consilina, in provincia di Salerno. Venuto a Napoli, studiò; però non prese alcuna laurea. Prese, bensì, parte al movimento letterario e politico, e, per un momento, sperò, come altri patrioti, nella lealtà e nelle buone intenzioni di re Ferdinando. Più perspicace di parecchi suoi amici. Sandonato capì a tempo che coi Borboni era vana ogni speranza. Si fece cospiratore. La polizia lo seppe, e meditò di dargli una lezione di galateo galateo codino.

Si era nel 1847, e a Messina e a Paggio erano scoppiati moti rivoluzionari. I feroci borbonici, per una corrente epidemica di precauzioni, visitarono, chez-eux, d'Ajala, Poerio, Sandonato, Altamura. ecc. e li arrestarono. Tuttavia, poco dopo, li rimisero in libertà. Appena riacquistato l'uso delle sue gambe, Sandonato, per dimostrare che dalla lezione aveva tratto profitto, si palesò più matto di prima matto nel senso dato a questa parola dai fedeli sudditi di Ferdinando.

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Con altri nobili, ardenti di patriottismo quanto lui, salì su di un carro, e per tutta Toledo andò gridando evviva alla Costituzione — che non era stata ancora data. Appena il Pie ebbe largito lo Statuto, con la pia intenzione di gettare una trave fra le gamie dei suoi colleghi scettrati d'Italia. Sandonato fu nominato maggiore di guardia nazionale, e comandante del battaglione di stanza a Castellammare. Dopo il 15 maggio 48 non si allontanò da Napoli. Il 5 settembre, insieme ad altri suoi amici, volle opporsi con la forza alle disgustose scene di tripudio reazionario di una banda di luciani, famosi sanfedisti. Fu arrestato. Nondimeno, mancando prove serie a suo carico, lo dovettero riporre in libertà. Cosa curiosa! mentre egli usciva dal carcere, gli elettori di Castellammare lo mandavano alla Camera, scegliendolo a loro deputato. Ma nella Camera non poté essere ammesso, perché non aveva compiuto il venticinquesimo anno. Io non so con certezza e precisione le sfumature dei contegno di San donato in quei giorni. Certo è che la polizia, paternamente, si struggeva del desiderio di rimettere le mani addosso all'onorevole mancato. Il Duca, fedele sempre al principio di non voler vivere a carico del bilancio dello Stato o di qualsiasi altra pubblica amministrazione, non volle, come carcerato, mettersi in questa condizione; epperò prevenne la benevola intenzione della sbirraglia, imbarcandosi con Mancini su di una nave estera diretta a Genova.

A Genova il Sandonato divenne presidente del comitato di emigrazione. Non vi stette che poco. Passò in Francia, e propriamente a Parigi, dove vivacchiava la seconda Repubblica. Il suo carattere impetuoso, franco, leale gli procurò subito le simpatie dei mes sieurs parisìens. Si fece giornalista.

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Divenne collaboratore della Presse, fondata e diretta da quel Girardin che vantavasi di bandire, nel suo giornale, un'idea nuova al giorno. Scrivendo il francese come l'italiano, Sandonato si fé' strada. Guadagnò, con la penna, sino a seicento lire al mese. Sarebbe rimasto ancora molto tempo nella Babilonia moderna, se non si fosse maturato il colpo di Stato. I colpi di Stato — è teoria vecchia — sono preannunziati dai colpi di scopa. Sandonato, il quale non trovavasi, come Morny, dalla parte del manico, fu spazzato. Il due dicembre doveva succedere senza troppi testimoni stranieri. Perciò, alcuni giorni prima, Sandonato ebbe l'ordine di preparar le valigie. Era vano protestare. Sandonato sapeva che sul suo conto la polizia francese era stata esattamente informata dall’Antonini, ambasciatore napoletano. E quali informazioni! Approssimandosi la grande giornata in cui la Camera dei venticinque franchi doveva esser chiusa nella cella di Mazas. i poliziotti parigini non vollero che un nemico dell'ordine rimanesse nel cervello del mondo. Sandonato obbedì, e partì per l'Inghilterra. dalla quale passò, poi, in Piemonte. A Torino entrò a scrivere in varii giornali, e fra gli altri, nell'Unione di Bianchi-Giovini — un Petruccelli lombardo.

Durante tutto il tempo dell'esilio, Sandonato non piegò mai la sua fronte. Specialmente in Francia, egli dimostrò intera l'alterezza della sua anima. A somiglianza di altri suoi concittadini. Sandonato non permise mai che in terra straniera, s'insultasse impunemente il nome italiano. E non una volta sola espose la sua vita per il decoro nazionale. Per questa ragione e per i diverbi personali e le polemiche giornalistiche, egli, dal 1849 al 1860, sostenne più di dieci duelli, rimanendo in alcuni gravemente ferito.

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Oggi ancora conserva sulla parte sinistra del volto, e a poca distanza dall'occhio, la cicatrice di una grave ferita da lui riportata in uno scontro cavalleresco col Martinez.

Nel 1556. Sandonato scrisse un opuscolo del titolo:Le due Sicilie e i Governi di Europa. Girardin. che faceva grande stima del suo antico collaboratore, tradusse l'opuscolo in francese: e lord Palmerston lo citò nella Camera dei Comuni, per fare una delle solite sue filippiche contro la dinastia borbonica di Napoli. Nel 1558, Sandonato, che in Francia aveva stretto numerose relazioni, e che a Torino godeva la simpatia e la stima del mondo politico, pensò di rendere ancora più utile la sua influenza alla terra nativa, e cominciò a pubblicare un giornale scritto in francese e intitolato: Le Courrier d'Italie. Egli si proponeva di diffondere questo periodico in Francia, e di rendere in tal modo più popolare in quel paese la causa italiana. L'idea era buona, ma non parve tale alla polizia francese. che. sobillata dalle egregie consorelle di Napoli e di Milano, frappose tanti ostacoli alla diffusione del giornale nelle Gallie che il Courrier cessò di correre dopo quattro mesi.

Di questo generoso tentativo prese occasione il De La Varenne per scrivere alcune belle parole sul San donato. E pregio dell’opera riportarle nel presente profilo:

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«Des autres personnages de cette lettre je ne connais guère que le coté politique. lei. j'ai pratiqué rhorame prive, et je sympathise vivement avec lui. Plein de loyauté. d'esprit et de feu, il personnifie, avec un rare bonheur, la haute noblesse italienne, en général si dévouée, si intelligemment libérale. Sandonato est immanquablement désigné, de toutes façons. au plus brillant avenir. A moins toutefois qu'il ne se laisse £jas tuer en route. Car ce diable d'homme, le plus tranquille du monde en apparence. a déjà eu, depuis son exil seulement. une douzaine de duels. et, dans deux ou trois, il est reste pour mort sur le terrain. Il prétend que c'est dans le malheur qu?il faut porter le plus haut la tète et montrer la susceptibilité la plus parfaite. Ne trouvez vous pas que c'est noblement pensé?»

Scoppiata la guerra del 1859, Sandonato entrò nei Cacciatori delle Alpi col grado di maggiore. Lo destinarono al deposito di Acqui. Altro che deposito! Sandonato, che voleva provare le emozioni delle battaglie. si dimise, e corse a Brescia, dove stava Garibaldi. Fu accolto bene, e destinato allo stato maggiore. Dopo la guerra, ebbe uno dei soliti duelli, e tornò a dimettersi.

Prima ancora che Garibaldi entrasse in Napoli, Sandonato ed altri esuli fecero ritorno nella capitale borbonica. Potevano a tanto arrischiarsi grazie all'amnistia, e grazie, massimamente, alla presenza della flotta sarda nella rada. Il conte Persano vide, appunto in quei giorni, il Sandonato, e così ne scrisse nei suo diario in data del 16 agosto 1860:

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Incontro qui un'antica mia conoscenza, il duca di Sandonato, liberale arrisicato, ma devoto anzitutto all'idea nazionale e alieno da utopie. Primo scopo per lui è l'unità d'Italia; e vedendo come, nello stato presente politico di Europa, non si possa altrimenti conseguirla se non con Vittorio Emanuele a Pie, questo va altamente proclamando senza misteri e senza reticenze.

Entrato Garibaldi in Napoli. Sandonato ebbe varie offerte di alte cariche. Le rifiutò, perché retribuite. Non volle, perciò, essere Ispettore generale delle Regie Poste, né Direttore generale del Banco. Accettò, invece, di essere nominato Sopraintendente ai teatri carica gratuita. In quest'ultimo ufficio il Duca si avvide dell'esistenza di una potente camorra, la quale da un pezzo impediva la libera concorrenza artistica. Volle estirparla. Inde irae. Una sera, il 30 dicembre, mentre passava vicino al teatro San Carlo, veniva aggredito e ferito alle spalle da un sicario armato di pugnale. L'assassino scappò, né fu raggiunto. Il Duca cadde a terra immerso nel proprio sangue, e per parecchi giorni si temette per la sua vita.

Grande era la simpatia di Garibaldi pel Sandonato. E ne valga come prova il fatto seguente. Trovavasi in Napoli il Depretis. che da poco si era dimesso da prodittatore in Sicilia. La sua presenza non piaceva ai libéralissimi Crispi e Bertani. i quali sospettavano, e forse non a torto, che l'amico Agostino navigasse sott'acqua a loro danno. Accesi da un santo sdegno, essi ottennero da Garibaldi un decreto abbastanza grazioso, la cui mercé l'amico come sopra doveva essere arrestato, messo su di una regia nave e mandato a raggiungere Giuseppe Lafarina in Piemonte.

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Depretis si commosse immensamente della squisita tenerezza dei due signori mazziniani, che, certo, non si proponevano altro scopo meno quello di evitargli un accesso di nostalgia. Tuttavia la procedura gli sembrò non tanto civile, e travestitosi, sebbene non si fosse in carnevale, corse a casa di Sandonato, che allora abitava al vico Tre Re a Toledo. Sandonato accolse a braccia aperte il suo vecchio compagno di politica, il quale, nell'esilio, gli era stato largo di cortese ospitalità, e che con lui aveva collaborato nel Courrier d'Italie. Nè Depretis dubitava punto di una buona accoglienza da parte del Duca. Egli ricordava che era stato appunto il Sandonato che nel 1858 lo aveva riconciliato con Rattazzi in un modesto banchetto — riuscito, per 1: opposto, assai molesto al Cavour. Il Duca, nascosto il Depretis nella propria casa, andò subito a parlare col dittatore. L'udienza di Garibaldi, al solito, era affollatissima. Ma il Duca era conosciuto, e passò presto. Arrivato, però, alla stanza precedente a quella in cui stava il Generale, sorse un ostacolo. Bertani volle farsi dire il motivo di si repentina visita, e saputolo, cercò d'impedire al Sandonato di veder Garibaldi. Ne nacque un diverbio vivacissimo. Mentre i due gridavano come se stessero in casa loro, uscì Garibaldi, che invitò Sandonato ad entrare. Il colloquio fu breve ma efficace. Il decreto di arresto venne revocato, e Depretis poté partire senza alcun pericolo di plagio a Lafarina.

176 CAPO TERZO

Banditesi le elezioni generali nel 1861, Sandonato fu eletto deputato al Parlamento dal Collegio di San Carlo all'Arena, che poi sempre gli rimase fedele. Alla Camera sedette a Sinistra, distinguendosi presto pel calore dei suoi discorsi e per la vivacità spiritosa delle interruzioni. Parlò fortemente contro il sistema di governo praticato dalla Luogotenenza a Napoli, e nel 1° luglio 1864 proponeva un ordine del giorno per dichiarare che il Gabinetto attentava alla libertà e all'unità nazionale.

Amico intimo di Rattazzi, Sandonato fu uno dei più attivi componenti del terzo partito. Ei non fece mai transazione sui principii. Alla Camera rimase costantemente come uno svegliarino dei ministri — sobriquet che io, senza chieder permesso, amo rubare a Cletto Arrighi.

Sandonato non è un oratore a lunga lena. Si stanca presto. La voce non è bella né rimbombante. E chioccia. La parola è lenta. L'argomentazione non è stringente. Sandonato è un parlatore che ama d'impressionare piuttosto che di convincere. Non piglia spesso la parola. Ai discorsi preferisce le interruzioni — interruzioni argute e che non danno luogo a replica. Ma quando lo si sente, o meglio, lo si vede, chieder la parola, si può scommettere che il Duca o deve perorare la causa di Napoli oppure fare una catilinaria contro il Governo. In questo secondo caso, egli è senza complimenti. Petruccelli, uditolo nel 1862, lo chiamò oratore aggressivo e pittoresco.

La parte principale dell'azione politica di Sandonato non si è svolta in Parlamento. Si è svolta a Napoli.

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Dal 1860 l'egregio Duca, come sopraintendente ai teatri, maggiore generale della guardia nazionale, deputato di San Carlo all'Arena, consigliere provinciale, consigliere comunale, sindaco della città, presidente del Consiglio provinciale, presidente del Consiglio di amministrazione del Dauco, è stato ed è rimasto l'idolo del popolo napoletano. Vittorio Emanuele, quando veniva a visitar Napoli, diceva, celiando, che entrava nel vicereame del duca di Sandonato.

Dell'amministrazione municipale sandonatista è superfluo parlare. E storia recente. Sandonato aveva grandi idee: voleva trasformare Napoli dal punto di vista edilizio, trasformazione che doveva precedere la rigenerazione morale della plebe. Non riuscì, e cadde. Il torto fu comune ai napoletani e al Duca. Quelli non compresero di che si trattava; questi non seppe scegliere i suoi collaboratori.

Le conoscenze e le amicizie di Sandonato non si limitano a Napoli. Il Duca è un personaggio cosmopolitico. Gli autografo contenuti nel suo Album lo attestano chiaramente.

In particolar modo caro a Vittorio Emanuele era il Sandonato. In parecchi momenti difficili volle quel Re consultarlo. Lo aveva conosciuto in Piemonte; ma fu a Napoli, nel 1S60, che l'amicizia del Sovrano per l'antico esule divenne più calda ed espansiva. In quell'anno Vittorio Emanuele ebbe vaghezza di visitare tutti i teatri della città, specialmente il San Carlino.

Sandonato, nella qualità di sopraintendente, lo accompagnava. Quando il Duca soffrì l'aggressione, di cui ho fatto cenno, e stette per parecchi giorni in pericolo di vita, Vittorio Emanuele, che era ritornato a Torino, ne fu più di ogni altro addolorato.

178 CAPO TERZO

Egli domandò, ogni giorno, per telegrafo, notizie dell'infermo; e, infine, gli scrisse una lettera nella quale diceva: «Se mi fossi trovato accanto a Lei, non Le avrebbero fatto un così brutto giuoco, perché avrei, con le mie proprie mani, fatto giustizia dei suoi assassini.»

Il Sandonato, come ogni discendente di monsieur Adamo, ha i suoi difetti. Egli non ripone sempre la sua fiducia in persone che la meritino. Non ama che gli si dica la verità. E affabile, ma troppo autoritario. Vi fa un'accoglienza calorosa, però sempre come quel successore di Don Rodrigo, il quale consentiva volentieri a servire a tavola, in casa sua, i poveri sposi di Lecco, ma non avrebbe consentito giammai a sedere accanto a loro e mangiare con essi. Questi non sono piccoli difetti. Tuttavia sarebbe vano gridare: Pentiti, Don Giovanni! Il duca di Sandonato è incorreggibile. Bisogna pigliarselo tal quale è per natura sua.

Il più giovane fra i comandanti della Sinistra è l'on. Tommaso Villa. Il Villa nacque a Mondovì nel 1830. Studiò legge, e prese la laurea in giurisprudenza. Entrò nello studio di Angelo Brofferio, al quale, certamente, dovè fare una gradita impressione l'indole impetuosa e franca del giovane allievo. Come il suo maestro. Villa non si contentò di essere avvocato. Volle essere anche un letterato. Il Digesto diventava per lui l'opposto se non era preceduto, come antipasto, da una poesia, o se non era cucinato in una salsa letteraria. Quel celebre periodo storico, che dal 1830 andò fino al 1848, non permetteva a nessuno di astenersi dal belletto artistico.

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Gli avvocati, in particolar modo, sapevano conciliare Papiniano e Dante, Paolo e il santo omonimo, Byron e Triboniano. A Napoli, a Torino, a Firenze la corrente era la medesima. Il Villa vi si abbandonò come gli altri. Giovane ardente di patriottismo, egli volle drammatizzare la lotta dei Comuni col Barbarossa, e scrisse l'Alessandro III. Giornalista nato, collaborò in parecchi diarii, fra'  quali l'Eco delle Provincie, diretto dal Depretis. Fondò il Mago, la Caricatura, ecc.

L'attività di Villa prima del 1860 fu, senza dubbio, notevole; ma essa non acquistò importanza se non dopo quell'anno, e propriamente, in seguito alla convenzione di settembre del 1864. Villa fu tra i piemontesi che giustamente s'indignarono della condotta del Governo. L'indignazione si unì alla preoccupazione di futuri guai. Cominciò, cioè, a temersi l'eventualità di una rettifica di frontiere a favore della Francia e a danno del Piemonte. Per tener sempre desta l'attenzione del suo paese, Villa fondò il giornale Le Alpi, col quale si fece crociato di uno chauvinisme difensivo. Nel marzo 1865 quella preoccupazione parve pigliar forma e corpo di ben fondata paura. Per una indiscrezione del Ministero degli esteri si venne a sapere che in un fascicolo legato in seta azzurra con tenevasi un protocollo secreto, firmato pure da Visconti-Venosta, per cui la cessione o L''accessione di Roma o di Venezia al Regno d'Italia doveva essere accompagnata dalla cessione alla Francia del territorio piemontese fino alla Sesia. Mazzini propalò la notizia con una lettera al Villa, il quale la pubblicò nelle Alpi, e poi, per conto suo, aggiunse queste gravi parole:

180 CAPO TERZO

«Non avevamo bisogno dell'autorità di Mazzini per conoscere la realtà dei pericoli in cui versavamo. Essi erano la più dolorosa conseguenza di una situazione creata dal trattato del 15 settembre e dalle non mai celate velleità imperiali. Ma pure dobbiamo dirlo: questa voce di un patriota che affrontò più volte il patibolo per la causa italiana; di un uomo che per tutta la vita non ha avuto che un pensiero, quello della patria: di un uomo che dal povero suo gabinetto tien testa a tutte le polizie, questa voce ci percuote dolorosamente nell'animo. Il pericolo vero, reale esiste. Conviene scongiurarlo.»

Nè meno fiere furono le parole scritte dal Villa in occasione del discorso di Napoleone III al Corpo legislativo; discorso in cui si era fatto cenno, con disprezzo, del piccolo paese appiedi delle Alpi, soggiungendosi che la gran patria italiana non avrebbe esitato a liberarsene. Villa rispose a questo indiretto avviso di una possibile cessione del Piemonte:No! — Sta ancora presso gli spalti della cittadella la statua di Pietro Micca, e il nome d'Italia e del suo Re ci ritornerebbero allora a quella virtù di magnanimi propositi, per cui la volontà di un popolo diviene invincibile!» — Senza esagerazione, il Villa interpretava, in quei giorni, i sentimenti non solo del Piemonte, ma ancora di tutta l'Italia.

Limitare l'agitazione alle chiacchiere, sarebbe stata opera troppo avvocatesca. Mazzini fece balenare alla mente di Boggio e di Villa l'idea di una propaganda nazionale per la liberazione del Veneto, I due accettarono. Però Boggio subito si ritrasse dall’impegno, perché Mazzini, lealmente, aveva dichiarato che la quistione veneta non lo avrebbe distolto dall'agitazione repubblicana.

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Villa, invece, non sentì scrupolo di lavorare col grande agitatore. In un meeting, che aveva per scopo di biasimare la politica del Governo riguardo a Roma, Villa propose la formazione di un Comitato per la causa veneta. Parlò applauditissimo, e l'assemblea decise che il Comitato dovesse organizzare le forze democratiche piemontesi pel duplice fine di aggiungere Venezia e Roma all'Italia e di preparare il terreno per le prossime elezioni generali. Decise, inoltre, che il Comitato fosse permanente e continuasse le trattative col Mazzini. Come s'intende, l'origine della Permanente si deve in gran parte al Villa.

Per eseguire il mandato dell'Assemblea, il Villa recossi a Londra, dove si abboccò col Mazzini. Questi scrisse, il 27 luglio 1865, al suo corrispondente esploratore: «Ho veduto Villa. Teoricamente c'intendiamo: praticamente, non so se ne uscirà cosa alcuna.»

Non ne uscì niente. La liberazione del Veneto avvenne solamente l'anno seguente, e per opera del Governo e della diplomazia, che seppero far sì che le sconfitte non si mutassero in perdite.

In mezzo alle agitazioni della politica tribunizia, Villa, intanto, acquistavasi uno dei primi posti fra i penalisti italiani. Eletto deputato, portava nella Camera la nota appassionata ed affascinante di un'eloquenza satura di sentimenti patriottici. Osteggiò la Destra, e dalla Sinistra fu sempre tenuto in grande pregio. Nel dicembre 1878 pronunziava uno splendido discorso a favore del Ministero Cairoli-Zanardelli.

182 CAPO TERZO

Nell'aprile 1879, in una discussione analoga sul diritto di associazione, egli fece un passo, se non indietro, di fianco perlomeno, e spiegò, con mirabile chiarezza, le sue idee sull'argomento. Disse che al disopra della legge, degli statuti e del patto nazionale stava il diritto di associazione; che il Governo non poteva limitare la libertà delle associazioni, salvo che queste trasmodassero, e che la limitazione doveva avvenire soltanto mercé un pronunziato del magistrato, e in caso di flagranza di reato, mercé l'intervento della polizia giudiziaria responsabile delle sue azioni; che il prefetto stesso non era che un agente di detta polizia. L'on. Nicotera, come se avesse vinto un terno al lotto, domandò al Presidente di voler parlare per fatto personale. Ottenuto il permesso di aprir la bocca, si congratulò con l'on. Villa, e si fé' lecito sperare che la condotta dell'egregio uomo trovasse imitatori. Sempre più contento di se stesso e delle cose che diceva, l'on. Nicotera continuò:Io potrei dire che fra il discorso dell'on. Villa di oggi e quello di un' altra solenne occasione (1878) corre la medesima differenza che passa fra le mie opinioni e quelle dell'on. Mari... Onorevole Villa, oggi che cosa noi dobbiamo decidere? Se il Governo fece bene a valersi del diritto che la legge gli dà, in certi determinati casi, di sciogliere, cioè, le associazioni politiche, e di proibire certe dimostrazioni, certe manifestazioni che turbano l'ordine pubblico. Questo è il tema. L'on. Villa, in un'altra occasione, ha sostenuto che di questo diritto il potere esecutivo non dovesse usar mai, spettando provvedere su ciò unicamente al potere giudiziario. Naturalmente il Villa non poteva rimanersene in silenzio, e rispose confondendo abilmente la quistione personale con la quistione di partito.

183 COLORI E VALORI

Indubbiamente il discorso dell'aprile 1879 era un discorso-ministro. L'on. Villa presentiva di dover essere chiamato al Governo, e volle prepararsi il terreno spiegando meglio e attenuando il liberalismo un po' sbrigliato, di cui si era fatto maestro e dottore nel dicembre 1878. Non passarono che tre mesi, e conia caduta dell'on. Depretis, il Governo veniva affidato al Cairoli, il quale, a sua volta, affidava al Villa la direzione del dicastero dell'interno. Faldella scrisse esser lecito sperare che qualche azzeccagarbugli, a cui le parole uscivano dalla bocca scure e inceppate come inchiostro da una boccettina capovolta, non trovasse mediocre la splendida eloquenza di Tommaso Villa. Invece, il Petruccelli, senza un motivo al mondo, prese cappello, e dichiarò:Villa all'interno — fuori posto. Ma Villa potrebbe vantare di aver stoffa per ogni portafoglio — ed anche essere ammiraglio, arcivescovo di Torino, cardinal vicario — se, chiamato, si preparerebbe all'opera!» Villa arcivescovo di Torino? Francamente quest'assertiva mi preoccupa!

Villa, a palazzo Braschi, agì come ogni buon onorevole divenuto ministro. Temendo di scrivere negli annali ministeriali una seconda edizione dell’opera zanardelliana del primo Gabinetto Cairoli, pensò a far mantenere l'ordine pubblico senza oscitanze e senza compromessi.

La sua prova come supremo direttore della polizia italiana non durò a lungo. Nel novembre 1879 Villa cedette il portafogli dell'interno al Depretis, e successe al Varè nel dicastero della giustizia. Questa volta financo gli scettici del luglio 1879 gridarono: «The righi man in the righi place,»

184 CAPO TERZO

Sembrava proprio giustizia che il Ministero della medesima toccasse, per grazia del connubio, a un avvocato del valore di Villa.

Villa, durante il tempo in cui fu guardasigilli, non riposò sugli allori conquistati. Presentò varii disegni di legge. Cito quelli sui seguenti argomenti: decime: inchieste parlamentari; modifiche ai giudizi penali; unificazione dei servizi di giurisdizione e polizia ecclesiastica: modificazioni al Codice di procedura civile, ecc. Ogni qual volta dovè prendere la parola, lo fece con la solita facondia, e l'oratore del banco ministeriale non fece rimpiangere l’oratore dell’opposizione. Il 28 aprile 1880, attaccato con un po' di asprezza dal Bovio sulla questione dei processi di stampa, rispose: k Devo assicurare Fon. Bovio che, se vi sono, dei processi di stampa, questi processi non hanno luogo contro la stampa che ricorre alla critica onesta, calma e serena anche quando sfida i problemi più gravi e delicati della penisola. No; la legge e la giustizia rispettano questa stampa, perché essa usa del suo diritto. La legge e la giustizia si armano, invece, contro una certa stampa che è indegna di quella libertà della quale Fon. Bovio è così geloso (Bravo). la quale non discute, ma offende, ma provoca; che osa insultare all'augusta maestà del capo dello Stato (Bravo! Benissimo); che getta le contumelie contro le nostre istituzioni. Questa stampa è fuori della legge, e contro questa stampa tutti gli onesti devono coalizzarsi; e nessuno può deplorare che la legge spieghi il suo rigore e punisca, se veramente l'attentato di questa stampa viene perpetrato contro la libertà. (Bene!) — E poiché Fon. Bovio aveva accennato al processo contro il giornale l'Ateo, affermando che si trattasse di un processo per motivi religiosi, il Villa, sempre più riscaldandosi, soggiunse:

185 COLORI E VALORI

Vi è un giornale che ha per titolo l'Ateo, ed è padrone d'insignirsi di questo titolo, nel quale s'imperna il suo programma. Ora è un fatto che si procede contro questo giornale: ma Fon. Bovio non dovrebbe ignorare che si procede contro il medesimo per eccitamento all'odio e alla distruzione degli ordini costituzionali. Non si fa adunque un processo ad alcuna dottrina. Ma se, invece di discutere, si sollevano odii, si provocano le basse passioni. si offende, s'insulta, sappia, onorevole Bovio, che la legge dev'essere allora severa e rigorosa, e che così soltanto si mantiene alto il vessillo della libertà. {Bene! Bravo! Applausi).

