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L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (1)
L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (2)
L'Italia meridionale o l'antico Reame delle due Sicilie G. De Luca - (3)
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L'ITALIA MERIDIONALE

O

L'ANTICO REAME DELLE DUE SICILIE

DESCRIZIONE

GEOGRAFICA, STORICA, AMMINISTRATIVA.

PER

GIUSEPPE DE LUCA

NAPOLI - 1860


(2) pag. 114 - 217

AI NOSTRI CONCITTADINI

Pubblicando il Compendio di Geografa di Adriano Balbi, la massima opera del nostro Geografo italiano; poste innanzi alcune nostre poche parole intorno al concetto della Geografia, e un più lungo lavoro intorno alla storia di quella scienza e alla Geografia Antica, noi ci siamo dipartiti dal Balbi nell'ordine delle materie, e siamo entrati nella topografia incominciando dagli Stati italiani. Fu nostro pensiero che l'Italia nostra, che il nostro bel paese fosse descritto innanzi a tutti gli altri e piíi particolarmente; e che l'Italia, allora divisa in tante parti, avesse, in questa descrizione, quell'unità che niuno al mondo non polena ritoglierci. la unita geografica, che fu una grande cagione, anzi la principale, dell'unità politica.

Onde alla descrizione degli altri Stati italiani noi riunimmo quella dell'Illirio, del Tirolo italiano, del Trentino, della Venezia, della Lombardia, della Corsica, delle isole di Malta. Nè solo riunimmo in uno tulle le parti d'Italia, spezzando le dure unità amministrative, che il Balbi aveva voluto conservare; ma ad ogni contrada d'Italia aggiungemmo un'appendice, nella quale, sviluppando la parto topografica, noi demmo molte notizie storiche, geografiche, amministrative, con ricchi quadri di Statistica; e si che la nostra Italia, pubblicata in quel libro, apparve come un lavoro compiuto.

Venendo a questa parte meridionale della penisola, noi siamo discesi in più minuti particolari; e, discorse lungamente le condizioni fisiche, le condizioni storiche e le amministrative di questo paese, abbiamo sviluppato la topografia delle provincie napolitane e siciliane, e fatto di determinare il carattere tisico di ciascuna di esse.

Egli è vero che, avendo pubblicato questo lavoro nel finire del 1859 e nel cominciare del 1860, noi dovemmo conservare alcune denominazioni e suddivisioni degli antichi Stati italiani. Egli è vero che questa parte d' Italia che noi abitiamo, e ch'è la più meridionale e la più bella ad un tempo, entra oggi nel regno d'Italia, entra in un periodo di nuova vita, tanto che il nostro lavoro per questa parte può dirsi antico. Ma quello che forma la parte fondamentale del libro che noi pubblichiamo resta immutato, nulla cangiando le condizioni topografiche e fisiche, le condizioni storiche e statistiche. Ed essendo utile ed importante che queste nostre particolari condizioni sieno conosciute, soprattutto nel momento in cui noi versiamo, nel salutare lavoro di contemperare ed unificare insieme le varie provincie italiane, noi crediamo di far cosa grata ai nostri concittadini, presentando loro questo lavoro, che noi abbiamo fatto con tanto amore, raccogliendo ed ordinando insieme tanti sparsi elementi.

Napoli 1° Gennaio 1861.

Giuseppe De Luca.



Magna Grecia

La Magna Grecia era la parte più nobile, più popolosa e più ricca delle nostre antiche regioni, della quale si ripete anche oggi, dopo tanti secoli di decadenza, il nome glorioso, la civiltà incomparabile e le libere istituzioni delle colonie greche ivi trapiantate. Quantunque fossero incerti i suoi limiti e diversi nella descrizione che ne lasciarono gli antichi Geografi, pure pare che la Magna Grecia fosse propriamente ristretta nella piccola parte del nostro paese divisa ne' tre golfi di Locri, Scilacio e Taranto, e che cominciando dalla prima di queste città avea

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termine nel promontorio Salentino; ed avea quasi da per tutto naturali confini, essendo da un lato cinta dal Jonio, dall'altro da' monti, e tutta intersegata dal corso di numerosi fiumi, che formavano i limiti delle piccole regioni di quella contrada.

E questa cosi bella regione fu da' Greci per lo più detta Grande Ellade, e da' Latini spesso Grecia Maggiore e Grecia Massima; e tal nome meritò forse per l'accrescimento rapido, la popolazione straordinaria e la floridezza a cui salirono le greche colonie ivi fondate; e forse per ragione della Scuola pitagorica, frequenta la da gran numero di filosofi, legislatori, oratori e poeti dal celebre filosofo ammaestrati, e i quali si erano sparsi per le città d'Italia, della Sicilia e della Grecia propria.

La Magna Grecia fu divisa in più repubbliche e piccoli stati indipendenti, ed è facile di distinguerle, e per le città autonome che batterono le proprie monete, e che furono le metropoli di ciascuna regione, e pe' naturali confini posti da' geografi antichi. Le regioni, in che la Magna Grecia era divisa, furono la Locride, la Caulonitide, la Scilletica, la Crotonitide, la Sibaritide o Turiatide, la Siritide o Eracleotide, la Metapontica e la regione Tarentina.

La Locride è la regione della Magna Grecia, che dalla sponda del fiume Alece si distende in sino alle rive del Sagra, o dell' Alaro di oggidì; ed è una delle più ridenti e più fertili nostre contrade, e furono celebrate le sue verdeggianti colline, e i ricchi abitanti, e gli ordini politici e la potente repubblica di Locri; furono celebrati l'olio, il miele e i pascoli eccellenti; e gli oleandri ed altri molti alberetti che verdeggiano sulle sponde de' torrenti, e boschetti interi di laurirose nelle vicinanze di Gerace, e i vini squisiti del Siderno, e l'aere dolce e lieto.

In sull'estremità meridionale della penisola era il Promontorio Erculeo (Promontorium Herculeum), oggi Capo di Spartivento, cosi detto da' venti contrarj che spirano per direzioni opposte. E più oltre è il Promontorio Zefirio, ora detto Capo di Bruzzano.

Tra le città notevoli di questa regione, indicheremo:

Uria, fondata probabilmente da' Locresi, città importante e padrona di un ricco commercio marittimo, ricordata nelle medaglie o nelle monete che restano di essa. Il sito della città era in una pianura a breve distanza dal mare, appena valicato il fiume Buonamico, che il territorio di BovaUno divide da quello di Bianco. Ed ivi sono ancora rovine di opera laterizia, e vestigi di pavimenti a musaico, e furono scoverti marmi, colonne, statue di bronzo, monde.

Locri, poco discosta da Uria, fu una delle più celebri e possenti città non solo della Magna Grecia, ma di tutto il nostro paese. Fu città greca, fondata da' Locresi, cui unironsi in processo di tempo altri coloni greci.

Ebbe le leggi di Zaleuco, uno de' più celebrati legislatori dell'antichità, il quale fece per modo rifiorire la sua città, che Platone ne preferì la costituzione a tutte le altre delle vicine repubbliche.

La città divenne popolosa e florida, e fondò colonie, e sostenne lunghe guerre. Fu alleata di Siracusa nella guerra degli Ateniesi contro la Sicilia, e fu poi oppressa e spogliata dal giovine Dionigi. I Locresi combatterono e vinsero i Bruzii; nelle guerre tarentine parteggiarono ora per Pirro, ora pe' Romani, e Pirro spogliò il tempio di Proserpina,

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uno dei più ricchi e celebri d'Italia; e dopo essere stati dominati, nelle guerre puniche, ora da' Romani, ora da' Cartaginesi, Locri fu città federata del popolo romano, e si reggeva con le proprie leggi, tenuta soltanto a prestare alla Repubblica un tributo di navi.

Furono celebrati i Locresi per la integrità de' costumi, per le savie leggi, per la giustizia de' magistrati; eccellenti nella divina arte di Calliope e nelle fatiche di Marte, erano saggi, ospitali, bellicosi.

Locri ebbe monete sue proprie, che sono una chiara pruova della sua prosperità; e in alcune di esse vedi una testa di Giove, e in altre quella di Cerere, co' tipi della spiga, dell'uva, del cornucopia, che sono simboli della dea, e della fertilità del suolo.

La città fu saccheggiata e distrutta da' Saraceni ne' principj del X secolo, e allora i superstiti cittadini, abbandonando quelle rovine, si stabilirono nella Rocca Termulah, cosi detta dalle acque termali, ora dette Acque Sante, che scaturiscono a mezzodì di Gerace. Questa termopoli fu detta nel 986 città di S. Chiriaco, e di qui venne il nome d' Yracium e Hieracium alla nuova città che i Locresi edificarono sull'alta rupe alla distanza di 4 miglia dalla città distrutta. Della città antica veggonsi ancora sul lido del mare e sull'imminente collina gli avanzi delle forti e solide mura, che aveano un perimetro presso a poco di cinque miglia; e veggonsi le rovine de' templi superbi, de' sepolcri, degli acquidotti, delle terme. Fuori della città era il famoso tempio di Proserpina, e si è supposto nel sito della chiesa di S. Ciriaca, poi divenuta la cattedrale della città.

Nelle vicinanze di Locri, e forse fondate da' Locresi furono le città d 'Itone e di Malea, di cui sono incerte la situazione e le vicende.

La Caulonitide seguiva immediatamente alla Locride, ed era ristretta tra il fiume Sagra e il promontorio Cocinto, ch'era poco al di sopra della foce del Callipari, e comprendeva i circondari di Stilo, Serra, Badolato e Davoli. E se non giunse alla floridezza delle regioni vicine, conservò lungo tempo la sua indipendenza sino a che non fu occupata ed oppressa da Dionigi il vecchio, e ritraeva i principali elementi della sua prosperità dalla naturale fertilità della terra e del mare, e dal provvido e intelligente governo.

Nella descrizione di questa piccola contrada, noteremo:

Caulonia, antica ed importante città, tre volte fondata e tre volte distrutta; e furono i Greci i primi fondatori, e probabilmente gli Achei o i Crotoniati. Soggiacque alla tirannia di Dionigi il vecchio; entrò nelle guerre tarentine, e segui le parti del re di Epiro; entrò nelle guerre cartaginesi, e segui le parti di Annibale, ma fu vinta e distrutta da' Romani.

