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STORIA DELL'ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO

DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

CORREDATA DI TAVOLE LITOGRAFICHE E NARRATA

COLL'ESPOSIZIONE DEI DOCUMENTI ORIGINALI

da far seguito alla Guerra d'Italia del 1859

DELL'AVVOCATO DOMENICO VALENTE

SECONDA PARTE - CAPITOLI I - IX

NAPOLI

STAMPERIA DI A. MORELLI

Strada S. Sebastiano».11

1862

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PARTE SECONDA

LA GUERRA DI SICILIA ED I FATTI POSTERIORI

CAPITOLO I

La Sicilia sino alla proclamazione della Costituzione del 1812.

SOMMARIO

La Sicilia è unita a Napoli per 152 anni sotto i Normanni e gli Svevi, e n'è separata per 153 sotto gli Angioini riunita per 34 anni sotto Alfonso d'Aragona. Digressione su i Parlamenti nazionali — Parlamento di Alfonso di Aragona del 1433 — Parlamento di Ferdinando il Cattolico — Parlamento di Carlo V ed i posteriori — Riassunto — Sotto Alfonso di Aragona la Sicilia si distacca nuovamente da Napoli. Periodo viceregnale — Il Duca di Savoia Re di Sicilia — Il nuovo Re in Palermo — La Sicilia si permuta con la Sardegna — Periodo dal 1734 al 1815  —  Riassunto — Sacrifizii dei Siciliani nella minaccia della invasione del Re Gioacchino. — Proclama dell'Arciduca Giovanni nel 1809  —  Considerazioni politiche — I tempi sono cambiati — Questo proclama scosse i Siciliani. La Regina Carolina e Lord Bentinck — Persecuzioni dei Baroni Siciliani — L'Inghilterra obbliga il Re a concedere una costituzione — Lettere del Re nel dare il vicariato con Alter Ego al Principe ereditario — Il Principe Francesco sceglie nuovi ministri, richiama gli esiliati, convoca il Parlamento siciliano — Lettere di convocazione — Esse dinotano lo sviluppo degli antichi poteri sovrani dello Stato — Riunione del Parlamento e discorso del Principe Vicario — Discorso del Segretario di Stato — Piano delle finanze — Il Parlamento stabilisce le basi della nuova costituzione — Lettera del Principe al Re per essere autorizzato ad approvarle. Autorizzazione accordata — Diploma di approvazione delle basi della nuova costituzione  —  Diploma che sanziona una parte delle nuova costituzione — Gli ordini numi svolgevansi in Sicilia come da per ogni dove. Considerazioni politiche — Il Re ritorna in Palermo e riprende i suoi poteri  —  Bentinck lo induce ad allontanarsi nuovamente — Il rimanente della costituzione è sanzionata — La Regina Carolina parte per Vienna, e vi muore nel 1814  — Rinasce la tranquillità nell'Isola.

 Dopoché la Sicilia ebbe dato il titolo di Re al fondatore del reame di Sicilia e di Puglia, rimase per 152 anni unita alle provincie continentali. I famosi vespri siciliani ne la divisero per restare sotto la dominazione aragonese per tutto il tempo per lo quale gli Angioini regnarono al di qua del Faro. Questo secondo periodo è pressoché uguale al primo; furono 153 anni, a capo dei quali per una delle due adozioni fatte da Giovanna II le provincie insulari e continentali si riunirono nella persona di Alfonso d'Aragona, che riattaccava inoltre il suo dritto al titolo dell'ultimo degli Svevi, e competeva con Renato d'Angiò, il quale dimandava la successione nelle provincie continentali. Era titolo di quest'ultimo il testamento della regina Giovanna II, che lo area chiamato erede come fratello del predefunto Luigi di Angiò, da lei adottato dopo di avere rivocata la precedente adozione a favore del Re di Aragona. Tristissima disposizione fu questa, che creò un novello titolo a favore d'una dominazione straniera, e compì un regno, che desta assai triste reminiscenze.

Ma l'unione delle provincie continentali ed insulari non oltrepassò i 34 anni del regno di Alfonso di Aragona. Celeberrimo è questo regno specialmente per avere alterata l'antica costituzione della nostra monarchia. Noi non abbiamo per verità certi documenti per affermare, che nelle Curie generali o Parlamenti tenuti in tempo dei Normanni e degli Svevi v'intervenissero oltre i vescovi ed i magnati anche i deputati delle città, tranneché per quello convocato da Federigo II in Foggia nell'anno 1232, ove furono chiamati due dei migliori cittadini di ogni città o castello per l'utilità del regno e bene universale. Ma da questo parlamento dell'anno 1232 e dagli altri, che per lungo tratto di tempo si radunarono successivamente, dobbiamo logicamente indurre, che lo stesso ordine di rappresentazione siasi osservato nei parlamenti precedenti, tanto maggiormente che i primi due ordini dei vescovi e dei magnati sono identici. Dai registri, che si conservano nel nostro archivio della Zecca contenenti gli atti degli Angioini da Carlo I sino a Giovanna II, si raccoglie autenticamente, che in tutto il regno di quei principi intervenivano nei nostri generali parlamenti oltre i prelati ed i baroni due, tre, e quattro deputati per ciascuna città secondo l'importanza di esse e senza distinzione tra le demaniali e le feudali, di tal che avevano anche queste in concorso coi baroni la loro rappresentanza nell'assemblea nazionale. Balie lettere poi di convocazione dirette non alle autorità governative o municipali, ma alle stesse città o terre, e dal sistema serbatosi sino agli ultimi tempi di riforma della nostra amministrazione municipale, è da conchiudersi, che la elezione facevasi col suffragio universale.

Alfonso d'Aragona non aveva, che un sal figlio naturale per nome Ferrante natogli in Aragona, che pel vizio dei suoi natali non poteva per le leggi della successione succedergli nei regni di Aragona e negl'Italiani, che gli erano pervenuti dall'eredità dei suoi maggiori. Pensò quindi di assicurargli per un titolo quasiché elettivo la successione di Napoli, che riguardava come una sua particolare conquista. Fe' venirlo in Napoli, e quando per avere vinto Renato di Angiò ebbe pacificato il regno, si mise di accordo con alcuni dei principali baroni, e convocò sotto nome di Parlamento un'assemblea di soli baroni, i quali chiesero ed ottennero dichiararsi Ferrante duca di Calabria e successore nel regno. Così venne alterata nel 1443 l'antica costituzione della monarchia, che aveva durato 313 anni. Nè fu sola la rappresentanza nazionale, che fu adulterata e circoscritta nei soli baroni, escludendo le città e terre feudali, ma Alfonso d'Aragona concedendo ancora ai baroni il mero e misto imperio 'nei proprii feudi,distrusse l'ordine delle giurisdizioni, annientò uno dei principali attributi della sovranità, e tolse ai sudditi la naturale protezione del proprio sovrano.

Per circa 50 anni dalla morte di Alfonso di Aragona sino a Ferdinando il Cattolico queste nostre provincie furono miserabilissimo teatro di guerre, rivoluzioni, reazioni, vendette. Negli ultimi dieci anni si contano sette re, per cui in tanto scompiglio ed incertezza degli ordini governativi non si trova verun par lamento nazionale.

Ferdinando il Cattolico re di Aragona e di Sicilia per dritto di successione, rompendo la fede al proprio congiunto, e turpemente ingannandolo, si collegò con Luigi XII re di Francia per la conquista delle provincie al di qua del Faro, e fe' poi in modo che ne rimanesse egli solo il possessore. Venuto in Napoli nel 150'l,vi tenne un general parlamento, ma quantunque si allargassero i confini del Parlamento di Alfonso di Aragona, la primitiva costituzione di quell'assemblea non fu rinvigorita, perché il parlamento si compose dei baroni, degli eletti della città di Napoli, e dei sindaci delle città e terre demaniali. Per tal modo non solo fu diminuita la rappresentanza nazionale, ma le città e terre feudali non furono più rappresentate quando appunto per la cresciuta prepotenza feudale maggior ragione avevano a far sentire la loro voce nell'assemblea della nazione. Cosi fu compiuto lo annientamento della loro politica esistenza; conceduta ai baroni la giurisdizione nei feudi, eglino pretesero, che in sé soli stesse la personalità politica delle università, ch'erano state loro infeudate.

Noi siamo ai miserevoli tempi del regime viceregnale. Eppure nel parlamentò tenuto in Napoli da Carlo V alli 8 di gennaio 1535, ed in sei altri successivi. che negli anni 1538, 1541, 1586, 1591, 1593, e 1620 si tennero nell'istessa capitale, si trovano intervenuti il sindaco della città di Napoli, i deputati del baronaggio invece dei baroni, i sindaci e deputati delle città demaniali. Non fu che dopo il parlamento del 1640, che rimase distrutta anche la rappresentanza delle città demaniali, e che i parlamenti unicamente si composero del sindaco ed eletti delle città di Napoli e dei deputati del baronaggio.

Riassumiamo le vicende dell'assemblea nazionale presso di noi. Per 313 anni il clero, i baroni, i Comuni senza distinzione tra demaniali e feudali furono completamente rappresentati; e la elezione facevasi in ciascuna Università col suffragio universale. Per altri 200 anni cessò la rappresentanza del clero, perché pretese sottrarre le sue proprietà dai pubblici pesi, e mancò pure la rappresentanza delle città e terre feudali, perché i feudatarii ne usurparono la personalità politica. Nel reggimento viceregnale erano già larvate quelle assemblee nazionali, ma almeno con la loro esistenza protestavano degli antichi dritti della nazione. Ma per un secolo dopo sino allo affrancamento della monarchia divenuta indipendente, il sindaco e gli eletti della città di Napoli e i deputati del baronaggio furono i soli, che componessero un parlamento, che cessò di essere nazionale (). Tra i benefizii del regno di Carlo III non v'ha quello di una rappresentanza nazionale.

Noi speriamo, che in grazia della materia ci si perdonerà questa digressione.

Ora ripigliando la nostra narrazione al punto, in cui l'abbiamo lasciata, diremo, che alla morte di Alfonso d'Aragona la Sicilia si distaccò nuovamente dal reame di Napoli, e ne rimase divisa per altri 34 anni, dopo dei quali non fu già unita allo stesso, ma formarono insieme pel lungo periodo di 203 anni due provincie della monarchia spagnuola. Per sei anni seguenti Napoli e Sicilia furono governate dalla Casa d'Austria; ma nel 1113 la Sicilia come aveva dato il titolo al primo regno, che venne fondato nella parte meridionale dell'Italia, diè il titolo al primo reame, che dopo la caduta dell'antico regno italico sorse nella parte settentrionale della stessa penisola, dapoiché come Ruggiero I s'intitolò e fu riconosciuto re di Sicilia e di Puglia, così Vittorio Amedeo II duca di Savoia fu riconosciuto per lo trattato di Utrecht re di Sicilia.

Nell'ottobre del 1743 Vittorio Amedeo, salutato re di Sicilia, andò con la regina Anna d'Orleans, col duca di Aosta, e con una Corte brillante in Palermo sopra navi inglesi comandate dall'ammiraglio Jennings. Quattro mesi dopo, cioè nel febbraio 1114, aprì il parlamento siciliano, e vi l'e' leggere dal protonotario del regno il discorso della Corona, che conteneva importanti promesse, ed era impronto di lodevole moderazione. Ritornato in sul cadere dell'anno in Piemonte, restò viceré il conte Annibale Maffei, quel medesimo, che aveva proposto e procurata l'annessione della Sicilia, ed istituì in Torino un Consiglio supremo di Sicilia.

Se non che cinque anni più tardi la Sicilia ritornò all'Austria, ed il duca di Savoia cambiò il titolo di re di Sicilia in quello di re di Sardegna, sostituendosi un'isola all'altra, quasiché per una singolare coincidenza quel breve possesso non ad altro servisse, che a dare un identico titolo alle due monarchie, che con l'intervallo di quasi sei secoli sorgevano nelle due estremità dell'Italia.

Per poco meno di 72 anni da maggio 1734 sino a febbraio 1806 Napoli e Sicilia formarono un solo reame. Ma nel 1806 si divisero di nuovo per non riunirsi che nel 1815.

Adunque prima del regime viceregnale Napoli e Sicilia sono unite e divise a periodi uguali. Sono unite per 152 anni dalla fondazione della monarchia sino agli Angioini; sono divise per 153 anni durante la dominazione di costoro; sono unite per 34 anni sotto il regno di Alfonso d'Aragona; sono divise per 34 anni sino alla conquista di Ferdinando il Cattolico, cui si lega il regime viceregnale. Nei 126 anni, che si contano dal risorgimento della monarchia sin oggi, il decennio della dinastia francese ed i pochi mesi del 1848 sono i soli periodi di separazione.

Quando il re Gioacchino Murat faceva grandi preparativi per conquistare la Sicilia, il parlamento siciliano composto di tre bracci, cioè l'Ecclesiastico, il Militare, ed il Demaniale ossia dei Comuni, fu largo di sussidii al Re, accordandogli 193,000 once annuali, oltre le contribuzioni indirette, che ammontavano a 328,000 once, ed oltre ancora i frutti dei beni degli stranieri possidenti in Sicilia incamerati, che ascesero a 200,000 once; sì che oltre il sussidio inglese il tesoro introitava allora un milione trecentoventuno mila once, che equivalgono a quattro milioni novecento sessantatrè mila ducati, né bastavano a'  pubblici pesi ().

Qualche tempo prima, nel 1809, un proclama dell'arciduca Giovanni aveva detto agli Italiani:

«Italiani!

«Ascoltate la voce della verità e quella della saviezza. La prima vi dice, che siete schiavi della Francia, per la quale esaurite la vostra fortuna e le vostre forze. Evvi un fatto notorio, ed è, che il regno d'Italia non è, che un sogno ed un nome senza significazione; ma le leve di uomini, le imposte, le vessazioni di ogni sorte, l'annientamento del vostro stato politico sono lo stato vero delle cose. La saviezza vi dice, che in questo stato di cose, voi non potete essere in pace né essere Italiani. Volete voi ora divenire di nuovo Italiani?

Raggruppate vivamente le vostre forze con quelle della potente armata, che l'imperatore d'Austria invia generosamente in Italia, e sappiate, che lo spirito di conquista non la fa marciare in avanti, ma ch'essa marcia per difendersi ed assicurare l'indipendenza di tutte le nazioni dell'Europa, minacciate d'un'inevitabile schiavitù.

«Se Dio protegge i generosi sforzi dell'imperatore Francesco e dei suoi potenti alleati, l'Italia sarà di nuovo felice e rispettata; il Capo della Chiesa ricupererà la libertà ed i suoi Stati, e con una costituzione fondata sulla natura delle cose e con una sana politica il suolo italiano prospererà e sarà renduto inaccessibile ad ogni dominazione straniera. L'Imperatore Francesco vi garentisce questo stato così felice e così onorevole. L'Europa sa bene, che la parola dell'Imperatore è sacra, ch'essa è immutabile e pura. Il cielo parla per mezzo della sua voce. Risvegliatevi, Italiani,e levatevi in massa. Di qualunque partito siate stati, o che siate al dì d'oggi, siate senza timori; basta, che siate Italiani.

«Noi non veniamo né per indagare né per punire; noi veniamo per aiutarvi e per rendervi liberi.

«Volete voi dunque restar anche per lungo tempo immersi nell'onta della schiavitù? Volete voi fare da meno di quelli eroici Spagnuoli, che comunque sempre vinti, secondo i bollettini francesi, non ancora hanno potuto essere domati? Italiani! la verità e la saviezza vi dicono, che non avrete mai una più bella occasione di sottrarre l'Italia dal giogo, che la scaccia. Che se poi, settatori impotenti, voi lasciate sfuggirla, quale sorte avrete voi da sperare, quale si sia il vincitore, tranne che quella di un popolo schiavo, indegno di avere un nome e dei dritti? Ma se per lo contrario vi mostrate parteggiani del vostro liberatore, voi sarete vincitori con lui. L'Italia riprenderà una nuova vita, e riprenderà un rango tra le grandi potenze dell'Europa, come già un tempo l'aveva, e come deve averlo un giorno o l'altro.

«Voi popoli di Milano, della Toscana, della Venezia, e del Piemonte, voi tutti popoli d'Italia rammentatevi i tempi passati, ch'erano sì belli. Questi tempi di pace e di prosperità possono ritornare, e ritornare anche più brillanti. Ma voi dovete cooperare a farli rivenire. Bisogna, che ne siate degni, Italiani, vi basta di volerlo, e voi sarete nuovamente Italiani, così gloriosi come i vostri antenati, così felici e contenti come altra volta lo siete stati».

«GIOVANNI Arciduca».

«CONTE DI GOESS luogotenente generale.»

Così parlava l'Arciduca Giovanni più di mezzo secolo addietro. Povera Italia, stata sempre lo scherno e lo zimbello degli stranieri! Di allettamenti e di lusinghe non hai avuto mai penuria; e ben le tue glorie ed i tuoi fasti offrivano ampia materia ai tuoi seduttori! Ma delle fatte promesse che cosa mai hai ricavato? Null'altro che morti, catene, ed esilii! Sei anni dopo di quella proclamazione l'Italia veniva organizzata a quella libertà ed a quella indipendenza, che doveva renderla inaccessibile ad ogni dominazione straniera, e che l'Imperatore Francesco garentiva!!! Questa è la libertà, questa è la indipendenza, che si può sperare dalle mani dello straniero! Ma la Dio mercé le condizioni dei tempi sono cambiate. Una voce italiana ha proclamato l'Italia degl'Italiani, e questa voce ha trovato un'eco in una generosa nazione e nell'augusto suo Capo, che l'han sostenuta del proprio sangue e del proprio danaro.

Il senno politico degl'Italiani ha dato a quella voce l'autorità della ragione; il mondo incivilito applaude, ed è forse assai prossimo quel giorno, in cui l'Italia riprenderà, come l'Arciduca Giovanni prevedeva, una nuova vita ed un rango tra le grandi potenze dell'Europa.

Quel proclama pertanto, comunque venisse dall'Austria, scosse gli animi liberi italiani. Quei popoli, che non erano sotto la signoria dei Francesi si aspettavano di vederlo immediatamente realizzato. In Sicilia specialmente crescevano le inquietudini e le mormorazioni. La Regina Maria Carolina, donna altera, avvezza a signoreggiare, mal tollerava la soggezione all'Inghilterra, onde erano sorti dei mali umori tra lei e Lord Bentinck Ministro plenipotenziario e comandante supremo delle forze inglesi nell'Isola, né si omise allora di affermare, che delle trattative s'iniziassero tra la Regina Carolina e Napoleone.

Checché ne sia, una forte opposizione sorse nei Baroni siciliani ed il flore di questi andarono rilegati nelle isole di Favignano, Pantelleria, Ustica, e Marettimo. Si tien per fermo, che il numero ne sarebbe stato maggiore, se il Bentinck non vi si fosse validamente opposto; è certo che r indomani della partenza dei Baroni per le proprie destinazioni, tutta l'isola fu dagli Inglesi militarmente occupata.

Tuttociò avveniva nel decorso del 1811. Lord Bentinck significava alla Corte di Sicilia le disposizioni del suo Governo; le diceva, gl’interessi della Sicilia, quelli dell'Inghilterra, e dell'Europa volere un cambiamento radicale nella politica siciliana; esigere le condizioni dei tempi il richiamo degli esiliati, e delle riforme essenziali negli ordini fondamentali della Monarchia. Ma queste rimostranze si fransero contro la resistenza del Re e della Regina. Allora. Bentinck andò a Londra e ritornò in Palermo con istruzioni più precise. Era il decembre 1811 quando i negoziati interrotti furono ripresi, e furono appoggiati da numerose schiere inglesi fatte venire da Messina. Questa volta i risultamenti delle negoziazioni dovevano essere diversi. Nel gennaio 1812 Re. Ferdinando nominò Vicario generale del regno il Principe Francesco, e si ritirò nella Villa Reale della Ficuzza 18 miglia distante da Palermo. La Regina si ritirò in un'altra villa presso la Capitale, e poco dopo a Castel Vetrano. Dai due differenti ritiri, che gli augusti sposi prescelsero, si argomentava che non fosse grande accordo fra loro.

La lettera, che il Re aveva diretto al Principe Francesco, è concepita nei seguenti termini:

«Mio diletto e carissimo figlio Francesco Principe ereditario delle Due Sicilie.

«Per indisposizione di mia salute essendo io obbligato per consiglio dei Medici di respirare l'aere di campagna, e tenermi lontano da ogni seria applicazione, crederei essere colpevole verso Iddio, se in questi difficilissimi tempi non provvedessi al governo del Regno in modo, che anche gli affari di maggior momento abbiano il loro corso, e la causa pubblica non soffra per le dette mie indisposizioni alcun danno. Volendo io adunque disgravarmi del peso del governo sino a che a Dio non piaccia restituirmi lo stato di salute adatto a reggerlo, non posso ad altri più condegnamente affidarlo che a Voi, mio dilettissimo figlio, e per essere voi il mio legittimo successore, e per l'esperienza, che ho fatto della vostra somma rettitudine e capacità. Laonde di mia piena volontà vi costituisco e fo in questo mio regno di Sicilia mio Vicario generale, come lo siete stato fatto per ben due volte nell'altro mio regno di Napoli: e vi concedo ed a voi trasferisco colla pienissima clausola dell'Alter Ego l'esercizio di ogni dritto, prerogativa, preminenza, e facoltà nel modo stesso, che da me si potrebbero esercitare.

Ed affinché questa mia volontà sia a tutti nata e da tutti eseguita, comando, che questo foglio da me sottoscritto e munito di Real suggello sia conservato presso gli atti del Protonotario del Regno, e ne sia da voi passata copia a tutt'i Consiglieri e Segretarii di Stato per la intelligenza e per parteciparlo a chiunque convenga.

«Dato in Palermo 16 gennaio 1812.

«FERDINANDO RE.

TOMMASO DI SONDA R. N.

Il Principe Francesco intanto sceglieva nuovi ministri, annullava i precedenti provvedimenti del governo, richiamava gli esuli ed i relegati, conferiva a Bentinck il coniando dell'esercito siciliano, che riceveva una nuova organizzazione. Gli animi si aprivano alla speranza ed alla gioia. Fu convocato immediatamente un parlamento straordinario per provvedere ai bisogni dello Stato.

«Noi, diceva il Principe Francesco, qual Vicario Generale coll'Alter Ego in vigore d'atto del nostro augusto genitore de'  16 di gennaio del corrente abbiamo determinato, che si celebri in questa città di Palermo un generale straordinario parlamento, ed abbiamo deliberato, che se ne faccia la consueta solenne apertura nel dì 15 del prossimo mese di giugno.

«E perché è nostra volontà, che in esso si provvegga non solamente ai bisogni dello Stato, ma ancora alla correzione degli abusi, al miglioramento delle leggi ed a tutto ciò, che può interessare la vera felicità di questo fedelissimo regno, con particolare premura vi ordiniamo, che nel detto tempo ed a tale effetto vi raduniate nei luoghi stabiliti, acciò per voi si possano sentire le proposte, trattare, votare, e conchiudere tutto quello, che nel detto straordinario parlamento si esporrà per il Real servizio e per il bene del Regno, a cui sono dirette le nostre provvide cure.

«Per li Comuni di questo Regno, vogliamo, che facciano procura ampia ed autentica more solito ad uno dei loro Senatori o Giurati o al Sindaco, qualora lo ritrovino a ciò idoneo, con facoltà di potere sostituire; altrimenti sarà sempre cosa preferibile, che indossino la medesima procura colle stesse facoltà a persona benestante e di concordata probità del paese.

«Non dubitiamo, che sarete per eseguire il tutto colla solita vostra premura e zelo sperimentato per quanto tenete cara la Real grazia.

«Palermo 1 maggio 1812.

«FRANCESCO V. G.

principe di Castelnuovo.

«Al Pretore e Senatori della fedelissima città di Palermo.

E due altre lettere dello stesso tenore furono dirette all'Arcivescovo di Palermo capo del Braccio ecclesiastico ed al Principe di Butera capo del Braccio baronale. Inoltre una partecipazione ne fu fatta dal Principe di Castelnuovo al Protonotario del Regno.

Codeste lettere di convocazione sono importanti, comeché mostrano il successivo e legale sviluppo degli antichi poteri sovrani dello Stato, e legano la Costituzione del 1812 all'antica Costituzione della monarchia. E difatti il Vicario Generale convocava un parlamento straordinario more solito e nei luoghi stabiliti, vale a dire riuniva un'autorità politica, una rappresentanza nazionale, che stava già nel dritto pubblico del reame. Sin qui non v'ha nessuna innovazione negli ordini politici dello Stato, ma solamente la loro azione organica.

Ed il parlamento si riunì non già nel 15 ma nel 18 del detto mese di giugno, ed il Protonotario del Regno pronunziò in nome di S. A. R. il Vicario generale il seguente discorso:

«Cari ed amati Siciliani. — Dal momento in cui il Re mio augusto genitore degnossi per sua bontà con l'atto dell'Alter Ego dei 16 gennaio di questo corrente anno conferirmi le redini del Governo, tutte le mie cure non sono state dirette, che a dare delle momentanee provvidenze tendenti al vostro sollievo, ed al vostro bene. Ora per dare uno stabile aspetto ai pubblici affari di questo regno ho creduto necessario di radunarvi in questo generale straordinario parlamento, onde provvedere così ai bisogni dello Stato come al riordinamento ed alla migliorazione delle leggi, come altresì a togliere quegli abusi, che col volgere dei secoli si sono potuti introdurre a poco a poco per quindi stabilire un ordine pubblico ben regolato.

«Per riguardo al primo oggetto concernente i pubblici bisogni il mio cuore avrebbe desiderato, o fidi Siciliani, di non esservi astretto a fare veruna dimanda; ma come serbare un tale silenzio fra la scarsezza dei tempi trascorsi ed in mezzo ai bisogni di accorrere con ingenti somme a provvedere alla vostra difesa contro un nemico, che continuamente vi minaccia di rendervi suoi schiavi e rapirvi i vostri figli per farli strumenti dei suoi ambiziosi e dispotici disegni? Di dissipare le vostre sostanze per li suoi capricci? Calamità, da cui mercé la grazia di Dio in forza delle provvide cure del mio augusto genitore e per l'aiuto efficace del nostro potente Alleato siete stati sinora esenti. Vuolsi aggiungere a ciò, primo l'aver io dovuto badare, che non vi mancassero i generi di sussistenza in questo infelice anno di penuria; secondo i prezzi di tutti i generi accresciuti rapidamente, effetto bensì dell'accrescimento della ricchezza nazionale e della carestia dell'annata; terzo l'incertezza e la insufficienza dei nuovi catasti per li beni stabili, e l'attuale sbilancio, in cui si trovano le finanze. Queste sono le ragioni, che mi obbligano mio malgrado ad inculcarvi di seriamente occuparvene, onde provvedere efficacemente ai bisogni urgenti dello Stato, sicuro, che la vostra generosità, o fidi Siciliani, vi concorrerà con piacere, comprendendo voi bene, che una nazione non si farà mai rispettare e stimare, che a proporzione dell'energia, che adopera a mantenere le leggi e la sua forza militare.

«Ad aumentare però la ricchezza nazionale e con ciò le risorse dello Stato, il commercio interno ed esterno, l'agricoltura e l'industria, contribuiscono oltremodo, come ben. sapete, le savie leggi, che assi curano la libertà civile non meno che la proprietà. Voi già ne scorgete un felice esempio nella Gran Brettagna nostra fedele alleata, dove la saggia e ben ponderata sua Costituzione l'ha elevata a quel segno di floridezza e potenza, in cui al presente si ritrova, e le fornisce a dovizia i mezzi di sostenere con attività la gran lotta, che ha intrapreso contro il comune nemico.

«Applicatevi dunque a questo importantissimo oggetto, fedelissimi Siciliani, senza lasciarvi sedurre da una smoderata voglia di novità, da astratti pensamenti, e da fanatici sistemi, sommamente pericolosi in questa gravissima materia; siccome sarebbe ugualmente riprensibile un eccessivo e superstizioso attaccamento a certi vecchi stabilimenti e costumi dei nostri progenitori. Per la qual cosa seguendo voi la giusta strada della moderazione, fate sì, che il vostro lavoro riesca di gloria e di vantaggio non meno al Trono che alla Nazione, e renda memorabile nei fatti della storia quest'epoca, in cui si assoderà forse la base dell'ingrandimento e del lustro Nazionale.

«Riflettete, che gli occhi dell'Europa sono in questo momento volti su di noi. Rechiamo dunque a fine con gloria questa grande impresa, la quale io confido nel Signore, che assicurerà gloriosamente la fermezza e lo splendore del Trono non altrimenti che la vostra felicità, al cui conseguimento tute i miei sforzi saranno sempre diretti.

Questo discorso della Corona veniva sviluppato da un altro, che pronunziò il Segretario di Stato nel presentare il piano sullo stato delle finanze.

«S. A. R., egli disse, il Vicario generale ha convocato questo generale straordinario parlamento tanto per rettificare e migliorare le leggi del regno. come ancora per riordinare e provvedere l'erario.

«Il primo oggetto è certamente della più grave importanza per la prosperità della nazione, ma questa non potrà molto frutto ricavarne, quante volte diretto e condotto non sarà colla dovuta prudenza ed accorgimento. Lo spirito di teoria e di sistema è sempre pericoloso e qualche volta fatale, quando si tratta di stabilire una nuova forma di governo; per lo che la più saggia e sicura via, che in tal caso batter si possa, si è quella di mettere innanzi gli occhi e di seguire per quanto è possibile un qualche perfetto di già esistente modello. Nel rimontare pertanto l'edilizio politico di Sicilia faranno bene i tre Bracci a servirsi come specchio ed esempio della incomparabile Costituzione d'Inghilterra con quelle alterazioni però e modificazioni riguardanti il miglioramento del sistema della giustizia e le leggi civili e criminali, che chiederanno le circostanze diverse di queste due famosissime isole. Sarà pure cosa lodevole, che innovassero il meno, che la materia lo permetterà, con ritenere il più che sarà praticabile di quelli antichi patrii regolamenti, che si contengono nei capitoli del regno, e che vanno di accordo coi principii della legislazione britannica, che si possono con vantaggio a questo paese adattare.

Quanto al piano delle finanze il Ministro presentava uno specchio, da cui sorgeva un deficit di 717,516 once, e diceva non altrimenti potervisi provvedere, che con un aumento sulle antiche gravezze, salvo a formarsi un nuovo piano, quando un nuovo ordine politico sarebbe stabilito.

Il Parlamento passò a deliberare. Si vide, che l'antica forma organica di quella rappresentanza nazionale non rispondeva più alle opinioni ed alle esigenze del tempo. Il braccio ecclesiastico si spogliò volontariamente della sua rappresentanza speciale, e nella previsione di una costituzione pressoché all'inglese disse, che si sarebbe riunito alla Camera dei Pari. I Baroni rinunziarono spontaneamente ai loro privilegi, e fu questo un bell'esempio di patriottismo e di disinteresse. Laonde nella seduta dei 20 di luglio le basi della nuova costituzione furono stabilite. Esse vennero presentate al Vicario Generale nel 25 di quel medesimo mese, ed egli diresse al Re un atto, che diceva:

«Mio carissimo Padre e Sovrano;

«A me sembra, che avendo voi dichiarato replicate volte, che qualora la Sicilia volesse cangiare la sua antica costituzione, preferivate, che prendesse quella inglese, cognita per la sua saggezza, e che rende felice una così brillante e potente nazione; così crederei, che potreste assicurarmi della fermezza della vostra risoluzione, e che potreste autorizzarmi a sanzionare tutti quelli articoli, che saranno conformi a quella costituzione, che Voi volete accettata in tutta la sua integrità; salva solo la Religione Cattolica Apostolica Romana, che deve essere la sola ad esclusione di qualunque altra, e salve quelle modificazioni, che saranno necessarie di stabilire circa ai Tribunali ed alle leggi civili e criminali per adattarsi ai nostri costumi.

«E baciandovi la mano, sono

«Palermo 1° agosto 1812.

«Vostro ubbidientissimo e

riconoscentissimo figlio

FRANCESCO II.

«Essendo ciò secondo le mie intenzioni, vi autorizzo a farlo.

Ferdinando Borbone.

Quest'atto fu consegnato al Protonotario del Regno, il quale dopo di averlo nelle consuete forme trascritto nei registri del suo officio il 10 dello stesso mese di agosto, lo restituì al Principe Vicario, e questi emise a'  9 febbraio 1813 l'atto solenne, che trascriviamo:

«Convocatosi da Noi, qual Vicario generale coll'Alter Ego, straordinario general Parlamento con Real dispaccio del lo maggio dell'anno passato per provvedersi dal medesimo non solo ai bisogni dello Stato ma ancora alla correzione degli abusi, al miglioramento delle leggi, ed a tutto ciò, che interessar potesse la vera felicità di questo fedelissimo regno; ed essendo il medesimo collegialmente riunito, stabili le basi di una nuova costituzione, che sotto il 23 dello scorso luglio ci furono dallo stesso indirizzate. Autorizzati noi dal nostro Augusto Genitore per foglio del primo del decorso agosto, trasuntato ed esecutoriato dal Protonotario del Regno il giorno 10 dello stesso mese, aderendo alle proposte del Parlamento ed in conseguenza al voto della Nazione, abbiamo munito della Reale sanzione:

«1. Che la Religione dovrà essere unicamente ad esclusione di qualunque altra la cattolica apostolica romana, e che il Re sarà obbligato professare la medesima religione; e quante volte ne professerà un'altra, sarà ipso facto decaduto dal Trono.

«2. Che il potere legislativo risederà privativamente nel solo Parlamento. Le leggi avranno vigore, quando saranno da S. M. sanzionate. Tutte le imposizioni di qualunque natura dovranno imporsi solamente dal Parlamento ed anche avere la sovrana sanzione. La formola sarà Veto o Placet, dovendosi accettare o rifiutare dal Re senza modificazione.

«3. Che il Potere esecutivo risederà nella persona del Re.

«4. Il potere giudiziario sarà distinto ed indipendente dal potere esecutivo e legislativo, e si eserciterà da un corpo di Giudici,e Magistrati. Questi saranno giudicati, puniti, e privati d'impiego per sentenza della Camera dei Pari dopo l'istanza della Camera dei Comuni, come meglio rilevasi dalla costituzione

«5. Che la persona del Re sarà sacra ed inviolabile.

«6. Che i Ministri del Re ed impiegati saranno soggetti all'esame e sindicatura del Parlamento, e saranno dal medesimo accusati, processati e condannati, qualora si troveranno colpevoli contro la Costituzione e l'osservanza delle leggi o per qualche grave colpa nell'esercizio della loro carica.

«7. Che il Parlamento sarà composto di due Camere, una detta dei Comuni o sia dei rappresentanti delle popolazioni tanto demaniali che baronali con quelle condizioni e forme, che stabilirà il Parlamento nei suoi posteriori dettagli su questo articolo, l'altra chiamata dei Pari, la quale sarà composta da tutti quegli ecclesiastici e loro successori e da tutti quei baroni e loro successori e possessori delle attuali Parie,che attualmente hanno dritto di sedere e di votare nei due Bracci Ecclesiastico e Militare, e da altri, che in seguito potranno essere eletti da Sua Maestà giusta quelle condizioni e limitazioni, che il Parlamento fisserà nell'articolo di dettaglio su questa materia.

«8. Che i Baroni avranno come Pari testaticamente un voto solo, togliendosi la moltiplicità attualmente relativa al numero delle loro popolazioni. Il Protonotario del Regno presenterà una nota degli attuali Baroni ed Ecclesiastici, e sarà questa inserita negli atti parlamentari.

«9. Che sarà privativa del Re convocare, prorogare, e sciogliere il Parlamento secondo le forme ed istituzioni, che si stabiliranno in appresso. Sua Maestà però sarà tenuto convocar lo in ogni anno.

«10. Che alcun Siciliano non potrà essere arrestato, esiliato, o in altro modo punito e turbato: nel possesso e godimento dei dritti e dei suoi beni, se non in forza delle leggi di un nuovo Codice, che sarà stabilito da questo Parlamento e per via di ordini e di sentenze dei magistrati ordinarii ed in quella forma e con quei provvedimenti di pubblica sicurezza, che dividerà in appresso il Parlamento medesimo. I Pari godranno della forma dei giudizii medesimi, che godono in Inghilterra, come meglio si dividerà dettagliatamente ìn appresso.

«11. Che non vi saranno più feudi, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come allodii,conservandosi però nelle rispettive famiglie l'ordine di successione, che attualmente si gode. Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali, e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi, a cui finora sono stati soggetti per tali dritti feudali. Si aboliranno le investiture, relevii, devolzioni al Fisco ed ogni altro peso inerente ai feudi, conservando però ogni famiglia i titoli e le onorificenze.

«12. Finalmente, che ogni proposizione relativa ai sussidii debba nascere e privativamente conchiudersì nella riferita Camera dei Comuni, ed indi passare in quella dei Pari, dove solo si dovrà assentire o dissentire senza punto alterarsi; e che tutte le proposte riguardanti gli articoli di legislazione o di qualunque altra materia saranno promiscuamente avanzate da una delle due Camere, restando all'alta il dritto di repulsa.

«L'anzidetta reale sanzione fu sotto il 10 agosto decorso anno per via del nostro Segretario di Stato ed azienda comunicata al Parlamento, il quale si applicò in seguito a sviluppare e stabilire gli articoli di dettaglio della nuova Costituzione, come meglio si rileva dall'atto parlamentare stipulato alla nostra presenza il giorno 7 dello scorso novembre dal Protonotario di questo nostro regno, e da noi ancora non infieramente sanzionato.

«E siccome il Parlamento stabili la nuova forma dei Consigli civici, che deve aver luogo prima dell'imminente maggio dell'anno corrente, tempo in cui dai medesimi passar si dovrà rispettivamente alla elezione dei Magistrati municipali, che da quel momento in poi dovranno disimpegnare le incombenze ed eseguire gl'incarichi loro addossati dal Parlamento; e perché i capitoli riguardanti la nuova forma dei sopradetti Consigli Civici, alcuni capitoli del potere legislativo non meno che le istruzioni per la elezione dei rappresentanti la Camera dei Comuni, stabiliti dal Parlamento stesso e da noi di già muniti della reale sanzione, sono necessarii per l'organiziazione dei medesimi Consigli e formazione delle due Camere dell'imminente nuovo Parlamento; cosi noi esercitando le facoltà del potere esecutivo, inteso il parere del privato Consiglio, abbiamo stabilito ed ordiniamo, che prontamente si esegua in tutto il regno la nuova organizzazione dei Consigli Civici e quanto altro prescrivesi negli altri capitoli.»

Ed invero con diploma di quel medesimo giorno 9 febbraio 1813 veniva solennemente sanzionata una parte della nuova costituzione.

Svolgevansi intanto gli ordini nuovi con quelle difficoltà inseparabili da ogni cambiamento radicale nella legge fondamentale di uno Stato, specialmente quando una popolazione trovasi affrancata da un dispotismo, che l'ha sin allora travagliata, ammiseriia, demoralizzata, e nell'esaltamento delle sue passioni vien chiamata a prestare il suo concorso al governo; quando obbligata a fare atti di abnegazione dei suoi giusti risentimenti, è obbligata incessantemente a soffocare le voci delle più legittime o più naturali pasgioni individuali per non ascoltare se non quelle della ragione pubblica. Se si pensa, che in questi casi una nazione deve saltare immediatamente dall'infanzia all'età adulta; se si valuta la resistenza, ch'è d'uopo opporre ai consigli dei rancori di un passato di tristissime reminiscenze ed alle esigenze dei bisogni che chieggono una più immediata soddisfazione; se si tien conto di una necessaria inevitabile imperfezione nelle nozioni dei dritti e dei doveri dei cittadini, dei quali si sente in allora per la prima volta a parlare,si deve di necessità ammettere, che volere in questi casi un procedimento esatto, non turbato da verun disordine, è un volere opera eccedente le forze dell'uomo, e che perciò le imputazioni, che si fanno ai liberi reggimenti o ai popoli, che vi pervengono, sono o maligne o ingiuste.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

I RAGAZZI DI PALERMO (I PICCIOTTI)

Prima dell'entrata di Garibaldi

Le quali considerazioni acquistano forza maggiore, quando una perversa reazione soffia il fuoco della discordia ed alimenta esagerati timori. Lo che è ben difficile, che manchi in ogni nazione, ove il cambiamento degli ordini politici urta e rovescia interessi sino allora predominanti; né per certo mancava in Sicilia, ove il Re e la Regina non erano condiscesi agli ordini novelli, conformi per altro ai voti nazionali, che per una pressione straniera. Lo assentarsi dell'uno e dell'altra erano argomento del loro pensare su di essi.

Andavano dunque le cose il meglio, che potevano andare in Sicilia, quando il di 9 di marzo 1813 si vide il Re ritornare in Palermo, ed annunziare, essere suo intendimento di ripigliare le redini abbandonate dello Stato; e difatti con un atto sovrano avocò a sé i poteri delegati al duca di Calabria.

Non andava a garbo a Bentinck questa inattesa determinazione del Re, e la popolazione n'era anch'essa costernata. Si temeva d'una reazione, che avrebbe messa sossopra l'isola intiera. Bentinck esortò il Re a ricondursi nella sua villa, ed è da credere, che sotto forma di onori non lo lasciasse inguardato. Dicesi pure, che lo consigliasse all'abdicazione; ma il Re non volle sentirne, e ridiede al figlio i poteri, che aveva ritirato, abbandonando nuovamente la capitale.

Allora sanzionavasi la rimanente parte della Costituzione con successivo diploma del 25 maggio seguente. Vi era annesso Io stato nominativo dei Pari ecclesiastici, che ammontavano a 61, e quello dei Pari temporali, che giungevano a 124, come pure l'elenco dei deputati della Camera dei Comuni, che raggiungevano il n. di 154, dei quali 6 appartenevano a Palermo,3 a Messina, ed altrettanti a Catania,2 a Caltagirone e 2 a Marsala,89 ad altre 89 città, 46 ai 23 distretti in ragione di due deputati per ogni distretto,2 all'università di Palermo ed 1 a quella di Catania, avendo la prima perduta una rappresentanza nella Camera dei Pari come proprietaria di badie.

Cosi sorgeva la costituzione del 1812; la concordia e la tranquillità, già gravemente compromesse nell'Isola, rinascevano, e la Sicilia vedea con gioia avverato il suo più antico voto, la propria indipendenza, perciocché fra l'altro la Costituzione prevedeva, che se il Re di Sicilia riacquistasse il regno di Napoli o qualunque altro regno, dovrebbe mandarvi a regnare il suo primogenito, o lasciare detto suo figlio in Sicilia con cedergli il regno. Si soggiugneva, che ogni Re che abbandonasse il regno senza il consenso del Parlamento, non avrebbe più dritto a regnare, e la nazione avrebbe facoltà di eleggere un nuovo Re (). E poiché si era pensato,che la Regina Carolina avesse consigliata quella brusca risoluzione al marito, Bentinck la fece sorvegliare continuamente dalle sue schiere, sino a che fu obbligata ad abbandonare la Sicilia. Partita da Mazzara, andò a Costantinopoli, poi ad Odessa, indi a Vienna, ove mori dopo un anno, cioè agli 8 di settembre 1814.


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CAPITOLO II

Dalla proclamazione della Costituzione del 1812

sino alla rivoluzione del 1848.

SOMMARIO

Nei primi mesi del 1814, le negoziazioni diplomatiche non volgevano a favore di Ferdinando — Si cambiano nella fine dell'anno — Lettera di Talleyrand a Castlereagh — Considerazioni morali = Manifesto del Re Ferdinando di non avere mai rinunziato ai suoi dritti sul reame di Napoli — Il Re riprende l'amministrazione dell'Isola, e scioglie il Parlamento — Nuovo Parlamento. Discorso del Re — Effetto, che produsse  —  L'indipendenza della Sicilia non è rispettata — Tristi presentimenti  —  Il Parlamento vota i sussidii — Ma è disciolto. Commessione per stabilire le basi della nuova costituzione. Istruzioni date alla medesima  — I Siciliani ne rimangono scorati, perdendo la loro indipendenza — A' 4 di giugno 1815 Re Ferdinando entra in Napoli — Trattato di Vienna del 12 giugno 1815 tra il Re di Napoli e l'Imperatore d'Austria — Avvicinamento degli articoli segreti di questo trattato col Manifesto dell'Arciduca d'Austria — Ed anche con quello di Lord Bentinck  — Considerazioni politiche — Gli articoli segreti del trattato erano inconciliabili con le istruzioni date alla Commessione in Palermo — L'unione di Napoli e Sicilia è consumata — Nel 1820 e nel 1848 la Sicilia riproduce le sue aspirazioni separatiste — Governo provvisorio in febbraio 1848. — La missione di Lord Minto è paralizzata da un messaggio diretto dal governo napoletano — Il Parlamento avvisa alle modificazioni della Costituzione del 1812 — Il 10 di luglio 1818 proclama Re di Sicilia il Duca di Genova — Ma questi non accetta — La Deputazione siciliana rimane in Torino, ma i moti siciliani sono repressi come sul continente.

 Nei primi mesi del 1814 le negoziazioni diplomatiche non volgevano a favore di Re Ferdinando. L'alleanza tra il Re Gioacchino e l'Austria escludeva la restituzione del reame di Napoli alla Dinastia dei Borboni, e solamente sulla insistenza dell'Inghilterra gli alleati avevano deciso nel febbraio 1814 di darsi a Ferdinando IV una indennità in Italia per quanto fosse possibile proporzionata alla perdita, che faceva. E difatti nello stesso febbraio 1844 furono aperte le comunicazioni commerciali tra Napoli e Sicilia. Tutte queste cose avevano dovuto amareggiare gli ultimi già Cava%iati mesi della vita di Maria Carolina d'Austria, e ehi sa, che non ne abbiano anche affrettata la Bile. Iddio nella sua giustizia non volle, ch'ella vedesse rannodate le prati che per la restituzione del regno, sul quale aveva esercitato tanto e cosi tristo potere.

E queste pratiche furono rannodate per una lettera, che il 13 decembre 1814 il principe di Talleyrand scriveva da Vienna a lord Castlereagh del tenore seguente:

«Milord;

 «Voi mi avete invitato a farvi conoscere in quale maniera io concepisco, che debba essere regolato nel congresso l'affare di Napoli, dapoiché in quanto concerne la necessità di regolarvelo, è un punto sul quale non potrebb'esservi un solo istante d'incertezza in un animo come il vostro; sarebbe per certo un eterno subietto di rimprovero, e dirò pure un eterno subietto di onta, se essendo contrastato il dritto di sovranità su di un antico e bel regno come quello di Napoli, l'Europa riunita per la prima volta, e forse per l'ultima in congresso generale, lasciasse indecisa una quistione di tale natura, e consacrando in un certo modo l'usurpazione col suo silenzio, desse luogo a pensare, che l'unica sorgente del dritto è la forza.»

«Io non ho neppure da provare relativamente a Vostra Eccellenza i dritti di Ferdinando IV, perciocché l'Inghilterra non ha cessato mai di riconoscerli. Nella guerra, nella quale egli ha perduto Napoli, l'Inghilterra era la sua alleata, e lo è stata sempre dopo, e lo è tuttavia. Essa non ha riconosciuto mai il titolo, che prende colui, che governa Napoli, né i dritti, che questo titolo suppone. Si che per concorrere ad assicurare quelli del Re Ferdinando, l'Inghilterra non ha da fare, che una semplicissima cosa, cioè dichiarare nel congresso ciò, che ha sempre riconosciuto, essere Ferdinando IV il legittimo sovrano del regno di Napoli.»

«Forse l'Inghilterra, sin qui alleata di Ferdinando IV, vorrà esserlo ancora. Forse crederà essa sinanche la sua gloria interessata ad assisterlo con le sue forze, se ve n'è bisogno, per rientrare in possesso del reame, di cui sarà stato riconosciuto sovrano; ma non è questa un'obbligazione, che possa derivare da un riconoscimento puro e semplice dei dritti di questo principe, imperciocché il riconoscimento di un dritto non importa naturalmente altra obbligazione oltre quella di non fare cosa alcuna, che gli sia contraria, e di non dare appoggio a veruna pretensione, che gli sia opposta. Essa non importa quella di combattere per la sua difesa.»

«Può darsi, ch'io m'illuda, ma mi sembra infinitamente probabile, che una dichiarazione franca ed unanime delle potenze dell'Europa, e la certezza, che avrà colui, che governa Napoli, di non essere sostenuto da veruno, renderebbe inutile lo adoperare la forza; ma se avvenisse il contrario, coloro soli sarebbero gli alleati naturali del Re Ferdinando, che giudicassero a proposito di prestargli il loro appoggio.»

«Si temerebbe forse, che in questo caso la guerra potesse estendersi fuori i confini del regno di Napoli, e che la tranquillità dell'Italia ne fosse di nuovo compromessa? Si temerebbe forse, che truppe straniere traversassero l'Italia? Si ovvierebbe facilmente a questi timori, stipulandosi, che il regno di Napoli non potrà essere attaccato dal continente italiano. Sembra, che l'Austria siasi obbligata verso colui, che governa Napoli, a garantirlo da ogni attacco da questo lato; e se, come si assicura, essa non si è obbligata, che a ciò (dapoiché come supporre, che l'Imperatore di Austria abbia garantito contro i dritti di un principe suo zio e suo suocero il possesso di un regno, ch'egli ha perduto, facendo causa comune con l'Austria?), essa non può essere imbarazzata di conciliare con la giustizia e coi sentimenti naturali gl'impegni, che circostanze straordinarie gli han fatto prendere.»

«Mi sembra dunque, che si può soddisfare in pari tempo a tutt'i doveri, a tutti gl'interessi, a tutte le convenienze con un articolo come il seguente:

«L'Europa riunita in congresso riconosce S. M. Ferdinando IV come Re di Napoli. Tutte le Potenze si obbligano di non favorire né di appoggiare né direttamente né indirettamente veruna pretensione a opposta ai diritti, che a tal titolo gli appartengono, ma le truppe, che le potenze straniere all'Italia ed alleate della detta Sua Maestà faranno marciare per siffatta causa, non potranno traversare l'Italia.

«Io mi persuado, Milord, che Vostra Eccellenza è sufficientemente autorizzata per sottoscrivere ad una tale clausola, e d'ella non ha bisogno di una più speciale autorizzazione. Tuttavia se Ella giudicasse altrimenti, io la inviterei a dimandare quest'autorizzazione senza ritardo, com'Ella ha voluto promettermelo.»

«Gradisca ecc:

«IL PRINCIPE DI TALLEYRAND ().»

Così scriveva il principe di Talleyrand, e l'ultima clausola della lettera autorizza a credere, ch'egli abbia presa l'iniziativa di questa negoziazione col rappresentante inglese. Chi era rimasto fedele all'imperatore Napoleone aveva il dritto di usare dure parole contra il Re di Napoli, che ne aveva disertata la causa; ma il Principe di Talleyrand, che aveva tradito l'Imperatore sin nelle mura di Parigi, non poteva per certo invocare quest'argomento a suo favore. È noto come il cavaliere de Medici spedito a Vienna da Re Ferdinando per determinare il congresso in favore di questo principe, usasse largamente di tutt'i mezzi, che la sua sagacità e la sua penetrazione gli fornivano per riuscire nella sua missione. È probabile, che il principe di Talleyrand abbia prima di ogni altro ceduto alle sue sollecitazioni; noi non abbiamo documenti per affermare, se ciò facendo, abbia egli adempito un officio impostogli dal Re di Francia, o seguito piuttosto un suo sentimento o un suo impegno particolare, ma non dubitiamo di asserire, che l'istoria imparziale e severa senza pregiudicare il suo giudizio sul Re Gioacchino, riprova la durezza dello stile, col quale è trattato un Sovrano, ch'era stato riconosciuto da tutte le potenze dell'Europa, che s'era innalzato per quella medesima via, che il principe di Talleyrand aveva calcato, e che si era unito all'Austria contro l'Imperatore suo cognato per combatterlo apertamente su i campi di battaglia quando il principe di Talleyrand cospirava nelle tenebre segretamente per isbalzare quello stesso Monarca dal suo trono imperiale.

Prima di questa lettera, e non appena le dinastie dei Borboni di Francia e di Spagna furono reintegrate nei rispettivi troni, Ferdinando IV da Sicilia aveva pubblicato un manifesto, col quale dichiarava non aver egli mai rinunziato ai suoi dritti sul reame di Napoli; essere anzi fermamente risoluto di non rinunziarvi né di ammettere veruna proposizione d'indennità, né di accettare qualunque fosse compenso.

Poi nel luglio 1811 riprese l'amministrazione dell'isola, questa volta senz'alcuna opposizione di Lord Bentinck, il quale invece rinunziò al comando dell'armata, che fu deferito al principe ereditario. Questi sin dal mese di marzo, essendo tuttavia Reggente, aveva convocato il Parlamento nazionale, ma è da credere, che non ne fossero i deputali graditi alla Corte o costituissero una forte opposizione al governo, perché il Re, dopo di averne fatta egli stesso l'apertura, lo sciolse sotto pretesto, che la maggior parte dei deputati mancavano o non erano stati legittimamente eletti; motivi insussistenti ambedue, poiché spettava alla Camera stessa e non al potere esecutivo di richiamare all'assemblea i deputati, che ne mancavano, e verificare la legittimità dei poteri dei suoi componenti. Quest’atto del governo, che non può dirsi arbitrario sotto il rapporto delle prerogative della Corona, ma che lo è sotto il rapporto dei motivi allegati per giustificarlo, fu di cattivo augurio per lo svolgimento delle istituzioni costituzionali.

Il 20 di ottobre di quello stesso anno il nuovo Parlamento fu aperto. Il Re raccomandò, si perfezionasse la Costituzione, si sostenesse la dignità della nazione, si pagassero i magistrati, senza dei quali non sarebbe né forza né quiete nell'Isola. L'Assemblea si occupò delle leggi, ma si mostrò stretta ai sussidii, atteso lo stato difficilissimo delle finanze. Il 30 di aprile 1815 il Re si presentò a quell'adunanza, e disse essersi riaccesa la guerra, e nel comune pericolo dover esser riuniti il governo e la nazione. Essere i suoi dritti sul reame di Napoli le prime fondamenta della sicurezza dei suoi sudditi siciliani, perciò non potersi astenere dalla più giusta delle guerre. Appartenere loro bensì il voto dei convenienti sussidii; ma il provvedere ai bisogni dello Stato non essere un dono ma un dovere, ed il primo anzi di tutti. Per non averlo eglino adempiuto nel decorso di sette mesi, ben avrebb'egli potuto dichiararli decaduti dalle loro funzioni, e non pertanto non averlo fatto. Annunziare loro però, non poter egli differire la sua partenza, né volere lasciare il Parlamento in seduta, comeché egli ne faceva parte; non potere neppure lasciare indeciso l'importantissimo articolo delle sussistenze dello Stato; che perciò accordava soli sei giorni a decidere. ().

Cosiffatto discorso rattristò la Camera e la Nazione, perché mostrava quanto poco coerenti al regime rappresentativo fossero le idee del Re. In virtù di qual titolo il Re, elevandosi al di sopra di uno dei poteri sovrani dello Stato, poteva dichiarare decaduti i componenti della Camera elettiva? Strana confusione nel concetto di quel governo! Il potere esecutivo, appropriandosi i dritti di censore sul potere legislativo, credeva aver facoltà di dichiarare decaduti i deputati della nazione dal mandato, che da questa sola avevano ricevuto! Poteva senza dubbio il Re sciogliere anche questa seconda Camera elettiva, perché con ciò invocava il sovrano arbitramento della nazione, ma dichiarare decaduti i rappresentanti nazionali dalle loro funzioni era una frase assolutamente inconstituzionale; ed era poi improprissima nel senso grammaticale, se si era inteso adoperarla per esprimere una dissoluzione parlamentare.

Ma un altro punto vi era di non men grave apprensione. Se il Re partiva per andare a conquistare il regno di Napoli, era per verificarsi il caso preveduto dalla Costituzione, nel quale egli decadeva dalla Corona siciliana, che passava a suo figlio. Ora di ciò il Re non solo non faceva alcuna parola, ma dava a divedere, che la pensasse ben diversamente, quando dichiarava essere la conquista di Napoli il primo fondamento della sicurezza dei suoi sudditi siciliani, dapoiché la conquista di Napoli ai termini della legge fondamentale della Monarchia faceva invece cessare lo stato di sudditi siciliani. Ed era poi significativa la dichiarazione di non volere lasciare aperto il Parlamento, mente egli era assente dall'isola.

Queste considerazioni destavano dei tristi presentimenti; la costituzione siciliana sembrava nella culla minacciata del suo estremo fato. Non pertanto la camera votò i sussidii, sì che in quell'anno l'attivo dell'erario, compresi i sussidii inglesi, ammontò ad un milione, novecento quarantasei mila once. I beni degli stranieri possessori in Sicilia furono imposti di un 30 per % della loro rendita.

Pochi altri giorni di vita ebbe il parlamento siciliano dopo di avere accordato i sussidii,dapoiché il 15 di maggio un commessario regio si presentò nella Camera con l'ordinanza di dissoluzione. Quel Parlamento fu l'ultimo. Il Re prima di partire nominò una commessione di 18 membri per compilare il progetto dei nuovi Codici. In questo soddisfacevasi un voto dell'assemblea nazionale; ma quella commessione aveva altresì l'incarico di rettificare la Costituzione. Queste furono le istruzioni, che il Re medesimo le diede:

Continuasse il reame di Sicilia ad aver forma costituzionale, serbando la sua rappresentanza nazionale ripartita in due Camere, l'una dei Pari, l'altra dei Comuni. La religione fosse unicamente la Cattolica Apostolica Romana. Il potere legislativo si esercitasse collettivamente dal Re e dalle due Camere; ma l'iniziativa della legge appartenesse al Re, al quale si spettasse ancora di sanzionare le leggi dopo di essere state votate e discusse nelle due Camere. Il potere esecutivo si esercitasse dal Re, la cui persona fosse sacra ed inviolabile; risponsabili però i consiglieri ed i Ministri. Un Codice di leggi civili, criminali, di procedura, di commercio, e di sanità, ed un nuovo e più idoneo ordinamento di magistrature avessero a rendere più salda, più imparziale, e più facile l'amministrazione della giustizia. La libertà delle opinioni e della parola fossero garentite, ma quest'ultima temperata dai regolamenti stessi adottati in Francia da Luigi XVIII nell'anno precedente. Sin qui le istruzioni non si discostavano di troppo dalle manifeste tendenze nazionali, ma l'ultima clausola annientava la più importante disposizione dello Statuto costituzionale; in questa clausola era scritto, che se il Re tornasse al possedimento del suo reame di Napoli, dovesse la sovranità di Napoli e di Sicilia continuare ad essere unita come per lo passato nella persona del Re e dei suoi successori; ed ove il Re volesse risiedere in Napoli, dovesse lasciare in Sicilia per rappresentarlo un principe della famiglia reale o un ragguardevole personaggio italiano.

Così dopo appena due anni la Costituzione sanzionata nel 1812 era finita, ed aveva trascinato nella sua caduta il più caldo voto dei Siciliani, la indipendenza nazionale. Questa perduta,gli animi rimasero scorati, e sorsero le opinioni avverse ad una dominazione, che contrariava un interesse vitale, riconosciuto e proclamato solennemente nella legge fondamentale dello Stato. Le basi delle riforme costituzionali, se ne togli l'iniziativa delle leggi riserbata unicamente al Re (articolo per altro molto importante),non erano difformi dai principii generalmente ammessi nei governi rappresentativi; ma quando la indipendenza nazionale è compromessa, le guarentigie interne perdono molto delle loro attrattive. Non diciamo già che ciò sia conforme alla politica ed alla prudenza, dapoiché le istituzioni nazionali ed il lavorio dell'educazione politica del popolo debbono riuscire a mezzi da riacquistare la propria indipendenza, ma esprimiamo un fatto, che per essere poco politico non cessa di essere generalmente vero. Ed in Sicilia questo fatto si compiva come altrove.

Dopo di essere rimasto all'incirca un mese in Messina, Re Ferdinando a'  4 di giugno 1815 entrava in Napoli. Ivi ebbe novella conferma di essere stato riconosciuto dal Congresso di Vienna per Re delle Due Sicilie, ed otto giorni dopo segnavasi in Vienna tra il principe di Metternich ed il commendatore Ruffo il seguente trattato:

«Sua Maestà l'Imperatore d'Austria e Sua Maestà il Re delle Due Sicilie, animati da un uguale desiderio di assicurare per mezzo dei più intimi rapporti tra esse la tranquillità dei loro possedimenti e la pace interna ed esterna dell'Italia, hanno consentito di conchiudere tra loro un trattato di amicizia, di unione, e di alleanza difensiva, il cui obbietto permanente è di provvedere cosi alla tranquillità interna dell'Italia come alla sua esterna sicurezza.»

«In questo scopo e per pervenire ad un obietto cosi salutare le loro Maestà hanno dato i loro pieni poteri, cioè………………..….….……...………...……..……….……….……..…..…..………….i quali dopo di avere scambiati i detti loro pieni poteri, trovati in buona e debita forma, hanno consentito negli articoli seguenti:

«1. Sua Maestà l'Imperatore d'Austria e S. M. il Re delle Due Sicilie dichiarano, che in virtù dell'unione, che contraggono col presente trattato, vi sarà da oggi tra loro un'alleanza, che avrà per oggetto la difesa dei loro rispettivi Stati ed il mantenimento del riposo interno ed esterno dell'Italia.»

«2. Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica e sua Maestà il Re delle Due Sicilie si garentiscono reciprocamente e nella più assoluta maniera tutti gli Stati, che posseggono in Italia, giusta le stipulazioni dell'atto principale del congresso di Vienna.»

«3. In tutti i casi, nei quali la penisola italiana sarà minacciata da una guerra, le due alte parti contraenti adopreranno dopo di essersi messe di accordo a tale obbietto i loro buoni offici per impedire questa guerra; se nondimeno le loro cure riescono infruttuose, le Loro Maestà dichiarano sin da ora, che esse riguarderanno ogni attacco ed ogni aggressione imminente diretta contro i possedimenti di una delle due Corone in Italia come proprio e personale all'altra.»

«4. Quantunque la vicendevole garentia del loro stato di possesso in Italia, alla quale S. M. l'Imperatore ed il Re delle Due Sicilie si obbligano, debba essere sostenuta con tutta la loro potenza, e che le loro Maestà cosi la intendono giusta il principio, che è il fondamento di questo trattato, che chi attacca i possedimenti di una corona attacca l'altra, nulladimeno le alte parti contraenti hanno giudicato a proposito di fissare le forze, che saranno obbligate di fornire in ogni guerra, nella quale è messo in pericolo il riposo dell'Italia. Sua Maestà Imperiale si obbliga di fornire a questo effetto per lo meno 80mila combattenti di ogni arme, e Sua Maestà il Re della due Sicilie per lo meno 25 mila combattenti.»

«5. Una convenzione particolare regolerà i rapporti tra le loro rispettive armate, specialmente in ciò che concerne il comando e le misure di sussistenza e di approvvigionamento.»

«6. Le loro Maestà si obbligano e si promettono pel caso, in cui si trovino in guerra per la difesa dell'Italia, di non sancire né fare veruna proposizione di tregua o di pace, né di trattare né conchiudere col nemico o coi nemici, che avranno, se non di comune accordo, e di comunicarsi reciprocamente tutto quello, che potesse venire a loro conoscenza, e che interessasse la sicurezza dell'Italia o la tranquillità dei loro rispettivi possedimenti.

«Il presente trattato sarà ratificato e le ratificazioni saranno scambiate nel termine di sei settimane o più presto, se si può.»

«In fede di che i rispettivi plenipotenziarii l'hanno segnato, e vi hanno apposto il suggello delle loro armi.»

Fatto in Vienna il 12 giugno dell'anno di grazia 1815.»

Articoli separati e segreti.

«1. I legami di parentela e di affinità tra le case regnanti in Italia e le altre potenze dell'Europa, del pari che i loro interessi reciproci, dovendo essere subordinati all'interesse generale della sicurezza esterna e interna dell'Italia ed alla garentia dello stato di possesso stipulato dal trattato di Vienna, i quali formano lo scopo permanente dell'alleanza dei 12 giugno 1815, è sottinteso tra Sua Maestà l'Imperatore d'Austria e S. M. il Re delle Due Sicilie, che in conformità dello art.4 del trattato di amicizia e di unione dei 12 giugno 1815, elleno prendono l'impegno di non contrarre veruna alleanza contraria al detto trattato ed alla federazione difensiva dell'Italia, di qualsivoglia natura possa essere.»

«2. Gl'impegni, che le Loro Maestà prendono col presente trattato per assicurare la pace interna della Italia, facendo loro un dovere di preservare i loro Stati e sudditi rispettivi da nuove reazioni e dal pericolo d'imprudenti innovazioni, che ne produrrebbe il ritorno, è rimasto inteso tra le alte parti contraenti, che S. M. il Re delle Due Sicilie nel ristabilire il governo del regno non ammetterà verun cambiamento, che non potesse conciliarsi sia con le antiche istituzioni monarchiche, sia coi principii adottati da S. M. Imperiale e Reale Apostolica pel reggimento interno delle sue provincie italiane.»

«I presenti articoli separati inscritti avranno la medesima forza e valore, che se fossero inseriti da parola a parola nel trattato manifesto di questo giorno. Essi saranno ratificati e le ratifiche scambiate nel medesimo tempo.»

«In fede di che i plenipotenziarii rispettivi li hanno

Sottoscritti, e vi hanno apposto il suggello delle loro armi.»

Fatto a Vienna 12 giugno 1815.

«IL PRINCIPE DI METTERNICH.

IL COMMENDATORE RUFFO.».