 T

Ritornato semplice deputato, Fon. Villa, senza tenersi legato a un gruppo piuttosto che ad un altro, seguitò a lasciarsi guidare unicamente dal vessillo della Sinistra. Tornerà ministro Fon. Villa? Non è a dubitarne. Oratore di prima forza e penalista insigne, Villa è qualche cosa di più di un grande avvocato: è un giureconsulto. La sua relazione sul nuovo Codice penale è un capolavoro, ed è superiore alla stessa relazione dello Zanardelli.

186 CAPO TERZO

§ 4. — I Luogotenenti.

Sommario. — Laporta e Morana — II 1° ottobre 1860 — I declamatori — L,'incontentabilità — Morana e Nino Bixio — Noiose considerazioni — Scalata non scala — Lo zelo quànd mème — li tentativo del 18S1 — L'amministrazione à l'arc-en-ciel — La Porta alla medesima dei ministeri — L'affetto di Morana per Depretis — Un salto non mortale — Salaris irrequieto — A Santa Lucia — Il corpus vile degli esordienti — Dottrinario, non dotto — Polka politica — Salaris ammalato di ciandalismo — Il Cavalletto della Sinistra — L'on. Ferra coi ù — Illustrazione, non uomo illustre— Il capo dei veterani — Spavento e terrore — Il mare in tempesta — Un Topete italiano — I canoni del diritto e i cannoni da cento — L'aplomb di Ferraccia — Decorazione rifiutata — I cavalieri del colera e quelli dello zucchero — Branca, Giolitti e Seismit-Doda — La Trinità discordante — Doda compagno di Fortis — Le due dame di Francia — Falso profeta — Il ministro rèveur — Branca cospiratore? — Branca giudicato dal barone Savarese — La rapida fortuna di Giolitti — La contabilità — Ma glia ni e Giolitti — L'Arcoleo lucano — Arrivi, non parvenu — Tre valori — L'on. Taiani — Il panetto e l'orbetto — Taiani o la balia svizzera — L'esilio — Il volontario del 59 — Il procuratore generale — I discorsi del 1875 — L'oratore — Il ministro — L'on. Miceli — Il soldato della libertà — Miceli che insegna il diritto — La spedizione dei Mille — Il deputato — Una signora inglese che vuole Miceli per marito — Povertà illustre.

Luigi Laporta e Giambattista Morana sono entrambi palermitani. Il primo nacque nel 1818; l'altro, nel 1833. Sono due uomini politici con tradizioni militari. Provengono dall'esercito regolare, dove entrarono dopo essere stati volontari. Laporta, già trentenne nel 1848, scese in Calabria per farvi una rivoluzione. Non vi riuscì, e fu carcerato. Ripetette il tentativo in Sicilia, e perdette, per la seconda volta, la libertà. Rimesso nella stessa, ne fece quell'uso che ne aveva fatto sinallora. Egli rimase l'identico rivoluzionario à poigne della prima maniera. Si sa: il lupo perde il pelo ma non il vizio — che, questa volta, doveva dirsi virtù.

187 COLORI E VALORI

Nel 1860 fu tra coloro che fecero ribellare Palermo, e prepararono il terreno a Garibaldi. Fu nominato da Garibaldi ministro della guerra. Poi, quando il Dittatore passò nel continente, Laporta lo seguì, e prese parte ai varii combattimenti di quella campagna. Il 19 settembre, alla testa del secondo battaglione del reggimento da lui comandato, si distinse in modo speciale; sicché il La Masa, generale della divisione, scriveva al Dittatore, elogiandone il valore straordinario, e soggiungendo che il Laporta, caricando per ben due volte, alla baionetta, il nemico, in meno di un quarto d'ora lo aveva respinto dalle posizioni occupate nei boschi e nella stazione ferroviaria, e che la sera, tuttoché fatigato, si era inoltrato nuovamente verso il campo esterno di Capua fulminando la cavalleria.

Nella giornata del 1° ottobre il Laporta ebbe pure la sua parte. Egli ne riferì così al suo generale:

«All'alba del giorno, dalla piazza dell'anfiteatro campano mi slanciai con una compagnia in direzione del reggimento Corrao all'attacco, ordinando al mio maggiore Mistretta di avanzarsi con le altre compagnie alla diritta. Il nemico, dopo essersi valorosamente battuto, retrocedeva, facendo fuoco di ritirata con ordine e precisione ammirevoli. Non fu che alle nostre ripetute cariche alla baionetta che si compiè la di lui ritirata. Intanto, essendosi di molto estesa la linea di battaglia, il mio maggiore, all'estrema diritta, si slanciò all'assalto dell'artiglieria nemica. I soldati, stanchi per tre ore di combattimenti, esitavano alla presa dei cannoni; fu allora che il maggiore suddetto, saltando avanti tutti, addita ai soldati i pezzi e la meta alla quale dovevano arrivare; difatti, all'esempio del loro maggiore, i soldati lo sieguono nello slancio, s'impossessano dei pezzi;

188 CAPO TERZO

il maggiore volta subito il primo pezzo coll'idea di tirare sui regii, ma, accortosi che i cassoni di munizioni mancano, consegna 1 pezzi ai soldati, e seguita ad inseguire il nemico. Subito,a destra, succedeva una delle più belle scene di guerra; un gruppo di bavaresi, svizzeri e soldati del mio battaglione erano alle prese... La mischia era ostinata, e alla fine i nemici della libertà dovettero cedere e cadere esanimi... Intanto tre squadroni di cavalleria, caricando al galoppo, cercavano d'inviluppare tutta la nostra linea di ritirata, nella quale era compreso il reggimento Corrao e quasi tutto il mio battaglione col maggiore Mistretta. Io che era alla diritta, per sostenere la ritirata con 25uomini del mio battaglione, ordinai ai miei di slanciarsi per l'erta dietro l'anfiteatro. Così fatto, e giunta la cavalleria a dieci passi da noi, comandai il fuoco, e il nemico, scompigliandosi, si arrestò, tantoché, eseguita subito una seconda scarica, a tutto galoppo fuggì.»

Finita la campagna garibaldina, Laporta entrò nell'esercito regolare col grado di tenente colonnello; ma vi rimase poco tempo. Uomo di partito, la politica lo tentava. Si presentò deputato a Girgenti col patrocinio di Garibaldi. Fu eletto, e si dimise da colonnello. Nella Camera sedette all'Estrema Sinistra, e fu tra i più caldi fautori del partito di azione. Cletto Arrighi lo classificò fra i declamatori. Nel suo libro sui 450 Deputati al Parlamento, pubblicato nel 1864, lo guardò dall'alto in basso. Disse:Manca il Lati porta di criterio politico. Di tale mancanza diedeprova dal giorno che prese la parola. La sua caratteristica è l'interpellanza, specialmente sulla politica estera. L'Opinione, a proposito di tali interpellanze, scrisse che di discorsi simili, in faccende di politica-estera, ricordava di averne fatti e intesi quando,giovani ancora e studenti, specialmente dopo pranzo,  si stava intorno ai tavolo di un caffè, e si divideva l'Europa ad libitum di ogni oratore.

189 COLORI E VALORI

Laporta ha et frasario fuori di moda. Non ebbe, e forse non ha potuto aver sinora gli studii politici, economici e sociali indispensabili ad attuare quelle riforme radicali che potranno, anzitutto, fornirci il mezzo di pigliar Roma e Venezia.»

L'Arrighi dovrebbe, oggi, modificare di molto il suo giudizio. Il declamatore del 1864 è divenuto, con l'età e con l'esperienza, uno dei più provetti parlamentari, un uomo pratico, un formidabile censore e revisore di bilanci, un relatore minuto ed analitico. Laporta non declama più. Parla e ragiona.

Più giovane di Laporta, il Morana è anch'egli un militare dimissionario. Spirito attivo e intraprendente, il Morana, fin da giovane, diede prova della sua incontentabilità. Tipo medioevale, egli è stato mercante, avvocato, banchiere, soldato, capitano, uomo politico. Qualche mese fa, si disse che sarebbe entrato in diplomazia. V'è in lui qualche cosa di Nino Bixio.

Laureatosi in legge, esercitò per poco la professione legale. Subito mandò a farsi buscherare Papiniano, Sabino e Ulpiano, e divenne commerciante. Venuto il 1860, Morana dimenticò i suoi privati interessi, e prese le armi. Garibaldi lo nominò, successivamente, membro del Comitato di guerra, caposezione al Ministero idem, capitano di artiglieria, maggiore. Morana fu tra i più valorosi garibaldini. Nello stesso anno entrò nell'esercito regolare. Telesforo Sarti dice che il Morana fece pure la guerra del 1866. Altri biografi non accennano a questa circostanza. Certo è che contro i briganti spiegò valore e intelligenza. Raggiunto il grado di tenente-colonnello, chiese, nel 1873, di essere traslocato da Bologna a Palermo.

190 CAPO TERZO

Il Ministero rifiutò. Morana si dimise. Nel 1875, eletto deputato, entrò nella vita parlamentare.

Paragonando la carriera politica di Morana con quella di Laporta, è impossibile evitare una lunga serie di noiose considerazioni. Naturalmente io non me ne farò imporre per annoiare e addolorare gli afflitti lettori. Notino soltanto i miei egregi compratori che Laporta, coi suoi settantanni suonati e con ventisette inverni di parlamentarismo, non ha potuto essere ministro né segretario generale. Morana, all'opposto, venuto alla Camera appena nel 1875, era già, tre anni appresso, segretario generale dell'interno. In qual modo spiegare senza commenti, un sì diverso trattamento da parte di madame la Destinee? Se non è falso che la prudenza sia la prima condizione per progredire nel campo politico, Laporta, così cauto e guardingo per circa quattro lustri, avrebbe dovuto, da un pezzo, diventare Presidente del Consiglio, e Morana, impetuoso e senza riguardi per tout le monde, avrebbe dovuto rimanere semplice deputato. Invece è successo quello che tutti sanno, ma che prudentia non docebat. Morana rivelò il suo temperamento bellicoso appena entrato nella Camera. Discutevansi, nel 1875, i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza per la Sicilia, e Morana si cacciò a capo fitto nella burrascosa tenzone. Non ne fu capovolto. All'opposto rimase a galla. Dopo il Taiani, e insieme al Cesarò, egli fu l'oratore della Sinistra che maggiormente dette la bile alla vecchia Destra. Morana parlò con asprezza e vigoria. Accusò di paura un generale!

191 COLORI E VALORI

L'anno seguente, il 1876, a Morana fu affidato dalla Sinistra e dai toscani dissidenti l'incarico di presentare un'interrogazione sul modo di riscossione della tassa sul macinato. Su quell'interrogazione, mutata poi in interpellanza, si doveva provocare la crisi di gabinetto. Morana parlò bene. Minghetti cadde, ma all'impiedi. La Sinistra salì al potere, ma non per la scala, sibbene con una scalata.

Morana aveva legato il suo nome al più grande avvenimento parlamentare verificatosi dal 1860 sino a quell'epoca. La sua vanità ne rimase lusingata — et pour cause. — La sua ambizione ne restò stuzzicata. Credeva certamente di dover essere invitato anch'esso a gustare i dolori del Governo. Aspettò invano. Se ne vendicò, atteggiandosi a frondeur. Sui banchi della maggioranza si sentiva spostato. Nato per la lotta e per l'azione, il suo posto era nel!1 Opposizione o nel Governo. Depretis ciò comprese, e, nel suo terzo gabinetto, nominò Morana a segretario generale dell'interno. In quest'ufficio il Morana mostrò senno pratico e polso fermo. Uscì dal Ministero nel luglio 1879.

Nel 1880, quando Zanardelli, Crispi e Nicotera fecero la Marchia contro Depretis e Cairoli, Morana, per la prima volta, si scostò da Crispi. Nel 1884 ritornò ad essere segretario generale del Depretis, conservando tale carica fino all'aprile 1887. Fu troppo partigiano, e, vuolsi, anche personale. Come il Lovito nelle elezioni generali dell'82, così il Morana in quelle dell'86, con lo zelo depretìsino quand-mème, fece più male che bene al Depretis.

Una fase importante nella vita parlamentare dell'onorevole Morana è quella svoltasi nel 1881, dopo le dimissioni del Gabinetto Cairoli pei fatti di Tunisi.

192 CAPO TERZO

Sella fu allora incaricato di comporre il nuovo Ministero. Ebbe un'idea possibilmente pratica e passabilmente buona: formare la novella amministrazione con elementi di Centro, di Sinistra destreggiante e di Destra sinistreggiante. Intendeva chiamare al Governo non i capi di partito, ma i semplici luogotenenti, Nel numero dei felici mortali trovavansi appunto Laporta e Morana. Il Morana accettò con premura l'idea selliana di formare un partito imparziale e un'amministrazione à l’arc-en-ciel. Le fece buon viso per amor di novità. Laporta, a sua volta, vi aderì, con lo stesso empressement, per smania di portafogli. All'ultima ora la combinazione andò in fumo non altrimenti che quelle dei giuocatori al regio lotto. Morana e Laporta non poterono salire in Sella. Tutti e tre si accorsero che comandavano altrettanti eserciti, la cui forza effettiva stava solamente sui quadri a somiglianza de la grande armée del Padiscià. Si lasciarono maledicendo al momento in cui si erano incontrati.

Dopo questo infelice tentativo di scuotere il giogo dei duci storici della Sinistra, Laporta e Morana rientrarono silenziosamente nelle file della medesima. Votarono, insieme, tutte le riforme; ma Morana mostrò sempre maggiore indipendenza di carattere e più rudezza di modi. Entrambi lavorarono negli uffici e nelle commissioni, e furono relatori di leggi importanti. Così il Morana fu zelatore della legge per l'abolizione del corso forzoso. Grande è la loro competenza nelle questioni di finanza e in quelle militari. Però l'ingegno di Morana è più versatile, pronto ed acuto.

193 COLORI E VALORI

Lavoratori non solo, ma anche parlatori valenti, gli onorevoli Laporta e Morana vengono ascoltati con attenzione. Più esperto e felice è il Laporta, quando fa un discorso; ma più incisivo, vigoroso e vivace è il Morana nelle risposte o nelle repliche. Interrotto, risponde bene e con efficacia. Ciò che manca ad entrambi è la coltura letteraria.

L'on. La Porta, rimasto sempre alla medesima dei ministeri (ma non dei ministri), senza averla mai potuto varcare, morirà, forse, senza aver provato la dolce voluttà di portare un portafogli sotto il braccio. Morana, invece, ad onta della presente ecclissi parziale, è destinato a governare l'Italia — a meno che non voglia andarsene in qualche repubblica Argentina. Crispi, per liberarsene, sarebbe disposto a dargli un posto in diplomazia. Però Morana, anche quando accettasse, non resterebbe nel nuovo ufficio che il tempo necessario per far conoscenza con la Noia (diversa dalla famiglia del duca ed ex-prosindaco di Napoli), e presto si dimetterebbe per tornare alle lotte della politica.

Morana sa suscitare odii ed amori. Ha esuberanza d'ingegno e di affetti. Non ostante l'apparente rudezza della sua condotta politica, egli ha ottimo cuore, e ne diede prova in occasione della morte di Depretis. Vincenzo Riccio ha scritto, a tale proposito, parole cosi belle ch'io voglio riportarle:Di Morana si può ricordare, a titolo di lode, il culto ch'egli ebbe per Depretis, e la venerazione quasi religiosa con cui egli curò la salma, e dispose i funerali del povero e calunniato ministro.

194 CAPO TERZO

Fu spettacolo nobile e bello quello di Morana, il quale, essendo stato coadiutore di Depretis per varii anni, messo poi fuori del Governo per un rivolgimento parlamentare, rimase affezionato al ministro e gli stette vicino, e poi ne curò la salma venerata come figlio e padre. Spettacolo questo che appare anche più lodevole quando si consideri che nella Camera italiana vi furono esempi numerosissimi quasi generali d'indifferenza e d'ingratitudine verso la memoria di Agostino Depretis!»

Mi auguro che i lettori non vorranno pigliarmi per un clown, ma, pur non essendo sicuro di tanta benignità dì opinione a mio riguardo, io sono costretto di fare un salto, non mortale, e dalla Sicilia gittarmi in Sardegna. Il motivo di sì gran rischio è il desiderio di presentare all'onorevole pubblico e all'inclita guarnigione Fon. Francesco Salari. Veramente qualche maligno potrebbe osservare che le jeu ne voilait pas la chandelle. Infatti noi ci troviamo di fronte ad un uomo che, fisicamente, non ha niente d'imponente.

Difetto imperdonabile in un governo a popolo! Salaris è di apparenza meschina. E di statura bassa, snello, agile, svelto. La sveltezza e l'agilità, appunto, lo mantengono sempre giovanilmente irrequieto. Piglia subito cappello. Conserva gli antichi amori e le viete avversioni di partito. Non ha perduto il primitivo entusiasmo. Nato nel 1825, egli è uno dei vecchi giovani della nostra Camera.

Salaris è di famiglia nobile. È un avvocato di gran nome, ma è anzitutto patriota. A tempo e a luogo ha saputo fare il suo dovere di soldato. Nel 1848 andò volontariamente ad iscriversi nell'esercito sardo, e combattette con gran valore. Si distinse particolarmente nella infausta giornata di Santa Lucia. Fu promosso sottotenente e destinato al reggimento Cacciatori guardie.

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Non so se prendesse parte alla campagna del 1849. Certo è che nel 1854 si dimise da uffiziale.

Uscito dall'esercito, ideò di entrare nella vita politica. Ma volle prepararsi al pericoloso debutto. Fece il suo corso di preparazione nelle amministrazioni locali — le quali sono il corpus vile degli esordienti. A Cagliari venne nominato consigliere del Comune e della Provincia. Più tardi entrò nella Deputazione provinciale e nella Giunta che ha la stessa noiosa desinenza.

Dopo sì coscienziosa preparazione, di cui poteva pure fare a meno, Salaris dette la scalata alla Camera dei deputati nel 1861, e andò a sedere a sinistrasi dichiarò subito monarchico-costituzionale ed ebbe la melanconia di rimanere sempre religiosamente fedele al credo non religioso. Liberale nella vera intelligenza della parola, l'on. Salaris, restando unitario, non fu mai accentratore. Isolano sincero, egli propugnò con non imitabile costanza, la necessità di un ragionevole discentramento. Un po' dottrinario, sebbene non dotto, si oppose, fin dalle prime primavere della sua vita parlamentare, a qualsiasi misura eccezionale nell'interesse dell'ordine pubblico, né volle ammettere che, in certi casi, il rispetto della regola comune dovesse essere sostituito dal rispetto di una prescrizione legislativa straordinaria.

L'on. Salaris, godendo la stima dei suoi colleghi, è stato frequentemente chiamato a far parte di giunte e commissioni, e parecchie volte onorato dell'onere di relatore.

Essendosi conservato ligio non solo alle idee, ma ancora ai leaders della Sinistra, egli non dovè vedere di buon occhio la polka ballata dall'on. Depretis con l'on. Minghetti al suono dell'orchestra centralista.

196 CAPO TERZO

Io non conosco quali siano stati i consigli intimi dati dal Salaris al suo vecchio amico di Stradella sulla convenienza di continuare il ballo. So soltanto che nel giugno 1886, allorché, in una riunione della maggioranza, qualche anima casta e pia propose, cioè gittò sul tappeto (ammesso che un tappeto vi fosse) la cristiana idea di fare un posticino più largo nel Governo agli uomini di Destra, il Salaris si alzò furente, e, battendo i pugni sul tavolo (poiché un tavolo vi era), si mostrò inorridito al pensiero di ulteriori concessioni a gente siffatta. E chiaro che l'on. Salaris è ammalato anche lui, sebbene in proporzioni minori, del ciandalismo dell'on. Crispi.

Ad onta del ciandalico morbo, l'on. Salaris non cessa di essere un tipo simpatico. Nel Parlamento egli ha portato la franchezza del soldato e la sincerità dei galantuomo. Di cuore ardente e generoso, di animo onesto, di maniere espansive, Salaris è nemico dei sottintesi. È il Cavalletto della Sinistra.

Trovandoci in Sardegna, non possiamo uscirne senza aver prima parlato dell'on. Nicola Ferracciù. L'onorevole sullodato, senza essere un uomo illustre, è una illustrazione della Deputazione sarda. Nacque a Ca langiano nel 1819, sicché ha la stessa età dell'onorevole Crispi, cioè 69 anni.

A differenza dell'on. Salaris, il Ferracciù ha la gravita di un ammiraglio congiunta alla pesantezza di un giureconsulto. Ferracciù è fuoco coperto da cenere. Salaris è fiamma. L'uno è calore. L'altro è luce.

Ferracciù prese la laurea in legge nel 1836, vale a dire, a diciassette anni. A venti, era già aggregato alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Sassari. A ventotto era nominato professore ordinario di diritto commerciale e di economia politica.

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Era già avvocato di gran nome, (ed anche di gran merito), quando i Joseph Prudhomme di un collegio elettorale insulare ebbero la felice idea d'inviarlo alla Camera. Nella quale idea persistettero sempre, con costanza degna della causa, eccetto che nella XII Legislatura. Passati nel mondo degli inesistenti e degli imponderabili gli onorevoli Lanza, Depretis e Correnti, il Ferracciù, salvo qualsiasi diritto, ragione od azione, per le immancabili rettifiche, è oggi il più antico deputato dello stivale. Egli, quantunque non ne sia il capo, è alla testa dei veterani della Camera italiana.

Alla Camera il Ferracciù andò pescando, e trovò subito, un' occasione non tanto inopportuna per mostrare il patriottismo del suo animo e l'efficacia della sua parola. L'occasione, però, non era egualmente fausta: trattavasi di mandare a picco l'armistizio di Novara. La Camera sedette in ora notturna. La scena era lugubre ed imponente. Sembrava di assistere ad una seduta della Costituente o della Convenzione.

Ferracciù parlò contro le dure condizioni che l'Austria vittoriosa voleva imporci. Egli terminò l'ardente arringa con questa nobile ed imprudente esortazione:Facciara sacramento null'altro patto doversi da noi accettare salvo quello che. bagnato nel sangue, assicuri all'Italia la sua indipendenza, e lasci al nemico memoria eterna di spavento e di terrore. In quest'apostrofe c'è qualcosa di Danton e di Mirabeau.

198 CAPO TERZO

Come il Salaris, il Ferracciù si è mostrato costantemente avverso a qualsiasi specie di provvedimenti eccezionali, Sei 1852 parlò contro il decreto, con cui il Ministero aveva posto la provincia di Sassari in stato di assedio, e pronunziò frasi amare e minacciose. Partigiano convinto dell'assoluta uguaglianza civile e politica di tutti i ceti sociali davanti alla legge, combattette i privilegi del clero. Nel 186t fu appunto relatore del progetto di legge per l’abrogazione dell'esenzione dei chierici dall'obbligo della leva. Difese con sufficiente abilità il progetto, e. rispondendo agli oratori clericali, fu di una durezza meritata, sebbene viziosamente à sensati on.

In Parlamento l'on. Ferracciù si è compiaciuto, con incomprensibile tenacità, a rimanere un assiduo lavoratore. Nelle pubbliche discussioni non ha preso la parola che quando lo imponeva l’interesse della sua cara isola o quello dell'Italia. E stato due volte ministro, una volta occupando il dicastero della marina, la seconda, sedendo sulle cose della giustizia. Questa, però, vuole che si dica che dalla Sinistra e non dalla Destra si affidarono in custodia air on. Ferracciù il Dio Nettuno e la Dea Temi. La nomina a guardasigilli non suscitò clamori. Si trattava di un avvocato. Invece la nomina a ministro della marineria mise il mare in tempesta. Che c' entrava il Codice civile con le torpedini? e qual relazione vi poteva essere, per avventura, tra i canoni del diritto e i cannoni da cento?

Ferracciù, è vero, si era, per lo innanzi, occupato spesso con diletto delle quistioni militari e marinaresche. Tuttavia, questo dilettantismo guerresco di un avvocato non bastava per tappar la bocca agli ammiragli di terra e di mare.

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Saint-Bon, questo Topete italiano nato per sbaglio al di qua dei Pirenei, sebbene al di là delle Alpi, si divertì a tagliare i panni addosso al neoministro. Ferracciù lasciò dire, e, per meglio corazzarsi avverso gli strali delle male lingue, chiamò come coadiutore, nel suo gabinetto, un suo figliuolo, tenente di vascello. Contro il parere dei tecnici io non mi azzardo a dare un giudizio sull’amministrazione marinaresca dell'egregio sardo. I nostri pronipoti, i quali certamente ne comprenderanno mena di noi, daranno il loro non rispettabile ma rispettato responso.

Integro, severo e di modi non soverchiamente gentili, Ferracciù potrebbe personificare la giustizia meno che nel sesso. Non si deve, ad onta di questa lode, tacere che sfoggia la sua integrità con esuberante posa e sovrabbondante aplomb. Allorché era presidente della Giunta per la verifica delle elezioni, i testimoni dopo poche domande, si spaventavano di quel Minosse7 e non sapevano più nascondere quella parte di vero che al loro deputato importava — nel solo interesse pubblico — che non fosse rivelata.

Come cittadino, il Ferracciù non è rimasto indietro a nessuno. Non ha militato sui campi di battaglia; ma, se non ha fatto nulla per meritare, a somiglianza del Salaris, una medaglia al valore militare, ha fatto molto per meritarne (quantunque non l'abbia avuta) una al valor civile. Nel 1855 Sua Maestà il Colera onorava di una sua visita la città di Sassari, e il Ferracciù, dimenticando i doveri di ospitalità, affrettossi a consigliare e mettere in esecuzione tutti i provvedimenti necessarii a gittare nel Tirreno la Maestà sovra biasimata.