Era posta Caulonia sulla spiaggia del mare, dove ebbe il suo porto, ed era lontana 4 miglia e alla sinistra di Castelvetere. Gli edifizj cominciavano dal monte che tuttavia ritiene il nome di Caulone, dove si veggono grossi pezzi di muro dell'antica rocca, e ne sono una ripruova i frequenti ruderi di antichi edifizj ivi discoperti, e le monete, i grandi vasi di antico lavoro per uso di acqua, e i sepolcri che l'aratro ha sempre scavati in quei campi prossimi al lido.

Fuori di Caulonia fu molto probabilmente il tempio di Giove, che per le loro comuni ragunanze edificavano le tre repubbliche collegate de' Cauloniati, de' Crotoniati e de' Sibariti, e che fu detto di Giove Omorio, o, come vogliono altri, di Giove Omoneo, o Conciliatore.

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Mistia veniva dopo di Caulonia, e più dentro terra, ed era città greca, ed ebbe torse la stessa origine della vicina Caulonia. Soggiacque alle barbariche devastazioni, e il sito della città distrutta pare che fosse in quello di Motta Placanica, alla distanza di circa 4 miglia dalla sinistra riva dell'Alaro. Consumo era sulla spiaggia de' Cauloniti, probabilmente nel sito della presente Monasterace; e pare che dipendesse da' Crotoniati, da' quali fu forse in origine fondata. E sei miglia lontana dal mare, e ad uguale distanza dalla descritta città, sorgeva Suxeiano, altra città di questa piccola contrada, nel luogo dell'odierna città di Stilo, nelle cui vicinanze veggonsi vestigi di mura e di torri antiche.

La Scilletica si distendeva in più ampj confini, dalla marina di S. Andrea insino ai capi delle Castella e Rizzuto, e dal mare all'Appennino verso le sorgenti dell' Angitola o del Lamato; ed era fertile contrada, bagnata da molti fiumi e torrenti, i quali aprivansi il varco tra piacevoli colli. Aveva poche città, e le più notevoli erano queste:

Cecino, 4 miglia lontana dal golfo Scilletico, presso al fiume dello stesso nome, fondata da tempi molto remoti. La città fu riconosciuta nell'odierna Satriano, e il fiume era l'Ancinale.

Abistro o Aprusto, ricordata tra le città mediterraneo della Magna Grecia e riconosciuta nell'odierno Argusto, tra Satriano e Chiaravalle.

Poco discosti da queste città, nel punto in cui più restringesi la penisola, erano i cosi detti accampamenti di Annibale (Castra Hannibalis), e se ne veggono i ruderi nelle vicinanze del villaggio di Soverato. Nel piccolo seno che ivi si forma era il Poliporto, o porto antico, dove si crede che stesse la flotta cartaginese dopo la conquista delle città vicine.

Scillezio o Scilacio era antica ed importante città di questa contrada, presso al golfo che da essa trasse il suo nome. È incerta l'origine; ma volendo seguire l'autorità di Strabone, essa fu fondata da una colonia di Ateniesi; e volendo seguire altre tradizioni, essa fu una città pelasgica. Nel periodo della sua indipendenza, ebbe monete sue proprie, con la testa di Mercurio. Quando la repubblica de' Crotoniati era fiorente, Scilacio fu soggetta al loro dominio; e Roma vi mandò colonie sotto Augusto e sotto Nerva. Restano ancora ruderi della città antica, il cui sito pare che fosse nel luogo della moderna.

Anfissia era antica città di questa regione, nelle vicinanze di Roccella, tra' fiumi Crotalo ed Alaca. dove molti scogli ingombrano la prossima spiaggia, ricordati dagli antichi sotto il nome di Sassi anfissii, e dove rimase per più secoli il nome di Palepoli o di città antica.

Çrotalla fu città antichissima, presso alle rive del Crotalo (1), dal quale trasse il suo nome; e quivi intorno si sono trovate molte rovine della città distrutta, avanzi di fabbriche laterizie e di acquidotti, rottami di colonne marmoree scanalate, e statue e vasi di terra cotta, ed altre anticaglie.

La Crotonitide era rinchiusa tra 'l mare e la gran falda della Sila, e si estendeva dalla sinistra sponda del Tacina insino) alla destra del Calonato, confinando co' Brezii, e comprendendo l'odierno distretto di Cotrone. Ha una superficie di vario aspetto, interrotta da monti, da valli e da pianure, irrigata da fiumi di lungo corso, terminata dalle belle e sorridenti rive del Jonio.

(1) Il Corace di oggi, il quale sbocca un miglio lontano dalle rovine delta città antica. Plinio poneva il Crotalo tra' fiumi navigabili del seno scilacense, ma era tale forse presso alla foce, dopo ricevuti il fiumicello di Borgia e il Limbi.

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E qui vennero i Japigi, i Caoni o gli Enotri, e le greche colonie degli Achei, in questi luoghi circondati di favolose tradizioni; e qui traevano a gara da tempi remotissimi, trovando fertili le terre, dolce e mite il clima, e l'aere salubre. E tanti uomini armarono per terra e per mare i Crotoniati, che sembra no, se non favolose, almeno esagerate le tavole militari che di essi rammentano gli storici. Ma per le vicende de' tempi e per la mutata condizione delle cose, una contrada cosi celebre vedesi oggi intristita per buona parte dell'anno da aria malsana e nocevole; perché, venuta manco la popolazione, e renduto ignudo di alberi il suolo, alle pestifere esalazioni de' ristagni del Neto si uniscono quelle delle terre argillose, che si screpolano agli ardenti raggi del sole.

La spiaggia di questa contrada s'incurva in piccoli seni, ed ha alcune punte sporgenti; e sono da notare il Capo delle Castella, il Capo Rizzuto, e più oltre quello detto delli Cimiti, i quali formavano i tre promontori i Japigi degli antichi. Nelle vicinanze dell'ultimo di questi capi furono trovati ruderi di un serbatoio di acqua di opera laterizia, ed un tempietto, e fondamenti di antiche fabbriche e pavimenti a musaico. E di qui si apre una baia profonda, sparsa d'isolotti e di scogli, la quale ha termine nel capo delle Colonne, noto nell'antica geografia col nome di Promontorio Lacinia. E sulla punta di questo promontorio sorgeva il celebre tempio di Giunone Lacinia, più celebre di Crotone stessa, dice Livio, e comune santuario degli Enotri, fondato da tempi remotissimi, e probabilmente da' Pelasgi. alla magnificenza di quel tempio concorsero tutt'i popoli della Magna Grecia, e i Crotoniati e i Sibariti sopra tutti gli altri; e molte tavole ebbe dipinte dal celebre Zeusi di Eraclea.

Davanti alla spiaggia del promontorio Lacinio, alla distanza di 10 miglia, Plinio pone l' Isola de' Dioscuri, cosi detta probabilmente da qualche tempietto innalzato a Castore e Polluce, numi de' naviganti. E poco discosta di qui eravene un'altra detta di Calipso, quella stessa, secondo l'opinione degli antichi, che Omero descriveva col nome di Ogigia.

Crotone era 6 miglia lontana dal promontorio Lacinio, città primaria della regione, ed una delle più forti e più illustri della Magna Grecia. I primi fondatori furono i Japigi o i Pelasgi, ai quali in processo di tempo si aggiunse una colonia di Achei, e più tardi un'altra colonia di Corintii. E crebbe la città grandemente, e giunse a tale segno di prosperità che poté essa pure formare altre colonie, tra le quali è ricordata quella di Caulonia, e quelle mandate a Pandosia e a Terina. Ma alla sua massima potenza e gloria si levò Crotone dopo l'arrivo di Pitagora, verso l'anno 535 av. l'era volgare, il quale guadagnando con soave eloquenza i cuori di un popolo sgagliardito e corrotto, filosofando nel ginnasio, ne' templi, net senato, seppe richiamarlo alla modestia e alla temperanza; e i giovani preferirono allora alle voluttà i doveri di uomo e di cittadino e lo studio delle lettere, e le donne stesse, deponendo gli ornamenti muliebri, li offersero in dono a Giunone protettrice della città; quindi i Crotoniati furono indirizzati al buon costume, alla sapienza, al buon governo politico.

Entrarono i Crotoniati in guerre lunghe e sanguinose, e vinsero i Sibariti, ma furono vinti da' Locresi, e saccheggiati da' Siracusani guidati da Agatocle. Entrarono nelle guerre tarentine e cartaginesi, e furono lacerati da partiti contrarj.

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Ebbe Crotone monete sue proprie, simili a quelle delle altre città nostre di origine achea; e il tipo costante è il tripode; ma ve n'ha di altre dove vedesi la testa di Apollo o di Minerva o di Giunone, e molte co' tipi diversi di Ercole. Ebbe templi superbi, e furono celebrati, sopra tutti gli altri, quelli di Ercole, di Apollo, delle Muse, di Cerere e di Marte. La città era circondata di forti mura, e avea nobili edifizj, e fu riguardata come la più bella città d'Italia.

Presso Crotone e dalla parte del mare era uno stagno, ricordato sotto il nome di Melimno, e formato di acque marine: fu prosciugato nella costruzione delle nuove mura della città, ma il sito conserva ancora il nome antico. E quivi intorno soprastante al mare si eleva un monte aprico, con belle vigne ed alberi fruttiferi sulle falde, e pascoli abbondevoli nelle alture e con fonti di acque freschissime; e fu forse l'ombroso Latimno, ricordato da Teocrito.

Siberena era città di questa contrada, fondata probabilmente da' Sibariti, e nota tra gli antichi pei suoi pregiati vini. I1 nome di quella città si conserva ancora in quello di S. Severina.

Petilia, detta pure Macalla da' greci scrittori, era città antica di questa regione, fondata da coloni tessali, i quali portarono la rimembranza e il culto di Filottete, ch'era il loro patrio eroe, e al quale innalzarono un tempio ed un sepolcro. La città fu posseduta da' Bruzii, fu alleata de' Romani, e resisté valorosamente alle armi di Annibale, il quale non prese la città ma le rovine di Petilia. Cessate le guerre cartaginesi, i Romani fecero di riedificare e ripopolare la città, la quale crebbe prosperevolmente. Di Petilia restano lapide importanti, e monete, quasi tutte di bronzo, co' varj tipi di Giove, Apollo, Diana, Minerva, Cerere, Marte, Ercole, ch'erano numi adorati nella città, e aveano altari e templi.