Avvicinate il secondo degli articoli segreti col manifesto dell'Arciduca Giovanni del 1809, e dite se le diffidenze degl'Italiani sono ingiuste. Ove sono relegate da questo articolo la libertà e la indipendenza, che l'arciduca assicurava così reiteratamente? Anche Lord Bentinck nel 14 di marzo 1814 aveva detto:

«Italiani! I soldati della Gran Brettagna sono sbarcati sulle vostre coste. Essi vi tendono la mano per sottrarvi dal giogo di ferro di Bonaparte. Il Portogallo, la Spagna, la Sicilia, l'Olanda possono farvi testimonianza dei nostri sentimenti liberali e disinteressati. La Spagna col suo coraggio e con gli sforzi dei suoi alleati ha compito una immensa intrapresa. I Francesi sono stati discacciati dal suo seno. La Sicilia sostenuta dall’Inghilterra, ha evitato la sventura generale né ha sofferto; e grazia ai benefizii del suo sovrano ella va a vedere fiorire la sua gloria tra le nazioni libere.»

E perché dunque l'Inghilterra nel congresso di Vienna non sostenne le garentie concedute sotto la sua mediazione ai Siciliani? Perché la restituzione del reame di Napoli alla dinastia dei Borboni doveva implicare la violazione dei patti convenuti a Palermo? Non per altro se non perché la reazione contro i principii proclamati a Parigi nel 1189 erasi compita a Vienna; perché Napoleone era stato vinto dalle promesse d'indipendenza e di libertà fatte ai popoli, e le aspirazioni dei popoli, incoraggiate da queste promesse, erano state compresse dalle armi, che col concorso dei popoli avevano vinto Napoleone. E bene sta. I Sovrani avevano adempito al loro compito. I popoli avevano mancato al loro. Gl'Italiani n'erano usciti i più malconci di tutti, e ad essi si erano fatte le più brillanti e magnifiche promesse. Perché poi dar loro colpa e regalarli dei più bei sermoni quando ammaestrati dalle loro lunghe sventure, non vogliono avere confidenza, che in sé stessi? Gli articoli segreti del trattato napoletano di Vienna erano inconciliabili con gli ordini costituzionali della Sicilia; per cui quelle istruzioni spontaneamente date alla Commessione dei diciotto in Palermo dovevano rimanere una lettera morta. Così erano sfumate e la Costituzione del 1812 e le basi dell'altra, che doveva rimpiazzarla. I Siciliani, che di un tratto di penna avevano veduto tòrsi la propria indipendenza, videro anche cadere la libertà, che solennemente si era dichiarato di conservare! Il 14 di luglio 1815 comparve un decreto, che riuniva in un solo gli eserciti di Napoli e Sicilia, e cinque mesi dopo, vale a dire il di 8 decembre del medesimo anno, ne comparve un altro, col quale Re Ferdinando in esecuzione delle risoluzioni del Congresso di Vienna prendeva il titolo di Ferdinando I Re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ecc., dava alle due parti del suo Stato un ordinamento uniforme, ed annullava la costituzione della Sicilia per facilitare l'unione dei due reami.

Cinque anni dopo, la rivoluzione in Napoli ne provocò un'altra in Sicilia. Quell'isola riprodusse immediatamente le sue aspirazioni separatiste, e le ripeté più fermamente nel 1848. Il 24 febbraio di quest’anno il governo provvisorio di Sicilia convocò il parlamento Siciliano, il quale si riunì il 25 di marzo in Palermo.

Gli accordi col governo di Napoli erano stati rotti. Da una dichiarazione recentemente fatta da Lord Russell nella Camera dei Comuni si rileva, che Lord Minto, spedito a Napoli nello scopo appunto di farsi mediatore tra Napoli e Sicilia, dopo di avere assistito ad un Consiglio di Stato, ov'erano state risolute le concessioni da farsi ai Siciliani, si era assunto l'impegno di recarle egli medesimo per avere l'agio di usare la sua mediazione e l'autorità dell'Inghilterra; ma giunto in Palermo, trovò di essere stato prevenuto da un diretto messaggio napoletano, il quale scompagnato da ogni rimostranza o insinuazione dell'agente inglese, era stato recisamente rifiutato.

La Sicilia allora si ritenne divisa dal regno di Napoli; la costituzione del 1812 si trovò, che avesse da adattarsi ai nuovi bisogni del tempo, ed il 13 di aprile l'Assemblea dichiarò la decadenza della Dinastia regnante, sì che compita la riforma della Costituzione un principe italiano sarebbe stato invitato a regnare in Sicilia.

Ed il 10 di luglio l'opera della riforma costituzionale era compiuta. Allora Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia Duca di Genova, secondogenito del Re Carlo Alberto, aveva fatto bella mostra di sé nella guerra italiana; a lui si volsero i pensieri dei Siciliani, ed in quel dì 10 di luglio il Parlamento Siciliano proclamava all'unanimità Re di Sicilia il Duca di Genova col nome di Alberto Amedeo I, ed una deputazione fu spedita a Torino.

In quel tempo erano avvenute le prime sventure dell'esercito Piemontese; i doveri di sovrano chiamavano il Duca di Genova a Palermo, ed i doveri di figlio esigevano, che in quei pericolosi momenti non si discostasse dal padre. Il principe quindi rifiutò con una lettera diretta il 4 di agosto al marchese Pareto, e dopoché il 25 di quel mese l'augusto suo genitore lo ebbe chiamato in Alessandria, rifiutò ancora con una seconda lettera, che il 20 di ottobre diresse al generale Lamarmora. Le circostanze del tempo non permettevano una determinazione diffinitiva, e la delicatezza del principe non gli consentiva di tenere la deputazione siciliana a sua disposizione. Ma questa consenti di rimanere in Torino sinché volgessero tempi migliori, ed il Gabinetto si astenne dal dare pubblicità al rifiuto. I tempi volsero al peggio, ed i moti siciliani furono spenti come sul continente.


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CAPITOLO III

Dal 1 848 sino alla insurrezione di Palermo del 1860.

SOMMARIO

Dopo il 1848 la Sicilia si trovò sotto la compressione di due forze — La descrizione dello stato politico-amministrativo dal 1848 al 1860 richiederebbe un volume — La polizia si rendeva sempre più odiosa ed incomportevole — Pare difficile, che si possa dubitare delle torture  —  Il personale della polizia era odiato, e diveniva peggiore — Lo stato violento della Sicilia si rese più pronunziato dopo scoppiata la guerra dell'indipendenza italiana  — Squadra piemontese in Messina  —  Dimostrazione al Comandante di essa — Arresti, che ne seguirono  —  Inutile interposizione del comandante e dei consoli di Francia e di Sardegna — Manifesto degli ulliziali piemontesi — Esso pubblicavisi nel giorno della battaglia di Solferino — Dimostrazione in Palermo dell'8 di luglio. Corrispondenza — Osservazioni critiche su di essa — Comitato di signore in Messina — Ma da queste innocenti dimostrazioni s'irrompeva ad atti riprovevoli. Assassinamento di Aricò — E di Rodi  —  L'ispettore Toscano in Messina. — Tortura inflitta a Francesco Casella  —  In quel tempo il governo chiedeva ai municipii dichiarazioni, che accrescevano il malcontento pubblico — Nel finire di luglio l'esasperazione in Palermo è al colmo — Maniscalco è ferito — Questi fatti peggiorano la condizione morale e politica dell'isola — Tormenti dati a Salvatore Licata — Eccessi commessi da 30 compagni d'armi nel villaggio dell'Abbate — Tentato arresto di Enrico Amato Tormenti dati al giovinetto Vienna — Risposta ad una obiezione — Il Capitano d'armi Chinnici — Orribili torture inflitte a Chimera, Pinzolo ed alla moglie del primo — Eppure questo deplorabile stato dei Siciliani non risparmiava le ingiuste doglianze di alcuni Italiani — Lettera di Errico Amato — L'insurrezione preconizzata in questa lettera si rende un fatto compiuto.

Dopo il 1848 la Sicilia si trovò sotto la compressione di due forze, che sono sempre il naturale corredo di ogn'insurrezione repressa. L'azione del governo, e la reazione del partito, ch'era stato vinto, e ritornava ad essere predominante. Quando l'insurrezione è derivata da cause transitorie, un governo savio e conciliatore sa situarsi nel punto medio dei due partiti e contenerli entrambi, ma quando le cagioni del malcontento sono permanenti e provengono dall'opposizione ai principii fondamentali della pubblica amministrazione, allora è ben difficile, che il governo rifiuti l'appoggio, che gli offre il partito della reazione, e che non finisca col presceglierlo come il solo istromento dell'esercizio della sua autorità. Allora tutto si perverte nella pubblica amministrazione. L'energia, della quale abbisogna il potere per mantenersi al timone dello Stato, si converte in violenza, e la sorveglianza sul partito vinto nel fine d'impedirgli di cospirare diviene persecuzione. Con questi due agenti l'azione del governo si demoralizza, cade nelle più abiette mani, crea sempre nuovi ostacoli, allarga la sfera dei malcontenti, accresce l'ira ed il numero dei suoi nemici, fa perdere la pazienza sinanche ai suoi amici onesti, e si frange contro l'urto di esigui mezzi, che destano la meraviglia di tutti, e che non sono altro, se non la dissoluzione di un corpo morboso, che ha progredito, peggiorando sempre nella infermità, della quale è perito.

Descrivere lo stato politico amministrativo della Sicilia dal 4848 al 1860 non è del nostro argomento; tale narrazione per essere condotta con l'ordine e l'autenticità, di cui è mestieri, farebbe materia essa sola di qualche volume. Delinearne un quadro in piccole proporzioni non risponderebbe al nostro scopo, perché non si potrebbe accompagnarlo con documenti, che ne attestino la verità contro le negazioni di coloro, che sono interessati a contradirlo. Epperò diremo in sui generali, che nel decorso di questi dodici anni la Sicilia fu amministrata cosi sciaguratamente come il resto del reame. Il Generale Filangieri dopo di essere stato severamente rigoroso contro gl'imputati di reati politici, aveva protetto gl'interessi materiali, aveva meno infierito contro coloro, che non avevano altra colpa, che le opinioni liberali, e vi fu qualche tempo, in cui lo stato politico amministrativo dell'isola in confronto di quello del continente veniva giudicato buono o per lo meno più tollerabile.

Ma la polizia si rendeva sempre odiosa ed incomportevole. Coloro, cui era affidata, perdendo assolutamente di vista lo scopo ed i mezzi legittimi della loro autorità, la esercitavano con tanta violenza e malignità, che incorrendo a poco a poco nell'esecrazione universale, erano divenuti i nemici personali della popolazione, ed anziché alla tutela dell'ordine miravano piuttosto a saziare il loro odio, e formavano dell'esercizio della loro autorità una vendetta.

Pare difficile, che si possa più dubitare degli iniquissimi mezzi, che accompagnavano l'istruzione nei processi politici, e che fanno fremere l'umanità; narrazioni circostanziate, precisissime non possono logicamente ritenersi falsamente fabbricate, e se anche fosse vera la metà di quello, che si è detto, questa metà basterebbe a fare inorridire. Gr ingegnosi istromenti inventati per straziare la umanità, la loro descrizione, la loro applicazione non possono essere il parto di una fervida immaginazione, oltreché qualche decisione dell'autorità giudiziaria pone il suggello dell'autenticità al fato stato obietto del giudicato, ed accresce gli argomenti a favore della verità degli altri, elle la stampa ha pubblicalo. Coloro, che andarono a chiedere ad una età, che la storia ha già stigmatizzato, quelle torture che destano l'orrore e indegnazione di tutti,non hanno compreso, che la diversa civiltà tra i due tempi doveva accrescerne smisuratamente l'effetto nell'opinione universale.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

IL COLONNELLO TURR

Capo dello stato maggiore generale di Garibaldi

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ACCAMPAMENTO DELLE TRUPPE DI GARIBALDI A CASTROGIOVANNI

Così mentre il malcontento contro il governo prendeva smisurate proporzioni,il personale della Polizia, e specialmente il Direttore sig. Maniscalco, diveniva obietto dell'esecrazione di tutti. La popolazione li chiamava sorci (topi), comunque con questo nome venissero più particolarmente indicate le guardie di polizia, uomini tristi, resi anche più tristi dal mestiere, cui si consacravano, ed al quale venivano incoraggiati da due energici pungoli, le ricompense dell'autorità, cui servivano, ed il sentimento della vendetta contro una popolazione, che li spregiava e li aveva a vili per quanto li temeva. Il loro animo già corrotto s'imperversava sempre dippiù e s'induriva, familiarizzandosi con gli atti di una fredda crudeltà, che comandati nel cieco furore di una fazione, che prendeva consiglio dal timore e si teneva minacciata, venivano eseguiti con quell'abituale brutalità, che aveva causticato ogni sentimento di morale e di umanità. Vedremo da qui a poco a quali incredibili eccessi di ferocia e d'immoralità si giungesse.

Questo incomportevole stato si rese pronunziato, dopoché ebbe scoppiato la guerra della indipendenza italiana. Essa veniva a rianimare le speranze dei Siciliani, che si commuovevano come il resto degl'Italiani, e si esaltavano dippiù, perché vedevano divenire più facile il compimento del loro più antico e più ardente voto, e si sentivano inoltre compressi sotto un potere, che diveniva più rigoroso a misura che si accrescevano le cause dei timore. Ogni successo delle armate alleate provocava delle dimostrazioni, che gli agenti dell'autorità si adopravano pazzamente di contenere. Montebello, Palestro, Magenta e l'entrata in Milano avevano deteriorate semprepiù le relazioni già deplorabili tra il governo e le popolazioni.

La mattina del 23 di giugno comparve in Messina la squadra piemontese. La folla del popolo stava muta sulla riva, assisteva allo sbarco degli uffiziali e dei marinari, che calavano a terra, e colla sua attitudine manifestava la gioia, con la quale li accoglieva. Ameni uffiziali furono offerte carrozze per accompagnarli.

Ma una forte dimostrazione si organizzava per lo sbarco del Capo-Divisione, né fu possibile di persuadere a tralasciarla e pazientare altro poco. E difatti alle 7 p. m. nel comparire della lancia con la bandiera di comando,un silenzio perfetto si stabilisce sulla riva, ma non appena il Capo-Divisione, pone. piede sulla terra, la popolazione prorompe in grandi grida di Evviva alla squadra, a Vittorio Emmanuele, alla Guerra, alla Indipendenza, ecc. Dei fiori sono gittati; la massa siegue l'impulso, le grida si. aumentano col crescere della folla, e la truppa, che occupava gli sbocchi delle strade, mal riusciva a contenere que' moti. È scritto, che un cittadino, preso un mazzo di fiori con nastro tricolore, lo piantò sulla baionetta di un soldato, che ve lo lasciò stare sin che un'altra mano non venne a ritirarlo; e che un marinaio piemontese presentatosi col cappello in mano ad uno dei soldati lo invitava a gridare: Viva Vittorio Emmanuele; Viva l'Indipendenza, ed il sodato gridava.

«La sera del 23, aggiugne la corrispondenza piemontese, che abbiamo per guida, fu una sera memoranda: infine a forza di arrestare i più frenetici con promesse e grida di basta! gli ufficiali riuscirono ad acchetare la popolazione. La quiete si ristabiliva, ma la dimostrazione, quantunque taciturna, era sempre imponente. Gli uffiziali presi al braccio dai cittadini percorrevano le vie interne della città sempre seguiti dalla popolazione. La forza aveva incatenato le braccia a questi liberi patrioti, ma il cuore non ha potuto ancora trovare catena, che valga a farlo sortire dai principii d'indipendenza patria.

«Le ore triste successero alla frenetica gioia di questi poveri abitanti; fatta la notte, la città era ingombra di pattuglie numerose accompagnanti gruppi di birri ed agenti di polizia. Gli arresti cominciarono nella stessa sera ed all'ora, che scrivo, passano i cento.  — Dio non paga il sabbato. Il giorno della resurrezione si approssima anche per essi.

«Messina mandò un mazzo di fiori a tutti i legni con un piccolo indirizzo, il cui motto era Salute e Gloria ()».

E gli arresti proseguirono nei giorni successivi. Il Comandante Tholosano ed i consoli di Francia e di Sardegna s'interposero presso l'Intendente ed il Maresciallo Comandante la Piazza per fare iscarcerare gli arrestati, ma inutilmente. Qualche caffè fu chiuso, ed al Casino della Borsa, ove si radunava il fiore della società messinese, fu mandato un Ispettore di Polizia per sorvegliare chi vi andava e gli Uffiziali piemontesi, che vi erano stati invitati. Fra i Deputati del Casino vi era un Livornese stabilito in Messina da molti anni. Questi invitò l'Ispettore a ritirarsi, ma l'Ispettore si rifiutò, sì che gli Uffiziali piemontesi per evitare una collisione erano sul punto di andarsene, quando sopraggiunse il Console Sardo, il quale fè in modo che l'agente della Polizia andasse via.

La mattina seguente gli uffiziali piemontesi inviavano ai Messinesi il seguente indirizzo:

«Messinesi!

«L'entusiastica e cordiale accoglienza, che ieri sera da voi ricevettimo nel mettere piede a terra sul suolo siciliano, ci colmò il cuore di gioia, riconoscenza ed orgoglio di appartenere alla grande famiglia italiana, il di cui capo Vittorio Emmanuele II ora sta vendicandone i sacrosanti dritti alla testa dell'esercito italiano qual primo soldato dell'indipendenza italiana. Certamente non ci abbisognava tal pruova per convincerci dell'amor vostro a questa cara nostra patria comune, e della vostra simpatia verso la gloriosa dinastia di Savoia, della cui corona voi pure foste un di gloriosa perla, e colla quale sempre foste uniti coi cuori e con gli animi.

 «Messinesi! Ricordiamoci il detto dell'Imperatore Napoleone III quando or sono pochi giorni dopo una gloriosa vittoria col valoroso Vittorio Emmanuele entrava in Milano: Siamo tutti soldati quest'oggi per essere domani figli di una grande nazione. — Ricordiamoci queste memorabili parole del vindice dei dritti dei popoli, del liberatore delle nazioni oppresse. Or bene, Siciliani, vostro dovere come soldati italiani si è per ora di avere prudenza, calma, disciplina, concordia, saviezza; l'ora vostra di presentarvi in linea contro il comune nemico, o chi per lui tiene, non è ancora giunta; appena suonerà siamo certi di vedervi volare sotto le gloriose bandiere del re italiano, del Re galantuomo, del primo soldato dell'Indipendenza italiana, e tutti uniti piomberemo come irresistibile torrente sulle demoralizzate e contaminate schiere nemiche, che ancora invano tentano d'impedire, che l'Italia sia unicamente e pienamente agl'Italiani, e che i popoli siano liberi ed indipendenti.

«Aspettate dunque, Messinesi, aspettate, Siciliani, quest'ora con calma e risoluzione; dessa non tarderà a suonare.

«Quanto accadde ieri sera sarà fra breve conosciuto da tutti i vostri fratelli piemontesi, e da quel generoso cuore italiano, che pur tanto si adoperò per la indipendenza ed il bene della comune nostra Patria; era in ciò una buona e solenne prova della ferma ed immobile risoluzione in tutti gl'Italiani d'essere liberi ed indipendenti.

«Accettate, Messinesi, questi sentimenti di ricono scenza e simpatia dei vostri fratelli.

«Messina 21 giugno 1859.

«Gli uffiziali della piro-fregata VITTORIO RMMANUELE.

Era questo il giorno della battaglia di Solferino; la nuova di essa doveva semprepiù infiammare la popolazione; la causa della indipendenza italica marciava sempre da vittoria in vittoria, e coloro, pei quali i fatti sono muti, si ostinavano in una via, che scuotevasi sotto i loro piedi. Le dimostrazioni di Messina si ripeterono il 2 di luglio in Palermo. Noi trascriviamo la corrispondenza del di 8 di quel mese dalla detta città per non aggiugnere nulla del nostro:

«Palermo 8 luglio.

«Vi narro quel, ch'è successo. Il 2 luglio giungeva qui la notizia della vittoria di Solferino; l'entusiasmo dei cittadini nostri fu incredibile. Voleasi la sera fare grande illuminazione in città, ma le pattuglie dei soldati napoletani e birri vennero duplicate, e numerosissime percorrevano le vie; pur nondimeno da qualche casa si cominciarono a mettere fuori i lumi, e tosto da tutti i Caffè o Società (e bisogna prima di tutto avvertire, che l'antico Caffè o Società del Piano di Bologna è stato abbellito ed ingrandito, che la nobiltà vi si è associata, e che giovani e vecchi passano Il le loro giornate) si misero fuori gli specchi, accendendovi innanzi le candele di cera e le carselle. Il popolo si accalcava, ma le truppe uscite dai quartieri si avanzavano per Toledo, entravano nei Caffè, tutto rompevano con la baionetta, e ne ordinavano la chiusura. Lo stesso Direttore di Polizia Maniscalco seguito da varii birri entrava nel Caffè dei nobili e nel Gabinetto di lettura, con grande insolenza tutti ne cacciava fuori, ed ordinava, che immediatamente venissero chiusi. Dei cittadini, che avevano illuminate le loro case, taluni vennero arrestati, altri ebbero tempo a fuggire.

«Il giorno 3 le pattuglie continuarono a girare le strade: la sera tutta Palermo era davanti i chiusi Caffè, quando ecco passa in una cittadina il Direttore di Polizia Maniscalco. La folla si fa allora avanti fischiandolo e caricandolo di tutti gl'improperii, che ben meritava; gli vennero anche tirate pietre ed immondizie sulla faccia. Il coraggio del popolo quella sera imponeva veramente; quantunque la truppa fosse tutta per la via e perfino l'artiglieria, pure si udirono replicate ed entusiastiche grida di Viva Vittorio Emmanuele! Viva Napoleone! Viva l'Indipendenza italiana.»

Il popolo era inerme; neppure vedevasi un bastone, volevasi fare una semplice dimostrazione e non una rivoluzione, benché la polizia abbia fatto e faccia tutto il suo possibile, perché accada; vorrebbero qui ripetere i fatti di Perugia. Che Dio ce ne liberi!

«Furono 50 gli arrestati, pressoché tutti della nobiltà e dell'alta borghesia, e sono stati condotti alla Vicaria. Volevano arrestare tutti i socii del Caffè dei nobili, ma la maggior parte è fuggita. Degli arrestati vi nomino: il Barone Favara, Emmanuele S. Giorgio, il Principe Rammacca col figlio, Nicolò Agati, Iragna Giovanni di Giovanni, Barone lo Piccolo. Dei fuggitivi tutti i figli del Principe di S. Elia, il duca della Verdura, i fratelli Vassallo, il marchesino S. Giorgio. Continuamente sono ora chiesti i passaporti, ma vengono negati, perché ci vogliono fare soccombere tutti sotto la loro barbarie. Lo stato del paese è veramente infernale ().

È possibile, che qualche circostanza di dettaglio sia alterata, ma le regole della critica ci dicono, che il fondo della narrazione dev’esser vero; vero per la disposizione, in cui erano gli animi dei Siciliani ed il governo, vero per quanto è avvenuto in Napoli sotto i nostri stessi occhi, vero infine per gli arresti e le e migrazioni, che sono storiche.

Crescevano non pertanto gli attestati di simpatia per la causa italiana, e si generalizzavano. Il 1° di luglio fu trasmesso al Re Vittorio Emmanuele il seguente indirizzo:

«A Sua Maestà il Re Vittorio Emmanuele II».

«Sire!

«Se la Sicilia fra tutte le provincie italiane fu la prima ad alzare lo stendardo di libertà, Messina certamente fra le sicule città fu quella, che ogni altra precorse. Sin dal memorando 1° settembre 1859 questa nobile Regina del Tirreno sprezzando ogni pericolo e gli spaldi dei forti, che la circondano e mille bronzi della formidabile cittadella, che la domina, impugnava le armi e sfidava a morte i suoi tiranni! Che non soffri essa per un anno intero? Guerra, bombardamento, incendii, sacco.... E quando vinta non doma si vide cinta da nuove catene, tenne alta la fronte che non piegò mai innanzi il suo oppressore, guardando fissa la fulgida croce di Savoia, dalla quale attendeva, e spera sempre salute e libertà. Prova ne sia il Decreto del Siculo Parlamento del 13 aprile 1848, col quale deposta la dinastia borbonica, si chiamava a regnare l'augusto fratello della Maestà Vostra il Duca di Genova. Ma il Cielo non volle per lo momento. e la Sicilia era serbata ad altri lustri di dolori, a subire ancora il ferreo giogo del secondo Ferdinando!!

«Sorge finalmente la felice aurora del riscatto italiano! La M. V. dichiarandosi primo soldato dell'Augusto suo Alleato avendo decretato, che ormai lo straniero dovrà sgombrarla, Messina come fu prima ad affrontare l'ira dei Borboni, è prima fra le città di Sicilia a proclamare la fusione al Regno Italico, ed a prostrarsi ai piedi del Trono della M. V., a riconoscere la vostra legittima dominazione.

«Sì, o Sire, aggiungete alla vostra luminosa corona la perla siciliana, riprendete il dominio che i vostri gloriosi antenati si ebbero in questo suolo. Sicilia, che tante dominazioni straniere si contrastano a vicenda, non fu felice, che sotto il Sabaudo Vessillo; lo sia nuovamente sotto il dominio della M. V.

«Messina 1° giugno 1859.

«I Messinesi.»

Ed in Messina pure fu formato un comitato di signore per raccorre bende e filacce per la guerra dell'indipendenza. Lo presiedeva la moglie del Console Sardo signora Wolz nata de Corte, assistita dalla signorina Annetta Maucomati. Girava per tutte le case, raccogliendo oggetti; e ne raccolse ben molti, che vennero spediti insieme a 401 casse di agrumi, dei quali se ne sarebbero spediti dippiù, se non si fosse trovata la stagione innoltrata.

Ma da queste innocenti e lodevolissime dimostrazioni di simpatia per la causa italiana, si prorompeva in atti sempre riprovevoli di esecuzioni private. Un tale Aricò Procuratore generale presso la G. C. Criminale di Palermo erasi concitato nel processo poli tico Bentivegna l'odio della popolazione. Dopo di avere sostenuta l'incompetenza dalla Corte ordinaria per far giudicare gl'imputati della Corte Marziale gli si faceva debito di avere fatta eseguire la pena capitale, cui erano stati condannati, mentre la Corte Suprema deliberava sul conflitto di giurisdizione elevato. Ora questo Arrigò nella sera del 17 luglio fu aggredito e ferito da due colpi di stile nella strada Ferdinando mentre era affollatissima. E poiché egli non conobbe il feritore, né vi era sospetto di vendetta privata, si ritenne quel misfatto come un fatto politico, e come una lontana conseguenza del processo suindicato.

Nè passarono molti altri giorni, che un certo Giovanni Rodi impiegato doganale ed anche in voce di spia politica venne ferito nella pubblica strada di Messina. Il feritore rimase ignoto come quello dell'Aricò. Questi fatti per certo deplorabilissimi attestavano l'esacerbazione dei partiti, peggioravano la condizione politica dell'isola, e rendevano pressoché impossibile la riconciliazione.

Venne la pace di Villafranca; essa dispiacque ai Siciliani come al resto della penisola, ma mentre da un lato si rianimavano delle speranze, che la guerra escludeva, dall'altro il disgusto dell'amministrazione e l'irritazione, che ne derivava, cresceva sempre dippiù, sì che destando nuovi sospetti e nuovi timori, ingeneravano altre più acerbe e biasimevoli persecuzioni.

Giungeva in Messina spedito da Palermo un Ispettore, Giuseppe Toscano, e dicevasi mandato per sorvegliare lo stesso Intendente ed il Commessario di Polizia, uomini non liberali, ma moderati, e dei quali la popolazione non era scontenta. Tant'oltre era andata la cecità degli agenti del governo, che avevano a male, che vi fosse un funzionario pubblico, che non stesse in manifesta opposizione coi suoi amministrati, e si tollerassero a vicenda!! Contro questo Toscano fu intentata da un Francesco Casella, ramaio, una querela, affermando, ch'essendo stato arrestato per un fatto non suo, era stato barbaramente torturato. La querela era stata consigliata da tutti gli avvocati del Foro Messinese. Una corrispondenza del Corriere Mercantile da Messina in data del 5 marzo 1860 narra il fatto avvenuto già molto tempo innanzi nei termini, che crediamo dovere letteralmente trascrivere:

«Questo inumano impiegato di Polizia si chiama Toscano. Esso fu elevato all'onorevole dignità d'Ispettore di Polizia per un infame tradimento preparato ad un suo compare in Catania, un tal De Marco.

«Era costui perseguitato a morte per reati politici, ebbe uno scontro con la Gendarmeria napoletana, e dopo una lotta generosa fu ferito in una gamba. Per non cadere nelle mani di quegl'infami sgherri, quasi trascinandosi sul proprio corpo si salvò con la fuga. Per sicuro ricapita si recò in una casa del suo compare Toscano, a cui in tempi migliori aveva prodigata generosità sino a salvargli la vita. Ma il compare, novello Giuda, per vile guiderdone lo tradisce, e lo consegna nelle mani dei suoi oppressori. Quel misero forse ora mangia il pane dell'infamia, se non fu strozzato dal boia. Toscano era fatto Ispettore di Polizia. Narrare alla distesa i fasti di questa feroce belva scappata dal guinzaglio sarebbe opera assai lunga e disgustevole; basta dire, che per parto di sua ferocia studiava il modo d'inventare strumenti onde martoriare la sofferente umanità. In Avola, una delle città beatificate da questo mostro in forma umana, aveva fatto un letto di forza per torturare chiunque non volesse confessare i proprii delitti, o meglio non volesse dichiarare fatti e circostanze, che l'Ispettore Toscano nelle svariate congiunture artifiziosamente combinava.

«Narrasi, che un di arrestava una giovane zitella, la quale a furia di sevizie e di battiture voleva costringere a dichiarare fatti che a lei non costavano.

«Tramutato poscia in Messina il ferocissimo Toscano, era preceduto da sì onorata fama, e puoi perciò immaginarti con quali accoglienze lo aspettassero i generosi Messinesi. Segnato a dito da ognuno, guardava tutti in cagnesco, con mille soperchierie e mille soprusi commessi nelle pubbliche vie di quella popolosa città segnalavasi, quasi ignorasse la naturale indole di quel popolo, che a ragione si può chiamare il popolo dei sacrifizii. L'indignazione però era giunta al colmo. Il Marchese Artale Intendente della Provincia vide tanta arroganza del Toscano, e cercò di evitare ogni compromissione del paese; lo fece quindi richiamare in Palermo; non andò guari però, ch'ei vi ritornava più baldanzoso e gonfio di sè, perché così piacque al capo dei birri, al potente Maniscalco. Eccoti ora il fatto succeduto in quella città verso la metà del passato anno, non dissimile da quello di Avola e più funesto ancora per le sue circostanze.

«Fu denunziato a questa polizia un furto di piombo, che si disse venduto ad un vecchio calderaio calabrese cognominato Mercadante.

«Il famoso Toscano con la sua sbirraglia sorprende di sera la casa del calderaio, vi fa stretta visita domiciliare, ma nulla rinviene delle cose furtive; arresta non pertanto l'ottuagenario vecchio, e lo trascina al Commissariato; il giovane di lui, che n'era pure parente, il nominato Francesco Casella accompagna lo arrestato.

«Il feroce Toscano interroga nel solito suo modo il Calderaio, il quale depone quanto sa del piombo; interroga poscia il Casella, e sotto il falso pretesto di trovare tra l'uno e l'altro qualche contradizione, dà opera alle sevizie. Urta, percuote, flagella con un nerbo il Casella, il quale non vuole deporre ciò che il Toscano voleva, che deponesse. Alla di lui insistente negativa ordina a due suoi satelliti, che lo ammanettino con quelle designate manette; si corre e si ricorre, si afferra quel misero, gli si congiungono a forza le mani, e gli si pongono le manette: urla quell'infelice per l'estremo dolore, quelle manette erano un nuovo istromento di tortura inventato dal feroce Toscano; non si può reggere più in piedi e cade prostrato al suolo. Per impedirne le grida di dolore gli si lega alla bocca una sbarra di legno a guisa di bavaglio, e poscia lo si percuote a pugni per alzarsi; indi è trascinato in una segreta stanza e lasciato sulla nuda terra. Sono più testimoni di viso, che affermano questi fatti si enormi e con ispecialità alcune persone di servizio della nobilissima famiglia del Principe Alcontres, le quali agli urli spaventevoli del sofferente erano accorse ai balconi, ed erano state spettatrici di quell'orrenda scena. All'annunzio di tanta scelleratezza un onorevole Patrocinatore si presentò all'Ispettore Toscano, ma fu preso per le spalle e cacciato dagli sbirri, e poco mancò, ch'egli non fosse messo nei cancelli. Orribile a dirsi! Fino alla dimane il misero Casella fu lasciato a quel modo; slegato quindi per ordine del commissario Arini, che di tanto fece rapporto all'Intendente Artale, il Casella fu mandato libero, ma il male era già avvenuto, la strettura delle manette aveva intorpiditi, se non rotti e paralizzati i nervi delle mani del Casella.

«Quell'orribile fatto si diffuse per tutta la città, tutti i buoni ed i tristi ancora rimasero penetrati di raccapriccio e di orrore, che in ogni volto appariva, era un correre di gente verso la casa del Casella per vederne lo spettacolo; vi andarono i Consoli inglese e francese, e per quanto si sa ne diressero analoghi rapporti ai loro governi, vi accorse ancora la giustizia dopo querela del Casella, e due onorevoli professori e chirurghi accertarono le profonde contusioni osservate sul corpo di lui, le sanguinanti ferite in circuito sui polsi dell'offeso per la strettura delle manette ed il quasi paralizzamento dei nervi, onde giudicarono di un pericolo di storpio.

«Un secondo ingenere venne raccolto da quattro primarii chirurgi della città, il professore di quella Università signor Miuli, il protomedico signor Mira, nomi assai cari alle scienze ed alle lettere, ed i valorosi signori Pugliotti ed Ambra,e furono d'avviso continuare il pericolo, quasi completamente verificato.

«Universale era la indegnazione del popolo, la giustizia alacremente procedeva. Più per liberare il Toscano e la polizia, da quel pericolo, che per soddisfazione del pubblico, Toscano fu economicamente mandato a forzoso domicilio, vi stette alcun tempo, e quindi fu richiamato al servizio,ed ora è qui nell'esercizio del suo impiego.

«Compito il processo riboccante di prove luminosissime, la G. C. di Messina ordinava lo svestimento di lui dalla garentia; il governo, cui il processo era inviato, dopo lungo tempo volle la perizia definitiva. Essa fu eseguita dai medesimi professori, i quali concordemente dichiararono avvenuto perennemente lo storpio d'ambo le mani del Casella; ritornato il processo al governo, dorme polveroso, e sarà forse strozzato nel Ministero della Polizia, perché così vuole il Direttore Maniscalco.

«Non credendo a me stesso al racconto di tanta enormità, ebbi il destro di percorrere rapidamente gli atti e rabbrividii compreso di orrore; tre volte presi tra le mani l'abborrito volume; ter cecidere manus; tanta è la evidenza del fatto. Il Casella è ridotto all'estrema miseria colla sua famiglia, vive la vita del misero, chiedendo l'elemosina alla pietà dei suoi concittadini. Toscano passeggia impune le vie della popolosa Palermo, e fa meraviglia come sino adesso non sia stato decorato di una croce di Cavaliere ().»

Noi ammettiamo la parte drammatica di questa narrazione; eleviamo pure dei dubbi i come mai la gente di servizio del Principe Alcontres ha potuto vedere dai balconi quello, che avveniva nell'interno di una stanza del Commissariato, a menochè quelli sciagurati non avessero i balconi aperti, sì che potesse l'occhio penetrarvi dentro. Ma è egli possibile di poter dubitare del fatto nelle sue circostanze essenziali? Quel misero ammanettato per non avere voluto deporre come voleva Toscano, e così ferocemente tormentato per molte ore da rimanerne storpio e anche gravemente offeso sino a provocare una istruzione penale e la richiesta del Magistrato per lo scioglimento della garentia,sono fatti positivi, ed essi soli spogliati da ogni altro accessorio bastano a far fremere la umanità, e costituire una iniqua violazione di ogni più certo principio di giustizia, di politica, e di religione. Ciechi della mente, non vedevano coloro, che scavavano la tomba a sé stessi ed al governo, che intendevano servire, e la suggellavano col marchio dell'obbrobrio! E così è avvenuto, né tardò gran tempo ad avverarsi. E non pertanto le lezioni della storia sono perdute! In quei tempi s'insisteva ancora presso i municipii, perché dichiarassero, non essere desiderio delle popolazioni il venir rette da una costituzione, ma starsi contentissime del regime attuale. Questi tentativi portavano legna al fuoco, poiché si prevedeva, che se i municipii delle grandi città, che pur erano di creazione ministeriale, potevano forse negarsi ad una dichiarazione, che implicava l'esercizio di un'autorità politica, che urtava nelle disposizioni del dritto penale, i municipii delle minori avrebbero ceduto senz'altra disamina alla pressione, che si esercitava su di loro; e non si può dar torto alle popolazioni se indegnavansi di un tal procedere, e lo dicevano immorale, perché prevalendosi del potere e del terrore, cercavasi di falsare la manifestazione della pubblica opinione. Perciò in sul finire di luglio scrivevasi da Messina:

«In punto ricevo lettere da Palermo. Il fermento è giunto al colmo in quella città. Le sevizie del governo hanno provocato la più terribile esasperazione. Un movimento sarebbe secondato da tutta la Sicilia, tanta è l'ira contro il governo ().»

I fatti posteriori hanno dimostrato, che tutto questo non era esagerato.

E difatti l'ira pubblica si traduceva semprepiù in fatti, che la civiltà deve severamente biasimare, ma che l'istoria dimostra essere pur troppo le inevitabili conseguenze degli eccessi della pubblica amministrazione, la quale per questo stesso diviene per doppio titolo responsabile del pervertimento del senso morale delle popolazioni. I tentativi o i fatti di assassinio sugli agenti della polizia si fanno sentire più spesso, e lo stesso Direttore della Polizia nell'entrare in Chiesa è ferito di un colpo di stile nel collo, ma vien salvato dall'abito e dalla cravatta, sì che potè egli stesso trarre il ferro dalla ferita e condursi ad un vicino ospedale per farsi medicare.

Non è da dire quanto questo fatto peggiorasse le condizioni dello stato morale e politico dell'Isola. Il governo si spaventava dell'audacia e della risolutezza di quello, ch'ei chiamava partito, ed era la gran maggioranza della nazione; la polizia doveva tutelarsi e vendicarsi. Le violenze quindi ed i sospetti progredivano e crescevano da una parte; le sofferenze, le ansietà, gli odii si aumentavano dall'altra.

Due corrispondenze di Palermo, avvalorate da due atti officiali, una perizia di due chirurghi assistiti da un giudice di Circondario,ed una decisione della Gran Corte Criminale di Catania, contengono dei dettagli, che fanno inorridire. Per quanta larga parte si voglia fare all'ampliazione degli autori di quelle due lettere, ne rimarrà sempre tanto da fare giustamente esclamare, essere quella la storia del delirio, della turpitudine e della ferocia, che degradano la specie umana.

Documenti di tal natura debbono riferirsi per intiero.

«Palermo, 17 gennaio 1860.

«Vi continuo a narrare le crudeltà, che si commettono qui. Direste, che il governo di Francesco II ha fatto rinascere in Palermo i tempi del paganesimo e quelli dell'inquisizione.

«Quel Salvatore Licasa sospetto alla polizia come agitatore de'  Colli dopo alquanti giorni, che venne arrestato (col perfido mezzo di cui vi tenni discorso nella passata lettera) corse voce, che fosse morto sotto le torture per non aver voluto dire né i congiurati di Palermo, né la mano che pugnalò l'infame Maniscalco. Diversi avvisi di ciò mandò il pubblico al Procuratore Generale del Re presso la Gran Corte Criminale sig. Pasciuta, intimandogli di procedere ai sensi della legge, che in questi casi provvede.

«Egli raccapricciato mandò subito il Giudice del Circondario Molo signor Cristadoro con due periti dottori, i signori Stroscio e Pizzuto alle grandi prigioni per verificare, verbalizzare e riferire. Il Giudice andò ma non gli fu dato accesso. Il custode aveva l'ordine di respingere qualunque persona. Che vale se il Codice Penale dia al Procuratore Generale della G. C. Criminale l'assoluto comando delle Carceri? La maestà delle leggi si può impunemente violare da Maniscalco ed i detenuti sono cosa sua.

«Pur nondimeno il Procuratore generale reclamò forte di ciò al Luogotenente, e dopo due giorni fu accordato l'accesso. I periti trovarono Licate morto no, ma moribondo. Dissero esserne stata causa il freddo, la dieta, i colpi di bastone, le graffiature prodotte da stromento lacerante, i salassi, di che tutto trovarono eloquenti vestigi nel corpo dell'infelice.

«Il processo va lentamente, e forse sarà strozzato. Il martire peggiora, e s'avvia alla sepoltura.»

Sin qui la corrispondenza. La perizia poi dice:

«Noi dottor Francesco Cristadoro, Giudice del Circondario Molo, visto l'urgentissimo ufficio del Procuratore del Re presso la G. C. Criminale, col quale ci ingiungeva di andare alle grandi prigioni per osservare lo stato di salute di Salvatore Licata, ivi prigioniero; fattoci accompagnare dai dottori Strascio e Pizzuto, medici chirurghi laureati, ci siamo presentati allo spedale delle prigioni, ove abbiamo trovato disteso in letto il suddetto prigioniero.

«I due periti chirurghi avendo innanzi a noi giurato di dire la verità e riferire secondo la coscienza e l'onore, dopo di avere denudato l'infermo hanno osservato diverse ferite alla spalla prodotte da stromento addetto a salasso e diversi morsi di mignatte all'addome. Essi hanno osservato inoltre, che il corpo dell'infermo è sparso di lividure e di graffiature prodotte da stromento lacerante, le quali ferite sono superficiali ed in istato di cicatrizzazione. L'ammalato è affetto da febbre moderata, che sembra intermittente. Il suo aspetto è macerato, la tinta plumbea.

«Quantunque il maleficio osservato non sia di alcun pericolo, pure l'individuo è in pericolo di vita per gli accidenti, potendo la febbre esacerbarsi.

«Interrogati i medici, hanno dichiarato, che la esposizione dell'aria fredda, umida, piena di miasmi, i forti dispiaceri, le battiture, ed un digiuno prolungato potevano bene essere la causa dei fenomeni sopra descritti.

Firmati — CRISTADORO Reg. Giudice.

STROSCIO Chirurgo.

PIZZUTO Idem.»

Non si fa alcun torto ai Periti nel ritenere, ch'essi senza offendere la verità, che hanno giurato di dire, hanno piuttosto attenuato, ch'esagerato i fatti. Ora dal confronto della loro relazione colla narrazione della corrispondenza si rileva un vero, che può servire come di faro nelle altre narrazioni di simil fatta. Il fondo della narrazione è vera, il racconto delle circostanze di dettaglio ne sono più o meno esagerate; ma quando il fondo della narrazione basta a stabilire il fatto, che respinge la società di quattro secoli per farle attingere in quella età i vizii e non le virtù, gli elementi del giudizio dell'istoria sono completi.

La corrispondenza continua: 4(La pubblicazione di quest'orribile assassinio della polizia ha dato occasione a conoscerne degli altri accaduti dopo che il vile e feroce Maniscalco fu pugnalato. Dicono i medici delle prigioni, che questo è il tredicesimo individuo, che vedono perire per simili cause, la loro bocca però è stata obbligata a tacere.

«La storia dolorosa continua, e vi prego ancora a sentirmi. Gli abitanti del villaggio Abbate, indegnati profondamente del procedere di uno sbirro, che colà regge, chiamato Vincenzo Salmeri, giorni sono gli scaricarono quattro fucilate. La polizia per conoscere gli autori, che ritiene trovarsi in mezzo a coloro, che sono fuggiaschi da alquanti mesi, perché denunziati al governo come liberali cittadini, ordinò, che 30 compagni armi si portassero difilati all'Abbate, e si alloggiassero non già nei quartieri, ma nelle case delle famiglie dei profughi per uscirne quando questi si presentassero nelle prigioni. L'ordine è stato eseguito per filo e per segno. Mangiano e bevono a spese di quegli infelici, e si sdraiano nei loro letti. E ciò non è tutto. Vi è il resto, che non si può dire senza fremere.» — E noi lo taciamo per pudore. L'offesa sarebbe stata recata a due giovani donzelle.» fra gli urli della famigliuola ed il raccapriccio del vicinato.

«Ieri, la corrispondenza prosegue, lo sbirro Cavaliere Pontillo fu incaricato dell'arresto di un buono cittadino Enrico Amato. Costui vista la polizia onorare la sua casa, ne evase destramente, ed eluse molto facilmente le astuzie di essa. Ma il Pontillo adirato trasse in carcere la moglie, d'onde non si vuol fare uscire, se prima non rivela ove si trova il marito. Un amico di Amato, presso il quale questi rifugiossi un istante, fu pure arrestato.

«L'università, il giardino pubblico, il teatro sono in istato di assedio. Si teme d'una esplosione di voci, che prenunzii una esplosione di fucili. L'Università di Palermo è minacciata di chiudersi per dimostrazioni fatte nelle scuole con cartelli tricolori, su i quali erano scritti degli Evviva per l'Italia e Vittorio Emmanuele non che morte ai Borboni. Vari arresti sono stati fatti tra la gioventù.

«Il vapore del negoziante Florio Etna arrivato nella settimana scorsa da Messina trasportò in Palermo quattro disgraziati messinesi colà arrestati dall'Ispettore La Rosa spedito appositamente da Palermo. Fra essi vi è un monaco sacerdote. Appena qui giunti, essi sono stati messi in carcere al segreto, la così detta camera serrata, e lo furono a bordo durante il tragitto, perché racchiusi nella sentina del vapore l'Etna.

«Fra i passaggieri imbarcati su quel vapore trovavasi un giovanetto nominato, dicesi, Giovanni Vienna. Al momento, in cui egli apprestavasi a sbarcare, il commessario incaricato della polizia marittima, il terribile Signor Cavaliere Pontillo, lo trasse in disparte, e lo sottopose ad una rigorosa visita anche denundandolo; nulla gli rinvenne addosso, ed era sul punto di lasciarlo partire, allorché Pontillo, ravvisatosi, gli scucì egli stesso le sole delle scarpe, in una delle quali vuolsi, che abbia trovato una letterina. Di ciò adirato scagliossi contro quell'infelice, che mise tutto in sangue a forza di pugni e calci menatigli sul viso e sul ventre. Fattolo poi incatenare, seco lo trasse in una stanza della sanità, dove crudelmente lo flagellò egli stesso e lo fece straziare a colpi di nerbo per indurlo a confessare da chi aveva ricevuto la lettera. Fatto ciò, lo fece racchiudere in un sacco e tuffare parecchie volte di notte nel mare, minacciando di volerlo annegare. Il povero giovane tramortì, ma nulla disse. Oggi trovasi gravemente infermo in camera serrata nella prigione. Non l'hanno ucciso nella speranza di strappare a quell'infelice per mezzo di nuove torture delle confessioni, ch'egli si è pertinacemente ricusato a fare. Alcuni camerieri dell'Etna ed impiegati della sanità sono stati in parte spettatori di tali atrocità ()».

Prima di riferire un'altra corrispondenza dello stesso tenore intendiamo di prevedere una obiezione. Ci si dirà forse:

«Voi compilate la vostra istoria sulle corrispondenze di giornali, che sono interessati a disservire il governo napoletano, senza darvi la pena di vedere, se sono vere». — Ma scrivendo una storia, o più esattamente una cronaca contemporanea, in quali altri documenti possiamo attingere gli elementi del nostro racconto? Vi sono forse degli altri scritti, che abbiano smentito non con semplici invettive e vaghe declamazioni,ma con degli argomenti quei tristi fatti? No; il foglio uffiziale, che aveva il debito di smentirli, non se n'è brigato; vi sono invece degli atti dell'autorità giudiziaria, che li confermano. Noi dunque non potevamo fare, che quello, che abbiamo fatto; riportare per intiero e gli uni e gli altri, e lasciare al lettore il giudizio a suo modo. Senza le istruzioni dell'autorità giudiziaria e senza il fatto anche più positivo dell'accanimento delle popolazioni contra gli agenti della polizia nella insurrezione siciliana; senza il concorso di altri simili fatti, che abbiamo sentito affermare anche presso di noi, forse non avremmo dato luogo a queste corrispondenze nelle nostre storie.

Ventiquattro giorni dopo quella prima corrispondenza una seconda del 20 febbraio scriveva da Palermo:

«Da una ragguardevolissima persona di Nicosia, degnissima di fede, mi è stata riferita la seguente tragedia. Io vi prego di pubblicarla a perpetua. infamia di chi ci regge.

a Una sera in maggio 1859 mentre rientrava in casa il capitano d'arme del distretto di Nicosia un certo Gorgone, uomo empio per tanti riguardi era colpito mortalmente da una palla di fucile. Non era facile d'indagare da quale mano nemica il colpo era partito. Un capitano d'arme in un distretto, che col semplice terrore sostiene l'incarico di pagare qualunque genere di furto accade nelle campagne e nelle pubbliche vie, ha tanti e tali nemici, che impossibile riusciva sospettare almeno l'autore dell'omicidio. Una pubblica esemplare vendetta era però necessaria; la classe ben numerosa degl'impiegati di Polizia e dei favoriti minacciata in questo modo reclamava un pubblico esempio.

«Non erano contenti, che il Giudice di Circondario venduto a chi voleva vendetta, violando le leggi tutelari, avesse coll'opera dei 24 cagnotti, componenti la forza dell'estinto capitano d'arme arrestato più che trenta persone, che teneva senza mandato di deposito nelle orribili prigioni del Castello di Nicosia fabbricato in un secolo barbaro. Un più clamoroso esempio era d'uopo immaginare, e ne fu affidato l'incarico al capitano d'arme Chinnici. Nato costui zappatore nella Comune di Belmonte, di feroci istinti, uno di quegli es seri, che natura creava a sostenere il più feroce dispotismo, fu creato capitano d'arme nella restaurazione del 1849. Dopo molti anni di servizio divenuto ricco per ladronecci di ogni genere, è ora proprietario di armenti e di greggi moltissimi, ebbe tolto l'officio come ladro, restando però col titolo di capitano e col vistoso soldo di due.1200 pari a lire 5040 all'immediazione del Direttore di Polizia Maniscalco, che non sapeva dismettersi di tanto abile carnefice. Tiene costui sotto i suoi ordini altri dieci individui dei più sanguinolenti, che l'isola nostra potè mai creare; e quando è onorato di qualche speciale commessione, ha dritto di chiamare da tutte le compagnie d'armi dell'isola due uomini per ciascuna a sua scelta, e cosi forma una forza mobile di 48 individui, che oggi per la sua crudeltà costituisce lo spavento di ogni comune, che soggiace alla sventura di qualche visita. La storia di questa banda armata, che soffocava nel distretto di Cefalù la rivoluzione del 1856; i fatti di questo Capitano d'arme Chinnici; le torture e la famosa cuffia del silenzio sono ormai ben noti al mondo intiero, perché i giornali inglesi e francesi dell'epoca ne registrarono le gesta.

«Ma a questa dolorosa cronaca devesi ora aggiungere questo altro terribile squarcio delle torture di Nicosia. Fra i 30 individui, che trovò chiusi in quelle prigioni, il Capitano Chinnici ne scelse due soli pel pubblico esempio, come argomento di vendetta.

«La prima vittima fu Rosario Chimera nato in Vailedolmo, domiciliato poi nella città di Nicosia, ove era ai servigi di un distinto proprietario nella qualità di custode dei campi. Aveva costui servito nella qualità di soldato d'arme nella compagnia di Nicosia, ma da più anni si era volontariamente congedato. Uomo di trista vita era, ma i suoi precedenti non possono legittimare la tortura.

«La seconda vittima di cognome Pinzolo era anche custode dei campi, non meno tristo, ma del primo più debole.

«Arrivato Chinnici in Nicosia consigliava al Giudice di mandare liberi tutti gli altri, conoscendo con sicurezza essere quei due gli autori dell'omicidio, e che su di essi dovevasi energicamente operare per ottenerne la confessione.

«Ordinava quindi, che due sedie si fossero fissate solidamente sul pavimento della prigione l'una poco discosta dall'altra e di modo, che i supposti rei non avessero potuto guardarsi. In esse legò strettamente quelli sciagurati e dopo tre giorni di digiuno li onorò di una visita accompagnata da due dei più fidi carnefici. Dopo le solite minacce, dopo il bastone di uso, dopo i preliminari della feroce tortura, fu ad ambedue applicata la cuffia del silenzio () e lo strumento angelico alle mani (). In questo orrendo stato furono tenuti per una notte intera e sempre digiuni con poca acqua. All'alba ritornava Chinnici a visitare le sue vittime, e più brutale di prima, vedendoli ostinati a negare il fatto, sfogava la sua bile, menando a dritta ed a sinistra un grosso bastone.

«Tramortiti quegli uomini, furono creduti morti dai due tormentatori compagni del Chinnici, il quale indi fu da essi stessi tratto fuori del carcere, persuasi come erano, che ad altro tormento sarebbero morti. E già una congestione al cervello li minacciava. Ad evitarla si salassarono tantosto, lasciandoli però sulla nuda terra mani e piedi legati. Dopo qualche tempo fu loro dato un poco di pane duro, primo cibo dopo due giorni.

«Durarono in questo stato di terribile riposo per tutta la notte e pel giorno appresso, quando fu deliberato d'impiegare i più atti stromenti di tortura.

«Intanto divertivasi il Chinnici a torturare la moglie di Rosario Chimera giovane a 22 anni. Su di una alta cassa, che trovavasi nella casa di abitazione del Chinnici era questa povera donna legata ignuda e supina per mani e piedi. Lasciavala in questo stato a discrezione dei…

Per rispetto al pudore non completiamo la frase, che comprende nella sua locuzione i più barbari birri della banda.

Noi non sappiamo, che in alcuna epoca della società siasi mai commesso un simile feroce attentato alla morale pubblica, e siasi più iniquamente violato quanto vi è di più sacro nel santuario della famiglia.

Niun fatto come questo, ove non fosse stato vero, avrebbe dovuto essere officialmente e con positive pruove smentito. La corrispondenza, che trascriviamo, lo denunziava al mondo incivilito, ed un governo, che non si cura di smentirlo, ha per questo solo perduto il sentimento morale, perché non comprende la indeclinabile necessità di purgarsi di un'accusa che lo deturpa, sinché esiste un sol dubbio, che possa essere vero.

STORIA BELLA GUERRA DI SICILIA

DEMOLIZIONE DELLA CITTADELLA DI PALERMO (CASTELLAMARE)

Per ordine del Governo Siciliano del 21 Giugno

La corrispondenza continua:

«Quella infelice donna non fu liberata, che dopo il terzo giorno di tortura, quando deponeva, che il ma rito più volte le aveva detto, che doveva uccidere il capitano d'arme. A questa deposizione fu subito chiamato il giudice nella casa di Chinnici, e riceveva la dichiarazione di quella infelice donna circondata da manigoldi.

«Rispetto alla Magistratura di Sicilia ci si vieta registrare il nome di quel giudice. Lieto il Chinnici di avere ottenuto un primo elemento di prova, ritorna la sera alle prigioni a visitare le sue vittime, e loro racconta la deposizione estorta alla moglie, e parlava di mille altre prove raccolte.

«Fermi però i torturati sulla negativa si diè principio a nuovi tormenti, ed al Chimera fu applicato uno speculum ani, stromento, che la chirurgia inventava per la salute dell'umanità, e nelle mani di questo grande briccone è stromento di tortura, che non lascia tracce capaci ad essere riconosciute dai medici, che le Gran Corti spesso riuniscono ed interrogano in simili casi.

«Sotto questa tortura chiedevano la morte i detenuti, e finalmente ambedue estremati dalla fame, dalle sofferenze, dalle torture d'ogni genere, gridarono insieme, ch'essi erano stati gli autori dell'omicidio.

«Lieto finalmente per la strappata parola, fe' chiamare il giudice, fe' trascinare quegl'infelici sul luogo, ove accadde il reato, credendo ottenere una pubblica confessione sul luogo stesso simile a quella che loro aveva estorto.

«Accorreva gran folla di popolo, ed i men tristi retrocedevano alla vista di quegli uomini stenuati e flagellati, che appena si reggevano sulle gambe, e che a stento qualche parola potevano pronunziare. Mille rispettabili persone di Nicosia sono testimoni di questo fatto. Quando il giudice sul luogo, ove fu commesso il reato, interrogò Rosario Chimera da qual punto aveva tirato il colpo di fucile a Gorgone, questi con debole voce ma ardita dichiarò, ch'egli nulla, ne sapeva, ma per sottrarsi alla tortura aveva dettato quella confessione. Non la presenza del Giudice, non le persone a migliaia in quella pubblica piazza riunite poterono frenare la vile rabbia del Chinnici; slanciossi egli allora sulla sua vittima, e di un colpo di bastone alla testa lo sdraiava sul suolo. Pronti i carnefici, lo trassero via dalla pubblica strada, e lo condussero in una vicina stalla, ove curarono con nuovi tormenti quell'infelice,e cosi barbaramente, che dopo un'ora nuovamente trasportato sul luogo, ove l'omicidio era stato eseguito, confessavasi al Giudice reo di un misfatto, che non aveva commesso. Il compagno diceva di essere stato presente all'omicidio, ma di non aver egli tirato il colpo.

«Glorioso di tale risultamento ritornava il Chinnici in Palermo, ed assicurava la Casa dei birri come comprovato il misfatto e sicura la vendetta. Ma nel suo furore si era ingannato. Quelli sciagurati furono tosto condotti in Catania, e perché si voleva pronta vendetta non si diè sufficiente tempo a fare scomparire i segni certi della tortura. La Gran Corte di Catania fece verificare le fresche piaghe, le cicatrici, le lacerazioni. Con coraggio riferiva tutto un collegio di professori. La Gran Corte annullava la confessione fatta dai supposti rei, quindi istruendo un processo esattissimo, dichiarava innocenti quei due sventurati, i quali restano nelle prigioni a disposizione esclusiva della polizia, che s'illude a sfogare ancora su di questi uomini una falsa vendetta.

«La decisione fu proferita in novembre 1859. Sia lode ai Magistrati che compongono la G. C. Criminale di Catania. Essi hanno sfidato la vendetta del Direttore di polizia, l'esoso Maniscalco.

«Il preteso reo Rosario Chimera nel giorno della pubblica discussione perorò egli stesso la propria difesa, e parlò con tal calore delle torture sofferte da lui e dal suo compagno di sventura, che destaronsi nella sala da parte dell'uditorio segni non equivoci di indignazione, che il Presidente della Gran Corte potè a gran pena raffrenare. s () Eppure questo deplorabilissimo vivere di una popolazione di due milioni e dugentomila abitanti non risparmiava le doglianze, di taluni, che amicissimi della libertà e della Italia, non avean conto per quanto è d'uopo degli ostacoli, che neutralizzano i desiderii ed i voleri degli uomini. I giudizii, che si emettono da lontano sulle condizioni di un paese, è ben raro che siano esatti; si giudica dalla superficie, perché questa sola si vede,e si stabiliscono delle analogie che non sono vere, perché o non sono veri i fatti simili, da cui si ricavano, o sono essenzialmente modificati da altre circostanze, che s'ignorano o si trascurano.

Così fu, che verso la metà di marzo 1860 Errico Amato di Palermo esule in Genova, e vittima anche egli delle violenze della Polizia, ebbe a prendere la penna per difendere la sua terra natale.

«Amico mio, — egli scriveva;

«Scocca in questo momento, in cui scrivo il solenne e fausto suono della maggiore campana di Genova; suono tanto solenne quanto nelle grandi generali occorrenze solo si ode. Ed esso echeggia entro ogni cuore italiano e lo agita di più forti palpiti, e fa ribollirne il sangue di gemiti e di gioia. Questa volta è tutta gioia benedetta e sublime, quale per la inaugurazione alla felicità di molte popolazioni italiane può soltanto sentirsi.

«Solo a me è negato di slanciarmi con tutta l'estasi, ond'è capace l'anima mia, nel dolcissimo sentimento, che pure mi desta il sacro e desiato suono di questa campana, e mentre esso mi commuove sino alle lagrime, vorrei pure, che da me si allontanasse, vorrei, che le mie orecchie non l'ascoltassero. Tu immaginerai, che l'assicurata libertà dei Toscani e dei Romagnoli mi riaccende di dentro l'atroce cruccio pel mio natio paese, giacente forse ancora ed insanguinato sotto quella razza empia e vile! No: ei non ti parrà possibile, e pure è un fatto. Questa mane stessa mi è toccato ascoltare parole di rimprovero ai Siciliani, che a me arrivarono amarissime tanto per le distinte e probe qualità dell'uomo, che le pronunziava, quanto perché io, il più recente profugo siciliano, io che sono uscito per mero prodigio da quegli artigli, io posso essere un più coscienzioso testimone all'ingiusta accusa. Le parole furono queste: Ma perché i Siciliani non hanno partecipato col proprio braccio alla guerra d'Italia? perché i Siciliani non emigrano a grandi masse, sì come han fatto i Veneti? Oh qual crudele, qual ingiustissima rampogna! I Siciliani non hanno partecipato col braccio all'ultima guerra d'Italia, né hanno emigrato, in massa, è vero. Ma non è questa la più forte prova della dura condizione di quei popoli sventurati, anziché dell'animo loro poco energico o poco ardente di libertà? Chi sarà che nieghi essere cosa molto più agevole l'eludere la stretta sorveglianza di un governo dispotico, onde uscire furtivamente da uno stato di terra ferma, anziché da un'isola? Tra quegli stessi, cui la fuga da Sicilia è vita, a pochi riesce possibile, tanti sono gli ostacoli, ed i pericoli, che debbono vincersi, e tanta è l'ingordigia di oro dei pochi comandanti dei bastimenti, che si prestano a traghettarli.

«E non furono i Siciliani, che appena liberi un istante corsero ad aiutare di braccio e di cuore i loro fratelli d'Italia nel 1848? Non furono essi che nelle Calabrie immolarono la propria libertà e vita per la vita e libertà dei loro fratelli di Napoli? E quando poi nel 1849 mille petti generosi furono trafitti e mille prodi caddero vittima in difesa della patria contro l'empia truppa borbonica, quale mai destra fraterna italiana si stese in quel decisivo momento ad aiutarli? L'Italia in quell'istante anch'essa aveva bisogno di braccia, — mi si potrebbe rispondere, — Sicilia, dirò, ne abbisognava del pari per sostenere la nascente sua libertà, quando se ne privava in difesa dei suoi fratelli lombardi e napoletani.

«E non sei tu testimone al pari di me e dei nostri amici di quanti giovani siciliani d'animo ardente, non potendo affatto coi propri mezzi compiere la loro brama di unirsi al volontario drappello, che testé pugnava per la santa causa, si rivolsero invano ai consoli sardi e francesi, ond'avere agevolato un segreto imbarco? E quei consoli stessi, che plaudendoli pur li respinsero ostinatamente, potrebbero negarsi di farne attestato in loro coscienza all'Italia tutta? E quando poi disperati videro chiusa a loro ogni via di evasione, non furono essi, questi giovani siciliani, che ruppero in ripetute ed ardite dimostrazioni, e che disarmati con le nemiche baionette sul petto, continuarono intrepidi a gridare Viva l'Italia, Viva Vittorio Emmanuele?

«Mio caro, mio buon amico: — Io testimone, io testimone e vittima dell'inaudita violenza di quel governo di rapina e di sangue; io testimone del fremito di ogni nato Siciliano, ho sentito schiantarmi il cuore a quelli accusa, la quale tanto più amara mi torna, ripeto, quanto più serbo sentimenti di alta stima per l'uomo che l'ha proferita. Ma egli ha l'animo onesto, ed è troppo caldo ed antico amatore delle patrie cose; onde egli espierà col rimorso l'ingiustizia, allorché vedrà i suoi infelici e mal conosciuti fratelli rompere in una disperata rivoluzione, e li vedrà redimersi con la sola forza del proprio braccio. E il momento non è lontano; e forse appunto nell'istante medesimo, in cui l'amara accusa veniva pronunziata, le braccia dei nostri fratelli si preparavano a pugnare per la nostra patria; e mille vite erano per immolarsi alla causa comune, all'Unità Italiana.»

Al Sig. G. Sicilia.

Genova 16 marzo 1860.

«ERRICO AMATO da Palermo

«Membro della Società nazionale Italiana.»

Decorsero diciotto giorni, e la preconizzata rivoluzione in Palermo era un fatto compiuto.

COSTITUZIONE SICILIANA DEL 1812

N. B. Tutti i §§ che riportiamo senz’alcuna annotazione, sono quelli, che erano muniti del Placet puro e semplice che per brevità abbiamo soppresso.

TITOLO PRIMO
POTERE LEGISLATIVO.
Capitolo PRIMO

§. 1i. Il potere di far le leggi, e quello di dispensarle, interpretarle, modificarle, ed abrogarle risiederà esclusivamente nel Parlamento. Ogni atto legislativo però avrà forza di legge e sarà obbligatorio tosto che avrà la sanzione del Re.

§. 2. Il Re si compiacerà rispondere ai decreti del Parlamento prima che resti sciolto, o prorogato, colla formola del Placet, o Feto, e senza apportarvi alterazione, o modificazione veruna, come si degnò sanzionare con Real dispaccio de'  IO di agosto 1812.

§. 3. Ogni legge dovrà inserirsi nei registri del Regno ed il Segretario di Stato del ripartimento sarà tenuto di farne arrivare a nome del Re la copia in stampa a tutti i magistrati e pubblici funzionari per la esecuzione.

Placet; con che resti inerente nella Corona il dritto di proclamarle, ed al bisogno richiamarle in osservanza ed inculcarne la esecuzione con degli Editti.

§. 4. Al solo Parlamento apparterrà non meno il diritto di far Leggi, che quello ancora della creazione ed organizzazione di nuove magistrature, o soppressione delle antiche.

Placet; con che relativamente alla creazione, ed organizzazione di nuove magistrature nei casi straordinarii sia in facoltà Nostra di delegare uno o più individui, da scegliersi Trai magistrati esistenti; da regolarsi però nella processura a tenore del rito, e delle Leggi vigenti.