200 CAPO TERZO

Passato il pericolo, il Governo si degnò di offrire al bravo cittadino la decorazione dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Caso nuovo e mirabile! il Ferracciù rifiutò l'onorificenza, e rispose a Sua Eccellenza che non poteva accettare un onore che gli avrebbe rammentato continuamente le sventure del paese. L'esempio di Ferracciù ha dato i suoi frutti. Infatti, nel 1884, dopo la cacciata del Colera da Napoli, le croci di cavaliere si riversarono sulla nostra città a guisa di diluvio universale, e non fuvvi una coppia di Catoni che le rifiutasse; sicché oggi il battaglione dei cavalieri del Colera fa concorrenza alla compagnia dei cavalieri dello zucchero.

Ferracciù, se non è stato nell'esercito, ha fatto parte della guardia nazionale. Col grado di maggiore, nel 1861, fu mandato ad Orvieto. Vi si distinse per solerzia e intelligenza Il Ministero, che lo aspettava al varco e che voleva, ad ogni costo, crucifiggerlo, gli mandò l'onorificenza ricusata nel 1855, Questa volta, Ferracciù alzò gli occhi al cielo, e fece la volontà del ministro.

L'on. Ferracciù ha un solo torto, e con lui lo dividono gli altri rappresentanti della Sardegna. Essi non hanno saputo far sì che la loro isola cessasse di essere la Cenerentola d'Italia.

Augurandomi che i lettori vorranno continuare ad annoiarsi senza protestare, io amo invitarli ad assistere questi tre moribondi: Giolitti, Branca e Seismit-Doda.

È questa una trinità discordante, abbastanza notevole nel gruppo, o meglio, nel numero dei finanzieri della Camera.

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Il più giovane fra i tre è il Giolitti. Branca ha sessantanni. Sessantacinque ne ha Seismit-Doda. Il primo è piemontese: il secondo, della Basilicata: il terzo, di Ragusi. quantunque naturalizzato nel Veneto. Sono tre ambiziosi: ma l'ambizione di Seismit-Doda è tetra, fosca, sdegnosa; quella di Giolitti è fredda, simulata, cauta: quella di Branca è gaia, espansiva, impaziente. Doda desidera di ritornar ministro; però gli ripugna di dirlo apertamente. Giolitti vuole diventarlo, ma sa che, per riuscirvi, è necessario far lo gnorri. Branca brama di abbrancare un portafogli, e lo dice o fa capire con tedesca franchezza. Niuno dei tre vorrebbe essere presidente del Consiglio o ministro di un dicastero qualunque. La loro ambizione è limitata al portafogli delle finanze. Hanno un'immensa fede nella pròpria capacità, e compatiscono i contemporanei che non li comprendono con prontezza telegrafica,

Seismit-Doda. prima di diventare un uomo politico, è stato un patriota. Fu compagno di Leone Fortis all'Università di Padova, dove studiò legge. Studente ancora, ebbe l'idea di fare una commedia. La scrisse e l’intitolò: Le due dame di Francia. Non so se fu mai rappresentata. Dopo la commedia, venne il dramma. Perché, avendo il Doda cospirato contro la materna Austria, soffrì il carcere. Soldato nel 4S. militò nelle schiere del generale Durando, e combattette a Vicenza. A Firenze, diresse il giornale l'Alba. Poi. passò a Roma per combattervi contro i francesi. Caduta Roma, il Doda usci dall'Italia e prese la via della Grecia. In seguito ritornò nella penisola, e si stabilì a Torino. Avendo avuto l'onore di esser compreso nella lista dei quaranta cittadini esclusi dall'amnistia, non pensò più a rivedere il Veneto.

202 CAPO TERZO

A Torino fece il pubblicista, e scrisse qualche libro, come i Volontari Italiani e i Romanzi dell'Esilio — che invano ho domandato a quasi tutti i librai della penisola. Divenuto direttore della Riunione Adriatica di Sicurtà continuò sempre nel detto ufficio. Entrato nella Camera fin dalla IX Legislatura, vi fu costante seguace delle idee di Sinistra. Nel 1876 il Depretis, formando il suo primo Gabinetto, offrì al Doda (che accettò) il segretariato generale delle finanze. Doda non fece cattiva prova. La promozione non si lasciò desiderare. Quando, nel 1878, il Cairoli prese le redini del Governo, il Doda ebbe il portafogli del pubblico erario. Non fu profeta nel fare i conti. Fece un calcolo erroneo. Sulla base di un insussistente avanzo di sessanta milioni, dichiarò attuabile l'abolizione della tassa sul macinato. Scopertosi l’errore, si gridò la croce addosso al povero ministro. Lo spirito di partito e la gelosia dei candidati alla possidenza del palazzo delle finanze fecero scempio dell’inesatto contabile. Doda fu proclamato finanziere roseo, ottimista, réveur. Oggi, a guardare freddamente le cose, si prova un senso di disgusto. Doda sbagliò per una sessantina di milioni? E sia pure! Ma quale dei nostri ministri delle finanze fu esatto nelle sue previsioni? Minghetti, Sella e Bastogi sbagliarono, nei loro calcoli, per cifre ancor più grosse. Eppure non furono dichiarati ottimisti o incapaci. Invece Doda fu messo all’Indice. L'ingiustizia è patente quanto il chiaro di luna. Seismit-Doda è uomo che vale e che sa Parte sua. Quello stesso individuo, che nel 1878 fu giudicato finanziere allegro, nel 1876 aveva tenuto l'ufficio di segretario generale delle finanze senza farsi definire sognatore.

203 COLORI E VALORI

Certo — a parlare col 95 °0 di franchezza — il Doda non è un finanziere come un altro. V'è, in lui, qualche centigramma di réve. Ma il sogno è dello statista, non del finanziere. Doda non sa separare il bilancio della Nazione dal bilancio dello Stato. Vuole che l'avanzo pel Governo non equivalga al disavanzo pel Popolo. Ecco la sua utopia — la sua nobile utopia.

Branca non è stato cospiratore. Che bel tipo di cospiratore sarebbe riuscito con quella smania di dir male di tutti! Un tempo la sua arme era la penna; oggi, è la lingua. Cominciò la sua vita politica, facendo il pubblicista. Non v'è giornale di Napoli, defunto o vivente, in cui il Branca non abbia collaborato. L'unico libro da lui scritto ha per titolo: «Le crédit et la banque internationale.»

Branca, credendosi predestinato al portafogli delle finanze, ha combattuto, da che è entrato nella Camera (1870), tutti gli sventurati mortali che si son trovati alla testa di quel dicastero. Specialmente il Magliani è stato esposto alle frecciate dell'on. rappresentante di Potenza. Branca, con i suoi discorsi, produce sui nervi di Magliani lo stesso effetto che le parole di Toscanelli producono sui nervi di Crispi.

Di ricchissima famiglia, Branca ha preparata e coltivata la sua ambizione. Ha studiato. Quel grande estimatore d'ingegni ch'era il barone Giacomo Savarese aveva del Branca una opinione passabilmente lusinghiera; e a chi lo interrogava sul conto del giovine signore rispondeva: «Ascanio è un giovane che vale. Se studia, farà ottima riuscita.»

204 CAPO TERZO

Due volte segretario generale del Ministero di agricoltura e commercio (marzo 1876 e dicembre 1878), Branca non fece cattiva figura. Però la sua ambizione si acuì. Aspirò a cose più alte, cioè al portafogli delle finanze. Non essendo il Branca un capopartito, io non sarei obbligato di riferirne il programma politico. Tuttavia, come cronaca inutile, voglio darne un consommé con la data dei 12 maggio 1886. Si era allora nel periodo e nel pericolo delle elezioni generali, e l'on. Branca si dichiarò fautore di questo ben di Dio qui appresso inventariato: freni alle spese e ai nuovi aggravi; acceleramento delle opere pubbliche; tutela della produzione nazionale; riforma comunale e provinciale; sistemazione e pluralità delle banche; aiuto alle classi lavoratrici; pace con la Chiesa. La quale pace, secondo il modesto avviso di chi scrive, è per lo meno tanto impossibile quanto quella dell’on. Branca con l'on. Magliani.

Dopo il cospiratore e il giornalista, eccoci al finanziere burocratico. Giolitti entrò nella Camera senza precedenti politici. Si era addestrato nelle quistioni finanziarie stando alla Corte dei conti, dalla quale passò nel Consiglio di Stato. Nel 1882 fu eletto deputato. In pochi anni seppe acquistarsi una posizione parlamentare horsligne. È un valore indiscutibile. Gode siffattamente la stima dei colleghi che nessuno di costoro si meraviglierebbe, se gli si vedesse affidato il Ministero delle finanze.

La rapida fortuna di Giolitti fu motivata dalla situazione parlamentare in cui il neodeputato trovò l'on. Magliani. Contro di costui serpeggiava un malcontento, se non universale, certamente generale.

205 COLORI E VALORI

Valenti oppositori e critici, più volte, si erano levati con fierezza e baldanza contro l'evocatore dell'oro di un'ora; ma nessuno aveva potuto convincere del torto Fon. successore di Grimaldi. Magliani, che, oltre ad essere un economista, è pure un conoscitore profondo della routine di contabilità e di altre sfumature tecniche, trovava sempre una risposta, la quale, mentre salvava le sue capre, faceva restare gli aggressori come i sottintesi. Pareva magìa la sua. Era semplicemente maestria. Ecco perché, non ostante la violenza e il valore dei critici, Magliani era rimasto intatto, benché non intangibile. Giolitti ruppe l'incanto. Egli veniva, come Magliani, dall'alta burocrazia. Sapeva la routine come il ministro, e la contabilità meglio di lui. Si conosce 1 vano. Incontrandosi nei corridoi della Camera, potevano sorridere a somiglianza degli auguri romani. Magliani non poteva mettere nel sacco un avversario di simil genere. Quei ripieghi, quei sotterfugi, quel tecnicismo di forme e di formole, che tanto gli avevano giovato contro i precedenti avversari, non gli giovavano più contro il Giolitti. Con Giolitti non fu più possibile dissimulare e simulare. Il disavanzo fu confessato. L'Opposizione, naturalmente, trasse profitto della competenza speciale di Giolitti, e lo levò sugli scudi. E non è, forse, temerario l'affermare che, se nell'aprile 1887 la Pentarchia fosse venuta al potere, al Magliani sarebbe stato sostituito il Giolitti.

Come la contabilità è la competenza speciale di Giolitti, così il movimento bancario è il cavai di battaglia, il clou del Doda. Branca non ha competenza particolare in nessuna omonima delle finanze.

206 CAPO TERZO

Quanto allo scilinguagnolo, tutti e tre possono chiamarsi contenti. Ragionatori instancabili, non si curano di rasentare la lirica o il melodramma — sebbene non manchino di cultura letteraria. Senonché Doda è troppo freddo. Sono senza cerimonie o reticenze; ma Giolitti conserva fedelmente un linguaggio parlamentare, mentre Branca diviene, spesso, patologicamente mordace, e Doda cade, talvolta, in apostrofi brutali. Così, un giorno, replicando ad una risposta di Depretis riflettente la quistione del macinato, disse:Qui si potrebbe ripetere la famosa domanda di Molière: «Qui trompe-t-on ici? Havvi forse qualcuno che si vuole ingannare?»

Branca, nei suoi discorsi, è personale come il Bonghi, e mordace quanto TArcoleo. Sotto questo riguardo può ben chiamarsi un Arcoleo lucano — ma un Arcoleo che ride. Arcoleo — lo sanno ormai tutti i portieri — dice la buffoneria, e rimane serio. Pare che, tagliando i panni addosso alla gente, egli abbia la profonda coscienza di compiere una sacra missione. Branca, invece, dice male del prossimo, e ne ride.

Venuto su per necessità politica più che per volontà propria, il Giolitti non ha impazienze. Egli vuole essere un arrivé,, non un parvenu. In Doda e in Branca l'ambizione è una qualità primitiva, coeva alla loro entrata nella Camera. In Giolitti essa è acquisita.

In conchiusione, Branca, Seismit-Doda e Giolitti sono tre valori. Il primo è un po' sciupato dall'eccessivo desiderio suo; il secondo è abbastanza diminuito dal pregiudizio altrui; il terzo solamente è integro.

Un altro onorevole salito molto in alto per causa di situazione parlamentare, cioè per l'odio della Sinistra contro la Destra, è Diego Taiani. Nel 1876 così ne scriveva il Fortis:

207 COLORI E VALORI

E un attore giovine che recita all'antica — come i tiranni delle vecchie compagnie, come il Simonazza di Paolo Ferrari — battendo il sostantivo col relativo colpo di piede — ma sa Parte di fare l'effetto, e di carpire Sorbetto (il pubblico) quel tale panetto (applauso carpito con un artifizio del mestiere) di cui è tanto ghiotto. Taiani è un uomo ben nutrito, ben pasciuto, dal volto pienotto, dalle guance colorite e paffute, dall'aspetto sano e vigoroso (1). Ha la bile gialla e rossastra dei temperamenti sanguigni, non quella fredda e verdognola dei temperamenti itterici. È rimasto sempre Procuratore del Re e non sa fare che requisitorie (2). Ha l'ingegno pronto — la parola disadorna, ma calda — il gesto goffo e convenzionale, ma energico — gesto di pubblico accusatore — la intonazione provocante dell'attacco — la insistenza tenace dell'astio — la passione ardente della lotta. Se lotta v'è, vi si caccia dentro a capo fitto — se non c'è, tanto fa che gli riesce di crearla.

Meno quell'insieme di kellerina tedesca maturata al sole meridionale, e meno il desìo di lotta, il ritratto, che il Fortis faceva del nostro eroe nel 1876, è esatto. Amante della lotta Taiani non è. Per entrarvi bisogna proprio tirarvelo pei capelli.

Taiani è del Salernitano. Nacque nel 1828. Nel 1857, Arcoleo, dal quale l'ho intesa. Veggo però che la paternità spetta al Fortis, a ventinove anni, difese i superstiti dello sbarco di Sapri. Egli era già un attendibile.

(1) Secondo il Fortis l'on. Taiani sarebbe, adunque, una balia svizzera fresca e rosea.

(2) Io credeva che quest'ultima fosse una frase dell'onorevole

208 CAPO TERZO

La polizia, saputo a qual genere appartenessero i nuovi clienti del Taiani, minacciò costui di non farlo più attendere. Taiani non tenne conto delle minacce, e preparò la difesa dei ribelli. Non pronunziò un'arringa memorabile come quelle che in Francia, sotto il regno orleanista e poi sotto il secondo impero, avevano pronunziato o dovevano pronunziare, anche in cause politiche, Cremieux, Michel (de Bourges), LedruRollin, Ferdinand Barot, Jules Favre, Gambetta. Però fu accorto, solerte, diligente. Sopratutto fece atto di coraggio civile. Dopo la difesa, egli, infatti, dovè andare in esilio per evitare la galera.

A Torino il Taiani trovò quelle simpatie affettuose che già vi avevano incontrato Mancini, Scialoia, Pisanelli, Bonghi e tanti altri. Fuggire da Napoli prima del 1860 non era un esilio. Nella città delle Sirene non si provava che l'odio: l'odio dei Borboni. A Torino si cominciava ad amare: si amava l'Italia.

Essendo avvocato, il Taiani trovò subito clienti. Nè si limitò all'esercizio della professione. Volle ancora rivelarsi come giurista. Mancini, Scialoia e Pisanelli si erano illustrati pubblicando il commento al Codice di procedura civile sardo — che poi è stato ruinato dal Galdi. La loro gloria solleticò l'amor proprio di Taiani. Questi desiderò di emularli, e scrisse un commentario al Codice penale. Ebbe lodi ma non fama.

Scoppiata la guerra del 1859, si arruolò fra i volontari. Pare, tuttavia, che non avesse occasione di scendere in campo, perché fu nominato viceuditore generale di guerra. Entrato Garibaldi in Napoli, Taiani vi ottenne il posto di prefetto di polizia. Vi stette poco. Si dimise, per dissensi di causa ignota, col Cialdini. Poi, entrò in magistratura.

209 COLORI E VALORI

Era pervenuto al grado di Procuratore generale, e stava a Palermo, quando impegnossi viva la lotta fra lui e la Mafia. È inutile ripetere qui i particolari della lotta. E storia vecchia, che, ormai, conoscono financo gli elettori dell'art. 100. Taiani, contrariato da tutte le altre autorità, si dimostrò uomo di coraggio e galantuomo. Quando vide ch'era vano combattere col più forte, gittò via la toga, preferendo ritornare l'avvocato Taiani tout court. Il Ministero gli offrì il posto di consigliere alla Cassazione di Napoli. Ebbe un secco rifiuto. Ciò avveniva nel 1871. Nel 1874 gli elettori di Amalfi mandavano l'ex-magistrato alla Camera.

Nel 1875, discutendosi i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza per la Sicilia, le animosità fra Destra e Sinistra raggiunsero il non plus ultra della stizza canina. Un malumore non indifferente serpeggiava per le Provincie meridionali. A Napoli, i nomi di Spaventa, di Cantelli e di Minghetti si ripetevano con un'espressione feroce di odio settario. Gli ufficiali della guardia nazionale parevano tanti cospiratori, e dicevano corna del Governo. Gl'incidenti, che, durante la discussione della legge, avvenivano alla Camera, erano, nella piazza, vivamente commentati. Quando Spaventa chiamò sciocco il Laporta, a Napoli era generale il desiderio che ne succedesse un duello, e che il filosofo hegeliano ricevesse una buona sciabolata. Si esagerava ogni piccolo incidente. Si raccontava con infinito compiacimento, che il Nicotera, adirato del contegno provocatore di Spaventa, avesse fatto atto di prendere un calamaio per gittarlo in volto al ministro, e che, a stento, fosse stato trattenuto dagli amici. La contentezza per la pia intenzione del Nicotera superava i limiti del credibile.

210 CAPO TERZO

Mentre gli animi erano così agitati, prese la parola l'on. Taiani. Cominciò, l'undici giugno, con la definizione della mafia. Disse che la mafia era una riunione di oziosi, i quali intendevano vivere col delitto; che, sotto diverso nome, essa aveva avuto esistenza pure in altri paesi, dove era stata, alfine, domata; che, in Sicilia, per virtù, cioè per vizio, dell'ambiente, la vita non le era mancata. Passando a studiare le cause della graziosa e benemerita associazione, enumerò: 1° le ricche corporazioni religiose dell'isola, le quali possedevano quasi il terzo di tutta la proprietà fondiaria, e distribuivano, ogni giorno, gratis, la zuppa agli oziosi; 2° la Bolla pontificia di composizione, con cui s'imponeva ai confessori di transigere sui delitti mediante un certo compenso — una tariffa stabilita: ora, questa composizione appunto, il delinquente la faceva con la vittima, che non schiacciava, purché ne ricevesse un compenso proporzionato alle ricchezze. Continuò narrando i soprusi della polizia borbonica. Indi prese a sturare la bottiglia delle delizie poliziesche del nuovo Governo. E qui ricordò o rivelò cose da lui viste, e di cui teneva i documenti. Figurarsi! La Sinistra cominciò a farneticare per la gioia. Si agitava, gridava, applaudiva — mancò poco non scendesse nella sala per danzare un cancan. Sembrava una tribù di Danaìdli ubbriacati dall'acquavite di un civile europeo. La Destra, invece, fremeva di odio e d'indignazione. Lanza, sotto il Governo, del quale si sarebbero verificati i maggiori abusi, protestò con insolita vivacità. Giammai si era visto Lanza tanto agitato.

211 COLORI E VALORI

Egli parlò come un onest'uomo ferito non nell'onore (che rimaneva fuori disputa), ma nel decoro. Conchiuse che la Camera nominasse una Commissione di nove membri col mandato di verificare i fatti denunziati, e di proporre, occorrendo, di procedere contro gli autori. A questa proposta la Camera non fece buon viso. Il giorno dodici, l'on. Taiani seguitò nella lieta storia dei soprusi polizieschi. Il ministro Vigliani rispose con eloquenza concitata, e si fece applaudire dalla Destra. Taiani replicò. La conchiusione fu che i provvedimenti eccezionali vennero approvati ma non applicati.

L'impressione dei discorsi di Taiani fu immensa. I fatti rivelati dall'ex-procuratore generale sbalordirono. La Destra ne fu macinata prima ancora della interpellanza Morana del marzo 1876. Taiani divenne, di un tratto, un pezzo grosso. A Napoli l'entusiasmo pel fiero accusatore superò i confini della decenza e anche quelli dell'indecenza. Si dimenticava che le vergogne della Destra, se vere, erano vergogne italiane. Alla Camera i deputati di sinistra si sentivano presi da una voglia matta di baciare e di abbracciare il Taiani. Fingevano di credere che gli avversari intendessero toglier di mezzo il gran censore, o, per lo meno, rapirgli i documenti. Si rammentava il caso di Lobbia. Sorrentino gridava di voler rimanere in sentinella alla casa del deputato di Amalfi.

Dal punto di vista oratorio, l'impressione fu del pari favorevolissima. Ferrari disse che, udendo il Taiani, gli era sembrato di stare in un'assemblea francese dei tempi d'oro. Petruccelli scrisse:

212 CAPO TERZO

«Taiani si rivelò come Moisé sul Sinai — un uomo affusolata di un nimbo di luce, un Giove olimpico saturato di fulmini. Scattò. Eruppe. Il suo discorso, che occupa due sedute, suscitò tempeste come se Eolo avesse scatenato tutti i venti... La Camera, fascinata dalla potente parola, non mai udita sinallora con quella veemenza, e raggiante di eloquenza e di profumi poetici, passava dal silenzio profondo ed attento ad esplosioni di plauso come il popolo di Atene era uso farne a Demostene e il popolo romano a Cicerone; e si sentì fiera di possedere oratori di quella potenza e caratteri di quella tempra.»

E evidente che nei giudizi sovra riportati abbonda la retorica. Io ho voluto leggere e rileggere quei discorsi. Ho provato una disillusione. Taiani pare esitante. Non ha una parola, non uno slancio di lirismo. Un altro oratore, con tutto quell'arsenale di fatti a sua disposizione, avrebbe creato un capolavoro di eloquenza; e forse la tribuna italiana vanterebbe, oggi un discorso come quelli pronunziati da Sheridan contro Warren Hastings. Taiani poteva fare un discorso da sfidare i secoli. Invece, ne fece uno che a stento sfidò una Legislatura.

In generale, l'on. Taiani, come oratore, non può pigliarsi a modello. Mancano a lui l'originalità del pensiero, l'eleganza della forma, l'acutezza delle osservazioni, l'arguzia, i sali attici. Ha, però, lo strale dell'ironia. Nei discorsi di Taiani, non v'è arte, non v'è ricordo di studi letterari. Efficace sufficientemente nell'attacco, l'on. Taiani non è sempre felice nelle repliche. Nel 1875, alle violente risposte di Lanza e di Vigliani oppose una calma troppo cristiana e un linguaggio eccessivamente legale.

213 COLORI E VALORI

Invece, il 15 maggio 1S79, rispondendo al Vare, fu di una eloquenza (cosa Tara in lui) originale e smagliante. Sentiamolo:

» L'on. Vare ha affermato che i guardasigilli del Mezzogiorno hanno la smania di mettersi la mitra e il piviale, e di penetrare in chiesa. Ora mi basta ricordare pochi nomi: il Pisanelli. il Raeli, ecc. e questo minuscolo Taiani. Metteteci in fila. Non vi pare che la tinta comune sia un po' la tinta giannonista? Non vi pare che qualche tinta di libero pensatore ce la potreste anche scorgere? Non importa: siamo vescovi con la mitra e col piviale! E quando voi dite questo? Quando io, ad imitazione di alcuni dei valentuomini che mi hanno preceduto, sono qui per sostenere una legge penale contro i preti. Diteci almeno, on. Varè. che indossando piviale e mitra, sappiamo impugnare il pastorale! Qui torna benissimo a capello ricordare quel panetto di cui il Fortis dice che è tanto ghiotto il Taiani per strappare l'applauso all'orhetto.

Il difetto capitale di Taiani è la monotonia. Gli stessi pensieri sono ripetuti con la medesima forma in più discorsi. Emilio Castelar, sebbene ami ripetersi più fiate, tuttavia lo fa con forma diversa.

Dovrei occuparmi di Taiani avvocato. Ma stimo inutile di farlo. Ne hanno parlato tanti e tanto! Dirò solamente che l'onorevole ed onorato uomo non è ritenuto mica un giureconsulto.

Petruccelli. dopo i discorsi del 1875, profetizzò a Taiani:Aspettatevi di diventare ministro guardasigilli o di essere assassinato.» Contro il solito, la profezia di un pubblicista si verificò. Taiani fu guardasigilli, e per due volte: prima nel Gabinetto Depretis del dicembre 1878; poi, nell'ultimo Ministero formato dall'on. di Stradella.

214

Il Taiani nella prima edizione della sua opera ministeriale, non se ne stette con le mani alla cintola. Diversi progetti vennero da lui presentati, e dalla Camera discussi. I principali, fra di essi, riguardano: l'abolizione delle ferie dei magistrati; un novello ordinamento giudiziario; la precedenza del matrimonio civile sul religioso; la punizione degli abusi dei ministri del clero, ecc. — Più importante ancora fu la sua amministrazione nei rapporti col personale. Abolì il decreto Vigliani riguardante l'inamovibilità dei giudici ratione loci, e cominciò a flagellare i magistrati ritenuti indegni del loro ufficio. Anche questa volta Taiani toccò una corda che vibrava nel cuore di tutti. In certe Provincie la magistratura era caduta in maggior discredito della stessa infallibilità papale. Cesare diceva che sua moglie non solo doveva essere onesta ma non poteva neanche esser sospettata di disonestà. Della magistratura non era permesso dire né l'una cosa né l'altra. Un presidente, fra gli altri, era divenuto famoso pel modo con cui faceva vincere le cause. Bastava rivolgersi, per la difesa, ad un avvocato habitué della casa presidenziale, oppure portare alla signora dell'esimio magistrato qualche regalo. Una volta fu vinta una causa semplicemente perché alla sullodata signora era stato presentato. come cadeau un finimento di brillanti. La parte contraria ricorse in Cassazione, e il suo difensore — un avvocato illustre — esponendo le ragioni che avrebbero dovuto convincere il Magistrato di merito della bontà della causa, aggiunse con maliziosa ingenuità:

215 COLORI E VALORI

Ma, Eccellenza, i nostri argomenti non erano brillanti, e perdemmo» l'allusione era troppo evidente per poter permettere illusione di sorta. Fuvvi uno scandalo. Si parlò di processi, d'inchieste. Poi, tutto finì in silenzio. Taiani, venendo al Ministero, sapeva tutto ciò. Senza riguardi, usò la scopa, e spazzò, in parte almeno, le stalle di Augia. Cadde nel luglio 1879, e la sua opera benefica rimase interrotta.