Petilia era poco discosta dalla marina del. Ionio, 15 miglia lontana da Crotone; e pare che fosse nål sito dell'attuale Strongoli, dove furono trovate iscrizioni, e le greche epigrafi pi

ù antiche; ed era in una bella situazione sopra un alto monte fortificato dalla natura e da spesse muraglie; e sono vestigj della floridezza e magnificenza della città i frammenti di colonne a canalate con capitelli dorici simili a quelli di Pesto, e molte colonne di granito di Egitto.

Nelle vicinanze di Petilia era il monte Clibano degli antichi, oggi monte Visarda, tra Paleocastro e S. Severina; e Bristacia, città antichissima degli Enotri, tra le sorgenti del fiume Lipuda; e più oltre della foce di questo fiume era il promontorio Crimisa, oggi punta dell'Alice, il quale tolse questo nome dalla vicina città di Crimisa. Sopra quel promontorio sorgeva un tempio sacro ad Apollo Aleo, così detto probabilmente dalle supposte peregrinazioni di Filottete; ma niun vestigio vedesi di quel tempio, forse perché il promontorio è tutto ricoverto di cedri, di aranci e di alberi di ogni sorta, che ne covrono le rovine. In quelle vicinanze furono trovate monete di Taranto, Metaponto e Petilia, e lucerne, e rottami di marmo, e rozzi vasi ch'erano forse in antichi sepolcri. E 3 miglia lontana da quel promontorio sorgeva la città di Crimisa, fondata probabilmente da' Tessali, nel sito dell'odierna Ciro, innalzata sulle rovine della città antica. E con lo stesso nome fu noto tra gli antichi il fiume che segna il confine tra la Crotonitide e la Sibaritide, e che ne' tempi successivi cangiò in quello d' Ilia, ch'è da riconoscere nel Fiuminicà di oggidì, che dà nome ad un vicino promontorio, tra' fiumicelli dell' Arso e di s. Venere.

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La Sibaritide fu una grande regione della Magna Grecia, e si estendeva sulle sponde del Jonio dalle rive del Fiuminicà a quelle del Calandro, (1) abbracciando le belle e fertili contrade di Cariati, Rossano, Corigliano, Terranova e Cassano; le quali hanno la loro parte montuosa, e si aprono in amene valli bagnate da fiumi e da torrenti e da molti altri piccoli rivi di acqua. E i monti più alti sono rivestiti di boschi, e abbondano i pini e i frassini; e su' colli e nel piano cresce la vite e l'ulivo, e sono copiosi i pascoli, deliziose le frutta, ed è nel mare abbondevole la pesca. Ma fertilissima ed amenissima sopra tutte le altre, e celebrata per la dolcezza del clima fu la valle dove fu Sibari; la quale è cinta da alte montagne che si elevano a guisa di anfiteatro, delle quali alcune coltivate sino alle somme vette annunziano l'abbondanza negli ulivi secolari, nelle verdi quercie e ne' lauri e negli aranci che crescono insieme su roccie pittoresche, e le altre più lontane e coverte di neve quasi tutto l'anno, con vario aspetto e maestoso.

Tra le città notevoli di questa contrada, noi indicheremo: Roseta o Rosciano, edificata sul lido, come il porto di Turio, poi che fu abbandonato quello di Sibari. Dal nome della città antica venne quello dell'odierna Rossano, tre miglia lontana dal mare, ed altrettante dal Tronto e dal Crati, sopra un'alta roccia.

Sibari fu città antica e celebratissima fra tutte quelle che gli Elleni fondarono nella Magna Grecia. E furono gli Achei i primi fondatori, a cui unironsi i Trezenii in processo di tempo ed altri coloni greci. E per la fertilità del suolo, e per la crescente popolazione, e per le nobili istituzioni della città, essa crebbe in ricchezza ed acquistò vasti dominii, e formo anch'essa altre nuove colonie, e dominò sopra molte altre città; e grande, grave, ricca e bella città fu detta dagli antichi, e ne' di della sua maggiore floridezza ebbe non meno di 300 mila cittadini. Stabili giuochi ginnici con premi maggiori che gli Etei, per disputare la celebrità a quelli di Olimpia; combatté contro i Crotoniati e fu distrutta; e per farne disparire fin le rovine, dicesi che i Crotoniati vi trasportarono sopra le acque del Crati, e furono abbattute le mura, e gli umili e i grandi edifizj, e cosi in mezzo a monti di sabbia e di fango restò sepolta la grandezza di Sibari.

Sibari ebbe monete sue proprie, e diverse seconde le diverse epoche della città, co' tipi del toro o di Nettuno o di Minerva; furono numi adorati nella città, Apollo, Giove, Temide, Minerva, Venere, Giunone; ma più antico di tutti fu il culto di Giove, introdotto da' Caoni, adoratori antichissimi del nume a Dodona.

È incerto il luogo della città antica, ma è probabile che fosse in uno scoscendimento delle rive del Crati, non molto discosto dal Coscile, dalla marina e da' laghetti di Casabianca.

Turio fu edificata dopo la distruzione di Sibari, sulle rovine della città antica, o quivi intorno, e fu per opera di una colonia di Ateniesi, in mezzo ai quali vennero Erodoto, detto perciò nativo di Turio, e Tucidide, emigrando da Atene, e i quali qui scrissero le loro storie immortali; e fece parte della colonia anche il celebre architetto Ippodamo, ch'ebbe l'onore della costruzione della città, la quale riusci comoda e bella ad un tempo.

(1) Il quale mette foce presso al Capo Roseto.

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Ma formata la città di popoli di diversa origine. essi furono divisi e discordi sino a che non furono distrutti o cacciati i superstiti Sibariti, chè allora i Turii poterono liberamente amministrare la loro repubblica, e chiamare nuovi agricoltori ne' fertili loro campi, e crescere in ricchezza e potenza, e stringersi in forti alleanze co' Crotoniati. Le loro monete portano i tipi medesimi di quelle di Sibari. Le leggi erano di Caronda di Catania, ch'essi attinsero dalle città calcidiche.

Combatté Turio contro i popoli vicini, ed occupò Scidro, Lao e Posidonia, antiche colonie de' Sibariti. Combatté contro i Lucani, entrò nelle guerre tarentine e nelle guerre del Peloponneso, e dopo varie vicende si uni finalmente ai Romani, i quali vi mandarono una colonia. La città fu distrutta o abbandonata nel Medio Evo, probabilmente per le inondazioni e l'aere malsano prodotto dal Crati. Ma il fiume cangiando spesso di letto, lasciava allo scoperto rottami di costruzioni in mosaico, monete, vasi e marmi che appartenevano alla città.

Cassa fu antichissima città della Sibaritide, fondata forse da' Pelasgi. Il luogo della città antica era quello del villaggio di Civita, abitato da Albanesi, e nelle vicinanze di Cassano, dove furono trovati avanzi di una città distrutta.

La Siritide seguiva alla Turiatide, ed estendevasi lungo la spiaggia del Jonio dalla foce dell' Acalandro a quella dell' Aciri (1), e dal mare insino ai monti che si elevano nelle vicinanze di Tursi e di Francavilla. La contrada è una delle più fertili e più belle, e sono amene sopra tutte le altre le valli del Siri e dell' Aciri.

L'Appennino discende in poggi piacevoli e ridenti, ricoverti di fotti alberi e di aranci, e con abbondevoli pascoli, e produttive immensamente sono le pianure.

I più antichi abitatori pare fossero i Caoni, della stessa stirpe degli Enotri, venuti dall'Epiro nel nostro paese.

Siri fu città di questa contrada fondata in tempi remotissimi sulla foce del fiume dello stesso nome (2) probabilmente da' Caoni, da questo popolo pelasgico dell'Epiro. La città venne in grande prosperità, e si parla di essa tra gli antichi come del paese più ricco e più avventuroso della terra. L'opulenza dei Siriti fu contemporanea di quella di Sibari e di Crotone, e destò la gelosia tra le vicine città achee, e fu combattuta e distrutta.

Poche e rare monete restano di questa città, e alcune sono di argento, altre di bronzo, ed hanno tutte i tipi delle altre città achee della Magna Grecia. Ma alcun vestigio non resta di città cosi celebre, di cui coprirono le rovine le annose boscaglie che poi vi crebbero, e le acque che s'impaludarono dopo l'abbandono di Eraclea, di cui era il porto o l'arsenale marittimo.

Eraclea era tra 'l Siri e l' Aciri, e fu fondata da quei Tarentini e Turii che insieme abitarono la città di Siri, e che costretti dalle angustie del sito, di là a tre miglia dentro terra si tramutarono. La città venne in grande rinomanza ne' floridi tempi della Magna Grecia per le grandi riunioni della confederazione ellenica de' Greci Italioti, e che poi Alessandro di Epiro, in odio de' Tarentini, fece trasferire presso l'Acalandro.

(1) L'Acalandro è il cosi detto fiume di ferro, il quale mette foce presso il Capo Spulico o di Roseto. L' Aciri fu detto Acheronte dagli antichi.

(2) Il fiume fu detto Siri e Sini dagli antichi, il quai nome si cangiò in processo di tempo in Simnum e Signum.

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Entrò nelle guerre tarentiue e nelle guerre cartaginesi, e fu città alleata e poi municipio di Roma. Sono ricordate le celebri tavole di bronzo di Eraclea, scoperte nel suo agro nel 1732; e le monete sono in gran numero e di bellissimo lavoro, e ci dimostrano chiaramente e la ricchezza c le arti belle della città. E da' tipi di quelle monete e dalle tavole eracleensi può ricavarsi ch'erano numi adorati nella città, Minerva, Ercole, Bacco. La città andò cadendo rapidamente sino dal primo secolo dell'era cristiana, abbandonata da' suoi abitatori per l'aere malsano de' luoghi vicini, Eraclea era situata, seconde che pare, nel losco di Policoro, dove furono trovati vestigi di fabbriche antichissime, e sepolcri, rottami di marmi e di musaici, e frammenti laterizi e di vasi fittili sparsi sul terreno.