Capitolo Il

§. 1. Il solo Parlamento avrà il potere di mettere nuove tasse di ogni specie e di alterare quelle già stabilite. Tutti li sussidii non abbiano che la durata di un anno. Tali determinazioni però del Parlamento saranno nulle, come già si è detto delle Leggi, se non saranno avvalorate dalla Real sanzione.

2. La Nazione da'  oggi in avanti sarà la proprietaria di tutti i beni ed introiti dello Stato di qualunque natura; e quindi ne disporrà il Parlamento con piena libertà, sempre però colla Real sanzione.

Capitolo III

I beni Ecclesiastici debbono considerarsi inalienabili, me noché nei casi previsti dalla Santa Chiesa.

Placet; menoché in quei casi che lo sono stati de jure.

Capitolo IV

Riguardante la nuova formazione della Camera de'  Pari,

e della Camera de'  Comuni.

§. 1. Il prossimo Parlamento e tutti gli altri, che in appresso si convocheranno da S. R. M., saranno composti da due Camere, l'una detta de'  Pari, o sia de'  Signori, e l'altra de'  Comuni.

§. 2. La Camera de'  Pari risulterà da tutti quei baroni e loro successori, e da tutti quegli ecclesiastici e loro successori, che attualmente han dritto di sedere, e votare in Parlamento. I Pari tanto spirituali che temporali avranno testaticamente un voto solo, togliendosi l'attuale moltiplicità delle loro Parie.

§. 3 Viene stabilita la rispettiva ed unica Parla dalla nota presentata dal protonotaro del Regno, e lo stesso per gli ecclesiastici; la quale nota sarà posta in fine dell'atto Parlamentarlo.

§. 4. La dignità de'  Pari temporali giusta quel titolo, che è espresso nella nota suddetta, sarà perpetua, inalienabile, ereditaria; e non si potrà ad altri trasferire né per vendita, STORIA D'ITALIA 29 né per donazione, né per qualsisia maniera, fuoriché quella della successione, secondoché questa si troverà stabilita nelle particolari famiglie. Egualmente restano perpetue ed inalienabili le dignità ecclesiastiche parlamentarle.

§. 5. Sua Real Maestà potrà creare quanti nuovi Pari temporali vorrà, purché quelli da eleggersi siano o principi, o duchi, o marchesi, o conti, o visconti o baroni siciliani, ed abbiano almeno una rendita netta sopra tet re di once seimila all'anno; perloché qualunque diploma del Re a tal uopo non avrà alcun vigore, se prima non sarà registralo negli atti della Camera de'  Pari, che sola dovrà prendere cognizione delle predette condizioni.

Placet Regiae Majestati per la creazione de'  Pari, nell'intelligenza però, che S. M. si riserba dichiarare in appresso il suo Retti animo sulle limitazioni.

§. 6. Erigendosi nel nostro Regno di Sicilia nuovi vescovadi, s'intendano ipso facto Pari spirituali i nuovi vescovi, e i loro successori.

§. 7. I Pari temporali potranno costituire per loro procuratore il loro immediato successore, e i medesimi ugualmente che gli spirituali potranno intestare la procura a qualunque altro Pari, purché non si cumuli nella stessa persona più di. una procura.

Capitolo V

§. 1. La Camera de'  Comuni sarà formata da'  rappresentanti delle popolazioni di tutto il Regno, senz'alcuna distinzione di demaniale o baronale, nel numero e proporzione che siegue.

§. 2. Il Regno tutto, fuori le isole adiacenti, si dividerà in ventitrè Distretti giusta la mappa formata, nella quale sono anche notati i Capo luoghi o popolazioni Capitali, e di cui si farà registro agli atti del Protonotaro del Regno, e ciascuno di questi distretti manderà alla Camera de'  Coniuni due rappresentanti.

§. 3. La Città di Palermo ne manderà sei: le Città di Catania e di Messina ne manderanno tre per ognuna: e qualunque altra Città o Terra, la cui popolazione arrivi al numero di diciottomila anime, ne manderà due, oltre quelli del rispettivo distretto.

§. 4. Qualunque Città o Terra, la cui popolazione arrivi al numero di seimila abitanti, e non arrivi al numero di diciottomila, ne manderà uno.

§. 5. Quelle Città o Terre poi, che contino un numero di abitanti infra seimila, saranno comprese ne' Distretti.

«Ma dichiara il Parlamento, che questa legge non debba togliere la rappresentanza alle attuali Città demaniali, che la godono, ancorché la loro popolazione non arrivi alle seimila anime, sempreché le vicende de'  tempi non abbiano ridotta alcuna di esse in tale decadenza, che non abbiano se non che due mila abitanti.»

§. 6. La numerazione delle anime pubblicata nel 1798 sarà di norma all'esecuzione del predetto stabilimento; ben inteso però, che le ulteriori generali numerazioni da pubblicarsi ed approvate dal Parlamento, serviranno sempre di norma ma per regolare il numero de'  rappresentanti.

§. 7. L'isola di Lipari solamente avrà un rappresentante, come attualmente lo ha ottenuto.

§. 8. Le Università degli studj delle Città di Palermo, e di Catania manderanno un rappresentante per ciascheduna: qualora però l'Università degli studj di Palermo avesse, come proprietaria di Badie, voce parlamentaria fra i Pari, debba in tal caso perdere la suddetta rappresentanza. ed avrà in compenso due rappresentanti nella Camera dei Comuni.

§. 9. La mappa, di già ridotta agli atti di popolazioni o rappresentanti, fatta sulla numerazione del 1798, e con le regole di sopra stabilite, si metterà all'ultimo dell'atto dopo quella de'  Pari.

§. 10. Nessuno potrà avere nella Camera de'  Comuni più di una procura, o di un voto, ed alcun membro della medesima non potrà sostituire o trasferire ad altri la procura fattagli da'  suoi costituenti.

Capitolo VI

Non potranno rappresentare alcun Distretto, Città, Ter ra, o Università degli studi:

§. 1. Gli esteri di qualunque nazione;

§. 2. Quelli, i quali non avranno venti anni compiti;

§. 3. Quelli, i quali saranno criminalmente accusati, fintantoché l'accusa non sia stata cancellata;

§. 4. I presidenti, e i giudici di tutti i tribunali, e qualunque altro siesi magistrato, menoché i magistrati municipali.

§. 5. Gli uffiziali dell'esercito, e della marina in attuale servizio da colonnello in giù, eccettuati fra questi coloro che abbiano una rendila di once trecento annuali.

Vetat Regia Majestas.

§. 6. Tutti gl'impiegati secondari nelle Reali segreterie, dogane,segreterie,ed altri rami di pubblica amministrazione, come pure quelli, che avranno pensioni amovibili a piacere di S. R. M.

§. 7. Non potranno rappresentare un distretto quelli, quali non avranno in Sicilia una rendila netta e vitalizia, che non provenga da diretto o utile dominio, o per qualunque censo, o rendila sopra bimestre, Tande, e simili sorte di proprietà, salvo quella, che provenga da ufficio amovibile, di once trecento all'anno.

§. 8. Non potranno rappresentare la Città di Palermo quelli, i quali non avranno in Sicilia una rendita come sopra di once cinquecento l'anno.

§ 9. Non potranno rappresentare una Città, o Terra parlamentaria, o Università degli studj quelli i quali non avranno in Sicilia una rendita come sopra di once centociaquanta all'anno; con che però i rappresentanti delle Università de estudj sieno liberati di giustificare la delta rendita, purché fossero Cattedratici delle medesime Università.

§. 10. Qualunque persona eletta, sia come rappresentante di un Distretto, sia di una Città, o Terra parlamentaria, dovrà portarsi in Palermo a proprie spese: ma qualora le Università vogliano su i soppravvanzi contribuire le spese per portarsi i loro rappresentanti nei Parlamenti, saranno in tal caso in libertà di farlo; con che la sovvenzione non possa eccedere più di oncia una al giorno e ciò debba farsi col consenso del Consiglio Civico.

§. 11. Tutti poi i Siciliani nati, o figli di Siciliani abitanti in Sicilia, ne' quali si verificheranno le sopradette condizioni potranno essere ammessi nella Camera dei Comuni, senza riguardo a grado, o condizione.

Capitolo VII

§. 1. Non saranno ammessi nella Camera de'  Comnuni per rappresentanti i debitori dello Stato,come parimenti saranno privati anche i Pari di sedere nella loro Camera, trovandosi in uguale circostanza; accordandosi però ai medesimi la rappresentanza per i debiti finora contratti collo stesso, purché si saldassero in quattr’anni; e che tutte quelle somme, che fdrse fossero dovute, ma che sono state dilazionate, non formino debito, se non allorquando, spirata la dilazione, non fossero corrisposte: beninteso però, che il potere esecutivo non sarà mai impedito di agire per la riscossione dei debiti a favore dell'erario nazionale.

§. 2. Resta abolita l'eccezione Ostica per i membri si del l'una, che dell'altra Camera, salvo il dritto di non essere molestati di persona, menoché in quei delitti, che si eccettueranno nel nuovo Codice.

Per l'abolizione dell'eccezione Ostica, e per il diritto di non esser molestati di persona nelle materie civili Placet Regiae Majestati: per le materie criminali però, Placet Regiae Majestati per i soli delitti a relegazione infra, intanto che non sarà stabilito e sanzionato il nuovo Codice.

Capitolo VIII

§. 1. I rappresentanti di un distretto nella Camera dei Comuni saranno eletti da tutti coloro, i quali possederanno nello stesso distretto una rendita netta vitalizia almeno di once diciotto all'anno, sia che la stessa provvenga da diretto utile dominio, o per qualunque censo, o rendita sopra Bimestre, Tande, o simili sorte di proprietà.

§. 2. I rappresentanti della Città di Palermo saranno eletti da tutti coloro i quali possederanno nella stessa Città o suo territorio una rendita netta vitalizia almeno di once cinquanta all'anno, sia che provvenga da diretto, o utile dominio, o per qualunque censo o rendita sopra Bimestre, Tande, e simili sorte di proprietà: da tutti coloro, i quali avranno nella medesima Città, o suo territorio un officio pubblico vitalizio e inamovibile almeno di once cento all'anno: e finalmente dai cinque Consoli, che per antica osservanza han goduto il privilegio di eleggere il procuratore della Città di Palermo, e dal solo Console e Capo di ognuna delle legali corporazioni degli artefici, quante volte abbia la rendita annuale di once diciotto.

§. 3. I rappresentanti di ogni altra Città, o Terra parlamentarla saranno eletti da tutti coloro, i quali possederanno nella stessa Città, o Terra, e suo territorio una rendila netta e vitalizia almeno di once diciotto annuali, sia che provvenga da diretto, o utile dominio, o per qualunque censo, o rendita sopra Bimestre, Tande, e simili sorte di proprietà.

§. 4. Da tutti coloro che avranno nella medesima Città, Terra un officio pubblico vitalizio ed inamovibile almeno di once cinquanta all'anno, e dai consoli e capi degli artefici, purché abbiano una rendita di once nove annuali.

§. 5. Finalmente i rappresentanti delle due Università degli studj saranno eletti dal rettore, dal segretario, e dal corpo dei professori, e dei dottori collegianti di ognuna.

§. 5. Chiunque possederà una rendita come sopra di once diciotto, o più, avrà il dritto di votare e per la elezione de'  rappresentanti della stessa Città o Terra, e per quella dei rappresentanti del distretto, nella quale essa Città o Terra è compresa.

§. 7. Gli stessi requisiti espressati per i rappresentanti devono osservarsi per gli elettori ad eccezione della rendita.

Capitolo IX

§. 1. I capitani d'arme, o i capitani giustizieri saranno quelli,i quali dovranno assistere alla elezione de'  rappresentanti nella Camera de'  Comuni de rispettivi luoghi alla loro giurisdizione soggetti, a seconda delle istruzioni che saranno fatte a suo tempo.

§. 2. Apparterrà al capitano d'arme d'ogni distretto ed al capitano giustiziere d'ogni Città, o Terra parlamentaria il tenere il ruolo de'  votanti, della di cui formazione si parlerà in appresso, ed il convocare tali votanti per procedere alle dette elezioni in giorni prefissi.

§. 4. Impedire i disordini, e le irregolarità in sì fatte adunanze, il decidere inappellabilmente sul momento qualunque dubbio e controversia, che nascer potrà sopra la legalità de'  voti e delle elezioni; e dicesi inappellabilmente, per prevenire sul luogo i disordini, che altrimenti ne potrebbero accadere, giacché le parti, che si crederanno gravate dalle procedure e decisioni dei capitani d'arme, o giustizieri, potranno dopo l'elezione portarne querela alla Camera de'  Comuni, la quale sola avrà il diritto di decidere della legalità illegalità della elezione de'  suoi propri membri.

§. 5. Seguita la elezione, avvisarla subito al protonotaro, e darne parimenti un certificato alla persona eletta.

§. 6. In caso, che la rappresentanza di un distretto;o di una Città, o Terra venisse per qualunque siasi causa a vacare, quel tale distretto, o Città, o Terra potrà passare alla nuova elezione colle forme stabilite, e sarà dovere di ogni capitan d'arme o capitano giustiziere l'intimare la nuova elezione previa la notizia legale allo stesso inviata, come si stabilirà in appresso.

§. 5. Per le elezioni de'  rappresentanti delle due Università degli studj di Palermo, e di Catania si eseguiranno le incumbenze dal rispettivo rettore di ognuna ed in mancanza di questo dal più antico de'  professori.

§. 7. I capitani d'arme, e i capitani giustizieri, e i due rettori delle Università degli studj di Palermo e di Catania non devono ingerirsi nel giudicare de'  requisiti sopra specificati, che aver devono i candidati, per essere eletti rappresentanti de'  Comuni, appartenendo, fatte già le elezioni, tale esame e giudizi prima al protonotaro, e quindi ad istanza delle parli interessate alla Camera de'  Comuni.

Capitolo X

§. 1. Le elezioni de'  rappresentanti de'  distretti si faranno nelle capitali dei distretti medesimi.

§. 2. Quelle de'  rappresentanti delle Città e Terre parlamentarie nelle stesse Città e Terre.

§. 3. Si designerà sempre per tali adunanze un luogo pubblico, o una piazza ad elezione de'  rispettivi capitani.

§. 4. Ogni elettore sarà in libertà di proporre qualunque candidato, ma la elezione cadrà sopra colui che ha riportato maggior numero di voti.

§. 5. Ciascun elettore dovrà dare il suo voto personalmente o per procura ad alta voce in mano del rispettivo maestro-Notaro, e alla presenza del capitano, e dei suoi uffiziali che ne faranno registro secondo le formole, che si stabiliranno in appresso.

§. 6. Nessun Pari avrà il dritto di frammischiarsi nelle elezioni de'  membri della Camera de'  Comuni.

§. 7. Il maestro-Notaro del Comune, dove le elezioni si dovranno effettuare, sarà colui, che assisterà alle medesime.

§. 8. Sarà proibito a truppa di qualunque sorta di risedere in quei luoghi, in cui si faranno le sopradette elezioni.

§. 9. Se si troverà forza armata di ordinaria guarnigione, menoché il servizio del giorno puramente necessario, dovrà questa allontanarsi almeno alla distanza di due miglia due giorni prima, e ritornare due giorni dopo che saranno compite le elezioni suddette.

§. 10. Nessuno impiegato o dipendente dalla Corona potrà intromettersi nelle elezioni suddette sotto la pena di once duecento e della perdita dell'officio.

§. 11. I candidati non potranno dare agli elettori denaro, feste, pranzi, o altro, sotto la'  pena di once duecento e di nullità di elezione.

§. 12. Le elezioni dei rappresentanti delle due Università di Palermo e di Catania si eseguiranno cogli stessi regolamenti rapportati di sopra, ed il rispettivo segretario in presenza del rettore farà le veci del maestro-Notaro per ricevere e registrare i voti de'  professori.

§. 14, L'accettazione d'un impiego dato dal Re rende vacante ipso facto il posto, che si ha nella Camera dei Comuni, eccettuati gl'impieghi militari; potrà essere nuovamente eletto, menoché per tutti quegli impieghi, che sono eccettuati a tenore del §. 5 del cap.6 di sopra indicati.

Capitolo XI

§. 1. Sarà unicamente dritto di S. M. quello di convocare, sciogliere, e prorogare il Parlamento.

§. 2. Il Re sarà tenuto convocarlo in ogni anno come è stato sanzionato all'articolo nono.

§. 3. S. R. M. però dovrà convocare, prorogare, e sciogliere il Parlamento sempre inteso il parere del suo Consiglio privato, della di cui formazione si tratterà in appresso.

§. 4. La rappresentanza alla Camera de'  Comuni non avrà vita al di là di anni quattro, da contarsi dalla data della convocazione, dopo quale termine essa cesserà naturalmente.

§. 5. La convocazione del Parlamento dovrà farsi per via del protonotaro del Regno, il quale manifesterà la volontà del Re ad ogni Pari e rappresentante de Comuni, premesso l'ordine del Re, per via del ministro di Stato competente comunicato al protonotaro.

§. 6. Nella rinnovazione poi della Camera de'  Comuni intimerà i capitani d'armi, i capitani giustizieri, e i rettori delle due università a dover convocare gli elettori per procedersi alle elezioni de'  rispettivi rappresentanti de'  Comuni fra un dato tempo, che non sarà mai né più, né meno di giorni quaranta; e ciò secondo le forme, di cui si parlerà in appresso, premesso l'ordine del Re, per via del Ministro di Stato competente comunicato al protonotaro.

§. 7. L'apertura del Parlamento si farà da S. R. M. intervenendo personalmente, o per delegazione ad uno dei Pari nella camera stessa de'  signori, i quali daranno il giuramento di fedeltà in mano do' due commissari del Re nelle formole cattoliche, dove pure interverranno i Comuni, che resteranno all'impiedi ed alla barra della Camera.

§. 8. Il Re vi pronuncierà, o farà leggere un discorso analogo alla circostanza, a cui nessuno de'  membri ha facoltà di rispondere.

§. 9. La prorogazione o dissoluzione del Parlamento si farà da S. R. M. personalmente, o per delegazione con quelle medesime formalità (eccetto il giuramento) specificate per l'apertura Placet Regiae Majestati nel senso, che la prorogazione si intenda, che si debba riunire il Parlamento ad altro tempo, non dosso l'anno dalla convocazione, come si è stabilito nel paragrafo secondo di questo Capitolo , e per dissoluzione debba intendersi, che S. M. vuole convocarlo con nuovi membri della Camera de'  Comuni; e tanto nel primo, che nel secondo caso qualunque discussione pendente si dovrà riputare come non fatta.

Capitolo XII

§. 1. Nella Camera de'  Pari starà sempre eretto il trono sopra tre scalini.

§. 2. Il giorno dell'apertura del Parlamento il Re vi sederà.

§. 3. Gli staranno a destra i Principi della famiglia Reale, che abbiano rappresentanza o spirituale o temporale, indi gli arcivescovi, i vescovi e gli altri ecclesiastici giusta la loro precedenza; man sinistra i Pari temporali secondo il loro titolo: dirimpetto al trono staranno all'impiedi i membri dei Comuni dietro la barra, che sarà situata in fondo.

Placet Regiae Molestali: con che vi assistano i membri che compongono il primario Magistrato del Regno e fintantoché non saranno organizzali i nuovi magistrali, sarà la giunta de'  presidenti e consultore.

Capitolo XIII

§. 1. Nella Camera de'  Comuni nessun membro avrà la menoma distinzione, o precedenza; in quella de'  Pari però si conserverà l'istesso ordine di sedere secondo l'antichità di ciascuna Paria, in modoché i nuovi eletti, qualunque sia il loro titolo, prenderanno l'ultimo luogo.

§ 2. I voti in tutte le due Camere si daranno confusamente con situarsi a dritta gli affermativi, e a sinistra coloro, che saranno per la negativa.

Capitolo XIV

§. 1 Il presidente della Camera de'  Pari sarà in ogni Parlamento eletto da S. R. M. fra i membri della Camera stessa; e quello de’ Comuni, sarà eletto dall'istessa Camera de'  Comuni, ed approvato da S. R. M.

§. 2. La elezione del presidente della Camera de'  Comuni si farà il giorno appresso, che sarà fatta la solenne apertura, al quale effetto presederà il Protonotaro del Regno.

§. 3. Questa elezione si farà a voti segreti, e potrà cadere solamente su i membri della Camera de'  Comuni.

Capitolo XV

§. 1. Il presidente d'ogni Camera avrà le seguenti preeminenze, ed attributi:

Sederà in un luogo distinto;

Risponderà, ed arringherà in nome della Camera quante volte occorrerà;

Metterà gli affari in deliberazione;

Proporrà il tempo di dare i voti, e dopo raccolti per mezzo del cancelliere, ne pubblicherà il risultato:

Deciderà definitivamente tutte le controversie, che potranno insorgere fra i membri per la precedenza della parola.;

Intimerà silenzio ed ordine, insorgendo nella Camera animosità e disturbi; e se alcuno prontamente non desisterà, la Camera potrà punirlo con un voto di censura a voce, o in scritto, o con più severe ammonizioni e castighi in proporzione della di lui contumacia e colpevole condotta.

§. 2. Il presidente avrà solamente voto in caso di parità:

§. 3. Maneggerà le spese, e sopraintenderà al regime ed alla polizia della Camera.

§. 4. Eseguirà e sottoscriverà da parte della Camera tutti i decreti della medesima.

§. 5. Potrà avvertire chiunque de'  membri giudicherà, ma senza dure ed ingiuriose espressioni; potrà minacciare dei castighi senza poterne infliggere alcuno, che col consenso delta Camera.

§. 6. Sarà egli in tutto come ogni altro membro sottoposto alla censura e alle punizioni della Camera, le quali in casi gravissimi si estenderanno alla privazione dell'officio e alla espulsione dalla Camera.

Capitolo XVI

§. 1. Nessun giudice o magistrato potrà mai inquirere, processare, arrestare,proferire o eseguire sentenza contro i membri delle due Camere, o contro le Camere istesse per qualunque cosa siasi da loro detta, fatta, discussa e deliberata nel Parlamento istesso, ciò sotto la pena di once mille, della perdita di qualunque pubblico officio, e della relega:ione per dieci anni in un'isola.

§. 2. S. R. M. nella esecuzione di tali sentenze non potrà mai accordare perdono,o mitigazione alcuna al castigo dovuto ai delinquenti; né questi per iscusare o minorare il loro reato;potranno allegare ordini o commissioni della M. S.

§. 3. La Camera sola potrà prendere cognizione degli eccessi, che i suoi membri commetterínno nella stessa Camera; ad essa sola si apparterrà di punirli con voti di censura espressi a voce, o ridotti agli atti, colla carcerazione, col divieto d'intervenire in Parlamento, o con pene anche più gravi, come si dichiarerà nel nuovo codice criminale.

Capitolo XVII

§. 1. Ognuno de'  due presidenti eleggerà il cancelliere della sua Camera coll'annuo soldo di once quattrocento.

Per le cariche placa Regiae Majeslati: con che verranno creati dal Re a nomina del rispettivo presidente.

§. 2. Ognuno di questi due cancellieri eleggerà due segretari coll'annuo soldo di once cento cinquanta ed altri uffiziali subalterni, che si crederanno dalla Camera necessari.

§. 3. I due presidenti eleggeranno un usciere per ciascuna di loro Camera coll'annua somma di once cento per ognuno.

§. 4. I due cancellieri co' rispettivi segretari registreranno distintamente tutti gli atti delle loro Camere, conteranno e pubblicheranno i voli, e ne conserveranno rispettivamente i registri.

§. 5. Il protonotaro del regno manterrà l'archivio di Lutti gli atti parlamentari sanzionati e non sanzionati in un officio esistente nella stessa casa del Parlamento.

§. 6. Vi sarà oltre de'  sopradetti impieghi nella Camera de'  Comuni un capitano d'ordine, che sarà ad elezione del presidente di essa Camera: cosi ui manterrà la polizia nella Camera, per cui l'usciere dipenderà da'  suoi ordini. Sarà suo speciale dovere di eseguire qual si sia mandato della Camera medesima, avutane l'autorizzazione per iscritto dal presidente di essa per gli affari che riguardano la stessa Camera solamente, coll'annuo soldo di once centocinquanta. Il presidente della Camera dei Pari eleggerà un altro simile uffiziale col soldo medesimo a tenore della Costituzione d'Inghilterra.

Placet Regine infestali per le cariche; ma saranno eletti dal Re a nomina del Protonotaro fintantochè non si stabilirà da S. N. un impiego analogo a quello del Gran Camerlengo.

§. 7. Le ambasciate da una Camera all'altra si recheranno da tre membri o più, secondoché sarà determinato da ciascuna delle Camere stesse.

§. 8. Sarà cura degli uscieri conservare la polizia nella Camera e nelle sedute, assistere alla porta, escludendo chiunque, che non sarà autorizzato ad entrarvi, e servire in tutte le altre occorrenze.

§. 9. Tutti i sopradetti ufficiali non potranno rimuoversi dall'impiego, che per colpa nel loro officio, o per poco lodevole condotta.

§. 10. Vi sarà una stamperia di dipendenza del Parlamento dentro le mura del suo edilizio. La sua spesa dovrà aggiungersi alle altre sopra mentovate.

Petat Regia Majestas.

§. 11. Il direttore della medesima dipenderà immediatamente, ed unicamente da'  presidenti delle due Camere, i quali dovranno dare, ad esclusione d'ogni altro, gli ordini per la stampa di tutte quelle mozioni, o atti, che si risolve ranno nelle Camere rispettivamente.

Petat Regia Majestas.

§. 12. Si formeranno nelle Camere delle ringhiere per le persone che non sono parlamentarle.

§. 13. Avranno queste l'ingresso per biglietto firmato da uno de'  mernbri delle Camere, o dal presidente.

§. 14. I primi non potranno darne, che un solo, l'altro due.

§. 15. Chiunque però avrà l'ingresso non potrà portare armi, bastoni, batter le mani, parlare ad alta voce e commettere qualunque indecenza, sotto pena non solo di essere cacciato dalla Camera, ma ben anche di essere arrestato, e quando la Camera si formerà in comitato segreto non potrà rimanervi.

Capitolo XVIII

§. 1. In ciascuna delle due Camere chiunque de'  suoi membri potrà avanzare qualunque proposta.

§. 2. Le proposte di legge presentate alla Camera in iscritto, prima di passarsi alla finale deliberazione e votazione, si dovranno leggere, e discutere in tre differenti sedute. Potrà la Camera pematuramente esaminarsi le proposte suddette, eleggere un comitato, il quale ne debba fare il suo rapporto accompagnato dal suo parere albi Camera istessa: potrà però intervenirvi il primario Tribunale del!legno, che sederà in un lungo separato dai Pari, e dietro il presidente, il quale non potrà interloquire sopra alcuna materia, se non sarà interrogato, ed allora avrà voto solamente consultivo a tenore della Costituzione l'Inghilterra.

Placet Regiae Majestas: beninteso, che in seguito di quanto si è detto al §. 3. del Cap.12, i membri del primario magistrato debbano esser chiamali ad ogni nuovo Parlamento, per potere intervenire nelle sedute della Camera de'  Pari, e dare sopra ogni materia giudiziaria il loro voto puramente consultivo.

§. 3. Per l'istesso oggetto potrà l'intera Camera costituirsi in comitato segreto ed apportarvi quei miglioramenti, e correzioni, che giudicherà senza la solita formalità.

§. 4. Ognuna delle due Camere potrà a piacere aggiornare le sue adunanze, discussioni, e deliberazioni.

§. 5. La proposta rigettata in una delle due Camere non potrà riproporsi, che nella sessione dell'anno seguente.

Capitolo XIX

§. 1. Qualunque proposta relativa a sussidii, ed imposizioni dovrà iniziarsi nella Camera de'  Comuni.

§. 2. Quella de'  Pari avrà solamente il dritto di assentirvi, o dissentirvi, senza però potervi fare alterazione, o modificazione alcuna.

§. 3. Tutte le proposte, che per le loro conseguenze potranno ledere i dritti della Parla, devono iniziarsi nella Camera de'  Pari, e non possono ricevere alcuna modificazione in quella de'  Comuni, la quale avrà solamente il dritto di assentirvi, o dissentirvi.

§. 4. S. R. M. non potrà ingerirsi, né prendere cognizione alcuna delle proposte, che sono pendenti nelle Camere del Parlamento, me queste solamente, dopoché saranno state passate alla votazione di ambe le Camere, dovranno presentarsi a S. R. M., per averne un assoluto Placet o Veto.

§. 5. La M. S. manifesterà il Placet o Veto, inteso il parere del suo privato Consiglio, o con Real rescritto, o a voce, intervenendo nella Camera de'  Pari, ove si raduneranno pure i membri della Camera de'  Comuni colle forme di sopra descritte.

§. 6. Tutte le volte, che S. It. M. volesse dare a voce la Sua Real Sanzione, intervenendo nella Camera de'  Pari, i membri de’ Comuni v'interverranno all'impiedi dietro la barra, il Protonotaro leggerà ad alta voce gli articoli stabiliti dal Parlamento, ed il cancelliere della Camera de'  Pari profferirà il Placet, o Pelo, che sarà decretato dal Re.

§. 7. Il cancelliere in fine di ogni articolo noterà il Placet, o Veto, per indi legalizzati dalla firma del protonotario del Regno, e dal Reni Suggello d'apporsi dal medesimo, conservarsi originalmente ne' rispettivi archivi del Parlamento, e del protonotaro.

§. 8. Una Camera non potrà ingerirsi, né prendere cognizione delle proposte, che si discutono, e sono nell'altra pendenti.

§. 9. In caso però, che le due Camere fossero d'accordo in alcuni punti, e discordi in altri di una medesima proposta, potrà ciascuna di loro deputare un certo numero de'  suoi membri, perché questi, sedendo insieme, procurassero di conciliare le differenze, e ridurre le Camere all'accordo ed alla uniformità de'  voti.

Capitolo XX

Per essere compila la Camera de'  Pari, vi vogliono almeno trenta componenti la medesima, e per essere compita quella de'  Comuni ve ne vogliono almeno sessanta. Qualora i presidenti delle rispettive Camere vedranno di non esservi il sopraddetto numero di membri, aggiorneranno la seduta o al giorno appresso, o a quel giorno, che si troverà antecedentemente dato.

Capitolo XXI

Le due Camere del Parlamento potranno fissare per le loro sedute giorni diversi, non essendo necessario, che nello stesso giorno siedano ambe le Camere.

Capitolo XXII

Ogni cittadino siciliano, che non fosse membro del Parlamento, potrà avanzare una sua domanda, querela,o progetto di legge per lui, o In nome del pubblico al Parlamento, per mezzo però di un membro del medesimo: se la domanda, progetto, o querela riguarda un oggetto pubblico, il membro di una delle due Camere, che ne sarà incaricato, non potrà ricusarsi di leggerlo pubblicamente alla Camera: se riguarda un oggetto particolare, si dovrà dare ad un comitato, per discutersi, se debba accettarsi, o ricusarsi.

Capitolo XXIII

Ogni Pari ha il dritto di fare inserire nel giornale della Camera le sue proteste colle ragioni, che l'accompagnano, e ciò quando è stata determinata dalla Camera una cosa contraria al suo sentimento.

Capitolo XXIV

§. 1. Ogni membro di ciascuna Camera, che sarà accusato, dovrà immediatamente uscirne, e non potrà rientrarvi, che chiamato alla barra, o cancellata la sua accusa.

Placet Regiae Majestati: quante volle l'accusa sia fatto per mezzo di rapporto di un Comitato, e non già per la sola mozione.

§. 2. Le ingiunzioni si eseguiranno per via degli uscieri.

§. 3. La Camera de'  Comuni dopo avere stabilita l'accusa comincerà a fare le ricerche per le pruove, o per i documenti del processo, e manderà l'accusa documentata alla Camera de'  Pari, la quale passerà a compilare il processo, e quindi al giudizio, ed alla condanna del reo.

Placet Regiae Majestati; per ciò, che riguarda i delitti comuni soltanto; ma trattandosi d'una malversazione qualunque, la Camera de'  Comuni farà unicamente l'accusa, ed il di più si praticherà dalla Camera de'  Pari.

§. 4. Entrambe le Camere hanno il dritto di fare arrestare qualunque persona, da cui sieno state oltraggiate; ma prima di chiudersi il Parlamento dovrà se lo affare non sia definito, essere commesso al Magistrato ordinario.

Placet Regiae Majestati: con che seguito lo arresto, debba rimettersi il querelato al Magistrato ordinario (qualora sia necessario di farsi il processo) onde lo formi, e pronunzi la sentenza diffinitiva: nell'intelligenza, che quegli arrestati, che non si troveranno rimessi al Tribunale, nello sciogliersi, o prorogarsi il Parlamento, resteranno«immediatamente liberi.

Capitolo XXV

§. 1. Tutti i Pari sono uguali in dritti: essi sono Consiglieri ereditarii della Corona.

§. 2. I Pari, e le loro mogli, e vedove, finché non passino a seconde nozze, come anche le eredi delle Parie, debbono essere giudicati nelle materie criminali dalla Camera de'  Pari con quelle forme, che si stabiliranno in appresso.

Placet Regiae Majestati; riserbandosi S. M. di dichiarare il suo Real animo sulle forme da stabilirsi.

§. 3. La Paria si limita ai soli padri di famiglia.

§. 4. I Pari faranno le testimonianze sul proprio onore, e non con giuramento, come i Comuni.

Placet Regine Majestati, quando sia per il giudizio, che i Pari pronunziano; ma quando saranno ricevuti come testimonii, o chiamali come rei, allora dovranno prestare il giuramento tanto nelle cause civili, che criminali.

PER LA SUCCESSIONE AL TRONO DEL REGNO DI SICILIA

Il Parlamento persuaso, che la base di ogni Costituzione In qualunque regno non elettivo è fondata nello stabilire prima l'ordine e i diritti alla successione della Corona, animato dalla speranza di vedere questo regno felice sotto gli auspicii dei discendenti della M. V., rispettando i sovrani decreti, e quanto fu stabilito dal magnanimo genitore della M. V. riguardante l'ordine di detta successione, viene col più profondo rispetto a sottomettere i seguenti articoli, su i quali prega, e supplica la M. V. volere accordare la sua reale Sanzione.

§. 1. I. La Monarchia di Sicilia sarà sempre ereditaria.

§. 2. II. La successione al trono sarà conservata nell'attuale ramo della famiglia Borbone oggi regnante in Sicilia, e sarà stabilita con quelle leggi qui appresso espresse, analoghe e conformi alla saggia disposizione dell'augusto e magnanimo padre del nostro Monarca.

§. 3. La successione si deve regolare a forma di primogenitura col diritto di rappresentazione nella discendenza mascolina di maschio in maschio.

§. 4. Fra questi discendenti però si stabilisce, che dovranno regnare i discendenti maschi di maschio della linea mascolina, e non le femmine.

§. 5. Fra i maschi si dovrà succedere con diritto di primogenitura.

§. 6. Questi dovranno succedere con diritto di rappresentazione, per cui qualunque primogenito, comeché premorto, trasmette ai suoi discendenti abili il suo diritto, come acquistato dal momento della nascita; onde è che il nipote si preferisce allo zio in forza di questo diritto di successione.

§. 7. Se mai il regnante della linea retta venisse a man care senza figli maschi, la successione sarà dovuta al primogenito maschio di maschio della linea prossima, sia fratello, o zio paterno, o in maggior distanza, Nuche però sia primogenito nella sua linea, e sia nel ramo, che prossimamente si distacca, o si è distaccato dalla linea retta primogeniale.

§. 8. Estinti lutti i maschi di maschio della di lui discendenza, e de'  di lui fratelli, dovrà succedere quella femmina del sangue, e dell'agnazione che al tempo della mancanza sia vivente la quale fosse la prossima; osservandosi sempre lo stesso ordine della primogenitura e della rappresentanza stabilita ne' maschi.

§. 9. Qualora l'ultima erede fosse maritata, e che venisse a premorire al marito senza'  lasciare alcun figlio, o figlia, in questo caso viene immediatamente a cessare il diritto di regnare in persona del marito; ed il parlamento resterà in libertà di eleggerlo come re, o di chiamare un altro principe al trono di Sicilia.

§. 10. In caso il marito premorisse alla moglie ultima erede, e che lasciasse un successore, qualora detta ultima erede volesse passare a seconde nozze, sarà detto successore sotto la tutela del Parlamento, o sia dette persone, che il medesimo eleggerà per tutori.

§. 11. III. Tutte le quistioni, o dubbii di qualunque sorta riguardanti l'attuale stabilimento di successione saranno decisi dal Parlamento.

Placet; ma sempre con la Real Sanzione

§. 12. IV. Riguardando tutti i legami di famiglia, i diritti alla successione, e le pretensioni, che potranno nascere, tutti i matrimonii, che si contratteranno dal Re o dai suoi figli, o figlie, e successori dovranno essere conosciuti, ed approvati dal Parlamento.

Veto; ma gl'Individui della famiglia Reale non potranno contrarre alcun matrimonio senza il consenso del Re, salvo il caso che giunti essi all'età di venticinque anni e non avendo potuto ottenere tale consenso pei loro matrimontii in un anno dopo la domanda, e non essendosi opposte nello stesso tempo le due Camere dei Parlamento (che è il solo caso, in cui esse vi si potrebbero op porre) sieno allora in piena libertà di maritarsi con chi, e come vogliano.

§. 13. V. In mancanza di legittimi eredi, e successori, la nazione avrà il diritto di scegliere il suo Re, il quale dovrà regnare con quelle condizioni, che saranno prescritte dalla medesima;

§. 14. Se la nazione sarà obbligala a tare la scelta del suo Re fra i principi stranieri, non dovrà giammai eleggere un Sovrano di un'altra nazione, ma sempre un principe ultragenito, che non avesse sovranità alcuna in altro paese, e che dal primo giorno della sua elezione stabilir deve la sua residenza in Sicilia; deve però essere immancabilmente di una famiglia reale.

§. 15. VI. Il Re di Sicilia non potrà per qualunque sia cagione allontanarsi dal regno senza il consenso del Parlamento. Ogni Re, che abbandonasse il regno senza il detto consenso, o che prolungasse la sua dimora fuori dell'isola al di là del tempo accordatogli dal Parlamento, non avrà più diritto a regnare in Sicilia, e da quel momento salirà al trono o il suo successore, se ne avrà, o la nazione eleggerà il suo nuovo re.

Veto in quanto alla facoltà di allontanarsi, dovendosi in quel caso unicamente stabilire con il consenso del Parlamento da chi, e con quali condizioni nella sua assenza dovranno esercitarsi le facoltà dategli dalla Costituzione.

§. 16. VII. Il Re non potrà mai o per trattato, o per successione ad un altro regno rinunziare, o cedere a quello di Sicilia o in tutto, o in parte, con disporne in favore di qualche altro principe, che non sia l'erede immediato: in un tal caso cigni alto, che farà, sarà nullo, e la nazione non sarà tenuta a riconoscere la volontà del Re.

§. 17. VIII. Se il re di Sicilia riacquisterà il regno di Napoli, o acquisterà qualunque altro regno, dovrà mandarvi a regnare il suo figlio primogenito, o lasciare dello suo figlio in Sicilia con cedergli il regno; dichiarandosi da oggi innanzi il detto regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli, e da qualunque altro regno o provincia.

Placet per indipendenza: tutto il dippiù resta a stabilirsi dal Re e dal suo Primogenito alla Pace generale chi della loro Famiglia debba regnarvi.

§. 18. IX. Alla morte del Re l'immediato successore di proprio diritto assumerà il governo del Regno.

§. 19. Egli però dovrà nel corso, al più di due mesi, farsi riconoscere dal Parlamento.

§. 20. X. Ogni Re, o Regina erede dal momento che sarà riconosciuto, o riconosciuta, dovrà prestare il giuramento solenne nel duomo di Palermo, e in mano dell'Arcivescovo nella forma che segue:

§. 21. Noi ec. Re, o Regina di Sicilia promettiamo, e i giuriamo sopra la Croce di nostro Signore Gesù Cristo, sopra li quattro Evangeli di volere osservare, e fare osservare la Religione Cattolica Apostolica Romana, di volere osservare e rispettare, e fare osservare e rispettare la Costituziene di questo regno di Sicilia, e tutte quelle leggi fatte, e che si faranno dal parlamento ec. Giuriamo, e promettiamo sopra la detta Santa Croce di non volere mai attentare a cosa alcuna, che sia contro le leggi stabilite dal Parlamento, né contro la felicità de'  nostri sudditi ec.

Placet; con che le Leggi fatte, e che si faranno dal Parlamento si intende che debbano esser quelle, che hanno di già meritala la Real Sanzione, oche potranno in seguito meritarla.

§. 22. Il Parlamento poi presterà nello stesso tempo il seguente giuramento:

«La Nazione da Noi rappresentata dichiara di riconoscere nella persona di ec. il suo vero, e legittimo Re, o Regina a Costituzionale, e nello stesso tempo promette, e giura sopra la Croce di nostro Signore Gesù Cristo, e sopra li quattro Evangeli di volerlo mantenere in tutti quei diritti, che gli accorda la Costituzione.

§. 23. XI. La maggiorità del Re sarà fissata all'età di anni 18, durante la sua minorità il Parlamento sceglierà una Reggenza, e stabilirà le restrizioni, con le quali la Reggenza dovrà esercitare l'autorità reale.

Placet; rimanendo al Re la facoltà di raccomandare al Parlamento quei Soggetti che giudicherà i più idonei ai buon Governo del Regno, ed alla perfetta educazione del Successore.

§. 24. XII. Qualora il Re fosse incapace di esercitare l'autorità Reale per infermità di mente o per altro difetto, il Parlamento dovrà eleggere una Reggenza,come si è detto all'articolo XI, finché durerà la sopradetta incapacità.

Placet nel solo caso di demenza.

§. 25. XIII. Dopo la morte del Re, o Regina erede, se il Parlamento si trovi convocato, dovrà prolungare le sue sedute per altri mesi sei. Se il Parlamento si troverà prorogato, dovrà subito riunirsi da sé. Se però non vi sarà Parlamento esistente per essere stato sciolto dal defunto Re, i membri dell'ultimo Parlamento si uniranno da loro, e formeranno un nuovo Parlamento.

§. 26. Il sopraddetto Parlamento, qualora il successore fosse di minor età, eleggerà una Reggenza, come si è detto all'articolo XI; farà la ricerca, correggerà, e riformerà più esattamente che in ogni altro tempo tutti gli abusi, che si fossero potuti introdurre, durante il Regno precedente: e ciò ad oggetto di condurre la Costituzione ai suoi veri principii: e finalmente per provvedere ad ogni altro bisogno dello Stato.

Placet come nel §. 23.

§. 27. XIV. Se alla morte del Re vi fosse il successore di maggior età, potrà dopo essere stato riconosciuto dal Parlamento, scioglierlo, ma dovrà convocarlo immediatamente colla nuova formazione della Camera dei Comuni.

§. 28. In mancanza di Eredi o Successori il Parlamento, che si prolungherà, o quello che si riunirà, dovrà subito occuparsi nella scelta del nuovo Re.

DECRETO PER LA LIBERTÀ DELLA STAMPA

§. 1. Ognuno potrà stampare, e pubblicare le sue idee gema bisogno di licenza, e senza obbligo di sottoporle ad una precedente revisione, e ciò dal momento, che S. R. M. avrà sanzionato il presente capitolo.

§. 2. I soli scritti sopra materie di religione resteranno soggetti alla previa censura degli ordinari Ecclesiastici, come si stabilisce nel Concilio di Trento; intendendosi per tali scritti tutti quelli, che interamente di proposito trattano dei dogmi e culto della Religione Cristiana Cattolica Apostolica Romana, i catechismi cristiani, e le versioni ed interpretazioni del nuovo ed antico testamento.

Placet: restando soggetti ancora all'istessa censura tutti gli scritti riguardanti Teologia Dogmatica, e Teologia Morale, sia che ne trattino direttamente o indirettamente, e ciò si intenda ancora di tutte le opere della natura espressa in questo paragrafo, che s'introducono da fuori.

Sarà delitto il pubblicare scritti di qualunque sorta:

§. 3. I. Che contengano articoli contro la Religione Cattolica Apostolica Romana, e contro i buoni costumi;

§. 4. II. Nei quali si offenda la persona del Re dichiarala inviolabile;

§. 5. III. Nei quali si offenda un individuo della Real famiglia;

§. 6. IV. Che tendessero a distruggere direttamente le basi della Costituzione del 1812, cioè la divisione dei poteri nel modo già sanzionala, per cui il potere legislativo risiede presso il Parlamento diviso in due Camere, l'una dei Pari, e l'altra dei Comuni; il potere esecutivo presso il Re; ed il potere giudiziario presso i Magistrati; che il solo Parlamento abbia il diritto d'imporre le tasse: che i funzionarii pubblici siano ad esso responsabili, e niuno possa essere arrestato, e punito se non conforme alle leggi, per via di ordini, e sentenze de'  Magistrati ordinarii;

Placet; nell'intelligenza che il potere legislativo si intenda nel senso stesso espressato nel §. 1 del capitolo del potere legislativo.

§. 7. V. Che promuovano direttamente e a disegno la disubbidienza alle leggi, ed ai mandati ed ordini di Magistrati relativi alla esecuzione delle stesse; potendo però ognuno sotto le restrizioni contenute nel presente decreto riunire, stare la sua opinione, tanto sulle leggi, quanto su qualunque alto del potere esecutivo, o del potere giudiziario.

§. 8. VI. Che contengano libelli infamatorii, scritti calunniosi, e licenziosi, e contrari alla decenza pubblica nel quali si svelino gl'intrighi, ed i segreti scandalosi delle famiglie.

§. 8. Colui, che incorrerà nel primo dei suddetti delitti sarà condannato alla relegazione da un anno sino a dieci.

Placet: nell'intelligenza che le pene proposte dal Parlamento debbano esser valide finché il nuovo Codice non le abbia regolate, e che debbano anche applicarsi a coloro, che introducono, vendono, o fanno circolare libri esteri delle condizioni di sopra descritte.

§. 10. Nel secondo sarà condannato alla relegazione da un anno sino a dieci;

Placet come sopra.

§. 11. Nel terzo sarà condannato alla relegazione da un anno sino a quattro;

Placet come sopra.

§.12. Nel quarto sarà condannato alla relegazione da un anno sino a dieci;

Placet come sopra.

§. 13. Nel quinto sarà condannalo alla relegazione da Mesi sei ad anni due;

Placet come sopra.

§. 14. Nel sesto sarà obbligato l'editore al risarcimento de'  danni, spese, ed interessi alla parte offesa.

Placet come sopra.

§. 15. Se la diffamazione sarà calunniosa, sarà condannato come libellista da un anno sino a quattro di relegazione. Se la diffamazione sarà su cose vere, verrà punito colla relegazione di sei mesi sino a due anni, sempre in proporzione della gravezza del delitto.

Placet come sopra.

Lo stampatore sarà obbligalo:

§. 16. A far firmare dall'autore innanzi a due testimoni i fogli del manoscritto, che dovrà pubblicare, ed avere una piena cognizione di colui, dal quale ha ricevuto l'originale;

§. 17. Apporre il suo nome, il luogo, e anno della impressione;

Placet; con che oltre ai sopraddetti doveri sarà obbligato di presentare una copia di ciascun'opera, che stamperà nella Segreteria dell'interno.

§. 18. Non sarà tenuto palesare il nome dell'autore, se non ricercato dal giudice ordinario, a cui ne sarà stata avanzata l'istanza. Mancando a questa giustificazione, o tacendo, s:uà soggetto alle stesse pene, che sono state prescritte per l'autore.

§. 19. Colui che falsificherà, o ometterà il nome, il luogo, o l'anno della impressione, sarà condannato a pagare once dugento applicabili ad un'opera pia dello stesso Comune.

Placet: quante volte non vi sia complicazione di altri delitti, per li quali sono inflitte le pene di sopra stabilite, a cui pure dovrà esser soggetto.

§. 20. Chiunque è offeso ha dritto di reclamare presso il magistrato ordinario.

§. 21. Per tali giudizi si osserverà la forma vigente in Regno dei giudizi criminali.

§. 22. Trovatosi l'autore per sentenza colpevole, gli sarà inflitta la pena rapportata di sopra. La gradazione sarà proporzionata alla gravezza del delitto da arbitrarsi per ora dal giudicante, fioche il nuovo Codice Criminale fisserà distintamente e la forma dei giudizi, e le diverse qualità e gradì dei sopraddetti delitti e delle pene, senza punto allontanarsi da quanto è stato nel presente capitolo prescritto.

§. 23. Sotto il nome di autore 'verrà compreso anche l'editore, o colui, che avrà consegnato allo stampatore il manoscritto originale in mancanza dell'autore.

§. 24. Per le opere che trattano di materie di religione, benché siasi precedentemente stabilito, che non possano stamparsi senza previo permesso dell'ordinario Vescovo, in caso di negativa del medesimo, l'interessato potrà gravarsi presso il Metropolitano; ed essendo questi ordinario, la seconda istanza sarà prodotta innanzi al Giudice della Monarchia; la terza istanza in circostanza di difforme parere sarà avanzata nel primo caso al Giudice della. Monarchia, nel secondo al Tribunale di appello competente.

§. 25. Per la revisione da farsi dai Vescovi per i libri di religione non s'intenderà pregiudizio alcuno indotto ai diritti di Regalia, ed alle preeminenze della Monarchia di Sicilia.

Placet; con che lati libri si. dovranno presentare ancora a quel Magistrato, che destinerà il Potere Esecutivo per tale revisione.

DELLA LIBERTÀ, DIRITTI E DOVERI DEL CITTADINO
Capitolo I

Ogni cittadino Siciliano avrà la facoltà illimitata di parlare su qualsiasi oggetto politico, lagnarsi delle ingiustizie fattegli, senza aversi riguardo dai magistrati alle denuncie delle spie, e senza poter essere castigato per qualunque cosa si è fatto lecito dire. Sarà però punito severamente colui, il quale sarà convinto di avere promosso complotti sediziosi.

Placet; regolandosi di restare anche vietati tutti quei discorsi su gli articoli che dal §. 1. sino al 6. della libertà della Stampa vengono proibiti; e proibito ancora tutto ciò che tenda a promuovere complotti, o sedizioni popolari.

Capitolo II

Ogni cittadino Siciliano avrà il dritto di resistenza contro qualunque, che senza essere autorizzato dalla legge volesse usargli violenze, o con la forza, o con le minacce, o volesse procedere colla supposta personale autorità, cosicché non si riconosce nei magistrati altro diritto, che quello,che la legge loro concede.

Placet; ma nel senso che resta prescritto nei §. 25,26,27, del capiyolo I. del Potere Giudiziario.

Capitolo III

Un cittadino Siciliano di qualunque classe siasi non potrà esercitare più di due impieghi pubblici lucrativi, dovendosi impedire la moltiplicità delle cariche nello stesso soggetto.

Placet; intendendosi da oggi innanti, e non già per quelli cittadini, che li possiedono attualmente.

Capitolo IV

La legge non dovendo stabilire se non pene schiettamente, ed evidentemente necessarie, nessun cittadino Siciliano potrà essere punito se non in virtù di una legge stabilita, promulgata antecedentemente al delitto, ed applicata legalmente.

Placet; con che restino ferme le attuali Leggi vigenti sino alla compilazione del nuovo Codice.

Capitolo V

Ogni proprietario sarà libero di tenere delle cacce nei propri fondi, purché li giri di mura di fabbriche, alte palmi almeno.

Placet; intendendosi per le cacce di cignali, cervi, daini, e coprii, ad esclusione però delle terre che si posseggono da 8. R. M. sotto qualunque titolo; e per il dippiù restando in osservanza il capitolo del Re Giacomo,. trascritto nel qui appresso Cap. VI, e restando anche in facoltà di ognuno guardarsi la caccia minuta nei propri fondi a seconda della Legge vigente, e con quelle modificazioni che potrà farvi il nuovo Codice.

 

Capitolo VI

Nelle terre de'  particolari non potranno da oggi innanzi esservi riserve, o cacce Reali, o di altri Principi e signori, dovendosi riputare dette riserve, o cacce contrarie al diritto sacro della proprietà. Quanto a detta riserva si rinvigorisca, e si osservi il capitolo 28 del Re Giacomo espressate ne' seguenti sensi:

«Colla maggior severità proibiamo, che dall'Altezza Nostra, dai magistrati, o officiali della nostra Curia, o da altri chicchesia non si faccino delle foreste (ovvero bandite) nelle terre de'  privati. E che per ragione di cotali foreste dalla nostra Curia e dai soprantendenti, e custodi delle foreste intesse alcuno non si molesti nella coltivazione, e raccolta de'  frutti delle sue terre, e danno ed ingiustizia alcuna non gli si cagioni.

Placet; da principiare dopo la fine di luglio, per trovarsi terminata la raccolta.

Capitolo VII

§. 1. Nè I. Erario, né le Chiese, né le Comunità, né qualunque altra corporazione, o persona privilegiata potranno reclamare, o godere alcuna prerogativa, privilegio, e distinzione nelle loro cause di ogni sorta, giacché in queste si dovrà sempre procedere e dovranno le medesime essere sempre trattate, e giudicate come quelle di tutti i particolari senza distinzione alcuna.

Ci riserviamo di manifestare il Nostro Real animo su di questo, e dei quattro seguenti Paragrafi di questo Capitolo, tostoché gli articoli in essi Paragrafi contenuti saranno pienamente definiti, e dilucidati dal nuovo Codice, che dovrà in ciò uniformarsi alla Costituzione Inglese, e principalmente per quanto riguarda i privilegi dell'Erario.

§. 2. Resta abolita del pari la così detta mano fiscale, et rivocato ancora qualunque privilegio, che il Fisco dell'Erario ha goduto finora, derogando in conseguenza il Parlamento a qualunque Legge, o Statuto, che venisse in opposizione alla presente abolizione; e particolarmente annulla quanto su tal particolare trovasi stabilito nella Prammatica X, titolo II, de Officio Magistrorum Ralionalium §. 22. nella Prammatica VII, titolo III, de Officio Conservatoria Regii Patrimonii, e nella Prammatica unica titolo X, de Officio Perceptorum §. 16.

§. 3. Cosicché i Procuratori, ed Avvocati dell'Erario non potranno giammai invadere i beni di qualsivoglia Comune, corporazione, o di qualunque particolare senza il prece; dente decreto di giustizia, o la formale sentenza del giudice magistrato, a cui si apparterrà giusta la presente Costituzione; come neppure potranno occupare gli altrui beni di propria autorità, priaché ne avessero dalle sentenze de'  giudici, o magistrati anzidetti ottenuto il titolo legittimo.

§. 4. Finalmente il Fisco non potrà più godere nelle locazioni di qualsivoglia cespite, o fondo della cosi detta addizione in diari, né restituzione alcuna, non ostante qualunque privilegio, o consuetudine; a quel oggetto deroga il Parlamento qualunque Legge, o Statuto, che vi si potesse opporre.

§. 5. Per le Chiese, Comunità, e qualunque altra corporazione, o persona finora riguardata come privilegiata e restituibile, il nuovo Codice Civile fisserà i necessari provvedimenti analoghi.

Capitolo VIII

Ogni cittadino Siciliano sarà riputato come faciente parte del potere Legislativo direttamente, o indirettamente, e come tale non riconoscerà altre autorità, che quelle stabilite dalla Legge.

Veto per la prima parte; placet riguardo a non riconoscer altre autorità che quelle stabilite dalle Leggi.

Capitolo IX

Ogni cittadino Siciliano sarà in dovere di conoscere la Costituzione del Regno e tutte le Leggi, che la compongono; cosi sarà obbligo de'  parrochi, e de'  magistrati municipali l'istruire della Costituzione del 1812 tutti coloro, che appartengono ai loro quartieri ed al loro Comune; come ugualmente sarà dovere delle Università, e delle scuole pubbliche e private il leggere due volte l'anno la Costituzione.

Capitolo X

Ogni Siciliano per potere avere parte diretta o indiretta alla formazione della Legge dovrà sapere leggere, e scrivere; e così nel 1830 non sarà permesso ad alcun Siciliano, che non sappia leggere, il poter esser elettore.

Capitolo Xl

Ogni cittadino Siciliano, che da oggi in avanti non avrà cura di vaccinare i figli, non potrà aver parte diretta o indiretta nella formazione della Legge, né potrà essere ammesso no' Consigli Civici.

Ciò sarà rilevato dalla nota, che si presenterà dal magistrato municipale.

Capitolo XII

Ogni Siciliano non potrà ricusarsi ad essere giudice di fatto menochè fosse impedito per ragion di parentela.

Capitolo XIII

Ogni Siciliano non potrà prendere servizio sotto altra Potenza senza il permesso del Re; ed ottenendolo, non potrà eliminai prendere le armi centra la Patria, altrimenti resterà soggetto a quelle pene, che stabilirà il nuovo Codice.

DELLA FEUDALITÀ,DIRITTI E PESI FEUDALI
Capitolo I

§. 1. Abolita la Feudalità, come fu definito nelle basi della Costituzione all'articolo XII, da S. M. sanzionato, gli abitanti di qualunque Comune saranno considerati di ugual diritto e condizione, e tutte le popolazioni del Regno saranno governate colla stessa legge comune del Regno.

§. 2. Cesseranno tutte le giurisdizioni baronali, e non ostante qualunque privilegio, saranno cessati tutti li meri e misti imperi senza indennizzazione ai possessori.

§. 3. Saranno in correlazione disgravati i baroni di lutti i pesi annessi all'esercizio di giurisdizione, della custodia del territorio, e responsabilità de'  furti, della conservazione delle carceri e castellani, delle spese occorrenti per li detenuti, e d'ogni altra gravezza annessa.

Placet; non che i baroni dovessero lasciare a vantaggio dei Comuni l'uso delle carceri per mesi sei, nel qual tempo ogni Università dovrà pensare a provvedersene, e che per li furti restino risponsabili gli attuali capitani, come lo sono quelli deí paesi sinora distinti come demaniali, finché non saranno stabiliti i capitani d'Arme.

§. 4. Cesseranno in conseguenza ne' baroni gli Uffizi di maestro-Notaro di corte, di baiulo, di catapano, ed altri provenienti dalla giurisdizione signorile d'introiti, o gabelle di tali uffici resteranno a vantaggio dello stato per le necessarie spese dell'amministrazione di giustizia; quante volte però le maestre-Notarie non siano dipendenti da mero diritto signorile, ma per causa onerosa, in tal caso si dovrà compensare il capitale.

§. 5. Non vi saranno più gli attributi feudali di servizio militare, d'investiture, di relevio, di devoluzione a favore del fisco, di decima e tarì feudale, di diritti di grazia e di mezz'annata, e di altri di qualunque denominazione inerente ai feudi.

§. 6. Cessando la natura, e forma de'  feudi, tutte le proprietà, diritti, e pertinenze in avanti feudali, rimaner debbano, giusta le rispettive concessioni, in proprietà allodiali presso ciascun possessore.

§. 7. Conserverà ognuno i titoli ed onori, che sinora sono stati annessi agli in avanti feudi, e de'  quali ha goduto, trasferibili questi ai suoi successori.

Placet; con che si intenda ancora per quei titoli non inerenti ai di già aboliti feudi.

Capitolo II

§. 1. Il Parlamento in correlazione de'  principii stabiliti di sopra, ed in dilucidazione dell'articolo XIII delle basi della Costituzione, dichiara, che la mano in avanti baronale cesserà, ma che ciascun possessore li fondi di qualunque natura, per la facile esigenza de'  crediti, abbia il diritto di sequestrare ed impedire che si estraggano sul momento dai gabellotti, censualisti, terraggieri, e coloni i prodotti ed Animali dal fondo con adirsi intanto la giurisdizione ordinaria del luogo, perché provveda in giustizia sul pegno, inteso il creditore e debitore.

§. 2. Le angherie, e perangherie,introdotte soltanto dalla prerogativa signorile, restano abolite senza indennizzazione. E quindi cesseranno le corrispondenze di galline, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazoni a trasportare in preferenza i generi del barone, di vendere con prelazione i prodotti allo stesso, e tutte le opere personali, e prestazioni servili provenienti dalla condizione di vassallo a signore.

§. 3. Sono ugualmente aboliti senza indennizzazione i diritti privativi, e proibitivi per non molire i cittadini in altri trappeti, o molini, fuori che in quelli dell'in avanti barone, di non cuocer pane, se non ne' forni dello stesso, di non condursi altrove, che ne' di lui alberghi, fondachi, ed osterie; i diritti di zagato per non vendere commestibili e potabili in altro luogo, che nella taverna baronale, e simili, qualora fossero stabiliti sulla semplice prerogativa signorile, e forza baronale.

§. 4. Saranno pérò compensali, come in ciascun alito privato, i dritti signorili di sopra descritti, tanto proibitivi, che privativi, qualora sieno provenienti da una convenzione corrispettiva tra li baroni e Comune, o singoli, o da un giudicato.

§. 5. Non sarà impedito alle popolazioni il potere attaccare nelle consuete e legali forme le corrispettive convenzioni fatte coi baroni relativamente agli avvisati diritti proibitivi, di appellarsi dalle sentenze profferite a favore degli stessi baroni, qualora non sia falla cosa giudicata, per liberarsi dallo stabilito compenso; beninteso, che per l'anzidetto non si intende accordare alcun nuovo diritto o azione alle medesime.

§. 6. Saranno parimente aboliti dal giorno della Real Sanzione tutti i diritti angarici che si corrispondono dalle popolazioni del Regno alle rispettive università, e regie Segrezie, volgarmente appellate diritti di scuro,' bocche, fumo, tappitelli, ed altri simili, a seconda dei principii stabiliti di sopra.

§. 7. Saranno questi stessi diritti, privative redimibili, volendone il Comune, o singoli l'affrancazione, come si è detto al §. 4.

§. 8. Dovrà questa eseguirsi, o con dare il capitale ragionato al 5 per 100 sul fruttato, in considerazione dell'avviamento, che viene a mancare cessando la privativa, locché si dovrà fissare, adoperandosi il legale giudizio dei periti sulla media somma del risultato dell'ultimo decennio, o con convertire ad arbitrio dell'affrancarne il diritto e la privativa in un'annua prestazione in denaro: locché sarà pure legalmente arbitrato dai periti sulla stessa media somma dell'ultimo decennio. Ed intanto sino alla indennizzazione. dovrà sospendersi qualunque novità di fatto.

§. 8. Tolta qualunque opposizione di semplice prerogativa signorile, resterà ciascun Comune e cittadino nella libera facoltà di erigere, ed usare dei molini, tappeti, forni, fondachi, taverne, ed altri; resteranno però illesi e conservati in ciascun Barone i diritti, che gli competono per ragione di pertinenza di suolo, di dominio territoriale, di proprietà di fiume, salti d'acqua e simili, giusta le rispettive concessioni.

§. 10. Li diritti angarici, che sono stati da R. M. venduti, saranno compensati nell'istesso modo, che si è detto dal Parlamento per le altre compensazioni.

Capitolo III

§. 1. Il Parlamento colla stessa uguaglianza di;principii viene a stabilire, che come si sopprimono senza compenso i diritti signorili assolutamente angarici, così vengono del pari aboliti senza indennità gli usi civici assolutamente angelici, che i singoli ed i Comuni esercitano su i fondi de'  Baroni per legnare, pascere e compascere, cogliere ghiande, prevenire od occupare terre a seminario, sono un fisso terratico, e simili servitù e costumanze attive e passive, che sono state dall'abuso introdotte, come pregiudizievoli all'agricoltura ed alla libera economia dei predi.

§. 2. Saranno compensati però quegli usi civici, che provengono da un condominio, o diritto di proprietà, da una convenzione corrispettiva tra il Barone ed il Comune, o singoli, e finalmente da un giudicato.

§. 3. Saranno però questi stessi redimibili a vantaggio della libera economia del fondo. Ed essendo promiscui diritti di dominio, sarà per il favor dell'industria preferito nell'affrancazione il particolare contro il corpo morale, o singoli.

§. 4. L'affrancazione dovrà eseguirsi, o con dare il capitale ragionato al 5 per 100 sul fruttato, che sarà fissato sulla media somma di risultato dell'ultimo decennio, secondo il legale giudizio de'  periti, o con convertire il diritto ed uso civico ad arbitrio di colui, che ne dovrà dare il compenso in un'annua prestazione in denaro, che sarà pure legalmente arbitrata dai periti sulla media somma dell'ultimo decennio.

§. 5. Ed intanto sino all'indennizzazione sarà proibita qualunque novità di fallo.

§. 6. Qualunque altro diritto angarico privativo o proibitivo, da qualunque origine provenga, resti similmente abolito, con restare ferme le condizioni di sopra stabilite, riguardo al compenso quando gli convenga.

Capitolo IV

§. I. Desiderando il Parlamento per il maggior vantaggio del Regno che avessero effetto prontamente i provvedimenti di sopra stabiliti dai precedenti capitoli per la soppressione tanto dei diritti signorili, che degli usi civici, che gravitano sulle persone, e sulle cose, ha deliberato, che i Tribunali, &Magistrati ordinari debbano occuparsi immediatamente, che saranno li presenti capitoli da S. M. sanzionati, ad esaminare le rispettive istanze degli interessati, e riconoscere quali diritti, pesi, servitù, prestazioni, ed usi civici debbano in ogni popolazione restar soppressi senza indennità, e quali, previo il compenso, a seconda degli articoli precedenti.

§. 2. Quando conosceranno, secondo li principii definiti di sopra; essere il caso dell'indennizzazione, debbano a maggior facilitazione fare eseguire col consenso delle parti interessate la valutazione del surrogato.

Capitolo V

§. 1. Conoscendo il Parlamento, che il maggior vantaggio, e progresso de'  boschi, e delle foreste dipende dal libero U30 di tale proprietà, nell'atto che decreta lasciarsi libero ai possessori e senza qualunque siosi superiore permesso il taglio degli alberi atti a negozio, riserbando quelli di alta cima, che sono gli alberi di rovero, di pino, zappino, e di elce, vuole, che il novello Codice stabilisca tutte le buone leggi necessarie per animare i proprietarii alla conservazione di essi boschi ed alla coltura degli alberi di alta cima, abolendo ogni restrizione angarica, che si opponga ad un sì lodevole oggetto, e facendo insieme conseguire alla nazione il vantaggio del legno abbondante, e degli alberi di alla cima, atti alla costruzione.