Taiani ritornò al Ministero nel 1885. Temuto dagli apocrifi sacerdoti di Temi, si annunziò loro con la famosa frase:Riprendo l'ufficio di guardasigilli!» — Vana paura! Taiani riprendeva l'ufficio, ma non la missione sospesa. Nell'intervallo le condizioni di salute della magistratura erano di nuovo divenute critiche. Il Foro ripose le sue speranze in Taiani. Questi le tradì. Non fece nulla d'importante. Invece di parlar poco e di colpir molto, egli fece l'opposto. Gli alti papaveri seguitarono a far pompa di sé. Ferro e fuoco erano necessari. Taiani usò parole e... parole. Mach ado about nothing! Riservò la sua severità per i vice-cancellieri e per le monache. Miserie!

Nel campo legislativo molti furono i semi gittati dall'ex-guardasigilli; pochissimi i frutti da lui raccolti. Il nuovo Codice penale, l'abolizione dei Tribunali di commercio, la Cassazione penale unica porteranno non il nome di Taiani ma quello di Zanardelli. Taiani presentò pure un progetto completo di riforma organica dell'ordinamento giudiziario; progetto che, come i suoi confratelli, non ebbe la fortuna di diventar legge.

Tornerà Taiani al Governo? Bisognerebbe saltare sulle ginocchia dell'on. Giove per saperlo. Certo è che, oggi, l'on. Diego non gode più la popolarità di un tempo.

216 CAPO TERZO

La troppo vantata fibra di acciaio non sembra che un ricordo. L'antica fiamma si è spenta. Quel Taiani, che una volta gittava al vento l'onorata toga, sente ormai il bisogno di riposarsi. Riposi pure.

Taiani non è un uomo di Stato. Gli fa difetto la coltura larga, specialmente nelle materie storiche? economiche e politiche. Non ha genio né ingegno versatile. Egli è, semplicemente, un avvocato consumato, un procuratore generale mancato e un guardasigilli tentato.

L'ultimo dei luogotenenti di Sinistra è l'on. Miceli. Miceli è un Cairoli calabrese: grande animo e grosso ingegno; coraggio eroico e semplicità di fanciullo; fede democratica, in teoria, e incapacità di saper resistere al fascino della monarchia, nella pratica.

Luigi Miceli è della provincia di Cosenza, e propriamente di Longobardi, dove nacque nel 1825. Nel 1848 era già avvocato, e mentre preparavasi a servire lo Stato borbonico come magistrato, preparavasi pure a distruggerlo come cospiratore. Cospirò coi mazziniani. Dopo il 15 maggio egli, che si era molto agitato per far qualche cosa di serio, e, non per colpa sua, aveva visto svanire i suoi progetti, divenne, a Cosenza, segretario del Comitato di insurrezione o di salute pubblica. La resistenza doveva essere aspra, accanita. La mancanza di disciplina e il difetto di buona organizzazione impedirono all'insurrezione di durare a lungo. Miceli e gli amici cercarono salvezza nella fuga. Il Governo li servì in contumacia, e, con un processo monstre, regalò loro severe condanne. Miceli, in qualità di segretario, ebbe soli nove anni di galera.

217 COLORI E VALORI

Da Cosenza il Miceli non credette di poter meglio celarsi se non pigliando terra a Corfù. A Corfù non restò che il tempo necessario a pigliare una determinazione. E la determinazione fu di ritornare in Italia per dare un altro po' di filo a torcere a sua Maestà Ferdinando o a qualcheduno dei cugini coronati. Allora Roma difendevasi strenuamente contro i francesi. Miceli si pose fra i difensori, e toccò una ferita. Da Roma andò a pigliar piede a Genova. Non avendo di che vivere, e pur volendo sopravvivere al Borbone, pensò di mettere a frutto le scarse cognizioni di diritto di cui era fornita la sua mente. Si pose quindi ad insegnar legge. Nel frattempo, non dimenticandosi del supremo diritto dell'Italia, compiacevasi di ficcarsi in mezzo a qualunque conventicola per la causa liberale. Nel 1860 corse ad iscriversi fra i mille. Combattette a Calatafimi e a Palermo. Garibaldi lo nominò auditore del tribunale di guerra. Miceli, nel nuovo ufficio, rivelò grande rettitudine di animo. Per assumere un contegno possibilmente papinianesco, egli avrebbe dovuto cessare dal menar le mani. Invece, continuò a militare nell'esercito combattente, e nella campagna continentale dette novelle prove del suo eroico coraggio. Eletto, nel 1861, deputato al Parlamento, giurò fede alla monarchia forse con qualche restrizione mentale. Nei principii del 1862 fu tra i più attivi partigiani dell'agitazione nazionale per l'acquisto di Roma e Venezia. Egli fece parte della Commissione di democratici mandata a Caprera per indurre Garibaldi a capitanare l'agitazione. Segui poi il generale a Sarnico e ad Aspromonte.

218 CAPO TERZO

Nel 1863, egli, De Boni e Cadolini domandarono di formare un battaglione di volontari per combattere i briganti. Quale ingenuità! Miceli si vendicò del silenzio sprezzante del Ministero tenendo un linguaggio acerbo nella discussione dell'interpellanza d'Ondes Reggio sulla condotta governativa in Sicilia dopo i fatti d'Aspromonte. In seguito al voto di fiducia ottenuto dal Ministero, Miceli fu tra i pochi democratici che, seguendo l'esempio di Bertani, si dimisero da deputati. Però, rieletto, ritornò nella Camera. Certo, la sua condotta poteva avere tutti i pregi immaginabili, ma non quello della logica! Nel 1866, mentre la Camera senza distinzione di partito, votava, con entusiasmo o con rassegnazione, leggi eccezionali per dare più forza al Governo, Miceli si fece assalire da invincibili scrupoli di purìtanismo. Nel giorno in cui votaronsi le proposte ministeriali i puritani furono tre: Damiani, Civinini e Miceli. Per fare più effetto, si divisero le parti. Civinini e Damiani presentarono un ordine del giorno per dichiarare che le leggi ordinarie bastavano. Miceli lo votò. L'abilità parlamentare dei tre, da quel giorno, non fu messa più in questione.

Appena scoppiata la guerra, Miceli andò ad iscriversi fra i volontari garibaldini. Garibaldi lo nominò capo dell'ambulante dicastero della giustizia. Ma la toga (presunta, s'intende) non impedì a Miceli di maneggiare anche la spada. Come maggiore pugnò valorosamente nel Trentino, e fu messo all'ordine del giorno per la parte presa nel combattimento di Bez zecca.

219 COLORI E VALORI

Risparmiato dalle palle austriache, Miceli fece ritorno alla Camera. La Destra lo ebbe sempre tra i suoi più fieri ed implacabili nemici. Con l'azione e con la parola Miceli si credette, costantemente, nel L'obbligo di rompere le scatole a Lanza, Sella, Minghetti e compagni.

Di Miceli non si può dire ciò che il Correrà disse una volta di un avvocato napoletano ch'era contemporaneamente colonnello della guardia nazionale. —che. cioè, discutesse come un colonnello e cavalcasse come un giureconsulto. Però è fuor di dubbio che non ostante la sua doppia qualità di giurista e di militare, l'on. Miceli non è un'alta capacità forense, né una somma intelligenza guerresca. Senza i titoli rivoluzionari egli non si sarebbe mai elevato sino all'altezza di un portafogli ministeriale. Perché l'on. Miceli è stato pure ministro. Essendosi benignato sempre di biasimare, senza tregua, la politica estera della Destra, Miceli si aspettava di ricevere dalla Sinistra l'invito di accettare la successione di Visconti-Venosta. Invece. si pensò altrimenti dal Depretis. Il Cairoli, nel luglio 1879. giudicò conveniente di por fine all'ostracismo dell'amico, al quale offerse il portafogli di agricoltura. Miceli ricusò. Egli voleva quell'altro. Cairoli insistette, e tornò alla carica offrendogli il segretariato generale dei lavori pubblici. Le offerte, come si vede, progredivano in senso inverso. Miceli rispose no. Egli era ormai sicuro di non dover essere più seccato. Ma gli Dei sommi della Sinistra decisero in senso contrario. Nel novembre 1879 Depretis accettò di entrare nel Gabinetto Cairoli. La concordia non poteva non seguire un sì fausto evento. Però eravi ancora una difficoltà.

220 CAPO TERZO

Zanardelli, Nicotera e Crispi, rimasti senza neanche la speranza di un portafogli, non avrebbero avvelenato le gioie della riconciliazione? Non era da dubitarne. Ecco perché, non potendo Cairoli e Depretis chiamare in massa nel Paradiso ministeriale quei tre che aspettavano nel Purgatorio degl'indecisi, pronti a passare nell'Inferno dell'Opposizione, pensarono di far partecipe delle somme gioie del potere l'on. Miceli, amico intimo per lo meno di Nicotera e di Crispi. A Miceli, quindi, si offerse nuovamente il maledetto dicastero di agricoltura e commercio. Sulle cose di questo Ministero egli sedette proprio come un giureconsulto in sella. Io non voglio far la storia di quell'amministrazione. Miceli apparve déplacé e svogliato. Cadde nell'aprile 1881, ricevendo le congratulazioni sue e quelle del Paese.

Miceli oratore sta a un gradino di più nella stima del mondo parlamentare. Però non devesi nascondere che l'egregio uomo ha saputo crearsi un certo nome fra i parlatori non tanto per l'abilità dei discorsi quanto per la fredda violenza delle interruzioni. 11 Riccio le ha raccolte con religione. Egli ha enumerato le seguenti espressioni miceliane: Ministri becchini della Monarchia — Vergognatevi! — Linguaggio indecente — Applausi criminosi! — La bandiera italiana caduta nel fango! — L'egregio scrittore appare quasi sedotto dalla prerogativa di Miceli di dir le insolenze con fare tranquillo e dignitoso. Ora, a parlare non oscuramente, io non so dividere quest'ammirazione. Comprendo e approvo l'interruzione o la replica spiritosa, arguta e brillante; ma, con la stessa schiettezza anglosassone, non posso privare della luce della pubblicità la mia non piccola riprovazione per quelle frasi che, scivolando fra il Galateo sociale e il regolamento parlamentare, mancano di brio e di verve.

221 COLORI E VALORI

Non ostante questa benevola e non autorevole critica, non vorrei che si mettesse menomamente in dubbio la mia grande simpatia per Miceli. Eroe sui campi di battaglia, semplice, buono, modesto, l'illustre patriota calabrese, per la causa liberale e per l'amore alla patria italiana, sacrificò il suo quieto vivere e il suo avvenire. Se avesse continuato nella carriera giudiziaria, a quest'ora occuperebbe un posto elevatissimo. Invece, preferì di arrischiare tutto per quell'ideale del quale si erano, precedentemente, fatti sacerdoti altri componenti della sua famiglia. Xè, come tante altre vittime del Governo borbonico, il Miceli chiese compensi al nuovo Governo. Rimase povero e modesto. L'unica rendita ufficiale, e fors'anco privata, di cui goda il Miceli, è la pensione dei Mille. Se fosse stato smanioso di agi e di ricchezza, avrebbe potuto appagare il suo desiderio senza ledere la propria dignità. Infatti, mentre il Parlamento stava a Firenze, una miss, la quale senza dubbio doveva frequentare la tribuna diplomatica, s'invaghì dell'on. Miceli, e con franchezza antilatina, ne domandò la mano. Io non conosco in qual forma fu inoltrata (gergo semiforense) l'istanza di matrimonio. Se sapessi tali particolari, li pubblicherei senza scrupolo. So unicamente che l'onorevole deputato rifiutò la candidatura al mariage. Che cosa ne divenne della bella (per modo di dire) signorina? Si gittò nell'Arno? Le mie indagini finora non hanno dato alcun risultato approssimativamente affermativo. Le proseguirò pei lettori della seconda edizione.

Il mot de la fin è questo: Miceli non potrebbe essere preso a modello da Samuele Smiles per qualche aggiunta all'argenteo libro: Self-Help. Potrebbe bensì essere compreso fra i protagonisti di quell'altro non cattivo libro smilesiano che s'intitola: Il carattere.

§5 — Lo Stato Maggiore.

Sommario. Grimaldi e Magliani — La gioventù di Grimaldi —L'allieva degli Scolopii — La carriera  di Magliani— Magliani che loda Marena — Il Giovanile candore di Grimaldi — L'inno di Petruccelli — Il giovine Ajossa — L'età dell'oro — La coltura di Magliani e di Grimaldi —John Bught — Le esposizioni finanziarie di Magliani — Il conte Pianciani — Pianciani derubato dai preti — Libri scandalosi — Pianciani che personifica l'Italia — Tastarini-Cresi e Lutero — Lo sdegno dei gesuiti — L'allievo di Casella — Un bacio non perduto — I due migliori discorsi — Marselli che rasenta il regolamento — Vastarini oratore — L'indignazione gutturali dei penalisti napoletani — Vastarini non è umorismi — L'avvocato — La maestra di francese dell'onorevole Tastarmi — il conte Amadei —Il nemico della fillossera — L'on. Angeloni — Damiani e Cooco-Ortu — Il braccio sinistro di Zanardelli — L'alter ego di Crispi — L'affabilità provinciale dell'on. Sorrentino — Il capo degli sjugriuoh'— Il maestro concertatore — L'on. Pasquali — Il procuratore di Brofferio — La disinvoltura di Pasquali — Pasquali è un Utrumenio a corda — Gli occhi vegeti di Cesare — Cuccili e Sprovieri — Sprovieri a Tenezia — Cacchi che entra in Roma — Il banchiere Belinzaghi — Gendarmi burlati! —Lovito e La cava — La mutua gelosia — I cospiratori — Laeava e lo sbarco di Saprì — Lovito che eclissa Lacava — Il disinteresse di Lovito — Un trimmer interno — Amor proprio ed amore proprio — Lazzaro e Comin — L'insegnante cospiratore — Scenografia militare — L'arresto di Lazzaro — Il Roma — La specialità di Lazzaro — Il pubblicista — La fortuna del Roma — Comin signora e Fortis — Il Pungolo — Il giornale ufficioso — Le corrispondenze "della Rattazzi — La gallofobia di Comin — L'egoismo di Lazzaro e di Comin — L'on. Brin —"I viaggi all'estero — Il relatore della legge elettorale — Il creatore delle grandinavi —Il dovere di Brin — L'on. d'Arco 11 coraggio personale — Risposta eroica — Bario — Gerardi — Ellena — Florenzana — Gìovagnoli — Elia — Nanni — Nocito — Panaitoni — Lanzara,

Chi, nel 1879 avesse voluto profetizzare sui rapporti scambievoli di Agostino Magliani (1) e di Bernardino Grimaldi, avrebbe dovuto predire l'inconciliabilità, per lo meno ministeriale, dei due uomini politici.

(1) Metto fra i Moribondi anche i ministri senatori

223 COLORI E VALORI

Ciò non pertanto i due egregi signori siedono oggi nello stesso Gabinetto.

Nacque il Grimaldi in Catanzaro nel 1839; il Magliani vide la luce in Laurino (Salerno) nel 1825. Il padre di Grimaldi, valentissimo letterato e giurista, teneva scuola di diritto. Il giovane Bernardino era fra gli allievi, ma non mostrava affatto volontà di studiare. Mostrava, bensì, ingegno fertile e pronto, che rivelava soltanto quando era obbligato a farne uso. Grimaldi era, adunque, uno svogliato, una testa matta. Laureatosi in legge, non cambiò vita. Seguitò ad essere un viveur — un viveur, però, di provincia. La prima causa civile che trattò riguardava interessi vistosi. Da una difesa buona o cattiva sarebbe uscita, alternativamente la fama per l'avvocato o la fame pel cliente. Tutta la fortuna di un galantuomo era in giuoco. Ebbene, Grimaldi passò nel giuoco l'intera notte precedente la gran giornata. Andò in tribunale senza essersi occupato del processo, ma senza preoccuparsene. Egli era digiuno di stomaco e di mente. Pure, parlò in modo da mandare in visibilio giudici ed avvocati. Guadagnò la causa. Poteva, oramai, dire come Cesare:

Ve ni. vidi, vici.

Svogliato e distratto sempre, lasciò passare il 1859, il 1860 e il 1866 senza ricordarsi dell'Italia. Ciò dipese in parte anche dall'educazione fratesca ricevuta da giovine. Questi, infatti, come collegiale del Regio Liceo di Catanzaro, era stato sotto la direzione degli Scolopii. Nelle solennità religiose aveva dovuto portare il cero e fare il collo torto.

Magliani, se, a somiglianza di Grimaldi, non arrischiò mai la pelle contro i Borboni o l'Austria, a differenza di lui, fu un buon ragazzo nel più lato senso della parola.

224 CAPO TERZO

Studiò con assiduità e serietà. Nel 1848, mentre i suoi concittadini correvano alle barricate e sui campi di battaglia, Magliani scriveva e pubblicava un lavoro di Filosofia del Diritto. Il lavoro parve pregevole, e l'autore ebbe il posto di capodivisione al Ministero delle finanze.

Però, più che la filosofia del diritto, Magliani sapeva la filosofia della vita. Preoccupato dei suo avvenire personale, egli sdegnò di mescolarsi nelle cospirazioni liberali. Fece, anzi, il contrario. Perché in varii giornali lodò sperticatamente il Murena ministro delle finanze ed allievo prediletto dei Gesuiti. La carriera ciò richiedeva. Così, Grimaldi, per soverchia distrazione e Magliani, per soverchia attenzione, non si avvidero che v'era un'Italia a fare.

Caduto il Borbone, Magliani aderì al nuovo Governo e progredì. Fu segretario generale delle finanze nei primi anni del Regno d'Italia; poi, divenne consigliere della Corte dei conti, e presidente di sezione della stessa. Vi si distinse per operosità meravigliosa e intelligenza. Petruccelli dice che, in meno di un anno, Magliani appurò più di centomila conti arretrati.

A Magliani e a Grimaldi hanno recato molto giovamento la mitezza dell'indole e la cortesia delle maniere. Senza orgoglio o pretensioni, essi sono elementi preziosi nelle mani di uomini d'iniziativa. Sono venuti in alto senza suscitare invidie o gelosie. Ognuno si è meravigliato della loro rapida carriera politica; ma nessuno se n'è dispiaciuto. Grimaldi ha maggiore espansione di affetti ed ha un'amabilità fragorosa, torrenziale come la sua eloquenza. Magliani è più riservato meno espansivo, ma ugualmente cortese e pieno di gentilhommerie. Grimaldi, senza scendere mai a personalità, spesso si riscalda.

225 COLORI E VALORI

Però egli non prende cappello se non quando ve lo tirano pei capelli. Invece, Magliani è orribilmente e costantemente impassibile. Branca, Sonnino, Giolitti, Doda, Crispi, quante volte non lo hanno frizzato? Ebbene, Magliani è rimasto incommovibile come il ministro Roberto Peel sotto la grandine di contumelie di Beniamino Disraeli. Una volta sola il Magliani fece mine di sdegnarsi, e fu quando — vedi stranezza del Fato non greco! — ricevette un complimento. Autore del cadeau, interpretato così sinistramente, fu il simpatico e compianto Nicola Botta. Parlando di non so che cosa, ma certo non di finanza, chiamò il Magliani ministro pacifico. Senza dubbio, credeva di far pendant al Massari nella famosa frase l'avvenente amico — rivolta a Sua Eccellenza bionda Bertolè-Viale. All'opposto, il Magliani se ne dispiacque troppo seriamente, e, uscito dall'aula, mostrò il proposito di uscire dal Gabinetto. Gli amici s'interposero, Botta spiegò l'innocenza della frase, l'equivoco andò via, e il portafogli rimase a Magliani.

Amicissimo di Sandonato e di Crispi, il Magliani ebbe, la prima volta, il dicastero delle finanze nel dicembre 1877. Governò poco tempo, e cadde col secondo Ministero Depretis. Ritornò alle finanze nel dicembre 1878, e accettò di battersi (metaforicamente scrivendo) per l'abolizione della tassa sul macinato. Fu coinvolto nella caduta della terza amministrazione depretina. Gli successe Grimaldi, che già era stato segretario generale ai lavori pubblici, e che si era distinto con la relazione e nella discussione del progetto di legge sulle costruzioni ferroviarie.

226 CAPO TERZO

Grimaldi volle posare da uomo spassionato. Il partito lo aveva elevato. Egli volle essere imparziale. Studiò i bilanci, e trovò che l'abolizione della famosa e famelica tassa non poteva farsi. Fu un finimondo. Questa verità cadeva sul capo venerando della decrepita Sinistra come il sasso che colpì Sua Maestà Pirro—quegli che interruppe l'ozio di Taranto e il lavoro di Roma. Grimaldi diventava un grimaldello nelle mani della Destra per rientrare nella casa del Governo. Egli — ingenuo provinciale non sapeva che tonte vèrité n'est pas bornie à dire. Fu sacrificato dal Cairoli, e sostituito dal Magliani.

Allorché, poco dopo, vennero in discussione alla Camera i provvedimenti finanziarli, grande era l'aspettazione. Bisognava assistere all'incruenta lotta del Magliani col Grimaldi. Lotta vi fu, e venne combattuta con onore. La Sinistra proclamò vittorioso il Magliani. La Destra dichiarò superiore al ministro Vexidem. La lode degli avversarii politici scese dolce al cuore di Bernardino. Quintino Sella, il rigido censore, elogiò il giovanile candore del coraggioso deputato, che aveva osato immolare il portafogli all'aritmetica.

Magliani abolì la tassa sul macinato, abolì il corso forzoso. Gli fu gridato osanna con quello stesso calore con cui oggi gli si dà la baia. Egli, però, potrebbe dire: «Je rìai inerite ni cet excès d'honnear ni ceti e indignile.»

Si esagerò, allora, nella lode come si esagera, oggi, nel biasimo. Petruccelli della Gattina sciolse un inno in prosa al ministro. Cantò:Pochi uomini di Stato si presentano nella storia della risurrezione d'Italia con titoli più gloriosi di quelli del fortunato ministro delle finanze che attaccherà il suo nome all’abolizione della tassa sul macinato e a quella del corso forzoso.

227 COLORI E VALORI

Cavour fece diplomaticamente l'Italia: Rattazzi la organizzò liberamente; ma nella grande opera della creazione dell’unità ebbero collaboratori. Nell'intrapresa di affrancare il pane del popolo, nessuno mise più perseveranza quanto il Magliani... Nel Senato propugnò sempre tesi liberali. Parlò contro le corporazioni privilegiate di Genova, sostenne sempre le teorie del Free Trade. E, come uno dei fondatori della Società Adamo Smith di Firenze, scrisse, parlò, tentò legiferare contro le tendenze protezioniste del Gabinetto Minghetti. Come ministro, sostenne il sistema della trasformazione tributaria, consistente nell'abolizione delle imposte sulla consumazione delle cose necessarie alla vita e al lavoro delle classi operaie, e nell'aggravare la consumazione delle classi agiate; progresso già compiutosi in Inghilterra per iniziativa di Huskisson, di Cobden, e condotta a realtà da Peel...

Io ho una grande venerazione per Petruccelli. Ammiro la sua coltura portentosa, invidio il suo ingegno originale, mi seduce la sua fierezza inimitabile. Però il ritratto di Magliani è troppo fantastico. Chiamare Magliani creatore economico dell’Italia è lode che rasenta l'ironia. L'abolizione del macinato fu un errore di finanziere e di statista; quella del corso forzoso fu una meteora lucente e, forse, non innocente. L'oro brillò, un momento; poi, si ecclissò. Quel grande economista del barone Giacomo Savarese fu dei pochi italiani che, fin dal principio, seppero veder chiaro nel falso baglior dell'oro, e che non si fecero abbagliare dalla luce scintillante dalla marcia en avant del magico metallo.

228 CAPO TERZO

Petruccelli dà al Magliani il merito di aver affrancato il pane del povero e gli altri generi di consumo plebeo o borghese. Ei lo chiama l'Huskisson e il Peel dell'Italia, e ne leva alle stelle il liberoscambismo. Pur troppo, anche qui bisogna gittare acqua fredda sul bollente fuoco. Magliani si è mostrato liberoscambista soltanto delle sue opinioni. I dazi sui cereali e le tasse sullo zucchero, sul caffè, sul petrolio informino.

Un tempo, Magliani era onnipotente. Lo si reputava un genio. Per lui gl'italiani sentirono la libidine dell'elogio, come per il Sella avevano provato la libidine della censura. Allora Pasquino cantava:

Viva, viva il gran Magliani

Detto il giovine Agostin,

S'egli è ver che posdomani,

Abolisce il cavoarrin!...

Tutti i giornali a coro

Gridan di qua, di là:

Per lui l'età dell'oro

Presto ritornerà

Quel tempo è ormai passato. La parabola bisognava pur descriverla. E la discesa è stata vertiginosa. Eppure, l'impopolarità attuale è in gran parte ingiusta, com'era, nella stessa proporzione, iniqua la popolarità di ieri. Magliani non è un genio, ma neanche è un ingegno volgare. Il ministro delle finanze non cela, in lui, l'uomo di Stato, come in Gladstone, Cavour, Sella, Pitt; però non si può chiamare Magliani un Calonne au cceur leger. Magliani è il tipo del ministro delle finanze. È necessario spendere? Magliani impone nuove tasse. E mestieri fare economie? Magliani litiga col collega della guerra per due o tre milioni. Bisogna abolire un'imposta sia pur fruttifera? Magliani prepara il relativo progetto, e lo difende a meraviglia.

229 COLORI E VALORI

E d'uopo trovar danari? Magliani rinnega i principii, e trova i danari elevando i dazi. Magliani insomma, non ha volontà propria. A somiglianza delle giovinette bene educate, egli risponde sempre col rimettersene al papà — che, in questo caso, è il Presidente del Consiglio. Ha abilità pratica straordinaria; ma la sua è l'abilità dell'oggi, non l'intuizione del domani. È il savoir faire: Se la tassa sul macinato e il corso forzoso vennero aboliti. il merito non fu del ministro delle finanze. La Sinistra comandò. Depretis trasmise l'ordine. Magliani l'eseguì. Se oggi il disavanzo è tornato a far capolino, e se tende ad aumentare, la colpa non è di Magliani. L'esercito, la marina, le ferrovie, l'Africa, imposero forti spese. Doveva Magliani rifiutarsi a dare i denari? Ogni uomo di senso non comune non saprebbe ammetterlo. La colpa di Magliani è, invece, di non aver parlato chiaro sin dai primo momento. Egli ha illuso il paese: ha negato il disavanzo quando già esisteva. Tacque la verità, mentre aveva l'obbligo di esser sincero.