Pandosia era poco al di sopra di Eraclea, verso i monti che formano il confine settentrionale della Siritide. Fu fondata dagli Achei, otto secoli av. l'era volgare, e fu alleata di Crotone, di Sibari e di Metaponto. Ebbe monete sue proprie, di bello lavoro, e fu città fiorente fino al 279 av. G. C., essendo più volte nominata nelle celebri Tavole di Eraclea. Il sito della città antica era nelle vicinanze di S. Maria di Anglona, dove furono trovati ruderi di antichi edifizj, monete ed altre anticaglie.

La Metapontina si distendeva dalla sinistra sponda d ell'Avíri insino alla destra del Bradano, e da' monti lucani insino al mare, declinando in numerose valli, bagnate da grandi e piccoli rivi di acqua. Ma quelle vaste pianure, ridenti una volta di belle e ricche coltivazioni, sono ora paludose e malsane; chè, rimasta Metaponto vuota di abitatori, quei fertili campi divennero un tristo deserto; e non raffrenate le acque de' fiumi, nuovi sentieri si aprirono e scoli tortuosi, e impaludando ne' piani sottoposti, formarono putride e malsane lagune, donde si levano nocevoli nebbie e micidiali vapori.

Metaponto (Metapontum) fu città antichissima della Magna Grecia, anteriore ai tempi omerici: la sua origine è involta nelle favole, ma fu città greca certamente, ed accresciuta da Etoli, da Corintii e da Beozii.

E da tempi cosi remoti insino al VI secolo av. l'era volgare i greci coloni fondatori di Metaponto rimasero tranquilli in quella nuova sede, che gli abbondanti prodotti della terra e del mare rendevano toro assai piacevole. Ma invasa da' Lucani, distrutta e riedificata, agitata dalle guerre tarentine e cartaginesi, Metaponto cominciò a scadere e non fu più la nobilissima città, siccome dice Livio, e siccome dimostrano le rovine de' suoi templi e le numerose medaglie. Ebbe la città monete sue proprie, e le moltissime erano di argento; ma ve n'avea pure di bronzo e di oro. Le più antiche hanno il tipo della spiga, che si riferisce al culto di Cerere, ed altre quello della spiga con accanto un delfino, che accenna al culto di Nettuno; ma quelle di tempi mono remoti portano la testa di altri numi adorati nella città, di Minerva, di Apollo, di Diana, di Bacco, di Giove, di Marte.

Diversi templi erano nella città, e principale fra tutti pare che fosse quello di Apollo, e più antico quello di Giunone; ma è ricordato il tempio delle Muse, dove carico di anni, né senza gravi cordogli, dopo quaranta giorni di astinenza moriva Pitagora. Ebbe il suo Teatro, il Foro ed altri pubblici edifizj.

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Dalle falde di Pizzica presso S. Salvatore estendevasi la città sino alla piccola laguna di s. Pelagiana, formata dalle onde marine a mezzo miglio da Torre di mare, dove pare che sia stato l'antico porto de' Metapontini; ed ivi, quando le acque sono basse, si veggono ancora ruderi di antiche costruzioni; e in quelle vicinanze e sulla strada che da Torre di mare mena a Taranto furono scoverti tronchi di colonne scanalate, e le rovine di un vasto edificio, che forse fu il tempio di Minerva Ellenica, e sepolcri, tegoli e mattoni di straordinaria grandezza, colonnette, capitelli, monete di bronzo e di argento.

La Regione Tarentina veniva dopo quella di Metaponto, e si distendeva dalla foce del Bradano al Capo dell'Ovo, nell'estensione di 46 miglia geografiche, e superava tutte le altre regioni della Magna Grecia per gli aspetti deliziosi del suolo, e per gli abbondanti prodotti, e per il cielo mite e sereno, circondata da ridenti colline, bagnata da fiumicelli di acqua perenne. Grande è pure la varietà de' pesci del golfo, e più grande quella delle conchiglie e de' pesci nel mare piccolo, dove convengono in maggior numero, per la dolcezza delle acque de' fiumicelli che vi si scaricano, e per le sorgenti che rampollano dal fondo del mare, le quali temperano la salsedine delle acque marine. Ma l'acre è malsano ne' mesi estivi, per cagione delle vicine paludi. Ma non era cosi ne' tempi floridi di Taranto, di cui diceva Orazio:

«Sopra tutti gli altri quell'angolo di terra a me sorride, dove con quello dell'Imetto gareggia il mele, e saporose sono le olive come quelle di Venafro. Lungo è l'aprile, e tepido vi rende il verno il padre delle stagioni. Alle Falerne vigne non invidia l'aprico Aulone, di uve ubertoso. Il sito ameno e le beate mura ivi t'invitano, ed ivi ti appresta a bagnare di amoroso pianto le calde faville del vate amico.»

Taranto (Tarentum) era quattro miglia lontana dalla foce del Tara, piccolo fiume ma celebrato tra gli antichi. E fu città ricca e fiorente, se non fondata, accresciuta da' Partenii, i quali vennero di Sparta intorno al 708 av. l'era volgare. E il politico reggimento della città ne' primi tempi è da credere che fosse somigliante a quello di Sparta, e del pari che la metropoli diviso il popolo in varj ordini di cittadini.

Taranto divenne grandissima e potente in meno di due secoli e mezzo, e imprese di distruggere le città messapiche, e ridurre a schiavi gli abitatori; ma venuti i Tarentini a battaglia co' Japigi, furono vinti e disfatti, Non pertanto si rifecero delle loro perdite, mossero guerra a' Turii, fondarono Eraclea, distesero più lontano il loro dominio, si strinsero in alleanza con Metaponto e con altre città della Magna Grecia, e le superarono tutte in opulenza e splendore. I vicini porti dell'Istria e dell'Illirio, della Grecia e della Sicilia favorirono e promossero il traffico marittimo, e qui approdavano le navi mercantili come nel più sicuro porto ch'era nella spiaggia orientale d'Italia da Reggio a Taranto,

I Tarentini ebbero fama di forti, e progredivano nella filosofia, nelle lettere e nelle arti; e qui la scuola pitagorica fu tenuta in grande onore; e ¡l pitagorico Archita fu tarentino, e fu geometra celebratissimo, e magistrato e capo delle armi.

La città fu ornata di lavori eccellenti de' primi scrittori e pittori della Grecia. Ma l'abbondanza e la ricchezza ingenerarono in quegli animi forti basse passioni, e corruppero i costumi; sicchè cosi non poterono resistere ai Japigi e ai Lucani, e dimandarono aiuto ora a Sparta, ora al re di Epiro, ora ai Sanniti.

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Ma vinti i Sanniti da' Romani, essi combatterono contro i Romani le lunghe e sanguinose guerre tarentine, nelle quali, quantunque aiutati da Pirro, re degli Epiroti, essi non ebbero che passeggere vittorie, e furono infine vinti e distrutti. Scossero il giogo di Roma dopo la battaglia di Canne; ma, cessate le guerre cartaginesi, ricaddero in dura condizione, e non formarono che un municipio, e confusero la loro storia con quella di Roma. Ma sino alla dominazione romana, Taranto fu città veramente insigne, grande, ricca e popolosa sopra tutte le altre delle nostre regioni, onde fu detta la massima di tutte te città italiche. Sono innumerevoli le monete e le medaglie di questa città, con varj tipi ed epigrafi e simboli; e le più antiche sono notabili per una forma spesso globosa; ma ve n'ha di altre rarissime col tipo incuso ed opposto a quello in rilievo, con sistema proprio della Magna Grecia. Ebbe tempi i sacri a Giove, Giunone, Apollo, Minerva, Venere ed Ercole, come ricavasi da molte memorie antiche e da' tipi delle monete.

Taranto ebbe due porti vasti e magnifici, e la città giaceva sopra una specie di chersoneso o penisola, a cui agevolmente approdavano i navili. Il maggior porto era nel mare piccolo di oggidì, presso al quale era innalzato un tempio a Priapo, nume protettore de' porti, e del quale molti simboli furono scoverti presso al lido. L'acropoli sorgeva verso occidente, e dominava le foci del porto, ed occupava gran parte della città presente, ed era circondata di mura e larghi e profondi fossi. Nel recinto dell'Acropoli era un'ara sacra a Venere Armata, ed ivi pure era il Pritaneo. Poco più sopra e alla sinistra del ponte che chiudeva il porto sorgeva il tempio di Nettuno, il più superbo che si vedesse in Taranto, innalzato al nume tutelare della città. Ebbe il suo Foro, descritto da Strabone come assai grande, nel quale si vedeva il colosso di Giove, fatto di rame, e maggiore di tutte le altre statue simili dopo quella di Rodi, ed altre statue e un portico ornato di colonne; ebbe l'Ippodromo o il Circo, destinato ai giuochi equestri de' Tarentini; e il Teatro, e l'Anfiteatro e le Terme.

La città moderna occupa il sito dell'acropoli della città antica, la quale andò sempre più restringendosi, quantunque conservasse sempre l'antica forma di penisola.

Fuori di Taranto, sopra un luogo elevato, che ora dicesi erta di Cicalone, sorgeva il tumulo o sepolcro di Giacinto (Hyacinthi tumulum) il cui culto fu portato a Taranto da' Partenii. Il suo nome era cantato nelle annuali feste Carnee che duravano tre giorni, e che sebbene in onore di Apollo, erano dette Giacintie, e celebrate presso la tomba di Giacinto. E nel Mare piccolo, o nell'antico porto interno della città, scorreva il Galeso (Galaesus), povero di acque, il quale fu detto anche Eurota da' Partenii; ed erano ombreggiate di pini le sue sponde, e ricchi di pascoli i campi circostanti.

Quivi intorno veggonsi i ruderi di molti edifizj antichi, ed i vestigi di un gran muro della lunghezza di 40 miglia, innalzato da' Japigi o da' Tarentini.

Ad otto miglia e ad oriente di Taranto, stendesi sulla riva del mare una bella contrada, amenissima e ridente pe' suoi giardini di aranci, pe' floridi verzieri, per le vive sorgenti di che abbonda. Quella contrada oggi dicesi Saturo, e il nome antico era Satirio; e fu probabilmente un'antica città, rinchiusa tra due piccoli e sicuri porti, dalle cui rovine credesi che si fosse edificato il villaggio di Leporano;

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ed ivi furono trovati pavimenti a musaico, grotte con segni di dipinti e figure nelle mura, e rottami di marmi, e vasi greci.