Placet; ma considerando Noi, che per incoraggire la cultura de'  boschi, tanto necessaria in un paese marittimo, sarebbe cosa utile il permettere anche ai proprietari la libertà di vendere gli alberi di qualunque specie, purché restino obbligati a farne inteso il Governo Aria di eseguire il taglio di quella specie alta a costruzione, per potersi preferire, volendo farne acquisto, desideriamo che il Parlamento prenda in considerazione questo interessante oggetto.

§. 2. Fisserà insieme lo stesso Codice le leggi penali per coloro, che abusando della proprietà vogliono far mancare l'utile pubblico colla distruzione de'  suddetti boschi.

TITOLO IL POTERE ESECUTIVO
Capitolo I

§. 1. Sarà privativa del Re il rappresentare la Nazione Siciliana presso le potenze straniere.

§. 2. Quella di far la guerra, la pace, quando lo giudicherà; ed il proporre e conchiudere qualsivoglia trattato colle altre potenze, a condizione però che non ripugni direttamente o indirettamente alla Costituzione del Regno.

§. 3. Lo stabilire il suo privato consiglio, il quale verrà composto dei quattro Segretarii di Stato, e di due almeno dei Consiglieri, senza eccedere il numero di dodici, compresi li suddetti Segretarii, che devono esser membri del medesimo durante la loro carica. Del pari l'eleggere tutti duci Consiglieri di Stato, che S. M. giudicherà, che dovranno essere Siciliani, e persone della più alta fiducia e merito. Placet nel senso che il Segretario di Affari Esteri e quello dell'Interno, o sia di Grazia e Giustizia, saranno Consiglieri nati; per tutti gli altri resterà in facoltà Nostra di eleggere chi vorremo, e quanti ne vorremo: come del pari sarà del Nostro arbitrio chiamare nel Consiglio quei Consiglieri che vorremo, e quanti ne vorremo.

§. 4. Sarà la M. S. Imita di consultare in tutti gli affari più gravi un tale consiglio, e specialmente in quelli appartenenti alla dichiarazione della guerra, alla concitiusione della pace, ed allo stabilimento dei trattati colle potenze estere.

§. 5. Il Parlamento avrà sempre il diritto di domandar conto e ragione di qualunque atto del potere esecutivo, di processare, e punire i Ministri, e i membri del Consiglio, quante volte li troverà contrari alle prerogative ed agl'interessi della nazione.

§. 6. Apparterrà a S. R. M. l'eleggere fra i soli Siciliani 1 quattro Segretari di Stato, e i rispettivi Direttori delle Reali Segreterie per impiegarli nei diversi Dipartimenti ad elezione della M. S., come pure l'eleggere fra i soli Siciliani gli impiegati subalterni.

Placet per l'avvenire, ma non già per gli attuali impiegati.

§. 7. L'onorare quei che ne saranno degni, delle solite 'cariche e dignità di Corte, degli ordini equestri, delle legali, e consuete onorificenze, e titoli di nobiltà.

Placet; restando però a Nostro arbitrio creare quante altre nuove cariche di Corte vorremo, e conferire o creare tutte quelle onorificenze, che ci piacerà.

§. 8. Il dare col consenso del Parlamento gratificazioni, o pensioni a coloro, che per utili servizi prestati allo Stato, si saranno resi benemeriti alla Patria.

§. 9. Il coniare moneta, senza poterne però alterare il peso ed il titolo, o sia valore inni:1,u°, se non previa il consenso del parlamento.

Placet: restando ancora in facoltà Nostra sospendere il corso di quella moneta, che non giudicheremo conveniente, e di permettere l'introduzione di monete estere, con fissarne il:valore in proporzione della moneta del Regno.

§. 10. Il regolare e comandare le forze tutte di terra e di mare di Sicilia; talché il Re dovrà sempre considerarsi come il loro Generalissimo.

§. 11. Il conferire tutti i Beneficii Ecclesiastici detti di Regio Padronato, tutti i gradi militari, tolte le Magistrature civili e criminali ai soli Siciliani, e le commissioni, che sarà necessario di dare, in esecuzione degli atti del Parlamento.

Placet; ma con tutte le altre provviste, e nomine Ecclesiastiche, solite farsi finora da Sua Maestà.

§. 11. L'erigere col consenso del Parlamento novelle corporazioni, ed autorizzarne con Diplomi l'istituto e i regolamenti.

§. 13. Il sovraintendere al commercio interno ed esterno della Nazione, ed a tutte le opere, ed istituzioni pubbliche, come Strade, Poste, Ponti, Canali, Porti, Carceri, Collegi, a tenore però sempre delle determinazioni del Parlamento, da S. M. sanzionate.

§. 14. Il far grazia, o alleggerire, o commutare la pena stabilita ai colpevoli con sentenza, in quei casi però soltanto, ne' quali l'azione contro il reo sarà di privata natura, e si sarà di già compensato il danno, o l'interesse della parte offesa, come più diffusamente si spiegherà nel nuovo Codice criminale.

Placet; e far grazie ancora per tutti quei delitti pubblici, che non sono in opposizione alla Costituzione.

§. 15. Il curare, che i Ministri, e generalmente gli Amministratori tutti delle cose pubbliche adempiano i loro doveri; il domandar conto, e prendere informazione della loro condotta; l'ammonire quelli, che con poca lode si comporteranno ne' loro uffici; ed il punire quegli altri, che a tenore delle leggi saranno convinti rei, per mezzo delle Autorità de'  Magistrati competenti.

§. 16. Il far eseguire le sentenze, che saranno a tenore delle leggi pronunziate dalle Autorità, e Magistrati competenti.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

TRUPPE NAPOLITANE CHE SFILANO

DOPO LA CAPITOLAZIONE DI CASTELLAMARE

§. 17. Sia abolito il sistema di eccitative, che oggi si osserva nelle Reali Segreterie di Stato, per mezzo delle quali, intervenendosi dai Ministri nelle pendenze giudiziarie dei particolari, si verrebbe ad attaccare l'indipendenza del Potere Giudiziario, già sanzionato da S. M.; quindi si stabilisce, che non s'intende in virtù di questo Articolo autorizzato verun Ministro a prender parte nelle pendenze giudiziarie de'  particolari, introdotte innanzi a differenti Magistrati.

Placet; menoché per l'esecuzione di ciò, che resta stabilito nel §. 15 di questo stesso Capitolo.

§. 18. Il Re eserciterà queste alte incombenze per mezzo de'  suoi rispettivi Segretari di Stato, che ne saranno sempre risponsabili al Parlamento, né valga a questi, per iscusare la loro colpa, l'allegare qualunque ordine di S. R. M.

§. 19. Il Parlamento poi ritiene per qualunque atto del potere esecutivo, il diritto di far delle petizioni,e rimostranze, e S. R. M. dovrà sempre prenderle nella dovuta considerazione.

Capitolo II

§. 1. Non ostante l'eminente dignità, che ha il Re di Generalissimo, non potrà egli introdurre, né tenere in Sicilia altre truppe, e forza qualunque di terra e di mare, se non quelle, per le quali ne avrà ottenuto il consenso del Parlamento:

Placet; salve le truppe estere, per le quali trovansi stipulati dei trattati.

§. 2. S. R. M. non potrà giammai obbligare alcun Sicilia no a servire nelle Reali forze di terra e di mare.

Placa; menoché in quei casi, nei quali vi sarà il consenso del Parlamento.

Capitolo III

§. 1. Apparterrà a S. R. M. l'amministrazione della rendita nazionale e de'  beni di ogni sorta, per mezzo del Ministro e del consiglio delle finanze, con quelle condizioni che si diranno.

Placet; con le condizioni, e modificazioni apposte ai seguenti paragrafi.

§. 2. Restano quindi soppressi la Deputazione del Regno, ed il Tribunale del Real Patrimonio con tutte le loro dipendenze.

Placet; ma d'aver luogo dal primo settembre 1813, beninteso che resteranno per giudicare le cause dell'Erario gli attuali Ministri Togati con l'attuale Avvocato Fiscale del Tribunale del Patrimonio, fintantoché non sarà stabilito e posto in pratica il nuovo piano delle magistrature, nel quale il Parlamento dovrà proporre il modo, come stabilire un Tribunale per Erario a tenore delta Costituzione Inglese, onde assicurare il grande oggetto della percezione della pubblica rendita.

§. 3. Il metodo, con cui sarà regolata la suddetta amministrazione, è il seguente: Dovranno da S. R. M. eleggersi quattro GranCamerari, e porre sotto la direzione e dipendenza del Ministro di finanze.

§. 4. La durata della carica di essi GranCamerari sarà amovibile ad arbitrio di S. R. M.

§. 5. Dippiù quattro ViceCamerari da eleggersi da S. R. M.

§. 6. La durata della carica dequaltro ViceCamerari sarà amovibile ad arbitrio di S. R. M.

§. 7. Un Tesoriere Generale.

§. 8. Un Conservatore Generale.

§. 9. Un Avvocato.

§. 10. Un Procurator Generale dell'Erario.

§. 11. Ventitré Segreti.

§. 12. Ventitré Proconservatori.

§. 13. Un ProSegreto in ciascuna delle isole adiacenti, ed in ciascheduna popolazione, che non sia Capitale di Distretto.

Placet; con che il Parlamento dovrà per i sopradetti impiegati stabilire le rispettive preminenza, e facoltà per la facile percezione della rendita pubblica.

§. 14. La durata di questi uffiziali sarà perpetua, ma amovibile per delitto, o per mancanza in officio, o per qualunque altra causa benvista al Ministro delle finanze.

Placet; con che s'intendano i sopradetti impieghi ugualmente di nostra elezione; ed amovibili a nostro arbitrio: e che tutti gli impiegati, descritti in tutti i paragrafi dei presente capitolo, debbano godere di tutte te preminenze e facoltà, che godono a seconda della Costituzione di Inghilterra gli impiegati per l'Erario.

§. 15. Due Gran Camerari avranno per ognuno assegnati otto Distretti; il terzo ne avrà sette, e le Isole adiacenti per amministrarvi rispettivamente le rendita pubblica.

Placet; ma con quelle facoltà, e poteri per essi e loro dipendenti, che sinora ha goduto il fisco nella parte amministrativa, sintantoché il nuovo Codice ne avrà fissate le giurisdizioni e facoltà in conformità della Costituzione Inglese.

§. 16. Il quarto poi sarà solamente incaricato di soddisfare i creditori dello stato, come sono i tandisti, assegnatari, creditori della rendita de'  milioni, e simili.

§. 17. Tutti gli altri cespiti e beni nazionali, che non cadono sotto i ripartimenti de'  Distretti, saranno similmente distribuiti dal Ministro delle finanze fra i quattro Gran Camerari.

§. 18. Ogni Gran Camerario avrà sotto di lui un Vice Camerario per assisterlo nelle sue differenti incombenze.

§. 19. Il Consiglio di Finanze sarà composto dai quattro Gran Camerari, presiedendovi il Segretario di Stato delle Finanze. Uno de'  Vice Camerari v'interverrà in giro in qualità di Segretario. Un tale Consiglio si adunerà regolarmente due volte la settimana.

§. 20. Per qualunque sua risoluzione ed operazione sarà insieme col Ministro delle finanze risponsabile al Parlamento, e punibile dallo stesso.

§. 21. Il Tesoriere Generale sarà il Cassiere dello Sta o, e terrà per via de'  suoi uffiziali la scrittura di cassa.

§. 22. In di lui nome si riceveranno, e si pagheranno tutte le somme per conto dello Stato medesimo.

§. 23. Il Conservatore Generale co' suoi uffiziali terrà la scrittura di tutti gl'introiti ed esili dell'Erario, e ne presenterà regolarmente il bilancio in ogni quindici giorni al Ministro e Consiglio delle finanze.

§. 24. L'Avvocato, ed il Procuratore Generale dell'Erario maneggeranno tutti i negozii litigiosi dell'Erario stesso presso i magistrati ordinarii.

Placet; ma presso quel magistrato, che verrà dal Parla mento stabilito, e con che ritengano le preeminenze, e giurisdizioni, che finora hanno goduto, fintantoché il nuovo Codice non le modellerà a seconda della Costituzione inglese.

§. 25. Si stabiliranno simili Avvocati, e Procuratori nei differenti Distretti presso i Segreti, quante volte saranno necessari.

Placet; con la riserva di sopra.

§. 26. I Segreti de'  Distretti sotto gli ordini de'  Gran Camerarii amministreranno e riscuoteranno tutti gli introiti dell'Erario de'  loro rispettivi Distretti; in ogni mese per mezzo delle compagnie d'orme trasmetteranno al Tesoriere Generale le somme da loro riscosse.

Placet, restando in facoltà del Ministro di finanze di usare tutti gli altri mezzi, che crederà opportuni.

§. 27. I Proconservatori faranno ne' Distretti lo stesso officio, che il Conservatore Generale in Palermo.

§. 28. I Pro Segreti nelle Isole adiacenti avranno lo stesso incarico, che i Segreti ne' loro Distretti.

§. 29. I ProSegreti delle popolazioni di ogni Distretto saranno immediatamente soggetti ai Segreti del Distretto medesimo, e riscuoteranno e trasmetteranno ai rispettivi segreti i proventi nazionali esistenti ne' territorii delle stesse popolazioni.

§. 30. Ogni. pagamento, che si farà all'Erario, dovrà fare i per via de'  banchi di Palermo e di Messina.

§. 31. Tutti i surriferiti pubblici funzionari non avranno soldi fissi, ma il cinque per cento sopra tutte le somme, che riscuoteranno e faranno passare nell'Erario, da ripartirsi secondo il rango e le fatiche di ognuno in quella proporzione, che a proposta del Ministero delle Finanze, stabilirà il Parlamento.

Placet per il cinque per cento; ma con quella ripartizione, che giudicheremo di stabilire.

§. 32. Siccome in forza dei sopraddetti Decreti devonsi riunire insieme diversi Archivi ed Uffici, ed abbisognano molti minuti regolamenti per la conveniente organizzazione di tutte le parli della nuova amministrazione delle finanze; così il Segretario di Stato delle finanze farà un completo piano relativo a lutti i sopraddetti oggetti, e poi lo sottoporrà al prossimo futuro Parlamento per approvarlo, o per farvi quei cambiamenti, che crederà opportuni.

Appartenendo ciò al potere esecutivo, faremo quegli stabilimenti, che crederemo più confacenti alla buona amministrazione delle finanze.

Capitolo IV

§. 1. I libri de la Reale Conservatorio dovranno essere pubblici, siccome quelli di qualunque notaio del regno.

Placet: precedendo il permesso del GranCamerario dei Dipartimento., e con quelle regole che si osservano dai notai presentemente, per le quali intendiamo che non debbasi fare novità..

§. 2. ll Ministro delle finanze sarà tenuto di presentare oggi' anno al Parlamento il dettagliato conto di tutti gl'introiti ed esiti dell'Eratio. Il Parlamento ne' casi di negligenza farà un voto di censura contro il predetto Ministro, ed in quelli d'irregolarità, malversazione, o peculato, lo punirà, dovendolo sempre accusare la Camera de'  Comuni, e processare, e giudicare quella dei Signori.

§. 3. Tutto ciò, che si è detto riguardo. al Ministro delle finanze, debba egualmente valere per li quattro Gran Camerari.

§. 4. I conti suddetti del Segretario di Stato delle finanze, prima di essersi presentati al Parlamento, dovranno stamparsi per intelligenza e soddisfazione di tutta la nazione.

Capitolo V

§. 1. Non si potrà creare in questo Regno alcun nuovo ufficio o carica senza il consenso del Parlamento, dovendo la giustizia, e generalmente la cosa pubblica essere solamente amministrata, e distribuita dai magistrati, e potestà ordinarie; e non si potrà similmente da oggi in avanti alcun ufficio o carica né alienare, né dare, come si dice in Feudo, dovendosi sempre conferire a persone veramente idonee e capaci di hen servire lo Stato.

Placet; restando riserbata a Noi la facoltà di creare quelle cariche ed uffici, che giudicheremo, purché sieno senza emolumenti.

§. 2. Per quegli uffici o cariche, che attualmente trovansi alienate, potrà il Parlamento ricomprarle, indennizzando i proprietari, con formarvi una rendita corrispondente al frullato attuale, da stabilirsi con un coacervo decennale, o dandogli il capitale, che corrisponda al risultato del coacervo suddetto, ragionandosi al 5 per 100.

Placet; con che per quei, che si dovranno rimpiazzare e provvedere in futuro, sieno di nostra elezione.

Capitolo VI

§. 1. I Benefizi Ecclesiastici, gl'impieghi, le dignità, gli uffici, e cariche di qualunque natura senza distinzione ed eccezione alcuna, neppure dell'Arcivescovado di Palermo e delle Commende della Religione Gerosolimitana, non potranno, né dovranno mai conferirsi, che a'  soli Siciliani.

Placet per quelli da conferirsi da oggi innanzi.

§. 2. Per Siciliani s'intendono quelli unicamente che sono nati in Sicilia, e da padri Siciliani; siccome pur quelli, STORIA D' ITALIA 43 che sono nati fuor di Sicilia, ma da padri Siciliani, non divenuti sudditi di straniera potenza.

Placet; intendendosi benanche per Siciliani i figli noli in Sicilia dai forestieri, senzaché possano reclamare altra patria.

§. 3. Per ciò che riguarda i gradi militari, qualunque non sia Siciliano, non potrà mai essere considerato nei reggimenti Siciliani.

§. 4. Qualora il Parlamento risolvesse mantenere del reggimenti esteri, allora potranno essere abilitati anche ad occuparvi degli impieghi ulliziali esteri. Questi però, di qualunque classe sta il loro rango, debbono prestare il giuramento all'osservanza della Costituzione.

La forma del giuramento si proporrà in appresso.

Placet; con che resti fissato per le truppe Estere quanto si è detto al §. 1. del Capitolo 11 di questo titolo; e per il giuramento dovrà prestarsi tanto a noi, che alla Costituzione. Ci riserbiamo dichiarare il nostro Rea! animo dopoché ce ne verrà presentata la formota.

§. 5. Ne' corpi facoltativi e della Real Marina non potrà essere proposto verun estero. Gli attuali però, che sono in tali corpi, potranno rimanervi.

§. 6. Nell'artiglieria, e corpo del Genio dovranno dividersi le compagnie Siciliane ed estere, fintantoché non si formi la intera Armata Siciliana, e gli uffiziali esteri non potranno essere impiegati nelle compagnie Siciliane.

Dichiareremo in appresso il nostro Real animo.

§. 7. Da oggi innanzi non potrà essere ammesso nei corpi facoltativi verun estero, senza il consenso del Parlamento.

§. 8. I governi militari, il comando de'  porti,. il comando generale delle diverse armi, il comando di piazze, di fortezze, castelli, ed isole, di corpi d'armata, di flotte e flottiglie Siciliane, non potranno averlo uffiziali esteri, senza il consenso del Parlamento.

Placet; con che debba ciò aver luogo per gr impieghi, che anderanno a provvedersi da oggi innanzi.

§. 9. E ciò, dal momento che sarà sanzionato il presente Capitolo, per ciò che riguarda i gradi militari.

Veto.

§. 10. Qualunque forestiere, il quale otterrà il privilegio di cittadinanza da qualunque Comune del Regno, o prenderà per moglie una donna Siciliana, non si renderà per ciò capace di avere in Sicilia pensioni Ecclesiastiche, pubblici offici di qualsiasi sorta.

§. 11. Le lettere di naturalizzazione', o il dritto della cittadinanza Siciliana potrà accordarsi a'  forestieri dal solo Parlamento: ma saranno i figliuoli de'  naturalizzati, e non già i naturalizzati stessi, quei, che potranno conseguire pensioni Ecclesiastiche e pubblici offici, come i Siciliani di origine.

Placet; per la naturalizzazione; ma per la cittadinanza sarà di nostra facoltà accordarla colle clausole opposte alla sanzione del §. 2 di questo Capitolo.

TITOLO III.
DEL POTERE GIUDIZIARIO.
Capitolo I

La potestà di giudicare sarà nell'applicare le leggi ai casi ed ai fatti tanto nel civile, che nel criminale.

§. 1. Risiederà esclusivamente presso quei magistrati, a cui sarà conferita.

§. 2. Abolite di già tutte le giurisdizioni particolari, ovvero i così detti Fori, vi sarà unica potestà giudiziaria residente presso i giudici ordinari e magistrature stabilite nella presente Costituzione, e quindi le cause pendenti non si potranno evocare, anche col rimedio del giusto ricorso al principe; né declinarsi per qualunque privilegio in avanti concesso, né accordarsi restituzione. Resteranno solo gli ordinari rimedi stabiliti da un giudice o Tribunale ad un altro, presso de'  quali pienamente si eserciterà il potere de'  giudizi.

Placet; per come all'articolo dell'abolizione de'  Fori viene stabilito, e con che tutta la potestà giudiziaria sarà esercitata dagli attuali magistrati ordinari, finché non saranno poste in esercizio le nuove magistrature da stabilirsi.

§. 3. Qualunque giudice, Tribunale, o magistrato non potrà per qualsivoglia causa prorogare la propria giurisdizione, tanto a dire che non potrà giammai accettare istanza, o ammettere petizione, la cui cognizione appartenga ed altro giudice o magistrato.

§. 4. La giustizia sarà dai Tribunali amministrata a nome del Re, presso cui risiede il potere esecutivo. Gli ordini, proviste, ed esecutorie emanate da'  magistrati saranno autorizzate col nome di S. R. M.

§. 5. Le sentenze tanto nel civile, che nel criminale per evitare ogni arbitrio ne' giudicanti, dovranno essere ragionate sulla legge del nuovo Codice; ove questa manchi, si dovrà implorare il potere legislativo', che risiede presso il Parlamento.

Placet senzaché il Parlamento prenda cognizione del merito delle cause prodotte in giudizio dai particolari, salvo però quanto resta stabilito nel §. 2. del capitolo XXI del potere Legislativo.

§. 6. Nelle sentenze si dovrà premettere la legge, o l'argomento tirato direttamente dalla stessa, accennare l'azione prodotta coll'applicazione della legge premessa; la conchiusione sarà la sentenza, assolvendo, o condannando il reo, o convinto tanto nel civile, che nel criminale.

§. 7. Il nuovo Codice sarà scritto in lingua Italiana, e quindi tutti gli atti giudiziari, e te sentenze saranno scritte nella stessa lingua.

§. 8. Due sentenze uniformi nelle materie civili faranno cosa giudicata.

§. 9. Le materie tutte di fatto ne' giudizi si civili, che criminali sieno decise da un Giuri, per la formazione, ed applicazione del qual sistema sulle leggi stabilite in Inghilterra resti intieramente incaricato il Comitato per la formazione de'  Codici civile e criminale.

Placet, riserbandoei di dichiarare il nostro Real animo, dapoiché avremo esaminato ciò, che stabilirà it nuovo Codice su questo punto.

§. 10. Nel criminale ove la sentenza dichiarerà l'accusato innocente, non sarà appellabile; se questa lo condanna, potrà essere riesaminata in quelle forme, ed in quei casi, che il Codice stabilirà, regolandosi sulle leggi Inglesi.

Placet, riserbendosi di esaminare le Leggi, che si proporranno nel nuovo Codice.

§. 11. Qualunque persona in Sicilia non potrà essere arrestata, detenuta in prigione, relegata fuori Sicilia, obbligata a cambiar domicilio, o assoggettila a pena qualunque, se non colle forme prescritte dalle leggi del Regno, e l'ordine, e sentenza di un magistrato ordinario.

Placet, con che ciò s'intenda per isoli Siciliani, e che resti sempre la facoltà nei Ministri di Stato di ordinare t'arresto di chiunque, purché prima delle ore ventiquattro rimettano arrestalo ai Magistrali ordinari.

§. 12. Nessuno, per qualsisia causa e persona, proibiti tutti gli arresti di ogni sorta per Alla economia, de Mandato principis ec. sotto la pena contro qualunque, che praticherà e contribuirà all'esecuzione degli anzidetti e somiglianti atti arbitrarii, della perdita di qualunque pubblico officio, di once mille a profitto dell'Erario, e della relegazione in un'isola di maggiore o minore durata, seconde la gravezza della trasgressione.

§. 13. Sua Real Maestà non farà giammai grazia per simili delitti.

§. 14. I magistrati e Tribunali non potranno procedere per qualunque delitto contro alcun cittadino, che per accusa della parte offesa, ed interessata. Quindi viene loro proibito di procedere per inquisizione, fuori che ne' seguenti qualificati delitti, cioè:

§. 15. I. Quello di lesa Maestà Divina.

§. 16. II. Quello di lesa Maestà Umana, che si limita agli attentati contro la corona del Re nostro Signore e la sua vita, o quella di S. M. la Regina, o de'  successori al trono, o del suo vicario generale.

Placet, con doversi ancora comprendere tutti quei delitti contro della persona del Re, e Real Famiglia, che verranno stabiliti dal nuovo Codice a tenore della Costituzione Inglese.

§. 17. III. Quello di sedizione,che comprende l'effettive congiure contro del Governo e della pubblica tranquillità;

§. 18. IV. Quello di omicidio;

§. 19. V. Quello d'incendio;

§. 20. VI. Quello di furto con violenza;

§. 21. VII. Quello di falsificazione di moneta, odi scrittura; Placet, sia di scrittura, o di altro; e per tutti quei delitti, che sono conlrarii alla tranquillità, alla morale, ed nella fede pubblica, come meglio dovrà divisare il nuovo Codice.

§. 22. Per li suddetti delitti potranno i Magistrati e Tribunali procedere per la via dell'informazione e dell'inquisizione. Non saranno però autorizzati ad arrestare alcuno, se non prevj i legali indizj e le ben fondate presunzioni del di lui reato, locché sarà largamente definito nel nuovo Codice.

§. 23. La forza militare non potrà impiegarsi all'arresto de'  rei, che a domanda e sotto la direzione de'  magistrati ordinarj.

§. 24. Non potrà giammai adoperarsi contro il popolo, che ne' soli casi di sedizione.

§. 25. Ogni alziate di Giustizia per procedere all'arresto di qualunque persona dovrà essere munito di un mandato firmato, ed autorizzato col suggello del giudice o magistrato ordinario, che l'ha incumbenzato, nel quale verrà espressate il nome della persona da carcerarsi, il delitto, di cui viene imputato, l'accusatore, gl’Indizj, e le ragioni, per le quali è stata ordinata la sua detenzione.

Placet, senza però espressarsi gli accusatori e gl'indizi.

§. 26. Qualunque opposizione a questi mandati, anche colla fuga, sarà reputata, e punita come resistenza diretta alla legge; ed all'incontro qualsisia atto di resistenza con cui si opporrà un cittadino all'esecuzione de'  mandati di arresto, che manchino delle forme gia prescritte, non sarà punito dalla legge.

§. 27. Si eccettuano però i casi, in cui, per qualunque de'  surriferiti qualificati delitti, un cittadino sia notoriamente colpevole, o ritrovato in flagranti, allora potrà essere arrestato senza il suddetto mandato, non solo dagli uffiziali di giustizia ma ben ancora da qualunque particolare.

§. 28. Qualunque arrestato, anche per le di sopra espressate ragioni, dopo ventiquattr'ore del suo arresto, dovrà aver comunicato il mandato di arresto nel modo e forma di sopra stabilita, e gli sarà fatta nota la causa, per cui stà in prigione, la persona, che fa istanza, gli atti, e le pruove, che vi concorrono.

Placet: con che resti riserbato al nuovo Codice lo stabilire a seconda del nuovo Rito la natura degli atti e delle prove, che si dovranno comunicare allo arrestato.

§. 29. I custodi delle prigioni non potranno ricevere alcun cittadino per ordine verbale del giudice o magistrato senza ricuperare questi tali suddetti mandati per la giustificazione della causa, per cui il cittadino è detenuto.

§. 30. Il giudice o magistrato dovrà, al più lardi fra ventiquattr'ore, prender conto e sentire il detenuto, e questi ha il diritto di far decidere dal competente Tribunale la legalità della sua detenzione.

§. 31. Qualunque arrestato e detenuto condotto innanzi il giudice, dovrà essere abilitato a prestare idonea pleggeria, e posto in libertà fino alla conchiusione della causa; salvo che non si tratti di alcuno de'  qualificati delitti.

§. 32. Le leggi del nuovo Codice dovranno fissare il modo, col quale debbano assicurarsi le persone, ed i beni per via di mallevadori a stare in giudizio, e pagare il giudicato, col massimo favore della libertà civile del cittadino, e con classificare le somme proporzionale alla diversa condizione delle persone.

§. 33. Le testimonianze contro gii accusati, o inquisiti dovranno essere prese sopra tutto il fatto alla presenza degli accusati e inquisiti medesimi, ed anco di un loro procuratore, al quale sarà permesso di fare ad ogni testimonio le interrogazioni, che vorrà, e notare le risposte e deposizioni come meglio sarà stabilito del nuovo Codice criminale.

§. 34 Sarà vietato a qualunque giudice o magistrato l'uso della tortura nelle procedure criminali di questo Regno: saranno in conseguenza proscritti li così detti Dammusi, Ferri ai piedi e alle mani, ed ogn'altra qualunque sevizia, che si voglia adoperare contro gli accusati, o inquisiti, come quelle, che ingiustamente puniscono i supposti rei prima della sentenza del giudice, ispirano ad una Nazione sentimenti di crudeltà, ed espongono spesso gr innocenti deboli, e sottraggono i robusti delinquenti alla pubblica vendetta delle leggi.

§. 35. Il nuovo Codice fisserà le istruzioni della processura, e li motivi ad inquirere, a carcerare, a costituire, ed a subire i rei, adottandosi la legge dell'habeas corpus, e li provvedimenti del Codice criminale inglese, in quanto permettono gli usi del nostro Regno, lo spirito, e costume nazionale.

§. 36. Quel giudice o magistrato, che userà sevizie di qualunque sorta contro un detenuto, sarà obbligato non solo alla rifazione de'  danni, ma ben anche alla perdita della carica, e verrà condannato a quelle pene e multa, che largamente fisserà il nuovo Codice penale.

§. 37. Le carceri dovranno essere conformate ad assicurare la persona ne' casi, in cui non si trova, o non si ammette mallevadore, non mai però a molestare i detenuti.

§. 38. Quindi saranno esse pubbliche, autorizzate dalle leggi, salubri, e convenevoli alla condizione del detenuto, che non deve esser soggetto alla pena, prima che la sentenza del giudice l'abbia dichiarato reo.

§. 39. Nel nuovo Codice dovrà fissarsi la durata di ciascuna causa corrispondente alla rispettiva indole.. I processi tanto civili, che criminali, saranno formati con brevità, ma nello stessa tempo senza soffocare le necessarie pruove, affinché azione e diritto di ognuno abbia sollecito espedimento, ed i delitti sieno prontamente puniti.

§. 40. Apparterrà ai giudici di pace la cura e la sorveglianza delle pubbliche carceri, sotto l'immediata ispezione del supremo Tribunale di cassazione.

Capitolo II
DELLE QUALITÀ DE GIUDICI E MAGISTRATI.

§. 1. Niuno potrà essere giudice ed occupare alcuna magistratura, se non sia nato Siciliano;

§. 2. Se non abbia l'età compita di anni trenta;

§. 3. Se non abbia dato sufficienti pruove di probità.

§. 4. Se non sia laureato nell'uno e l'altro diritto in una delle due università degli studii di Palermo, e di Catania.

§. 5. Se non abbia la rendita stessa, che il Parlamento ha fissato per essere elettore nella rappresentanza della Camera de'  Comuni.

§. 6. I giudici, e magistrati non potranno esercitare altre funzioni, che quelle di giudicare. Sarà loro vietata qualunque altra amministrazione e delegazione.

Placet, menoché per i giudici di pace.

§. 7. Sono proibiti di tenere veruna amministrazione o direzione di beni e famiglie particolari, e molto meno di ricevere soldi dalle stesse.

Placet, menoché per i giudici di pace.

§. 8. Non potranno giammai rappresentare, sia alle Reali Segreterie, sia al Parlamento, per riforma o sospensione di legge, se non saranno ricercati dal potere legislativo.

Capitolo III
DELL'ABUSO DEL POTERE GIUDIZIARIO.

§. 1. Qualunque giudice, ed intiero Tribunale sarà sindicabile. Lo saranno ancora tutti gli uffiziali ed impiegati nell'amministrazione della giustizia.

§. 2. Gli abusi di autorità daranno azione popolare. Qualunque individuo potrà proporre le sindacatura presso il Parlamento sulla condotta pubblica del giudice e magistrato nel modo e forma, che si stabilirà nel codice suddetto.

§. 3. Qualunque pérsona offesa ed interessata potrà proporre la sua querela in forma al Parlamento, per qualunque contravvenzione alla legge fatta dal giudice e Tribunale, sia nel procedere, sia nel decidere, e per qualunque altra colpa nel modo e forma, che si stabilirà nel Codice suddetto.

Placet; beninteso che ciò si pratichi per mezzo di uno dei membri del Parlamento.

§. 4. In corso delta processura sino alla sentenza diffinitiva potranno essere sospesi di carica, quando il Parlamento lo giudicherà.

§. 5. Potranno dopo la sentenza essere assolutamente rimossi dalla carica per un delitto legalmente giudicato, ed assoggettai inoltre a tutte quelle altre pene, che saranno proporzionate nel nuovo Codice.

§. 6. I Tribunali non potranno conoscere, né giudicare le cause attive de'  Segretari' di Stato, per lo dipartimento de'  quali sono nominati.

Veto, stante la risponsibilità de'  giudici.

CAPITOLO IV

l primi moti in Palermo.

SOMMARIO

I popoli delle Due Sicilie non potevano sperare dall'iniziativa del Principe le franchigie nazionali — Politica del Gabinetto di Vienna accettata da'  re di Napoli — Ippocrisia di Ferdinando II. Lettera scrittagli da Luigi Filippo — Sua risposta, che svela il suo sistema politico — Gli avvenimenti lo confermavano nelle sue previsioni — Ma le aspirazioni dei popoli dell'Italia meridionale erano opposte alle sue  —  Queste aspirazioni erano legittime — Dunque i popoli erano divenuti incompatibili col principe — Pure i popoli attesero nella speranza, che il prossimo successore al trono fosse diverso — Questa politica era meno italiana, ma allontanava gravissime difficoltà  — Però il proclama di Francesco II ed i suoi primi atti resero eminentemente legittima l'insurrezione — E l'insurrezione scoppia in Palermo — Deboli mezzi, che l'avevano preparata — Sezioni insurrezionali in Palermo  —  Francesco Riso — Le sezioni da lui dirette erano le più pronte — La rivoluzione però si presentiva in Palermo. Corrispondenza — Motivi per affrettare il movimento — La polizia aveva saputo le ultime determinazioni dei cospiratori  — Attacco della Sezione Gancia nella notte del 3 al 4 aprile — Le altre due Sezioni dipendenti da Riso  — Riso ferito e creduto morto — L'insurrezione sembra repressa — Le altre Sezioni non si muovono — II Convento della Gancia sofferse molto — Eccessi, che vi si commisero — Morti e feriti — Forza d'animo di Riso; sua morte  —  Considerazioni politiche e morali — Insorti dei Paesi vicini Palermo  —  Primo nucleo delle Bande armate — Gli aderenti del governo, le truppe, e gli uomini di polizia imbaldanziscono — Palermo è messa in stato di assedio — Il giorno 5 si manifesta con una viva fucilata. Editto di Salzano — Attacco contro i regii in Bagheria — Attacchi a Roccadifalco e Monreale — Attacchi a Carini, Cinisi, e Capaci — Il 5 l'insurrezione era più dilatala  — II 6 le bande insurrezionali ingrossano ma prendono i luoghi elevati — Il 7 si combatte in Bagheria. Tristissime condizioni di Palermo — E dei cittadini. Incendii commessi dai birri — Malumore tra costoro e le truppe — Partenza di truppe per Trapani. Proclami che circolano per Palermo — Il Giornale ufficiale in Napoli  — II popolo non vi crede. Corriere di Napoli — Dimostrazione la sera del Venerdì Santo — Articolo del Giornale ufficiale del 7 aprile — Ma i fatti narrati non eran veri — Inquietudini di tutti. Dei borbonici  —  Dei liberali — Esigui mezzi dell'insurrezione — Grandi forze di repressione — Giusti allarmi degl’Italiani — Corrispondenza del Corriere Mercantile — Notizie di dilatamento dell'insurrezione poi smentite — Corrispondenza di Catania — E di Messina — All'insurrezione mancava l'accordo e la direzione.

 Nei primi giorni del 1821 il Conte Capo d'Istria domandava al Principe di Metternich, se l'Imperatore d'Austria avrebbe approvato nel regno di Napoli un sistema, che si avvicinasse al rappresentativo, ed il Principe rispondeva, che «il suo signore avrebbe fai. to piuttosto la guerra.» E replicando il Capo d'Istria: «Ma se lo stesso Re di Napoli volesse stabilire somigliante sistema.» il Principe ripigliava anche più risolutamente: «L'Imperatore farebbe la guerra al Re di Napoli.»

Per lo spazio di quasi quarant'anni questa politica del Gabinetto di Vienna non si era cambiata; ed in tal tempo tutt'i Sovrani di Napoli vi avevano completamente aderito. Ferdinando 2° nell'ascendere al Trono aveva fatto sperare di riprovare il sistema del suo genitore, ma le sue promesse ed i suoi atti, che avevano qualche tinta pallida di liberalismo, non erano che delle ipocrisie, e basta a provarlo la corrispondenza, che nel 1830 ebbe luogo tra lui e Luigi Filippo:

«Forse la Provvidenza, scriveva il Re di Francia a suo nipote, sorride ancora alla famiglia di S. Luigi nel chiamare V. M. al Trono di Napoli nel momento, in cui l'oragano rivoluzionario si è scatenato sull'Europa. La salute vacillante di S. M. Francesco non avrebbe potuto reggere alle scosse, che si attraversano, e dalle quali Dio sa come ne usciremo. Però è ben lungo tempo, che ho sentito fare l'elogio dell'energia e della perspicacia di V. M., ed io non dubito, ch'Ella traverserà felicemente questi giorni di oragano, dapoiché V. M. si trova nella necessità di resistere nel Stempo stesso ed alle pericolose insinuazioni estere, che potrebbero spingerla ad una politica antinazionale e funesta a'  suoi interessi ed agl'interessi del popolo, ch'ella governa, ed alle pressioni interne, che delle passioni traviate potrebbero esercitare sul libero andamento del suo governo. Conosco tutte le insinuazioni ed i severi consigli, daí quali V. M. è assalita per comprometterla in una politica cieca, ma sono anche sicuro, che V. M. avrà tanta fermezza che. previdenza per non lasciarsi trascinare.

Sfamo in una epoca di transazione, nella quale sovente bisogna cedere qualche cosa per non lasciarsi strappare tutto, ed io vedrei veramente con gioia V. M. rompere con un sistema di compressione e di violenze, che ha fatto passare molti giorni di angoscia al fu suo augusto padre, e che assai spesso ha discacciato la gaiezza dalle labbra dello spiritoso Re Ferdinando I. Che V. M. si avvicini al sistema della Francia; ella vi avrà da guadagnare tutto, perocché sacrificando un poco di autorità, si troverà di avere assicurata la pace del suo regno e la stabilità della sua casa. I sintomi di agitazione sono talmente pronunziati ed accumulati in Italia,che bisogna aspettarsi uno scoppio più o meno prossimo secondo che le misure del Principe di Metternich lo precipiteranno o lo rallenteranno. V. M. ne sarà trascinata, se non sceglie a tempo, e la sua casa sarà predominata sia dalla corrente rivoluzionaria, sia dagli espedienti di repressione, che il Gabinetto di Vienna vorrà mettere in uso.

«V. M. potrebbe salvar tutto, prevenendo volontariamente e con prudenza i desiderii ed i bisogni del suo popolo, imperciocché se ia rivoluzione prorompe in Italia, l'Austria vorrà agire da padrone assoluto, ed io sarei spinto a dei passi, che vorrei evitare ad ogni prezzo; ed in questo sono sicuro, che se l'Inghilterra non mi previene, non mi lascerà solo, perciocché entrambi non possiamo permettere, che l'Austria distenda anche dippiù la sua influenza sulla penisola italiana. Vogliate, mio fratello cugino e carissimo nipote, prendere in considerazione il desiderio, che ho la ventura di esprimere a V. M. e credere alla mia esperienza.

«LUIGI FILIPPO.»

E Re Ferdinando rispondeva in tal modo:

«Per avvicinarmi alla Francia, se mai la Francia potess'essere un principio, bisognerebbe ingolfarmi in quella politica di Giacobini, per la quale il mio popolo si è mostrato più di una volta fellone alla casa dei suoi Re. La libertà è fatale alla famiglia dei Borboni, ed io sono deciso di evitare ad ogni costo la sorte di Luigi XVI e di Carlo X. Il mio popolo obbedisce alla forza e si piega, ma guai se si raddrizza sotto gl'impulsi di quei sogni, che sono si belli ne' sermoni dei filosofi ed impossibili nella pratica. Con l'aiuto di Dio darò al mio popolo la prosperità e la onesta amministrazione, alla quale esso ha dritto, ma io sarò Re solo e per sempre.

«Il mio popolo non ha bisogno di pensare; io m'incarico della cura del suo benessere e della sua dignità. Ho ereditato molti rancori, molti desiderii insensati, tutte le colpe e tutte le debolezze del passato; è d'uopo, ch'io restauri, e nol potrei, se non ravvicinandomi all'Austria senza soggettartni alle sue volontà. Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi, e se essi volessero calcarsi sul modello delle nuove dinastie, sarebbero ridicoli. Noi faremo come gli Asburghi. La fortuna ci può tradire, ma noi non ci tradiremo giammai.

«Ciò mal grado V. M. conti sulle mie vive simpatie e su i più sinceri augurii, che le fo, di riuscire a signoreggiare questo popolo ingovernabile, che fa della Francia il flagello dell'Europa.

«FERDINANDO ().»

E gli avvenimenti avevano raffemato il concetto di Ferdinando. Luigi Filippo era caduto; né il Re di Napoli dicevasi, ch'era caduto, per non avere seguito per se il consiglio, che dava agli altri. Ed in effetti il ramo cadetto dei Borboni di Francia era caduto, perché come il ramo primogenito non aveva saputo cedere quella parte di autorità, divenuta incompatibile coi bisogni e gl'interessi dei popoli; ma pel Re di Napoli era caduto, perché si era discostato dalle tradizioni della sua casa; egli vedeva le sue predizioni verificate, e ne rimase più tenace nel suo proposito. Faremo come gli Asburghi, egli disse e ripeté pur sempre. Il mio popolo non ha bisogno di pensare. Io m'incarico del suo benessere e della sua dignità. E a suo figlio inculcava incessantemente: Il mio popolo obbedisce alla forza; guai se si raddrizza.

Ma i popoli dell'Italia meridionale, come il resto degli Italiani, non volevano sapere degli Asburghi, perché gli Asburghi sono Tedeschi e non Italiani. Essi sentivano gagliardamente il bisogno di pensare e di occuparsi eglino stessi del loro buon essere, perché buona parte degli altri Italiani, gl'Inglesi, i Francesi, i Prussiani, gli Spagnuoli, i Belgi, gli Olandesi, gli Svedesi, i Greci, i Moldavi, i Valacchi se ne occupano. Essi non si credevano tenuti di obbedire alla forza, perché la forza non è il dritto, e perché se fosse dritto, non si potrebbe aver torto quando si cerca di acquistarlo, procurando di divenire più forte.

 Potevano dunque i popoli dell'Italia meridionale essere obbligati a subire la politica degli Asburghi? Potevano essere obbligati a non pensare e a non occuparsi dei loro interessi? Potevano essere obbligati di obbedire alla forza, senza procurare di divenire essi alla loro volta più forti? Quale pubblicista potrebbe dire di sì? Se i Borboni non sono di questo secolo, i popoli lo sono necessariamente, e mentre è impossibile, che i popoli non siano del secolo, in cui vivono, il Re di Napoli proclamava la impossibilità, che i Borboni vi si accomodassero.

L'antagonismo adunque tra gl'interessi ed i bisogni del Principe e gl'interessi ed i bisogni dei popoli è un fatto incontrastabile. Se i popoli dell'Italia meridionale potevano legittimamente non subire la politica degli Asburghi; se avevano dritto di pensare e di occuparsi di sé medesimi; se non potevano essere legittimamente obbligati di obbedire alla forza; se essi insomma appartengono a questo secolo, essi erano divenuti incompatibili con un Principe, che a torto o a ragione credeva essere ineluttabile necessità di vita politica fare come gli Asburghi, spettare a lui di pensare pel popolo, ed al popolo di obbedire alla forza e curvarsi; non essere egli del secolo e rendersi ridicolo, se tentasse di. modellarvisi.

Eppure quei popoli videro Re Ferdinando tenacemente resistere alle benevoli insinuazioni della Francia e dell'Inghilterra, ed attesero; videro rotte le relazioni diplomatiche con le due più potenti e più incivilite nazioni dell'Europa, ed attesero; videro combattere la guerra della libertà e della indipendenza italiana, ed essi rimanere non solo neutrali ma astretti a non manifestare neppure le loro simpatie per la causa italiana, e fremettero, ma attesero, perché Re Ferdinando giaceva sul letto di morte, ed era semplicemente possibile, che suo figlio, nelle cui vene scorreva pure il sangue della Casa di Savoia, potesse abiurare la politica così mal riuscita del padre, respingere gli Asburghi, ed i consigli della matrigna per stringersi al suo popolo ed alla casa di sua madre.

STORIA D'ITALIA

IL GENERALE CARINI

Questo contegno era indubitatamente meno nazionale; l'unità italiana sarebbe stata tanto meno perfetta per quanto l'unità di Stato differisce dall’unità confederata; nulladimeno i popoli dell'Italia 'meridionale si sarebbero rassegnati ad accettarla per le reminiscenze delle virtù della madre del nuovo Re, per attenuare le difficoltà del risorgimento italiano, e sopratutto per la speranza, che una compatta uniformità di vedute col governo del rimanente 'dell'Italia, una completa ed assoluta assimilazione degli ordini politici, militari, ed amministrativi; il convincimento sincero e costante degli unisoni interessi dei due Stati confederati, una rappresentanza federale, che riproducesse esattamente le aspirazioni ed i bisogni di tutto il popolo italiano, rendendo una la nazione nei suoi rapporti internazionali, riuscissero all'opera, meno perfetta si, ma anche meno difficile della unificazione e della indipendenza italiana. Ciascuno sentiva essere questa una transazione, ma tali erano le condizioni dell'Italia e dell'Europa, e massimamente poi del reame di Napoli, che una transazione non sembrava la peggior cosa.

Ma quando si vide il successore di Ferdinando II, non appena asceso il primo gradino del trono, proclamare la politica del padre modello di giustizia, di morale, e di civile sapienza, ed altamente dichiarare. quei medesimi principii, quelle stesse massime di governo, la stessa confidenza nelle medesime persone dovere continuare a regolare la pubblica amministrazione, e si videro i fatti esattamente coordinati alle promesse, allora divenne evidente, che se era cambiata la persona del Principe, la condizione politica del reame era rimasta qual'era. L'antagonismo più innanzi rilevato si riproduceva nel figlio come nel padre; ogni speranza di ravvedimento era finita; Francesco II appariva mancare perfino dell'istinto della propria conservazione, perciocché si abbandonava senza riserva ai consigli ed alla direzione della matrigna, la quale non poteva essere meno matrigna né meno madre, né serbare la corona al figlio di una donna, la cui memoria odiava, per rendere suddito il proprio figlio, che prediligeva. Così all'antagonismo delle aspirazioni e degl'interessi si aggiunse il convincimento della deficienza di ogni discernimento e di ogni attitudine a governare nel nuovo Principe, ed i popoli delle Due Sicilie oltre al rassegnarsi a non pensare, e non occuparsi dei proprii interessi, a non appartenere al loro secolo, a cedere alla forza, era mestieri che lasciassero pensare per loro ed occuparsi dei loro interessi un Principe, che non sapeva pensare per sé stesso, né comprendeva il suo proprio più vitale interesse, che non apparteneva a nessun secolo, e che intendeva la forza nel senso più assoluto e nelle sue più larghe proporzioni. Tutto questo era impossibile moralmente, era contraddittorio politicamente, perché era la negazione della dignità morale dell'uomo e delle regole fondamentali di ogni politica associazione. Non rimaneva dunque, che l'insurrezione. Noi non crediamo, che possa trovarsi nei libri degli storici o dei pubblicisti un caso, in cui l'insurrezione sia più legittima del nostro.

E l'insurrezione scoppiò in Palermo, e la condizione sociale delle persone, che la iniziarono, prova su quali fragilissime fondamenta il governo si poggiava.

Da più tempo strettissime relazioni si erano annodate in tutta l'isola di Sicilia, sì che in ciascuna delle principali città esisteva un comitato segreto, che dirigeva e centralizzava per quanto era possibile i preparativi della insurrezione. Dopo il disarmo seguito con molto rigore ed oculatezza,il primo bisogno era quello di procurarsi delle armi, ed alla necessità era pari la difficoltà d'introdurle. Non però per mezzo di bene stabilite comunicazioni con l'estero, e specialmente con Malta, mercé la cooperazione degli emigrati stabiliti a Genova, a Torino ed altrove, se ne avevano, come potevasi, in numero scarso ed a caro prezzo. S'introducevano in città con molto pericolo sopra carretti carichi di canne, pali, ed altri oggetti fra i più acconci a celarle. Agli archibugi di ogni specie e di ogni dimensione si aggiungevano le lance ed i pugnali. Si avevano inoltre tre cannoni, due di ferro, di legno l'altro, ma ben cerchiato di ferro. Tra le munizioni si avevano delle granate; mezzi magri e non corrispondenti alla forza, che bisognava spiegare per attaccare un'armata numerosa, ben munita, e da molto tempo preparata, sussidiata da una polizia e da sgherri, che nella repressione di quei moti insurrezionali vedevano starsi unicamente la loro salvezza.

Per tanto molti uomini stipendiati aggiungevansi ai congiurati, ed attendevano ai mezzi per riuscire nel divisato intento. Erano stati stabiliti in varii punti di Palermo più di dieci magazzini, che si dissero Sezioni, in ciascuno dei quali si deponevano e si lavoravano le armi, si fabbricavano cartucce, si organizzava il tempo ed il modo della insurrezione. A ciascuno di essi era preposto un capo.

Primeggiava tra costoro un tal Francesco Riso, sia pei fatti anteriori, sia per la fermezza dell'animo e la risolutezza del proponimento. Figlio di un maestro fontaniere, aveva però ricevuto una educazione civile, e vivevasi agiatamente con la moglie e coi figli; ma né l'agiatezza né i legami e le occupazioni domestiche distoglievanlo dai pensieri delle infelicissime condizioni della patria, che celavansi sotto una fronte rugatti ed in un portamento concentrato e taciturno. Dirigeva egli tre Sezioni, l'una stabilita in un magazzeno appartenente ed accosto al convento della Gancia, la seconda nella strada degli Scopari, l'altra vicino la Chiesa della Magione; vicinissima alla prima di queste Sezioni era l'abitazione del Riso.

Non tutte le Sezioni erano state con pari sollecitudine organizzate ed allestite. Quelle del Riso erano già pronte, mentre le altre non lo erano ancora. Presentivasi però in Palermo imminente la rivoluzione, ed una lettera scritta di là il 3 di aprile al Nord è interessantissima per farci scorgere le opinioni dei Siciliani, non perché debba prestarsi cieca fede ad una corrispondenza di giornali, ma perché evidentemente è scritta nel senso più moderato, e perché ciò che narra, risponde meglio alle induzioni, che dai fatti noti si possono trarre.

«Palermo 3 di aprile.»

«La vostra corrispondenza di Napoli vi dinotava qualche settimana indietro una opinione molto generale, e che derivava naturalmente dallo spettacolo, che presenta il regno delle Due Sicilie, l'opinione, io dico, che Francesco Il è vittima di una congiura ordita nelle più alle sfere, in quelle, che l'avvicinano più da presso, e che han per fine di spingere le cose al peggio, onde disgustarlo del Trono e condurlo ad un'abdicazione. Questo complotto, se esiste (e non v'ha nulla d'improbabile), in niuna parte è più apparente, che in ciò, che concerne la Sicilia, ove gli atti del governo napoletano e quelli dei suoi agenti sembrano esattamente calcolati nella veduta di fare sorgere una scissione tra le due parti del regno, la quale, né io ve lo nascondo, è nei voti dei Siciliani per lo meno tanto, quanto in quelli della cameriglia congiurata. Non so, se nel piano di questa sta, di spingere la Sicilia alla rivoluzione; quello, che vi è di certo si è, ch'essa ha fatto di tutto, onde ciò avvenga, e che in questo momento raggiugne il risultato volontario o involontario dei suoi intrighi. »

«Il vero si è che qui non se ne può più. Da qualche giorno Palermo è agitata; si parla di rivoluzione, e vi è nell'aria come un odore di polvere; ogni notte la polizia arresta una ventina o trentina d'individui. Molte famiglie della più alta nobiltà sono partite quest'oggi, le une per l'estero, le altre per l'interno dell'Isola; le une perché il signor Maniscalco ne ha intimato loro l'ordine, minacciandole in caso di disobbedienza dei rigori della prigione; altre, ed è tristo di farne la confessione, per timore. Gli uomini savii e moderati fanno il loro possibile per impedire, che scoppi una rivoluzione, perciocché in ogni caso il momento non è opportuno. Anche coloro, che sono decisi ad uscire mercé una sollevazione dal doloroso impasto, nel quale il regime napoletano ha gettato la Sicilia, vogliono attendere, che le truppe napoletane siano impegnate nelle complicazioni, che preparano gli affari di Roma, o per lo meno che sia ben stabilito, che la Sicilia non può contare, che su essa sola. Anche in tal caso sono risoluti a tentare una lotta.»

«Ma se questa lotta volge a favore dei patriotti siciliani, una grave quistione si eleva, cioè che diverrà la Sicilia? Ho inteso generalmente esprimere l'opinione, che l'animosità contro Napoli è troppo forte nell'Isola, perché possa in vermi caso rimanere unita alla terra ferma. — «Se il Re ci dà una costituzione liberale, dicono molti, sì che abbiamo dei Deputati alla Camera di Napoli, i nostri rappresentanti ed i rappresentanti napoletani si abbarrufferanno tanto e tanto, che la costituzione in qualche mese crollerà da sé stessa. Se il Re ci dà un Parlamento separato, un'armata siciliana, la scissione fatta cosi per metà, non tarderà molto a compiersi... D'altra parte l'autonomia della Sicilia è una chimera; le grandi potenze non vi consentirebbero per la seguente ragione. Quando l'istmo di Suez sarà perforato, l'isola nostra diverrà un punto commerciante importantissimo, ma siccome sarà sempre uno Stato debole a causa della piccola estensione a del suo territorio e del numero quasi insignificante a della sua popolazione, essa avrà bisogno della protezione o della Francia o dell'Inghilterra. Indubitatamente sarà vantaggioso il proteggere la Sicilia, per cui diverrà essa un pomo di discordia tra due nazioni, che oggi non dimandano nulla di meglio che di restare unite». — E la conclusione di questi ragionamenti, è d'uopo ch'io lo dica, si è, che nell'interesse di tutti la Sicilia deve ricorrere al Piemonte, che potrà proteggerla contra ogni genere di protezione.

«D. S. — Nel momento, in cui finisco di scrivere, vengo a sapere, che le popolazioni delle campagne non hanno potuto essere contenute, e ch'esse marciano sopra Palermo. La popolazione di Palermo è decisa da sua parte di non lasciarle combattere sole. Sono undici ore e mezza; numerosi pezzi di artiglieria scortati da alcuni battaglioni passano da sotto le mie finestre per andare ad occupare dei posti vantaggiosi; le strade sono piene di soldati e di sbirri armati. Il governo prende tutte le sue misure per ben difendersi. Si pretende, che la rivoluzione debba scoppiare domani di buon'ora. lo procurerò di essere in grado di seguire tutte le peripezie della lotta, e se, qualche palla napoletana non me lo vieta, ve ne farò conoscere il risultamento. Il successo degl'insorgenti sembra molto dubbio.» ()

Il poscritto della lettera accennava ad un fatto vero.

La polizia senza sapere positivamente tutte le fila della congiura, ne aveva avuto qualche sentore, e mantenevasi guardinga e preparata. Ciò si seppe da Riso, ed egli temé, che ogni giorno di ritardo avesse potuto compromettere la riuscita del piano organizzato e mandare fallito il colpo. Per lo che il 3 di aprile 1860 si diramano gli ordini, perché il movimento cominci l'indomani; ne sono avvisate le altre Sezioni di Palermo ed i paesi circonvicini, ed è chiaro, che l'insurrezione si sarebbe trovata compromessa, se l'azione non ne fosse stata simultanea e del pari energica. Da qui le voci, che le popolazioni delle campagne marciavano sopra Palermo. Ma Riso nel diramare gli ordini aveva creduto prudente tacere il motivo, d'onde procedevano, sì che le Sezioni non essendo pronte, ed ignorando la ragione dell'urgenza, non si prestarono, come avrebbero fatto, se avessero conosciuto il pericolo del ritardo. La polizia intanto era giunta a conoscere queste ultime determinazioni. Alcuni han detto, che due Frati, altri che un Frate per nome Michele di S. Antonio ed un maestro magnano andassero nelle ore pomeridiane dello stesso giorno 3 a denunziare il tutto a Maniscalco. Questo fatto però non è certo, comunque sia generalmente affermato, e potrebbe darsi, che la polizia avesse conosciuto le risoluzioni di Riso o per mezzo delle comunicazioni tra i congiurati, che per essere moltiplici hanno potuto in qualche punto divulgarsi, o mercé le stesse fila, per le quali era informata dell'esistenza del complotto. Checché ne sia, poco monta conoscere in qual modo l'abbia saputo; l'importante è, che ne fu informata.

Venuto dunque a giorno di quanto vi era, il governo nella notte del 3 al 1 di aprile fece circondare da soldati, gendarmi, birri, ed artiglieria il piano della marina, parte della strada Alloro, e la via Vitrera, limiti nei quali si conteneva la Sezione Gancia. Comandava la truppa regia il Maggiore Ferdinando Beneventano Bosco. Il resto della città era perlustrato da numerose pattuglie. Il Riso aveva messa una sentinella alla porta della Sezione Gancia. All'approsimarsi d'una pattuglia la sentinella aveva gridato chi va là, e la truppa non aveva risposto; la sentinella aveva soggiunto chi vive, ed i soldati avevano gridato viva il Re! Allora la Sentinella scaricò il fucile, e la truppa avanzatasi diè l'assalto al convento, dapoiché il magazzeno comunicando col Convento, i congiurati vi erano penetrati; alcuni difendevansi gagliardamente, altri erano saliti sul campanile, e suonavano le campane a stormo, né mancava chi dai tetti delle case circonvicine tirasse su i regii, e sostenesse vivo il fuoco anche sulla strada.

Delle altre due Sezioni dipendenti dal Riso i congiurati della Sezione Ragione com'ebbero inteso la prima fucilata, uscirono fuori, attaccarono il corpo di guardia della Villa di Caltanissetta, e lo fugarono, indi girando il vico rasente le mura della città, dirigevansi per assaltare il commissariato della Vitrera, e congiungersi alla Gancia, ma circondati da'  soldati, comunque risolutamente combattessero, ebbero a cedere al numero, pochissimi giunsero alla Gancia, altri si dispersero, altri rimasero prigioni. Nè diversamente avvenne dei congiurati della Sezione degli Scopari, perciocché usciti in sulla strada, furono astretti a battersi nella strada stessa, e soverchiati dal numero, ebbero la peggio.

Il Riso battendosi furiosamente in sulla strada, dal STORIA D' ITALIA 51 campanile, dalla sua casa, fu colpito da tre palle di fucile, e caduto a terra, l'Ispettore Ferro gli diè due pugnalate; quasiché morto, fu condotto all'ospedale.

L'insurrezione era mancata; le tre Sezioni, che avevano cominciato il fuoco, si erano trovate prevenute dalla forza pubblica, erano state avviluppate, astrette a cedere o a disperdersi; il loro capo era caduto, e ritenuto per morto; caduti ancora i più animosi o prigioni; le altre sezioni ed il rimanente della città non s'eran mossi, perché alcune non preparate, altre non a tempo avvisate, tutte dalla forza pubblica prevenute e contenute. Di tal che,tranne il quartiere del Convento della Gancia, il rimanente della città era rimasto tranquillo, ed anche nel quartiere della Gancia l'in surrezione, o per dir meglio l'attacco dei regii si era concentrato al convento ed a qualche strada vicina, e dopo tre ore il fuoco era cessato del tutto.

«La città è letteralmente circondata; ad ogni porta vi sono dei cannoni; le strade sono piene di soldati a e di birri armati, e però è impossibile alla popolazione di fare altro, che rimanersi tranquilla; essa e non ha armi ()».

Il convento della Gancia sofferse più di tutti. L'autore di un libricino intitolato. — I sessantacinque giorni della Rivoluzione di Palermo, che noi spesso consultiamo nel redigere questo periodo della nostra storia, afferma non essere i Monaci a parte del complotto; invece la voce pubblica riteneva il contrario, ma può bene il pubblico essere stato indotto in errore dal ritrovare i congiurati nel monastero, mentreché essi vi erano penetrati dal magazzeno. Ad ogni modo il convento fu saccheggiato, derubata la Chiesa, tolti gli ori, gli argenti, i paramenti sacri, le immagini, i calici, le pissidi, gittandosi per terra, secondo l'autore dinanzi citato, le ostie consacrate. Tutto quello, che poteva essere tolto, fu tolto, ed è questo il primo iniquissimo fatto di quella lunga serie di turpissimi misfatti, che noi non avremmo voluto mai registrare in queste nostre pagine, ma che pur troppo ed assai spesso saremo obbligati con grandissimo nostro rammarico di narrare per non mancare al nostro dovere di storico. Il quale dovere però ci obbliga a dichiarare, e noi Io facciamo con moltissima nostra soddisfazione, che la più parte di quegli eccessi furono commessi da quegli uomini perversi, non italiani, rifiuto di ogni società, che il governo aveva raccolti a sostegno di un potere, che se fosse stato onesto, diveniva immorale sol perché a quegli uomini immoralissimi si affidava. Dei monaci uno fu ucciso, tre feriti di baionetta, gli altri legati a due o a tre furono veduti passare pel Cassero, e condotti alle carceri.

La biblioteca, una delle più rimarchevoli tra le particolari, fu distrutta. Si direbbe, che un'orda di selvaggi avesse invaso il Convento!

Degl'insorti quattro o cinque, giusta il citato autore, rimasero morti, pochi feriti, pochi pure arrestati, e difatti 13 furono i fucilati. Dei regii molti furono uccisi o feriti. I tre cannoni degl'insorti, che non si era avuto il tempo di porre in azione, furono dalla truppa presi. Tra i fucilati vi fu il padre del Riso. Questi visse ventitré giorni, ed in uno di questi mentre giaceva straziato dai dolori delle ferite, gli venne partecipata la fucilazione del vecchio padre, e che la stessa sorte sarebbe serbata a lui, se mai risanasse.

Quell'infelice senti indifferentemente la seconda partecipazione, ma la prima gli lacerò il cuore. L'uomo, che aveva immolato sé stesso ed i dolcissimi affetti di marito e di padre alla carità patria, doveva sentire eminentemente le voci della natura, che così forte parlano al cuore di un figlio. Quel vecchio, che gli aveva dato la vita naturale e lo aveva elevato mercé le cure di una provvida educazione al di sopra della sua condizione sociale, cadeva percosso dalle palle dei soldati, che il figlio aveva sfidati. Questo pensiero ebbe a straziare l'animo di quello sventurato anche più di quello, che le sue cinque ferite straziassero il corpo! Si è detto, che gli agenti del governo promettessero a quello sventurato la vita del Padre, purché facesse delle rivelazioni, e che quei cedesse a quelle infami seduzioni, che furono poi più infamemente ingannate, essendo stato il vecchio Riso fucilato. Noi non affermiamo questo fatto, del quale non abbiamo certi documenti, e la cui turpitudine sorpasserebbe anche quella dei fatti precedentemente narrati. Vedremo però in prosieguo, che degli arresti vennero fatti in Palermo sull'appoggio di siffatte rivelazioni, le quali o furono vere, o furono uno svergognato pretesto per fare delle carcerazioni sfornite d'ogni fondamento. Quanto al Riso, se tradì il segreto, fu certamente innesto, ma quale figlio non lo scuserebbe? E quale strazio non ebbe ad essere il suo, quando seppe, che aveva traditi i suoi amici senza salvare il padre? Per l'onore dell'umanità noi vorremmo, che il fatto non fosse vero. Pur egli compresse i suoi spasimi, ed ebbe la forza di contenerli; visse altri dodici in tredici giorni, ma la lotta lo snervò totalmente; presso a morire, fe' chiamare Maniscalco. Mi conoscete voi? gli disse con la fioca e stentata voce del moribondo.  — Oh k siete Francesco Riso — Maniscalco rispose. E l'altro raccogliendo le sue estreme forze:  — «Sono quello stesso, che vi pugnalava nella Cattedrale» — e spirò. Maniscalco dopo dispersi gr insorti della Gancia, aveva detto:

«Ho afferrato la rivoluzione pe' capelli.»

E s'ingannava. Le ultime parole del moribondo svelavano il proposito di chi l'aveva cominciata.