Quanto a coltura, Magliani è di molto superiore al Grimaldi. Sa varie lingue, è forte in letteratura, è maestro nelle discipline economiche. È, inoltre, provetto negli studi filosofici e giuridici, ed ha gusto nelle arti belle. Grimaldi, invece, studia alla giornata.

Se lo chiamassero al Ministero della guerra o degli esteri studierebbe le quistioni di tattica, di strategia, di logistica, di mobilitazione e i trattati di diritto internazionale da Grozio a Fiore. Giovane, insegnò, per poco, diritto costituzionale; indi, non coltivò più questa branca giuridica. Avvocato, non divenne un giureconsulto.

230 CAPO TERZO

Pel carattere Grimaldi e Magliani si rassomigliano. Magliani, già alto impiegato borbonico, passò a servire il Governo italiano. Accettò di essere segretario generale col Sella, col Bastogi, col Minghetti. Fu, quindi, a servizio della Destra. Ma, poi, servì pure la Sinistra; e nella Sinistra abbracciò, indifferentemente, luna o l'altra frazione. Parimenti, Grimaldi non ha scrupoli partigiani. A Catanzaro esordì in politica come uomo di Destra, e fu Presidente dell’Associazione costituzionale. Ad un tratto, divenne di Sinistra, e ni coterino. Nel 1879 si trasformò in cairolino. In seguito si fece decretino per diventare, nel 1887, Crispino.

Quanto al fisico, Magliani e Grimaldi sono due tipi diversi. Petruccelli chiamò Magliani un tipo inglese, e lo disse simile a John Bright per statura, corpulenza lineamenti e profili. Grimaldi noii ha niente a vedere con l'Inghilterra. È rimasto calabrese. Non è bello, esteticamente parlando. 11 suo volto, come quello di Danton e di Mirabeau, è butterato dal vaiuolo. Pure è simpatico, ispira fiducia ed invita all'espansione degli affetti. 11 viso di Magliani anche ispira fiducia, ma, nel tempo medesimo, consiglia riserva.

Grimaldi e Magliani hanno tutti e due il dono ma non l'arte della parola, la quale in entrambi è facile ed inesauribile. Senonché in Grimaldi è rapidissima e vertiginosa, e in Magliani è di velocità regolare. Grimaldi è un fosco e torbido torrente. Magliani è un chiaro e limpido lago. Grimaldi è il più celere oratore che possegga la Camera attuale. Però, appunto perché rapidissimo, spesso non è compreso. Grimaldi non si lascia inseguire. Magnani, invece, si la seguire e intendere. Grimaldi è un focoso destriere che va di carriera. Magliani è un maestoso cavallo che va al trotto.

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Molto si sono lodate le esposizioni finanziarie di Magliani, e i critici le hanno paragonate a quelle di Gladstone. Orbene, questa è rettorica. Magliani non somiglia a nessuno e tanto meno a Gladstone. Leggete pure le esposizioni finanziarie del nostro ministro, e, se vi troverete chiarezza (1) invidiabile, non vi troverete, del pari, lirismo di forma 0 ricordi classici. Anche nelle repliche non ha fosforescenza di stile e vigorìa di concetti.

Grimaldi rivelò la sua prodigiosa lena oratoria nel 1879, nelle discussioni sulle convenzioni ferroviarie. Supplì, come oratore, il Morana. La Camera restò stordita. Grimaldi, però, è un parlatore vertiginoso, non un oratore. Gli mancano l'arte, gli studii, la vis divina — che deriva dalla fede fortissima in un grande ideale.

La mancanza di un grande ideale e la mancanza di spirito d'iniziativa — ecco i difetti capitali di Grimaldi e di Magliani.

Dopo la rispettabile gente pacifica, fermiamo per un momento lo sguardo su di un rispettato ed illustre rompicollo: Luigi Pianciani. Questo vecchio rivoluzionario, che nella Camera non ha comandato mai un gruppo, neanche di due uomini senza caporale, ha i suoi settantotto anni. Nacque a Roma nel 1810 ed è conte. Conte democratico, egli fu il primo che, negli Stati del Papa, domandasse lo statuto.

(1) Chiarezza, non già sincerità.

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Poi prese parte alla guerra d'indipendenza, combattendo a Vicenza, a Venezia, a Bologna e guadagnandosi il grado di colonnello. Come deputato alla costituente romana dette il voto per la repubblica.  Non poté però servire col braccio la sua città natale perché fu imprigionato al principio della campagna a Civitavecchia.

Caduta Roma Pianciani andò in esilio. In Inghilterra  eccitò grande simpatia per l'Italia arringando e scrivendo. Preparò un lavoro i sensation intitolato Rome des papes. Però venuto il giorno di consegnanrlo allo stampatore il conte si accorse di aver fatto i conti senza l'oste, perché gli mancava appunto... il danaro e il manoscritto. Senza dubbio glielo avevano rubato. I  ladri non avevano dovuto agire che per incarico del Vaticano contro il quale il libro doveva contenere importanti rivelazioni. Precisamente questa fu la versione del derubato.  Nondimeno io inclino a credere che il furto sia stato solamente.... immaginario, e che l'autore del libro inventasse la graziosa storiella per dare una maggiore reclame alla sua pubblicazione.

Ad ogni modo, il Pianciani si rimise o finse di riporsi al lavoro e il tanto aspettato libello vide finalmente la luce. Produsse un certo effetto. La Curia romana strepitò. Non so se scomunicasse l'importuno autore.

Certamente costui meritava una scomunica.

Mazziniano ardente. Il Pianciani non volle nel 1859 partecipare alla guerra d'Indipendenza perché rìpugnavagli l’aiuto di Napoleone III. Ciò non pertanto venne in Italia per godersi i frutti della libertà. Nel 1860 si stabilì a Firenze. Fu cacciato da questa attemendosi che volesse dare dei grattacapi a Sua Santità. Per confortarsi, scrisse un nuovo libro: «L'andamento delle cose d'Italia nel 1860.»

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I moderati a danno dei quali l'autore non aveva risparmiato giudizi severi e commenti ab irato, gridarono la croce addosso al Pianciani.

 A poco a poco le idee del conte si moderarono, pur non perdendo l'antico colore. Soltanto il rosso divenne più pallido. Pianciani, alla Camera, si pose fra i monarchici radicali, e divenne un elemento utile.

Lavorando negli uffici, ebbe l'incarico di molte relazioni: così, fu relatore del bill dell'istruzione elementare obbligatoria — del bill per modifiche alla dotazione della Corona, ecc.

Non ostante la moderazione acquisita, talvolta risorge nel Pianciani l’antico uomo. Pochi anni fa. andando in Francia, accettò di partecipare ad un banchetto parigino, in cui, fra i fumi dello champagne falsificato e del bordeaux adulterato, si espressero sentimenti ostili all'amicizia italo-tedesca. Gli oratori allo champagne si benignarono di salutare nel conte Pianciani. allora vicepresidente della Camera, il vero ed unico rappresentante d'Italia.

Nobile come il Pianciani è anche il Vastarini-Cresi. Quegli è conte. Questi è marchese. Nacque il Tastarmi ad Aquila nel 1840. Giovanetto, fu posto in educazione presso i Gesuiti. Lungi dal piegarsi alla parte di Gingillino, egli si ribellò alla disciplina lojolesca. La sua non fu una ribellione rumorosa, fragorosa; fu mite, fredda, sprezzante: più passiva che attiva. I reverendi padri gl'imponevano di andare a confessarsi; ed egli, che non si sentiva peccatore, faceva lo gnorri. I sullodati signori sii volevano rifondare la testa con le seste; ed il piccolo ribelle non volle: forse, pensò di renderla quadrata ai suoi Mentori cristiani.

234 CAPO TERZO

Gli si ripeteva che Martino Lutero era stato un grande colpevole, un viveur fratesco, un diavolo umanato; ed il giovanetto non se ne mostrava persuaso: piuttosto rimandava, secretamente, i gentili epiteti ai reverendi da lui non riveriti. Infine si seccarono reciprocamente, i padri di tenerlo, Vastarini di restarvi. Un bel giorno, ripetendo il celebre incidente di Giorgio col Vescovo, si mandarono, vicendevolmente, a farsi buscherare.

Vastarini venne a Napoli per completare i suoi studi. Si laureò in legge, ed entrò nello studio dell'avvocato Casella. Per un pezzo fece il muto. Poi, di botto, si rivelò. Un giorno, il Casella disse ai suoi giovani procuratori che bisognava, l'indomani, presentare una memoria in Sezione di accusa per la causa I)e Fontenois. Dette libertà a tutti di prepararla. Vastarini, andato a casa, studiò la difesa, e scrisse un'acuta ed elaborata memoria. L'indomani, la presentò al Casella, il quale la lesse con vivissimo compiacimento e grande sorpresa, e, alla fine, baciò il valoroso giovine. Quel bacio fu il battesimo forense. Presolo a ben volere, Casella lo aiutò nella carriera del foro. In seguito il giovane conobbe Pessina, che gli dette sua figlia per moglie. Nell'amministrazione municipale di Napoli, si strinse in amicizia col Nicotera, il quale lo spinse nella via politica. È chiaro che Vastarini, con tutti i suoi meriti, non avrebbe tanto presto gustato il nettare della fama, se non fosse stato secondato, meritatamente, da amici potenti, ed aiutato dalla Dea Fortuna.

Giovane avvocato, egli si mischiò nelle lotte politiche, e sposò tutte le animosità della Sinistra contro la Destra.

235 COLORI E VALORI

Mise il suo ingegno e la sua parola a disposizione dei giornali liberali incriminati dal fisco. Così il suo nome, che finallora era stato ripetuto in un circolo di gente ben ristretto, cominciò a lusingare l'orecchio della platea elettorale. Il celebre avvocato De Blasiis, essendo assessore anziano del Municipio di Napoli, nominò Vastarini vicesindaco aggiunto della sezione San Carlo all'Arena. Nel 1876, portato nella lista liberale dei candidati al Consiglio comunale, riuscì eletto. Fu scelto per vicesindaco titolare della sezione San Giuseppe; ma, se col presente è lecito giudicare il passato, in quest'uffizio il Vastarini non dovette mostrarsi abbastanza assiduo — tanto più che già da due anni era deputato al Parlamento.

Alla Camera, ad imitazione ed esempio di tutti i giovani accorti, egli non dette subito briglia sciolta allo scilinguagnolo. Naturalmente, non voleva esordire con un fiasco. Parlò tardi, ma bene. Perciò, nei primi anni della sua vita politica, Vastarini, più che da oratore, posò da lavoratore e da deputato utile. Non fece discorsi di politica generale; si attaccò alle leggine. Così, presentò un bill per modificare la legge di pubblica sicurezza, difese la ferrovia AquilaBieti, ecc.  — Acquistatasi in tal modo la stima dei colleghi seniori, si azzardò a parlare sovra argomenti di politica generale, e parlò stupendamente. I suoi migliori discorsi sono, quello pronunziato nel marzo 1883 sulla politica estera, e l'altro del novembre 1886 sull'arresto dell'onorevole Turi. Il primo è un capolavoro d'ironia. Il secondo è notevole per l'abilità sopraffina e per quell'arte di dire e di non dire che forma il pregio principale dell'oratore parlamentare. Vastarini parlò da uomo politico, non da avvocato.

236 CAPO TERZO

Scivolò, con grande accortezza, sulla quistione della disciplina, colpì la nota giusta della situazione, e piacque agli stessi avversari. Usando l'arme della contraddizione, tirò in ballo l'on. Marselli, segretario generale al Ministero della guerra, e ricordò come il medesimo, per lo innanzi, avesse adoperato contro i suoi superiori — senza per ciò subirne molestia — un linguaggio ancor più violento di quello tenuto dal Turi. Il Marselli rispose che egli aveva saputo rasentare il regolamento senza cadervi. Incauto! L'on. Vastarini gli replicò che ammirava l'abilità del Marselli, ma che, considerando la franchezza come la prima dote di un militare, al colonnello Marselli, il quale aveva saputo rasentare il regolamento, preferiva il capitano Turi che lo aveva violato e si era fatto porre agli arresti. Era una botta da maestro. L'on. Vastarini è uno dei pochissimi avvocati napoletani che nella Camera non abbiano portato un linguaggio di Corte di assise. Sul principio appariva troppo, in lui, il penalista; poi si modificò, ed oggi è sulla via del perfetto oratore politico. Se pigliasse con maggior frequenza la parola, più presto si perfezionerebbe. Vastarini ha tutte le doti esterne dell'oratore: statura piuttosto alta; ben conformata complessione; viso regolare e simpatico, al quale danno un po' di fierezza militare un paio di mustacchi, in cui il color bianco comincia a brillare; occhio investigatore, alternativamente benevolo e railleur. La sua voce non ha il timbro metallico, non è sonora, è monocorda; tuttavia piace all'orecchio. Il gesto è parco, quasi sempre senza animazione. La parola è facile, quantunque non sia rapida. Quanto al modo di discutere, Vastarini non guarda sempre tutti i lati di una quistione.

237 COLORI E VALORI

Vede il punto debole dell'avversario e ne profitta. Per questo lato è ancora un po' avvocato. Però, ad onta che sia penalista, egli non ha portato alla Camera le frasi vuote, la mimica grottesca e gli scoppi d'indignazione gutturale dei suoi colleghi napoletani. (Perché costoro,, quando si riscaldano, provano commozione alla gola, non al cuore). Ho inteso spesso ripetere che Vastarini sia un umorista. Senza dubbio il primo a ridere di questo complimento sarà stato il Vastarini — il quale ben sa che cosa sia l'humour. Egli, invece, è maestro d'ironia e discreto apprendista di caricatura. Come avvocato, Vastarini occupa uno dei primi posti nel foro penale napoletano. Non è divenuto un giureconsulto per indolenza, mentre l'ingegno suo acuto e la coltura svariata avrebbero potuto farlo aspirare a tanta altezza. In parecchie sue difese si ammirano vedute giuridiche originali. Nella causa a favore di Del Pinto (1869), Vastarini, con finezza di mente, scoprì il criterio direttivo a cui aveva dovuto ispirarsi il legislatore nella misura della pena nei reati di falso. E questo criterio parve a lui che si dovesse ritrovare non nell'elemento intenzionale né in quello quantitativo; sibbene nell'elemento qualitativo. Penalista insigne, Vastarini sta ugualmente bene innanzi alle Corti d'assise e a quelle di Cassazione. Nel processo Luciani s'illustrò. Nella causa elettorale contro Toscanelli cominciò a farsi nome nell'Italia centrale.

Confermò il suo valore nei processo Nicotera, dove suscitò il celebre incidente del sussidio pagato dal ministro Cantelli alla Gazzetta d'Italia. A Napoli, difendendo il monaco Covelli, suscitò l'entusiasmo generale.

238 CAPO TERZO

Nella sua arringa si ammirarono, specialmente, uno studio psicologico dell'amore e una conoscenza perfetta del cuore umano. Vastarini, in quell'occasione, fu artista. Nel recente processo Ascione, egli, come rappresentante della parte civile insieme al Manfredi, piacque assai: ciò non pertanto, a dirla con franchezza, parve un po' spostato: volle fare dello spirito, quando doveva toccare il cuore. E giacché mi ci trovo, voglio completare il mio non ricco parere. Da qualche anno l'on. Vastarini mostra una tendenza curiosa. Alla Camera vuole abusare dell'esame psicologico, e fa spesso un processo d'intenzioni; alla Corte di assise, poi, si diverte a maneggiare la caricatura e l'ironia. Caso unico, forse, negli annali forensi: un avvocato che porta in tribunale le qualità dell'oratore politico. Tutto ciò è déplace. e Vastarini dovrebbe emendarsi.

Oltre alla vasta coltura giuridica, l'on. Vastarini ha pure coltura politica suffìcientissima, acquistata a poco a poco, non tanto per volontà propria, quanto per incitamento del Petruccelli. Ha, di più, coltura letteraria e scientifica. Conosce a perfezione Darwin e Spencer. Sa varie lingue, particolarmente la lingua francese, che parla come un discendente in copia legale autenticata di Voltaire — e se ne capisce il perché: la sua gentile e colta signora lo mantiene in esercizio. Vastarini è al corrente di tutte le pubblicazioni. Non legge subito o interamente tutti i libri che compra che riceve in dono — questo s'intende. Però il tempo, che la professione e la politica gli lasciano libero, viene da lui consacrato alla lettura.

239 COLORI E VALORI

Dopo l'ostracismo dato all'on. De Zerbi — perché aveva troppa intelligenza e scriveva e parlava con troppa grazia e maestria — Napoli non ha che due rappresentanti degni di una grande città: Sandonato e Vastarini-Cresi.

Eccoci ora di fronte a due ex-segretari generali: gli on. Amadei e Angeloni. Il conte Michele Amadei è ancora relativamente giovine, non avendo che quarantotto anni. E un uomo politico dilettante. Fu con Cairoli, se non erro, segretario generale al Ministero di agricoltura e commercio, distinguendosi per l'ardore e l'energia con cui combattette i progressi della fillossera. A suo tempo ha esposto la propria vita per la patria. Molto più vecchio è il barone Giuseppe Andrea Angeloni. Questi nacque nel 1626. Non è stato un soldato, ma un cospiratore. Il governo borbonico lo sapeva tra i suoi nemici, e lo perseguitò. Angeloni gli rendette pan per focaccia, e cercò in tutti

modi di contrariarlo. Liberale attivo ed ardente, egli, dopo il 1860, non si pose tra i soddisfatti. Invece continuò a dar noie al Governo, che accusava di essere troppo lento nella risoluzione del problema romano. La Sinistra, avendolo sperimentato sempre fedele, gli offrì il posto di segretario generale dei lavori pubblici (1879). Angeloni accettò. Ritornato semplice deputato, Fon. Angeloni continuò ad occuparsi della cosa pubblica. E un uomo abbastanza colto che ha saputo migliorare le sue proprietà con i trovati della scienza moderna. E, inoltre, uno di quei ricchi signori che non sanno dividere l'agiatezza del proprietario dal benessere del contadino. Perciò ha biasimato i dazi sui cereali e il ritardo nell'abolizione dei decimi di guerra.

240 CAPO TERZO

Gli ex-segretari generali sovra menzionati fanno, a loro volta, ricordare due segretari generali in attività di servizio: Abele Damiani e Francesco Cocco-Ortu. Sono due isolani: l'uno è siciliano, e sta agli affari esteri. L'altro è sardo, e sta alla grazia e giustizia. Nacquero il primo a Marsala, il secondo a Cagliari. Damiani è stato sempre Valter ego di Crispi. Cocco-Ortu ò il braccio sinistro di Zanardelli, mentre Gerardi ne è il braccio destro. Gerardi predica il credo zanardelliano in Lombardia. Cocco-Ortu lo predica in Sardegna.

Per età il Cocco-Ortu è molto più giovane del Damiani; ma Damiani è più giovane del collega pel calore degli affetti. L'uno, entrato nella Camera nel 1876, dopo due anni era già segretario generale del Ministero di agricoltura e commercio. L'altro, deputato fin dalla IX Legislatura, ha dovuto fare un tirocinio più lungo.

Sacerdote del sillabo Crispino, Damiani ha alcuni dei difetti del maestro. Le stesse sue qualità hanno un certo che di eccessivo e di esuberante. I suoi sentimenti sono forti e schietti; però, talvolta, trasmodano in ardore morboso. È un ardore che rassomiglia alla febbre. Damiani è aggressivo. Combattendo Depretis, fu senza riguardi e giustizia. Più versatile di Cocco-Ortu, egli è un piccolo uomo di Stato. Discute — e discute bene — di quasi tutte le materie che possono interessare un Parlamento. Insomma è un petit Crispi, più impetuoso, più espansivo e meno orgoglioso. Cocco-Ortu è taciturno come i sardi. Damiani è chiacchierone. Quando era semplice deputato, faceva interrogazioni ed interpellanze, lavorava negli uffici e nelle Commissioni, parlava alla Camera e fuori.

241 COLORI E VALORI

La fillossera, le condizioni della sicurezza pubblica in Sicilia, la sistemazione dei porti, l'espulsione di Cavallotti da Trieste, la ferrovia della Goletta, ecc. , trovarono sempre Damiani pronto a parlare. Particolarmente nelle questioni di politica estera si rivelò competente, e spesso fu relatore del bilancio analogo. Già soldato di Garibaldi, Damiani anela, forse, il momento di ripigliare il fucile.

Un uomo, che è stato sempre fra le quinte e sul palcoscenico della politica, è l'on. Sorrentino. Egli ha bisogno di essere conosciuto da vicino per essere apprezzato. E di un'affabilità un po' provinciale, e manca della gentilezza aristocratica del gran signore. Parla con difficoltà, e non si esprime mai chiaramente. Però è lavoratore, o almeno, era lavoratore; è pratico di cose amministrative, e, conservando alla Camera e nei Ministeri una grande influenza, gode la stima dei suoi colleghi. Uomo di impressioni, non fu costantemente uno zelante e cieco seguace della Sinistra. Ebbe dei momenti di sincerità in cui si pose in urto con la maggioranza del partito. Così prese parte alla formazione della Giovane Sinistra, votò a favore dei progetti di Saint-Bon, costituì a Napoli l'Associazione Nazionale, detta degli Spagnuoli. Fu chiamato con un nome straniero un consorzio che si piccava di italianità, perché si diceva che, come i concittadini di don Chisciotte, si erano gittati, a guisa di uccelli di rapina, sulle miniere aurifere del Perù e di altre terre americane, così i soci della Nazionale aspiravano ad impossessarsi di tutti gli uffici pubblici.

242 CAPO TERZO

Non ancora sessantenne, l'on. Sorrentino può vantarsi (triste vanto!) di aver avuta una vita piena di disinganni. Sotto il Borbone diede prova del suo liberalismo. Un tempo fu fondatore e direttore di giornali, che s'inseguivano nella nascita e si raggiungevano nella morte. Oggi, nella Camera, piglia poca parte ai lavori e alle discussioni. La sua azione si svolge, piuttosto, dietro le quinte. Sorrentino non è un attore politico come una volta; è un maestro concertatore. Un tempo dava aiuto ed incoraggiamento ai giovani che si dedicavano alla vita pubblica. Ora potrebbe, almeno, dar loro notizie e schiarimenti su parecchie commedie parlamentari state fischiate od applaudite. Ma neanche questo vuol fare. Pare seccato terribilmente. Io son sicuro che, leggendo queste poche parole che ho scritto sul conto suo, proverà un senso di noia. Per amor di Dio, non lo secchiamo più, e passiamo innanzi!

Sì, andiamo innanzi, per stringere, con l'immaginazione. la mano di un futuro ministro — di un giovane che sente tutto il valore della vita e che non è mica blasé. Io intendo parlare di Ernesto Pasquali. Chi ha letto il brillante e geniale profilo biografico, che ne scrisse il Faldella, è preso da una voglia matta di conoscere personalmente l'on. Pasquali.

Il Pasquali ha appena quarantacinque anni: sua patria è Piacenza, la città natale del cardinale Alberoni. A somiglianza dell'Alberoni, il Pasquali è un portento di attività fulminea. Se fosse nato due secoli fa, sarebbe stato un avventuriere, uno di quei capitani che, per smania di occuparsi e di illustrarsi, andavano a servire lo straniero.

243 COLORI E VALORI

Studiò legge a Torino. Non è ben chiarito perché venisse a Torino, anziché in un'altra città d'Italia. Fece la pratica forense con Angelo Brofferio, e in Piemonte crebbe in fama di valentissimo avvocato. Le noiosissime pandette non lo ipotecarono interamente allo studio del Diritto. Degno allievo di Brofferio, egli coltivò le lettere, e fu pure giornalista. La Gazzetta del Popolo lo ebbe a suo redattore capo. Ménte versatilissima, Pasquali coltivava, nel tempo stesso, anche gli studi economici e di finanza. Nè della sola teoria si acquietò. Si gittò a capofitto nella pratica degli affari, e venne nominato direttore del Credito agrario torinese. Ma, prima di essere direttore, era stato relatore statistico-finanziario del medesimo istituto. E di quest'ultimo uffizio parlando Telesforo Sarti nel suo preziosissimo dizionario dei nostri uomini parlamentari, scrive che in quella moltiplicati di fatti e di cifre, di cui erano ricche le relazioni, erano ammirabili la perspicuità, l’esattezza e la potenza logica della sintesi.

Mandato alla Camera nel 1876, il Pasquali, contro l'aspettazione di parecchi colleghi, si rivelò presto uomo parlamentare di prim'ordine. Rotto agli affari e alla pratica della vita, il Pasquali non dové stentar molto per orizzontarsi nel gran campo di Montecitorio. Egli non dovette formarsi. Nel 1876 era ciò che è oggi e viceversa. Nella Camera si è trovato come a casa sua. Disinvolto, franco, aperto, ardito, Pasquali si presentò in Parlamento con quel garbo semplice e senza affettazione, con cui il perfetto lion si presenta in un salon dove stanno persone da lui non conosciute mai per lo innanzi.

244 CAPO TERZO

È capace dell'analisi e della sintesi, della discussione minuta e circostanziata e del movimento degli affetti. Resiste come un benedettino alle ricerche di biblioteca, e affronta come un vecchio parlamentare i dibattiti della Camera. Può eseguire, con precisione e genialità, un incarico affidatogli, e prendere lui stesso un'iniziativa. Capace, insomma, di obbedire e di comandare, di lavorare negli uffici e di discorrere nell'aula, di scrivere una relazione e d'improvvisare un discorso, di fare sfoggio di erudizione e di rivestirla di una forma smagliante, di persuadere e di commuovere. Ha con sé gli studi e l'esperienza.

Nella Camera teneva già un buon nome, quando fu chiamato a sostituire il Mancini come relatore del nuovo Codice di commercio. Fece breccia. Tenne testa ai più valenti giureconsulti. Brillò come il Grimaldi, allorché questi dovette sostituire il Morana in qualità di relatore del progetto ferroviario. Ho cominciato ricordando il Faldella. Voglio finire citando le sue parole: «Quanto diverso dal mantice, o meglio, dalla fisarmonica dell'on. Varè, che si allunga e si raccorcia vistosamente in fragori schiacciati e schiaccianti, quanto diverso è il chiacchiericcio dell'on. Pasquali! Questi ha il pizzicato degli strumenti a corda e la fluidezza continua, gorgogliante e rinfrescante degli strumenti ad acqua. Il suo ingegno ha l'agilità di una ben nutrita rondinella, che bezzica al volo l'idea opportuna, e la usufruisce immediatamente. Pochissima preparazione basta alla celere intuizione e allo sfringuellìo di questo ingegno alato.