Le campagne di Saturo furono celebratissime presso gli antichi per la eccellenza degli erbaggi, e gran nome ebbero ancora le razze de' cavalli che ne' pascoli di Satirio si allevavano.

In mezzo ai grassi pascoli di Saturo elevavasi l' Aulone, piccola collina celebrata pe' suoi vini eccellenti del pari che quelli di Falerno.

Di contro al porto di Taranto sorgono due isolette, una detta S. Pelagio o S. Pietro, del perimetro di 6 miglia, e l'altra S. Andrea o S. Paolo, del perimetro di 3 miglia. Gli antichi le dissero Isole Cheridi: furono abitate nel medioevo, e probabilmente ancora in tempi più remoti, siccome dimostrano alcuni antichi ruderj, e avanzi di edifizj sprofondati nelle onde.

Al termine della regione tarentina si avanza il Capo dell'Ovo dove il mare si rinchiude in un bello e capace seno, sulle cui rive si veggono alcune rovine di grandi ed antichissimi edifizj, ed una fossa fatta per isolare una rocca vicina dal porto, con infiniti gusci di conchiglie, e che danno indizio di esservi stata come in Taranto e in Saturo la preziosa tintura delle lane.

Nelle vicinanze di quel promontorio fu una città antica, ed un tempio sacro a Minerva, nel luogo ora detto Monacizzo; ed ivi furono scoverti antichi vasi di creta di meraviglioso artifizio.

Non è noto quali grandi strade riunissero i popoli della Magna Grecia ne' tempi loro prosperevoli; ma ve n'avea certamente di grandi ed importanti in mezzo a cosi ricche e popolose città, e con un commercio cosi operoso: la mano dell'uomo e la voracità del tempo ha tutto distrutto. Noi ricorderemo soltanto che la Via Aquilia, prolungata nella Brezia, si distendeva oltre Reggio lungo le coste e le più celebri città della Magna Grecia; e la Tavola Peutingerana ne segna il corso per lo spazio di LXX miglia da Leucopetra a Caulonia, e di CLXVII da Scilacio ed Eraclea.

E discorse cosi rapidamente le città più notevoli della Magna Grecia, noteremo che fu un bel periodo della storia degli Elleni quello della fondazione delle colonie sulle coste della Sicilia e dell'Enotria; nel quale quasi ogni piccola isola dell'Egeo era la metropoli di lontane colonie, e di nobili e fiorenti città, mercé delle quali gli Elleni diffondevano il loro linguaggio dal Boristene all'Ibero, e da' piani della Scizia ai deserti della Libia, e insieme col linguaggio diffondevano il culto de' numi, e i costumi e le arli. Di questa estesa catena le colonie Italiche formarono un anello considerevole, per modo che da esse si è creduto che derivasse il nome di Magna Grecia.

Gli stabilimenti degli Elleni sul Jonio si fecero in meno di un secolo, dal 768 al 680 av. l'era volgare, e sopra tutte le altre colonie crebbero le città achee. Furono nel principio confederate tra loro, e se ne ha una pruova nelle monete di quel tempo formate con sistema uniforme. Ma fatte ricche e potenti, divennero gelose e nemiche, e furono divisi e lacerati da lunghe e sanguinose guerre, i Tarentini, i Metapontini, i Sibariti, i Crotoniati, i Locresi.

Un periodo nuovo nelle colonie della Magna Grecia ebbe principio con l'arrivo di Pitagora, il quale pose la sua sede a Crotone, 5 secoli av. C., e diffuse

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gl'insegnamenti in tutte le altre città, ed educò i cittadini all'arte del governare, e ai culti religiosi, e migliorò i costumi, e frenò le ambizioni, e fece cadere molte tirannidi. E per un secolo circa la Magna Grecia, governata e retta da' successori di Pitagora, fu libera, potente e gloriosa; ma, cominciando a declinare i costumi, le fazioni si sollevarono e portarono le mani criminose sulla patria e la libertà.

Le repubbliche della Magna Grecia rimasero quasi tutte fuori della guerra del Peloponneso, e non si lasciarono trascinare dagli ambiziosi disegni di Alcibiade; ma non isfuggirono la tirannia di Dionigi il vecchio di Siracusa, e di Dionigi il giovine e di Agatocle, e la invasione de' vicini popoli, e il duro giogo de' Cartaginesi e de' Romani, i quali le spogliarono e le ridussero città povere e diserte. Col finire della seconda guerra punica si compi la totale decadenza delle nostre città greche, dopo le quali vicende sformate le terre per disordinati sboccamenti di fiumi, per profondi laghi, per selve aspre, rimasero spopolate le contrade in cui erano state tante e cosi grandi città, né più si udi il nome di Magna Grecia.

Ma comunque le greche colonie non fossero durate lungo tempo, pure rimarrà eterna la memoria di quelle città, state le sedi del genio e delle arti, per la prodigiosa energia di quelle popolazioni, e per la influenza esercitata in Italia, la quale esse iniziarono nella filosofia, nella poesia, nelle lettere, nelle arti belle, e nelle arti del governo.

La Japigia

Furono indeterminati tra gli antichi i confini della Japigia, e, non che una contrada, fu il nome generico di diverse contrade nostre. E volendo seguire le testimonianze meno discordi degli antichi scrittori, la Japigia si distese dall'Appennino all'Adriatico insino al Gargano, comprendendo il paese racchiuso nell'istmo fra Taranto e Brindisi in sino al promontorio che fu detto Japigio.

È incerta l'origine del nome di questa contrada, e circondata di miti antichi; ma è certo che la regione fu divisa in altre minori, le quali noi descriveremo particolarmente, e furono la Sallenzia, la Messapia o Calabria, la Peucezia, la Daunia, l'Apulia.

La Sallenzia si estendeva dal Capo dell'Ovo insino a Vaste lungo la marina, e penetrava insino a Manduria dentro terra. Gli abitatori di questa regione furono detti Salentini, e furono probabilmente quei di Sallunto della Dalmazia che qui si tramutarono.

La contrada è quasi tutta piana e arenosa, per modo che fu riguardata come l' Arabia Petrea delle patrie contrade. Una debole ramificazione dell'Appennino forma la base di tutta la Sallenzia, e va a terminare nell'estremo promontorio della penisola; ove non è arenoso il terreno è buono e produttivo. Veggonsi ancora le tracce del dominio del mare e gli effetti delle vulcaniche commozioni, e vi sono belle conchiglie, e rampollano acque termali e sulfuree.

Sono molto incerte le tradizioni de' primi popoli di questa contrada; ma ei pare che qui fossero venuti da tempi molto remoti i Çretesi e gl' Illirici, ed altre colonie vi giunsero forse dall'Acarnania. poiché le sorti de' Salentini si confusero per lo più con quelle de' vicini Messapii, nessuna particolare memoria ne lasciarono gli storici antichi, ed è oscurissimo

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quel periodo di tempo che si frappone tra la fondazione delle colonie greche e l'åðocà de' Romani. La regione fu occupata nel 346 dalle armi dei Lucani e di Archidamo re di Sparta, il quale periva con tutto il s

uo esercito nella memorabile giornata di Manduria. Alleati de' Messapii entrarono i Salentini nelle guerre tarentine, ed ebbero comune la sorte delle armi.

Mandurio o Manduria era città di questa regione, de' tempi primitivi, di origine greca. Era città cinta di mura, come dimostrano le grandi reliquie che ne sopravanzano nella pianura nel cui lato occidentale sorge l'odierna Manduria. Le mura erano formate di grandi sassi bislunghi uniti senza cemento ed aveano una larghezza di oltre 16 piedi. A mezzodì della città s'incontrano i sepolcri incavati nel sasso, coverti di una pietra orizzontale, e alcuni di due e di tre pietre, e in essi furono scoverti greci vasi campaniformi di ogni grandezza, quali indorati, e quali con le note figure rappresentanti danze, feste ed altre cerimonie dell'antico culto ellenico.

Mezzo miglio lontano da Manduria presso la strada che mena a Lecce vedesi il celebre fonte ricordato da Plinio, il quale dicesi fonte di Manduria (Lacus Manduriae); ed è in una caverna sotterranea, dove si scende per gradini tortuosi e malconci scavati nel duro sasso, vago per molte conchiglie petrificate. Il fonte è pieno sempre in sino ai margini, né scema per acqua che si tolga, né cresce per acqua che si aggiunga.

E da Manduria scendendo in linea retta alla marina si trova le Torre di Boraco; di là la spiaggia si protende in un piccolo promontorio, e s'incurva formando il porto Cesareo, che fu il porto Sasina degli antichi.

Nerito o Nereto (Neritum) fu città mediterranea della Sallenzia, fondata probabilmente dagli Acarnani. Non restano antiche memorie di quella città, ed è noto soltanto che i Neritini ebbero alla marina un emporio 7 miglia lontano da Nardò, e non lungi dalla torre di 5. Isidoro, dove veggonsi ancora alcuni ruderi antichi. Posta sulla Via Augusta Sallentina, che fu parte di quella poi detta Trajana, la città fu popolosa e molto frequentata ne' tempi romani, anche per ragione del suolo lieto ed abbondevole, e dell'aere saluberrimo.

Circa 3 miglia lontana da Nerito era la città di Salento, quasi nel mezzo della penisola, ed è incerta l'origine e molto oscure le memorie. E poco più lontana era la città di Alexio, fondata dagli Acarnani, sopra una deliziosa collina, nelle vicinanze del villaggio di Picciotti, il cui suolo è tutto sparso di sepolcri scavati ed aperti nel sasso, e di grossi e riquadrati macigni, avanzi della città.

Callipoli (Callipolis) era posta sull'estremità di una piccola penisola, sulla spiaggia de' Salentini, di non grande celebrità e non molto popolosa. Fu città greca, fondata, secondo che pare, da' Messapii o piuttosto dai Cretesi, e conservò lungo tempo le istituzioni greche: ad essa vengono attribuite alcune incerte monete co' tipi di Giove. Niuna memoria resta di quella città antica, distrutta e riedificata più volte sullo stesso arido scoglio,

Uxento (Uxentum) fu città mediterranea de' Salentini, fondata da' Cretesi. Niuna memoria non ci viene conservata dagli antichi scrittori; ma le monete e i vasi scoperti nel suo agro ne dimostrano la greca origine e la importanza e lo splendore che conservò sino ai tempi romani.