Se Riso, dirà taluno, fosse rimasto nella sua umile condizione di maestro fontaniere, non avrebbe distrutto sé stesso, suo padre, 'e la sua famiglia. — È vero! Tra i tanti danni, che recano i governi dispotici, vi sono i pericoli che emergono dall'incivilimento e dalla istruzione. Ma che perciò? Si dirà forse, che l'incivilimento e la istruzione sono dei mali sociali? è questo un argomento dippiù contro quella forma di governo, che fa delle più generose aspirazioni i più incalzanti pericoli della vita civile. Del rimanente Francesco Riso martire della libertà trovasi associato ad uno dei maggiori fatti della storia moderna; Francesco Riso maestro fontaniere sarebbe rimasto oscuro ed ignorato. I più belli tempi della vita delle nazioni sono quelli, in cui senza sprezzare i consigli della prudenza né sconoscere gli affetti della famiglia, si sa però valutare la differenza tra quelle due additate condizioni sociali. Noi abbiamo fede, che questi tempi siano venuti per noi Italiani.

Le altre principali città della Sicilia attendevano il segnale dalla Capitale. I paesi della Provincia di Palermo erano in più strette relazioni con questa. Molti la notte del 3 al 4 armati di fucili e di pugnali si avanzarono verso Palermo; quei di Carini secondo il concertato dovevano all'alba del 4 trovarsi pronti alla Porta Carini, ed in effetti nella notte del 3 al 4 mossero circa 200, e passarono da Capaci e Cinisi senzaché nessuno per allora volesse seguirli. Questa circostanza e l'avere a Ferrocavallo aggredito ed ucciso un soldato d'armi, il che dispiacque a molti, fece si, che la colonna si riducesse alla metà. I 100 rimasti all'alba erano al passo Riano, ed udito l'incominciato attacco di Palermo, animosi si mossero verso quella volta, ma nelle vicinanze di quella città ebbero ad attaccare due compagnie di soldati, e ne furono trattenuti sino alle 3, quando saputi i fatti di Palermo, si fermarono alli Pietrazzi. Gl'insorti poi. di Bagheria e di Villabate giungevano la mattina sino all'Acqua dei Corsari, ma ivi sentirono i casi di Palermo, e rimasero nei dintorni. Ad essi si rannodarono coloro, che si ritirarono la mattina del 4, e questo fu il primo nucleo delle bande armate.

Represso quel tentativo d'insurrezione, le truppe e gli uomini di polizia insolentirono. Ciò era logico; guai ai vinti è l'espressione di un fatto, che non si smentisce mai, e che rimane applicato in larghissime proporzioni, quando si tratta di guerre civili. Tutti gli aderenti del governo si mostravano alla scoperta e baldanzosi.

Verso il mezzodì il generale Salzano comandante della Piazza faceva affiggere un'ordinanza, in cui era detto:

«Questa mattina al levare del giorno un pugno di faziosi avendo osato di oltraggiare le reali truppe con delle armi a fuoco per provocare una insurrezione in questa città, eccitando i suoi abitanti ad armarsi contra la regia autorità;

«Il generale, comandante militare della Provincia e della Piazza di Palermo, in virtù dei poteri, che gli sono conferiti dal Re pel mantenimento dell'ordine nella piazza decreta ciò, che siegue:

«Art. 1. La città di Palermo ed il suo distretto sono messi da questo momento in istato di assedio.»

«Art. 2. I ribelli presi con le armi alla mano del pari che tutti coloro, che presteranno aiuto all'insurrezione, saranno giudicati da un consiglio di guerra immediato, che resterà in permanenza conformemente al real decreto dei 27 decembre 1858.

«Art. 3. Tutti coloro, che detengono armi di qualunque natura dovranno consegnarle 24 ore dopo la pubblicazione della presente ordinanza al comandante militare della Piazza Bologni, quando anche avessero il permesso legale della Polizia di detenere le armi. Da questo momento tutti i permessi di tal genere sono e rimangono annullati.»

«Art. 4. Di giorno gli abitanti dovranno camminare isolatamente. Di notte un ora dopo il tramonto del Sole dovranno portare una lanterna od un fanale.»

«Art. 5. È vietalo ai particolari di ricevere nelle loro case persone, che non sono loro parenti, ed anche nel caso in cui volessero alloggiare taluni di costoro, si dovranno munire a tal effetto di un permesso legale dell'autorità civile.

 «Art. 6. È interdetto di sonare le campane cosi di giorno come di notte come ancora di affiggere proclami o documenti sediziosi. I colpevoli di questi fatti saranno giudicati dal consiglio di guerra subitaneo.

 «Le stamperie rimarranno chiuse per tutto il tempo della durata dello stato di assedio.».

«Art.7. Il Consiglio di guerra di guarnigione è promosso da ora alla qualità di Consiglio di guerra subitaneo in permanenza.»

«Esso siederà nel Palazzo comunale.»

«Palermo 4 aprile 1860 7 ore del mattino.»

All'una p. m. ricominciò il fuoco nella linea del fiume Guadagna, e durò circa un'ora; alle 5 ricominciò ancora nella linea di Monreale e Boccadifalco, e si protrasse sino alle 7. Erano i gendarmi, che inseguivano i dispersi, i quali si difendevano. Cosi fu compita la giornata del 4 di aprile, il primo giorno della insurrezione.

Il giorno 5 si manifestava con tristi auspicii; alle a. m. un vivo fuoco si era impegnato al di la di Santo Antonio, e precisamente nel punto intermedio tra la Sesta Casa dei cacciatori e lo stradone, che mena al ponte rotto della Guadagna. La città però era meno agitata, meno disordinata, i viveri meno rari, il pane si poteva comprare più facilmente. Alle 2 p. m. giunse da Napoli il Luogotenente Castelcicala, che dopo di essere andato al Palazzo, si stabili a bordo di un vapore napoletano. Alle 3 il Comandante della Piazza affiggeva un proclama, col quale ringraziava il popolo pel serio e quieto contegno serbato, e lo esortava a proseguire nello stesso modo ed a stringersi d'intorno all'ordine, dapoiché quella banda di sediziosi e perturbatori della pubblica pace era ormai dispersa, e tutto ritornava nella consueta tranquillità.

Ma cosi non era; di buon mattino erano insorti i congiurati della Bagheria, ed il popolo li aveva secondati. I regii furono obbligati a chiudersi e fortificarsi in un Palazzo, ove non furono attaccati. Vi rimasero tutto il dì; l'indomani mandarono a provvedersi di viveri, e non ne ebbero. Allora uscirono due o tre compagnie per prenderli e punire coloro, che li avean negati, ma furono vigorosamente respinti, e fu d'uopo di ritornare, ond'erano usciti; quattro soldati e due birri restarono morti. Per tal modo i soldati mancarono di pane, e dovettero accontentarsi di due capre, che avevano predate. Il giorno seguente, val dire il 1 di aprile, venne una colonna mobile a soccorrerli. Gl'insorti si unirono agli altri di Villabate, ed occuparono le campagne. Per tal modo l'insurrezione cedeva il terreno, ma non si estingueva, e serbava sempre i piccioli ma fermi mezzi, coi quali era stata obbligata a cominciare.

Nè era solo alla Bagheria, che quei moti si sostenevano. Alle 4 p. m. del giorno 5 impegnavasi il fuoco a Boccadifalco e Monreale; i soldati furono obbligati di mandare a Palermo per rinforzi, perocché tra morti e feriti avevano avuto una perdita di 60 uomini. Nel passare per mezzo lo stradone di Monreale i birri derubarono ed incendiarono una casa; però nei fatti d'arme della giornata 12 di essi rimasero morti.

Ed altri fatti succedevano nel medesimo giorno verso le Pietrazze, ove gl'insorti di Carini, Cinisi, e Capaci in numero quasi di 200 attaccavano gagliardamente la truppa, e dopo averne uccisi 25, l'obbligavano a ripiegare. Così il 5 l'insurrezione trovavasi più dilatata del giorno precedente.

Nel giorno 6 le cose non andavano meglio. Le squadriglie degl’insorti mano mano ingrossavansi.

Agl’insorti di Carini eransi uniti quelli della Piana dei Colli, ed il fuoco ricominciò a S. Lorenzo nelle vicinanze del Monte Curcio e Convento di Baida. I soldati ed i birri ebbero buon numero di morti e di feriti, ma di. scacciarono gl'insorti, che si ritirarono nei siti più eminenti. Nei dintorni di Monreale il fuoco era stato accanito, perocché gl'insorti della Piana dei Greci si erano battuti contro i regii sino alle 7 pom., allorquando venuti alle truppe regie nuovi rinforzi, gl'insorti, che non erano più di 80, si ritirarono nel loro comune. Il piano Bologna si era scelto dai regii per quartiere generale e munito di artiglieria. Verso le 5 pom. molta gente si era raccolta vicino il Palazzo delle Finanze; i birri temettero di quel radunamento, tirarono due colpi da fuoco, e la gente si disperse. La notte vicino al Ponte delle Teste vi fu un altro lieve combattimento; rimasero feriti due uffiziali e parecchi soldati uccisi. Gli altri incendiarono una fabbrica di calla forte; quelle fiamme salutarono le ultime ere del venerdì santo.

La mattina del 7 in Bagheria si proseguiva a combattere, e con la peggio questa volta dei soldati, i quali verso sera l'abbandonarono in potere degl'insorti. In Palermo poi le condizioni del vivere erano tristissime; da quattro giorni ogni specie di lavoro era cessato, gli artigiani cominciavano a patire la fame; gli accattoni, fatti più numerosi, non ricevevano più nulla; i venditori di commestibili, profittando del tempo e delle circostanze, rendevano anche più dure le condizioni della città.

E tristissima era puranco la condizione politica di quei cittadini. La polizia dava opera agli arresti, e tra i nobili ne vennero arrestati parecchi onde impedire che l'insurrezione avesse potuto reclutare tra quelli qualche capo; altri non giunse ad averli, perché avvisati, si salvarono. Verso le 11 della sera si sentirono alquante fucilate alla Sesta Casa dei cacciatori, ed erano gl'insorti, che arditamente, e bravando molti pericoli, avevano attraversato i giardini, ed erano andati ad attaccare quegli avamposti regii. Due sentinelle erano state uccise nella Strada Cancellieri. Anche questo giorno come il precedente fu contrasegnato da un incendio. I birri incendiarono una conceria di pelli.

Pertanto tutt'i posti dei soldati venivano muniti anche di birri, comunque del malumore tra costoro e la truppa fosse già nato. Già precedentemente un uffiziale aveva impedito, che quella sbirraglia saccheggiasse il palazzo del Principe di S. Elia, ed aveva fatto arrestare coloro, che l'avevano tentato, ma in quello stesso giorno 'i un birro a Fieravecchia era salito sul tetto di un Palazzo, e di là aveva tirato una fucilata ad un soldato per fare credere, che fossero ivi raccolti dei rivoltosi ed avere così l'agio di saccheggiarlo: ma il colpo falli, ed il soldato veduto da chi era partito, trasse egli pure, e l'uccise.

Partivano in quel medesimo giorno tre legni carichi di truppa per Trapani, e se ne argomentava, ch'ivi ancora le cose del governo andassero male. Circolavano inoltre per la città tre proclami, che incoraggiavano il popolo alla resistenza, e promettevano vicino il tempo del riscatto.

La notizia dei moti di Palermo era giunta in Napoli presto, tanto che il Giornale Uffiziale si vide obbligato a pubblicarla il mercoledì santo, vai dire quello stesso dì 4 nella sera, molto più tosto del solito, nel fine di attenuare il numero dei morti, che ridusse a sette nell'armata, tacendo dei feriti, ed esseri, che quei moti non avendo trovato sostegno, si erano estinti immediatamente.

Ma il pubblico non vi credeva. Correva per le mani di tutti il supplemento al n° 7 del Corriere di Napoli, ove si leggeva il seguente proclama:

«Napoletani!

«Al momento, che il Re Vittorio Emmanuele pronunziava nel Parlamento solenni parole sul presente e sull'avvenire d'Italia, i valorosi fratelli di Sicilia scossero il vergognoso giogo, che da gran tempo ci opprime, e ci umilia. L'iniziativa del movimento fu ardita e la lotta gigantesca. La bandiera dell'Italia sventolava sulle barricate dell'invitto Palermo, ed i vilissimi sgherri del Maniscalco fuggirono da codardi. Il Governo non mancò né mancherà certo a chiamare faziosi gr insorti e dire sommessa la Sicilia. Queste arti sono vecchie abbastanza, e non meritano fede, ricordando che al 1848 anche pochi furono detti coloro, che poi costrinsero Re Ferdinando ad offrire franchigie e statuto».

«La lotta continua ed i trionfi e le sconfitte parziali non iscemano l'imponenza dell'evento. Or l’ora nostra è sonata; or l'indifferenza è fratricidio, l'inerzia tradimento, e il concorso a sgominare il governo è il maggiore dovere, che ci corre in questi momenti supremi».

Ed a questo invito fu risposto immantinenti in Napoli. Il Venerdì Santo, giorno 6 di aprile, la strada Toledo era gremita di gente, che giusta il solito degli altri anni vi affluiva per girare le Chiese, in cui celebravansi i riti religiosi o semplicemente per passeggiare. Il mondo elegante per l'ordinario vi si reca tutto. La sera mentre la passeggiata era numerosissima, comincia una energica dimostrazione, gridandosi viva alla Sicilia, alla Italia, a Vittorio Emmanuele, all'annessione. In quella sera si cantava nella Chiesa di S. Pietro a Maiella addetta al Collegio di Musica il Miserere del Mercadante. L'Ajossa vi assisteva. lvi fu avvisato di quanto avveniva nella strada Toledo, ed egli si recò di fretta, ma accompagnato da numerose persone di Polizia, al Palazzo reale, ove dicesi, che non fosse stato bea ricevuto, perché accagionato di poca previdenza. La dimostrazione non ebbe né doveva avere alcun seguito. Non si era inteso di far altro, che una dimostrazione.

Intanto il Giornale officiale di Napoli del 1 di aprile scriveva:

«I dispacci telegrafici, che ci pervengono di continuo da tutte le parti della Sicilia, e che giungono in data delle 6 a. m. di oggi, confermano le notizie precedenti sulla tranquillità generale dell'isola. Fra i loro concordi annunzii è notabile quello, che arreca un dispaccio di Cefalù, dicendo, che come colà fu risaputo l'audace attentato commesso da alcuni sediziosi di Palermo contro la pubblica quiete, i primi proprietarii della città si offerirono all'autorità per cooperare al mantenimento dell'ordine, ove mai ne fosse d'uopo».

«Le notizie in data di questo stesso giorno della città di Palermo sono unisone alle antecedenti, confermando pur esse la tranquillità di tutta quella popolazione».

Ma o mentivano i dispacci telegrafici, o mentiva il Giornale officiale, perché abbiamo veduto, che le cose andavano ben diversamente nell'Isola. Ed il pubblico napoletano se nol sapeva positivamente, l'argomentava, perché vedeva i soldati e le artiglierie, che si spedivano da Napoli, ed assisteva allo sbarco dei feriti e delle famiglie degl'impiegati, che fuggivano da Palermo. La più stretta sorveglianza esercitavasi su costoro, onde non violassero le ricevute istruzioni di nascondere il vero stato di quella città e delle sue adiacenze, ma quando poi la Domenica di Pasqua 8 di aprile videsi arrivare col vapore la Saetta la moglie ed i figli di Maniscalco ed il marchese di Spaccaforno con la sua famiglia, allora le induzioni del pericolo, che il governo correva nella capitale dell'Isola, divennero fondatissime.

Però gli animi erano inquieti da per tutto. I borbonici si allarmavano dei moti della Sicilia; essi sapevano, che un vulcano ardeva sotterra, e che una picciola causa avrebbe potuto produrre una tremenda esplosione. Quale si fosse la loro confidenza nei mezzi di repressione, dei quali poteva disporre il governo, eglino però non potevano ignorare sin dove giungesse il malcontento delle popolazioni, e come fossero calde e generali le aspirazioni italiane. Perciò temevano più che speravano, e temevano anche più quando vedevano fuggire da Palermo le famiglie del più alti impiegati, i quali se erano più compromessi, avevano però maggiore ragione di contare sulla protezione della forza pubblica.

Ma i liberali avevano sufficiente ragione di essere turbati ancor essi. La loro fede politica era incrollabile; la loro fiducia nel trionfo della causa nazionale era per così dire un dogma politico, ma la quistione del tempo non isfuggiva alla loro penetrazione, e se un errore, un'avventatezza non poteva comprometterla nel risultamento, poteva però ben allungare il tempo della soluzione. D'altronde i moti della Sicilia sembravano ai più prudenti ed ai più riflessivi accelerati.

Il Daily News uno dei giornali più liberali inglesi scriveva:

«Non possiamo biasimare e molto meno compiangere coloro, che hanno nobilmente sacrificata la loro vita in un tentativo per iscuotere il giogo di un governo, la cui esistenza sembra di essere stata permessa unicamente per insultare l'intelligenza e stancare la pazienza di un secolo, che si vanta forse un poco troppo del suo superiore incivilimento. Il mondo ha veduto molti governi, ma nessuno mai ha oltraggiato in un modo così cinico la religione, l'incivilimento, l'umanità, ed anche la decenza quanto il governo di Napoli. Colui, che una volta per sempre estinguerà il sistema attuale, avrà ben meritato di Dio e degli uomini. Ma noi deploriamo profondamente di dover essere testimoni di una serie di tentativi fatti in condizioni, che non offrono veruna speranza di successo. Temiamo, che certi spiriti intelligenti e coraggiosi in Sicilia si siano esagerata l'opinione professata verso di loro dai liberali degli altri paesi».

Nell'indrizzo degli abitanti delle Due Sicilie, che alcuni giorni addietro abbiamo pubblicato, troviamo questo passaggio:

«Perché mai in questo momento, nel quale il resto dell'Italia è più o meno agitata, le sole Due Sicilie restano tranquille?».

«Noi possiamo loro assicurare, che tutti gli animi savii approvano la prudenza, che fa loro attendere il momento favorevole per rompere le loro catene. Questo momento verrà. La condotta del Re concorda col cammino degli avvenimenti italiani per prometterne il prossimo arrivo. Aspettandolo, i Napoletani sian calmi, pazienti, prudenti, uniti, e sopratutto non distendano la mano a liberatori stranieri».

E per vero i movimenti insurrezionali avevano manifestamente le simpatie delle popolazioni, ma esse si limitavano ad appoggiarli indirettamente senza prendervi parte; ciò importava, che mentre esse approvavano e seguivano la idea, in nome della quale si faceva la rivoluzione, non si credevano preparate e forti abbastanza per sostenerla.

Noi ignoriamo, né crediamo, che si possa positivamente stabilire il numero degl'insorti nei primi giorni della rivoluzione, ma abbiamo ragione di ritenerli relativamente ben pochi. In Palermo, prevenuti, non ebbero tutti il tempo di riunirsi, ed è naturale, che mancato il piano, molti si ritirassero. I più animosi o più compromessi, che si ritirarono nelle montagne, non potevano essere in gran numero; né moltissimi potevano essere quelli di Bagheria e di Villabate, cui quei primi si unirono. Quei di Carini dapprima 200, furono poi ridotti a 100, cui si unirono quei di Cinisi e Capaci, che non potevano di molto eccedere quel numero avuto riguardo a quelle popolazioni. In Piana si armarono 80 uomini circa ed altri 70 circa in Corleone. Questa squadriglia s'ingrossò in S. Giuseppe, e sebbene non sappiamo di quanto, pure in ragione del numero già accennalo non potè che di poco superare i 200. Per lo che se riportiamo a sei o sette cento il numero degl'insorti dei primi quattro giorni, ci sembra di rimanere piuttosto al di sopra che al di sotto del vero. E se dal numero degli uomini si passa a considerare la qualità delle armi, si dovrà rimanere anche più convinti dei deboli mezzi dell'insurrezione, perciocché leggiamo, che non tutti erano armati di fucili, ma parecchi di lance, di stili e di altre armi bianche.

Ora in confronto di queste piccole forze disseminate pure in diversi punti debbono porsi 20 a 25 mila uomini di truppa regolare che il governo già aveva in Sicilia, corredati di artiglieria e di cavalleria ed oltre le compagnie di uomini d'armi. Parecchia altra truppa, e moltissima altra artiglieria si poteva spedire da Napoli, e difatti 3000 uomini, tra i quali un battaglione di cacciatori esteri, furono immediatamente imbarcati, e fu ordinato alla batteria Carascosa di tenersi pronta a partire. Dippiù quanti legni a vapore od a vela possedeva il governo, e non eran pochi, sinanche quelli destinati a partire per Marsiglia per rattopparsi, venivano armati. Inoltre erano richiesti e noleggiati quanti bastimenti commerciali a vapore si potevano avere per essere armati a guerra, e trasportare armi ed armati, munizioni da guerra e da bocca, cavalli, artiglieria, farine, gallette e per fino l'acqua.

Comprendeva bene il governo di quanta grave importanza fosse per lui il soffocare quei moti nel nascere. Sapeva esser quella la scintilla, dalla quale poteva divampare tale fuoco da esserne incenerito. Non era sola la Sicilia, che aveva da temere, ma Napoli, ma l'Italia tutta. La grande estensione dei suoi preparativi discopriva, che nell'assicurare ritornata la tranquillità in Palermo e nei dintorni, nell'affermare la quiete nel rimanente dell'Isola, mentiva una fidanza, che non aveva, e dissimulava un'inquietudine, che appariva manifestamente.

Ma questo stesso sentimento del, governo sull'esiziale necessità di comprimere risolutamente ed energicamente quei moti allarmava giustamente i liberali. Quando si ponevano a confronto i mezzi di attacco e di resistenza, non si poteva fare a meno di rimanerne spaventati. Che cosa potevano fare sei in settecento uomini male armati, senza neanche un capo, che li riunisse in un sol movimento e li dirigesse, contro un'armata di 30 mila uomini coadiuvati da numerosa e ben servita artiglieria? La mente si perde nel volere precisare le piccole cause, che possono determinare i più rilevanti fatti, iniziando un esiguo movimento, che accelerandosi nel percorrere la catena delle cause e degli effetti morali e politici, giunge a quel gran moto, ch'è il trionfo della idea, che rappresenta i veri bisogni e gli effettivi interessi del tempo. L'insurrezione della Sicilia ed i fatti posteriori sono una delle più splendide pruove, che di questa verità possa mostrare l'istoria. Forse non mai si è veduta la forza materiale frangersi e cadere a pezzi al primo urtarsi con la prepotente forza morale di una idea. Ma perché questo accada è d'uopo, che la idea abbia percorso tutto il periodo, che la Provvidenza ha segnato tra il suo nascere e la sua virilità, e questo periodo è ignoto all'uomo, che o vuole accelerarlo, e lo ritarda o lo compromette; o vuole opporvisi quando è compiuto, e n'è trascinato, e si perde. E quando i primi movimenti insurrezionali si manifestavano in una cosi debole scala in Sicilia, e dovevano superare così potenti ostacoli, erano legittimi i timori, che non si fosse ancora raggiunto quel punto culminante, sul quale doveva piantarsi vittorioso il vessillo della fede politica degl'Italiani. Sarebbe ingiusto di giudicare dopo il fatto come mal fondati o esagerati questi timori. Essi erano nel fondo dell'animo dei migliori amici della causa nazionale. Una corrispondenza del Corriere Mercantile di Genova dopo di avere narrato per quanto potevasi allora sapere i fatti della sollevazione soggiugne:

«Il numero notevole di bande armate nel contado comparse nel giorno 5 e 6 può argomentarsi dal fatto, che interrotte le comunicazioni, mancarono le farine in Palermo, ed il governo dovette spedirne da Napoli.»

«Corsi quei due giorni però, non avevasi speranza alcuna, che le bande potessero resistere.

«Il di 6 dicevasi in Napoli, che il combattimento continuasse ancora, ma è una diceria intorno alla quale non possiamo affermare o niegare.

«Questi sono i fatti, che abbiamo potuto raccogliere nella lontananza e confusione di quell'avvenimento; essi non ci dànno alcuna lusinga. di felice riuscita, ed i modi di repressione dal governo. napoletana ci sembrano preludere ad una di quelle violente reazioni, per le quali esso è ormai tristemente celebre nel mondo.»

«Non possiamo, che far voti, che gli sforzi generosi dei Siciliani non riescano del tutto inutili, e che la fortuna d'Italia affretti la caduta di un governo, che è una sventura per la patria comune ed una macchia per l'Europa civile ().»

E questo scoramento diveniva anche maggiore, quando si vedevano dall'uno all'altro giorno smentite le notizie, che attestavano generalizzata la sollevazione. Le corrispondenze particolari affermavano compiuta la insurrezione morale, ma della materiale nelle due altre principali città della Sicilia non ancora ve n'era, né v'era tra esse ed i sollevati la comunicazione, che sarebbe stata mestieri per aversi l'unità e la simultaneità del movimento. Il giorno 6 di aprile si scriveva da Catania:

«Qui siamo in grande agitazione ed aspettazione intorno al movimento di Palermo e per conoscere il vero stato delle cose, perché per la interruzione delle comunicazioni, ed essendo rotti i telegrafi elettrici e quelli ad asta, non abbiamo dettagli. Le nostre provincie come ancora quelle di Messina e di Noto non si sono ancora pronunziate, non avendo notizie precise e distinte del movimento. Ma siamo proprio su di un vulcano ardente, e se la rivoluzione non è scoppiata, pure moralmente è compiuta per l'immensa agitazione, che esiste, per la grande libertà, con la quale si parla e si opera; e la polizia guarda, ma non ardisce reagire. La truppa però è pronta a combattere ().»

E tre giorni dopo si scriveva da Messina:

«L'Archimede giunto ieri da Napoli portava le appresso notizie ricevute qui il venerdì con l'Elettrico.»

«Il 3 corrente alcuni giovani riuniti nel Monistero della Gancia in Palermo furono assaliti dalla polizia e dalla truppa. Dopo un accanito combattimento la truppa rimase vittoriosa, ed i rivoltosi parte morti, parte arrestati. La truppa ebbe dei danni. Il 5 fu ripreso l'attacco fuori di città, e le truppe furono quasi distrutte, lasciando 5 pezzi di cannone in potere dei nostri. Questi si proponevano entrare in Palermo il giovedì per cacciare i regii rimasti in città, e dicevano già occupata la comunicazione, che dalla città mena al mare.»

STORTA DELLA GUERRA DI SICILIA

ARRIVO IN PALERMO DELLA COLONNA

COMANDATA DA MEDICI (21 GIUGNO)

«Si dice, che da Napoli sieno spediti rinforzi di truppe. Qui lo scoppio della rivoluzione è vicino; si vuole, che Catania sia sollevata, e si batta con la truppa.»

«Messina 9 aprile.» ()

Il 9 di aprile in Messina dunque non si avevano notizie, che per la via di Napoli; non se ne avevano oltre il 5, e quelle, che si avevano erano inesatte. Tutti avevano l'insurrezione nel cuore, ma mancava l'accordo e la direzione.


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CAPITOLO V

Impressioni dell'insurrezione di Sicilia in Europa. — Fatti di Messina.

SOMMARIO

Preoccupazione dell'Europa per la cessione di Savoja e di Nizza — Il governo di Napoli era stato stigmatizzalo da tutti i governi di Europa  —  Pure una parte della stampa attribuì la insurrezione in Sicilia ad intrighi inglesi  — Articoli della Patrie — Il Pays divideva le medesime opinioni — Questi articoli fecero impressione in Europa. Comunicato del Moniteur — Come quella opinione fu accolta in Sicilia  —  Ma era ammessa da tutti gli amici dei governi di Napoli e di Roma — In sul principio il Nord riporta l'insurrezione alla sua vera causa — Ma successivamente cede ai suoi risentimenti contro l'Inghilterra — Stampa inglese. Il Morning-Post  — 11 Times — Considerazioni politiche — Riserbatezza della stampa italiana — Messina — Prime notizie in Messina il 4 di aprile  — Loro incertezza — Primo pensiero d'insorgere, ma si scorge la necessità di essere più prudenti — I buoni si adoprano a contenere la popolazione — Eccitamenti della Polizia  —  Provocazioni dei ladri e dei vagabondi dalli 6 alli 8 di aprile — Si domanda inutilmente all'Intendente di farli arrestare — Si domanda di formarsi una guardia cittadina, e viene negato — Il Comitato allontana da Messina i giovani armati — L'Intendente pubblica la repressione dei moti di Palermo. — La polizia e la truppa insolentiscono — Avvenimenti della sera degli 8 e ta notte — Perché si era tanto sparato?  —  Ordinanza del Generale Russo affissa il 9 — Seconda Ordinanza, che proclama lo stato di assedio — Se i fatti, che vi si affermano sian veri — Deve argomentarsi di no — Manifesto del Generale Russo affisso il 10 — In questo il Generale era stato più sincero — Ma in Messina si viveva ben altro che tranquillamente — Documento diplomatico — Fuoco della sera e della notte dal IO agli 11 — Cagione di questo nuovo fuoco  —  Manifesto del Generale Comandante — La giustizia della prima parte dipendeva dalla verità del fatto, che asseriva — Una relazione di Messina lo nega — Argomenti per credere vera la relazione — in ogni caso la seconda parte del manifesto era ingiusta — La popolazione di Messina continua ad andarsene, ma il Corpo consolare si reca dal Comandante la Piazza — Manifesto di quello stesso di alle 4 p. m. — Considerazioni  —  Nulla di nuovo negli 11 e 12 di aprile — Fuoco della sera dei 12, e nella mattina del 13 — Ferite ed insulti ad inglesi — Protesta del Corpo Consolare in iscritto — Considerazioni politiche — Protesta a voce del Console Inglese  — . Quelle violenze finiscono in Messina. Giunge nuova truppa; ne parte per Catania. Il giorno 16 s'ignoravano in Messina le vere notizie di Palermo.

 Nel tempo, in cui scoppiava l'insurrezione siciliana, l'Europa era preoccupata dai sentimenti destati dalla cessione della Savoia e di Nizza, che aveva sparsa la diffidenza in quasi tutti i Gabinetti Europei sulla politica del secondo impero. Le relationi internazionali erano dominate da questo grave pensiero, e si modificavano a seconda di esso. Il perché ogni avvenimento, che succedeva in Europa, prendeva la tinta di quella preoccupazione, che possedeva tutte le menti. L'insurrezione di Sicilia doveva correre la medesima sorte.

Il governo di Napoli era stato stigmatizzato dalla riprovazione di tutt'i governi è popoli inciviliti; persino il Gabinetto di Vienna era stato obbligato a biasimare o il furore cieco o la demenza, con la quale governavasi in Napoli ed in Sicilia; tutti avevano veduto, che il cambiamento nella persona del Principe non ne aveva portato alcuno nella politica del governo, il quale deteriorava anche dippiù per l'assoluta incapacità del giovane Re e per gl'inciampi, che doveva ritrovare nella sua stessa casa. La Corte di Roma, cui si sapeva essere intieramente devolute la confidenza e la devozione del successore di Ferdinando II, insisteva sempre nell'opporsi alle giuste esigenze dei suoi popoli, e retrocedendo di cinque secoli, pubblicava una scomunica, che sarebbe stata meno deplorabile, se fosse stata semplicemente inutile allo scopo, cui era diretta. Laonde questa pressione, che gravava sull'animo e la mente del Re di Napoli, lo rendeva semprepiù inconciliabile con la politica e gl'interessi italiani. Ciò bastava a spiegare l'insurrezione sicula, ma queste cause naturalissime di quel fatto furono riputate insufficienti da una parte della stampa europea, che volle farlo derivare da una politica più elevata di uno dei più operosi Gabinetti dell'Europa.

Il telegrafo elettrico aveva sparsa sollecitamente la notizia dei moti di Palermo. La Patrie, che da qualche tempo aveva preso partito pel governo napoletano sia contro i suoi sudditi, sia contro gli stranieri, aveva già pubblicato nelle sue colonne:

«Ci si scrive da Palermo il 29 marzo, che il Principe di Castelcicala, luogotenente generale della Sicilia, aveva lasciato questa città con la famiglia per andare in Napoli in virtù di un congedo. Il paese è tranquillo a malgrado degli eccitamenti inglesi, ch'è impossibile di non segnalare. Si assicura, che degli agenti stranieri cercano in questo momento di organizzare un partito, che dimanda l'annessione della Sicilia all'Inghilterra. Questo partito fa una propaganda attiva, ed adopra ogni mezzo per raggiungere il suo scopo. Ma non riuscirà nonostante il suo potente patrono, perciocché la Sicilia ha innanzi gli occhi l'esempio delle isole ionie; nulladimeno tutte le potenze debbono vegliare per impedire un atto cosi deplorabile.»

Ed ebbe poi ad aggiungere:

«Nel momento di mettere in torchio ci si comunica il seguente dispaccio:

Napoli 4 aprile.

«Dei faziosi hanno attaccato le truppe a Palermo.

«I soldati li hanno bravamente respinti e messi in fuga al grido di Viva il Re! Un gran numero d'insorti sono stati uccisi. La popolazione non ha preso veruna parte a questo tentativo. La Città è tranquilla.»

Due giorni dopo scriveva:

«Quanto ai movimenti rivoluzionarii nelle Due Sicilie, ci è impossibile di non vedervi, come di già l’ abbiamo detto, degli eccitamenti inglesi. Lo scopo non è più occulto, e vi è un partito, che dimanda altamente l'annessione della Sicilia all'Inghilterra.

«Adunque non è più permesso il dubbio sugli eccitamenti inglesi a Palermo, e si può quasi dire, che gl’insorti siciliani erano armati di fucili inglesi. Ma qui ancora bisogna distinguere, né bisogna confondere le influenze inglesi con la mano del governo britannico. Noi ci ostiniamo a pensare, che gli illustri uomini di Stato, che governano in questo momento l'Inghilterra, hanno ripudiato le tradizioni. di quella politica estera, che si eloquentemente ha biasimato il signor di Montalembert, uno non pertanto dei più appassionati ammiratori delle istituzioni della Gran Brettagna.

«In tutto quello, che concerne le relazioni dell'Inghilterra, dice il signor di Montalembert, con le e nazioni straniere, la sua mobilità, la sua ingratitudine, i suoi strani entusiasmi, l'asprezza del suo egoismo, l'abuso della sua propria forza, il suo odioso disprezzo per la debolezza altrui, la sua assoluta indifferenza per la giustizia quando questa giustizia non le offre alcuno interesse da servire o alcuna forza da rispettare, ecco più di quanto è d'uopo per armare contra di essa l'indegnazione delle anime oneste.

«Sì, ecco più di quanto è d'uopo per indegnare le genti oneste. Ma quando gli amici dell'Inghilterra parlano così della sua politica estera, ciò non deve aprire gli occhi dei suoi uomini di stato? Se fosse altrimenti, a che servirebbero la ragione e l'esperienza? Ed il Pays divideva col suo confratello le stesse convinzioni.

Questa opinione di due giornali francesi, che passavano per semi-officiali, doveva fare una grande impressione su tutti; poteva travedersi in essi il pensiero del Gabinetto delle Tuillerie, ed eran chiare le complicazioni, che nello stato delle relazioni internazionali avrebbero potuto derivarne. Per cui il governo francese credè di rifiutarne ogni responsabilità, e diresse a quei due fogli un comunicato del tenore seguente:

«In occasione dei tentativi d'insurrezione in Sicilia ed in Ispagna la Patrie ed il Pays contengono contro una potenza vicina delle dispiacevoli imputazioni. Questi giornali tanto meno dovevano accoglierle, quanto che conoscono essi stessi essere sfornite di ogni autenticità. a Ed in Sicilia poi altamente si protestava contro questo concetto: — Taluni giornali, scriveva una corrispondenza di Palermo con la data del 19 aprile, hanno calunniato la rivoluzione siciliana e l'Inghilterra, facendo credere, che le mene della Gran Brettagna avessero spinto un partito a sollevare l'isola intera per unirsi all'Inghilterra.

«E chi mai potrebbe credere, che la Sicilia volesse mutare di padrone, quando invece dimanda ad alte grida la libertà? Bisogna però avere gli occhi chiusi sugli avvenimenti, che sono succeduti per ignorare la vera cagione di una rivoluzione, che ha trovato appoggio da un punto all'altro di Sicilia, e che se è stata combattuta dalla mitraglia, non è stata dopo 17 giorni spenta, né pare probabile, che lo sia facilmente, quando essa ha radice nel cuore di ogni Siciliano.

«L'arbitrio senza freno degli agenti di polizia, il disprezzo di ogni legge, la libertà individuale conculcata, il domicilio del cittadino violato, la miseria, l'abiezione, in cui si giace, le torture, le sevizie esercitate sugli arrestati, ecco le vere cause della rivoluzione siciliana, rivoluzione da tutti desiderata, aspettata, segnata a giorno fisso

«Chi ignora essere questi i motivi del pubblico malumore e del dispetto contro il governo? E lo stesso Tenente generale, lo stesso Direttore di Polizia non avevano essi domandato delle riforme, temendo probabile una rivoluzione?

«Che ha da fare l'Inghilterra con tali motivi, che sono tutti fondati nei sistemi e negli abusi degli uomini, che stanno al poter.»

E per esaurire la quistione, l'attenzione pubblica si riportava su quell'epoca, nella quale la Sicilia era governata sotto l'influenza inglese. Nè si dubitava della prosperità materiale, della quale allora godette, ma si osservava, che negli ultimi 12 anni lo spirito politico dei popoli aveva fatto molti progressi, e gl'Italiani hanno imparato la loro storia a proprie spese.

Indubitatamente, dicevasi, la Sicilia ha goduto sotto l'amministrazione di William Bentinck di una grande prosperità, ma le cause ne furono del tutto speciali. Quando nel 1806 la spedizione Anglo-Russa fu astretta ad abbandonare il regno di Napoli, gl'Inglesi in numero di 6000 si ritirarono in Sicilia. Si aumentarono a 17,000, e vi rimasero sino alla restaurazione; e l'Inghilterra non solo manteneva queste sue truppe, ma ne pagava pure altre 10mila; dippiù pagava alla Corte di Napoli, ivi rifugiata, un sussidio annuale considerevole. Tutto questo denaro dalla Gran-Brettagna rifluiva in Sicilia. Ed altro ancora vi entrava per l'approvvigionamento della flotta, che bloccava Tolone. Cinquanta legni di trasporto, sempre pronti a mettere alla vela pel servizio dell'armata inglese, stazionavano in permanenza nei porti della Sicilia; ed a soprapiù gl'Inglesi spesero più di un milione di lire sterline per mettere in buono stato di difesa certe piazze della costa.

Inoltre avevano essi organizzata una legione italiana, composta di quattro reggimenti, che si equipaggiava in Sicilia, per lo che in dieci anni l'Inghilterra ha speso in quell'Isola somme enormi, e tanto più considerevoli quantoché tutto si pagava ad un prezzo molto elevato.

Nè questa era tutto. Il blocco continentale faceva di Malta e della Sicilia il magazzeno di deposito di tutto il commercio d'Inghilterra pel Mediterraneo, l'Adriatico, e gli Scali del Levante, d'onde penetrava nell'Europa centrale. La Sicilia forniva l'approvvigionamento di queste numerose flotte mercantili; essa si trovava in condizione di associare i suoi capitali a delle speculazioni, che davano utili considerevoli e certi, perciocché per effetto del sistema di guerra adottato in Francia il commercio inglese si faceva senza concorrenza.

Ma, si soggiungeva, chi non vede adesso in Europa, che tutte queste cause erano passeggiere e specialissime? Chi non vede, che il protettorato inglese era buono allora e di una bontà tutta materiale per circostanze, che non si verificano, né possono più verificarsi adesso? Che se per lungo tempo i Siciliani hanno pensato, che questo stato di prosperità potesse ritornare mercé la separazione dell'isola dal continente, ora le tendenze di que' popoli, chiaramente dimostrate verso l'unità italiana, dànno alle idee ed all'opinione pubblica una ben diversa direzione.

Ma tutti coloro, che si ostinavano nel non ammettere una quistione italiana, o la concepivano a modo loro; tutti gli amici dei governi di Napoli e di Roma; tutti gli altri, che speravano la reintegrazione dei Principi spossessati, avevano accolto con entusiasmo questo ritrovato della pressione inglese nei moti di Sicilia, e vi si avviticchiavano come la sola tavola, che potesse salvare queste loro aspirazioni dal naufragio, che il vento della nazionalità sì violentemente agitava. E comunque il grido dei Siciliani fosse Italia e Vittorio Emmanuele, pure essi o il dicevano mentito per occultare il vero fine dell'insurrezione, o vi sostituivano un grido loro.

Quanto a quella parte dell'opinione pubblica, ch'è rappresentata dal Nord, o che cerca in questo accreditato periodico i principii regolatori delle proprie opinioni, il 6 di aprile in Bruxelles quel foglio pubblicava:.

«Mentre in Inghilterra e nell'Alemagna si cerca d'indrizzare la riunione della Savoia a profitto di certi interessi, che non oserebbero di mostrarsi senza maschera; mentre gl'Italiani del Nord si preparano a raccogliere i frutti della loro condotta generosa, prudente, ed energica, l'insurrezione eleva la testa nel regno delle Due Sicilie: il 4 un tentativo insurrezionale ha avuto luogo in Palermo; i soldati hanno fallo uso delle loro armi, ed il sangue si è sparso. La Patrie sembra accusare l'Inghilterra di questo deplorabile fatto, che imputa almeno al partito, che desidera il ritorno del protettorato inglese. Da qualche tempo non senza meraviglia s'osserva il favore, del quale gode il governo napoletano presso la Patrie. Nondimeno era ben preveduto ciò, che è avvenuto in Palermo, ed il nostro corrispondente di Napoli ci aveva fatto presentire il risultamento, al quale doveva fatalmente condurre la politica interna, che pesa sulle Due Questi fatti, che non tarderanno a riprodursi sopra altri punti, apriranno gli occhi al governo napoletano? Noi appena lo speriamo, perciocché sin ora le rappresentanze delle potenze non hanno avuto altro effetto sul Gabinetto di Napoli, che di rendere imminente una nuova rottura di relazioni diplomati. Che.» ()

Ma decorsero appena tre giorni da questo giudizio imparziale sulle vere cause dei moti di Palermo, e quel foglio cedé alle sue prevenzioni contro il gabinetto di S. Giacomo, si che dopo di avere scritto, sembrar certo, che il movimento compresso a Palermo, si era disteso sopra altri punti dell'isola, soggiugne:

«Dei giornali di Parigi attribuiscono la responsabilità di questi tentativi all'Inghilterra, che da gran tempo, come si sa, desidera questo gioiello del Mediterraneo.»

  —  Se non che due giorni dopo, gli 11 di aprile, ritornando ad essere più d'accordo con le sue precedenti affermazioni scriveva  —  «Nulladimeno il governo napoletano non accusa dei suoi imbarazzi il deplorabile sistema politico, ché siegue, né gli eccessi della sua polizia, ma sibbene il Piemonte, e sembra pure, che la posizione del Ministro sardo in Napoli sia divenuta così dispiacevole come difficile.» ()

La stampa inglese oltre al difendere l'Inghilterra contra le imputazioni del foglio francese, spiegava senza riserva la sua simpatia pei movimenti siciliani. Il Morning Post affermava, una prossima crisi essere inevitabile nel Regno delle Due Sicilie, ed impegnava il Gabinetto inglese a continuare la sua politica di astenzione, convinto, — a che la causa nazionale trionferà nel mezzo giorno, come ha trionfato nel centro dell'Italia.

«Noi di già, scriveva in altro articolo, abbiamo avuto l'occasione di fare allusione alle difficoltà, che la quistione di Sicilia può fare sollevare pel governo del Re Vittorio Emmanuele. Ma le difficoltà, che questi avvenimenti possono creare al Gabinetto di Torino, derivano da sorgenti perfettamente opposte a quelle, che hanno condotto alla lotta del 1848. In quest'epoca il movimento separatista della Sicilia creò una divisione nel campo italiano, e permise al Re Ferdinando d'incrudelire con tanto vigore contro la rivoluzione. L'insurrezione siciliana fu allora considerala come un atto di tradimento contra la causa comune, e gli sforzi fatti per resistere al Re di Napoli furono deplorati come detrazioni dalla quota comune del patriottismo e del valore italiano.

«Oggi la Sicilia sembra principalmente occupata di evitare la possibilità di meritare un simile rimprovero. Là, come nell'Italia centrale, come nella Lombardia, tutti i piani separati sono subordinati alla necessità di unire il popolo italiano tutto intiero sotto la monarchia sarda. Noi sentiamo, che l'immensa popolazione di Palermo è uscita ad un dato segnale dalle proprie case, e si è sparsa nelle strade e nelle piazze pubbliche, facendo risuonar l'aria dei gridi di Viva Vittorio Emmanuele! Là è finita per sempre coi Borboni. La lotta può essere terminata, l'insurrezione può essere soppressa, ma unicamente per ricominciare con furia maggiore. Le truppe regie possono mantenersi nella città, mentre le bande di guerriglie si spandono nella campagna; vi possono essere delle sanguinose esecuzioni, degli inumani massacri, ma vi è un fatto importante, un fatto, che non può essere contradetto, ed è il riprodursi là un'altra fase legittima di quello stesso movimento nazionale, che ha già guidato la Lombardia e l'Italia centrale all'annessione ai dominii del Re di Sardegna.

Qualunque ei si fosse, questo giudizio esercitava una grande influenza nell'opinione pubblica in Inghilterra, la quale veniva vieppiù determinata da un lungo articolo del Times, foglio tory bensì, ma molto diffuso nella Gran Brettagna.

«Sembra di più in più probabile, che le complicazioni dell'epoca attuale vanno ad accrescersi di tutta la gravità dei turbamenti, che seriamente minacciano il regno delle Due Sicilie. Poco tempo indietro chiamavamo l'attenzione del pubblico sullo stato della capitale napoletana, sul terrore, che regna in tutte le classi, gli arresti, che si succedono senza interruzione, e le lunghe liste di esilio, che si giudicano necessarie alla salute del Trono.

«I dispacci del rappresentante inglese hanno esattamente confermato quello, che avevamo saputo da altra sorgente. Sventuratamente il giovane Re, il cui avvenimento al Trono era stato salutato con isperanza anche da un popolo abituato a non mettere più confidenza nei suoi Principi, si è mostrato più debole, più apatico, più insensibile ancora del padre, al quale succede. Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi.

«Una insurrezione è scoppiata alla volta in Palermo ed in Messina, e nell'ora, in cui scriviamo, non è completamente compressa. Vi sarebbe affettazione da parte nostra ad esprimere la minima simpatia per quella che si chiama la causa dell'ordine, tale almeno quale la Corte di Napoli la rappresenta. È presumibile, che le truppe abbiano il di sopra, e che un implacabile massacro d'insorti e di cittadini vendicherà l'autorità di Sua Maestà.

«Il tempo, in cui degli Stati stranieri intervenivano tra il sovrano ed i sudditi, non è più, ed i Siciliani se vogliono fidarsi alle eventualità di un'insurrezione, debbono prima di tutto contare sulla loro risoluzione e le loro proprie forze. Se sono schiacciati, questa sventura non aggiungerà, che una pruova dippiù a quelle registrate dall'istoria, — che una buona causa non è esente più di una cattiva dagli azzardi della fortuna e della guerra.

«Noi non abbiamo verun desiderio d'intervenire tra il Re di Napoli ed i suoi sudditi, ma abbiamo il dritto di proclamare, che pei suoi recenti atti egli si è messo al di fuori e ben lontano dal giro delle nostre simpatie. Il paese, ch'era l'ultimo rifugio della loro razza, è stato trattato dai Borboni con una ingratitudine, che nulla può scusare. Sono quattro anni, da che il governo dell'ultimo sovrano era cosi cattivo, Che l'Inghilterra e la Francia richiamarono i loro Ministri.

«La politica di quest'atto è stata discussa, ma il peggio che se ne possa dire è di non essere andato assai lontano. Le potenze occidentali mostrarono la loro debolezza, quando fecero una dimostrazione diplomatica, che il Re potè disprezzare, e ch'esse si astennero da un intervento, del quale evidentemente avrebbe dovuto tener conto. L'errore non si ripeterà. L'Inghilterra è decisa di non più mischiarsi degli affari interni dell'Italia, tranneché per assicurare agli Italiani la piena libertà di dirigere i loro proprii affari. L'esplosione, che ha avuto luogo in Sicilia, non apporterà veruna modificazione a questa savia politica.

«Gl'Italiani, o che siano Lombardi, Napoletani, o Siciliani, sono d'ora in poi gli artefici della loro propria salute. Ogni volta, che un'armata francese o austriaca tenterà d'imporre loro la scelta di un governo o dei padroni, che hanno legittimamente espulso, gli Italiani troveranno nel Parlamento inglese degli amici fermi e conseguenti. Qualche anno indietro sarebbe stata una povera consolazione. I piccoli principi si vedevano si forti, la dominazione austriaca era così incontestabilmente assisa, e la Francia aveva fatta così completamente causa comune col papato, che l'appoggio morale, del quale parliamo, avrebbe potuto sino ad un certo punto essere riguardato come un insulto ad una razza sofferente. Ma felicemente questi cattivi giorni sono finiti. Cinque principi italiani sono stati spogliati di preziosi possedimenti, perché hanno sconosciuto il legittimo dritto dei loro sudditi. L'Italia ha trovato il modo di mettere i suoi governanti alla ragione, e niun dubbio, che il Re di Napoli non venga pure a comprendere la logica, che ha finalmente convinto l'Imperatore d'Austria, il Papa, ed i Duchi di Toscana, di Parma, e di Modena,  —  dapoiché i governi non esistono per la sola, per l'orgogliosa soddisfazione delle teste coronate.

«Può essere che la Sicilia non conquisti immediatamente la sua libertà, ma il tempo non è forse lontano, nel quale un dispotismo come quello dei Borboni non sarà altra cosa che un passato come i misfatti di Dionigi il tiranno ()».

Quando si pon mente, che il Times rappresenta l'antica politica inglese, e che in sé compendia le aspirazioni di quella parte del popolo inglese, che si tiene più ferma al carattere ed alle abitudini tradizionali della Gran Brettagna, non si può fare a meno di riconoscere, che la causa italiana aveva acquistato il favore di tutta intiera quella nazione. Del rimanente comunque i moti di Palermo svelassero l'ultima fase del governo borbonico, pure in que' primi giorni v'eran pochi, che non li riguardassero come il cominciamento di nuove complicazioni amministrative, che dovevano precipitare quel governo alla propria rovina, ma non già come un'insurrezione, che avesse probabilità presente di riuscita. Epperò richiamavano essi meno l'attenzione pubblica dell'Europa, in allora per intiera assorbita dalla quistione svizzera destata dalla cessione di Savoia e di Nizza; anche perché le notizie contradittorie dei fatti di Sicilia ne scemavano l'interesse; e d'altronde la stampa italiana era obbligata a serbare su quei fatti per la posizione del governo nazionale una indispensabile riserva.

Ora n'è d'uopo di ritornare a Messina.

Quella città non meno di Palermo era animata dagli stessi sentimenti di avversione contro il governo napoletano e dalle stesse aspirazioni italiane. Era anche là un Comitato, che serbava le sue relazioni con gli altri e della Sicilia ed Italiani. Ma il movimento precipitato di Palermo e la resistenza, che aveva incontrato, dovevano rendere più cauta una popolazione, che poteva rimanere rovinata nel suo commercio, in che si sta tutta la ricchezza del paese.

Lo stesso di 1 di aprile si seppe in Messina, che l'Intendente per un dispaccio elettrico aveva conosciuto i fatti di Palermo. Il giorno 5 si disse, che gli insorti battuti a principio si erano rafforzati con l'aiuto di gente concorsa dai dintorni, e che la truppa era stata battuta in diversi punti fuori della città, né aveva potuto conquistare un sol palmo del terreno, che gli insorti occupavano. Si aggiungeva, altri paesi essersi pure sollevati. e molta gente armata essere per piombare sulla capitale.

Queste erano le voci, che correvano in Messina, ed è inutile il dire la commozione e l'ansietà, che vi destavano. Come sempre avviene in simili casi alcuni speravano, altri temevano, e le medesime persone speravano e temevano successivamente; la quale alternativa di speranze e di timori era vieppiù mantenuta dalla rottura dei fili elettrici e dalla mancanza di comunicazioni con Palermo e gli altri punti dell'Isola, d'onde né vetture, né corrieri, né vapori pervenivano. Il che per altro era pei liberali argomento più di speranza che di timori, dopoiché si argomentava. essersi l'insurrezione dilatata ed aver tolto al governo i suoi mezzi di comunicazione.

Epperò cominciò a farsi strada il pensiero d'insorgere anche li ed imitare Palermo, ma per le ragioni, che abbiamo già detto, una insurrezione in Messina comprometteva molti e gravi interessi, e per conseguenza non poteva essere leggiermente intrapresa.

«Senz'armi, dice una corrispondenza di quella città, senza capo, senza un piano, e più ancora contra la formidabile cittadella ed i forti soprastanti, e la imponente guarnigione l'impresa sarebbe riuscita troppo ardua, ed un rovescio a Messina avrebbe prodotto più danno che bene alla causa. nazionale. Si stabili di attendere migliori notizie e miglior tempo.»

Presa una tale determinazione, si diè opera a contenere l'eccitamento della popolazione. Gli uomini più influenti e più onesti giravano, raccomandando là calma, la prudenza, il buon ordine, ond'evitare ogni collisione con la polizia e la truppa, e torre ogni pretesto alle misure di rigore. Ma i tempi erano difficili, e se mancavano gli alli, difficilmente mancavano le parole, e chiari e manifeste apparivano gli sdegni e le aspirazioni.

Tal era la condizione morale ed amministrativa di quella città, che ogni sera venivano chiamati a pernottare nei cancelli della Polizia molte persone sospette o vagabondi a fin di evitare i pericoli, che del lasciarsi liberi sarebbero derivati alla tranquillità ed alla sicurezza della popolazione. Sia per rallentamento dei rigori dell'autorità sugli agenti subalterni della polizia, sia deliberatamente, si omise di eseguire quella disposizione. Si è scritto ancora di essersi messi in libertà alcuni ladri detenuti nelle prigioni. Il fatto sta, che dalla sera del venerdì 6 sino alla mattina di Domenica 8 di aprile quella genia insolenti talmente, questuando nei luoghi più frequentati della città, ed accompagnando le richieste con insulti e minacce, che la tranquillità pubblica ne rimaneva fortemente compromessa.

Nulladimeno gli onesti e zelanti cittadini non si stancavano. Richiesero l'Intendente Marchese Artale di fare arrestare quegli accoltellatori, che disturbavano l'ordine, e l'Intendente rispose, avere la polizia perduta ogni forza morale, ed avrebbe dovuto dire ogni forza materiale quando si trattava di punire i tristi, perché gli agenti della polizia erano dei più tristi, e facevano causa comune con gli altri, che loro somigliavano. Si fu ricorso al Comandante le armi generale Russo, e costui rispose, che per sedare quegli ammutinamenti bisognava carcerare non i ladri ma i liberali. Al che vuolsi, che l'Intendente abbia replicato doversi in tal caso arrestare tutti Messinesi, comprese le donne ed i bambini. Fu dimandata per ultimo la permissione di organizzarsi una guardia cittadina, dimanda giustissima anche sotto quella forma di governo. perché avendo l'autorità pubblica dichiarato non potere con le sue forze proteggere la vita e le sostanze dei cittadini, bisognava indispensabilmente, che questi si organizzassero a difendersi da sé stessi. Nulladimeno fu risposto, non avere le autorità di Messina una tale attribuzione; il che pure era vero, e rende evidente come quel governo fosse la negazione assoluta di ogni legittima forma politica, cioè la protezione dei cittadini.

Intanto il Comitato composto dei migliori cittadini sin dalla sera del Sabbato aveva fatto allontanare dalla città e dirigere verso Catania quei pochi giovani, che avevano un'arme, e ciò nel doppio scopo di diminuire i pericoli d'una collisione, che gli agenti della polizia volevano provocare ad ogni costo, ed utilizzare quegli elementi di azione, che in Messina sarebbero rimasti non che inoperosi, pericolosi. E fu ventura, perché la mattina della domenica verso le 4 p. m. l'intendente Artale pubblicò avere ricevuto un dispaccio elettrico da Napoli, che lo informava — «gli insorti in Palermo essere stati sottomessi o messi in fuga dalle truppe regie; molti essere rimasti vittime nel combattimento, altri arrestati, e parte di questi fucilati istantaneamente.» A questa notizia la truppa e la polizia s'inorgoglirono. Questa più dell'altra divenne insolente e molestatrice; nelle ore pomeridiane le condizioni della città si erano rese pericolose, perché quella turba di ladri e di vagabondi eccitati dagli agenti della polizia e sicura della impunità si era affollata in gran numero presso il teatro e nella via del Corso, e senza più apertamente minacciava d'irrompere, se non si dessero loro delle sovvenzioni e subito.

Gli onesti cittadini non si disanimavano; procedevano con le buone più che con le minacce; promettevano, che l'indomani ciascuno avrebbe avuto lavoro, ma che intanto si separassero; tutto fu inutile; coloro volevano danaro oggi, e si curavano poco del lavoro del domani, tra perché di lavoro non avean gran gusto, e perché potevano contare di ripetere il domani le medesime scene ed avere altro denaro. Le cose dunque proseguivano nello stesso modo, e l'attruppamento si protraeva sin verso l'imbrunire, quando l'uffiziale, che comandava una forte pattuglia di soldati, giunto innanzi al teatro, e vedendo accalcarsi la gente, comandò, che si dissipassero, altrimenti avrebbe fatto far fuoco. Trono scritti due fatti, che avrebbero dovuto escludersi l'un l'altro; cioè che a quella intimazione la gente fuggi, ed i soldati spianarono i loro fucili, quandoché il fuggire era un disperdersi sollecitamente. Ma forse la fuga avrà prodotto qualche scompiglio, e questo del tumulto, che intimorì i soldati. Il certo si è, che allo sparo dei soldati fece eco il fuoco dei birri riuniti al commessariato; costoro sparavano contro chi passava per sola lascivia di far del danno; nella predisposizione, in cui era la città, non è meraviglia, se i primi colpi eccitarono un grandissimo allarme; la truppa temeva la popolazione, e questa quella, perché si sapevano e si sentivano nemiche; vi fu quindi fuoco su diversi punti, in cui erano soldati, e sovente un fuoco di plotone ed al triplice grido di Viva il Re. La città fu ingombrata di soldati, ed il fuoco, com'è scritto in una relazione, che seguiarno,,si protrasse sino a due ore italiane. Chi era fuori di casa, bisognò si ricoverasse nella prima porta, che trovò aperta, e quando il tumulto cessò, non fu neppure del tutto senza pericolo il ritornare in casa.

Si era tanto sparato, che bisognava credere vi fosse stata una zuffa tra paesani e soldati; nulla di questo; si era sparato per libidine dai soldati e dai birri, senzaché un sol colpo si fosse tirato dalla parte dei paesani. Perché avevano dunque tanto sparato? O perché sapendosi la predisposizione ad insorgere si volle intimorire la popolazione senza potere contenere l'ardente desiderio di trarre schioppettate, o perché il trarre dei birri si scambiava con quello della popolazione. Intanto vi fu qualche morto e dei feriti, fra i quali un cittadino inglese, mentre cercava di ricoverarsi in propria casa, ed un sardo, che un birro colpi in mezzo la scala della sua abitazione.

La mattina dei 9 un'ordinanza del comandante delle armi diceva:

«Noi maresciallo di campo commendatore D. Pasquale Russo comandante la provincia e real piazza di Messina;

«Ai sensi del prescritto della reale ordinanza di piazza;

«Visto lo stato di turbolenza alla pubblica autorità, procurato da riunioni sediziose fino al punto d'inveire contro le reali truppe, e spargere cosi lo spavento nei fedeli sudditi di S. M. il re (D. G.)».

«Sotto la veduta di tutelare l'ordine dei buoni;

«La città e sobborghi di Messina viene dichiarata in istato di assedio; quindi tutte le autorità civili, giudiziarie, ed amministrative sono interessate farmi pervenire gli analoghi rapporti inerenti al ben essere, riceverne gli opportuni provvedimenti, se creduti confacenti.

«Rimane assolutamente inibito qualsiasi attruppamento o riunione di più persone, che eccedessero il numero di tre, ed i trasgressori verranno soggetti a tutto il rigore delle leggi.

«I detentori ed apportatori di armi di qualunque specie saranno giudicali dai tribunali militari appositamente nominati.

«Messina li 9 aprile 1860.

«Il Maresciallo di campo Comandante.

PASQUALE Russo».

E più tardi una seconda ordinanza ingiungeva, che analogamente all'ultima parte della precedente ordinanza si avessero a consegnare nello spazio di otto ore a contare dalle 10 a. m. di quel medesimo giorno tutte le armi nella intelligenza, che decorso quel periodo di tempo, rigorose perquisizioni si sarebbero fatte nelle abitazioni per lo adempimento.

L'ordinanza, che proclama lo stato di assedio, e la cui locuzione non offre per verità molto da ammirare, afferma, delle riunioni sediziose avere inveito contro la truppa. Questo fatto dunque è vero o falso? Noi siamo indotti a ritenerlo non vero; non per la relazione di Messina, dalla quale attingiamo la nostra narrazione, ma perché quest'ordinanza è troppo moderata per ritenere come vero, che la truppa sia stata attaccata. Basta confrontarla con l'ordinanza pubblicata in Palermo per rimanerne pienamente convinto. Niuna delle severe disposizioni dettate nella capitale si trovano ripetute in Messina, mentre i mezzi di resistenza contro una sollevazione erano più potenti in Palermo che in Messina. L'ordinanza di Russo non è simile alle altre, che si solevano pubblicare dal governo borbonico quando si allarmava di qualche movimento popolare. Le autorità non militari funzionano, se non che faranno i loro rapporti al comandante militare. Si può camminare in tre; si può essere fuori di casa in qualunque ora, anche la notte; le tipografie sono aperte; gli alberghi pubblici e le case particolari non sono obbligate a rivelare i loro ospiti; insomma non v'è nessuna di quelle precauzioni, che indubitatamente si sarebbero prese, se un fuoco di più di due ore fosse stato determinato da una lotta. L'esempio della capitale non si sarebbe trascurato in Messina. Ed in questa opinione vieppiù ci rafferma un altro manifesto dello stesso comandante le armi del successivo giorno 10, in cui dicevasi:

«Dopo le disposizioni emesse per tutelare l'ordine pubblico, momentaneamente turbato dalla sconsigliatezza di pochi tristi sediziosi, già felicemente ripristinato senza inconvenienti di grave momento, invita e consiglia tutti i buoni cittadini, che per un panico timore hanno abbandonato la città, a farvi ritorno al più presto possibile, sicuri, che vi continueranno a godere la più estesa tutela a guarentigia delle persone e delle proprietà».

Non pare che possa dirsi panico timore una insurrezione, che avrebbe prodotto un fuoco di due ore; oltre di che in questo caso d'una insurrezione non si avrebbe avuto tanta sollecitudine di richiamare in città la molta gente, che n'era uscita. In questo manifesto dunque il generale Russo era stato sincero; un timore panico vi era stato, ma era stata la truppa, che l'aveva concepito, e la popolazione aveva giusta ragione di esserne allarmata.

E difatti l'aspetto di Messina anche dopo di tal manifesto era ben altro, che rassicurante. La popolazione e la truppa si accordavano in due soli sentimenti, la diffidenza ed il timore; epperò tutte le botteghe erano chiuse, le strade deserte, pressoché vuote le abitazioni; l'attività commerciale di una città di tanto traffico era sparita; Messina sembrava piuttosto una città morta. — All'opposto, dice la corrispondenza, da per tutto soldati. «Le porte della città custodite da forti drappelli e da pezzi di batteria di campagna; i corpi di guardia triplicati e quadruplicati; a tutti i soldati camminavano colle armi alla mano e a col sacco sulle spalle. Ogni sbocco di via custodito a da due fazioni, che spesso impedivano il transito a e qualche individuo, che per qualche affare urgente e usciva di casa».

Tutto questo contrastava enormemente con le assicurazioni del manifesto, perché questo stato di cose perdurava ancora nel giorno 10 di aprile, ch'è la data del succennato manifesto, se non che potrebbe dirsi, che il governo, rassicuratosi per la tranquillità del giorno 9, vide nel di seguente. la necessità di provvedere a fare cessare quello stato di tutto e di abbandono, in cui Messina giaceva. Non pertanto si arrestarono parecchi individui, che la corrispondenza dice non essersi mai occupati di politica, ed una rigorosa perquisizione fu fatta nel teatro massimo, ove una denunzia aveva asserito essere nascosti uomini ed armi; non si trovarono già né gli uni né le altre.

Nei documenti diplomatici esibiti al corpo legislativo a Parigi, trovasi una lettera che il signor Boulard viceconsole di Francia in Messina scriveva con la data dei 10 di aprile 1860 al signor Brenier in Napoli, e copia della quale rimetteva con quella medesima data al ministro degli affari esteri in Parigi:

«Tutti gli sforzi della popolazione unanime a questo rispetto, non avevano, se non uno scopo, mantenere la tranquillità; ma tale officio per sé difficile, divenne impossibile quando la polizia con atto, che non si potrebbe mai biasimare abbastanza, ridonò alla libertà tutt'i ladri e gli assassini, che avea in suo potere».

«Invero dicesi, che appunto questi miserabili abbiano insanguinato la città. Furono essi, che provocarono un conflitto, dal quale si proponevano di trar vantaggio, cominciarono a fischiare le pattuglie, ad insultare gli ufficiali, giungendo fino, secondo dicesi, ad assassinare tre infelici soldati.

«Dinanzi a questi insulti, che la popolazione, io ne sono testimone, tentò ogni mezzo di prevenire o reprimere, la pazienza delle truppe è sfortunatamente venuta meno, e furono tirati parecchi colpi di fucile sopra una popolazione disarmata e risoluta a rifiutare il combattimento.

«Io stesso vidi in principio, che alcuni soldati tiravano in aria.

«Questa lodevole moderazione non fu per mala sorte imitata dagli sgherri della polizia, e gl'infelici che rimasero uccisi, caddero appunto sotto le loro palle. A me pare, che sia un grande abuso l'affidare fucili a siffatti individui d'una moralità dubbia, e raccolti dalle classi più infime della popolazione, vestendoli di un uniforme militare, ch'essi non sanno portare convenevolmente.