245 COLORI E VALORI

Ernesto Pasquali è una testolina cesarea, ricciutella, nasutella e sbarbatella; luccica con quel genere d'occhi che Svetonio chiama vegeti, parlando di Giulio Cesare: Fuisse tra ditur nigrìs vegetisque oculis.

E un aquilotto, un napoleonotto. E l'omino dei tempi moderni, del vapore, del telegrafo, del telefono e delle altre comunicazioni rapide.»

Perché i lettori si addormentino senza annoiarsi, è necessario che io faccia seguire &V omino dei tempi i rappresentanti della generazione passata. Il patriottismo lombardo e il patriottismo calabrese hanno rispettivamente in Francesco Cucchi e in Francesco Sprovieri due illustri e chantlìlons. Noi, giovani, incontrando sulla nostra via questi veterani della libertà, ci arrestiamo meravigliati. Che cosa sono? Ruderi illustri. Che cosa rappresentano? Un passato glorioso. Nati e vissuti in un ambiente piccolo e prosaico, noi non arriviamo a comprendere questi valorosi che fiorirono in altri tempi, avvicinarono altri uomini, presero parte a ben altri avvenimenti.

Sprovieri fu tra quei soldati meridionali che col generale Pepe vennero mandati dal Borbone, nel 1848, a combattere la guerra d'indipendenza. Allorquando il Governo napoletano ordinò il richiamo delle truppe, Sprovieri fu tra quei pochi che si ribellarono, e preferirono seguire il Pepe a Venezia. Da Venezia passò in Grecia. Non potendo molestare Sua Maestà Apostolica l'Imperatore d’Austria, egli si dette a molestare Sua Maestà Diabolica il Gran Sultano. Cospirò, quindi, per togliere l'Epiro dalla soggezione ottomana. Non fece che un buco nell'acqua. Si restituì, allora, in Italia, e ricominciò a cospirare.

245 CAPO TERZO

Nel 1859, volò in Lombardia. Arruolatosi fra i volontari garibaldini, fu ferito a Laveno. Nel 1860 fu tra i Mille, e a Calatafimi venne novellamente ferito. Restò sempre trai combattenti in Sicilia e nel Napoletano. Nello stesso anno, ritiratosi Garibaldi a Caprera, Sprovieri entrò nell'esercito regolare. Vi stette fino al 1862. Nel 1S66 riprese le armi, e, a capo di un reggimento di volontari, combattette con Garibaldi nel Tirolo. Della sua vita si potrebbe fare un romanzo.

Il Cucchi, meno fiero e più gentile di Sprovieri, è un tipo non meno simpatico. Come garibaldino, fece la campagna del 1859 e le successive. Però non fu che nel 1867 ch'egli riuscì a rappresentare una parte importante nel partito di azione. Egli era — secondo il Castellazzo — il trait d'union fra Garibaldi, il Comitato romano in Firenze e la Giunta di Roma. Dalla narrazione che della tentata o meglio progettata rivoluzione di Roma ha fatto il Castellazzo, pare che l'autore rimproveri il Cucchi di non averlo secondato negli sforzi generosi per spingere la Giunta a promuovere la ribellione immediata. Checché sia di ciò, certo è che il Cucchi più di una volta entrò di nascosto nella città papale per concertare coi comitati locali una sedizione militare e una sollevazione popolare. Egli era, per dir così, il ministro plenipotenziario di Garibaldi, il commesso-viaggiatore della Rivoluzione. Però, ad onta della sua attività ed intelligenza, non riuscì nel suo intento. Che anzi, mancò poco non fosse arrestato. Mentre, infatti, percorreva la città, fece il gradito incontro dei gendarmi di Sua Santità. Per routine di mestiere, i poliziotti papali fermarono

246 COLORI E VALORI

l'agente rivoluzionario, e gli chiesero il passaporto. —Sono il banchiere Belinzaghi — rispose senza scomporsi il Cucchi — ma ho dimenticato il passaporto all'albergo della Minerva. Ora andremo insieme a pigliarlo. ?» La presenza di spirito salvò il Cucchi. Invece, lo Spirito Santo che aveva sì bene illuminati, al principio della commedia, i graziosi gendarmi, in quel momento brillò per la sua assenza. I manteni tori del disordine pubblico pontificio ebbero il geniale pensiero di credere alle parole dello pseudo-banchiere. Dio buono! era così ingenuo, e parlava con tanta schiettezza! E poi, non si era dichiarato disposto ad accompagnarli all'albergo della Minerva? Questa circostanza, appunto, dava maggior credito all'arte bancaria del nobile signore — tanto più che i bravi sbirri di Pio IX non sentivano alcuna inclinazione di fare, in quel momento, una passeggiata sino all'albergo Essi erano degni colleghi di quei valorosi soldati di Sua Santità, che facevano la sentinella con una sedia accanto, per adagiarvisi all'occorrenza, e con un ombrello a fianco, per ripararsi dall’acqua o dal sole. Cucchi, quindi, cuculiati i gendarmi, si allontanò sollecitamente ria Roma, È inutile aggiungere che i poliziotti amabili, allorquando, col loro comodo, andarono alla Minerva, ebbero opportunità di verificare l'esattezza delle asserzioni del bravo signore, e di ammirare la propria perspicacia.

Cucchi e Sprovieri siedono da molto tempo alla Camera, dove godono la stima e la simpatia dei colleghi.

Ora è tempo di scendere un po' più basso, e di venire a Lovito e Lacava. Sono entrambi della Basilicata, e quasi coetanei. Lacava nacque nel 1835; Lovito nel 1830. Come buoni compaesani, sentono reciprocamente un tantino di gelosia. Ils se jalousent.

CAPO TERZO

Non hanno scintilla del genio sacro, e neanco ingegno originale. Se si facessero esaminare da Max Nordau, questi li direbbe forniti del solo talento, cioè un ingegno imitativo.

Laureatisi in legge, si provarono contro il Borbone. Il loro patriottismo è indiscutibile. Manca, però, della parte brillante. Furono cospiratori, non soldati.

Lovito cominciò fin dal 1848 a cospirare. Arrestato, fu poco dopo rimesso in libertà. Tuttavia venne posto sotto la sorveglianza della polizia e rimandato in provincia. Nel 1850 ottenne il permesso di ritornare in Napoli. Ne profittò per cacciarsi nella setta dell’Unità Italiana. Verso quell'epoca entrava il Lacava nella vita politica e presceglieva la medesima via. Insieme a Lazzaro, il Lacava, dopo il 1853, diventò mazziniano. Insieme ad altri, nel 1857, gittavano le basi del Comitato dell'Ordine. Quando Carlo Pisacane venne in Napoli per prendervi gli opportuni accordi per una rivoluzione da scoppiare contemporaneamente allo sbarco, il Lacava fu uno di coloro che, in casa del De Mata, presero parte a queste conferenze settarie. Nel 1860 l'attività di Lovito ecclissò quella di Lacava. Lovito, che già aveva ricusato di accettare una sottoprefettura offertagli da Liborio Romano, ministro costituzionale di Francesco II, organizzò militarmente un contingente di militi cittadini che condusse a Potenza. Formò, inoltre, il battaglione lucano. Non ebbe, però, opportunità di combattere, perché entrò nel governo provvisorio della Basilicata con le funzioni, se non col grado, di ministro della guerra. Fece buona prova. Mostrò sangue freddo e discreto ingegno organizzatore.

249 COLORI E VALORI

Rivelò pure molto disinteresse, poiché ai bisogni dell'erario sopperì con danaro proprio.

Dopo questi precedenti, meritava certamente un posto alla Camera. Egli e gli elettori ne avevano tutta la buona volontà. Però i secondi scoprirono che l'ex ministro della guerra in partibus infidelium aveva scarsezza... d'ingegno? no!... di patrimonio? neanche! I rispettabili Jacques Bonhomme della Basilicata trovarono che il Lovito aveva scarsezza di salute! Come poteva egli resistere al clima di Torino e ai disagi del viaggiare?!!!. . Ecco perché il Lovito ha nel suo stato di servizio politico una Legislatura di meno.

Lacava e Lovito appartennero sempre alla Sinistra, ma il primo per convinzione, il secondo per necessità di opposizione. La Destra amministrava male le Provincie meridionali. Come poteva il Lovito combattere quel sistema di governo? Aggregandosi alla Sinistra. E stato un uomo di Sinistra negativa. Non è stato un uomo politico trimmerì cioè oscillante fra i vari partiti; bensì egli ha oscillato fra le diverse frazioni della Sinistra. Lo si può definire un trimmer di Sinistra, un trimmer interno. Venuto alla Camera come un conservatore malcontento, fu tra gli scismatici della Giovane Sinistra, e poi tra i trasformisti di Depretis seconda edizione di Stradella.

Lacava e Lovito sono stati segretari generali. La cava fu nominato a quest'ufficio dal Nicotera nel 1876, e per l'inesperto ministro dell'interno fu un elemento preziosissimo per la non piccola coltura di diritto pubblico e per la pratica amministrativa. Riebbe il medesimo ufficio nel 1879. Il Lovito fu, per la prima volta, segretario generale nel 1870, e fu destinato al dicastero di agricoltura e commercio.

250 CAPO TERZO

Nel 1881 Depretis lo chiamò al segretariato generale dell'interno, nel quale il Lovito stette sino al dicembre 1883. Tanto Lovito quanto Lacava non si mostrarono né superiori, né inferiori ai posti occupati. Furono the right men in the right places.

Nè l'uno né l'altro è oratore. Entrambi parlano male e a stento: ma la forma è più corretta nel Lacava. A Lovito, talvolta, avviene financo di rendersi colpevole di qualche conato di reato contro la grammatica.

Non hanno l'identica indole, quantunque abbiano qualche analogia di carattere e di temperamento. Sono astuti, poco sinceri, simulatori e dissimulatori. Lovito è più vendicativo ed orgoglioso. Lacava è molto più pieghevole e malleabile: egli ha quella souplesse che manca ai suo emulo. Entrambi non hanno slanci di generosità. Nel 1884, quando il segretariato generale dell'interno era vacante per le dimissioni del Lovito, Depretis offrì quell'ufficio al Lacava. Il Lacava, per cortesia di amico, per tatto di uomo politico e per delicatezza di compaesano, non avrebbe dovuto accettare. Invece, egli si dichiarò pronto ad occupare il segretariato generale, qualora Lovito acconsentisse. Fu questo un atto poco generoso. Non bisognava mettere il Lovito nel bivio o d: consentire con sacrificio del suo orgoglio o di rifiutare con sacrificio della sua dignità. Questa sfumatura di delicatezza non attecchì nell'animo di Lacava, che a palazzo Braschi anelava di ritornare. L'ex-coadiutore di Nicotera, spinto dall'amore proprio, non ebbe ritegno di ferire l'amor proprio di Lovito. Non è men vero, però, che se Lovito avesse avuto un pochino di magnanimità, avrebbe dovuto prestare il suo consenso.

251 COLORI E VALORI

Così avrebbe dato una lezioncina al collega poco gentile. All’opposto, rifiutò. A carne dì lupo dente di cane.

Oggi gli on. Lacava e Lovito sono semplici deputati. Stimatissimi dalla Camera, lavoratori assidui, competenti nelle medesime questioni, essi sono valori speciali.

Giuseppe Lazzaro e Jacopo Comin, entrambi pubblicisti, devono alla stampa fama ed agiatezza. Lazzaro, nato a Napoli nel 1825, non rimase inerte nei movimenti politici del 184849, e fu imprigionato. Riottenuta la libertà, si allontanò per poco da Napoli. Poi vi fece ritorno, e cominciò a fare il maestro di grammatica. Insegnò, per qualche tempo, senza il permesso delle autorità. Lo imprigionarono di nuovo, e di nuovo lo rimisero in libertà. Della quale egli si servì per danneggiare sempre più l'odiato Governo borbonico. Divenne un cospiratore modello, dimostrando attività instancabile. La sua tinta era mazziniana. Del Comitato dell’Ordine egli fu magna pars. Se Lazzaro proseguisse le sue Memorie sul movimento liberale nel Napoletano durante il dominio borbonico posteriore al 15 maggio, farebbe opera interessante e anche appé tissanie. Gli aneddoti basterebbero a rendere il libro superlativamente popolare. Lazzaro ci potrebbe raccontare le scene gustosissime che succedevano allorché la polizia lo arrestava, e poi era obbligata a riporlo nel libero esercizio delle sue gambe perché egli faceva valere la sua nazionalità svizzera. E ci potrebbe ancora dire a chi venisse pel primo l'idea di attirare nelle cospirazioni i giovani ed incauti provinciali mediante questo mezzo ingegnosissimo:

252 CAPO TERZO

La casa di Lazzaro, perché garantita da una certa extraterritorialità, era il luogo di reclutamento dei novelli cospiratori. Gl'inesperti signori erano accolti con premurosa cortesia da Don Peppino. Mentre le trattative pendevano, entrava nella stanza un uffiziale di fanteria che pigliava parte alla conversazione, si mostrava entusiasmato delle idee liberali e assicurava il concorso dell'esercito per una rivoluzione. Un'altra volta, era un uffiziale di cavalleria o di artiglieria che partecipava alle se crete conferenze. Quest'intervento dell'esercito, alla spicciolata, serviva a togliere dall'animo dei provinciali qualunque dubbio sulla potenzialità pratica della congiura, e li faceva entrare con entusiasmo nelle macchinazioni liberali. Orbene, sapete voi quali persone si nascondevano sotto la divisa militare? Nientemeno che... semplici cospiratori borghesi! Lazzaro teneva a casa sua una mezza dozzina di uniformi militari con cui i suoi amici si travestivano per rappresentare l'abile commedia. Ma con la commedia, appunto, che poteva ad ogni istante mutarsi in tragedia, si preparava il gran dramma del 1860. Lazzaro, che scriveva ancora un giornale clandestino intitolato il Piccolo Corriere, continuò a far parte del Comitato dell'Ordine sino a quando in questo non pigliarono il sopravvento i moderati. Fu allora che il Lazzaro e parecchi suoi amici, provocando uno scisma, fondarono un nuovo centro di agitazione, denominandolo Comitato di azione. Come succedesse la catastrofe borbonica, è cosa conosciuta financo dagl'intelligenti gendarmi del Papa. Dopo il 1860, Lazzaro, da pubblicista clandestino si mutò in pubblicista nel non falso senso della parola.

253 COLORI E VALORI

Egli entrò a scrivere nel giornale il Roma, fondato da Pietro Sterbini. Il nome del giornale e quello del fondatore ne indicavano il programma. Lazzaro era quindi monarchico condizionale, secondo la mia illegale definizione, oppure un monarchico modello promontorio di Rodi, secondo la definizione di Cletto Arrighi. Morto lo Sterbini, il Lazzaro restò solo ispiratore del giornale, il quale prese larga base nel popolo napoletano. Eletto, nel tempo stesso, deputato al Parlamento, Lazzaro andò a pigliar posto all'Estrema Sinistra. Di lui scriveva il Petruccelli nel 1862:Finirà per conquistare il suo posto, quando avrà acquistato più calma, e la foga delle idee o dell'affetto non lo mutilerà.» La profezia di Petruccelli si è soltanto in parte avverata. Lazzaro non è divenuto un oratore, e nemmeno un parlatore piacevole. In compenso, studiando e lavorando negli uffizi, è diventato esperto nelle questioni di diritto pubblico interno e di giurisprudenza parlamentare. Particolarmente nelle quistioni regolamentari della Camera egli è competentissimo. Forse sa il regolamento meglio dello stesso Presidente.

Come scrittore, l'on. Lazzaro era già noto prima del 1860

per la Storia della Compagnia delle Indie e per la Storia della quistione d'Oriente. Scrisse nel 1861 la vita di Pietro Colletta e quella di Liborio Romano, facendosi ammirare per robustezza di concetti e per tacitiana brevità. Pochi anni appresso, cominciò una pubblicazione importantissima, che, però, non ha più continuata. Fondandosi sovra documenti fornitigli dal venerando patriota Carminantonio Forte e sovra altri da lui raccolti, il Lazzaro pubblicò il primo volume delle Memorie sulla rivoluzione dell' Italia meridionale. Il periodo di tempo, contemplato da questo volume, va dal 1848 al 1858.

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Dopo averlo letto si deve convenire che la narrazione del Lazzaro, per ricchezza di notizie inedite, supera tutte le narrazioni analoghe stampatesi dal 1860 finoggi. L'autore ha, però, un gravissimo torto: il torto di non aver proseguito l'importante pubblicazione. Le miserie politiche gli hanno fatto dimenticare i suoi doveri di patriota e di storico. Lazzaro non è uno scrittore elegante; ma è efficace, chiaro, incisivo. Non è spiritoso; ma è quasi sempre elevato nei concetti. Oggi, pur continuando ad essere l'ispiratore del Roma, non vi scrive più, come prima, articoli di fondo. Finché visse Medoro Savini, Lazzaro lasciò al simpatico romanziere la cura di scrivere il leading-artìcle. Così, mentre faceva una buona azione, perché dava a vivere al povero Savini, rendeva anche un utile servigio al giornale. Difatti il Savini divenne il giornalista alla moda fra le file della bassa borghesia e di quella categoria della classe operaia che con l'art. 100 ebbe la laurea elettorale. Il buon Medoro popolarizzò la politica estera fra i bottegai, i commercianti e i professionisti mancanti di coltura generale. Egli, coi suoi articoli di romanzo, e Mastriani coi suoi romanzi di cronaca, fecero la fortuna del Roma.

Pubblicista fortunato quanto il Lazzaro è stato il Comin. Quegli è oriundo svizzero. Questi è di razza ebrea, ma è nato a Padova. Dopo aver combattuto, come volontario, nel 1859, venne a Napoli nel 1860. in compagnia di suo cognato Leone Fortis. Fortis, che aveva già fondato il Pungevo milanese, volle che il diario ambrosiano avesse un fratello cadetto in Napoli. Fondò, quindi, il Pungolo napoletano. Rimanendone proprietario, lo affidò alle cure di Comin, e si ritirò a Milano. I due giornali dovevano appoggiare la politica governativa di Destra.

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Però quello di Napoli doveva mostrarsi meno bouledogue, considerato l'umore anticonsortesco dei meridionali. Il Pungolo, nel 1860, era di proporzioni microscopiche. Incontrò buona fortuna. Comin capì che la fortuna proveniva dalle staffilate, che, spesso spesso, si permetteva di regalare ai moderati; perciò cercò di dare al periodico un colore sempre più di opposizione. Infine, non potendo più andar di accordo col cognato, comprò la proprietà del giornale. Divenuto interamente organo di Sinistra, il Pungolo acquistò il primato fra tutti i giornali del Mezzogiorno, e bene a ragione il Galati scrisse in uno dei suoi pregevoli lavori non esservi meridionale che vada a dormire la sera senza prima aver dato uno sguardo al giornale di Comin. In altri termini, ogni buon napoletano non va a letto senza aver fatto idem del Pungolo.

Oggi, a dire una varietà approssimativa, il Pungolo non è più nella sua parabola ascendente. Però fuvvi tempo in cui quel periodico andava a ruba. Allorché Rattazzi venne per la seconda volta al Governo (1867). il Pungolo diventò un organo ufficioso, sicché aveva, in anticipazione, comunicazioni e notizie dai vani dicasteri. Si aggiunga che la moglie di Rattazzi spediva al giornale interessantissime corrispondenze parigine, Asproni gli scriveva le lettere dalla capitale, e Petruccelli mandavagli i suoi soliti articoli brillanti e paradossali. Fu quella l'epoca d'oro del diario napoletano.

Comin pubblicista non ha la coltura vasta né la forma artistica di De Zerbi, non l'humour di Petruccelli, né, infine, la verve di Colautti. In compenso, predomina nei suoi articoli l'argomentazione sottile.

256 CAPO TERZO

E un po' monotono nei concetti che ripete con le stesse parole, ma, appunto per ciò, riesce più efficace. Dotato di squisitissimo senso di patriottismo, egli riversa da un lustro a questa parte, nei suoi articoli, la generosa bile in lui suscitata dalle prepotenze della Francia. È un gallofobo appassionato — e questa gallofobia, che oggi trova eco nei cuori degli italiani, e particolarmente dei meridionali, è, forse, la principale causa che ha impedito al Pungolo di rimanere schiacciato dalla concorrenza di altri giornali.

Comin non è un uomo parlamentare. Come Lazzaro, egli non è un oratore; ma, a differenza di Lazzaro, non è neanche un lavoratore. E uomo di azione più che di studio. Politicamente, aderisce al Cairoli, del quale è entusiasta. Nella sua vita travagliata, Comin ha sofferto molti dolori, ma ha goduto pure meritate soddisfazioni; e i suoi fedeli elettori di Caserta, malgrado le arti degli avversari, gli hanno costantemente confermata la loro fiducia. Ardente, attivo, coraggioso, egli non ha esitato ad esporre la sua vita anche quando poteva, senza che la sua dignità ne rimanesse intaccata, far lo gnorri. Così, molti anni fa, in una polemica fra un redattore del suo giornale e un altro pubblicista, Comin, nella qualità di direttore, volle, ad ogni costo, far risalire fino alla sua persona la responsabilità dell'articolo. Furono inutili le pratiche degli amici. Si volle battere in un duello, e fu ferito gravemente alla gamba destra.

Comin e Lazzaro sembrano alquanto annoiati. E ciò è un male. Sono due onorati militi della stampa italiana che si ostracizzano da loro stessi. E quel che è peggio, si ostracizzano senza aver creata una scuola di pubblicisti. Non lasciano eredi.

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Egoisti e riservati verso gli esordienti, non hanno mai incoraggiato quei giovani che nel giornalismo intendevano farsi strada. A Napoli a due soli soldati della penna spetta il vanto di aver fatto scuola: Martino Cafìero e Rocco De Zerbi. Cafiero creò reporter, cronisti e novellieri. De Zerbi, col Piccolo, ha creato pubblicisti.

Due onorevoli che io avrei dovuto porre sui banchi dell'Estrema Sinistra, ma che possono ugualmente, e senza scandalo, restare su quelli della Sinistra pura e semplice, sono Augusto Elia e Raffaello Giovagnoli. L'Elia, nato in Ancona, non ha niente del profeta. Piuttosto che pregare Dio. ha, a suo tempo, preferito di menar le mani per la libertà italiana. Seguì Garibaldi nel 1860. e a Calatafimi fu ferito alla bocca. Dirige una Compagnia di Navigazione. La politica non è per lui. Un altro che temporibus illis. trovò melodiosa la musica del cannone, è l'on. Giovagnoli. Nacque in Roma, e lo spettacolo nauseante del governo pretesco gli fece molto presto vagheggiare una diversa forma di Governo. Si esiliò volontariamente. Nel 1859 fu tra i Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 fece la campagna garibaldina di Sicilia e di Napoli. Col grado di tenente, se non erro, fu ammesso nell'esercito regolare italiano. Prestando servizio nella divisione Cugiat prese parte all'infausta giornata di Custoza. L'anno seguente, uscì dall'esercito, e corse a mettersi tra i soldati di Garibaldi che avevano varcato il confine romano. Combattette a Mentana.

258 CAPO TERZO

Dopo tutta questa serie di battaglie era lecito aspettarsi dall'on. Giovagnoli un libro sull'arte della guerra. Invece ne avemmo romanzi, drammi e articoli di giornali. Spartaco, Plautilla, Faustina, Marozia, Un angelo a casa del diavolo levarono non poco rumore, e, se non dettero gloria all'autore, gli fecero nome. Dimenticavo però un dramma: La vedova di Putifarre; e un libro di critica spicciola e giornalistica, intitolato: Le memorie di un brontolone. Il giornalismo politico ha avuto pure il Giovagnoli fra i suoi militi. Giovagnoli fu tra i fondatori e direttori del Capitan Fracassa, dopo aver scritto nello Spirito folletto. Ho inteso dire che sia suo i profilo che del Crispi pubblicò questo giornale e che io ho già riprodotto.

Il conte Antonio D'Arco è un altro deputato che, un paio di anni fa, io avrei senza dubbio classificato fra gli egregi componenti dell'estrema Sinistra. Oggi, invece, io debbo confonderlo coll'esercito della Sinistra, poiché, a quanto pare, i sentimenti del nobile mantovano si sono resi più benevoli verso la monarchia. D'Arco è un tipo simpaticissimo. Sul principio pareva che volesse pigliar parte attiva alle lotte parlamentari. Esordì bene, e piacque immensamente come oratore. La nobiltà dei natali, la coltura della mente e i principii di radicalismo non disgiunto dalla cortesia delle maniere lo destinavano ad occupare fra i radicali lombardi il posto che oggi tiene il conte Ferrari fra i radicali romagnoli. Invece egli si è al quanto eclissato. Giovane e coraggioso, egli manifestò la tempra eroica del suo animo in occasione delle inondazioni del Po nel 1879. Per aiutare i miseri che stavano per annegarsi, egli non badò al suo pericolo personale. A coloro che tentarono distoglierlo dal suo proposito rispose:

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«Nulla importa il morire; coraggio e forza; figliuoli, tentiamo salvare i nostri fratelli.»

E da augurarsi che il conte D'Arco non vorrà venir meno alle speranze fatte concepire sul suo conto.

La Liguria e il Salernitano danno rispettivamente col Berio e col Florenzano esempi insuperabili di attività fenomenale; Berio, avvocato distinto, non sta alla Camera che dal 1880, ma da un bel pezzo ha raggiunto una posizione parlamentare invidiabile. Particolarmente nelle questioni di pubblica istruzione, egli è di una competenza incontestabile. Come relatore della legge sull'autonomia delle università, Berio si distinse sommamente, poiché tenne testa nientemeno che al Bonghi. Se il Crispi avesse voluto far cosa giusta, avrebbe dovuto offrire a lui, anziché a Boselli, il portafogli dell'istruzione pubblica — tanto più che il Berio era stato un seguace fedele della Pentarchia.