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E come vedesi dal perimetro delle sue mura, fu grande città, la quale si restrinse nella superiore collina dove sorge l'odierna Ugento, che con lieve alterazione conserva il nome antico.

Vereto (Veretum) era piccola città della Sallenzia, poco lontana da' villaggi di Salve e Roggiano, e non più che due miglia dal mare, con un porto già disfatto dal tempo. Molte medaglie furono scoverte tra le sue rovine, archi, colonne ed altri rottami di marmo, e pilastri di pietra tiburtina con epigrafi greche ed in lettere messapiche. Il luogo della città antica conserva anche oggi il nome di Verito, ed il porto pare che sia quello di 5. Gregorio.

Leuca fu piccola città de' Salentini, fondata dagli Acarnani; e da essa trasse il nome il promontorio sul quale fu edificata, ora detto Capo di Leuca, non che il santuario di s. Maria di Leuca, o in finibus Terrae, per essere posto in una delle estreme ed ultime punte d'Italia. E non pochi avanzi di antichi edifizj mostrano anche oggi il sito della città e del celebre suo porto.

Il promontorio detto dagli antichi japigio o salentino è quello col quale ha termine l'Italia dal lato del Jonio verso la Grecia; ed entra tanto nel mare che una linea di sole 30 miglia lo divide dagli Scogli Acroceraunii nell'Epiro. Il Capo Japigio o Salentino è distinto dal vicino promontorio di Minerva, oggi Capo di Leuca, ove dicesi che approdasse Enea, ed innalzasse il celebre tempio sacro a quella dea, ricco assai per le offerte dei Salentini e de' popoli vicini.

Sottoposta a Leuca è la spiaggia che i Greci dissero Leuternia, ove scaturiva una sorgente di acque fetide, ed ove favoleggiavasi che i giganti detti Leuternii, vinti a Flegra nella Campania e perseguitati da Ercole, fossero inghiottiti sotterra, ed avessero fatte fetide quelle acque; la quale favolosa tradizione non accenna ad altro che alle vulcaniche esalazioni in tutto questo lido della Sallenzia.

Il Castello di Minerva (Castrum Minervae) era nel luogo della piccola città di Castro, che anche oggi conserva il nome antico, ed era antichissima e nobilissima città, fondata da' Cretesi, e prendeva nome dal culto di Minerva, la dea protettrice di tutta la federazione de' Salentini.

Delle strade che mettevano in comunicazione le città e i popoli della Sallenzia conosciamo una sola, quella che correva lungo le città marittime della penisola, e che da Taranto menava a Manduria, e quindi a Nereto, ad Alezio, ad Uxento, a Vereto, ai Castelli di Minerva, e alla città di Otranto, nel confine della Messapia.

La Messapia o Calabria. Era contermine col paese de' Salentini, e distendevasi dal promontorio Japigio insino a Brindisi; e la regione era quasi tutta piana, non interrotta che da basse colline, le quali hanno forme simiglianti, e non formano valli notevoli; né tranne l'Jdro, che scorre presso Otranto, vi è altro fiume che irrighi la penisola.

La Messapia fu prima popolata dagli Japodi dell'Illirico, i quali diedero il nome a tutto il paese in cui fu compresa, e a quelle prime seguirono altre colonie, e sono note nella storia quelle de' Cretesi e de' Calcidesi. E quantunque accadessero in epoca incerta, pure la fondazione di queste colonie appartiene alle prime emigrazioni.

Basta fu città di questa regione, nel confine della Messapia, oltre il promontorio Japigio, e si suppone che fu in origine fondata da' Bastiei nelle emigrazioni

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pelasgiche; e durò sino al 1166, quando venne diroccata da Guglielmo il Malo, e ridotta ad un piccolo villaggio tra Poggiardo c Vitigliano, il quale tuttavia serba il nome di Vaste. Dimostrano l'antichità remotissima di quella città i sepolcri scopertivi in gran numero nelle vicinanze, con le solite anticaglie, anelli, vasi ed armature.

Sarmadio era città mediterranea, 6 miglia lontana dalla città di Basta, e fu una delle città primitive della regione fondate da' Cretesi. Il suo luogo pare fosse presse la piccola terra di Muro, a breve distanza da Mesagne, e Soleto, dove furono trovati rovinati edifizj e monete e avanzi di mura antiche, costruite di enormi pietre senza cemento.

Idrunto (Hydruntum) fu città antica, fondata da una colonia di Cretesi, ed ebbe qualche importanza siccome dimostrano le sue monete, co' tipi di Nettuno e di Ercole, e pochi avanzi de' suoi edifizj, quali sono alcune antiche colonne di ogni forma e grandezza con bellissimi capitelli, e alcune di giallo antico e di marmo pavonazzo, ed una torre quadrata di pietre senza cemento. Ma più importante fu il porto della città e molto frequentato da' naviganti che di oriente venivano in Italia. La città odierna di Otranto non occupa che il sito dell'antica rocca.

Poco discosto di qui Plinio ricorda il porto Idruntino, ed era il lago di Limene, di 12 miglia di circuito, pescoso e navigabile da piccole barche, Lupia fu città mediterranea della Messapia, ed ebbe prima il nome di Lycia, e fu fondata probabilmente da' Cretesi, XXV miglia antiche lontana da Idrunto. Venne a grande prosperità, ed accresciuta da una colonia romana fu una delle più illustri, a giudicarne dalle rovine della città.

Sulla marina di Lecce, alla distanza di circa 6 miglia dalla città, i Lupiensi ebbero il loro molo, edificato da' Cretesi pel ricovero de' loro navili, e ristaurato ed ingrandito da Adriano con sassi grandissimi gittati nel mare. Il sito di questo molo fu riconosciuto nella piccola baia del castello di s. Cataldo.

Rodeo o Rudia fu città ellenica della Messapia, fondata probabilmente net sito di Rugge, un mezzo miglio da Lecce verso Monterone, dove furono trovati antichi vasi e lapide ed altre anticagtie. La città di Rudia era riunita con quella di Lupia per mezzo di una grotta scavata dagli abitanti di quelle città per servire negli estremi bisogni in tempo di guerre e di assedii. Valenzia era città di questa regione, ma meno antica delle altre, e fondata probabilmente da una colonia romana, e cinta di mura e difesa da una rocca. È ignoto per quali vicende fosse abbandonata o distrutta, e a

ððåìà poche rovine ne restano al di l

à di 5. Pietro Vernotico, alla distanza di tre miglia dal mare. Ivi intorno si sono scoverti vasi ne' sepolcri ed epigrafi.

Brundusio (Brundusium) era la più celebre città della Messapia, anzi di tutta Italia, per cagione del suo porto e de' grandi suoi traffichi. Edificata forse in origine dai Japigi, fu accresciuta da una colonia di Cretesi, i quali furono riguardati come i veri fondatori, e da altre colonie greche.

La città fu detta anche Brentesio, per la somiglianza della sua figura con una testa di cervo. E a riguardare anche oggidi la città di Brindisi co' due angusti seni del porto interno, che Delta e Luciana furono detti, si ha l'immagine di una testa di cervo, e la città rappresenterebbe la testa, e i due seni a guisa di fiumi le ramose corna del cervo. Per la magnifica situazione de' suoi porti Brundusio divenne di grande importanza dal primo arrivo delle colonie elleniche nelle spiagge d'Italia,

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pel facile tragitto dalle rive opposte della Grecia; e superò la stessa città di Taranto, ch'era un grande emporio di commercio. Descrivendo Lucano la magnifica posizione della città di Brundusio, dice, che ricurvando ivi l'angusto lato, l'Italia prolunga nelle onde una stretta lingua di terra, la quale con curvi seni abbraccia i flutti dell'Adriatico. Nondimeno le acque rinchiuse in queste strette fauci non formerebbero un porto, se un'isola non fermasse nelle sue rocce il violento soffio del Coro (maestro), e non respingesse le onde che vi si rompono. da' due lati la natura oppone al mare aperto scoscesi monti di scogli, e respinge i venti perché ferme restassero le carene. Si apre al di là il pieno mare, sicché i navigli veleggino verso il porto di Coreira, sia che verso l'Illiria giungano ad Épidamno, bagnata dalle onde del Jonio. Ivi è il ricovero de' nocchieri, quando l'Adriatico sollevando tutte le sue onde, i monti dell'Epiro si ascondono nelle nubi, e l'isola di Sasone scomparisce nelle onde spumose.

Dopo le guerre tarentine la città cadde sotto la dominazione romana; ma venne più frequentata di prima, e la sua grandezza crebbe con la grandezza di Roma: la Via Appia fu prolungata fin qui, e Brundusio entrò nelle vie de' più grandi commerci, e fu scala ed emporio d'Italia e dell'Oriente.

Ebbe monete sue proprie e molte lapide che ci ricordano il Senato, la Repubblica Brundusina, l'ordine Equestre e Popolare, i Municipj, i Censori; ebbe templi sacri a Giove, Nettuno, Ercole, che furono i numi tutelari, ad Apollo e Diana, e a Bacco. Fuori della città, di contro alla porta occidentale, era l'Anfiteatro; e accanto al lido sul sinistro lato del porto erano. le Terme.

La città scadde nel Medioevo, e il porto andò ricolmandosi a poco a poco. La città antica, in più ampio perimetro dell'odierna Brindisi, sorgeva su' colli che sovrastano al porto, e ch'erano circondati di deliziosi giardini. A Brundusio avea termine la Via Appia, che vi entrava dalla parte che guarda Mesagne, e la Via Trajana, per il ponte grande verso la marina di Ostuni; e dall'opposta parte vi giungeva la Via Tarentina, ch'era un ramo dell'Appia; ed erano tutte abbellite da ostelli e da sepolcri costruiti su' due lati. Brundusio fu città insigne, grande emporio di commercio, piazza di armi ed arsenale de' Romani, e fu ancora fiorente per opere di arte, e per le belle lettere.

Di contro al porto esterno di Brindisi sono cinque isolette, le quali, formando come una catena della lunghezza di un miglio, ne difendono l'entrata; e la più grande di esse fu nota agli antichi sotto il nome di Barra.