«Non si può apporre a delitto a questa infelice popolazione siciliana il desiderare un ordine di cose più sopportabile di quello che sia il giogo intollerabile e degradante, che si fa pesare sopra di lei. Ogni sintomo di un avvenire migliore deve necessariamente farla palpitare. Quanto a noi stranieri, testimoni di ciò, ch'essa soffre, di ciò ch'essa vuole, di ciò, che essa dovrebb'essere, potendo giudicare che cosa meriti, e che cosa la si rifiuti, noi non possiamo, se non compiangerla e gemere sulla sua sorte.

«Insomma la truppa tirò all'aria, non sopra la popolazione inoffensiva, e solamente il fucile degli sgherri fece qualche vittima.

«Ma era ciò abbastanza per sospendere l'azione delle leggi civili, per proclamare lo stato di assedio, istituire delle commissioni militari, diffondere in tutto il paese un terrore tale, che forse un terzo della popolazione di Messina ha lasciato la città per rifuggirsi nelle campagne vicine a rischio di morir di fame?... Eppure abbisognerebbe di pochissima cosa per accontentare la folla! La polizia, lo dico altamente, è la causa di tutto il male».

STORIA D' ITALIA

IL PRINCIPE DI S. CATALDO

È evidente, che il viceconsole di Francia desidera di risparmiare l'armata; ma che cosa vi vuole dippiù per forzare l'Europa a riconoscere la legittimità della insurrezione siciliana? Alle ore 9 p. m. dello stesso dì 10 alcuni colpi di fucile s'intesero nelle prigioni sotto il forte di Matagrifone, punto eminente, che domina la città. La supposizione più naturale si era, che i detenuti fossero insorti; ma dopo pochi minuti la moschetteria si fece sentire ne' diversi punti e posti della città, ed in meno di mezz'ora il fuoco, come la sera degli 8, si estese da per ogni dove vi erano soldati. Il posto della gran guardia fece varie scariche di plotone al grido di Viva Re; il forte Don Illasco tirò diverse cannonate verso la campagna; i soldati, che si erano ritirati nella cittadella, uscirono; il treno percorse la città in diverse direzioni, e la polizia, abbandonando il suo posto del commessariato, andò a rifugiarsi nella dogana sulla spianata di Terranova, ove alcuni pezzi di campagna la custodivano. Così si protrasse tutta la notte.

Che cosa aveva prodotto questo nuovo trambusto? I militari affermarono, essere stati attaccati dai sediziosi in diversi forti, ed essersi tirato sulla truppa da diverse case in città non escluso il convento di Porto salvo. E coerentemente a tali affermative il generale comandante Russo pubblicava sulle prime ore del mattino degli 11 questo manifesto:

«Il maresciallo di campo commendatore D. Pasquale Russo comandante la provincia e piazza, a malgrado le guarentigie di sicurezza date ieri con apposito manifesto per tutelare l'interesse personale e le proprietà dei cittadini di Messina e sobborghi per parte delle reali truppe, vede con rincrescimento, che fin dalla scorsa notte anche dai balconi e dalle finestre in varii punti si sono scaricate sulle medesime truppe arme da fuoco, oltre un attacco quasi generale, questa mane sperimentatosi, perloché si vede necessitato a manifestare, che qualora si continui con siffatto vandalico procedimento, i casamenti, da cui si vedranno partire i colpi suddetti, saranno presi di assalto, ed i manchevoli assoggettati al massimo rigore della legge. Previene inoltre, che continuandosi la già palesata ostinazione per parte dei sediziosi, adotterà quegli espedienti creduti di assoluta necessità, non escluso, occorrendo, il fuoco, che potrebbero vomitare i forti della cittadella».

«Messina 11 aprile 1860.

«Il Maresciallo di Campo Comandante

«PASQUALE Russo.»

Ritenuto il fatto asserito, la prima parte di questo manifesto era giusta. Ma il fatto era effettivamente vero? La relazione, che consultiamo, asserisce, essersi verificato, che le case indicate erano state trovate chiuse, giacché gli abitanti da molti giorni se n'erano fuggiti in campagna; che i frati del Convento s'erano rintanati per la paura in un sotterraneo, ove si rinvennero uniti, spaventati, e senz'armi né munizioni; che né bande né rivoltosi s'eran mostrati in città o nei dintorni.

A quale delle due contrarie asserzioni è da prestar fede? Una seconda lettera del detto Vice Console francese in Messina diretta al Ministro degli affari esteri in Francia, e pubblicata ne' sopradetti documenti diplomatici, scriveva il di 15 di aprile:

«Dopo la partenza per Napoli del signor marchese d'Artale la truppa e la polizia, non sentendosi più contenute o vigilate dalla presenza dell'autorità civile, hanno creduto di non avere più alcuna misura né riserbo da osservare; le cose hanno preso un aspetto più sinistro.

«Il 10 aprile a 9 ore della sera un fuoco terribile di moschetteria, appoggialo da colpi di cannone, è venuto a scuotere la città e ad atterrire gli abitanti. Quel fuoco variato come quello d'una battaglia durò fino a 2 ore del mattino. Delle palle sono penetrate per le finestre in parecchie case, delle misere creature furono uccise nel loro letto dalla mitraglia. altre, sorprese fuori della propria casa, soccombettero sulla pubblica via.

«Di tal guisa si fecero subire alla popolazione d'una città inoffensiva pel corso di un'intiera notte tutte le emozioni, tutte le angosce di un combattimento accanito, che sembrava da un istante all'altro minacciare lei medesima.

«In quanto ai pretesi insorti, benché la truppa abbia sostenuto il contrario, nessuno s'è presentato, nessuno apparve, e lo conferma il non esserne stato un solo ucciso, ferito, o fatto prigioniero.

«Per quanto ciò possa sembrare incredibile, codesto combattimento terribile, codeste tremende scariche di moschetteria e d'artiglieria, che per 5 ore dalle 9 della sera alle 2 del mattino hanno spaventato la città, codeste grida di Viva il Re! innalzate dai soldati come nell'ebbrezza della vittoria, tutto questo non era che una finzione, materia da bollettino, deplorabile stratagemma per atterrire la popolazione, un laccio teso ad alcuni infelici esaltati, cui speravasi per tal modo di trascinare ad una lotta sproporzionata.

«Il di seguente la città spaventata era in una costernazione tanto più grande in quantoché indipendentemente dagli avvenimenti della notte, seutivansi soldati ed anche uffiziali pretendere, che da certe finestre crasi tirato sopra di loro. Parlavasi di saccheggio, del sacco della città infine.

«La ribellione fu domata, ma le difficoltà non furono punto risolute. La polizia trionfò, gli arresti, le sevizie stanno per ricominciare: anche la popolazione, che lo sente, e lo comprende, non ritornerà nella città, se non lentamente e difficilmente, spinta e tratta a forza solamente dal bisogno.»

Ecco un'altra testimonianza in compruova di un fatto, che sarebbe incredibile, se non fosse l'espressione della cecità e della immoralità di un'abietta fazione. Noi inoltre osserviamo, che nel manifesto si parla in generale di case in vani punti della città, senza indicare nessuna contrada; ed è inverosimile, che qualcuna almeno di queste non si conoscesse, e conosciuta, non s'indicasse nel manifesto, che avrebbe così acquistato il carattere di precisione, di cui manca; è inverosimile pure, che dopo tutte le misure di precauzione spiegate da due giorni, si omettesse poi di prendere veruna misura contro le case, dalle quali si era tirato sulla truppa; né meno vaga né meno generale era l'asserzione dell'attacco generale avvenuto la mattina, quandoché avrebbe potuto ed avrebbe dovuto essere meglio di ogni altro precisato.

E vera pure la prima, la seconda parte del manifesto contenente la minaccia del bombardamento era ingiustissima, ed allarmò tutti. Sinché si era detto di inveire contro i casamenti, dai quali si sarebbe tirato sulle truppe, non vi era veruna obbiezione da fare, ma bombardare la città pel fatto de'  pochi sediziosi, che turbavano l'ordine pubblico, era un rovesciare deplorabilmente le teorie comunissime della imputabilità dei fatti dell'uomo, ed un abuso enorme e veramente vandalica della forza materiale.

Epperò chi tuttavia era rimasto in Messina, ne uscì, ma il corpo consolare si riunì nella casa del console di Francia per deliberare; mancarono soltanto i consoli di Austria e di Russia; si scrisse essere pure mancato il console sardo, ma la Gazzetta di Torino smentì l'asserita assenza. I consoli convennero e sottoscrissero una protesta contro il generale Russo, chiamandolo responsabile materialmente e moralmente di tutto il danno recalo o del maggiore, che si avrebbe potuto recare, e negandosi recisamente tutti i fatti ostili da parte della popolazione, che si erano asseriti. Chiesta ed avuta la scorta della forza pubblica, il corpo consolare recò esso stesso la protesta in casa del generale, al quale ripeté quello, ch'era scritto e qualche frase anche più forte. Il signor Russo asseriva, che dai rapporti ricevuti la notte si rilevava chiaro, essere i faziosi ostinati ad attaccare la truppa, ed i consoli replicavano, che o questi rapporti non riferivano il vero, o i fatti erano stati veduti diversamente da quello, che erano. Ed è da dire, che la discussione volgesse più a favore dei consoli, che del generale, perché intervenuto il brigadiere Afan de Rivera, disse: del passato non essere più da parlare; l'avviso dato fuori dal maresciallo essere un atto poco meditato e fatto senza la sua intelligenza; si ritenesse esso come non pubblicato, e subito se ne pubblicherebbe un altro, che assicurerebbe la popolazione,tutto essere tranquillo, la cittadella non tirerebbe sulla città, avrebbero ricevuto i militari dei contrordini.

Che anzi pregava il corpo consolare di dare tali assicurazioni al popolo ed incoraggiare ciascuno a riprendere senza timore le proprie occupazioni, Ed ai detti accoppiando il fatto, discese egli stesso in istrada, e dai subalterni fe' strappare dalle mura i manifesti affissi la mattina.

Alle 4 p. m. fu affisso invece il seguente:

«Noi commendatore maresciallo di campo D. Pasquale Russo comandante le armi nella provincia e real piazza di Messina;

«Assicurato della buona disposizione degli abitanti di Messina, solo contro i facinorosi, che scorrono le convicine campagne, ed hanno osato attaccare le fedeli (ruppe del Re (D. G.), avran luogo le misure di estremo rigore. Si assicurino quindi i buoni, che non hanno nulla a dovere temere, invitandoli a riedere alle consuete abitudini».

«Messina 11 aprile 1860, ore 4 pomeridiane.

«Il maresciallo di campo comandatile

«ll PASQUALE Russo.»

Sembra a noi deplorabile, che un governo fosse obbligato a disdirsi in cotal modo. Non è mai disonorevole correggere i proprii errori, ma un governo, che per errore minaccia di bombardare una città, commette un tristissimo errore.

Il resto del di 11 ed il di 12 si passarono piuttosto tranquilli, ma la popolazione tuttavia temeva, né usciva per le strade; né la rassicurava l'ultimo manifesto del governo, perché sempre qualche colpo di moschetteria di qua o di là si faceva sentire.

Però la sera verso lei si sentirono alcuni colpi di cannone tirati dal forte di Castelluccio, che sovrasta il centro della città. Indi si udirono dei colpi di fucileria tanto ivi che alle prigioni, e successivamente in qualche altro punto della città. lmmantinenti la truppa, che poche ore prima si era ritirata nella cittadella, uscì, ed invase la città; nella notte si fecero udire pochi colpi di artiglieria. La mattina del 13 le sentinelle sparse per la città e gli avanposti tirarono pure delle fucilate. La relazione ci dice, che in quella giornata si contarono cinque morti e parecchi feriti.

In quei giorni era stato ferito alla gamba un suddito inglese; un secondo era stato arrestato e messo poi in libertà, un terzo aveva avuto invasa la casa dai soldati e svaligiata negli oggetti di maggior valore con la minaccia di ucciderlo, se facesse resistenza. Per lo che i consoli si riunirono di nuovo nel consolato francese, e redassero e sottoscrissero una seconda protesta, che inviarono a Russo; ed il console inglese diè poi egli particolarmente quei passi, che or ora diremo.

La protesta del corpo consolare conteneva:

«Signor Generale;

«Gravi eccessi sono stati ancora commessi la notte scorsa nella città di Messina contrariamente alle speranze, che ci avevano fatto concepire le assicurazioni, che avete voluto darci nell'intento di ristabilire la pace e la confidenza, e di ricondurre nelle mura la popolazione, che è fuggita quasi tutta intiera.

«Persone inoffensive, persino un vecchio, sono cadute vittime di aggressione senza motivi. Sudditi stranieri, inglesi ed altri sono stati oggetto dei più cattivi trattamenti, e si è tremato per la loro vita.

«Inoffensiva, e non commettendo fin qui alcun atto reale di ribellione, la popolazione di Messina tutta intiera è in dritto di chiedere, che si rispetti il suo riposo, le sue donne, i suoi fanciulli, e le sue proprietà.

«Il terrore intanto è più grande che mai, e noi sentiamo il bisogno, per potere rassicurare i nostri nazionali, di formolare qui di una maniera precisa le assicurazioni, che ci avete voluto dare.

«Voi avete voluto prometterci sulla vostra parola di onore, di cui non abbiamo dubitato e non dubiteremo mai, che la cittadella ed i forti non tirerebbero mai sulla città; che in nessun caso i soldati violerebbero le case; che la città non sarebbe più turbata la notte da queste fucilate e cannonate che da più giorni non lasciano alla popolazione un solo istante di riposo. Finalmente, che se delle aggressioni avessero luogo alle barriere, perché esse sono impossibili nella città, non si risponderebbe più col fuoco dei plotoni e delle cannonate, ma che si cercherebbe d'impadronirsi degli assalitori con altri mezzi, che le forze considerevoli, di cui voi disponete, rendono facile trovare.

«Queste sono, sig. Generale, le promesse, che voi avete fatto, e ci permetterete di ricordarvele qui, perché assumano un carattere di autenticità. Esse ci mettono alla portata di concorrere alle vostre viste e di assicurare ad un tempo i nostri nazionali e tutta quanta la popolazione della città.

«Vi preghiamo di volere accusarci ricevuta del presente documento in persona di uno di noi.

«Vogliate aggradire ecc.

«Al sig. Maresciallo di Campo P. Russo Comandante in capo della Provincia di Messina.

(Sieguono le firme).

Questa protesta offre materia di gravi considerazioni, ed è un importante documento storico per conoscere le condizioni morali e politiche delle popolazioni soggette al governo napoletano. E per verità è strano, che il corpo consolare, cioè le nazioni estere, abbia dovuto essere astretto a prender esso la protezione delle popolazioni verso il governo, che ha il debito santissimo di proteggerle. Nè si dica, che queste popolazioni erano insorte, ed avevano perciò perduto il dritto a tale protezione, dapoiché la protesta procede anzi dal fatto non contradetto, che la popolazione era rimasta inoffensiva e non aveva sino allora commesso verun atto di ribellione. Invece sono la forza armata, la truppa, la polizia, quelle che irrompono contro questa popolazione inoffensiva, compromettendone la vita e le sostanze, ed è d'uopo, che le potenze straniere facciano valere il peso della loro autorità per ottenere la promessa, che la città non sia bombardata, e le case dei cittadini non siano dai soldati violate. Se non deve dirsi in questo caso, che le legittime relazioni tra il governante ed i governati sono spezzate, non sappiamo in quale altro potrebbe questo essere vero, tranne che non si ammetta la teoria, che un governo ha soltanto dritti e non doveri, teoria assurda, che compendia in sé, non già i dritti, ma i fatti transitorii della forza materiale.

Le quali osservazioni riesciranno più calzanti, quando diremo, che la protesta non sembrò al Console inglese sufficiente a tutelare la sicurezza de'  cittadini e de'  forestieri residenti in Messina, e traendo argomento dalle ferite e dai furti sofferti dagl'Inglesi, credè di dover dare qualche passo più energico. Laonde fattosi accompagnare dal Comandante il legno inglese l'Intrepido, che era nel porto della città, si recò dal Generale Comandante, e gli dichiarò, che se da parte dei militari un fatto qualunque fosse commesso a danno di un cittadino britannico o qualche insulto fosse recato ad uno di loro, egli avrebbe usato i dritti di rappresaglia, ed il comandante del legno avrebbe adoprato i suoi uomini ed i suoi cannoni. Alla quale minaccia il Generale Russo rispose, promettendo di fare fucilare il primo soldato napoletano, che avesse tirato un sol colpo di fucile sopra chicchessia di qualunque nazione, ed anche siciliano, e che a tal fine andava a dare gli ordini corrispondenti.

Così le cose si calmarono alquanto in Messina. Giunsero poi il 13 altri 2400 uomini di truppe e successivamente uno squadrone di lancieri. Questo rinforzo valse pure a calmare o a contenere i timori della truppa. Ottocento uomini e mezza batteria di artiglieria partirono per Catania. Ignoravansi però in Messina il 16 di aprile le vere notizie di Palermo. Le comunicazioni proseguivano ad essere interrotte, e le notizie, che vi pervenivano, recavano vantaggi ottenuti dagl'insorti e danni patiti dalla truppa regia. Lo spirito pubblico si manteneva quindi esaltato e fiducioso, e conseguentemente le relazioni tra la popolazione, la polizia e la truppa intristivano sempre dippiù.


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CAPITOLO VI

L'insurrezione si mantiene ne' contorni di Palermo

e nell'interno dell'Isola.

SOMMARIO

La Pasqua del 1860 sarà anche una importantissima commemorazione politica — Provvedimenti in quel giorno del Generale Salzano per rassicurare la popolazione — Inquietudini dei Palermitani pel minacciato bombardamento della città — Protesta dei Consoli — Fuoco anche in quel giorno in Villabate; partenza di truppe da Palermo  — Soldati e birri feriti negli Ospedali. — Due uomini escono da un sepolcro della Gancia dopo di essere stati sepolti quattro giorni  — Incendio di due Commessariati in Palermo — insorti soffrono grandissime privazioni — Azioni a'  Colli e nelle vicinanze di S. Lorenzo la mattina dei 9 — Stratagemma degl'insorti — Eccessi della truppa  — Ritorno della truppa da Bagheria  — Proclama del governo affisso il 10  —  11 popolo non vi presta fede — Il partito del movimento narrava i fatti diversamente — I regii sentono ancor vive le forze dell'insurrezione; provvedimenti — Fatto d'armi all'Olivuzza — Fatti d'armi del di 11 sulla linea di Balda e Boccadifalco; il di 12 a Monreale  — Istruzione giudiziaria in Palermo — Dimostrazione, che si vuoi fare in Palermo  —  Motivi pro e contro — La dimostrazione succede il giorno 13 — Il giorno precedente n'era seguita un'altra meno pericolosa e più classica  — Reazione del governo — Proclama di Salzano — Si fanno togliere i battenti dalle campane — Birri per le strade, arresti; ma un posto della vanguardia è assalito,Gl'insorti si sostengono; nel di 13 si uniscono quelli di Misilmeri e Monreale — La semplice resistenza degl’insorti alle truppe regie era un gran fatto — Influenza delle cause morali — Esagerate opinioni sulle forze insurrezionali; timori, che Palermo fosse attaccata il giorno 16 — Ma il 18 doveva essere un giorno nefandissimo — Descrizione topografica di Palermo e contorni  —  Forte colonna spedita contro gl'insorti riuniti a Carini — Fatto d'armi di Carini — Eccessi, che vi commisero gli armati regii — Per cinque giorni dopo il fatto di Carini non s'intese parlare degl'insorti; voci quindi sparse dai regii; però succede una dimostrazione; repressione, arresti — Corrispondenza da Palermo, che rivela l'opinione pubblica nei più moderati — Dimostrazione in Palermo il 24 di aprile — Altre voci di un attacco di Palermo pel 27 aprile — La Piana dei Greci è obbligata a cedere, ma le forze morali dell'insurrezione si sostengono, anzi si accrescono  — Considerevoli perdite dei regii  — Nel cominciare di maggio il governo si mostra indeciso nei suoi atti — Proclama di Salzano  —  Proclama del Comitato insurrezionale — Notizia dell'insurrezione di Catania giunta a Palermo  — Dimostrazioni quivi — Sanguinosa dimostrazione del 9 di maggio — Stato morale del rimanente della Sicilia.

 La Pasqua del 1860 (8 di aprile) sarà per Palermo uno di quei giorni memorabili, che verrà spesso ricordato nei colloquii familiari, non perché quel giorno fosse particolarmente contrasegnato da qualche fatto grave, ma perché riproducendo una delle maggiori solennità dei cristiani, ritrovava in quell'anno i Palermitani in tali tristissime condizioni, ch'erano assorbiti da ben altre preoccupazioni, che da quelle di celebrarla. Oltre di che quel giorno chiudeva la settimana maggiore dell'anno cattolico, che d'ora innanzi sarà pure una settimana maggiore nel Calendario politico dell'Italia. Imperciocché la Chiesa celebra il riscatto dell'uomo per l'opera di un Dio fatto uomo per trarlo dal servaggio, in cui giaceva, ed elevarlo sino a dichiararlo simile al proprio creatore, proclamando a sua tutela le massime dell'amore, della carità, della fraternità, il cui trionfo volle, che fosse acquistato a prezzo dei suoi dolori e del suo sangue; e l'Italia celebrerà il suo diffinitivo riscatto, garentito da una politica basata su quelle stesse massime, e del pari acquistato al prezzo dei suoi grandi dolori e del proprio sangue. Cristo franse le catene dell'inferno, che tenevano avvinto l'uomo, ed immutò il sistema morale della società di quel tempo. La rivoluzione siciliana ha affrettato il frangersi delle tenaci catene del dispotismo, che allacciavano ancora buona parte dei popoli italiani, e compromettevano il trionfo diffinitivo di tutti; il quale trionfo immuterà poi il sistema politico e sociale delle società presenti. Laonde la Pasqua del 1860 desterà nei Palermitani due sensazioni, che si è contenti di rinnovare. La reminiscenza dei mali sofferti; la compiacenza dei grandi risultamenti ottenuti.

In quel giorno il generale Salzano credè di dovere fare qualche cosa per rassicurare la popolazione. Fece affiggere un proclama, col quale nuovamente ringraziava la popolazione di Palermo della tranquillità e del contegno conservati; prometteva in ricompensa sicurezza e sovvenimento ai poveri. Fece aprire diverse Chiese, uscire alquante carrozze; si tolsero dal piano Bologna i quattro pezzi di artiglieria, e comparvero abbondanti viveri. Come per l'ordinario avviene, il volgo, che si trova in ogni classe di cittadini, e la plebe ne furono contenti. Compivano, come meglio potevano, le abitudini della Pasqua; gozzovigliavano.

Ma non erano queste le impressioni della parte sana della popolazione, che sentiva i pericoli, cui era esposta. Sapevasi, che il bombardamento della città era nel pensiero del governo, perché era mezzo adoprato e riuscito; e questo pensiero agitava tutti; sì che è scritto, che i Consoli si recarono da Salzano, e lo pregarono di astenersi dal bombardare la città, perché rovinerebbe gravissimi interessi dei cittadini delle altre nazioni. Salzano promise tutto.

Ma in Villabate neanche in quel giorno le cose erano quiete. La mattina verso le dieci ricominciò il fuoco; questa pertinacia degl'insorti cominciava ad in quietare i generali, poiché la resistenza spiegava un carattere di perseveranza, che manifestava un piano preordinato e che risolutamente si svolgeva. Verso mezzogiorno si vide partire una colonna, che si dice di 2500 uomini, per Bagheria e Villabate, ed un'altra per Monreale. Tali provvedimenti non tranquillavano il pubblico. I mercanti apponevano ai loro magazzeni la scritta interessi francesi o di altre nazioni, giacché era un fatto deplorabilissimo, ma certo, che per le persone come per le proprietà bisognava invocare la protezione delle Potenze straniere; abbiamo veduto questo in Messina; lo vediamo in Palermo; lo abbiamo veduto le mille volte presso di noi.

Intanto è scritto, che negli Ospedali militari si contavano tra soldati e birri 700 feriti; se il numero è vero (giacché non abbiamo documento per accertarcene), è molto grave, comeché l'insurrezione era cominciata appena da quattro giorni, e le bande o squadre armate erano relativamente poche di numero, perché si facevano ascendere appena a 2000. In quel giorno uscirono da una sepoltura della Gancia, praticando a gravi stenti un foro a traverso di un muro sotto una grata, due uomini, che vi si erano nascosti il 4; erano stati sepolti quattro giorni. La notte su tutte le colline del Parco e della Grazia si vedevano i fuochi, che i montanari vi avevano accesi. Nella stessa Palermo furono incendiati i commessariati della Vitrera e del Pizzuto; il primo arse tutto, per metà l'altro; i Birri alla loro volta incendiarono una casina. Così terminò in Palermo la Pasqua del 1860. Era colpa dei governati o dei governanti? Gl'insorti pativano grandissime privazioni e stenti anch'essi, ed il giorno di Pasqua non ebbero, che poco pane ed erbe; ma la fermezza del proponimento ed il coraggio non venivano meno.

La mattina del 9 s'impegnava il fuoco ai Colli e nelle vicinanze di S. Lorenzo; la truppa fu respinta, ed ebbe ad attendere i rinforzi da Palermo. Mentre per questo il combattimento era sospeso, gl'insorti innalzarono un muro a secco, e su di esso misero dei doccioni tinti in nero, sì che da lontano si potevano scambiare con dei cannoni. E per tali li prese la colonna, che sopragiunse, onde schieratasi, cominciò l'attacco; il muro non si moveva, la colonna non avanzava, e gl'insorti la molestavano alle spalle; la truppa faceva delle perdite, ma restò ferma sinché non si accorse dell'inganno, e forse non si accorgeva neppure delle perdite, che faceva. Alla fine si ritirò, ed irritata, derubò, ed incendiò molte casine; i soldati uccisero una governante inglese, ed arrestarono un Prete, che condussero in Palermo armato, come l'avevano trovato, cioè con schioppo, pistola, e daga.

Anche la truppa, che il giorno innanzi era andata alla Bagheria, ne ritornò senz'avere potuto conseguire gran cosa; anch'essa aveva toccato considerevoli perdite.

Il giorno 10 di buon mattino leggevasi uno scritto affisso per le mura di Palermo, col quale narravansi le fazioni del giorno precedente:

«Un pugno di predoni, coloro che fiutano il sacco e la rapina nelle pubbliche perturbazioni, scorrazzarono le campagne di S. Lorenza con l'intento d'introdursi poscia nella Città e turbare la pubblica pace; il valore però delle reali truppe li ha dispersi e sconfitti, di maniera che oggi trovasi rassicurata la tranquillità di ciascuno.»

Queste erano presso a poco le parole dello scritto, ma il popolo non vi aggiustava fede. Il partito del movimento affermava, essere stati i soldati costretti a fuggire, ed avere incendiate case, rubate masserie, mondi, vettovaglie, galline, capre e quanto poterono. Questo secondo fatto era vero; quanto al primo è da dirsi, che gl'insorti facendo la guerra di guerriglie, e giovandosi della posizione dei luoghi coperti di alte e folle piante di fichi d'India, molestavano notevolmente le truppe, e quindi s'internavano, mettendo quelle nella impossibilità di poterli inseguire. Perciò i soldati li tacciavano da masnadieri e da vili; maera giusto, ch'eglino serbassero il vantaggio del nu mero, delle armi, dell'artiglieria, delle munizioni, e coloro rinunziassero ai vantaggi dei siti? Si sentiva dunque dai regii in Palermo, che le forze della insurrezione erano ancor vive, e che importava spiegare grande energia per disperderle d'un colpo; per cui nell'additato giorno 10 partirono tre colonne mobili per Bagheria, Misilmeri e pei paesi circonvicini.

Viceversa rientrò nelle ore più avanzate la colonna, ch'era stata a Villabate; ne fu fatta la rivista nel piano del Palazzo; fu ritrovata mal concia, ma ebbe incoraggiamenti dal Luogotenente. Verso le 6 p. m. ebbe luo go una fazione sopra l'Olivuzza, e durò sino alle 11.

Sorgeva il sole del dì 11, e ritrovava le cose nel medesimo stato; gli stessi attacchi e gli stessi risultamenti, cioè nulla di decisivo né da una parte nè dall'altra, se non che l'insurrezione acquistava dal tempo forza ed alimento. Questa volta il fuoco s'impegna sulla linea di Baida e Boccadifalco, ed è sostenuto dai Carinesi con quelli di Cinisi e Capaci. Alle 8 è sospeso da una forte pioggia, e ripigliato al cessare di quella, dura sino alle due; si dicono dei sol dati 7 morti e circa 50 feriti; per molte ore di fuoco non è una perdita grave; ma queste perdite sono continue. L'indomani 12 di aprile, il fuoco s'impegnò invece sulle montagne di Monreale.

In Palermo intanto compilavasi una istruzione giudiziaria. Un Pristipino Giudice della G. C. Criminale fu prescelto per istruttore; costui fu che disse di avere ricevuto delle rivelazioni da Francesco de Riso; e sia vero o falso, che effettivamente le abbia avute, certo si è, che numerosi arresti furono eseguiti, tra i quali si notarono quelli del giovine Principe di Giardinelli, del Dottor Rocco Cammarati Scovazzo, del Barone Riso, del Presidente Nisceni e di altri. Nulla dimeno s'intendeva di fare una dimostrazione in Palermo dai più ardenti ed arrischiati giovani, ma i più cauti e più prudenti la dissuadevano.

Dicevano i primi, la manifestazione del pensiero nazionale nella capitale dell'Isola essere importantissima per influire sulle determinazioni di tutti gli al tri paesi, che alla capitale, come ad un faro, guarda vano; essere utilissima ad ingagliardire il coraggio e la perseveranza degl'insorti, che sì tenacemente ed a fronte di tanti pericoli e di più gravi privazioni tenevano la campagna; essere finalmente indispensabile a meritare ed ottenere gli aiuti degli amici del rimanente d'Italia, che difficilmente si sarebbero avventurati alle eventualità ed ai disagi d'una spedizione, se non avessero visto la popolazione della capita le muoversi ed agitarsi anch'essa. Ma gli altri del contrario parere senza negare l'importanza della quistione esaminata sotto questo triplice aspetto, sostenevano però, che dovesse esaminarsi non scompagnata dalle circostanze, nelle quali si presentava. Essere tutte le strade della Capitale popolate da spie e birri, preparati ad irrompere ad ogni più piccolo atto, e capaci di mettere le mani addosso per un gesto, uno sguardo, ed anche un sospiro, e conoscere ognuno che cosa spettasse ad un mal capitato nelle mani lo ro; il nerbo, la corda, i bagni freddi, la baionetta, e peggio! Epperò una dimostrazione esigere un coraggio ed un'abnegazione di se stesso anche maggiori di quella, che gl'insorti avevano per combattere e resistere, perchè chi combatte sa di recare al nemico tanto danno, quanto me può ricevere egli stesso, e la speranza, che mai abbandona l'uomo, gli fa pensa re, che assai probabilmente egli ne uscirà salvo; men tre invece in una dimostrazione si è colpiti senza col pire, e ciascuno deve temere di essere arrestato per la ragione che le palle non conoscono gl'individui, ma la polizia sì. Che perciò bisognava contare su di uno scarsissimo numero di concorrenti, che avrebbe resa assai magra la dimostrazione, le avrebbe tolto il suo vero carattere, ed avrebbe finito col recare più male che bene.

Queste ragioni erano facilmente accolte dai più, ma molti pure nel criticarle, non lasciavano nel fondo del loro animo di prevalersene; le maledicevano in pubblico e le benedivano tra loro, perchè se ne avvale vano per dire, che la pusillanimità di codesti ragionatori allontanava i concorrenti, e rendeva perciò impossibile la dimostrazione; essi quindi (così dicevano) erano astretti ad astenersene contra la propria volontà, e benché avessero una diversa opinione. Di questi uomini ce ne sono da per tutto e molti.

Ma i più risoluti non vi si arresero, ed il dì 13 verso le 5 p. m. Giuseppe Gustarelli da Messina, frate Basiliano, messosi di accordo con pochi altri giovani, cominciò per lo primo nella Strada Toledo a gridare Viva la libertà: altri si unirono a quei primi, altri senza gridare seguivano. Per tal modo l'attruppamento si fece considerevole; la dimostrazione si poteva dire improvisata, e perciò riuscì; molti, che non erano in istrada, erano sui balconi, e di essi i più arditi, special mente le donne, applaudivano; i più timidi senz'applaudire se ne compiacevano; la polizia fu sorpresa ed ebbe paura: la truppa doveva aspettare gli ordini e riunirsi. La dimostrazione cambiando di sito, più facilmente sfuggiva alla possibilità di essere istantanea mente repressa. Essa dalla strada Toledo usciva pel Vico S. Antonio, e spuntando ai Crociferi, gridava nella Strada Macqueda; entrava poscia nella Strada Candelai, ove in particolare le donne caldamente risposero alle acclamazioni, e ritornava in via Macqueda; procedeva sino al Vico Scesa dei giovenchi, ed ivi si disperdeva. Era durata tra mezz'ora e tre quarti. La forza pubblica accorreva quando n’era cessato il bisogno, e Maniscalco, accompagnato dai suoi, lentamente passeggiava nella ripetuta Strada Macqueda. Nessuno se ne brigava.

Il giorno precedente una dimostrazione più classica e meno pericolosa era stata ideata. Si fecero rimanere chiuse tutte le botteghe del Cassero per effetto d'intimazione segreta fatta ai mercadanti. Tre giovani s'incaricarono di quest'avvertimento,ed è facile comprendere, che non ebbero molto da fare per essere obbediti. In quei giorni si rischiava più a tenere aperte le botteghe che si perdesse a tenerle chiuse. Intanto indubitatamente era questa una muta ma eloquentissima dimostrazione; essa diceva molto più di quello, che non dicessero ì proclami e le assicurazioni di Salzano.

Il giorno appresso venne la reazione del governo. Si cominciò dal fucilare quei 13 individui, de'  quali abbiamo fatto già cenno, che arrestati il giorno 4, erano stati condannati dal Consiglio di guerra, e tra i quali era il padre del Riso. Salzano fece affiggere un proclama; usava le solite frasi: Il giorno innanzi una mano di marmaglia oziosa aveva sparso qualche voce tendente a turbare la tranquillità pubblica; però era stata dispersa dalla polizia. A prevenire per altro simili scene raccomandava, camminasse ognuno isolato, ed ove si formassero dei crocchi, la polizia li avrebbe invitati a sciogliersi, ed avrebbe poi usata la forza, se non fosse stata obbedita.

Si tolsero inoltre i battenti dalle campane; si innondarono le strade di birri; si diè del denaro ai parrochi, perché lo distribuissero ai poveri; tali provvedimenti erano delle dimostrazioni ancor essi. L'indomani si eseguirono degli arresti, e se ne fece quasi una pompa per la città; si aumentarono i birri e le spie. Nulladimeno nella sera fu assalita la vanguardia della sesta casa dei cacciatori, e ne rimasero uccisi due birri, tre soldati ed un tromba. Dall'altra parte sulla rivelazione di una spia la notte fu assalita una casa, ch'era un deposito di fucili; ma pochi ne furono rinvenuti, perché si ebbe il tempo di trasportarne buona parte in un luogo più sicuro.

Quanto agl'insorti si sostenevano essi e resistevano nella stessa guisa. Se non che le squadriglie, che trovavansi nei dintorni di Misilmeri, molestate dalle, continue colonne mobili, che spedivansi da Palermo, stimarono opportuno di riunirsi a quelle, che occupavano le alture di Monreale. Ciò eseguirono nel giorno 13, ed in quel medesimo dì vi fu uno scontro coi soldati, che mandarono a Palermo per rinforzo.

Se ne togli il non essere state disperse o distrutte, successi delle bande insorte si riducevano a nulla.

Però era così numerosa la forza, che si adoprava a comprimerle, così potenti i mezzi, dei quali il governo disponeva, che il vederli tornare inefficaci aumentava prodigiosamente nella opinione pubblica le forze insurrezionali. Continue colonne mobili uscivano e ritornavano a Palermo ad attestare, che non avevano potuto ottenere quello, che si era loro dimandato, e vi ritornavano per lo più lacere e sanguinose. Esse stesse quasi non vedevano né potevano contare i loro nemici, ma ben sapevano però, ch'erano risoluti ed energici. Questo lato misterioso faceva una maggiore impressione. Erano decorsi 12 giorni di una lotta continua; le perdite fatte dai soldati e dai birri si vedevano, per quanto studio si ponesse ad occultarle, ma quelle degl'insorti s'ignoravano. Si sapeva bensì, che si mantenevano nelle posizioni che avevano prescelto; si vedevano i dintorni di Palermo rischiarati la notte da fuochi, che allegavano la loro presenza; si era conscii infine del sentimento dell'insurrezione, che animava tutte le popolazioni, e che ove non ancora erasi tradotto in atto, era trattenuto soltanto da motivi di prudenza e dal timore di compromettere, anticipando, lo scopo, cui da tutti si tendeva.

Senza questa influenza delle cause morali non è possibile di spiegare l'equilibrio di due forze materiali sproporzionatissime tra loro. E diciamo equilibrio per essere castigatissimi nelle nostre espressioni, perché se si può dire, che in dodici giorni l'insurrezione non fece de'  progressi, non si può affermare, che retrocedesse. Argomento questo irrecusabile a dimostrare quanto sia grande la differenza tra la forza morale e materiale dei governi, e come questa non possa mai supplir l'altra, se non temporaneamente, e corrodendosi e snervandosi successivamente. La caduta della Dinastia, che aveva regnato in Napoli per 126 anni, n'è una pruova di fatto delle più evidenti.

Ora appunto per le dinotate ragioni il 16 di aprile si credeva in Palermo, che le squadre degl'insorti avevano raggiunta la cifra di 10mila uomini, e si giungeva per fine ad affermare, che avrebbero esse l'indomani assaltato Palermo. Nè solo il popolo divulgava tali notizie, ma il governo coi suoi provvedimenti le accreditava, perché facevasi novella distribuzione di soldati e di birri, e nuove artiglierie piantavansi in posizioni più forti ed a difendersi più acconce. Rigorosi ordini erano emanati per sorvegliare le porte, affine d'impedire, che delle comunicazioni tra l'interno e lo esterno si stabilissero. E veramente un gran fuoco si impegnò la mattina de'  17 a Monreale, cui i soldati non resistettero lungamente, e ripiegarono; come pure un altro serio attacco aveva luogo nelle vicinanze di Ferrocavallo, nel quale i soldati non potettero avere neppure dei vantaggi. Le vie di Palermo erano deserte, e gli animi agitati da affetti diversi, ma la costernazione era nell'animo di tutti.

Ed il giorno 18 di aprile era destinato per un fatto d'armi molto più considerevole, e doveva segnare nella storia delle rivoluzioni una pagina nefandissima.

Palermo giace in una pianura, circondata da una catena di monti, lunga forse un 12 miglia, larga nella linea più lunga un 4 o 5, ed alla quale per due punti si può accedere più comodamente; all'oriente verso il mare, d'onde parte la strada, che lungo il lido va a Messina, ed a settentrione, per ove passa la strada, che va a Carini. A settentrione, nella pianura, e sull'anzidetta strada di Carini vi è S. Lorenzo; e tra S. Lorenzo e Palermo la Piana dei Colli; ad occidente ma al di là della catena dei monti vi è Capaci e più in là Cinisi, che formano con Carini un triangolo pressoché isoscele, del quale è vertice anzidetto

Carini. Tra Carini e Palermo, ma nella pianura, vi è Balda. Su di uno dei monti, che chiudono enunciata pianura al Nord-Ovest di Palermo vi è Monreale, d'onde prolungandosi la strada sempre verso l'occidente va a Partinico, ed indi ad Alcamo nella Valle di Trapani. Al Nord-Est di Monreale vi è Parco su di un altro dei monti, che chiudono la pianura Palermitana, e da Parco una strada tortuosa mena alla Piana, ch'è a settentrione della prima, e la strada curva e quasi a spira si prolunga sino a Corleone. Ad oriente di Parco vi è Misilmeri, e segnano questi due paesi i due estremi della base di un triangolo, il cui vertice è Palermo. Da ultimo sulla mentovata strada, che lungo il lido conduce da Palermo a Messina, vi è Bagheria.

Gl'insorti di Carini, di Cinisi, di Capaci, della Piana, dei Colli, di Alcamo, di Partinico si erano riuniti, ed avviati a Carini. Il Governo credè fosse questo il momento di troncare con un sol colpo l'idra della insurrezione, e spedì una colonna mobile, che dicesi di 6000 uomini, quattro cannoni, 80 compagni d'armi, e 100 cavalli; noi non intendiamo di garentire queste cifre, ma la colonna era forte, e veniva da Partinico; si aggiunsero ad esse quattro altre compagnie, partite una da Monreale e tre da Palermo.

All'appressarsi di questi armati due miglia circa distante dal paese. La truppa giovandosi del numero, cercò di circondarli, ma le squadriglie, che nel pericolo attuale attingevano nuovo incitamento al loro coraggio, videro bene, che bisognava o aprirsi il passo, esponendosi alla morte dei valorosi, o cedere per andare a morire sul patibolo. Nè potevano esitare nella scelta; resi più forti di sé stessi dall'inesorabile necessità di vincere o di perire, vinsero in quantoché la vittoria era il rompere le file nemiche, e ritirarsi nei monti, e la violenza, con la quale lo fecero, produsse poche perdite per loro, relativamente alla posizione in cui erano, molte pei regii, dei quali è scritto, che tra morti e feriti rimasero fuori combattimento circa 200.

Ma spettava all'infelice Carini di pagare la pena di queste perdite. Vi entrarono i soldati, incendiarono molte case, le saccheggiarono tutte, uccisero dieci persone, poi per ironia proclamarono il perdono! «Carini, scrive un autore francese, fu bruciata e saccheggiata come una città maledetta. Io non invento nulla; riproduco il dettaglio dato da un Console, che cerca di attenuare i fatti, e che dice testualmente: Non è vero, che Carini non sia più che un mucchio di ceneri, ma la più gran parte della città è distrutta ().»

Gli eccidii di Carini si divulgarono da per tutto in Europa, e vi destarono una generale indegnazione. Chi voleva scusarli li chiamava necessità di guerra. Sarebbe stato più esatto dirli tristissimi episodii delle guerre civili, ed anche più tristi in quella, che narriamo, imperversata dal concorso di uomini, reclutati da per ogni dove in quella classe sociale, che smarrito il sentimento morale, non ha altro capitale da far valere oltre la forza materiale; questa mette a profitto di chi la paga, salva sempre la facoltà di adoprarla anche a proprio vantaggio giusta i suoi istinti, cioè la violenza, il furto, la rapina. Essi fanno per altro il loro mestiere, e la società li retribuisce secondo il loro merito; ma la risponsabililà degli atti loro è tutta a carico di chi li adopra. Nel ritornare la truppa da Carini aveva il treno adorno di fiori, e fiori anche ai fucili! E non è questa una eloquentissima pruova, che la truppa mancava del sentimento delle turpitudini e dei misfatti, che aveva commesso in quella infelice città?

Le squadriglie avevano presi i monti, ed anche quelle di Monreale erano state astrette di ritirarsi nei monti circostanti. Dopo i fatti del 18, che il Governo aveva dritto di credere riusciti a suo vantaggio, erano decorsi cinque altri giorni sino al 23 senz'alcun altro movimento; per cui si credè, che l'insurrezione fosse stata vinta o si fosse stancata. E siccome importava, che questa opinione, comunque potess'essere mal fondata, fosse dal pubblico ritenuta come certa, si pubblicò, le squadre essersi sciolte, tanto che si torrebbe lo stato di assedio; si ritirerebbe la truppa nei rispettivi quartieri, si sgombrerebbero i posti presi alle porte e nella stessa Città; si canterebbe un Te Deum: ciò diceva il governo, ma ben altro pensava il Comitato direttore, perché verso le 11 a. m. una dimostrazione ebbe luogo nella strada Toledo, e bisognò, che birri e gendarmi vi si presentassero per contener la; quindi gli arresti, che seguirono. È scritto, che dal 4 di aprile gli arresti politici ascendessero a poco meno di 2000.

Noi crediamo di non dovere nulla affer mare sulla fede di un autore, che appartiene al partito, che fece la rivoluzione; ma possiam ben credere per le abitudini del governo e per le condizioni, in cui si trovava, che tali arresti hanno dovuto essere moltissimi; né glieli apporremmo a debito, se si fossero limitati a coloro, che davano giusto sospetto di fomentare o favorire in qualsisia modo l'insurrezione.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

COMBATTIMENTO E PRESA

DEL CONVENTO DELLA GANCIA (PALERMO)

Quale poi fosse verso quel tempo l'opinione del partito liberale sul successo o insuccesso della insurrezione, possiamo desumerlo da una corrispondenza diretta il 19 di aprile da Palermo al Corriere Mercantile, e che pel suo contenuto manifesta nel suo autore un uomo che avea bensì l'animo italiano, ma serbava pure la calma della ragione. Essa nell'insieme conferma i fatti, che abbiamo narrati.

«La rivoluzione, egli scriveva, cominciata qui mercoledì Santo, sarebbe pienamente riuscita come nel 1848, se la polizia, prevenuta dalle spie, non l'avesse preventivamente attaccata e distrutta al Convento della Gancia; pure è incredibile il coraggio e lo slancio, con cui que' pochi giovani siansi battuti. La chiesa ed il convento furono saccheggiati, ed ora si può dire, che n'esistono solo le ruine.

«Dopo il combattimento molti sono riusciti ad uscire dalla città, pochissimi sono stati arrestati con l'arme alla mano.

«Dopo quei primi fatti continui sono stati gli arrivi di truppe da Napoli, continue le sortite di colonne mobili da Palermo e gli attacchi nelle vicine campagne. Molti soldati sono rimasti uccisi e feriti in tali scontri, e le truppe rientrano sempre molto scoraggiate.

«Lo stato d'assedio qui è rigorosissimo, tutti i caffè, tutte le botteghe chiuse, immenso e giornaliero il numero degli arresti, e tutti siamo chiusi nelle nostre rispettive case. Ciò non ostante il 15 corrente una dimostrazione ebbe luogo nella via Toledo in vero senso italiano; tale dimostrazione è stata però repressa, e per terrore furono fucilati 13 degli arrestati nel convento della Gancia.

«Anche per terrore avant'ieri furono trasportati dal Castello alla Vicaria (prigione) il principe Monteleone, Giardinelli, Niscemi, il Barone Riso; ed altri ancora della prima nobiltà furono arrestati. Molli dei vicini villaggi sono stati saccheggiati e distrutti, specialmente quello di S. Lorenzo. Impossibile avere relazioni dall'interno dell'Isola; solo dal rigore del governo e dalla paura dei soldati si ricava, essere l'insurrezione ancora molto forte, ma non possiamo e non sappiamo prevedere la fine.

«Nè si dubiti, che tutta Sicilia ha concorso alla voce della rivoluzione, perocché non vi fu angolo più re moto della Sicilia, dove non sia stata inalberata la bandiera tricolore al grido di Viva la libertà! Viva l'indipendenza! E mentre fuori Palermo si combatteva, un popolo immenso percorrendo le strade principali della capitale, gridava viva la Costituzione e l'Indipendenza!

«La truppa ha però soppresso quei moti; e forse sopprimerà la rivoluzione per tutta l'isola; vogliamo crederlo, perché il popolo non ha cannoni, non ha fucili, non ha fregate, e la truppa brucia e distrugge, saccheggia, come ha fatto in Palermo, alla Gancia, in Villabate, in Montello, ai Colli, in Moncale, in Ferrocavallo, in Carini, in Boccadifalco, ma la tranquillità sarà per questo assicurata? No mai.» ()

Questo era quanto avveniva, e si pensava in Palermo; quello che avveniva e si pensava in Messina sino al 23 di aprile si raccoglie da un articolo dello stesso citato numero del Corriere Mercantile:

«Abbiamo lettere di Messina del 23 corrente, le quali ci confermano, che la Città è tranquilla, ma le vie deserte, e molte botteghe ancora chiuse; affari quasi nulli.

«Nel momento, che usciva dal Porto di Messina il vapore francese, entrava un vapore sardo da guerra.

«Dell'interno dell'Isola corrono molte voci, delle quali non si potrebbe garentire la verità.

«Gl'insorti, da quanto si diceva, tengono sempre la campagna, ed all'approssimarsi delle truppe regie, se il luogo è forte e conveniente, tengono fermo, se no si ritirano. Si parlava pure di due scontri successi uno a Carini e l'altro ad Arnò colla peggio dei Regii, i quali avrebbero lasciato in potere degl’insorti qualche cannone e dei prigioni.

«Si dice eziandio, che gl'insorti per rappresaglia delle fucilazioni fatte dal governo in Palermo di alcuni dei loro abbiano impiccato dei prigionieri.

Come si scorge, le notizie, che si divulgavano al di là di Palermo, erano sempre a favore degl'insorti; il che semprepiù commuoveva le popolazioni. Frattanto in Palermo un'altra dimostrazione si preparava il giorno 24 di aprile in occasione della discesa del capitano di quel legno piemontese, di cui si parla nella corrispondenza surriferita. Il governo l'aveva preveduto, e numerose pattuglie ingombravano Toledo; tutte le botteghe erano chiuse; molte persone rimanevano in casa.

Verso i' una il capitano piemontese discese a terra dalla parte del Borgo, e la dimostrazione ebbe luogo con le solite grida «Viva l'Italia e Vittorio Emmanuele! Viva Palermo e la libertà.»

I pescatori battevano i remi, facendo uno strepito grandissimo. Nella strada S. Antonino Bosco, ed innanzi l'arco di Cutò la dimostrazione fu numerosissima.

Il di seguente si sparse la voce, essere avvenuto a Sciacca uno sbarco di emigrati, ognuno dei quali armato di due fucili; e però le squadre avevano fermato di assalire Palermo il giorno 21. Questa voce, comunque non vera, raggiugneva lo scopo di chi la divulgava, perché manteneva nella popolazione viva la fede nella insurrezione, ed obbligava il governo a defatigare i soldati. Il Luogotenente stabilivasi nel Forte di Castellamare, e disponeva, si togliesse la piazza dal piano di Bologna per trasferirsi nel Castello.

La Piana de'  Greci era stata uno dei primi forniti della rivoluzione; ivi come altrove gl'insorti si erano battuti e ritirati, poi ricomparsì, poi nuovamente ritirati; si era pubblicato il perdono, purché si deponessero le armi, ma la concessione non aveva fatto nessuno effetto. Però quella forte colonna mobile, che spedita da Palermo aveva obbligato le squadriglie a ritirarsi dopo di avere combattuto a Carini, si era che retta verso la Piana de'  Greci, vi era giunta di notte, aveva circondato il paese, sì che la squadra. che vi era stata sorpresa, aveva dovuto cedere al maggior numero e consegnare le armi. Molti arresti, furono eseguiti, ma molti, tuttoché disarmati, si rifugiarono sulle montagne. Le forze materiali dell'insurrezione riuscivano sempre inferiori a contendere con le forze numerosissime ed organizzate del governo, ma il proponimento degl'insorti non si mutava, e la loro perseveranza, che sarebbe riuscita inutile senza il discredito del governo, trovava in questo discredito un elemento fortissimo, che valeva a compensare l'ineguaglianza della forza armata.

E difatti mentre le squadre insurrezionali si mantenevano parte a Ferrocavallo, e parte a Misilmeri e nei dintorni, proseguivasi a spargere in Palermo la voce dello sbarco di un corpo di volontarii italiani, e di 200 Svizzeri. La città n'era allarmata, le strade erano deserte, le botteghe chiuse, ma l'insurrezione si rifaceva delle perdite avute, perché la sua forza preponderante era nell'opinione, la quale accoglieva facilmente quello, che desiderava, e si desiderava, che l'insurrezione prevalesse, comunque si scorgessero le gravi difficoltà da superare, e per questo appunto le speranze si riconcentravano in un soccorso da fuori. Il governo intanto si trovava obbligato a stancare le proprie forze; gl'insorti resistevano quanto bastava a tener viva la idea dell'insurrezione, e quindi si sottraevano agli attacchi della truppa, la quale faceva giornalmente delle perdite, che se non erano gravi relativamente al numero dei combattenti, erano però sufficientissime a ricavarne per induzione la gagliardia e l'ostinato proponimento degl'insorti. Così decorse il mese di aprile.

Nei primi giorni di maggio il governo mostrava nei suoi atti l'indecisione di chi comincia a sentire difficoltà più gravi della propria situazione, imperciocché mentre faceva chiudere la porta Montalto, e murare le finestre delle case rispondenti alla detta porta, toglieva lo stato di assedio, prometteva perdono a tutti coloro, che si sarebbero presentati volontariamente, lodava e ringraziava il popolo del contegno serbato, affermava le squadriglie sconfitte e disperse, ma pronunziava la pena di morte per chiunque si fosse trovato detentore di armi. Non pertanto si seppe, che il negoziante Langer aveva venduto 400 lime per ridursi in baionette e pugnali.

Ed al proclama del governo rispondeva un proclama del Comitato insurrezionale. — «Fratelli, esso diceva, noi vinceremo; vinceremo, perché uniti; «vinceremo perché combattiamo per la causa del giusto oppresso; tanta fede non è senza base. Non ci lasciamo illudere dalle vane e turpi promesse di perdono; il labro d'un gendarme voi sapete qual fede meriti ecc..»

  —  Ed in due Chiese, in quella dell'Olivella e nell'altra di S. Francesco, mentre il Prete benediceva il popolo, alcune voci si elevarono nel Tempio, gridando: — In nome di Dio viva la libertà! Viva l'Italia!

Così le cose peggioravano sempre dippiù. La notizia dell'insurrezione di Catania era pervenuta in Palermo, ed era ritenuta da ciascun partito nel senso più conforme alle proprie aspirazioni. Il Comitato insurrezionale non risparmiava i proclami, ed il partito nazionale non ometteva, quando poteva, le dimostrazioni. Fra queste le negative riuscivano senz'alcun pericolo. Il di 8 di maggio si stabilì, che il Cassero fosse rimasto deserto per tutto un giorno, e per quel giorno il Cassero fu quasi deserto. Ma poiché nell'esaltamento delle passioni è ben difficile di contenerle nei limiti della prudenza, il giorno 9 da una dimostrazione negativa si volle passare ad una positiva. Nelle ore pomeridiane e propriamente in quella designata un grandissimo numero di popolo affluì nella Strada Macqueda, proruppe in fragorose acclamazioni, che si comunicavano dall'uno all'altro come la scintilla elettrica. La forza pubblica fece fuoco, adoprò le daghe e le baionette; tre cittadini restarono uccisi, parecchi feriti, molti malconci e pesti. Due birri ed una spia vennero uccisi. La mattina seguente un nuovo tumulto avvenne nella Piazza di S. Francesco. Dei facchini gridarono libertà!; sei ne furono feriti, ma due birri ed un gendarme rimasero uccisi; al dopo pranzo a Ballerò il popolo con sassi e bastoni attaccò i birri. Erano appena sette giorni, che Salzano aveva detto tutto quietato, ed a farlo credere aveva tolto lo stato di assedio. Il governo di Napoli vi aveva prestato fede.

Nel rimanente della Sicilia gli animi non erano meno concitati di quello che Io fossero a Palermo, comunque gli atti insurrezionali si rimanessero meno pronunziati. Catania e Messina, le due altre grandi città dell'Isola, non lasciavano luogo a dubitare del loro spirito pubblico; il timore di compromettere interessi materiali molto gravi pesava moltissimo nelle determinazioni dei cittadini, ma il desiderio di scuotere un giogo, divenuto intollerabile, non era meno ardente di quello, che lo fosse in Palermo, tuttoché non si traducesse in atti così decisivi come colà. E tale era pure la condizione del rimanente dell'Isola. Si rinveniva ove più ove meno pronunziata l'espressione dell'avversione contro il governo, ma l'avversione era da per tutto, e se si manifestava più cauta nelle strade, si palesava concorde e senza ritegno nelle case. Tutti avevano compreso, che ogni speranza era ornai svanita. La reminiscenza delle promesse sempre ripetute e non mai osservate; la condizione tristissima delle cose e degli uomini, nei quali compendiavasi la pubblica amministrazione, offrivano uno sconfortante paragone con lo stato presente e le brillanti speranze future, che presentava il governo di Vittorio Emmanuele. I Siciliani non trovavano neppure nel municipalismo una obbiezione contro l'annessione all'Italia superiore e centrale, imperciocché essi erano una provincia di una monarchia assoluta, demoralizzata, vacillante, retta da una odiata influenza straniera, ed in preda di un inestricabile turbamento in tutti gli ordini dello stato, mentre mercé l'annessione divenivano parte importante di una monarchia costituzionale, che ha la stima di tutte le nazioni incivilite, ch'elevasi sulle più sode fondamenta degli Stati, l'amore e la divozione delle popolazioni, e che ha innanzi a sé il più brillante avvenire di prosperità e di potenza. La scelta non poteva essere dubbia. Il solo separarsi dalle provincie continentali era pei Siciliani un desiderio ardentissimo; separarsi per aggregarsi all'Italia doveva essere una passione, che assorbiva ogni altra.

Da per ogni dove adunque nell'Isola l'insurrezione aveva le simpatie universali. Le opinioni variavano sulle probabilità della sua riuscita, ma erano speranze o timori di conseguire o perdere un bene, da tutti ugualmente desiderato. La più parte dei Siciliani, come già l'abbiamo osservalo per Palermo, non s'illudevano sulle difficoltà gravissime da superare; moltissimi anche deploravano di essersi anticipato un fatto, che non ancora era maturo, e che poteva rimanere perciò compromesso; ma se tali considerazioni non generalizzavano la partecipazione fisica all'insurrezione, ne rafforzavano il sentimento, perché l'uomo si attacca più fortemente ad una sua predilezione quando la vede compromessa. Laonde ove mancava l'insurrezione manifesta stavano il desiderio, che essa riuscisse, il proponimento di coadiuvarla, e l'unanimità dei voti per lo scopo ch'essa si prefiggeva. Per tal modo l'ostilità delle popolazioni verso il governo era generale, se non che per motivi di calcolo e di prudenza non si manifestava con gli atti esterni, che nei confini indicati dai motivi sopradetti. Ora era evidente, che al diminuire o al cessare di tali motivi quelle aspirazioni si sarebbero palesate con l'accordo e l'energia di ogni sentimento, che si è stati obbligati di comprimere e di nascondere. Questa nuova fase dell'insurrezione siciliana non tardò molto a presentarsi.


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CAPITOLO VII

Garibaldi in Sicilia, Sbarco a Marsala.

SOMMARIO

L'insurrezione in Sicilia era un fatto, che si attendeva in Europa  —  Ma se ne presagiva breve la durata — Erano ignote le forze della insurrezione e note le regie — Inquietudini degl'Italiani — Difficoltà di una spedizione in Sicilia. — La resistenza degl’insorti la incitava  —  Garibaldi non esita ad intraprenderla — Sua lettera al Re  — Non si può dubitare dei sentimenti, ch'esprime. Scopo della spedizione — Altra lettera di Garibaldi ad un suo amico — Terza lettera a Bertani — Quarta lettera secondo la Presse — Pare, che Garibaldi abbia dapprima ceduto alle rimostranze del Re e di Cavour — Le crudeltà commesse in Sicilia lo decidono — Si dimette dal grado di Generale e dalla deputazione di Nizza — Scrive pei mezzi della spedizione a Caranti  —  Garibaldi a Quarto  — Se il Governo piemontese ignorasse veramente i preparativi della spedizione — Non pare che la favorisse — Embargo su di un legno destinato a partire — La coincidenza delle elezioni al Parlamento nazionale con la spedizione è un argomento per ritenere, che la nazione approvava la politica del Ministero — Insussistenza di un'opinione attribuita a Cavour — Probabile verità di quello, che dice l'Express di Londra  —  Imbarco la sera del 5 maggio 1860 — Entusiasmo della guarnigione di Genova per imbarcarsi — Proclama di Garibaldi ai soldati per trattenerli — Capi, che guidano la spedizione sotto Garibaldi — Le barche prendono il mare — All'Alba del giorno 6 la spedizione prende posto sul Piemonte ed il Lombardo — Garibaldi al comando del Piemonte — Nino Bixio al Lombardo — Sua biografia — I legami di famiglia non lo distolgono dai doveri di cittadino italiano — Organizzazione del corpo di spedizione — Ordine del giorno di Garibaldi — Ne sorge il vero scopo della spedizione  — Proclama agl'Italiani — Esso è pubblicato dall'Opinion nazionale di Parigi — La spedizione approda nel Porto di Talamone il giorno 7  —  Accoglienze cordiali; utile di quegli abitanti — Lettera da Talamone al corrispondente dell'Opinion nationale — Però erano ignoti in Europa i veri progetti di Garibaldi — Partenza da Talamone Fermata il 9 avanti S. Stefano — I due vapori prendono il largo — La navigazione procede cauta e guardinga. Energiche parole di Bixio — Si crede prossimo un incontro — Allarme del Lombardo la sera del 10 — La mattina degli 11 si sbarca a Marsala.

 Una insurrezione nelle provincie meridionali dell'Italia, era un fatto che si attendeva in Europa; i Gabinetti di Parigi e di Londra ne avevano fatto il punto di partenza delle loro esortazioni a quello di Napoli; i Gabinetti di Berlino e di Pietroburgo non avevano mancato di rafforzare le rimostranze dei due primi, e si era giunto perfino ad affermare, che il Gabinetto di Vienna avesse esso stesso esortato Re Ferdinando ad urtare meno violentemente il sentimento della pubblica opinione. Per la qual cosa quando scoppiò l'insurrezione in Palermo, si accolse come un fatto, che già si attendeva, e ciascuno aspettava con ansietà le conseguenze, che ne sarebbero emerse.

Ma i piccoli mezzi, coi quali si manifestava, e la resistenza potente, nella quale urtava, ne facevano presagire una non lunga durata. Era già meraviglioso, che un pugno di uomini, male armati, senza un capo, che tutti li rannodasse, e ne dirigesse i movimenti, potesse sostenere tanti speciali combattimenti, e spesso rendersi esso l'aggressore. Però l'insurrezione durava da un mese; le sue forze si logoravano, mentre le contrarie si rinnovavano sempre. Una insurrezione per non iscapitare nell'opinione pubblica sulla probabilità della sua riuscita ha il debito di proseguire con rapidi successi; se si rallenta, se è ridotta a difendersi, se nella difesa non si ringiovanisce con nuove forze, se lascia ai poteri già costituiti il tempo di raccogliersi e di attaccare, allora le probabilità della sua riuscita nell'opinione pubblica degradano successivamente, e questo stesso è un elemento di potere, che si volge a danno della insurrezione.

Questo processo morale si compiva nella rivoluzione sicula. Per quanto generale fosse il desiderio di vederla riuscire, i fatti erano però scoraggianti. Le forze insurrezionali erano più mistiche che reali; si argomentavano per induzione dalla resistenza, che opponevano, dalle percosse, che davano ai regii; gli uni le aumentavano, gli altri le diminuivano, il governo le diceva disperse, ma nessuno poteva dire asseverantemente quante fossero, quali mezzi effettivi avessero a loro disposizione, quale ne fosse il capo, che le rannodasse e le dirigesse. Per lo contrario sapevansi le forze formidabili dell'armata napoletana, vedevansi giornalmente le spedizioni dei copiosi istromenti di guerra, era incessante lo sviluppo e l'armamento della marina.

Tutto ciò si vedeva con inquietudine, e gli animi italiani scorgevano essere quello un momento solenne, che doveva avere o in un senso o in un altro un grandissimo risultamento nella rigenerazione nazionale. Bisognava dunque porgere efficaci e pronti aiuti alla insurrezione siciliana, ma con quai mezzi e con quali probabilità di successo? Quando la spedizione di Sicilia si esamina sotto questo rapporto, non si può fare a meno di paragonarla ad una delle più ardite e più temerarie imprese dell'istoria antica e moderna. Egli è impossibile di trovare una maggiore esaltazione del sentimento nazionale e della confidenza, ch'esso inspira, quando si collega a quella specie di culto, che si ha pel capo, che dirige la impresa. Un pugno di uomini buttati sopra due vapori dovevano eludere la vigilanza delle numerose navi borboniche, che guardavano le coste dell'Isola, e riusciti a sbarcare senza essere distrutti o fatti prigioni, bisognava poi indispensabilmente o vincere o morire. Ogni ritirata era impossibile; era d'uopo combattere sempre, avanzandosi, o si era perduti. Se il prestigio dello sbarco cessava, e se la spedizione appariva nei suoi ristretti elementi, che la componevano, il risultamento ne sarebbe stato fatale, tal era l'enorme sproporzione nei mezzi materiali di offesa e di difesa dei combattenti. Siffatte considerazioni o non si presentarono alla mente di quei prodi, o se si presentarono, non valsero a distorli da un proponimento, che procedeva da una necessità fatale, che escludeva ogni raziocinio sulla convenienza.

La disperata resistenza però degl'insorli era di grande incitamento a quella impresa. Le notizie erano contradittorie su i successi della insurrezione, ma è naturale, che gr Italiani ritenessero come vere quelle, che la favorivano. I dispacci del governo napoletano non riscuotevano veruna fede, neppure quando dicevano il vero, ed in realtà poi le armi borboniche non avevano riportato veruno decisivo successo, per lo quale avesse potuto dirsi colpita al cuore la insurrezione. Questa reggeva, e tal fatto era importante, perché veduto da lontano e connesso con la predisposizione degli animi contro il governo, assumeva proporzioni molto maggiori delle reali. Questo era il solo fatto, che determinava la fiducia della spedizione.

Garibaldi era in Caprera, con l'animo esacerbato dal fine, che aveva avuto la guerra italiana, e sopratutto dalla cessione della sua terra natale. La insurrezione di Sicilia rianimava un fuoco, che i preliminari di Villafranca avevano spento; la forza delle armi strappava anche una volta alla diplomazia la privativa di comporre a suo modo la quistione italiana; gl'Italiani ricominciavano ad aggiustarla da loro; il momento era solenne: la disparità delle forze lottanti rendeva urgente un intervento italiano. Codesti motivi erano più che sufficienti per determinare ad intervenirvi colui, che nel 1848 aveva sentito da oltre l'Atlantico il grido dei combattenti italiani.