Attivo quanto il Berio è l'on. Florenzano. Nacque questi a Salerno nel 1842. Suo padre, un distinto medico, lo pose a studiare nel collegio di Montecassino. Uscito dal collegio, il giovane venne a Napoli per farvi gli studi legali. Si laureò in legge nel 1862, e fece la pratica con Pessina. Oggi, è uno dei più distinti avvocati del foro napoletano; però, essendo di condizione economica molto agiata, esercita poco la professione. Trascurando i suoi privati interessi, egli preferisce dedicarsi alla cosa pubblica. Sala Consilina gli deve la sua Banca popolare. Napoli gli è debitrice di una Scuola di lavoro (nell'exconvento di Sant'Antonio di Tarsia), che finora ha dato ottimi frutti nell'interesse dell'educazione popolare. Spinto dalla nobile ambizione di servire il paese, il Florenzano picchiò alle porte della Camera fin dal 1870; ma l'invidia dei suoi nemici non gli permise di sedere a Montecitorio prima del 1886.

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Rileggendo ora il programma elettorale, con cui il Florenzano presentavasi nel 1870, non si può non ammirarne la giustezza delle idee, né si può nascondere un sentimento di meraviglia per la costanza con cui l'on. deputato di Salerno ha persistito nei suoi principii. Sono queste delle melanconie politiche che, ai giorni nostri, non fanno bene a chi vuole andare innanzi.

Gli scritti di Florenzano sono molti, e quasi tutti pregevoli; qualcuno rasenta il capolavoro. Io alludo al libro sull'emigrazione, pubblicato nel 1874. E un libro classico dove l'erudizione si sposa all'assennatezza dei consigli, e si veste di una forma chiara ed elegante. Florenzano parla come scrive. Ha la parola rapida, calda, fluente, sebbene un po' enfatica. Alla Camera il suo debutto fu felicissimo. La buona impressione oratoria fu confermata dal discorso sul riordinamento dei tributi locali.

Non ostante il suo valore, Florenzano è stato per parecchio tempo en butte alle censure di tutti i critici au coeur léger. Poeta facile e felice, una volta commise il grave reato d'improvvisare alcuni versi che, se non peccavano contro la metrica, peccavano contro la logica. L'Italia fu messa a rumore! Alcuni credettero posto in pericolo da quei versi l'ordine cosmico! Il baccano fu indecente. Gl'invidiosi soffiarono nel fuoco. Per molti anni Florenzano non poté aprir bocca senza sentirsi ricordare quel famoso aborto poetico. La gente seria naturalmente non si mischiò mai in quell'orgia scandalosa. Ma essa era minoranza, e naturalmente dovette attendere che la parabola fosse descritta.

261 COLORI E VALORI

Il giorno della riabilitazione spuntò finalmente per Florenzano, quantunque avesse fatto un ritardo non indifferente.

Come uomo l'on. Florenzano potrebbe pigliarsi a modello. È di una integrità straordinaria. Il suo difetto — difetto grave — è la vanità. Se fosse meno vano, l'on. Florenzano terrebbe minor numero di nemici. Ad onta di ciò, egli salirà ugualmente in alto. Di coltura polilaterale, particolarmente nelle questioni di statistica e di amministrazione, alla Camera è già ritenuto come un elemento utile.

Un giovane di valore eccezionale, sebbene non sia stoffa di uomo politico, è l'on. Ellena. Nato a Sa luzzo nel 1844, Ellena entrò come impiegato nel Ministero di agricoltura e commercio. A grado a grado, giunse fino a quello di capodivisione. Fece, quindi, passaggio al Ministero delle finanze, in cui ottenne il posto di direttore generale delle gabelle. Il Governo gli affidò varii incarichi speciali. Nel 1873 andò come commissario italiano all'Esposizione di Vienna. Nel 1885 fece parte della Commissione perla convenzione monetaria. Durante le interminabili trattative italo francesi per la proroga del vecchio trattato di commercio e per la conchiusione del nuovo, Ellena fece spesso il viaggio da Roma a Parigi. Vide, conferì, riferì. I suoi consigli furono quasi sempre seguiti. Nel 1887 Ellena ebbe la successione di Guicciardini, cioè il segretariato generale dell'agricoltura e commercio.

Illustri avvocati sono il Nanni e il Panattoni: mail primo è esclusivamente penalista, il secondo coltiva con successo il ramo civile e il ramo penale. Nanni, calabrese, è indolente.

262 CAPO TERZO

Tipo di onestà e di fierezza, egli non si è mai abbassato ad invocare, con umile fronte, il suffragio degli elettori. Consapevole del suo merito e sicuro di poter onorare il collegio, ha disdegnato sempre d'imitare quei candidati, che, obliando ogni senso di dignità, si affrettano a stringere la mano al becchino e al beccaio. Nanni fa la politica contro i suoi desiderii. Sarebbe lieto, se gli elettori non pensassero più ad annoiarlo coi loro voti. Amante della vita comoda e quieta, egli non va che raramente a Roma. Divide il suo tempo fra la professione e la compagnia serale degli amici. E un accanito giocatore alle carte. Dotato di calda eloquenza, quantunque di non molta coltura giuridica, egli è il primo avvocato del foro penale di Reggio Calabria. Alla Camera, se avesse voluto, avrebbe potuto prendere un posto importante fra gli oratori. Certo è che, quando ha parlato, si è fatto ascoltare con simpatia e rispetto.

Nel 1879, nella discussione sul progetto del nuovo Codice penale, prese frequentemente la parola, A pròposito della prescrizione dell'azione penale, parlò con senno, e non ritirò un emendamento da lui presentato per migliorare la dizione di un articolo, se non quando il relatore Pessina e il ministro Mancini gli dimostrarono, con discorsi piuttosto lunghi, che in fondo erano di accordo con lui. Propose, inoltre, che si distinguessero, per le conseguenze della prescrizione penale, i reati di azione pubblica da quelli di azione privata. Per questi ultimi voleva, a norma del Codice germanico e del progetto del nuovo Codice olandese, che la prescrizione fosse di tre mesi indistintamente.

263  COLORI E VALORI

Egli svolse questa idea con acume e sagacia, e il relatore, pur non accettandola, l'encomiò molto. I discorsi di Nanni sono semplici, chiari, brevi e pieni di buon senso. Non fronzoli letterari, non fioriture retoriche, non sfoggio di erudizione giuridica.

Panattoni, a differenza di Nanni, è pieno di attività. Le occupazioni forensi non gli lasciano trascurare quelle parlamentari. Alla Camera lavora e parla.

E oratore eloquente ed imponente, saturo di nobiltà,, esuberante di slancio. Egli è figlio di un altro famoso avvocato per cui a Firenze ripetevasi:

Finché vive il Panattoni

La galera è pei c...

Sull'on. Brin io non posso fermarmi a lungo. Egli è un valore extraparlamentare. Nato a Torino nel 1833, si laureò in ingegneria. Entrato nel genio navale vi brillò per l'ingegno originale di costruttore. . SaintBon, ministro della marina, l'utilizzò. Nel 1876 Brin ne raccoglieva la successione. Al varo del Duilior avvenuto nello stesso anno, Brin fu il ministro piti festeggiato. Allora non aveva che quarantatre anni, e la giovinezza allietata dal sorriso della gloria lo rendeva più caro e simpatico. Oggi — pur troppo! ha percorso anche lui la sua parabola. Il palato democratico di Sua Maestà il Popolo si è nauseato del piatto Brin. Vuole variare. V'è di più. Quel SaintBon, che fece un tempo la fortuna di Brin, ora è il più fiero nemico del suo antico subordinato. Brin, ingegnere, non è per lui che un ammiraglio di terra. Questa disistima è divisa da una buona parte degli ufficiali naviganti. Lo scisma sta nella regia marina. La gelosia non è più fra i sardi e i napoletani, ma tra l'elemento costruttore e l'elemento navigante.

264 CAPO TERZO

Non è più un astio di regioni, è una bizza di classi. Sarà Brin immolato sull'altare della Concordia? E ciò che si vedrà fra breve. Ma, checché dovrà succedere, nessuno al mondo potrà togliere all'attuale ministro della marina il gran merito di aver messo l'armata italiana a livello delle prime armate del mondo. Le grandi costruzioni navali, che attualmente sono in nostro possesso, anche quando non potessero per molto altro tempo rimanere come il non plus ultra della perfezione offensiva e difensiva, resterebbero sempre come ricordi imperituri di un atto ardito compiuto da un nostro concittadino; Tatto politico di avere, di un tratto, sollevata la nostra armata, discesa al livello della flotta greca, fino, all'altezza della flotta britannica.

Io dovrei, ora, spendere qualche parola su parecchi altri onorevoli deputati meritevoli di entrare in questa rubrica, come il Buonomo, il Lanzara, il Nocito; ma la tirannia dello spazio me lo vieta. Sarà per un'altra volta. Menzionerò solamente l'on. Gerardi, segretario generale del Ministero delle finanze. Gerardi spiegò il suo valore nella discussione della legge sul notariato, e molto più, in quella della perequazione fondiaria. Messedaglia, sentendolo parlare, ne rimase meravigliato. Gerardi è, forse, Punico esempio di un notaio salito ad un posto eminente nella politica.

265 COLORI E VALORI

§ 6. I Militi.

Sommario. — I deputati della Madonna di Pompei — Marco Rocco — L'on. Della Rocca — La stanza rivoluzionaria — La stanza clericale — L'on. Trinchera — Michele Capozzi — Avvocati napoletani — Placido — Simeoni — De Bernardis — Giovani e vecchi — Nobiltà siciliana — Rassegna a vol d'uccello — Magistrati deputati.

 

Un mio egregio amico, abbastanza melanconico, ha da un pezzo una strana fissazione: egli sostiene che, fra due o tre anni, avremo alla Camera un nuovo gruppo di onorevoli; gruppo che con una bandiera nuova, quantunque con soldati vecchi, dovrebbe provocare la divisione non oscura e non imprecisa dei partiti. Curioso! Questo gruppo dovrebbe intitolarsi dalla Madonna di Pompei. Perché lo strano titolo si renda meno incomprensibile, non bisogna posporre che a valle di Pompei, grazie alla fervida fede dell'avvocato Bartolo Longo, esiste da una decina di anni una chiesa, non completata né da completarsi, destinata alla Vergine. Don Bartolo, molto diverso dal celebre omonimo cantato da. Rossini, domanda sempre oblazioni dai fedeli; ma, viceversa, non si cura. di porre termine alla casa divina: invece, impianta una tipografia, fonda un asilo infantile, ecc. Tutto ciò è polvere negli occhi per giustificare ai medesimi della gente il ritardo turco nell'edificazione dell'eterna chiesa. Ciò non pertanto, il favore del pubblico verso l'incompleto Santuario cresce di giorno in giorno; e cresce, perché la Madonna di Pompei fa dei miracoli. Lo attestano varii rappresentanti del Parlamento.

266 CAPO TERZO

Senza accennare all'exdeputato Brunetti, ecco qui una lettera dell'on. Marco Rocco, deputato della seconda circoscrizione di Napoli.

Ragguardevole avv. sig. Bartolo Longo,

«Ancora una grazia della Santissima Vergine di Pompei! Mia moglie Concetta di Santo, affetta da penosissima e pericolosa malattia, essendo ricorsa con fiducia alla Madonna del Santissimo Rosario, otteneva in breve tempo la completa guarigione. Col cuore pieno di riconoscenza, mia moglie ed io teniamo a pubblicare nel suo periodico i sentimenti più vivi di perenne gratitudine per questa speciale grazia ricevuta dalla Santissima Vergine.

«Colgo l'occasione per esternarle i sensi della mia più profonda e sincera stima.

«Napoli, 25 giugno 1888.

Di Lei Devotissimo

Marco Rocco

Deputato al Parlamento.»

Richel. della Tribuna, che non vuol farsi mai i fatti suoi, letta l'epistola rocchiana, scrisse:

«Senza commenti!...

«Questi li lascio agli elettori del reverendo Marco Rocco, alla prossima occasione.»

Vedete che maligno! Ma sentite un po' la dura lezione che ricevette. Marco, offeso più che mai e ferocemente sdegnato, gli mandò, due giorni dopo, non un cartello di sfida, ma una busta con la relativa lettera. La lettera è la seguente:

267 COLORI E VALORI

Egregio sig. Direttore,

«Dal giornale la Tribuna, del 5 volgente, al quale, per ignota ragione, non è mai simpatizzato il mio carattere fermo e leale, vien riportata una mia lettera contenente attestato di una grazia ricevuta dalla Madonna di Valle Pompei.

«Nel mentre ringrazio la Tribuna di aver eseguito il mio volere nel dare pubblicità a tale mio attestato, deploro come un giornale serio possa credere di far dello spirito, chiamando Reverendo chi abbia oggi il coraggio civile, e la Dio mercé, non è il solo, anche fra i deputati, di dichiararsi credente nell'antica fede religiosa della gran parte del popolo italiano.

«Sappia la Tribuna, che i migliori patrioti ed i più sinceri amici dell'Italia nostra sono quelli che non arrossiscono di affermare pubblicamente e disinteressatamente la necessità della conservazione dei principii religiosi del nostro paese, e fra costoro mi onoro annoverarmi anch'io.

«Mi creda

Di Lei Devotissimo Marco Rocco Deputato al Parlamento.»

Che l'on. Marco Rocco sarebbe un sicuro componente del possibile gruppo dei deputati della Madonna Pompeiana non è più lecito di mettere nell'incertezza. Egli stesso si dichiara tanto devoto! Fin qui nulla di male. Il male comincia dal momento che, non contenti di un Rocco, si tenta di ficcare nella medesima categoria un Della Rocca. Giovanni Della Rocca, nato a Gragnano nel 1839, è stato, per molto tempo, il beniamino di Crispi, che venuto al potere nel 1887, lo scelse a segretario generale del Ministero dell'interno.

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Da questo posto si dimise dopo essersi avveduto che il ministro non ne rispettava abbastanza l'amor proprio. Fece bene. Era stato già segretario generale alla grazia e giustizia, prima col Mancini, poi col Conforti, e si era distinto per l'energia con la quale aveva colpito qualche alto papavero burocratico. Nel 1867, mentre si faceva la spedizione di Mentana, egli aveva esercitato l'uffizio di segretario del comitato di Napoli. Ora, con questi precedenti, è permesso ammettere come simile al vero che il Della Rocca sia diventato uno dei devoti della Madonna di Pompei? I maligni si pregiano di ricordarmi il fascicolo quinto del quarto anno (maggio 1887) del periodico intitolato: Il Rosario e la Nuova Pompei: nel quale si contiene il seguente pensiero:

«Della nuova Pompei può ben dirsi: Si nunc in viridi, quid in sua magnitudine???

Essa, percorrendo la parabola testé iniziata, assorgerà al fastigio del verace culto intrecciato alla prodigiosa filantropia cristiana!

Giovanni Della Rocca

Deputato al Parlamento.»

I maligni soggiungono ancora che Don Bartolo Longo tenga sempre apparecchiata nell’edifizio annesso alla Chiesa una stanza pel commendatore.

Questo può essere soltanto una sfumatura di cortesia bartoliana — secondo me.

269 COLORI E VALORI

Però il Corriere di Napoli, di parecchi mesi fa, parlando del caràttere dell'ex-segretario generale, ne metteva in dubbio la sincerità del liberalismo, e citava come prova l'esistenza di due stanze, nella casa del Della Rocca, addobbate l'una con ricordi e ninnoli rivoluzionari, l'altra con immagini e reliquie religiose. Secondo il giornale napoletano, il Della Rocca avrebbe, in questa maniera, sciolto il problema di rendersi gradito ai liberali e ai clericali. Francamente, di fronte a tali voci e a qualche fatto di ambigua interpretazione, l'animo resta dubbioso, e sarebbe desiderabile che l'on. Della Rocca facesse cessare l'equivoco.

Una cosa ancor più strana si è che dalla famosa Madonna di Pompei quel mio amico melanconico, che con piacere ho abbandonato al principio di questo paragrafo, vorrebbe ritener devoto anche l'on. Trinchera. Trinchera, che è un deputato di discreto ingegno e di non piccola coltura; è stato uno dei più feroci credenti della Pentarchia. Nemico acerrimo dell'on. Depretis, egli si spinse sino al punto di portare in Corte le querimonie della Camera. La sorte lo aveva destinato a far parte della Commissione di deputati incaricati di portare al Re, in occasione del Capo d'anno, gli auguri dell'Assemblea popolare. Trinchera profittò dell'incontro forzoso con Sua Maestà per manifestare i suoi sentimenti di avversione verso Depretis che allora stava al Governo. vuolsi che il Re, indignato, passasse oltre senza rispondergli. Dopo quest'inventario così ferocemente liberale, si stenta a credere come dal vero non dissimile quel che si legge nell'anno III, fascicolo Vili del sovra biasimato giornale Il Rosario e la Nuova Pompei. Io riporto integralmente le parole del bartoliano periodico, senza permettermi osservazioni o commenti.

270 CAPO TERZO

«Un altro deputato riconoscente. — Chi è cattolico verace, cioè osservatore perfetto del Vangelo, ed ama il prossimo suo come sé stesso, ama la salvezza degli altri come dell'anima propria, e brama che Gesù Cristo sia da tutti conosciuto ed adorato, godrà certamente del gaudio, che noi sovente abbiamo, di vedere ai piedi della bella Regina di Pompei uomini di ogni stato e di ogni gradazione politica, che vengono dalla Provvidenza mandati senza nostra saputa. Ecco un altro fatto recentissimo. Mercoledì, 4 di agosto 1886, ci perveniva da Napoli il seguente telegramma:

«All'avv. Bartolo Longo, Valle di Pompei. — Domani, ore 9 a. m., sarò Valle Pompei con la mia famiglia. Interesso sua cortesia farmi trovare sacerdote che possa celebrare messa secondo intenzione mia signora. — Francesco Trinchera.»

«Era, dunque, l'onorevole deputato del primo collegio di Lecce, della nostra infelice Latiano, il commendatore Francesco Trinchera, che ci annunziava volere, per la prima volta, visitare la Nuova Pompei cristiana, e vi giungeva per santo scopo: la sua buona consorte veniva a ringraziare la SS. Vergine per ricuperata sanità. Difatti, il mattino di giovedì, 5 di agosto, erano ai piedi dell'altare di Maria, l'onorevole deputato Trinchera con la sua famiglia. E poi che ebbero ascoltata la messa, adempimmo il nostro dovere di accompagnarli a visitare le opere di arte e di beneficenza.

«Da per tutto ebbe parole di lode e di incoraggiamento, domandò dell'architetto Rispoli, volle vedere il quadro del Maldarelli, conobbe il cav. Palliotti che già dipingeva la volta della Sacrestia:

271 COLORI E VALORI

ed espresse il suo stupore nel vedere una tipografia impiantata con tutta regola, con due macchine e con lusso di caratteri; ma quando giunse nel nascente asilo infantile, e vide nelle cinquanta bambine pompeiane, che abbiamo raccolte, l'antico tipo pompeiano, che tuttora si riscontra nei dipinti dell'antica Pompei, fu colto dalla più piacevole impressione. Meraviglioso disegno di Dio sulla Nuova Pompei! L'onorevole deputato comm. Trinchera ci manifestava di saper grado all'Ecc. Arcivescovo di Brindisi, monsignor Aguilar, della ventura di aver avuto notizia di questa Chiesa, e di avere avuto la sua consorte il consiglio di votarsi alla Regina del Rosario di Pompei.

L'ultimo degli onorevoli adepti della Madonna di Pompei sarebbe il deputato Capozzi. Nella Lega del Bene (anno III, n. 27) trovo il prezioso certificato, non medico, che qui riporto:

«Sempre a gloria di Dio e della Vergine Santissima si dichiara: che nello scorcio dello scorso dicembre, in Salza Irpina (Provincia e diocesi di Avellino) la signora Giuseppina Capozzi era affetta da gravissima infermità puerperale. Nel dì 27 dicembre (1887), le Figlie della carità di Avellino, presso il letto dell'inferma, implorarono e fecero implorare la grazia della miracolosissima Vergine di Pompei. Dopo qualche ora, l'inferma, destatasi, disse agli astanti che la Vergine aveva fatta la grazia, e contemporaneamente suonarono spontaneamente i campanelli di casa.

«La migliorìa progredì, e la inferma è sana.»

Fra i firmatari del certificato vedesi il nome dell'on. Capozzi La Lega del Bene faceva seguire questa breve notizia:

272 CAPO TERZO

Il 27 del passato marzo, l'egregio patriota si recava al Santuario della Madonna di Pompei a ringraziare la Vergine, e vi lasciava una lampada di argento.

Lasciamo ora la Chiesa e entriamo in Tribunale. Placido, Simeoni e De Bernardis sono tre distinti avvocati del Foro napoletano, ma tutti e tre non considerano la deputazione che come un mezzo per accrescere la loro influenza di avvocato. Placido, esclusivamente penalista, raggiunse, di un tratto, la celebrità nel processo Daniele. È un parlatore facile ed efficace, fornito del dono della misura e d'invidiabile colpo d'occhio. Però non ha grazia né sentimento di arte. Brutto di aspetto, volgare e rozzo, egli ha una voce piatta e schiacciata. Antipatico alla gente colta, è l'idolo della plebe e della bassa borghesia. Alla Camera fa, di tanto in tanto, qualche interrogazione nell'interesse degli elettori.

Parlatori rapidi e piacevoli sono gli on. Simeoni e De Bernardis. Il primo, particolarmente, ha la parola tanto celere da permettere un paragone un po' truce; il paragone con la carrucola. E carrucola appunto il Simeoni era chiamato dal barone Giacomo Savarese. Valente tanto nella parte civile quanto nella parte penale, Simeoni è il tipo del paglietta. Nelle cause non vede che il lato monetario, il compenso vistoso: la quistione di diritto gì'importa poco. Oggi può sostenere una tesi; domani, sosterrà la tesi contraria. Alla Camera va per votare. Non lavora negli uffici né parla spesso nella pubblica discussione. Quando si discusse il nuovo Codice penale, Simeoni, per darsi il lusso di un discorso durato due giorni, cominciò a parlare ad ora tarda, e poi subito chiese al Presidente di poter continuare l'arringa l'indomani.

273 COLORI E VALORI

Svelto e simpatico come il Simeoni è l'on. De Bernardis. Egli ha tutte le doti dell'oratore forense e quasi tutte quelle dell'oratore politico. Alla Camera esordì bene. La bella persona, la parola dolce e gratamente lusingatrice dell'orecchio, la sottigliezza dell’argomentazione, la prontezza della percezione, il sangue freddo, il calore del débit a tempo e a luogo, e l'eleganza della forma fanno del De Bernardis un oratore seducente. Se il giovine deputato avesse maggiore coltura politica, potrebbe diventare un oratore parlamentare horsligne. Ma, infiorata la vittima, io devo immolarla. Sì, l'on. De Bernardis, con tante doti d'ingegno e di parola, è un esempio rattristante del girellismo contemporaneo. Già avversario accanito, quasi nemico, di Sandonato e della Sinistra, cambiò fede la vigilia delle elezioni generali del 1886. Dopo aver rappresentato una gran parte nell'opposizione al sandonatismo, egli umilmente piegò la fronte e implorò perdono. La trasformazione inaspettata destò scandalo. De Bernardis era socio dell'Associazione costituzionale. Il Consiglio direttivo ne propose la radiazione dai ruoli del Circolo.

All'opposto, noi abbiamo in alcuni onorevoli dal bianco crine nobili esempi di costanza instancabile nei principii una volta abbracciati. Cito, per brevità, gii on. Carrelli e Vollaro. Del primo scrisse Telesforo Sarti:Ha militato e milita nelle file della Sinistra, ed è uomo fornito di molti pregi morali e d'ingegno: alla Camera tiene un contegno riservato e modesto, ne si gitta a capo morto nelle aspre e spesso infeconde lotte parlamentari.»

274

Io aggiungo che l'on. Carrelli è un modello d'integrità. Indole affatto diversa per ciò che riguarda il calore dell'anima, è il Vollaro. La lotta lo seduce, lo ammalia. Pei suoi sentimenti liberali al tempo dei Borboni, fu costretto ad esulare. Andò a pigliar terra nientemeno che in Egitto. Dopo il 1860, sedette al Parlamento italiano, e fu tra i più tenaci avversari della Destra. Si distinse sempre pel suo temperamento vivace ed eccessivo. Egli può vantarsi di aver spesso richiamato su di sé l'attenzione censoria del Presidente. Una volta fece ridere di tutto cuore l'intera Camera, perché obliando le condizioni del suo crine, si permise di dire, mentre andava in bestia, che gli avversari ve lo tiravano proprio pei capelli. Ma se non ne ha!— interruppe un onorevole di spirito — e l'Assemblea a ridere come in carnevale. Vollaro, pochi anni or sono, per dispiaceri domestici, perdette il senno, e tentò suicidarsi. Fortunatamente guarì della pazzia e della ferita.

Un altro vecchio parlamentare, rappresentante di un collegio ligure, è l'on. Luigi Emanuele Farina. Non è un esempio di fermezza di carattere. Prima era di Destra; poi, passò a Sinistra. Ha conosciuto ed avvicinato parecchi grandi uomini della nostra rivoluzione. Però la sua celebrità è dovuta piuttosto alla reclame originale che usa fare nel periodo delle elezioni generali. Una volta che le lotte elettorali si combattettero nella stagione invernale, l'on. Farina ebbe un pensiero geniale. Supponendo l'eventualità della pioggia proprio nel gran giorno delle elezioni, fece distribuire agli elettori un ombrello per ciascuno. In un'altra occasione la reclame fu più appetitosa ed americana.

275

Farina fece uscire per le vie della frazione principale del collegio un porco canonicale, e alla coda del vezzoso animaletto legò un manifesto col seguente avviso: Chi per Farina voterà, di questo porco manderà.

Molti egregi giovani parlamentari conta la Sinistra fra le sue file: Colaianni. Di Breganze, Gallo meriterebbero particolar menzione. Il più giovane tra i deputati napoletani è l'on. Flauti. Flauti è anch'egli un liberale dell'ultima ora. Ha ingegno vivace e una certa coltura, e — cosa non tanto frequente fra gli onorevoli — scrive con perfetta eleganza la lingua italiana. La sua nota caratteristica è di saper trovare, nei suoi biglietti e nelle sue lettere di raccomandazione. mille espressioni diverse a prò degli elettori. Speriamo che vorrà acquistare una qualità peculiare alquanto più seria, Nipote di un illustre matematico e genero del Bonghi, egli dovrebbe pensare a fare qualche cosa di meglio del meschino servizio di reportage fra il collegio e il Ministero.

Giuseppe De Simone, che fa parte della sezione letteraria della Camera, è un altro giovane deputato che, forse, non si limiterà a rimanere un muto spettatore. Mostrò i suoi principi! liberali fin dal 1860, quand'era uffiziale di guardia nazionale. Come sindaco di Torà si procurò maggiormente l'odio dei preti. Per un opuscolo anticlericale fu scomunicato. Invano invocò nel 74, nel 76, nell'80 e nell’82 il suffragio degli elettori. Tinto o tradito, rimase sempre sul terreno.