Messapia fu una delle città più antiche dove pare che si fossero posati i popoli che prima di giungere la colonia cretese diedero il nome alla regione. Il luogo della città era quello dell'odierna Mesagne, terra popolosa, lontana 8 miglia da Brindisi; ed ivi furono scoperti molti titoli sepolcrali e colonne.

Iría o Uria era città della Messapia, nel mezzo dell'istmo, verso i confini della Sallenzia, e se non fu fondata, fu certamente accresciuta da una colonia cretese. Ebbe monete sue proprie, tutte di bronzo, co' tipi di Pallade galeata e di Ercole imberbe.

Sul sito dell'antica è la presente città di Oria, sopra tre colline nel mezzo di una vasta pianura; e non sopravvanzano che poche e rare memorie, poiché su' ruderi de' templi e degli edifizj antichi furono innalzati i nuovi.

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Rudía, la patria di Ennio, fu ultra antica città di questa regione, in un sito non lungi da Grottaglie, e propriamente in quello che anche oggi dicesi Rusia, dove furono scoverti molti vasi, i quali appalesano una città greca.

Mesocoro (Mesochorum) era tra Uria e Taranto, nella via che da quest'ultima città menava a Brindisi, ed era il nome di un villaggio o semplicemente di una contrada; e il sito è da riconoscere presso di Monte Mesola, in vicinanza di cui sulla Carta del Rizzi Zannoni sono segnate alcune rovine.

Celio (Coelium) era 10 miglia lontana da Mesocoro più dentro terra; e quantunque sieno del tutto ignote le memorie di questa città de' Messapii, pure le molte epigrafi in caratteri messapici, i molti vasi dipinti e le monete di ogni metallo e di gran pregio scoperte ne' suoi sepolcri, bastano per dimostrarci che fu città antica ed importante. Le monete portavano i tipi di Minerva galeata, di Giove laureato, di Pallade, di Ercole, e de' Dioscuri.

Carbina era 6 miglia lontana da Celio e 3 dal mare, città antichissima, della quale non resta altra memoria che quella della sua distruzione per mano de' Tarentini, già venuti in grande potenza e superbia. La città ebbe quel nome da' Cretesi che la fondarono, forse per la fertilità del suo agro, e fertilissimo è in fatti il suolo di Carovigno, che successe alla città antica. Ed ivi veggonsi ruderi di mura formate di grandi macigni, le quali erano forse le mura dell'acropoli, e avanzi di sepolcri, idoletti di argilla e vasi antichi, e caducei rinvenuti ne' sepolcri, i quali accennano alla vita futura degli estinti ed a Mercurio Psicagogo, o Psicopompo, che le anime conduceva, secondo la volgare credenza, cosi nel tristo Tartaro, come alle eteree sedi.

La Messapia era attraversata da diverse vie, le quali non solo mettevano in facile comunicazione i Messapii, e i popoli vicini, ma tutte guidavano ancora alla città di Brindisi, grande e comune emporio de' popoli delle nostre contrade, della Grecia e dell'Oriente. La più importante era la Via Appia, dalla quale altre si diramavano, ed era notevole quella che univa Brindisi a Taranto.

Sono ignote le prime vicende de' Messapii e de' greci coloni sopravvenuti nella regione dall'isola di Creta e dal Peloponneso. I Messapii combatterono co' Tarentini e vinsero; ma fatti i loro nemici più forti e potenti, essi caddero sotto il giogo di Taranto, e quindi, insieme con essa, sotto il giogo di Roma.

La Peucezia, la quale da alcuni scrittori antichi fu confusa con l'Apulia, segui va immediatamente alla Messapia, e si distendeva sulle rive dell'Adriatico da Egnazia a Bario, e penetrava dentro terra insino a Silvio, comprendendo la maggior parte dell'odierna terra di Bari con parte de' vicini distretti di Brindisi e Taranto. La regione è molto somigliante alla prossima Sallenzia, giacente al pari di essa sulle pendici dell'Appennino, il quale interrompe la vasta pianura con le cosi dette Murgie, lunga e continuata catena di monticelli; e si eleva in estesi altipiani, e forma fertili valli e pascoli abbondevoli. Priva quasi del tutto di acque, non scorrono rhe piccoli torrenti in tempo di piogge. Tranne le contrade ingombre dai ristagni di alcune sorgenti superiori al livello del mare tra Barletta e Trani, non vi sono terreni palustri e l'aere è salubre.

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I primi popoli di questa contrada appartengono alle primitive emigrazioni, e furono probabilmente le tribù pelasgiche originarie di Arcadia, a cui si riunirono quelle dell'IIlirio. Pochissime memorie si hanno dell'arrivo nella Peucezia di popoli che vi si tramutarono dall'Ellade e da' vicini paesi, e pure greci per lo più sono i nomi delle città, greci i vasi scoperti ne' sepolcri, greche le monete.

Egnazia (Egnatia) era città antica, sul confine della regione, a breve distanza dal mare, in sito molto ameno e ridente, abbondevole di dolci e limpide acque, che scorrono anche oggi, soprattutto presso l'antica muraglia che cingevala dalla parte del mare, dove dicesi la fontana di Agnazzo, la più rinomata di quella spiaggia.

Fu distrutta nell'XI secolo da Boemondo, figliuol di Roberto Guiscardo; e in quel tempo medesimo fu edificata la città di Monopoli, 6 miglia lontana, dagli Egnaziani che abbandonavano la desoiata patria. Ed ivi intorno furono scoverti antichi sepolcri, di varia forma e grandezza, e qualche avanzo delle mura che cingevano la città, formate di grandi massi bislunghi uniti senza cemento, e gli avanzi dell'acropoli.

Apaneste era città della Peucezia, di origine greca, fondata da popoli emigrati, nel sito della celebre Badia di S. Vito presso Polignano, luogo rinomatissimo pe' molti antichi sepolcri, che furono degli antichi Apennastini. La città fu abbandonata ne' primi secoli dell'era volgare, e gli abitatori si ridussero in diversi villaggi da cui derivò il nome odierno di Polignano. Oltre ai sepolcri furono scoperti vasi eccellenti e monete di bronzo ed altre anticaglie.

Poco lontane da questa città ve n'avea altre di origine greca, siccome Turo, Norba presso Conversano, Azetio, nelle vicinanze di Rutigliano, dove furono scoverti sepolcri, vasi, gemme, idoli e monete in gran numero.

Celia era nove miglia lontana da Azetio , e due miglia dal mare, posta da' geografi tra le città mediterranee de' Peucezii, e fondata da' Greci. Ebbe monete sue proprie co' tipi di Pallade e di Ercole, e furono scoperti sepolcri con vasi egregiamente dipinti e con greche epigrafi.

Bario (Barium) fu illustre e popolosa città, fondata dagl'Illirici, e accresciuta da colonie elleniche che qui si posarono sul lido della Peucezia da tempi assai remoti. Ebbe monete sue proprie con tipi diversi, e quasi tutte di bronzo. Fu celebrata da Orazio per l'abbondante pesca del suo mare, e fu tra le nostre antiche città marittime industriosa e trafficante. de' templi suoi non resta memoria che di quello sacro ad Apollo e di un altro sacro a Giove. Nel recinto dell'odierna Bari furono scoverti sepolcri e vasi antichi, onde pare che la città antica fosse 500 passi lontana di là, nel suburbano detto il Monte, lungo la Via Trajana.

Furono città della Peucezia, fondate prima de' tempi di Roma, Respa, nelle vicinanze di Molfetta, e Naziolo, nelle vicinanze di Giovinazzo.

Tureno era sei miglia lontana da Naziolo, sulla riva del mare, alla sinistra della Via Trajana, fondata in tempi molto remoti, siccome dimostrano le monete, le iscrizioni e i sepolcri, e di origine greca. Ne' primi tempi dell'Impero la città era florenlissima.

Bardulo (Bardulum) fu fondata 'da colonie illiriche, e poi accresciuta probabilmente dagli abitanti di Canosa e di Canne, i quali vi si tramutavano per il sito migliore e più acconcio ai traffichi del mare.

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Il nome della città si cangiò nel Medioevo in quello di Barulum, donde venne l'odierno nome di Barletta.

Butonto (Butuntum) fu città ellenica, fondata sulla Via Trajana, 12 miglia lontana da Celia; e fu città autonoma, come dimostrano le sue monete di bronzo, co' diversi tipi di Pallade e di Giove. Fu nel sito stesso dell'odierna città di Bitonto, che conserva il nome antico, dove non resta alcuna memoria antica, tranne la tradizione che nel sito della chiesa di 5. Pietro del Castello era il tempio di Pallade, la dea protettrice di quella città, abbondevole e lieta di olivi così ne' tempi antichi come oggidì.

Turricio (Turricium) era presso alla Via Trajana, 8 miglia lontana da Bitonto, nel luogo della città di Terlizzi, ne' cui campi vicini furono trovati titoli sepolcrali e sepolcri, soli avanzi della città antica. La città tolse quel nome dalle torri ond'era cinta, e lo cangiò poi in quello di Terlizzi; ed è oggi ricordata principalmente per la curiosa Theca Calamaria scoperta in uno de' sepolcri della città antica, e che dava occasione ad uno de' più celebri archeologi patrii d'illustrare le napolitane antichità.

Rubi era poco lontana da Turricio, sulla stessa Via Trajana, fondata probabilmente da una greca colonia arcadica in tempi molto remoti. Le sue monete portano i tipi di Giove, di Pallade, di Ercole. La città fu una delle più ricche della Peucezia, siccome dimostrano i sepolcri e i vasi dipinti di egregio lavoro. I sepolcri erano incavati nel vivo sasso, coperti di una o più lastre di pietra; e i vasi rivaleggiano co' più belli dell'antichità, si per la grandezza e la varietà delle forme che per le figure e pe' miti che vi sono figurati. Sono notabili ancora le armature scoperte negli stessi sepolcri; le figurine di bronzo, i tripodi, i candelabri, le patere, i vetri, le terre cotte ed altri oggetti di bellissimo lavoro. La città antica era fuori del perimetro della presente città di Rumo, ma sulla collina medesima, e propriamente sulla vetta.

Silvio (Silvium) era sulla Via Appia, l'ultima città mediterranea dei Peucezii, popolosa e fortificata, e fiorente ai tempi dell'Impero. L'antichità di Silvio è manifesta da una moneta di argento e di federazione con la città di Rubi. Il luogo della città antica era nella terra, oggi distrutta, detta Garagnone, dove ha termine l'aspra contrada delle Murge, e comincia la vasta e fertile pianura verso Spinazzola e Venosa.