Niuno meglio dello stesso Garibaldi può dire i motivi, che lo determinarono a quella risoluzione.

«Sire! — scriveva egli al Re. —

«Il grido di affanno, che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d'arme. Io non ho consigliato il movimento insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia, ma dal momento, ch'essi sono sollevati a nome dell'Unità italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannia dell'epoca nostra, non ho esitato di mettermi alla testa della spedizione. So bene, che m'imbarco per una impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio, e nella devozione dei miei compagni.

«Il nostro grido di guerra sarà sempre: Viva l'unità italiana! Viva Vittorio Emanuele suo primo e più bravo soldato! Se noi falliremo, spero che l'Europa e l'Italia liberale non dimenticheranno, che questa impresa è stata decisa per motivi puri affatto da egoismo ed interamente patriottici. Se riusciremo, sarò superbo di ornare la corona di Vostra Maestà di questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia, che Vostra Maestà si opponga a ciò, che i di lei consiglieri non cedano questa Provincia allo straniero, come hanno fatto della mia terra natale.

«Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà, perché temeva in fatti, che per la riverenza, che le professo, Vostra Maestà non riuscisse a persuadermi di abbandonarlo.

«Di Vostra Maestà, Sire, il più devoto suddito.

«Garibaldi.»

La proverbiale onestà del carattere di Garibaldi è garante della verità dei sentimenti, ch'esprime. Anche per lui l'insurrezione siciliana era immatura; egli non l'aveva consigliata, ma fatta, non bisognava lasciarla perire. Conosce la grave difficoltà dell'impresa, ma il pericolo, cui egli ed i suoi compagni si espongono, non distrugge il dovere di accorrere in aiuto d'Italiani, che combattono contro il dispotismo. Ecco il concetto morale e politico della spedizione. Lo scopo è nel grido di guerra: «L'unità italiana sotto la Monarchia costituzionale di Vittorio Emmanuele».

Tal è la spedizione, che non si ebbe onta di chiamare di Filibustieri! Tanto costa il disavvezzare l'Europa a riguardare l'Italia come tutt'altro, che una nazione! Tanto ci vuole a rovesciare quella specie eccezionale di diritto pubblico internazionale, che si edificò per l'Italia, e tanto è difficile ad affrancarla dalla tutela, cui le sue dissensioni la sottoposero! Altra lettera con la data del 4 di maggio Garibaldi aveva scritto ad un suo amico:

«Caro Amico;

«Il giorno, in cui riceverai queste righe, io sarò ben lontano sul mare.

«L'insurrezione siciliana porta nei suoi fianchi i destini della nostra nazionalità. Io vado a dividere la sua sorte; io alla pur fine vado a ritrovarmi sul mio elemento, mettendo l'azione al servizio di una grande idea.

«Non bisognava di meno per rilevare il mio coraggio tra mezzo le decezioni di ogni sorta, delle quali sono abbeverato.

«Che non si gridi all'imprudenza, ma si attenda. Io sono pieno di speranza e di confidenza. La nostra causa è nobile e grande, e unità dell'Italia, il più caro sogno e l'aspirazione di tutta la nostra vita. Che i venti ci siano propizii!

«Castiglia e mio figlio sono con me, ed essi ti abbracciano. Tu sei del piccolo numero degli amici, ai quali ho voluto stringere la mano e dire Addio prima di partire.

«Tutto a te.»

«GARIBALDI.»

Ed altra lettera con la data del 5 maggio scriveva a Bertani.

«Genova 5 maggio

«Mio caro Bertani  — 

«Chiamato di nuovo sulla scena degli avvenimenti della Patria, io vi lascio la seguente missione:

«Riunire tute i mezzi, che vi saranno possibili per aiutarci nella nostra intrapresa.

«Fare comprendere agl'Italiani, che se vicendevolmente ci aiutiamo con zelo e devozione, l'Italia sarà fatta in poco tempo e con poca spesa; ma che eglino non avranno compito il loro dovere quando si saranno limitati a prendere parte a qualche sterile sottoscrizione. Che l'Italia libera sin da ora invece di 400,000 soldati, deve armarne 500,000, numero, che non è certamente in disproporzione con la sua popolazione, e ch'è quello degli Stati vicini, che non debbono conquistare la indipendenza. Con una tale armata l'Italia non avrà più bisogno di patroni stranieri, che la divorano a poco a poco sotto pretesto di liberarla. Che da per ogni dove gl'Italiani combattano gli oppressori; bisogna incoraggiare i bravi, e provvederli di quanto è necessario pel loro cammino. Che l'insurrezione siciliana dev'essere aiutata, non solamente in Sicilia, ma da per tutto, ove vi sono nemici da combattere. Io non ho consigliato la insurrezione di Sicilia, ma ho creduto essere del mio dovere d'aiutare i nostri fratelli nel momento, in cui sono venuti alle mani. Il nostro grido di guerra sarà: Italia e Vittorio Emmanuele! Spero, che anche questa volta la bandiera italiana non riceverà affronto.

«Vostro affezionato

«G. GARIBALDI

Secondo un corrispondente della Presse un'altra lettera avrebbe scritto Garibaldi, nella quale rivela essere stato in procinto di confidare il suo segreto al Re:

«Io fui sul punto di confidarmi al Re. Ammetteva egli stesso con la sua ammirabile franchezza, che per essere una l'Italia ha bisogno di uscire dalle imputridite vie del diplomatismo ministeriale. Nè io andava per lo momento più lontano. Io aveva il progetto di prevenirlo alcuni giorni prima della mia partenza, ma bisognava andare a Bologna, e per verità non ne avrei avuto il tempo. D' altronde ti dirò, che ho creduto più prudente di non farne nulla. Egli mi avrebbe dissuaso, ed io non avrei potuto resistere ad un ordine da parte di questo Re unico e perfetto. Non ho potuto pensare senza essere trasportato, che i Siciliani ci chiamano da un mese, ed io ho sopratutto...» —

La corrispondenza termina in questo punto.

E veramente secondo il Morning-Post Garibaldi sarebbe partito parecchi giorni prima, ma il Conte Cavour avrebbe usato ogni modo per dissuadernelo, ed il Generale avrebbe in fine ceduto alle osservazioni del Gabinetto di Torino, ed anche a quelle del Re. Ma le notizie arrivate a Genova delle crudeltà commesse dalle truppe napolitane in Sicilia avevano risolutamente determinato Garibaldi ad abbandonare il suo grado nell'armata e la deputazione di Nizza, ed a rischiar tutto per andare a vendicare gli assassinii ed i saccheggi commessi anche a danno delle inermi popolazioni. Era impossibile, che i motivi, per quanto fossero fondati, di una fredda politica prevalessero in quell'animo generoso e patriottico sulle voci dell'umanità e dell'indegnazione.

Esso dunque è deciso a partire per quanto gravi si fossero le eventualità, alle quali si esponeva. Si dimette dal grado di Generale dell'armata piemontese, e rinunzia alla Deputazione di Nizza; e provvedendo ad assicurare per quanto fosse possibile i mezzi indispensabili a quella tanto difficile impresa, scrive un'altra lettera il 5 di maggio 1860 al signor Biagio Caranti suo amico.

«È quasi certo, che partiremo questa notte per il mezzogiorno. in questo caso io conto con ragione sull'appoggio vostro. Io ?on consigliai il moto della Sicilia, ma credetti dovere accorrere ove Italiani combattono oppressori. Io sono accompagnalo da uomini ben noti all'Italia, e comunque vada, l'onore italiano non sarà leso.

«Ma oggi non si tratta del solo onore, bensì di rannodare le membra sparse della famiglia italiana per portarla poi compatta contro più potenti nemici.

Il grido di guerra sarà Vittorio Emularmele e l'Italia.

«lo assumo la responsabilità dell'impresa, e non ho voluto scrivere al Re né vederlo, perché naturalmente mi avrebbe vietato di operare ().

«Vedete tutt'i nostri amici; che ci aiutino a dare al popolo italiano la sublime scossa, di cui è capace certamente, e che deve emanciparlo.

«Non si tocchi al prode nostro esercito, ma quanto v'è di generoso nella nazione si muova verso i fratelli oppressi, e questi marceranno e combatteranno per noi domani.

«Oro, uomini, armi, Italia tutto possiede.

«Presto avrete notizia di noi.

«Vostro servo G. GARIBALDI.»

La soscrizione pel milione dei fucili provvede alle prime spese della spedizione. Intanto Garibaldi è in Quarto. È questo un ameno paesello sulla spiaggia del mare a quattro miglia circa da Genova sulla spiaggia orientale; è mite pel clima, ricco per vegetazione e bella coltura; epperò la famiglia Spinola l'aveva prescelto per sito di villeggiatura. Quivi Garibaldi si era recato in vista di riposarsi dalle fatiche della guerra e dai dispiaceri derivati degli avvenimenti, che avevano contrariato le sue aspirazioni. Quivi fu segretamente organizzata la spedizione.

L'ignorava il governo piemontese? Pare difficile, quando oltre 1000 persone convenivano in Genova ed in quei dintorni per imbarcarsi. Il sig. Pier Carlo Boggio in un Opuscolo scritto in settembre 1860, ed intitolato Cavour o Garibaldi? pare, che ritenga il governo consapevole di quel movimento. — «Oh! quando il governo non ha voluto, che le spedizioni si facessero, non si sono fatte. Ve lo dicano per tutti e lo Zambianchi, il quale in questi giorni stessi protesta per i pubblici fogli contro la sua prigionia, ed il Nicotera, che vomita contumelie per le disciolte coorti di Castelpucci.» ().

Pure non si può dire, che se il governo non credè o non potè impedire la spedizione, l'abbia per lo contrario favorita. Il che diciamo non per fatti, che conosciamo ma per raziocinio. Egli è indubitato, che nel momento, in cui partì, la spedizione offriva ben più argomenti di timori che di speranze, ed intanto s'essa mancava, la posizione del Gabinetto di Torino sarebbe stata delle più difficili, giacché si sarebbe trovato in mezzo di due imponentissime esigenze, quella della opinione pubblica italiana, che si sarebbe immensamente commossa ai disastri di tanti generosi patriotti con Garibaldi alla loro testa, e quella della diplomazia della intiera Europa poggiala sulle regole più comuni del dritto delle genti. Non v'ha governo, che non avrebbe dovuto schivare un'eventualità così pericolosa e tanto inestricabile. Lo stesso Garibaldi l'aveva compreso quando aveva dichiarato di prendere su di sé la responsabilità di quel fatto, ma se era sua la responsabilità del fatto, era impossibile, che non avesse il governo la responsabilità dei provvedimenti, che in caso di rovescio tutta l'Italia avrebbe dimandato.

Una corrispondenza della Patrie in data del 2 di maggio da Torino narrava, che le società segrete avendo preparata una spedizione per la Sicilia, avevano noleggiato un legno, e 500 uomini con 1000 fucili dovevano imbarcarvisi; ma che il governo avendolo saputo, ed avendo compreso la gravità di una così flagrante aggressione contro una potenza, con la quale non si era in guerra, aveva impedito la partenza della nave, che doveva abbordare nel sud di Catania.

Noi riferiremo in prosieguo le giustificazioni dei fo gli ministeriali contro le imputazioni, ch'erano fatte al Gabinetto di Torino, quando fu noia in Europa la spedizione di Garibaldi, ma rileviamo sin da ora un fatto, che ha per sé stesso una indiscettabile significazione politica.

Nei tempi, in cui preparavasi ed eseguivasi la spedizione, facevansi nel territorio del nuovo reame le elezioni per la Camera elettiva. È impossibile di ritenere, che quelle popolazioni fossero per principio avverse o indifferenti alla spedizione, ed il modo come vennero accolte le prime notizie, che si diffusero, l'entusiasmo, che si manifestò, quando si conobbe lo sbarco in Sicilia, l'ansia ed i voti, che si facevano, onde riuscisse a compiere il suo programma, non permettono di dubitare anche ai più scettici dell'interesse gravissimo, che la nazione vi associava. In tanto le elezioni riuscirono favorevoli al Ministero, e riuscirono tali quando appunto dovevano essere l'espressione dell'approvazione o della riprovazione della politica, che avea seguito. La nazione adunque prediligeva la spedizione ed approvava la condotta del Gabinetto relativamente ad essa: il che vuol di re, che il senno pratico delle popolazioni italiane aveva saputo discernere la linea di condotta, nella quale si era messo il Conte Cavour, come la più pro pria a conciliare le imperiose ed opposte esigenze del dritto internazionale e della causa nazionale.

Però ciò prova come fosse difficile e scabrosa la posizione del Ministero; forse non mai un uomo di Stato si è trovato in una condizione più delicata e più pericolosa!

E ciò prova ancora come sia infondata quella opinione, per la quale si è scritto, non avere Cavour sinceramente impedita la spedizione di Garibaldi, perchè ne prevedeva le difficoltà così gravi, che o il Capo della spedizione non ne sarebbe tornato, o ne sarebbe tornato così discapitato da cessare di essere un avversario pericoloso pel Capo del Ministero. No; lo svolgimento dell'opinione pubblica in Italia sulla ripetuta spedizione ha chiaramente dimostrato, che i disastri di Garibaldi in Sicilia sarebbero stati ritenuti come disastri di tutte le popolazioni italiane; le vittorie delle truppe regie come vittorie ottenute sui soldati italiani, la compressione della insurrezione come l'annichilamento della causa nazionale; ed abbiamo già detto, che il governo piemontese si sarebbe trovato tra la rivoluzione ed una invasione in Sicilia. I fatti posteriori hanno comprovato siffatte previsioni.

Epperò è molto più logico quello, che il 6 di maggio si scriveva da Genova all'Express di Londra: «I diversi distaccamenti erano disseminati sui diversi punti in una distanza di 4 o 5 miglia lungo la costa. La concentrazione di un corpo importante di truppe su di un dato punto è stata evitata per risparmiare nuovi imbarazzi al governo, che ha chiuso gli occhi su tutto ciò, che ha fatto Garibaldi da tre settimane, ma la cui simpatia naturalmente non poteva prendere una forma più precisa.

«Comunque sia la sera del 5 maggio tutti coloro, che dovevano partire, erano riuniti sulla spiaggia, ed attendevano l'imbarco. V'erano andati a piccoli gruppi e per diverse vie. Tutto era silenzio. Nessun canto, nessun grido, nessun evviva. Pochi e fidi amici li accompagnavano, come a grave, perigliosa e secretissima impresa si conveniva. Un bacio, un sorriso, una stretta di mano furono i soli congedi; muto e solenne ricambio di affetti !

«Taluno non reggendo a rimanere inoperoso, nell'ansia dell'aspettare, salta nel battello, e parte senza altro dire, involandosi quasi all'addio dei suoi. Tal altro incaricato nella giornata di esigere danaro di ragione della propria famiglia, tiene per sè una piccola porzione, e rimanda la somma a casa con un Saluto. Un altro, che si era recato a vedere l'imbar c0 in abito di città, consegna ad un amico le chiavi del suo ufficio, perchè sieno rimesse il domani ai capi della sua amministrazione, manda una parola a suo padre, alla sua famiglia, e parte.... ohimè !.... per non più ritornare.» ()

Era stato d'uopo di chiudere nelle caserme tutta la guarnigione di Genova per impedirle di disertare e di arrollarsi per imbarcare. Tale predisposizione aveva suggerito a Garibaldi il seguente proclama:

«Soldati italiani !

«Per molti secoli la discordia e l'indisciplina sono state la causa delle grandi sventure del nostro paese. Ora per lo contrario la concordia, che regna fra tutte le popolazioni dall'Alpi alla Sicilia, è vera mente degna di ammirazione. Però la nazione manca ancora di disciplina; la nazione dunque conta su di voi per riorganizzarsi, e presentarsi forte ed unita in presenza di coloro, che vogliono incatenarla.

«Sicché,  giovani, restate ne vostri ranghi! Voi che avete sopravvivuto alle battaglie nazionali, ricordatevi, che anche nel nord abbiamo dei nemici e dei fratelli, che sono schiavi; ricordatevi pure, che le popolazioni del sud una volta sbarazzate dai mercenarii del Papa e dei Borboni, avranno bisogno dei vostri battaglioni ben disciplinati per affrontare nuovi pericoli.

«Nel nome della Patria, che rinasce, io raccomando dunque alla gioventù, che fa parte della nostra valorosa armata, di non abbandonare le sue file, ma per lo contrario di stringersi semprepiù dintorno ai coraggiosi uffiziali e d'intorno questo Vittorio, la cui bravura può essere talvolta rattenuta da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà a condurci tutti ad una vittoria, che terminerà i nostri lutti.

«Giuseppe Garibaldi.»

Sotto il comando di Garibaldi guidano quella piccola armata, Nino Bixio, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Cairoli, Thurr, ciascuno dei quali comandava una compagnia. Sirtori era il capo dello Stato-maggiore; vi erano Crispi, Manin, Calvino ed altri, col figlio primogenito di Garibaldi Menotti; pel servizio di mare vi era particolarmente Salvatore Castiglia, e vi erano pel servizio sanitario Ripari, Baldrini, e Giulini.

Erano già decorse le dieci ore pomeridiane, quando alcune barche si accostarono alla riva. Tutta quella gente s'imbarcò con ordine ed in silenzio, e le barche presero il largo. Allontanate di poche miglia dalla spiaggia, si fermarono, attendendo i vapori. In quella sosta coloro, ch'erano nella medesima barca cominciarono a conoscersi, e l'un l'altro narrando i suoi casi precedenti, si animavano all'impresa, che andavano a tentare, e s'impegnavano a vicenda di non mancarvi, comunque la più parte n'ignorasse le circostanze ed i mezzi, e solamente li guidasse la fiducia e la confidenza nei capi. V' erano di coloro, che avevano fatta la campagna del 1859; v'erano degli altri, che tentavano la prima pruova, ma e gli uni e gli altri credevano, che con Garibaldi si avesse sempre da conseguire o la vittoria o la gloria.

L'alba del giorno 6 era per apparire, quando si vide una face, che mutando mano mano il colore, faceva succedere al bianco il rosso, ed al rosso il verde. Era quello il segnale dei vapori, che si accostavano. Due vapori della Società Rubattino, il Piemonte ed il Lombardo, erano stati occupati di nascosto, commettendosi alla Nazione di compensarne i proprietarii. Su questi due legni s'imbarcò la spedizione. Del Piemonte prese il comando Garibaldi; del Lombardo Nino Bivio.

Garibaldi non ha più bisogno di articoli biografici; il suo nome e la sua vita sono noti al mondo. Nel vederlo al comando del vapore la confidenza dell'equipaggio sempre più si accresceva, e Montevideo era nella bocca o nella mente di ognuno.

Nino Bixio aveva allora 39 anni; era nato in Genova nel 1821 da un'antica famiglia di orefici. Nell'antica costituzione della Repubblica genovese gli orefici formavano un ceto, avevano una contrada propria, che tuttavia ne serba il nome, con ordinamento, statuti, e magistrati proprii. In quel celo la famiglia Bixio aveva occupato un posto distinto per probità ed industria, i due più belli titoli, che nobilitano l'uomo. Nino era l'ultimo di una numerosa famiglia, e si diè al mare, sì che fatti i necessarii studii e viaggi di pratica, fu ricevuto Capitano. Intanto suo fratello Alessandro s'illustrava in Francia come pubblicista.

Nino Bivio amava l'Italia ardentemente, onde scoppiata la guerra del 1848, andò volontario in Lombardia. Entusiasta ammiratore e divoto amico di Garibaldi, lo segui in Roma, ove combatté e fu ferito. Amava Giorgio Mameli con affetto fraterno; morto questo e caduta Roma, Bivio rimase colpito nelle sue più care affezioni, e ritornò in Genova. Sentendo il bisogno di grandi distrazioni, fece costruire negli scali di Sestri un piccolo ed elegante Brick, cui diè il nome del suo amico. Su questo legno imprese nel 1851 a fare il giro del globo; fu in Australia, e visitò altre lontane regioni.

A Genova prese moglie e divenne padre di due figli, ma questo nuov'ordine di sacri doveri non lo distolse dall'adempimento dei suoi doveri pubblici; che anzi divenuto padre, sentì maggiormente gli obblighi di cittadino, perciocché l'avvenire dell'Italia collegavasi necessariamente con l’avvenire dei suoi figli. Cominciò dall'immolare sull'ara della patria le proprie opinioni. Come Garibaldi era egli repubblicano, ma come per Garibaldi la repubblica era per lui il mezzo da conseguire l'unità e l'indipendenza italiana; sì che quando si convinse potersi l'una e l'altra ottenere dagli ordini politici più in armonia con le abitudini del tempo, fece sincera adesione alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emmanuele. Rotta la guerra del 1859, Bixio fece tutta la campagna di Lombardia in qualità di Maggiore nella brigata dei Cacciatori delle Alpi. Ripatriatosi dopo la pace, fu portato dal voto popolare nel consiglio municipale; e comunque avesse potuto ottenere un grado nell’esercito nazionale, preferì di rimanere libero a disposizione del Generale,cioè di Garibaldi. Così al primo invito, lasciò la famiglia, e partì con la spedizione siciliana. Come si scorge, il comando del Lombardo era bene affidato.

E la spedizione navigava. Il mare era tranquillo, tranne il secondo giorno, nel quale fu leggermente agitato, però quanto bastava per provocare le solite sofferenze dei navigatori non avvezzi a navigare. Intanto si occupavano i capitani dell'organizzazione del piccolo esercito, e destinati i capitani delle compagnie, furono invitati i volontarii di ciascuna compagnia a scegliere fra essi quello che loro meglio piacesse. Ottimo divisamento per accrescere con la mutua confidenza la forza del corpo. Compita l'organizzazione, fu letto il seguente ordine del giorno:

«7 maggio, a bordo del Piemonte.

Ordine del giorno,

Corpo dei Cacciatori delle Alpi.

«La missione di questo corpo sarà basata, com'essa già lo fu, sulla più completa abnegazione in vista della regenerazione della patria. I bravi cacciatori servirono e serviranno il loro paese con la divozione e la disciplina dei migliori corpi militari senz'altra speranza, senz'altra pretensione, che quella di una coscienza senza macchia.

«Questi bravi non furono allettati da veruno onore, da verun grado, da veruna ricompensa; il pericolo disparve, ed eglino rientrarono nella modestia della vita privata; ma nel suonare l'ora del combattimento, l'Italia li rivede di nuovo in prima linea, allegri, pieni di volontà, e pronti a versare il loro sangue per essa. — Il grido di guerra dei cacciatori delle Alpi è lo stesso di quello, che risonava, or è un anno, sulle sponde del Ticino: — L'Italia e Vittorio Emmanuele! — E, gettato da noi, questo grido, produrrà da per tutto lo spavento nei nemici della Italia.

Organizzazione del Corpo.

«Sirtori Giuseppe Capo dello Stato maggiore. Crispi, Manin, Calvino, Majouki, Griziotti, Boichetta, Bruzzisi.

«Thurr, primo aiutante di Campo del Generale.  — Cenni, Montanari, Bandi, Stagnetti.

«Giovanni Basso Segretario del Generale.

Comandanti delle Compagnie

«Nino Bixio comandante la la compagnia.

«Orsini  2a

«Stocco  3a

«La Masa 4a

«Anfossi 5a

«Carini 6a

«Cairoti 7a

Intendenza

Acerbi, — Bovi, — Maestri, — Rodi.

Corpo dei Medici

Ripari, Boldrini, Giulini.

Osservazione

«Questa organizzazione è la stessa di quella dell'armata italiana, alla quale noi apparteniamo, ed i gradi, dati al merito più che al privilegio, sono quelli, che già sono stati acquistati su altri campi di battaglia.

«Sottoscritto — GARIBALDI.»

Nella pubblicazione di quest'ordine del giorno cessarono le dicerie e le incertezze, che si erano sparse sullo scopo della spedizione, e seppe ognuno quale indrizzo intendevasi darle col soccorrere alla insurrezione siciliana.

Pubblicò inoltre Garibaldi il seguente proclama:

«Italiani!

«I Siciliani si battono contro i nemici dell'Italia; soccorrerli con l'oro, con le armi, e sopratutto col braccio è il dovere di ogn'Italiano.

«Ciò che ha prodotto la sventura della Italia, è stato lo spirito di discordia; è stato ancora l'indifferenza di una provincia per la sorte dell'altra.

«La salute dell'Italia è cominciata nel giorno, in cui i figli della stessa terra sono corsi al soccorso dei loro fratelli in pericolo.

«Se noi abbandoniamo a loro stessi i bravi figli della Sicilia, essi avranno da combattere i mercenarii del Borbone, e dippiù quelli dell'Austria e quelli del Prete, che regna in Roma.

«Che i popoli delle Province libere elevino alta la voce in favore dei loro fratelli, che combattono! Che mandino la loro generosa gioventù là, ove si lotta per la patria!

«Che le Marche, l'Umbria, la Sabina, la Campagna di Roma, il paese napoletano insorgano a fine di dividere le forze dei nostri nemici.

«Se le città non offrono all'insurrezione una sufficiente base, i più risoluti si gettino per bande nelle campagne.

«Un bravo trova da per tutto delle armi. Nel nome di Dio non ascoltate più la voce dei vili, che si spassano innanzi di una tavola ben guarnita.

«Armiamoci; combattiamo pei nostri fratelli: domani combatteremo per noi.

«Un pugno di bravi, che mi seguirono su i campi di battaglia della patria, marcia con me alla riscossa. L'Italia li conosce; essi compariscono, quando suona l'ora del pericolo. Buoni e generosi compagni. Essi consacrarono la loro esistenza alla patria; essi le daranno l'ultima goccia del loro sangue, non cercando altra ricompensa, che quella della loro intemerata coscienza.

«Italia e Vittorio Emmanuele; questo era il nostro grido di guerra nel passare il Ticino; esso risuonerà sino alle rocche infiammate dell'Etna.

«A questo profetico grido del combattimento, ripetuto dai grandi monti dell'Italia sino al Monte Tarpeo, crollerà il trono vacillante della tirannia, e tutti insorgeranno come un sol uomo.

«Alle armi dunque! Terminiamo con un sol colpo le nostre secolari miserie; proviamo al mondo,ch'è ben su questa terra, che ha vivuto la forte razza romana.

«G. GARIBALDI.»

Questo proclama era pubblicato dall'Opinion nationale di Parigi, che l'aveva ricevuto da un suo corrispondente; essa l'aveva tradotto in francese, e noi lo riproduciamo in italiano; sì che non sarebbe da sorprendersi, se la locuzione non fosse esattamente riprodotta; ma i pensieri debbono essere gli stessi.

Il proclama era unito ordine del giorno; niun dubbio v'ha su di quest'ultimo, per cui non pare, che ve ne possa essere alcuno sull'altro. Del rimanente nulla v'ha nel proclama, che non risponda ai concetti ed alle opinioni dell'ardito capo di quella arditissima spedizione, se non che redatto in termini, che doveva maggiormente allarmare la diplomazia europea, è naturalissima la riserva, che per esso s'impose la stampa italiana.

Il male di mare aveva sconcertato moltissimi, per cui fu d'uopo, che il giorno 7 alle 9 la spedizione ancorasse nel porto di Telamone. Messo piede a terra, ciascuno si riebbe; fatta la rassegna si trovarono in tutto 1070 volontarii, dei quali 710 lombardi, 360 delle antiche province piemontesi, la maggior parte liguri; tra questi vi erano 35 carabinieri genovesi, che aggregatisi alla compagnia di Bixio, passarono sul Lombardo.

In Telamone furono distribuite le razioni; si ebbe carne, pane, e vino. La pubblica piazza fu improvvisata a cucina, e cotte le vivande, tutti mangiarono come a fraterno banchetto; indi accesi dei fuochi, perché la notte era rigida, tutti sdraiati sul suolo, saporitamente dormirono. All'alba degli 8 le trombe interruppero il sonno.

Telamone è abitata per la maggior parte da pescatori; la pesca è la loro principale industria, perché la terra dà ben poco. Quei paesani affermarono non essere mai sbarcata tanta gente nel loro porto; per lo che accogliendo i volontarii con grandissima cordialità, ne ritrassero però il loro utile, e furono contenti di cambiare le loro piccole provviste col danaro; è ben da credere, che questo mercato non fu a loro danno; però se la spedizione avesse dovuto trattenersi un giorno dippiù, non sarebbe stato sì facile di rinvenire l'occorrente per vivere.

Da Telamone scrivevasi al corrispondente del citato giornale francese:

«7 maggio 1860.

«Profitto di un breve momento per darvi notizie di noi. Il nostro imbarco dové farsi di notte ed in fretta, si che mancando di molte cose della maggiore necessità, siamo stati obbligati di prender terra nei dintorni di questa fortezza, d'onde potremo con l'aiuto dei circostanti villaggi procurare di provvedere al più necessario. Il mare era agitato; noi abbiamo sofferto senza essere però abbattuti, e speriamo bentosto di vedere sani e salvi le coste della Sicilia, e ravvivare al grido di: Vira l'Italia unita! il combattimento per la sua libertà.

«Il Generale non ha punto sofferto. A traverso del mio malessere io lo invidiava, menti egli faceva un momento il capitano ed un altro il timoniere.»

Nonostante però tali corrispondenze si era sempre male informato dei progetti di Garibaldi. — «Dopo la data di questi documenti, scriveva il ripetuto corrispondente, il ministero sardo ed il comitato di soccorso agl'insorti, hanno saputo, che Garibaldi si sarebbe immediatamente imbarcato per discendere un poco più lontano, a Torre di Montano, sulla frontiera degli Stati Romani a fin di prendere immediatamente per quanto si suppone, la strada, che passa tra Viterbo ed Orvieto, e marciare sugli Abruzzi.

«Sarà forse tutta la spedizione, o solamente una parte, che si getterà da questo lato per provocare un sollevamento ed operare una diversione, mentre il rimanente, come sembra indicarlo la lettera sopra trascritta, farà vela verso la Sicilia?

«Ciò sapremo da un avvenire molto prossimo. Quello, che ora sembra certo o per lo meno molto probabile, è l'esclusione del piano, secondo il quale la spedizione avrebbe sbarcato in Calabria.

Queste notizie, comunque non vere, mantenevano però da per tutto una certa agitazione, che favoriva la causa dell'insurrezione. Nel fatto, all'approssimarsi del tramonto del giorno 8 alcune barche da pesca, andarono ad imbarcare la truppa per ricondurla ai due vapori. La mattina del 9 la spedizione si fermò innanzi S. Stefano per approvigionarsi di acqua e carbone; alle 3 p. m. lasciò la spiaggia toscana, e si dirizzò alla volta della riviera di Civitavecchia.

«Fino allora, scrive un volontario, del quale seguiamo la relazione, fino allora avevamo sempre viaggiato in vicinanza della terra, perché eravamo prossimi agli Stati nostri, e nessun disastro ci poteva cogliere, ma avvicinandoci allo Stato pontificio, ci scostammo dalla spiaggia, e ci recammo in alto mare. Là fra l'acqua ed il cielo i nostri legni procedevano soli, portandoci celeremente alla volta delle sicule contrade, mentre i frizzi ed il buon umore erano con noi. Il pianoforte suonato da un giovine bersagliere accompagnava le nostre voci, che ripetevano in coro le canzoni di guerra della passata campagna; quei canti erano portati dal vento sulle tranquille acque, ma nessun'eco li ripeteva! Oh se quelle voci avessero potuto risuonare fino sulle vette dei monti di Trinacria, i generosi siciliani avrebbero raddoppiato il loro ardore nella lotta contro i mercenarii del tiranno, avrebbero fin d'allora aperto l'anima alla fede di un fraterno soccorso!

Nel cammino di mare i giorni si succedono uniformi e monotoni; la navigazione procedeva cauta e guardinga, epperò lenta e noiosa. Ad ogni sorgere  del Sole, sorgeva con esso il pensiero, che non si sarebbe coricato senza scoprire la terra, ma il tramonto veniva, e non si vedea, che il mare; se non che talvolta delle lontane nubi si scambiavano per monti e producevano una breve illusione, ch'era caramente pagata con un crudele disinganno. Sapevasi per altro di non essere molto lontani dalle sponde napoletane, e se ne fu più certi quando Bixio vietò i canti ed i suoni, e raccomandò la quiete ed il silenzio. Egli aveva inoltre raccomandato, che all'avvicinarsi di qualunque nave avessimo dovuto tutti chinarci a terra, onde non dare indizio del numero degli uomini ch'erano a bordo. E siccome l'imposto silenzio non era rigorosamente osservato, egli convocò tutti gl'imbarcati sul Lombardo, e disse.

«Noi abbiamo giurato di andare in Sicilia, lo vogliamo, e ci anderemo, ma bisogna, che ognuno di voi si sottoponga ai miei voleri; bisogna, ch'io sia ubbidito come un Dio. Dichiaro, che userò la violenza, ove sia necessaria, perché i miei ordini siano eseguiti.»

Queste energiche parole rivelavano l'animo fermo del comandante, ma attestavano ancora, che l'ora del pericolo si approssimava. E questa induzione divenne anche più logica, quando si videro distribuire le armi e le munizioni. — «Se fossimo incappati nella a crociera, dice l'autore della già citata relazione, privi com'eravamo di artiglieria, non ci restava altro, che avvicinarci al primo vascello nemico, ed entrarvi a baionetta; era un disperato partito, ma non restava altra via di salvezza.»

  —  Questo pensiero era forse il pensiero di quegli animosi nel ricevere le armi, e nell'indurne vicino il momento del cimento.

Il Lombardo molto più grande del Piemonte, era però molto meno corridore di questo. La sera del 10 il Lombardo era rimasto solo, quando nella notte si vide al sud, nella via precisamente, che si doveva seguire, una fiammella, che si avanzava verso il vapore. Era evidentemente un legno, che veniva incontro, perché la fiammella si avvicinava e diveniva più distinta; due altri lumi si vedevano ad oriente. Bixio ordinò si spegnessero i fanali del Lombardo, e chi era desto era intento con una certa trepidazione a quello, che andava a succedere. Il lume, che veniva all'incontro, girò a sinistra, e si mise alle spalle del Lombardo. Era questa una mossa strategica, o era a caso? Si era in attenzione di discoprire lo scopo di quella mossa, allorché si udì una forte voce a suonare: Olà, del Lombardo, ed era la voce di Garibaldi, che inquieto del ritardo del compagno, era ritornato sulle sue traccie. Quella voce rassicurò tutti; Bixio rispose con la parola d'ordine, ed i due legni pr‘ocedettero insieme. I due lumi all'oriente sparirono, e si fu certi di non correre per allora verun rischio.

La mattina degli 11 la spedizione era per raggiungere le coste della Sicilia. Nella punta più occidentale dell'isola, non molto lungi dalle coste africane, giace Marsala, città di 29 mila abitanti, circa 80 miglia distante da Palermo. Nel 1532 il suo porto fu colmato per ordine di Carlo V a fine d'impedire a Solimano lI d'impadronirsene. D'allora in poi esso non è stato mai completamente nettato, sì che i legni di grande portata non vi possono approdare. Qui la spedizione è diretta; questo dev'essere il luogo dello sbarco. Si fa forza di macchina per arrivarvi, perché si teme di essere inseguiti dagl'incrociatori napoletani,ed il dubbio era fondato. Alle 3 p. m. del giorno 11 maggio i due vapori sono già nel porto di Marsala; ma mentre si attende allo sbarco, i legni napoletani sopraggiungono, e lo avrebbero impedito, se due legni inglesi non si fossero trovati in Marsala, dapoiché gli uffiziali, ch'erano a terra furono chiamati a bordo; e sinché costoro s'imbarcavano, i legni napoletani ebbero ad astenersi dal far fuoco, ma finché s'imbarcavano gl'Inglesi, sbarcavano gl'Italiani, e non solamente gli uomini, ma anche i cannoni e le munizioni. Bixio ritornò a bordo del Lombardo, e cercando invano la chiave del camerino, ov'erano chiuse le munizioni, con un pugno sfondò la porta, e le munizioni furono sbarcate con una sorprendente rapidità. Cominciò dopo il trarre dei cannoni dei legni napoletani, ma era troppo tardi. E sebbene vi fosse un bel tratto di strada scoverta dal porto alla città, pure niuno degli sbarcati fu ferito. Ai tiri dei cannoni i Garibaldini gridavano: Viva l'Italia! Viva Garibaldi! ed ordinatamente entravano nella città. Su i legni rimase un po' di riso, del biscotto, e del rum. Il Piemonte fu catturato; il Lombardo fu calato a fondo. dicono perché il capitano prima di sbarcare avesse aperto i rubinetti; quest'ultima circostanza non si legge nella relazione ripetutamente citata.


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CAPITOLO VIII

Prosieguo della spedizione — Salami — Vita

— La spedizione si conosce in Europa.

SOMMARIO

Grave pericolo corso dalla spedizione — Diverse spiegazioni date alla presenza dei legni inglesi in Marsala — Fallo, che la spiegherebbe naturalmente — Se il fatto è vero, è provvidenziale  — 1 cacciatori delle Alpi entrano in Marsala  — Provvedimenti di precauzione — Partenza l'indomani — Marcia faticosa  — Niuna doglianza  — Breve riposo sulla vetta di un monte — Incontro coi capi dell'insurrezione  — La truppa riprende la sua marcia. Dopo IO ore di cammino si fa alto — L'indomani un ordine del giorno annunzia, che si va a Salemi — Arrivo a Salemi — Accoglienza  —  Erano le prime, che stringevano gli abitanti delle due estreme parti d'Italia — Proclama di Garibaldi ai Siciliani — Impressione, che fece — Proclama all'armata napoletana — Considerazioni politiche — Contegno di una armata in generale in una lotta civile — Non può essere un istromento materiale di una volontà ingiusta  — Proclama ai Napoletani  —  Protesta contra una espressione dello stesso — Proclama ai Romani. A qual titolo appartiene a questa parte della nostra narrazione — La spedizione rimane un giorno a Salemi — Partenza il giorno appresso  —  Disposizione dei volontarii al combattimento — Entusiasmo dei Siciliani  —  La colonna entra in Vita. Accoglienze festose — La colonna si dirige immediatamente verso Calatafimi — Intanto l'Europa rimaneva tra le notizie contradittorie delle corrispondenze private e delle relazioni officiali — Corrispondenza del 25 aprile da Palermo — Assicurazioni del Giornale uffiziale delle due Sicilie del 28 detto mese — Corrispondenza del Nord del 1° maggio da Napoli — Questa lettera però era pubblicata a Bruxelles il 7 maggio — Notizie statistiche sulle forze di mare e di terra napoletane — Se ne doveva desumere la facile repressione dell'insurrezione — Dichiarazione di Russell nel Parlamento inglese — Dispaccio di Vienna sulla repressione — Corrispondenza di Torino del 6 di maggio — Non pertanto tutte queste notizie erano non vere  — Notizie della Patrie sui preparativi napoletani di difesa — Dispaccio di Vienna sullo sbarco — Rinvio al capitolo seguente.

 La prima parte della temeraria spedizione è dunque riuscita; essa aveva impiegato cinque giorni e mezzo da Quarto a Marsala; niun incidente ne aveva compromesso il viaggio, era sfuggita alla vigilanza dei legni napoletani; aveva toccato felicemente il lido, verso del quale si era diretta, eppure da qual filo non è dipeso che non ne rimanesse quasi letalmente compromessa? Le navi borboniche avevano raggiunto la spedizione nel Porto di Marsala; se sono più leste a cominciare il fuoco, lo sbarco o non si esegue, o si esegue con perdite gravissime; ed erano così esigui i mezzi di quella spedizione, che ogni perdita sarebbe stata significantissima.

Naturalmente la curiosità pubblica dimandava: Come i due legni inglesi si trovassero a Marsala? La loro presenza colà era veramente accidentale? Nel fatto indubitatamente l'imbarco degli uffiziali inglesi ritardò il fuoco dei legni napoletani; e o procurata o fortuita, la presenza dei due legni Inglesi ha agevolato lo sbarco degl'Italiani.

È facile di presagire, che quel fatto sarà spiegato secondo le diverse aspirazioni. Coloro, che attribuiscono al Gabinetto inglese una mano nella rivoluzione sicula, affermeranno, essersi le navi inglesi a bella posta recate in Marsala per favorire indirettamente lo sbarco:

«L'assistenza materiale, scriveva l'Ostdeutsche-Post, che l'Inghilterra ha prestato allo sbarco dei corpi franchi, dà una nuova importanza alla intrapresa di Garibaldi.»

Gli altri, che acconciamente distinguono tra il desiderio e la cooperazione di quel Gabinetto, non presteranno fede a questo intrigo. Noi abbiamo letta la relazione di un fatto, che nel più semplice modo spiegherebbe la presenza di quei navigli in Marsala.

Una colonna mobile, comandata, se non andiamo errati, dal generale Letizia, si era recata in Marsala per eseguire il disarmo. Le case inglesi ivi stabilite avevano rappresentato, non dover essere desse comprese in quella disposizione, dapoiché oltre all'essere stranieri appartenenti ad una nazione amica, le ragioni di sicurezza delle loro persone e delle loro mercanzie in quei momenti specialmente così difficili, rendevano una necessità il rimanere armati. Ma queste ragioni non furono trovate buone dal generale; le sue istruzioni non contenevano veruna eccezione, e d'altronde sembra, che lo armi detenute dagl'Inglesi non fossero di lieve momento. Gl'Inglesi dunque ebbero a consegnarle, almeno le più apparenti, e, com'era giusto, pensarono di sostituire altri mezzi di sicurezza a quelli perduti. Spedirono un espresso a Malta, e di là fu spedita una nave da guerra con incarico di riunirsi ad un'altra, chi era nel porto di Palermo, ed entrambe recarsi a Marsala.

Se il fatto, come sembra, è vero, non si può fare a meno di scorgere la mano della Provvidenza nei destini già maturi dell'Italia. Una misura di precauzione del governo napoletano, necessaria per la sua tutela, si sarebbe convertita in una condizione di paralisi della sua azione, quando questa era più efficace, poteva essere più decisiva!

La piccola truppa, entrata in Marsala, si fermò in sulla via. La popolazione sorpresa, disarmata pochi giorni innanzi, stordita e spaventata dal fuoco delle navi napoletane, si contenne in una grande riserva.

«Poche persone del volgo, dice il nostro volontario, si accostarono a noi, ma nulla ci fu dato comprendere del loro dialetto.»

  —  Povera Italia! I tuoi figli non si comprendevano tra loro, quando in un momento di grand'emozione si univano per liberarti! Per quel giorno le disposizioni militari ebbero per obietto di assicurarsi da uno sbarco o da una sorpresa da parte dei Borboni.

«Allora i volontarii di Garibaldi, scriveva la Patrie con la data dei 17 maggio, si occuparono di organizzare i differenti servizii, di mettere dei posti di osservazione su tutt'i punti elevati. Nella sera una colonna composta di uomini scelti fece una forte riconoscenza nella direzione di Trapani, e ritornò al campo dopo di avere riconosciuta la direzione, nella quale si trovavano le truppe regie.»

  —  L'indomani fu dato l'ordine di partire; furono dispensate le razioni di pane, fu dato un franco per ogni volontario, fu fatta una breve rivista, e si parti.

Ove si andava? Niuno lo sapeva. Dopo cinque miglia di marcia vi fu una fermata di pochi minuti; molti di quella schiera non erano abituati alle grandi marce; altri ne avevano perduta l'abitudine; bisognava dunque farla acquistare dagli uni, risvegliarla negli altri. Garibaldi ne dava l'esempio, camminando a piedi in mezzo ai suoi. —

«Il generale, scrive il nostro storico volontario, per tutto quel giorno viaggiò a piedi: eravamo divisi in due file sui cigli della strada, ed egli camminava in mezzo a noi, scambiando cortesi parole coll'uno o coll'altro. Era consolante vedere quell'uomo raro conversare familiarmente coi gregarii, dividendo seco loro la fatica del viaggio.»

Verso la metà di maggio il sole ardente della Sicilia tormentava nel loro viaggio gli abitatori delle province settentrionali dell'Italia. La sete specialmente li molestava. Dopo di avere percorso un tratto di strada, la schiera si era internata nelle campagne, e procedeva per un cammino più difficile e più faticoso. In sul meriggio usci di strada, e si accostò ad una cascina, ove era stato preparato un gran recipiente pieno di vino misto con l'acqua. Ognuno della truppa ebbe una scodella, e bevve; quindi dopo una breve sosta si riprese la marcia. Le strade, ci dice la nostra relazione, erano tortuose, le salite frequenti; la fame non era mancata mai, la sete era ritornata. Non pertanto i più gai osservavano, che la fame e la sete sono segni di buona salute. S’ignorava il cammino fatto; s'ignorava quello, che rimanesse a farsi; s'ignorava ove si andasse; si aveva solo innanzi a sé una via aspra, faticosa, un suolo ineguale; si sentiva la fame, la sete, il caldo, la stanchezza, e nulladimeno non si mormorava! L'uomo, che aveva l'amore e la confidenza di tutti, divideva con tutti quelle molestie e quelle privazioni.

Si giunse sulla vetta di un monte, e si fe' sosta. Garibaldi vietò di sedersi nei seminati per non recare danno alle biade. La gente si sdraiò sulla strada. Qualche minuto dopo comparvero alcuni Siciliani armati. Il nostro volontario non sa chi essi fossero, e d'onde venissero; erano i primi, che incontravano armati: — «Dai volti e dai movimenti appariva l'animo a risoluto di quella gente, che sola e pressoché inerme ebbe il coraggio di battersi a corpo a corpo coi a mercenarii del Borbone. Stanchi, com'eravamo, non abbiamo potuto fare molta festa a quei buoni paesani, ma il generale pagò per noi tutti. Scambiate seco loro poche parole, lo vedemmo stringerseli al seno, e baciarli con indicibile effusione.» — Chi erano costoro? È facile d'indovinarlo. — «Il punto dello sbarco, soggiugne il citato articolo della Patrie, stabilito da alcuni giorni, era stato tenuto segreto, ma era conosciuto da tutti i capi del movimento, che risiedevano nell'isola, e durante la notte costoro giunsero al campo per porsi di accordo sul cammino da seguire.»

  —  La relazione era vera, e solamente erano inesatti il luogo e l'ora dell'incontro, se pure altri capi insurrezionali non si fossero già recati nelle ore della precedente notte nel campo a Marsala.

Il Genio d'Italia vide quegli amplessi e sorrise. Difficile era l'impresa, che si tentava, ma il Settentrione ed il Mezzogiorno della Penisola congiungevano le loro destre, e giuravano di compierla. Quel giuramento rovesciava al suolo tutte le barriere, che hanno diviso gl'Italiani; quelle destre congiunte e quegli amplessi attestavano al mondo, che tra le Alpi ed il Mare non vi sono che Italiani.

La truppa in marcia credè, che fosse quello il luogo della fermata, ma non stette molto a disingannarsi. Dopo breve riposo si riprese il cammino. La stanchezza si faceva sentire dippiù, ed anche dippiù si palesava, onde si sperava, che il Generale avrebbe accorciala la marcia. Ogni casolare, ogni castello, che si vedeva da lontano, si pensava, che potesse essere il termine del viaggio, ma raggiuntolo, si oltrepassava. Allora i pessimisti si allarmavano; s'incominciava a dire, che bisognava percorrere ancora altre 8 o 9 miglia per fermarsi. Veniva lo scoramento nelle file, quando all'impensata la colonna si arresta. Un vigneto a destra della strada è il luogo dell'accampamento. Ivi si fanno i fasci d'arme; si prende prima un poco di riposo, indi si cerca di soddisfare la sete, e si ha dell'acqua da una fonte; poi pane e cacio offrono un cibo più gradito di ogni più delicata vivanda. Era già notte, ed il nudo suolo serve da letto per conciliare un sonno profondissimo. La marcia era durata dieci ore.

Alla dimane un ordine del giorno annunzia, che si partirà al mezzogiorno, e che si anderà a Salemi. Quantunque non si sapesse a qual distanza stesse Salemi, pure il conoscersi un punto fisso, verso del quale si era diretti, racconsolò tutti. Salemi è una piccola città messa sul ciglio di una montagna e naturalmente fortificata. Oltrepassata la metà della strada tra Marsala e Vita in sulla via, che dalla prima va a Palermo, s'incontra lo stradale, che viene da Trapani. Questo dopo di avere tagliata la detta via di Palermo, proseguendo nelle montagne, mena a Salerai, ove mettono capo due altre strade, una da Mazzara e l'altra da Castel-Vetrano. A Salami dunque era diretta la colonna il 13 di maggio, e dopo tre ore di cammino la città si discopre. Quella vista mette il conforto ed il giubilo in tutt'i cuori. Già i volontarii avevano cominciato a vedere le amichevoli accoglienze, che li attendeva, poiché nella marcia di quel giorno avevano veduto i contadini assembrarsi lungo le %al li, che percorrevano, e battendo le mani, gridare Viva Italia! Viva Vittorio Emmanuele! Restava a superare un'ultima ed erta salita; questa fu valicata, e la nostra picciola armata è in Salemi.

«Eravamo entrati in Salemi  — , scrive il volontario, che seguiamo  — , ed una folla immensa di popolo, che dai punti più culminanti aveva collo sguardo seguito i nostri passi, si accalcò intorno a a noi; vi fu un ricambio di cortesie e di amplessi. La musica coi suoi concenti salutò la nostra venuta, e a le campane suonarono d'allegrezza.»

Erano le prime festose accoglienze, che i Siciliani facevano a quei generosi temerarii, ch'erano venuti in aiuto della loro causa. In Marsala erano stati ricevuti freddamente, ma Marsala era una piazza d'armi, ed all'arrivo di Garibaldi era salutata dai tiri dell'artiglieria napoletana, che sebbene non si dirigessero sulla città, attestavano però la presenza di una forza regia, che poteva occuparla o nuocerle, quando volesse.

In Salemi adunque per la prima volta confondevansi le manifestazioni delle aspirazioni e dei sentimenti, che agli abitatori delle due più estreme parti d'Italia inspirava la comune causa nazionale. A quegli applausi, a quei suoni dei siculi islroinenti, a quei festosi squilli delle campane, a quel tutto armonico, pel quale echeggiava l'esultanza degli animi nei solenni momenti, in cui s'inizia o si rafforza un grande e virile proponimento, Garibaldi rispondeva col seguente proclama:

«Siciliani!

«Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all'eroico grido della Sicilia, resto delle battaglie lombarde — Noi siamo con Voi! e noi non chiediamo altro, che la liberazione della vostra terra.

«Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. — armi dunque! Chi non impugna un'arme è un colardo o un traditore della Patria. Non vale il pretesto a della mancanza delle armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta, impugnata dalla destra di un valoroso. I municipii provvede ranno ai bimbi, alle donne, ed ai vecchi derelitti.

«All'armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori colla potente volontà di un popolo unito.»

In un popolo ardente pel temperamento, somigliante al suolo, che abita, eccitato dalla narrazione dei fatti di valore, di energia, di costanza, che un pugno di uomini opponeva con una rara abnegazione ai prepotenti mezzi di forza, accumulati da un odiato governo per reprimere l'insurrezione, che i suoi eccessi avevano destato; entusiasmato dall'omerica spedizione di un altro pugno di uomini, che sotto la condotta del più popolare, più ardito, e più appassionato dei figli d'Italia, disprezzando disagi, privazioni, pericoli, veniva a congiungere le sue sorti a quelle dei Siciliani, in questo popolo caldo, patriotta, eccitato, quel proclama doveva produrre un compiuto effetto.

  —  «Queste parole, continua il nostro autore, brevi, ma energiche, come l'anima, che le ha dettate, fecero impressione sugli abitanti di Salemi, dacchè tutti coloro, che erano atti a portare le armi, accorsero alla chiamata. Anche i vicini Comuni mandarono i loro contingenti, tanto che le fila dei soldati d'Italia andavano ognora crescendo.»

Così la spedizione italiana otto giorni dopo di essersi avviata cominciava a produrre il suo frutto.

Ed altri proclami diffondeva pure Garibaldi. All'armata napoletana diceva:

«La preponderanza straniera è padrona dell'Italia, ma il giorno, nel quale i figli dei Sanniti e dei Marsi, uniti ai figli della Sicilia, daranno la mano agli Italiani del nord, allora il nostro popolo, del quale siete la migliore frazione, riprenderà come altra volta il suo posto nel primo rango, delle nazioni.

«Soldati, italiani, io non ho altra ambizione, che quella di vedervi a canto degli eroi di Varese e di S. Martino per combattere tutti insieme i nemici dell'Italia.

«G. Garibaldi.»

Queste voci non furono udite da quell'armata; noi ne siamo rattristati; ma nell'eccitamento delle passioni. che si svolgono pei grandi avvenimenti, che si compiono nel momento, in cui scriviamo, ci asterremmo da ogni giudizio sul partito, che si credè di adottare. Bensì diremo sulla quistione generale, che quelle voci erano italiane, e che italiana era la causa, che propugnavano. Che l'armata negl'individui, che la compongono, è parte della nazione, e coni' ente morale appartiene allo Stato, e lo Stato non sta nel Principe, ma nella Nazione. Se l'uno si divide dall'altra; se sorge tra loro una lotta di principii e d'interessi; se non vengono in contesa l'ordine pubblico e l'anarchia, ma la disputa sorge fra due idee, perché l'armata dovrebbe dichiararsi necessariamente pel Principe contra la Nazione? Nel contrasto delle due volontà, quella del Principe e la nazionale, perché la prima dovrebbe prevalere sulla seconda? La prevalenza sarà determinata dalla forza o dal dritto? Se dalla forza, perché l'armata, ch'è parte della nazione, dovrebbe prendere partito contro di essa? Se dal dritto, e non si dovrebbe per lo meno essere obbligato a discutere da qual parte il dritto si trova? Ed in questo caso che cosa diviene la teoria dell'obbedienza passiva comandata dalla fedeltà verso il Principe? Chi ha lodato le coorti pretoriane, quando hanno imposto la volontà arbitraria dei più crudeli o più stupidi Imperatori romani sulle infelici popolazioni dello Stato? E poi nella disputa tra il Principe e la Nazione, chi concede all'armata il dritto di pronunziare da arbitra, ed attribuisce alla sua sentenza la sanzione morale? La quistione dunque ritorna sempre negli stessi termini. L'armata, non come armata, ma come parte della nazione può avere dei sentimenti proprii e delle proprie aspirazioni, e può seguirli, ma allora ne ha la responsabilità; né può declinarla, allegando, che i suoi giuramenti la chiama no a schierarsi sotto la bandiera del Principe, quando questa è cessata di essere il simbolo dello Stato, perciocché non può essere astretta a sconoscere la propria origine, ad abdicare il suo arbitrio morale, ed a divenire materiale istromento di forza dipendente dalla volontà altrui. Tali possono essere forse le teorie dei governi assoluti, nei quali la volontà del Principe è la norma della giustizia e della moralità delle azioni; in quei governi, che vogliano l'abdicazione del dritto e della ragione a profitto di un'intelligenza presunta, che in sé assorbisce tutte le intelligenze e le volontà individuali; ma in un sistema fondato sulle massime eterne della giustizia e della ragione quelle teorie sono assurde, come assurdo è l'ordine politico, nel quale prevalgono.

E dopo di avere parlato all'armata napoletana, Garibaldi si dirigeva agli abitanti dello Stato di Napoli.

«Egli è tempo d'imitare l'esempio magnanimo della Sicilia, che si rivolta contra la più infame delle tirannie. Al potere regio spergiuro ed assassino, che per si lungo tempo vi ha tortura to,deve alla pur fine succedere quel governo libero, del quale già godono undici milioni d'abitanti. La gloriosa bandiera tricolore, questo simbolo dell'unità e della indipendenza nazionale, senza la quale non si può avere libertà durevole, deve rimpiazzare il vergognoso stendardo del regno di Napoli. I nostri fratelli del nord non ambizionano che i vostri abbracci in questa alleanza della famiglia italiana».

«G. Garibaldi — G. Ricciardi — Barone Stocco.»

Noi ci siamo rattristati quando abbiamo veduto l'armata napoletana non rispondere alla chiamata, che le era fatta in nome dell'Italia, ma ci rattristiamo ancora quando i campioni della più giusta, della più santa causa usano frasi incompatibili con la moderazione e la civiltà, di cui è debito loro dare l'esempio. Lo stendardo napoletano non deve confondersi col governo napoletano; esso, è vero, non ha saputo separarsene, e n'è divenuto il sostegno; ma ciò può essere l'effetto di un concetto falso sui doveri militari, che una lunga abitudine può sinanche scusare. Che se nel fatto quello stendardo si è convertito in simbolo di una podestà assoluta, che percorrendo il corso assegnato dalla Provvidenza, ha prevaricato, se esso ha guidato i soldati a caricare sul popolo, quanti altri non ve ne sono, che han fatto o farebbero lo stesso, ed ai quali non si è data né potrebbe darsi la qualificazione di vergognoso? È grande sventura per l'umanità, che il più delle volte l'armata oblia, che essa è parte della nazione, ma sinché le istituzioni liberali non avranno preso solida radice in uno Stato, sarà questo un male inevitabile, e convien pur dirlo uno di quegl'inconvenienti, che sorgono dall'indole stessa di una istituzione. Grazie alla sincerità di un principe, che si è immedesimato con la nazione, gl'Italiani veggono già compiersi questo grande lavoro della rigenerazione di una nazione. L'armata italiana sorregge già un vessillo, nel quale sono confusi il principe e la nazione. Essa sente già di appartenere all'Italia, e l'Italia è lo aggregato delle glorie, delle tradizioni, degl'interessi, delle aspirazioni, che la resero classica ne' suoi dì della prosperità, classica nei lunghissimi giorni delle sue sventure, e che le rivendicano i dritti, che le esorbitanze altrui e le sue colpe le hanno rapito. Noi abbiam fede, che dell'armata italiana sarà gloriosa parte la napoletana, e che anch'essa porterà alto e venerato quel vessillo, intorno al quale già si raggruppano 22 milioni d'Italiani, e che più presto o più tardi, ma indubitatamente, dovrà riunirne 25 milioni. Ma appunto per questo non abbiamo potuto non protestare contro una proposizione, che presa nel senso militare ci è sembrata o non vera, o vera in un senso così generale, che non si può ammettere. Non abbiamo poi inteso per nulla di comprendere in queste nostre proteste la bandiera affidata a truppe mercenarie straniere, che accozzate tra gli elementi più impuri. è rimasta insozzata dalle lordure delle mani, cui si è data.

Un quarto proclama pubblicava il Corriere Mercantile, che accenna letteralmente a(l una invasione nel territorio romano; esso per l'ordine dei fatti non appartiene a questa parte della storia, della quale ora trattiamo, ma vi appartiene per lé relazioni politiche, perché rendeva sempre più imbrogliato il vero scopo della spedizione garibaldina. Il proclama dunque diretto ai Romani diceva:

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ABBOCCAMENTO DE' PARLAMENTARI NAPOLETANI

E DELLO STATO MAGGIORE SICILIANO (30 MAGGIO 1860)

 «Domani i preti di Lamoricière vi diranno, che alcuni musulmani hanno invaso il vostro territorio. Ebbene! questi musulmani sono coloro, che si sono battuti per l'Italia a Montevideo. a Roma, in Roma, coloro, che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio quando verrà il giorno, in cui una doppia tirannia vi lascerà la libertà della reminiscenza. Un momento eglino hanno piegato innanzi ai soldati numerosi ed agguerriti di Bonaparte, ma hanno piegato con la testa volta verso l'inimico, e facendo il giuramento di ricominciare la lotta, ed il giuramento ancora di non lasciare ai figli altra eredità, che l'odio contro l'oppressione e la servilità.

«Ricordatevi dei miei camerati, che hanno combattuto fuori delle vostre mura, Manara, Melona, Masina, Mameli, Daverio, Peralla. Panizzi, Ramorino, Danieli, Montaldi e tanti altri bravi tra voi, che dormono nelle vostre catacombe, ed ai quali avete dato la sepoltura, perché erano stati feriti in avanti.

«I nostri nemici sono abili e potenti: ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, e degli Orazii. La nostra causa è la causa di tutti gl'Italiani. Il nostro grido di guerra è quello che risuonò a Varese ed a Como: Italia e Vittorio Emmanuele! — E voi sapete che con noi, vinti o vincitori, l'onore italiano sarà senza macchia.

«G. Garibaldi generale romano promosso da un governo eletto dal suffragio universale».

E mentre tutti questi proclami si diffondevano in Europa e davano luogo a svariate congetture, la piccola armata seguiva il suo cammino. Nel dì seguente dell'arrivo in Salemi si credè, che si avesse a partire, ma sia che tale credenza non fosse vera, sia che la pioggia, che cadeva dirottamente, avesse fatto cambiare di proposito, per quel giorno si rimase in quella città, ma fatta sera si ebbe la prevenzione di doversi tenere pronti a partire l'indomani; furono visitati i fucili, se fossero ben carichi, d'onde ciascuno arguì della vicina probabilità di un combattimento, e ciò fatto, Si lasciò dormire. La mattina seguente si parli con la certezza di avere a sostenere una pruova. Coloro, che avevano già combattuto nei gloriosi giorni della campagna lombarda, n'erano compiaciuti, e davano animo ai nuovi, i quali per la fermezza della loro volontà e per l'eccitamento, che sentivano e vedevano, non avevano bisogno di grande spronamento. — «Il volto dei nostri ufficiali, ripetiamo il nostro autore, era più aperto del consueto; essi ci consigliavano l'allegria, ed intuonavano le note canzoni per farci animo a gittarci nel cimento.»

Ed i Siciliani? Noi riferiamo frequentemente le parole della relazione, che ci serve di guida principale, perché nella naturalezza dei modi ci sembra scorgere la verità dei fatti narrati da un uomo, che racconta quello, che ha fatto o veduto. Noi teniamo conto dei sentimenti personali, che si mischiano sempre, anche malgrado dell'autore, in questa specie di narrazione, ma pensiamo, che questa narrazione di un autore o di un testimone oculare, accolta con le precauzioni, che una giusta critica suggerisce, sia in pari tempo la guida più sicura ed il meno incerto documento di questa parte della nostra storia. E tale condizione in ispecie crediamo, che si verifichi nella narrazione dei fatti dei Siciliani, perché il narratore non è un Siciliano, li vede per la prima volta, e non ha interesse a snaturare fatti, che attesta accaduti sotto gli occhi proprii; che anzi ci sembra, che quella narrazione concilii fede al suo racconto, quando l'interesse dei fatti, che narra, primeggia l'interesse dei fatti personali.

Ora cosi narrano le Memorie del volontario italiano l'entusiasmo dei Siciliani:

«Alla testa della nostra colonna si trovavano le bande armate convenute a Salemi; pareva, ch'esse volessero ingaggiare la battaglia, e che noi fossimo destinati a far impeto su i nemici quando erano in rotta. E ben a ragione i Siciliani, che furono per tanti anni vittima della prepotenza borbonica, nel giorno, in cui trattavasi della libertà del loro paese, avevano dritto di essere i primi alla pugna. L'entusiasmo di quella gente era grande, vecchi e giovani, uomini e fanciulli, quali armati di archibugi irrugginiti, quali di lance, chi con pistole, chi con pugnali correvano verso Calatafimi. Molti proprietarii col moschetto e la sciabola in groppa ai loro cavalli, animavano gli altri, e capitanavano le squadre. Coloro, che per età non potevano prendere parte all'azione, incuoravano gli accorrenti con la voce e con gli augurii di e vittoria. Era lo spettacolo di un popolo intero, che e insorgeva contra la tirannide, di un popolo memore dei lunghi lutti sofferti, che conscio della propria forza, brandiva le armi per farsi libero.» ()

La colonna entrava in Vita, vale a dire si poneva sulla già indicata strada da Marsala a Palermo. Gli abitanti si affollavano per le strade, e mandavano i loro fragorosi Evviva all'Italia, a Garibaldi, a Vittorio Emmanuele. Però la sosta non fu. che di pochi minuti. Il nemico era a Calatafimi, forse un tre miglia distante da Vita, e quasi a mezza strada tra Marsala e Palermo. I Cacciatori delle Alpi lasciata animosamente la loro forte posizione di Salemi, andavano essi ad incontrarlo.

Intanto nell'atto che la spedizione di Garibaldi era stata maturata ed eseguita, l'Europa rimaneva nella maggiore incertezza sugli avvenimenti della Sicilia, perocché mentre le corrispondenze particolari ritraevano il vero stato dell'isola, gli atti officiali assicuravano essere dessa rientrata in una completa tranquillità, e queste assicurazioni, ripetute asseverantemente, finivano col prevalere nell'opinione pubblica con la sola riserva, che gli amici della causa italiana facevano della nota millanteria del governo napoletano, senza però tralasciare di nutrire anch'essi dei timori, che per le già fatte considerazioni erano legittimi.

Una corrispondenza da Palermo del 25 aprile al Sémaphore scriveva:

«Noi siamo in completa rivoluzione; Palermo è in istato di assedio dal di 4, e tutta la campagna è sollevata. Ogni notte vi è un combattimento nei dintorni della città tra i poveri Siciliani ed i soldati napoletani, che bruciano e saccheggiano da per tutto ove passano. A canto a noi è stato saccheggiato un convento, la madonna è stata rubata dagli sbirri, ed i soldati vendevano per le strade i libri dei monaci. I materassi si pagavano 6 tari.

«Una gran parte della nobiltà è in prigione, e quella, ch'è in libertà, vorrebbe andarsene all'estero, ma la polizia si ricusa ai passaporti. Noi siamo esposti in ogn'istante ad essere saccheggiati dagli sbirri e non dagli abitanti della campagna, come la polizia vuol fare credere nell'estero. Quattordici infelici sono stati accusati di avere cospirato, e sono stati fucilati; tre soli veramente erano colpevoli.

«Porto questa lettera a bordo d'una nave francese, ch'è nel porto da ieri, perché non abbiamo una posta regolare, e perché sopratutto non è possibile di scrivere cosi liberamente.