276 CAPO TERZO

Non fu che nel 1886 che le porte di Montecitorio gli vennero aperte. De Simone non è uscito mai dal tempio della Sinistra; tuttavia ha tentato una volta d'introdurre una riforma nella religione stradellina. Nel periodo 187880, egli vagheggiò un matrimonio di amore fra gli elementi sentimentali della Destra e gli elementi ragionevoli della Sinistra. Il leader del nuovo partito doveva essere il Cairoli. La riforma sfumò.

Letterato colto e scrittore elegante, l'on. De Simone è anche un poeta gentile. Quand'era studente, dilettavasi di scrivere versi alla Giusti. Alto della persona, con barba rossocastagnina, lunga e intera, che gli arriva fino alla metà del petto, De Simone è un simpatico uomo. Il suo carattere è fiero e nobile; il suo cuore, tenero e gentile. Ricco di famiglia, egli, se vuole, può dedicarsi esclusivamente alla vita politica. Dopo l'ingiusto, e speriamo temporaneo, ostracismo dato al Broccoli, la provincia di Caserta non ha che il De Renzis e il De Simone che possano chiamarsi uomini politici per inclinazione di animo.

Una schiera di avvocati come quella che segue, sarebbe capace, co' rispettivi ed onorevoli scilinguagnoli di occupare tutto il resto del volume. Io, però, con la mia umile penna, non posso accordar loro che una sola pagina o poco più. Di Pisa, già volontario garibaldino ad Aspromonte, e Fili Astolfone, ex-magistrato, sono due figure modeste nel Foro e in Parlamento. Puglia è un avvocato di merito. Cuccia ha fatto buona figura col recente discorso contro la Cassazione unica. Antonio Rinaldi, scrittore di profonde opere giuridiche, parlatore chiaro ed efficace, è stoffa di giureconsulto.

277 COLORI E VALORI

Zeppa e Balestra, entrambi romani, sono parlatori felici. Balestra si distinse molto nella discussione della legge sulla conservazione dei monumenti. Egli rivelò molta erudizione artistica. Avvocato è pure il Bonacci, genero di Mancini. Bonacci è stato segretario generale al Ministero dell'interno, e a lui si deve la colonia penitenziaria posta fuori Porta San Paolo. Bonacci gode, ancora, fama di buon oratore. Però questa è una fama usurpata. De Seta, vicesegretario della Camera, non è mica un elemento brillante. Alimena, deputato, è l'ombra di Alimena penalista, il primo penalista del Foro cosentino. Alario è un bravo avvocato salernitano. Egli ha però due torti gravi; il torto di aver tolto, nel 1876, il seggio elettorale al generale Avezzana; e quello di non esser punto assiduo alla Camera. Nel giugno 1879 l'on. Lovito gli rimproverò precisamente questa mancanza di assiduità; ma Alario se ne offese, e rispose con cattivo garbo.

Tipo curioso ed interessante è l'on. Tommaso Testa. Di condizione finanziaria molto ricca, il Testa esercita la professione di avvocato civile con un certo successo. Non ha studi profondi né eloquenza; ma ha tatto, abilità, cortesia di maniere. Piccolo, magro, svelto e saltellante come un fringuello, egli par che abbia l'argento vivo in corpo. Bisogna vederlo a Napoli in Tribunale, per comprenderlo ed ammirarlo. Voi lo vedete entrare tutto frettoloso, seguito od inseguito da una mezza dozzina di clienti o di elettori viaggianti. Ad un tratto, si ferma, chiama un collega, gli parla, si riscalda di botto, poi ridiviene calmo. La parola, però, è un'arma secondaria per il Testa.

278 CAPO TERZO

Per lui l'arma principale è la mimica. Eccolo che, mentre discute con l'amico X o F, gonfia le gote come un Giove oraziano, e guarda in viso, con espressione indescrivibile, l'interlocutore; poi si toglie il cappello e si caccia, con gesto disperato, la sinistra mano fra i capelli; oppure, afferrando il braccio del collega, si tira un po' indietro appoggiando il peso della persona su di una sola gamba. Voi potrete parlare come un Cicerone o come un avvocato abissino, il risultato sarà sempre lo stesso, se avrete a combattere la mimica originale dell'on. Testa.

Civilista fortunato è l'on. Napodano. Non brilla per ingegno né per coltura, né ha parola facile ed elegante. Tuttavia egli ha un numero non scarso di ricchi clienti, è adorato nel suo collegio e gode la simpatia e la stima di parecchi uomini politici, fra cui Tonor. Nicotera. bell'entourage del barone Irling, attaché dell'ambasciata austriaca, si ripete che il Napodano sia dal Nicotera destinato ad essere il segretario generale dell'interno in un possibile mutamento di Ministero.

Di tre degni discepoli di Galeno, gli on. Senise. Petronio e Borrelli, io non posso dir altro se non che essi non sembrano nati per la politica.

Un terno di ex-segretari generali ci è fornito dagli onorevoli Costantini, Correale e Del Giudice. Il professore Costantini è un esempio per gli eroi del quinto piano. E un uomo modesto che rimase molto meravigliato il giorno in cui si vide segretario generale del Ministero di pubblica istruzione. Recentemente si è distinto per l'attività spiegata a favore degli abruzzesi danneggiati dal tremuoto. Non meno attivo è l'on. Correale, del quale si può ricordare la solerzia spiegata, come deputato, per l'abolizione graduale della tassa sul macinato.

279 COLORI E VALORI

Figura più importante è il barone Giacomo Del Giudice, calabrese. Non ancora cinquantenne, il Del Giudice conta già molti anni di vita parlamentare. Quand'era giovine, concorse per la carriera amministrativa, e riuscì. Però, egli non era nato per fare l'impiegato, e, abbandonato l'ufficio, si dette al giornalismo Poi entrò nella Camera. Sotto la Sinistra ebbe, per qualche tempo, il segretariato generale dei lavori pubblici.

L'aristocrazia siciliana conta molti intelligenti suoi membri fra le file della Sinistra. Il barone Sciacca della Scala, che nella Camera dimostra poca attività, ne spiega, in compenso, molta nella sua isola natale. A lui spetta il non picciol merito di guidare il progresso agrario della Sicilia. La fattoria della Scala è un modello del genere. Di San Giuseppe, valente dilettante di scherma, è un grand seigneur, che tratta la politica come un amminicolo qualunque. Una trinità di marchesi come il Pandolfi-Guttadauro, il Sant'Onofrio e il San Giuliano, meriterebbe una predica piuttosto lunga. San Giuliano, che è il più giovane, è anche il più attivo. Dopo il Rudinì, è quegli che nell'aristocrazia siciliana dedicatasi alla vita pubblica occupa il posto principale.

279

Questa rassegna a voi di uccello nella quale non è lecito farsi scappare l'ex-colonnello Riccio, valorosissimo veterano delle patrie battaglie, e l'ingegnere Zainv, spostato nell'ambiente parlamentare, non può meglio chiudersi che con tre magistrati di opinioni sinistreggianti: Imperatrice, Penserini e Curcio.

280 CAPO TERZO

L'onorevole Curdo. relatore della legge di pubblica sicurezza, è un coltissimo giurista. Quand'era capo di Gabinetto del ministro Mancini, pubblicò pregevoli lavori di statistica, che vennero lodati assai dalle persone competenti. L'onor. Imperatrice, consigliere della Corte di Appello di Napoli, sarebbe stato un bravo magistrato, se non fosse stato distratto dalla politica; distrazione che non gli ha giovato a niente, perché egli non ha alcuna qualità di statista. Del Penserini Presidente del Tribunale di Napoli, io non posso dir nulla di bene. Non si può negare che sia un magistrato integerrimo. A lui si deve se il disordine. che prima regnava sovrano nelle Cancellerie, si è ora ridotto del 25 u Però non assiste quasi mai alle udienze, e non ha tatto né maniere. Il Foro napoletano lo vede di mal occhio, e gii ha dato il soprannome di Claminone. Penserini tratta gli avvocati come se fossero tanti scritturali. Basta assistere al modo con cui si tengono le udienze a Napoli per perdere ogni illusione sul famoso prestigio dell'avvocatura. Altro che prestigio! I poveri credenti in Papiniano non hanno una sedia dove adagiarsi né un tavolo per scrivere. Mentre si chiamano le cause, essi devono pigiarsi come tante sardine. E intanto l'onorevole Penserini pensa a fare il viaggio da Napoli a Roma e viceversa, e non si lascia commuovere dai lamenti dei poveri Iloti. Facesse almeno qualche cosa di buono alla Camera! vi brillasse per eloquenza o per ingegno! Niente di tutto ciò! Penserini è una prova luminosissima del torto marcio del nostro legislatore di aver ammesso nella Camera i magistrati.

281 COLORI E VALORI

§ 7. Il Gruppo degli Economi.

Sommario. — Stazione di confine — Cifrario — Frola — Plebano — Il solo economista fra gli economi — Balegno che si mantiene bene — Le melanconia di Piegano — Tegas — Fava le e Orosio — La mancanza di teatralità — Roux — L'uomo elettrico — L'editore — L'uomo politico — Un militare economo — Compans — Un milite sbornialo — Merzario — Faldella — La salita a Montecitorio — Le signore nella politica — L'oratore del Popolo — Ciò che manca agli economi.

Metto qui. ai confini fra la Sinistra e il Centro, il gruppo formato dai partigiani delle economie. Il titolo mi ha dato a pensare, Chiamare economisti quei signori, mi è sembrato un atto di adulazione. Definirli economici mi è parso una degradazione: li avrei aggettivati Ho preferito, quindi, il sobriquet, che i lettori hanno già ammirato, e che, viceversa, non piacerà a nessuno degli onorevoli destinati a questa stazione di confine. Come pure non piacerà — ne son sicuro — l'infrazione della legge dei colori che io commetto raggruppando insieme a molti rappresentanti di Sinistra alcuni deputati di Destra o di Centro.

Più di una regione d'Italia ha la sua specialità in seno ai vecchi partiti parlamentari. La Romagna ha i radicali: la Lombardia, gli agrarii; la Toscana, i socialisti della cattedra e i liberiscambisti: il Piemonte ha i partigiani delle economie. Questi ultimi non formano un partito, e neanche un gruppo — sebbene io, per una volontaria absence of mind, li abbia così chiamati. Non hanno un capo né un organo, e mancano di disciplina. Posseggono l'istinto delle sofferenze del Popolo, ma non ne hanno il sentimento. Combattono alla spicciolata, e non s'intendono preventivamente; però, non si fraintendono mai.

282 CAPO TERZO

Senza essersi concertati prima, allorché una legge, che richiede nuove spese, è presentata alla Camera, essi parlano e votano allo stesso modo. Oggi non hanno imponenza numerica né importanza politica. Sono, tuttavia, il nocciolo di un partito serio e logico. Una vera distinzione dei partiti ben potrebbe farsi sovra questa base: Economie e decentramento da un lato; sistema costoso dello stato accentrato dall'altro.

Il battaglione degli economi conta nella Camera attuale rispettabili componenti: Giolitti, Tegas, Faldella, Roux, Galimberti, Favale, Compans, Plebano, Merzario, Mussi. Meno gli ultimi due, gli altri sono piemontesi — cosa che fa meraviglia, poiché il Piemonte è stato sempre il paese militare per eccellenza. Nel gruppo avrei dovuto comprendere anche gii onorevoli Cibrario, Frola e Palberti. Però questi sono degli economi condizionali. Ultimamente il Cibrario, discorrendo a nome suo e degli altri due colleghi, parlò contro le spedizioni africane e a favore dello sgravio della proprietà fondiaria. Ciò non pertanto, egli espresse la convenienza di un'imposta a larga base per aumentare i nostri armamenti. Se per Cibrario e Palberti tale dichiarazione può accettarsi senza protesta, non è lo stesso per l'on. Frola, il quale, pochi anni or sono, era un partigiano accanito delle economie. Nei 1885, in un discorso elettorale, egli propugnò le seguenti idee:Bando ad ogni nuova imposta; finanza ordinata e severa; bilancio straordinario strettamente limitato alla disponibilità; la progressione delle entrate ordinarie normalmente superiore alle spese ordinarie; imposta proporzionata all'avere; sgravio dei consumi più necessari.» È chiaro che il Frola ha modificato il suo primitivo programma economico.

283 COLORI E VALORI

Achille Plebano è il solo economista fra tanti economi. E uno di quei piemontesi dell'antico stampo ispirati sempre alla religione del dovere. Conosce a perfezione la lingua francese, e in francese scrisse, nel 1863, insieme al Masso, una storia delle finanze del Regno d'Italia. E stato pubblicista. Onesto, modesto e valente, egli non si è distolto mai dagli studi economici e finanziari. La gloria delle armi non lo seduce; la teoria di Hegel sulla necessità ed utilità della guerra non lo convince. Plebano guarda con orrore le spese ingenti che si consumano in cannoni e corazze, e le braccia che tolgonsi ai lavori dei campi e delle officine. Nella Camera non piglia la parola che per proporre economie. Crede — ed in parte ha ragione — che i danari spesi per mantenere un esercito così numeroso, con generali tanto costosi, sieno addirittura sprecati. Una volta, il generale Balegno, discorrendo alla Camera, disse che il servizio militare, e specialmente quello di cavalleria, logorava il fisico.

Plebano interruppe melanconicamente: «Non si direbbe al veder lei!» E il Balegno, suscitando ilarità: & E perché mi mantengo bene. Ora, è appunto questa bonne mine dei nostri generali che il Plebano vede male, perché sa ch'essa proviene dai denari del povero.

Tegas è un ingegno più versatile del Plebano. Non è un economista. E un giurista, quantunque non sia un giureconsulto. Più di Plebano, egli ha avvicinato gli uomini illustri del nostro tempo, e ne ha ricevuti incarichi e confidenze.

284 CAPO TERZO

Il Plebano è stato direttore dell'Avvenire d'Italia. Tegas ha diretto il Risorgimento — il giornale fondato da Cavour. Fu onorato della fiducia dell'illustre conte Camillo. Più pieghevole e malleabile del precedente economo, non fu restio ad accettare pubblici uffici. Siede a Destra, ma non ha mai mostrato accanimento. E uno di quegli uomini che non fanno niente per invocare sul loro capo la pioggia d'oro della fortuna; uno di quegli uomini che possono divenire illustri o morire oscuri a seconda che il caso permetta o non permetta loro di manifestare le qualità di cui sono forniti.

Il 7 dicembre 1887, a proposito della legge sui Ministeri, il Tegas parlò contro l'istituzione dei due nuovi dicasteri, principalmente perché venivano ad aumentarsi le spese, ed anche perché si aumentava l'accentramento. Disse: «Si ha una burocrazia esuberante, e non la si diminuisce; invece, la si accresce. E questa una tendenza eminentemente accentratrice, che moltiplica senza necessità gli organi e le funzioni del potere centrale; mentre sarebbe necessaria una diminuzione o una migliore distribuzione delle sue attribuzioni nel senso del selfgovernment.»

L'onorevole Casimiro Favale è, fra tutti i partigiani delle economie, il più persistente, tenace ed instancabile. V'è in lui qualche cosa dell'Hume, che fu, in Inghilterra, il capo del partito del risparmio. Specialmente gli eserciti permanenti sono il suo babau. Nell'aprile 1880, Favale fece un discorsetto dotto e sen nato contro le soverchie spese militari. Evocò lo spettacolo della miseria delle plebi, ed invocò l'autorità di Orosio, allorché questo autore, parlando della miseria gallica, l'attribuisce alle tasse eccessive.

285 COLORI E VALORI

Soggiunse: «È vero che udii più volte dire dai fautori delle spese militari: la prima necessità, se avete una casa, e quella del tetto; e l'esercito è il tetto della nazione. Ma nel costruire questo benedetto tetto, per carità, non fatelo tanto forte che soverchi le forze dei muri; ché, invece di difenderci, ci schiaccereste tutti sotto. Se fate questo tetto troppo bello, se vi spenderete tutte le nostre risorse, ci mancheranno, poi, perfino le cose più necessarie per la vita.»

Nè l'on. Favale si limita a fare delle considerazioni ipotetiche. Egli è un parlatore che va sempre armato di numeri e di cifre. Nello stesso anno, per un fatto personale, rispondendo agli onorevoli Ricotti e Baratieri, dimostrò come da noi il bilancio della guerra fosse, in proporzione, molto più forte che in Austria, e che il numero degli ufficiali dell'esercito permanente italiano fosse, relativamente, superiore a quello dell'esercito permanente tedesco. Ricotti e Baratieri vollero replicare, ma non poterono cantar vittoria.

Favale ha parlato sempre contro l'introduzione di nuove tasse o l'aumento delle tasse esistenti. Avverso alla legge del catenaccio, la combattette nel novembre 1887, e in quest'occasione protestò di bel nuovo contro il sistema di progressivo aggravamento dei contribuenti. A Favale manca lo slancio, l'entrain. Egli ha la commozione, non la teatralità dell'apostolo. Se fosse più teatrale, avesse maggiore posa e fosse spinto da un pochino di ambizione personale, egli potrebbe capitanare il partito degli economi.

Eccoci, ora, di fronte all'on. Roux. È un uomo che sta da due Legislature appena nella Camera, ma che già vi ha acquistato una non piccola importanza. Egli deve esercitare una specie di fascino su coloro che l'avvicinano; per persuadersene basta leggere ciò che di lui scrisse il Faldella nel 1882:

286 CAPO TERZO

«... Ma tutto racconcia Luigi Koux, il Luigi dei Luigi, l'uomo elettrico, il direttore elettrico, l'amico elettrico. Quando scatta ed avanza formicolando le dita per pugilarti e restringerti in minacce carezza, pare ti incomba col frigido e letale solletico assicurato dagli artigli di un'aquila elettrica. E dell'aquila elettrica ha la capperuccia di calvizie contornata da un'alberatura di fulmini. Egli spinge la sua elettricità di amicizia fino a pilottare le preziose colonne della spaziosa Piemontese con la raccolta completa dei discorsi di Giovanni Faldella, molto ricercati, letti e spediti in provincia dall'oratore.»

L'on. Roux è avvocato, ma le sue specialità extraparlamentari sono due; la professione giornalistica e l'arte libraria. Come pubblicista il Roux dirige da parecchi anni la Gazzetta Piemontese ài Torino, e diresse la Tribuna nei primi passi del nuovo giornale. La Gazzetta Piemontese è scritta con garbo ed arte, ed è redatta con un buon gusto abbastanza raro nella stampa italiana. Come libraio-editore il Roux si è, in poco tempo, messo a livello dei più importanti editori italiani. Per le pubblicazioni di genere politico egli ha il primato in tutta la penisola, e gareggia con le Case librarie dell'estero. Le Lettere di Cavour, le Memorie di Castelli, I Miei ricordi di Minghetti, la Politica di Massimo d'Azeglio, le Lettere inedite di Mazzini, l'Epistolario di Pantaleoni, la Giovinezza di Carlo Alberto, la Vita e i tempi di Lanza sono tali pubblinazioni da rendere benemerito degli studi storici colui che riuscì a far veder loro la luce.

287 COLORI E VALORI

L'importanza politica di Roux data da poco tempo — dalla morte di Depretis. Venuto al Governo l'onorevole Crispi, gli italiani ebbero un vago presentimento di prossime lotte regionali — lotte, s'intende, nel campo legale. Già si vedevano i deputati piemontesi coalizzantisi fra di loro e con gli altri colleghi del settentrione per togliere, al più presto possibile, il potere dalle mani dell'elemento insulare meridionale! La preoccupazione degli animi era seria, e celava paure e sospetti che pur non si osavano confessare. Ebbene, in quei giorni appunto, da Torino venne la parola di pace e di concordia. Il Roux fu l'anima di questo movimento nazionale, e a lui e al Bottero si deve in gran parte l'affratellamento degli italiani all'agape torinese. Al famoso banchetto il freddo dei piatti si evaporò dinnanzi al caldo degli affetti.

Attualmente l'on. Roux è un amico benevolo del Ministero Crispi, di cui però sorveglia con attenzione la condotta. In un recente discorso tenuto a Cuneo, egli, pur non dissentendo dalla politica generale del Governo, ha biasimato il disordine delle finanze, e si è dichiarato contrario all'idea di una nuova imposta a larga base, specialmente a quella del macinato.

Io mi auguro che l'importanza parlamentare del l'on. Roux vorrà crescere in proporzione dell'importanza politica.

Fra i politici economici — cosa meravigliosa — abbiamo pure un ex-militare — marchese per giunta. Io intendo parlare del marchese Carlo Compans di Brichanteau. Nacque nel 1845 a Torino. È un gentleman che appartiene alla jeunesse dorée — del tramonto però. Servì la patria come uffiziale di cavalleria; poi si ritirò a vita privata, ed oggi non appartiene che alla riserva degli Alpini.

283

Essendo stato nell'esercito, a lui riuscì agevole vedere da vicino le spese enormi, e talvolta di lusso, che richiede quel terribile istrumento di civiltà e di miseria. Ciò spiega perché, ritornato semplice borghese, siasi sviluppata in lui la tendenza di propugnare l'economia in tutte le spese pubbliche.

Compans è un uomo cortese, ma, nel tempo stesso, franco nel più lato senso della parola. È senza reticenze — proprio come deve essere un militare, quantunque ex. Nel 1877, a proposito di un maggiore assegno accordato all'istituto veterinario di Bologna, lamentò la diversità di trattamento verso le varie scuole veterinarie. Disse che dava ragione a quanti ripetevano che il Governo avesse i suoi beniamini da soddisfare, e non procedesse nell'amministrazione da buon padre di famiglia, com'era suo dovere.

Di animo indipendente, egli ama di farlo sapere. In un discorso elettorale dichiarò che, se altri dava la caccia agli impieghi "e adulava coloro che stavano in alto, egli, invece, preferiva rimanere come molti guerrieri dei tempi di anarchia — un soldato sbandato.

L'on. Merzario è un giureconsulto e un patriota, un poeta e un letterato. Nelle cinque giornate di Milano s'illustrò, e da semplice combattente si trasformò in costruttore di barricate. Poi, pugnò nella legione degli studenti lombardi. Ha scritto un poema Edvige, un carme De renovanda Roma, oltre a molti articoli di giornali. Ha diretto, per qualche tempo, il collegio Cicognini di Prato.

Alla Camera gode una fama meritata — particolarmente nelle questioni di finanza.

289 COLORI E VALORI

Quando i partigiani delle economie ebbero la velleità, ma non la volontà, di formare un partito, scelsero appunto il Merzario, non già a loro capo, sibbene a presidente delle loro riunioni.

Dopo un letterato a riposo, nous voilà di fronte un letterato in attività di servizio: Faldella. Giovanni Faldella nacque nel 1846 a Saluggia, nella provincia di Novara. È avvocato, ma credo che non abbia mai indossata la toga. Deputato da due Legislature, non piglia parte attiva nei lavori della Camera. Parla poco. Osserva molto. Frutto delle sue osservazioni e meditazioni fu il libro intitolato; Salita a Montecitorio, diviso in cinque volumi. Faldella vi si rivela abile ritrattista e profondo osservatore. Tuttavia, è prolisso abbastanza. Egli vuole imitare, in qualche modo, il Doctor Veritas dell’Illustrazione Italiana, perché parla anch'egli con una signora immaginaria. Mentre supera in erudizione e in verve, gli è inferiore per grazia, semplicità e spirito. Inoltre il suo stile, sempre elegante e corretto, è troppo leccato, sebbene il lettore finisca col pigliarvi gusto. Il difetto capitale del libro è la mancanza di un concetto direttivo. Si vede che l'autore non sa egli stesso a quale punto debba dire: stop. Senza proposito deliberato, ha fatto durar troppo la Salita a Montecitorio. L'ha trasformata in passeggiata. Questa è la conseguenza dell'ingerenza delle donne nella politica. Se non ci fosse stata quella signora! Ad ogni modo, lavoro, in complesso, è seducente.

Il Faldella ha scritto pure altri libri, come Roma borghese, Un Serpe. Figurine, Vienna, Le conquiste, Un viaggio a Roma senza vedere il Papa, Rovine.

290 CAPO TERZO

In tutti questi lavori sì ammirano la perfetta conoscenza della lingua italiana, la potenza dell'osservazione e l'inesauribile zampillare del brio e del buonumore. Faldella ha appena quarantadue anni; e se continuerà a camminare di questo passo, diverrà uno dei più fecondi scrittori d'Italia. Gli auguro, pure, di diventarne uno dei più facondi oratori. Recentemente, a proposito della Cassazione unica, ha pronunziato un bellissimo discorso.

Non ostante l'importanza personale dei fautori delle economie, poca è la loro importanza parlamentare. L'ho detto; essi non formano un partito né hanno un capo. Sono soldati sbandati. Individualmente e alla spicciolata anche potrebbero far qualche bene, se avessero calore di apostolo e colore di tribuno. Non hanno né l'uno né l'altro. Parlano, quando se ne presenta l'occasione; non la cercano. Non fanno propaganda nel paese; si limitano alle finte battaglie della Camera. E nella Camera non cercano di aumentare il numero dei loro aderenti. In generale, manca all'attuale Assemblea l'oratore del popolo e del benessere pubblico. Vi sono oratori del benessere dei proprietari: gli agrarii. Ve ne sono altri (Sonnino, Franchetti), che, di tanto in tanto, accennano alla quistione sociale; però essi non sentono quello che dicono: l'intendono soltanto. Comprendono lo strazio delle classi povere, e i pericoli che questo strazio, il quale si manifesta in malcontento, matura per le classi ricche. E quistione di cervello, non di cuore. Socialista è il Costa; ma in lui parla l'ira, non la pietà. Il suo è un socialismo di memoria. Costa rammenta troppo le persecuzioni da lui sofferte. Favale, Compans, Roux, Faldella. Merzario. Giolitti, Plebano, Tegas. senza lo scopo recondito di garantire la sicurezza delle classi alte, sentono sinceramente la necessità di non far soffrire più a lungo le classi povere.

291 COLORI E VALORI

Come Enrico IV di Francia, essi vorrebbero che ogni contadino od operaio potesse, la domenica, far bollire un pollo nella pentola. E intendono pure il mezzo adatto allo scopo: le economie. Però mancano di unione e di unità, di slancio e di entrain. Per rendere popolare la loro causa dovrebbero mettere alla loro testa un uomo tribunizio.









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