«Palermo è spaventevolmente trista; per andare a visitare qualcuno dei suoi amici, si ha ora bisogno di un permesso della polizia. Se un Palermitano osa di dire, che i soldati rubano, è messo in prigione, perché il governo napoletano vuole potere dire all'estero, che sono i rivoluzionarii, che commettono tutti questi misfatti, e per mezzo del terrore impone a questa infelice e povera popolazione.

«Tutta la Sicilia è sollevata; da chi? Non ne sappiamo nulla. Questi poveri paesani non sono stati mai così ricchi; hanno 4 tarì (4 carlini) al giorno. E quel, che sembra più strano si è, che si osa dire, che sono ladri, che insorgono contro la polizia di Palermo, mentre tutta la Sicilia è in insurrezione».

Ci si perdonerà di avere ripetuti qui, nel riferire siffatta corrispondenza, dei fatti, che appartengono ad un precedente periodo della nostra narrazione, ma abbiamo voluto con ciò esporre come si scriveva il 25 di aprile ad un giornale, ch'è piuttosto commerciale che politico, e confrontare poi quella esposizione con le assicurazioni positive, che il giornale delle Due Sicilie dava il 28 di aprile, tre giorni soli dopo la lettera surriferita, della più completa tranquillità ripristinata ed assicurata nell'isola; il più perfetto ordine, diceva il giornale, regna su tutt’i punti; gli affari, il commercio, e per fino le arti hanno ripreso il loro andamento abituale.

Tali erano le relazioni del foglio uffiziale in sul finire di aprile. Era difficile, che non facessero impressione all'estero, ove naturalmente si diffidava delle notizie divulgate dai liberali, cd ove si aveva una magnifica opinione della forza del Re delle Due Sicilie. Egli è vero, che il primo di maggio scrivevasi da Napoli al Nord, niente essere meno vero, che le assicurazioni del giornale uffiziale.

«È ben lungi, che la tranquillità sia ristabilita in Palermo, nei suoi dintorni, e su tutta l'estensione dell'Isola. Palermo per lo contrario è in piena effervescenza, le manifestazioni si succedono a malgrado lo stato di assedio; i cannoni sono puntati nelle strade per ogni eventualità; tutte le uscite di Palermo sono guardale dalle truppe, e niuno può uscire dalla città senza essersi premunito di un permesso del generale Salzano. Codeste misure sono prese a fine di tagliare ogni comunicazione con la campagna e gl'insorti. In contraddizione delle assicurazioni del governo delle bande armate tengono tuttavia la campagna, ma evitano i combattimenti con la truppa, onde non essere offese prima dell'arrivo dei rinforzi e dei soccorsi, che si attendono da fuori. E finalmente tutta l'isola è pronta a sollevarsi, se l'insurrezione può trovare maggiore consistenza e più probabilità di successo per l'arrivo dei rinforzi in quistione.

«Vi garentisco l'esattezza di queste notizie, che ricevo da sorgente degna di fede. Tutte le persone, che giungono dalla Sicilia, sono unanimi nel presentare lo stato dell'isola sotto dei colori allarmantissimi, e predicono una insurrezione in massa, se gli attesi soccorsi giungono a tempo. La miseria è al colmo, ed i Siciliani dichiarano altamente, essersi resa ogni transanzione impossibile per gli orribili misfatti e per le atrocità, che dalla truppa sono state commesse.

«Per completare queste informazioni debbo aggiungere, che il signor Maniscalco non cessa di alimentare la brutalità degli sbirri relativamente ai compromessi politici, specialmente quando costoro appartengono alle classi più elevate della società. Sono atti di vendetta da parte di questo funzionario per tutte le ferite fatte al suo amor proprio dalla nobiltà palermitana, che da qualche tempo l'aveva escluso dalle sue riunioni.»

Questa lettera però era pubblicata in Bruxelles il 7 di maggio; e d'altronde le notizie, che lo stesso foglio aveva delle forze napoletane di terra e di mare, e che pubblicava più tardi, erano imponenti. — «Nel 1856, diceva, la marina reale contava 2 vascelli di linea di 90 ed 80 cannoni; 5 fregate a vela di 41 a 64 cannoni; due collette di 22 a 24 cannoni, due golette di 14 cannoni; in uno per la flotta a vela 16 legni e 598 cannoni. La flotta a vapore si componeva alla stessa epoca di 14 fregate, 4 corvette, 41 bastimenti, 3 navi da trasporto; questa flotta a vapore era armata di 204 cannoni. Aggiungendo a queste due flotte 10 bombarde ad un mortaio, 10 scialuppe cannoniere a 2 cannoni, 30 scialuppe armate a la Paixhans, il Re di Napoli aveva nel 1856 una forza totale di 98 legni, e di 832 bocche a fuoco, che si è di molto aumentata nel decorso degli ultimi quattro anni, poiché sin dal 1858 il totale dei legni era di 121 con 746 cannoni senza contare le altre bocche a fuoco.

Ed imponenti erano ancora le notizie, che dava sull'armata di terra. —

«L'infanteria, scriveva, della Guardia reale, composta di granatieri, di cacciatori, di fanteria di marina, e di guardie del corpo, è di 9508 uomini. La fanteria di linea, privata ora dei quattro reggimenti svizzeri e del battaglione dei cacciatori svizzeri, è di circa 60,000 uomini. La cavalleria cosi della guardia reale che della linea è di 7 in 8,000 cavalli; l'artiglieria di 6 in 7,000 uomini, il genio di 2 a 3000; il che fa per l'armata attiva un totale di circa 90 mila uomini, ed aggiugnendovi la riserva, che è di 48 mila uomini di fanteria, e di 3,000 artiglieri di costa, si ha un totale generale di 135 a 140 mila uomini.

Cori tali forze, delle quali talune erano vere, altre supposte, si doveva avere confidenza nella repressione, che si diceva già seguita o prossima a seguire della insurrezione Siciliana; per lo che le notizie, ch'emanavano dal governo di Napoli, sembravano più probabili, e conseguentemente riscuotevano più fede delle notizie particolari.

Si aggiugneva, che nella seduta della Camera dei Comuni inglesi del 4 di maggio Lord Russell rispondendo ad una interpellazione del sig. Bowyer, aveva dichiarato, che sulla voce sparsasi, che Garibaldi si rendesse a Genova con dei legni da guerra, il governo delle Due Sicilie si era affrettato immediatamente di dirigersi al governo di S. M. per prevenire questa spedizione, ed il nobile Lord non aveva esitato un momento a chiedere al governo sardo, ove avesse qualche potere sul Generale Garibaldi, di non permettergli di andare più lontano, sinché conservasse delle funzioni officiali in nome del Re di Sardegna.  — «Ma, soggiungeva il Ministro, se ci sono dimandati tali servigi di amicizia, noi siamo autorizzati a dichiarare lealmente, che se non si vuole né aggressione né insurrezione, è per lo meno desiderevole, che il governo si conduca con molta giustizia, ed a in un modo molto conforme ai riconosciuti principii di equi,à, onde il malcontento non si spanda tra le popolazioni.»

Epperò la opinione, che la insurrezione siciliana fosse un tentativo abortito, si raffermava in Europa, comunque i torti del governo delle Due Sicilie e la falsa via, sulla quale ostinatamente procedeva, non lasciavan tranquilli sul finale scioglimento di quel dramma. Frattanto un telegramma di Vienna del 5 maggio diceva: — «Si sono ricevute notizie officiali  da Napoli del 4, giusta le quali la tranquillità è completamente ristabilita in Sicilia. Non si tira più un sol colpo di fucile, e si fanno soltanto degli arresti isolati. »

Si ha fatica a credere, che realmente il governo di Napoli abbia sino a tal punto ingannato anche il Gabinetto di Vienna, e sembra più verosimile di ritenere, che entrambi abbiano cercato d'ingannare l'opinione pubblica. Quali effetti l'uno od entrambi ne abbiano conseguito lo han dimostrato gli avvenimenti. Del resto anche un corrispondente della Presse scriveva il 6 di maggio da Torino

«Si assicura, che Garibaldi non sia ancora partito, e che non potrà partire. È certo, che ha fatto dei grandi sforzi a tal fine. È venuto meno innanzi la fermezza del Gabinetto. Un fatto da notare è ciò, ch'è avvenuto pel denaro della soscrizione di un milione di fucili. Questo denaro è in Milano nelle mani d'una commissione.

«Garibaldi arrivato in Genova, ove aveva formato una specie di Consiglio di guerra con molti dei suoi aiutanti di campo e degli emigrati delle Due Sicilie, dimandò del denaro alla commissione milanese. Questa commissione ne prevenne il governatore sig. Massimo d'Azeglio, il quale dichiarò di non potersi condiscendere a tale dimanda senza l'autorizzazione del ministero, il quale vietò perentoriamente di accedervi.

«La risposta trasmessa a Garibaldi, gli cagionò un cosi vivo dispiacere, che rimase più ore senza volere intrattenersi coi suoi intimi. Forse allora fu scritta una lettera, della quale si diffondono gli estratti, ove è detto, esser egli disgustato della vita, poiché gli si toglie il mezzo di servire il suo paese. Questa lettera produce qui dell'effetto.»

Alla data del telegramma di Vienna Garibaldi si imbarcava, alla data della lettera di Torino la spedizione era partita. Gl'insorti siciliani lo sapevano e lo attendevano; le corrispondenze particolari avevano dello il vero, le assicurazioni officiali avevano resa più manifesta l'impotenza o r imprevidenza del governo. Il giorno 7 di maggio fu nota a Parigi la partenza di Garibaldi; e comunque sino al giorno 8 mancassero notizie officiali, in quel di il Pays scriveva: — «Ieri avevamo ancora dei dubbii sull'autenticità delle notizie, che non pertanto avevamo fatto presentire relativamente alla partenza di Garibaldi per la Sicilia.

«Oggi ogni dubbio è mancato.

«Garibaldi ha lasciato Genova alla lesta di una spedizione armata nella notte del 5 al 6 di maggio.

Venivano poi le notizie della difesa.

La Patrie scriveva, che l'armata regia nell'isola sarebbe portata a circa 50,000 uomini; che un campo trincierato sarebbe stato stabilito a Palermo ed un altro a Messina; che tutte le guarnigioni delle piazze erano state rafforzate, e messe in comunicazione tra loro merce un servizio di mare.  — «Questo sistema di concentrazione, osservava il giornale, semplificherà la difesa, ed avrà per obietto di conservarsi il possesso dei punti strategici, che sono la chiave della situazione.»

Diceva inoltre il giornale di avere la marina napoletana spiegato grandi mezzi. Una squadra di osservazione si sarebbe serbata tra il capo Bon, Pantelleria, ed il capo Sorello sulla punta della Sicilia per impedire la spedizione di raddoppiare la costa dell'Africa, e prendere l'isola a rovescio; un'altra mantiene le comunicazioni tra Napoli, Messina, e Palermo, sorveglia il mare tirreno e la costa della Calabria, contra della quale si supponeva dovess'essere diretto un falso attacco, mirando a fare una potente diversione ed a favorire l'operazione dello sbarco. Però il giornale aggiungeva:

«Checché ne sia è possibilissimo, che non si possa impedire, che Garibaldi sbarchi.

Ed un telegramma del 9 maggio al Nord da Vienna diceva:

«Si è ricevuto al ministero degli affari esteri un dispaccio, che annunzia lo sbarco in Sicilia di Garibaldi con 600 uomini.

«Si sono ricevute notizie poco rassicuranti di Napoli e dell'Oriente.

Vedremo nel capitolo seguente quale impressione produsse in Europa questo audace tentativo di pochi Italiani; diremo però sin da ora, che in un poscritto di una corrispondenza di Parigi al Nord con la data del 7 di maggio si legge:

«Un dispaccio conferma le informazioni, che innanzi vi ho dato intorno alla partenza del Generale Garibaldi per la Sicilia; questo incidente può produrre, sia che il Generale trionfi, sia che soccomba le più gravi complicazioni».

Ed è vero; a bordo del Piemonte e del Lombardo non vi erano soltanto 1070 italiani, ma tutte le aspirazioni, tutti gl'interessi, tutt'i più caldi voti di 25 milioni di abitanti. La vittoria o la sconfitta doveva essere comune a tutti. intiera o doveva vincere o doveva soccombere in quella lotta.


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CAPITOLO IX

Impressioni della spedizione di Sicilia in Europa.

SOMMARIO

L’Europa si commuove alla notizia della spedizione eseguita — Giudizio dei giornali officiosi francesi — Il Constitutionnel — La Patrie — Il Pays — Garibaldi è definito filibustiere — Giudizio del Débats — Dopo i primi giorni la Patrie ed il Pays modificano la prima opinione — Il primo di questi giornali sul protettorato inglese — Errori del suo ragionamento — Il Pays biasima la condotta della Corte di Napoli  — Il suo ragionamento risponde meglio alle condizioni dei tempi — Articolo del Times — Necessità di riprodurlo — Convenienza di riferire gli articoli più importanti della stampa europea — Articolo del Morning-Post — Articolo dell'Observer  — Suo giudizio — Stampa austriaca — Gazzetta delle Poste., — La Gazzetta di Vienna pubblica la relazione officiale dello sbarco in Marsala — Telegramma di Londra  —  Dubbii sulla presenza di Garibaldi in Sicilia — Imputazioni al Gabinetto piemontese — Comunicazione di Talleyrand — Risposta di Cavour  —  Opinione degl'Italiani sulla grave situazione del Gabinetto piemontese — La disposizione dell'opinione pubblica italiana comincia a penetrare in Francia — Il Pays ed il Constitutionnel su tale argomento — Insistenza del Ministro napoletano  — La stampa liberale francese difende il ministero piemontese — Stampa officiale ed officiosa italiana — Gazzetta officiale di Torino — L'Opinione — Il concetto vero prevale nella pubblica opinione europea — E mena ad un giudizio esatto sui due grandi uomini italiani — L'insurrezione di Sicilia li ha trovati al loro posto — Imputazioni della stampa austriaca all'Inghilterra pei legni a Marsala — Osservazioni  —  Riassunto delle impressioni in Europa per la spedizione siciliana  —  Opinione austriaca — È, smentita dal Constitutionnel — L certo, che la Francia e l'Inghilterra erano di accordo nella quistione italiana.

 Tutta l'Europa si commosse alla notizia verificata della partenza della spedizione e dello sbarco a Marsala. Il fatto era grave; ciascuno ne presentiva le gravissime conseguenze. La quistione italiana entrava in una fase, che doveva essere la diffinitiva. L'azione diplomatica si vedeva arrestata; la forza delle armi andava a decidere una contesa, nella quale tanti interessi di svariata indole erano in azione. La estrema importanza del risultamento impegnava tutti i mezzi possibili dell'attacco e della difesa, e poiché dalla parte dell'aggressore bisognava supplire col coraggio e con l'eccitamento della pubblica opinione alla evidente sproporzione delle forze materiali, ne restavano vieppiù sospese ed incerte nel concetto del pubblico le sorti dei contendenti, e con l'alternarsi delle speranze e dei timori cresceva l'agitazione, la quale diveniva in Italia un elemento potentissimo dello spirito pubblico, che sia che sperasse o che temesse, imponeva un debito irrecusabile al Gabinetto di Torino.

I giornali officiosi di Parigi all'annunzio di quei fatti non seppero contenere una riprovazione energica o anche la propria irritazione. — «Noi abbiamo saputo, diceva il Constitutionel, assai moderato nelle sue espressioni, che il Generale Garibaldi dopo di avere data la sua dimissione di deputato di Nizza partito per la Sicilia.

«Noi non possiamo che energicamente biasimare una simile determinazione. L'istoria un giorno, dopo di avere riconosciuto i servizii renduti dal celebre condottiere alla indipendenza italiana, dovrà aggiungere, ch'egli non ha saputo arrestarsi a tempo, e che per trasporto di cuore o debolezza di carattere ha rischiato di compromettere anche una volta la causa, che aveva cosi bene difesa.

«Si aggiugne, che Garibaldi abbia del pari dato la sua dimissione di generale piemontese. Questa seconda dimissione sarebbe felice nel senso, ch'essa attesterebbe, che l'avventuroso partigiano ha sentitoegli stesso la necessità di non azzardare nella sua folle impresa la gloriosa spallina dell'armata sarda.

Ma la Patrie andava anche più oltre: — «Così facendo, essa scriveva, Garibaldi si è messo sulla linea di Walker, e l'atto, del quale si rende colpevole, cade sotto l'applicazione delle leggi, che regolano la pirateria. Noi non abbiamo bisogno di aggiugnere, che il governo piemontese riprova questa condotta, che non è solamente un atto d'insubordinazione, ma un vero atto di tradimento relativamente ad esso. Del rimanente il legno, che porta Garibaldi è segnalato su tutta la costa».

Ed il Pays dopo di avere riferito, che diversi meetings in Inghilterra avevano votato dei fondi per la spedizione, osserva:

«Noi non abbiamo bisogno d'insistere sulla significazione di un tal concorso innanzi la riprovazione del governo piemontese, e la dichiarazione del governo napoletano, che ha dato delle istruzioni, onde la spedizione del Walker sardo venga considerata come un atto di pirateria».

Codesta definizione fu immediatamente accettata dal giornale officiale napoletano, e la spedizione di Garibaldi divenne la spedizione dei filibustieri.

Ma senza parlare del Siècle, le cui tendenze non potevano fare biasimare la spedizione, il Journal des Débats dopo di avere definita la spedizione contraria al dritto pubblico europeo ed al dritto delle genti, scrive:

«Di buona fede, Garibaldi va forse in Sicilia come Walker andava nella Nicaragua con delle vedute di ambizioni personali, per stabilire la sua dominazione su di un paese libero e tranquillo, e per minacciare la libertà e la indipendenza di un popolo, che più volte ha respinto a mano armata le sue invasioni? A questa quistione tutti sono di accordo per rispondere, Garibaldi è un patriotta italiano, la cui storia è nota; egli ha sin ora consacrato tute i suoi sforzi e la sua incontestabile energia al successo d'una idea, l'affrancamento del suo paese, l'indipendenza e l'unità dell'Italia. Garibaldi si rende in Sicilia per secondare ed affrettare il trionfo di questa idea, alla quale ha consacrato tutta intiera la sua vita. Si può riprovare la sua intrapresa, e noi non l'abbiamo in quanto a noi né consigliata, né riprovata.

«Tra i difensori della causa italiana ve ne ha molti che temono tuttavia, che l'unità dell'Italia non sia una utopia, un sogno impossibile e sparso di scogli, di azzardi, e d'incalcolabili oragani. In tutt'i casi questa chimera è una chimera onorevole, questo sogno è un sogno patriottico e generoso, che non può ferire in nulla l'opinione liberale, che noi abbiamo la pretensione di rappresentare. Vi è dunque una differenza essenziale, che la giustizia e la buona fede non permettono di negare tra la rischiosa spedizione; che il patriotta italiano va a tentare in Sicilia, e quella, che il filibustiere Walker ha tentato nell'America centrale.

«Che! grida l'Unione, voi osate chiamare il pro«getto di Garibaldi una idea generosa! Una idea generosa quella di gettarsi col ferro e le fiamme in un paese appena rimesso da una recente commozione! Una idea generosa quella di portare l'appoggio dei cannoni e dei revolvers della rivoluzione cosmopolita ad una insurrezione vinta e disperata! Una idea generosa quella di sollevare contra le leggi, contra l'autorità, contra la giustizia delle popolazioni, che si sperava di traviare, che si tentava d'immergere negli orrori di una lotta intestina!

«Noi siamo tanto sensibili, quanto possiamo esserlo a questo movimento di eloquenza, ma non ne siamo schiacciati, e per rispondervi basterà richiamare qualche reminiscenza, tuttavia troppo prossima a noi, perché sia stata obliata dal giornale, che c interpella. Trent'anni sono che cosa andava a fare la Duchessa di Berry nella Vandea? Essa andava a portare il ferro e le fiamme in un paese appena rimesso da una recente commozione. Essa andava a sollevare contro le leggi, contro l'autorità, contra la giustizia delle popolazioni, che si sperava di traviare, che si tentava d'immergere negli orrori di una lotta intestina.

«Noi preghiamo gli scrittori del giornale l'Unione di rammentarsi un momento quello, ch'essi pensavano, quello, ch'essi dicevano di questa grande intrapresa. Hanno essi alzata la voce come adesso per fare sentire le loro eloquenti proteste? Più recentemente ancora, sono sei settimane, un generale spagnuolo, il comandante delle Isole. Baleari, imbarcava le truppe messe sotto i suoi ordini per condurle sul territorio spagnuolo, ove sbarcava, emettendo un grido d'insurrezione e di guerra civile. Che cosa ha fatto il giornale l'Unione?Ha reclamato, ha protestato contro un sì grande scandalo? Ha esso accusato il Generale Ortega, come oggi accusa il Generale Garibaldi a di a avere violato tutte le leggi internazionali e di avere a apportato sul suolo della Sicilia in piena pace gli orrori della guerra civile, la ribellione a mano armata, il rovesciamento e le rovine.»

Eh no! questo eloquente giornale ha chiuso gli occhi e le orecchie; lungi dal gridare allo scandalo, non ha dissimulato i suoi voti e le sue simpatie per lo successo di questa intrapresa insensata e criminosa.

«Perché dunque il giornale l'Unione ha due pesi e due misure? Da che viene, ch'esso non ha sentito contra la spedizione del Generale Ortega la collera e l'indegnazione, che gli fanno provare la spedizione di Garibaldi? E frattanto tra queste due intraprese evvi una differenza, che non può sfuggire ad alcuno. Fu in piena pace, che il generale Ortega tentò di eccitare l'insurrezione e la guerra civile nel suo paese, che non l'aveva punto chiamato, che l'ha lasciato solo, e che è rimasto sordo alle sue provocazioni. Garibaldi va a portare il suo concorso ad una insurrezione, che non ha eccitata né consigliata, come si sa dalle sue proprie parole, ad una insurrezione, che non è né compressa né vinta, né disperata, come all'Unione piace di affermare. Bisognerà accusare in questa circostanza la memoria, la giustizia, o la imparzialità dell'Unione? La coscienza dei nostri lettori darà la risposta.

Però dopo i primi giorni le opinioni dei due giornali officiosi, che si erano mostrati così irritati, si modificarono. Essi ebbero a cuore di fare notare, che il biasimo della spedizione di Garibaldi non derivava punto da propensione pel governo di Napoli. La Patrie rispondendo al Siècle, che aveva scritto, l'Inghilterra non potere considerare senza preoccupazione un avvenimento, che potrebbe togliere la Sicilia al Re di Napoli, diceva:

«Troviamo soltanto, che nel servirsi della parola preoccupazione, il Siècle non adopra il termine proprio. In quest'affare la politica inglese ha mostrato qualche cosa di più della preoccupazione; ha mostrato una determinazione ed un partito adottato, che debbono fare riflettere. Forse che l'Inghilterra ha come noi l'abitudine d'infiammarsi per una idea? Forse essa non ha dichiarato dall'alto di tutte le sue tribune e per l'organo di tutti i suoi giornali nel cominciare la nostra gloriosa campagna d'Italia, che l'indipendenza italiana non valeva per lei né un uomo né uno scellino?

«Perciò adunque questo istantaneo e sorprendente cambiamento delle sue abitudini? Perché tutto assieme questo interesse sì ardente e capace di sacri& zii, che porta alla rivoluzione siciliana? Noi sottomettiamo questa semplice riflessione al Siècle, che ha potuto leggere nella Presse di ieri sera queste quattro linee scritte dal sig. Prevost-Paradol:

«Garibaldi partendo dal porto di Genova ha fatto o vela per la Sicilia. Si crede generalmente, che il denaro necessario pel suo armamento gli sia venuto dall'Inghilterra.»

«Che questo fatto riferito dalla Presse sia vero o no, si anderebbe al di là del nostro pensiero, se ci si facesse dire, che noi supponiamo Garibaldi capace di avere concluso un mercato qualunque e di fare il traffico di un popolo in nome della sua indipendenza. Secondo noi questo capo avventuroso pensa unicamente a fare una rivoluzione, e crede di non essere altro, che il soldato della libertà. Però s'inganna; si sa quanto i rivoluzionarli di questa tempra, i rivoluzionarli ad ogni costo, sono facilmente soggetti a questa specie di errori. La bandiera, ch'è andato ad innalberare in Sicilia, reca in grosse lettere: Indipendenza e Libertà, ma noi abbiamo il profondo convincimento, che se la rivoluzione dovesse riuscire, gli avvenimenti scriverebbero bentosto dall'altra parte della bandiera: Protettorato dell'Inghilterra.

«È appunto questo protettorato, ben conosciuto nel mondo e nell'istoria, che noi respingiamo con tutte le nostre forze. Certissimamente il Siècle non vuole più di noi questo protettorato per la Sicilia; ma noi siamo consegnati, ed esso non lo è.

«Noi non vogliamo, che dei Siciliani diventino degli Ionii; ecco tutto il segreto della nostra politica.

Ed il giorno prima lo stesso giornale aveva scritto:

«Si assicura, che la spedizione è organizzata su di una grandissima scala; essa ha armi, munizioni, viveri, un materiale di accampamento e tutte le risorse necessarie per sostenere una lotta di più mesi.

«Tale spedizione deve esigere delle considerevoli spese, che non possono essere minori di più milioni. Le soscrizioni particolari raccolte in Inghilterra ed in Italia non si sono elevate ad una somma comparativamente importante.

«A malgrado gli eccitamenti della stampa inglese il meeting, ch'è stato il più fruttifero, non ha prodotto in Londra, che un totale di 15 mila franchi. Il governo piemontese ha energicamente riprovato l'intrapresa di Garibaldi, e tutti con ragione credono alle sue dichiarazioni. Epperò si può ben dimandare chi ha fornito il complemento del denaro necessario a questa intrapresa? Ed altrove:

«Si sa, che alcuni giorni sono, il 4 di maggio, lord John Rosse', rispondendo ad una interpellazione, che gli era fatta nel Parlamento, in rapporto agli affari del Regno delle Due Sicilie, dichiarava, che il governo napoletano aveva reclamato i buoni uffizii dell'Inghilterra a fine d'impedire con mezzi amichevoli la spedizione, che Garibaldi si proponeva di dirigere contra la Sicilia, ed aggiungeva, che vi era ogni ragione da sperare, che questa spedizione non avesse luogo.

«Per una singolare coincidenza, precisamente l'indomani del giorno, in cui lord John Russe! faceva una simile dichiarazione, Garibaldi ha lasciato Genova per rendersi in Sicilia alla testa di una spedizione considerevole e da lungo tempo preparata.»

Si scorge bene come la stessa preoccupazione, che aveva destata la rivoluzione di Sicilia, si mantiene nella spedizione di Garibaldi. Sono sempre gli stessi elementi, che determinano i giudizii, e riproducono quindi i medesimi errori. Secondo questi giudizii gl'Italiani sono assolutamente incapaci di vedere i loro interessi, e simili a quei giovanetti, che sortono dall'adolescenza, hanno bisogno di essere consigliati, guidati, sorretti. La Sicilia non può insorgere contro un governo, che aveva stancato la pazienza di tutti, senza esservi stata istigata dal! Inghilterra; Garibaldi non può accorrere in aiuto dei patriotti siciliani, che stentatamente si difendevano contra le esorbitanti masse dei difensori del dispotismo, reclutati su ogni terra, che ne può somministrare, senzaché John Russel non ve lo spingesse.

Ma e perché mai il concetto di un popolo, che le sventure avevano istruito, ed i martirii esacerbato, di un popolo, che da 46 anni era stato deluso ed ingannato in tutti i suoi interessi e nelle sue più care affezioni, di un popolo, che se infruttuosamente aveva già tentato di sottrarsi da un potere, che odiava, era però rimasto più tenacemente fermo nel suo proposito di sottrarvisi non appena il potesse; perché questo concetto così naturale, così politico, così conforme ai fatti pubblicamente constatati non si presentò alla mente della Patrie? Perché in sostanza, nel fondo, la quistione italiana o non si ammetteva, o si ammetteva ben diversamente da quella, che la concepiscono gl'Italiani. Per noi la indipendenza e la libertà italiana sono l'affrancamento da ogni protettorato mercé lo sviluppo e l’organizzamento delle nostre immense risorse; è il ricomparire sulla scena politica di una potenza in quel posto, che queste stesse risorse, le sue glorie, le sue tradizioni le assegnano. L'Italia centrale aveva unicamente per questo scopo resistito a tutte le seduzioni, a tutte le pressioni, a tutt'i tentativi, che si erano con tanta insistenza praticati. L'Italia meridionale aveva potuto per un istante arrestarsi innanzi alle difficoltà, che la via più breve presentava, e tentare una curva più lunga. ma meno arrischiata; però conosciuto appena quanto questa fosse aspra e mal fida, se n'era risolutamente ritratta, l'aveva pure ricusata quando gliela si era aperta e sgombrata, aveva freddamente accolto le franchigie costituzionali, tuttoché si avesse avuto cura di ranno darle a quelle del 48, per le quali il partito liberale aveva tanto sofferto, aveva infine inalberato il vessillo nazionale, e sotto di esso si era irremovibilmente schierato. Se a tutto questo la Patrie avesse posto mente, non avrebbe avuto mestieri di ricorrere a presupposizioni, che i fatti hanno smentito.

Il Pays dal suo canto vide la necessità di piegarsi innanzi l'opinione pubblica: — «Oggi ancora, esso scriveva, mancano le notizie sulla spedizione di Garibaldi. S ignora ove ha potuto sbarcare, e si rimane sempre sin anche nell'incertezza del punto del littorale della Sicilia o del Regno di Napoli, verso del quale si sarebbe diretto.

«Tutte le corrispondenze di Torino e di altri luoghi tacciono su di ciò, ma sono unanimi per constatare l'emozione, con la quale sia in Italia sia in Europa si attende il risultamento ili quest'audace intrapresa.

«Questa emozione è profonda. Essa si manifesta nelle corrispondenze e nei giornali. I più freddi ed i più gravi spiriti non possono difendersi da un'aspettativa piena d'inquietudini.

«Al cospetto di un sentimento cosi generale non possiamo fare a meno di deplorare, che, la Corte di Napoli non abbia meglio compreso i consigli, che più d'una volta le sono stati dati dalle due potenze amiche la Francia e l'Inghilterra.

«Se tali consigli fossero stati seguiti, non saremmo ora testimoni di questo strano fatto, che una spedizione di qualche centinaio di uomini possa essere considerata dall'opinione pubblica in Europa come un pericolo serio per uno stato così importante come il regno delle Due Sicilie.

«E’ indubitato, che questa volta il Pays definiva più esattamente la situazione. Esso d'altronde era stato obbligato a notare lo straordinario segreto, che si era serbato sulla spedizione. — «Del resto aveva esclamato, cosa singolare! mai maggiore mistero non ha avviluppato, almeno per la pubblicazione dei dettagli della sua esecuzione, un fatto avvenuto sotto gli occhi e con la partecipazione di molte persone; è veramente un accordo di discrezione e di silenzio straordinario.

E non poteva essere almeno questo un argomento per indurne essere gl'Italiani capaci di potere condurre a buon termine una grande intrapresa?

In Inghilterra la simpatia pei Siciliani non si era nascosta neanche dai membri del governo nella Camera dei Comuni. Nella sessione dei 12 di maggio il Sollecitatore generale, rispondendo ad una interpellazione, la espresse positivamente. Egli disse sperare, che le soscrizioni organizzate a Londra per venire in soccorso degl'Italiani non possano essere considerate come illegali; sinché si rimarrà nei limiti di raccogliere danaro, niuna legge sarà violata.

Il Times scriveva:

«Nella notte del 5 corrente il Generale Garibaldi si è imbarcato con 2000 uomini a bordo di due legni a Genova, e si suppone, che in questo momento sia di già sbarcato in Sicilia o sulle coste della Calabria per aiutare la insurrezione. Cosiffatta intrapresa è fuori dei limiti della lode e del biasimo, né servirebbe a nulla di giudicarla secondo le regole comuni, che applichiamo alle politiche transazioni. Rimproverare al Generale partegiano di avere violato le leggi internazionali, prendendo le armi contro uno Stato in pace con la sua patria, sarebbe nella opinione dei suoi ammiratori cosa tanto puerile quanto accusarlo di pirateria per essersi impossessato de'  bastimenti di una compagnia.

«L'uomo, la causa, e le circostanze sono così straordinarie, che si debbono giudicarle specialmente. Il successo presenterà Garibaldi come un Generale ed un uomo di Stato della maggiore capacità; la sua disfatta, la sua rovina, la sua morte ne faranno una specie di D. Chisciotte d'avventure, d'un incontestabile coraggio, ma di un debole giudizio, ch'è andato a perdere la vita in un disperato tentativo di filibusteria. La spedizione di Sicilia prenderà posto vicino a quella di Guglielmo d'Orange, che sbarca in Inghilterra, o vicino a quella di Murat, che sbarca nelle Calabrie; e noi non siamo certi, che di una sola cosa, cioè del coraggio eroico dell'uomo, che l'ha tentata. Non possiamo parlare dell'attitudine dei Siciliani con eccesso di confidenza. L'insurrezione per certo non sembra terminata. Sembra, che i Siciliani siano insorti contro i loro oppressori con tutta la furia, che lunghi anni di tirannia possono inspirare. Le truppe regie sono state respinte da una insurrezione di cittadini armati in fretta e completamente indisciplinati.

«Uomini di ogni grado e di ogni professione si sono aggregati al movimento. Gli stessi preti hanno obliato il loro rispetto tradizionale per l'autorità: i giovani si sono uniti con piacere alla lotta per la indipendenza dell'isola; i vecchi sono stati trasportati dall'entusiasmo dei giovani; soldati ed anche uffiziali hanno abbandonato i loro principii per congiungersi al movimento patriottico. Ma ciò malgrado un'armata regolare è una macchina ben potente, e v'ha pochi esempii nell'istoria del mondo di una popolazione, che abbia resistito alla forza armata senza l'aiuto straniero o la disaffezione militare. L'armata napoletana è numerosa, bene organizzala, e non è comandata male.

«Questa gelosia tra i soldati ed i popoli, che dopo il 1848 si è elevata sul continente, — questo spirito di corpo, che fa che un reggimento francese o austriaco carichi con piacere sul popolo di Parigi, o di Vienna  — , anima senz'alcun dubbio le truppe del Re di Napoli contro gl'insorti siciliani. E benché il paese sia difficile, non v'ha una grande distanza da traversare. Si può andare nelle principali città per mare, ed il mare è comandato dalla marina del Re. Le probabilità dunque sono in gran maggioranza contro il successo pel movimento. Se il Re di Napoli può adoprare tutte le sue truppe contro le provincie insorte, la causa, che Garibaldi ha sposato, ci sembra molto disperata.

«La pretesa licenza delle istituzioni inglesi è certamente oltrepassata dalla libertà lasciata a Garibaldi dalla Sardegna. Non solamente egli s'imbarca a suo comodo coi suoi uomini, ma i giornali pubblicano i proclami, mercé i quali il capo avventuriere spera di sollevare i suoi compatriotti. Garibaldi ha la facilità d'invitare pubblicamente i suoi compatriotti ad aiutarlo nella sua intrapresa con tute i mezzi possibili. Egli dice loro, che tutti gli uomini bravi debbono essere inviati colà, ove gl'Italiani combattono contro i loro oppressori, e che l'insurrezione siciliana dev'essere aiutata non solamente in Sicilia, ma da per tutto ove sono i suoi nemici.

«Io non ho consigliato il movimento siciliano, aggiunge il Generale, ma poiché i nostri fratelli combattono, credo mio dovere di volare in loro soccorso».

«Certamente una parte della stampa continentale attribuisce il movimento all'Inghilterra.. Ma senza discutere ciò possiamo emettere un dubbio sulla condotta del governo sardo. Ci sembra, che Garibaldi abbia avuto tutte le sue agevolazioni. Non sarebbe colpa del Gabinetto di Torino di provare delle simpatie pei Siciliani, perciocché senz'alcun dubbio ogni uomo liberale in Europa desidera loro il successo. E del rimanente le relazioni di Napoli e della Sardegna non sono tali, che il Re Vittorio Emmanuele sia tenuto ad una grande delicatezza. Ma noi crediamo, che il governo sardo può difficilmente lusingarsi di avere fatto dei grandi sforzi in favore dell'autorità napoletana, e che può dispensarsi di affettare una virtù, della quale sopratutto difficilmente gli si potrebbe rimproverare la mancanza.

«Garibaldi negli ultimi avvenimenti d'Italia ha spiegato un carattere, i cui tratti sono simili a quelli, che possedeva Carlo Napier. Bravo come la sua spada, ardito, avventuroso, e formato per le più difficili intraprese, è stato tacciato in tempo di pace come un uomo intrattibile da coloro, che sono al potere. Dopo la conclusione della pace non si è mostrato favorevole né al Re né ai suoi Ministri. La sua popolarità personale è grande in Italia, ma è il risultamento della sua grande riputazione militare. Come politico egli è così poco stimato, che ci si dice, che verrebbe disfatto in ogni collegio, nel quale gli si opponesse un candidato del Governo. Garibaldi vede nella insurrezione siciliana delle eventualità per accrescere la sua fama. Il Conte di Cavour pensa senza alcun dubbio, che al suo importuno rivale la Sicilia conviene meglio della capitale. Se il Generale libera la Sicilia, ciò sarà bene e buono; se non riesce, o non ne ritornerà affatto, o ne ritornerà così decaduto dalla sua alta riputazione, che non sarà più pericoloso. Ed ecco come lo si lascia andare a suo rischio e pericolo con tutti coloro, ai quali potrà persuadere di dividere il suo destino. n L'importanza di quest'articolo per conoscere come veniva giudicata in Inghilterra la spedizione di Sicilia da coloro, che desumono i principii dei loro raziocinii dagl'interessi prettamente materiali, esigeva, che venisse trascritto. Quanto alla sua conclusione abbiamo avuto già occasione di rilevarne l'errore.

E veramente nella storia contemporanea di un periodo, nel quale l'opinione pubblica ha tanta parte negli avvenimenti, esporla per mezzo degli organi più influenti della stampa periodica, è necessità di metodo, ed è mezzo efficacissimo a coordinare i fatti con le cause efficienti, ond'emergono. Così è pure importantissimo l'estratto di un articolo del Morning-Post, non solo perché è il noto organo di un uomo, di tanta prevalenza nella politica europea, ma anche per le esatte previsioni, che i fatti hanno verificato.

«Egli è certo adesso, che l'Italia non sarà tranquilla, che allora quando i Romani ed i Siciliani avranno rovesciato i Sovrani, che detestano da sì lungo tempo. Per noi, che siamo distanti, non possiamo, che fare dei voti per questo popolo da sì lungo tempo oppresso, che altro non dimanda, se non un governo libero e delle giuste leggi. Se non siamo amici della rivoluzione, non lo siamo neanche della tirannia, né conosciamo altro mezzo per la libertà dell'Italia, che quello, che le circostanze hanno fatto ora adoperare.. Resta adesso da sapere che cosa farà il governo di Roma, e se il Generale Lamoriciére agirà di concerto con l'armata napolitana, o unicamente pel Papa.

«I due Sovrani d'Italia, i cui popoli non sono liberi, si combineranno per allontanare il giorno, che alla pur fine deve venire, ovvero ciascuno di essi si sforzerà separatamente di mantenere il suo potere? Noi non possiamo predire loro il successo né in un modo né in un altro. Che facciano quello, che vogliono, avranno sempre i loro popoli contra di loro. I soldati italiani, che sono nella loro armata, non si batteranno. I mercenarii, che vi sono, non avranno il coraggio di coloro, che si battono pei loro tetti e per le loro aspirazioni. Indubitatamente dei due il Papa è quello, che ha maggiori probabilità di successo, perché ha almeno delle simpatie religiose e la leale adesione di più milioni d'individui, e questa è certamente una grande forza. Ma il Re di Napoli si trova solo; ha degli amici, perché è ricco ed è potente, ma sono di quelli amici, che vi lasciano i primi, quando viene il giorno della sventura.

«Il suo popolo però è suo nemico, ed è stato egli, che così lo ha reso. Egli lo ha oppresso, calpestato, egli ne ha succhiata tutta la vita, ed ha piantato il germe della vendetta. E quando il popolo vede i suoi compatriotti del nord dell'Italia godere dello spuntare di una libertà novellamente acquistata, è pronto ad insorgere anch'esso per godere dei medesimi vantaggi o per morire combattendo per lasciare questa eredità a suoi figli. Ed esso farà l'uno e l'altro. La quistione italiana non potrà mai essere risoluta sino a che le ferite, che sono state fatte a Roma ed a Napoli, siano state causticate, cicatrizzate, e guarite. Allora l'intiero corpo si troverà risanato, e l'Italia ritornerà così bella e così libera, come lo era nei tempi passati.

E l'Observer, dopo di avere parlato della partenza di Garibaldi, cui dava 2500 seguaci, tutti unicamente occupati di liberare l'Italia, aggiungeva:

«Vi è ogni ragione da credere, che un partito numeroso e potente è pronto a sollevarsi contro il Re di Napoli in tutte le parti del Regno napoletano. Questo partito è forte, sopratutto nella Capitale, ove ha delle strette relazioni con l'armata regia. In simili casi i colpi più audaci sono i più saggi, ed una discesa in Napoli non sarebbe il più disperato. Nella capitale gl'insorti non avrebbero da lottare, che contro i mercenarii alemanni, che hanno rimpiazzato gli Svizzeri, e forse coi lazzaroni. Gli Alemanni si batteranno bene, ma non hanno la disciplina degli Svizzeri; una insurrezione di tre giorni li metterebbe all'ultima estremità. La prima seria disfatta toccata dal governo napoletano sarà probabilmente il segnale della dissoluzione dell'armata indigena, e forse fraternizzerà coi suoi compatriotti. Ma il possesso di Napoli presso gl'insorti porrà fine in 24 ore alla guerra civile.»  —  Ed aggiungeva, che il successo della spedizione di Garibaldi avrebbe prodotto probabilmente la secolarizzazione degli Stati della Chiesa.

Quanto alla stampa austriaca, se ne può facilmente presentire il tenore. La Gazzetta dette Poste scriveva:

«Intanto il Piemonte fa tutt'i suoi sforzi per riaccendere la rivoluzione. Ben tosto si sentirà parlare della spedizione di Garibaldi, e se riesce, l'Italia non tarderà molto ad essere tutta in fiamme; una nuova guerra sarà inevitabile, né si farà lungamente attendere. Gli emissarii piemontesi non rimangono in ozio più in Napoli che negli Stati romani. Mazzini ha pure al suo soldo molti rifuggiati alemanni. che avranno l'incarico di demoralizzare i soldati alemanni al servizio del Papa. Non vi è, che Venezia, ove regnano l'ordine e la tranquillità. Epperò l'altitudine decisa del governo austriaco ha portato dei buoni frutti. I giornali piemontesi ed inglesi, come quelli del partito di Gotha, hanno bello a gridare a tale subietto, dapoiché tutte le persone alcun poco imparziali non biasimeranno l'Austria della sua maniera di agire. Niuno Stato permetterà, sinché ne avrà la forza, che una propaganda estera gli strappi dalle mani uno scettro, e non abbandonerà volontariamente un importante possedimento. Se così facesse, si renderebbe spregevole agli occhi dei suoi amici come dei suoi nemici.

Frattanto cominciavasi a conoscere in Europa lo sbarco a Marsala. Mentre dei dispacci telegrafici di Torino in data degli il di maggio accennavano ad una certa inquietudine per la mancanza delle notizie di Garibaldi, la Gazzetta di Vienna pubblicava la relazione officiale dello sbarco in Marsala:

«La legazione di Napoli, scriveva, ci ha comunicato il seguente dispaccio.

«Napoli 12 maggio. — Malgrado gli avvisi trasmessi a Torino e le promesse falle dal governo piemontese, la spedizione delle bande di filibustieri, organizzate ed armate pubblicamente, hanno preso il mare sotto gli occhi della squadra, ed hanno sbarcato ieri con due navi a Marsala.

«I legni del Re avevano aperto il fuoco, ma ebbero a sospenderlo: per due ore ne furono impediti dagli steamers inglesi sotto pretesto di dovere attendere i loro uffiziali discesi a terra. In tal modo lo sbarco si è potuto compiere.

«Le truppe regie si sono mosse ad incontrare gli sbarcati, e manovrano per circondarli.

Un telegramma di Londra del 14 del detto mese riferiva la notizia data dal Times dello sbarco di 1000 uomini, ma senza Garibaldi, e che il Morning-Post pubblicava sulla stessa notizia un dispaccio di Parigi, che diceva venire da fonte sicura. Anche quella notizia diceva ignorarsi, se Garibaldi avesse preso terra. E questi dubbii sulla presenza di Garibaldi in Sicilia si protrassero ancora per parecchi giorni dopo lo sbarco. «Si assicura, scriveva la Patrie, che le ultime notizie raccolte dal governo napolitano constaterebbero, che Garibaldi non sarebbe sbarcato in persona nell'isola di Sicilia.»

  —  Ne dubitavano del pari il Constitutionnel ed il Pays, e la stessa Opinion natio nate elevava la quistione: «Garibaldi è oppur no in Sicilia.»

  —  Ed aggiungeva, che molti inclinavano a rispondere negativamente.

«La verità si è, soggiugneva il foglio, che non si sa nulla di positivo a tale riguardo. e che sin ora non si può nulla sapere, non avendo naturalmente gl'insorti alcun mezzo di corrispondenza con l'estero, e le autorità napoletane adoprando, oltre le loro crociere intorno la Sicilia, il loro procedere abituale, ch'è di sopprimere, come si dice, ogni comunicazione con la distruzione dei fili telegrafici.»

«E terminava con un'osservazione, che potrebb'essere vera:  —  «Importa poco, che Garibaldi sia o no là; il suo nome ed il terrore, che inspira sono da per tutto, ed il mistero, che pende su questo punto, è forse abilissimamente calcolato per triplicare il prestigio e l'influenza, che esercita.»

Ora è naturale, che nelle ordine delle imputazioni nella opinione contraria alla spedizione venissero prima quelle al Gabinetto piemontese per avere tollerata o non impedita la spedizione, e poi le altre ai legni inglesi ritrovatisi in Marsala. Le prime formarono obietto di comunicazioni diplomatiche. Il Barone di Talleyrand non appena conobbe la partenza di Garibaldi, e senz'attendere le istruzioni del suo governo, richiamò l'attenzione del Gabinetto sardo sulle gravi conseguenze di quel passo. Egli ricordò al signor di Cavour di avergli già indicato in una precedente conversazione i preparativi, che si facevano in Genova per questa spedizione, ed espresse il dispiacere, che il governo sardo non abbia potuto opporsi ad un alto di aggressione, che tutt'i principii del dritto delle genti condannano. Ed il Conte di Cavour, giusta un articolo del Constitutionnei, dichiarò a Thouvenel, il suo governo biasimare così energicamente, come la Francia, l'audace intrapresa di Garibaldi; però quel tentativo, contrario agl'interessi del Piemonte, rispondere nulladimeno così bene agl'interessi di una parte della Nazione, di cui Garibaldi è l'eroe favorito, che sarebbe stato impossibile di adoprare la forza contro un uomo, che rappresenta una sì gran parte della forza popolare senza sollevare in tutta l'Italia una pericolosa agitazione. Garibaldi è riprovato da tutta l'Europa, ma la situazione nelle Due Sicilie è talmente triti ca, che il successo della sua spedizione non farebbe meravigliare nessuno.

Tutti erano di accordo in Italia nel giudicare la situazione difficilissima, in cui si ritrovava il Ministero piemontese. — «Bisogna niente meno, si scriveva da Torino al Nord il 10 di maggio, della grande autorità e dell'immensa popolarità acquistata in Italia dal Conte di Cavour, perché il suo ministero possa resistere alla pressione dell'opinione pubblica, assai disposta a sostenere coloro, che vorrebbero, che il governo prendesse parte alla spedizione del vincitore di Varese. Certamente, se mai il governo di Vittorio Emmanuele ha ben meritato delle Europa, è in questa occasione.

L'accordo con le potenze amiche e la pace dell'Europa l'hanno vinta sulla popolarità ed anche sul sentimento nazionale, che anima tutti gl Italiani; dapoiché, credetelo, i nostri ministri ed il nostro Re possono benissimo con la loro ragione condannarsi a rispettare uno stato di cose, che tutto il mondo condanna, ma il loro cuore non può, che desiderare il trionfo di coloro, che vanno lì basso a combattere la medesima causa, che ci ha valuto le vittorie di Palestro e di S. Martino.»

E questa disposizione dell'opinione pubblica in Italia, questa tendenza del Re e del Ministero a favore del successo della spedizione cominciava a trovare ragione anche in Francia negli organi officiosi, che l'avevano così ab irato definita.

«Ci si scrive da Torino, diceva il Pays, che il Re ha testimoniato altamente ed a più riprese dopo del suo ritorno tutta la pena, che gli faceva provare il colpo di testa di un uomo, pel cui coraggio non saprebbe nascondere la sua stima.

E quanto al conte di Cavour, il giornale diceva, di aver egli preso di rimpetto alle recriminazioni diplomatiche, che cadevano su di lui, rimproverando al ministero di avere tutto saputo e tutto lasciato fare, un'attitudine alquanto sprezzante, che permettendogli il silenzio, serviva a meraviglia il desiderio del primo ministro di non porsi intieramente in discordia nelle circostanze parlamentari attuali, né col partito del movimento né con quello della resistenza. Aggiungeva il giornale, che il conte di Cavour aveva a suo onore di fare ratificare il trattato del 24 marzo da una rispettabile maggioranza, ed osservava, non avere forse la diplomazia prima di agire esaminato e bilanciato con sufficiente maturità le condizioni estremamente delicate tra le quali si trovava personalmente messo il capo del Gabinetto sardo.

Ed anche il Constitutionnel inseriva nelle sue colonne le sue corrispondenze da Torino, che coi medesimi colori dipingevano le impressioni italiane sulla spedizione, che destava tante apprensioni in Europa:

«Non bisogna dissimularlo: vi è qui fra la gioventù molta simpatia ed entusiasmo pel capo della spedizione.

«Il movimento è pronunziatissitno; e se il conte di Cavour ha realmente, come io credo eccellenti intenzioni di arrestare la corrente di questa effervescenza, che s'impadronisce degli animi, si troverà in uno spaventevole imbarazzo.

«Forse la diplomazia non gli tiene abbastanza conto della sua delicata posizione. li sig. Cavour devo avere dei riguardi con tutti; il che è una necessità quasi personale della sua situazione politica.

«Se si esige troppo da lui in un senso conservatore, ed imponendogli imperiosamente il dovere di resistere troppo energicamente al movimento italiano, niun dubbio, ch'egli non si vegga nell'assoluta necessità di fare nell'interesse della sua dignità personale il sacrifizio del suo portafoglio.

«Del resto il nostro primo ministro è molto compenetrato delle proteste, che molte legazioni gli hanno fatto pervenire, ed aggiungiamo, che ha avuto il buon gusto di dare spiegazioni più soddisfacenti e più cortesi all'inviato di Napoli, che ai ministri delle altre potenze».

Sulla quale ultima parte un corrispondente del Nord scriveva anche da Torino, non tenersi il signor Canofari, ministro delle Due Sicilie, contento di questa politica di astenzione, e trovarla insufficiente. Minacciar quindi ad ogni istante di dimandare i suoi passaporti; del che, aggiungeva il corrispondente, non sappiano quanto il nostro governo rimanga spaventato; ma quello ch’è sicuro, si è, che molti, per non dire il popolo intiero, desiderano questa rottura.

Così modificavasi l'opinione pubblica in Francia ed in Europa sui veri caratteri della spedizione garibaldina, e frattanto la stampa liberale in Parigi intraprendeva la difesa del ministero. L'Opinion Nationoie pubblicava:

«Gli ambasciatori di Francia, d'Inghilterra, di Russia, di Napoli, hanno per quanto sembra, dimandato delle spiegazioni al Gabinetto di Torino circa la spedizione di Garibaldi.

«Se siamo bene informati l'ambasciatore di Napoli ha già formulato tre proteste sul medesimo fatto. Il signor Cavour ha declinato ogni solidarietà in questo affare, aggiungendo, ci si dice, che sebbene grandemente spinto dall'opinione pubblica, così altamente simpatica alla spedizione, aveva fatto per impedirla quanto da lui dipendeva.

Compiva l'opera di questa giustificazione ministeriale la stampa officiale ed ufficiosa in Torino. La Gazzetta officiale pubblicava un articolo per confutare le accuse di connivenza, che si dirigevano contro il governo nell'affare di Garibaldi. Il governo, diceva, ha riprovato la spedizione, ed ha tentato d'impedirla con tutti i mezzi, che la prudenza e la legge gli permettevano. Le navi sarde avevano ricevuto l'ordine d'impedire lo sbarco, ma non vi sono riuscite più di quello, che vi fosse riuscita la marina napoletana, che stava in crociera nelle acque della Sicilia. L'Europa sa, che il governo del Re non nasconde la sua sollecitudine per la patria comune, ma in pari tempo conosce e rispetta i principii del dritto delle genti, e si crede in dovere di farli rispettare negli Stati, della cui sicurezza è responsabile.

E qualche giorno prima l'Opinione aveva svolta con maggiore dettaglio la medesima tesi:

«Evi un partito, che cerca ad ogni prezzo di spingere il governo alla guerra.

«I fogli esteri, anche i meno favorevoli al nostro paese, si accordano nel riconoscere, che il governo ha agito con lealtà, ed ha fatto tutto ciò, ch'era in lui per impedire la spedizione. I giornali di Parigi e di Londra ne convengono. Anche coloro, che applaudiscono alla spedizione, dichiarano, che il Ministero sardo nel volerla impedire, non ha fatto che adempiere un dovere internazionale.

«Il partito, che spera di trascinare il paese ad una nuova guerra, non è così riserbato come i fogli stranieri. Esso dice: il governo poteva impedire la spedizione, e non l'ha voluto; esso ha ricusato il suo concorso, ma ha lasciato fare.

«É questa una grave accusa, che non saremmo meravigliati di trovare nei fogli clericali; ma degli uomini. che si vantano di essere politici e liberali, affermano, che il governo ha lasciato fare quello, che poteva impedire, per affermare, ch'esso è ora fatalmente spinto a sostenere la spedizione; è questa una cosa talmente esorbitante, che non ha nome nelle lotte dei partiti politici.

«Il governo poteva impedirlo? Non ha messo in opera tutti gli argomenti morali, che poteva usare? Non aveva esso il dritto di credere, che i suoi consigli sarebbero stati ascoltati? Epperò non restava, che di adoprare la forza materiale. Se qualcuno crede, che bisognava accendere la guerra civile per impedire la partenza di due vapori, muniti di patente per Napoli, e la cui vera destinazione era tuttavia ignota, che abbia il coraggio di dirlo, ma che non faccia sembianza di appartenere ad un partito politico serio e che aspira al potere.

«Il governo ha fatto quello, che dipendeva da lui. La diplomazia può ben dolersi della spedizione e protestare, ma non può indicare un solo atto, che metta in causa la responsabilità del nostro governo.

«La Sicilia ha destato una universale simpatia nel nostro paese, né il governo poteva ignorarlo. Ricorrendo alla forza per impedire la spedizione, che si credeva e si crede diretta verso la Sicilia, impiegando dei mezzi estremi e pericolosi, esso si metteva in opposizione con l'opinione pubblica. Sarebbe stata una risoluzione imprudente, e che avrebbe avuto le più triste conseguenze senz'ottenere lo scopo proposto, dapoiché la spedizione si sarebbe del pari eseguita.

Il governo dunque non aveva se non a prevenire la violazione delle leggi internazionali ed a declinare la responsabilità di un sì grave atto.

«Il paese ha compreso, che nella difficile posizione, in cui è, il ministero non poteva seguire un'altra via senza compromettere la tranquillità interna del paese e le sue relazioni con le potenze straniere.»

Per tal modo il concetto vero prevalse nel giudizio di tutti gli uomini, non agitati da interessi esclusivi o da passioni di parti. Nell'opinione degl'Italiani la spedizione di Garibaldi, se era un atto ardito, aumentava però le ben deboli eventualità di successo, che la insurrezione di Sicilia presentava. Niuno ignorava la influenza, che il risultamento di quella insurrezione dovesse avere in Italia. Il Ministero piemontese, come italiano, doveva dividere le medesime aspirazioni, e come rappresentante di un governo, doveva rispettare le sue relazioni con gli altri governi dell'Europa. Queste due posizioni servivano di limite l'una all'altra. Le aspirazioni italiane, le simpatie per una impresa, che ove fosse riuscita, sarebbe stata di grandissimo giovamento alla causa italiana. non potevano giungere sino al punto di dispensare dall'adempimento dei doveri internazionali, né approvare pubblicamente quello, che diplomaticamente era una infrazione del dritto delle genti, ove il fatto di un privato avesse avuto il concorso di un governo costituito. 1 doveri internazionali erano essenzialmente limitati dalle regole della prudenza, né potevano andare oltre quel confine, al di là del quale trovavasi il pericolo di urtare così fortemente la pubblica opinione da compromettere la tranquillità di tutta l'Italia e l'esistenza stessa del governo. SI che ciascuno aveva bene adempio il proprio còmpito. Il ministero si era mantenuto nel punto medio, che le difficili e delicate circostanze gli additavano; il pubblico aveva seguito, senza inquietarsi delle proteste e delle rimostranze, il cammino, che l'interesse prettamente italiano gli additava; la diplomazia si era dichiarata soddisfatta delle spiegazioni ottenute, e la spedizione di Garibaldi era divenuta un fatto compiuto, cosi da tutti universalmente accettato, e del quale non si parlava se non nella previsione delle conseguenze, che poteva avere.

Il quale risultamento indusse poi ad un giudizio esatto sui due grandi uomini, cui l'Italia deve solidalmente la sua libertà e la sua indipendenza. Si osservò (), che il sentimento, che dà l'iniziativa delle grandi intraprese, la fermezza della volontà, che le fa trionfare, e la ragione e la prudenza, che le consolidano, sono le qualità di un vero uomo di Stato. Che però è raro, che siano unite, perciocché ordinariamente si escludono. L'ardore del patriottismo, quando non è sottoposto al controllo della ragione, l'impetuosità ed il convincimento senza il calcolo e la previdenza, faranno il cittadino devoto e l'intrepido soldato, ma non faranno giammai l'uomo politico. Divise, quelle qualità potranno liberare una nazione, e rovesciare un sistema, ma unite potranno soltanto fondare un impero e conservarlo. Ora questi due ordini di qualità si rattrovano in Cavour ed in Garibaldi. Il primo, uomo di Stato in tutta la forza del termine, sa lottare e resistere, transigere ed attendere per consolidare i risultamenti ottenuti; il secondo, uomo di azione sopra tutto, soldato, e capo di perteggiani non obbedisce, che ad un mobile solo, a quello del suo ardente patriottismo; egli non sa che fare dei calcoli e delle combinazioni della prudenza.

Il risorgimento italiano, ed in ispecialità l'insurrezione della Sicilia ha trovato questi due uomini al loro posto. La Provvidenza li ha riuniti sotto lo scettro di un Principe, che fedele alla missione, che ha raccolto nello ascendere i gradini del trono, ha compiuto quel numero perfetto, ch'è irrecusabile pruova di essere i destini dell'Italia maturi.

Così esaurite le imputazioni al ministero piemontese, venivano quelle, che la stampa austriaca faceva al Gabinetto inglese pei legni, che s'erano trovali a Marsala. Noi abbiamo detto quello, che sembra la spiegazione più semplice e più naturale di quel fallo, ma nelle prevenzioni, che v'erano allora contra r Inghilterra, quella spiegazione non poteva, né doveva soddisfare. Per lo che che l'OsldeulsrhePost scriveva:

«Appena la Repubblica fu proclamata in Venezia nell'aprile 1848, una fregata a vapore giunse da Malta in vista del lido per mettersi a disposizione del Console inglese. Non vi era più occasione di proteggere i sudditi inglesi; Venezia senza trarre un sol colpo si era abbandonata nelle mani dei repubblicani; e siccome gl'Inglesi più di ogni altra nazione simpatizzavano col movimento, che da cima a fondo agitava l'Italia, cosi la loro esistenza non era per alcun verso minacciata nella penisola. Quale dunque era la missione di questa fregata? Il Terribile incrocicchiava placidamente tra Venezia e Trieste, ma la mattina del giorno, in cui la flotta sarda, accompagnata da una squadra napoletana, comparve innanzi Trieste, il Terribile, che si trovava ancorato innanzi la linea di battaglia della flotta austriaca, ordinata nella rada di Trieste, disparve per andare ad osservare gli avvenimenti nella baia di Muggia, mentre aveva la forza di proteggere la città contro ogni attacco, che avrebbe potuto minacciare i pretesi interessi inglesi.

«La bandiera inglese aveva fatto luogo al nemico dell'Austria unicamente per permettergli di agire impunemente contro il Porto inoffensivo di Trieste! Come l’Inglese si affretta a portare nuovi alimenti alla rivoluzione in Sicilia, così allora favoriva le intraprese della bandiera tricolore contro Trieste. Quello, che Lord Palmerston voleva allora, lo vuole pure adesso.

Con che il foglio austriaco voleva dire, che nei due tempi l'Inghilterra aveva favorito la causa della libertà contro il dispotismo; rimprovero per verità, che non sembra dovesse riuscire molto duro pel Gabinetto di S. Giacomo presso la nazione.

Queste furono le impressioni, che la spedizione di Garibaldi fece nei Gabinetti europei più prossimamente interessati nella quistione italiana. L'ultima espressione di tali impressioni si può ridurre a ciò. In Austria si credeva ad un antagonismo tra la Francia e l'Inghilterra in quella quistione. La Francia, si diceva, non può permettere un protettorato dell'Inghilterra nella Sicilia, perché la renderebbe padrona del Mediterraneo; l'Inghilterra non può soffrire l'installazione di un Murat sul trono di Napoli; né la rivoluzione italiana, né Garibaldi spargerebbe il sangue per lui. Sì che lo scopo della propaganda rivoluzionaria non può esser altro che o di repubblicanizzare la Italia meridionale o di annetterla al Piemonte. Niuna di queste due cose convengono a Napoleone ed all'interesse della Francia, per cui questo interesse esige per lo momento la conservazione della dinastia regnante sul trono delle Due Sicilie. Se l'Inghilterra ha un interesse opposto, deve rinunziare all'alleanza francese, e non v'è ragione da credere, ch'essa getti il guanto ad un alleato, cui ha già fatto tante concessioni ().

Ma non erano tali le previsioni della Francia e dell'Inghilterra. Un importante articolo del Constitutionnel venne a rivelare all'Europa, che quelle due potenze sarebbero andate sempre di accordo, qualunque fosse stata la direzione degli avvenimenti in Italia.

Dopo di avere riconosciuto, che il Gabinetto piemontese non poteva fare più di quello, che aveva fatto, soggiugne:

«Così — e ciò sia bene inteso — Garibaldi nell'avventura, che tenta, è solo impegnato. Egli è l'uomo della sua iniziativa; il Piemonte lo riprova, ed egli va a portare sulla costa delle Due Sicilie la bandiera di un partito, non quella del governo.

«Bisogna però, che non si cada in errore sul nostro pensiero. Se l'intrapresa di Garibaldi è biasimata e riprovata dal sentimento politico dell'Europa, ciò non importa, che l'opinione o i governi si facciano illusione sulla vera situazione del Regno delle Due Sicilie.

«Codesta situazione è assai critica, talmente critica, che il successo di questa avventurosa intrapresa non stordirebbe niuno. L'attuale sovrano di Napoli ha sventuratamente camminato sulle aberrazioni del suo predecessore. Alla morte di suo padre Francesco II aveva una magnifica occasione di riconciliarsi con lo spirito italiano; egli l'ha fatta sfuggire. Noi lo deploriamo profondamente, dapoiché noi riguarderemo il crollamento del trono come una cattiva complicazione per l'Italia e per l'Europa.

«La politica francese non mira a crollare le dinastie, e quando la sua influenza si esercita nell'estero è per tentare di riconciliare i Re coi popoli. Questo è quello che ha voluto fare a Parma, a Modena, in Toscana, nelle Romagne, e se non è riuscita, l'istoria ha già detto di chi è la colpa.

«Noi dunque non possiamo dissimulare quanto è adesso dispiacevole la situazione del governo di Napoli. Ma senza prevedere la riuscita della spedizione di Garibaldi, quello, che noi non ammettiamo si è, esservi nelle eventualità di questa situazione elementi d’una conflagrazione europea.

«Si mostra la mano dell'Inghilterra distesa verso la Sicilia. Tutti i grandi popoli hanno senza dubbio le loro ambizioni, ma per ardenti che siano, sono contenute nella loro orbita dall'interesse proprio e dall'interesse generale. Non è più facile all'Inghilterra d'impadronirsi della Sicilia, che alla Russia di occupare Costantinopoli.

«L'Inghilterra d'altronde nella quistione italiana ha sempre agito di concerto con la Francia. I due Gabinetti di S. Giacomo e delle Tuglierie s'erano messi di accordo per trasmettere alla Corte di Napoli delle rappresentanze comuni. Più tardi avevano simultaneamente rotte le relazioni diplomatiche, né le hanno riprese, che insieme. Perché dunque supporre loro adesso dei disegni opposti?

«Speriamo ancora, che la quistione italiana non si snoderà col trionfo d'una rivoluzione. Noi lo ripetiamo. Tale snodamento sarebbe una sventura per l'Italia, che dopo di essere stata cosi gloriosamente affrancata, ha ora sopratutto bisogno di essere acchetata. Ma se cosiffatto snodamento dovesse prodursi, se ne dovrebbero scongiurare i pericoli non per l'antagonismo e la rivalità delle grandi potenze, e specialmente della Francia e dell'Inghilterra, ma sibbene per la loro unione.»

Era dunque manifesto, che le due grandi potenze occidentali erano di accordo nella quistione italiana; si sapeva d'altronde, ché il Conte di Persigny a Londra era riuscito a stabilire siffatto accordo. Ciò bastava agl'Italiani per proseguire nell'opera cominciata.



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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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