Quattro miglia lontana dalla descritta città era la stazione detta Ad Pinum, la quale tolse il nome da qualche pino, insigne e maestoso tra gli altri di che abbondava la regione. Dal pino stesso fu poi denominata l'odierna Spinazzola, presso della quale era la stazione medesima.

Lupazia (Lupatia) fu città della Peucezia, nel luogo dell'odierna Altamura, la quale dimostrano città antica le molte e diverse anticaglie scoperte nel recinto del muro vecchio, monete, cammei, corniole, vasi, strumenti da sacrifizj, urne, idoletti e lucerne. Fuori della città erano le Terme, le quali riceveano le acque da alcuni vicini rivoli.

Mateola fu città greca, nel luogo della Matera di oggidì, e fu accresciuta da una colonia di Metapontini e da una colonia romana. I sepolcri più antichi e più notabili appartenevano ai greci fondatori, siccome dimostrano le monete, gl'idoletti, le tazze e gli eleganti vasi figurati con Baccanti; i meno antichi erano romani, formati dentro le grotte presso la città.

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Genusio (Genusium) fu fondata dagl'Illirici, a breve distanza dal Bradano, nel luogo dell'odierna Ginosa, dove furono scoperti varj sepolcri antichi.

La città fu accresciuta da una colonia di Metaponto e da una colonia romana e fu città importante.

Due grandi strade, oltre quelle che se ne diramavano, traversavano la Peucezia, una lungo la marina, e fu quella che prima prese il nome di via Egnazia, e poi quello di Via Traiana; e l'altra dentro terra, cioè il ramo della Via Appia che per le falde del Vulture entrava nella regione di qua di Venosa.

I Peucezii erano al principio della guerra del Peloponneso retti da un re, ma confederati del pari che i popoli vicini, ne' quali veggiamo sempre prevalere i greci istituti.

Si strinsero in lega con Agatocle di Siracusa; parteggiarono pe' Salentini e per Taranto nelle guerre contro i Romani, e soggiacquero con tutti gli altri popoli d'Italia alla potenza di Roma.

La Daunia estendevasi sulle rive dell'Adriatico, in fra la Peucezia e l'Apulia, comprendendo il gran promontorio del Gargano, le vaste pianure della Puglia, o il Tavoliere, e la contrada montuosa ne' confini occidentali, alla destra riva del Fortore.

La parte del Gargano rivolta a settentrione è deliziosa ed amena pe' monti sempre rivestiti di verdura, e le belle colline e le valli ubertose; ma in tutto il resto non veggonsi che confusi gruppi di montagne spezzate in tante parti, divise da anguste valli, con antri e voragini profonde. La vasta pianura della Puglia non presenta che leggere elevazioni e basse colline che vanno confondendosi colle appennine diramazioni, da cui discendono molli piccoli fiumi e torrenti. I monti lungo il Fortore si elevano quasi alla stessa altezza de' monti garganici, ma sono più coverti di terra vegetabile, e danno origine ai grandi fiumi della regione. Le piccole lagune a levante e a settentrione, il lago di Salpi, il Pantano Salso col lago Versentino, e quello di Varano, che cingono il Gargano, del pari che gli strati paralleli di materie diverse pieni di gusci di testacei, chiaramente dimostrano che tutta la regione bassa fu già un vero fondo di mare, di cui i laghi anzidetti sono gli avanzi.

La Daunia, non diversamente dalle prossime contrade, fu popolata da Arcadi insieme e da Illirici, e trasse il nome da Dauno re del paese, il quale dominava nella contrada al sopravvenire di Diomede, dopo la guerra trojana, intorno al quale eroe molte favolose tradizioni sono ricordate.

Canne (Cannœ) fu città di questa regione, nella pianura di s. Cassano, e fu popolosa e fortificata. Furono trovati ruderi di sepolcri e vestigie di mura antiche, e colonne spezzate e grandi rottami di marmi.

La città di Canne, comechè distrutta da Roberto Guiscardo, nel 1083, si conservò nondimeno e fu abitata in tempi successivi. Quella città antica è ricordata per la famosa battaglia che ivi o in quelle vicinanze i Cartaginesi vinsero contro i Romani.

Ñàïusio (Canusium) era presso la destra sponda dell'Aufido, 5 miglia lontana dalle rovine di Canne, ed era una delle più grandi città d'Italia, fondata in tempi remotissimi da colonie pelasgiche, e poi accresciuta da colonie elleniche. Certo è che fu una città greca, e lo dimostrano le sue monete molto rare tra le altre della regione.

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Nulla non sappiamo delle sue prime vicende, e possiamo dire soltanto che 3 secoli av. l'era volgare essa cadde in potere de' Romani, i quali in processo di tempo ne formarono una colonia.

La città ebbe molti templi, ma se n'è perduta la memoria, e da alcune iscrizioni conosciamo appena quello di Alena o di Minerva. E in qualcuno di quei superbi monumenti erano le sei grandi e famose colonne di verde antico, che oggi trovansi nella cattedrale, e che furono dichiarate uniche nel loro genere, ed altre cinque di marmo persichino.

Fu città ricca e magnifica, ed ebbe il Senato e l'Ordine Equestre del pari che Roma. Era quasi un miglio al disopra dell'odierna Canosa, sulla collina ora piantata di vigneti, dove veggonsi gli avanzi delle mura, che cingono un'area di quasi 16 miglia di circuito, ed altre superbe rovine e maravigliose del pari che quelle trovate a Baja e a Puteoli, ed avanzi di opere laterizie, archi, acquidotti, terme, e i ruderi di un anfiteatro, e i sepolcri scavati nella roccia sopra una collina, un mezzo miglio dalla città, e i quali pare che formassero la necropoli più antica. In quei sepolcri furono trovati vasi di creta grossolana e di colore biancastro, le cui forme mostrano un'altra antichità, e vasi ornati di pitture rappresentanti Baccanali, di un lavoro comune.

L'odierna Canosa non occupa che l'acropoli della città antica, nella quale si ridussero i pochi abitanti scampati al ferro e alla distruzione dei barbari che diroccavano una città si grande e si illustre.

E il castello fu costruito co' sassi dell'antica città, e cosi grandi ed enormi che recano stupore a riguardarli; e veggonsi per la città frammenti di statue e colonne spezzate di marmo. Canuso ebbe il suo emporio, e fu probabilmente alla foce dell'Aufido.

Tra la città di Canosa e quella di Canne, lungo la sponda dell'Aufido, erano i Campi di Diomede, ricordati da molti antichi scrittori e i quali accennavano al nume o all'eroe, che, secondo le favolose tradizioni, ebbe la sua parte ne' possedimenti di Dauno.

Venusia fu città cospicua ed antichissima, fondata da' Greci, da' quali fu detta primamente Afrodosia o Venerea. Era l'acropoli di tutta la regione, e caduta in potere de' Romani, nelle guerre sannitiche, insieme con essa caddero tutte le altre città daune; e quindi Venusia divenne una grande colonia romana. Ebbe monete sue proprie, alcune dell'epoca dei Romani, ed altre più antiche, co' tipi di Ercole, di Bacco, di Mercurio.

Nelle guerre tarentine e cartaginesi tenne le parti di Roma, e resisté ad Annibale fortemente; ma fu contro di Roma nella guerra Sociale, ed ultima a deporre le armi, e i Venusini furono fatti cittadini romani.

Distrutta la città da' Saraceni, i quali per più anni si fortificarono sulle sue rovine, scomparvero le grandi opere antiche e fin la memoria. Ma da epigrafi scolpite sopra are votive rilevasi ch'erano numi adorati nella città, Giove, Venere, Minerva, Mercurio.

Fuori della città, in vicinanza del Teatro, sorgeva sopra un colle l'Anfiteatro, di opera cosi grande ed ammirevole che fu creduto poco minore di quello che Tito innalzava in Roma.

Venusia fu città grande e popolosa, e divenuta una delle più grandi città sotto i Triumviri, fu poi la città primaria di tutta l'Apulia, e sede de' correttori dell' Apulia e della Calabria.

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Nelle vicinanze di Venusia l'Itinerario di Antonino segna il villaggio detto Balejanum, forse sito di bagni della città; e Strabello, città di origine greca, situata sulle falde orientali del Vulture, il quale si eleva come una grande isola in mezzo alla catena degli Appennini, vulcano estinto da tempi sconosciuti anteriori alla storia, e che trasse il suo nome, seconde che pensa qualche patrio scrittore, dal rapire che faceva il fuoco a guisa di avvoltojo ( Vultur) le terre circostanti. In fra le cime del monte sono due laghi, sorprendenti per naturali e romanzesche bellezze. La regione del Vulture fu abitata da' Greci primitivi, e da' Pelasgi e da' Sanniti.

Terento (Terentum) era nel lato meridionale del Vulture e dell'agro di Venusia, e fu in origine detta Fere, e fondata probabilmente da' Pelasgi. Se ne veggono i ruderi poco lontano dall'odierna Forenza.

Acherunzia era 6 miglia lontana da Ferento, e fu città pelasgica, ricordata da Orazio, il quale la rassomigliava ad un nido di uccelli, perché posta in un sito elevatissimo.

Banzia era vicina alle ã illa qui descritte, e non meno ant

ica di esse, fondata da' Bantii della Tracia nel sito della celebre Badia di S. Maria di Banzi e del piccolo e misero villaggio dello stesso nome, o in quelle vicinanze, dove furono trovati antichi rottami, e sepolcri, acquidotti, fontane, pavimenti a musaico, statue e colonne, statuette di bronzo e medaglie, e gigantesche costruzioni di grandi pietre macigne senza cemento, attribuite ai Pelasgi.

Irto era ne' confini della Daunia e della Peucezia, città di origine greca, ed era nelle vicinanze di Montepeloso e Grassano, che sorsero dalle sue rovine.

Salapia era tra l'Aufido (1) e il lago di Salpi, città antichissima de' Dauni, presso al lago o alla palude che gli antichi distinsero con l'epiteto di Salapina; e fu fondata da una colonia di Rodii, sotto la guida di un condottiero per nome Elpia o Elfia, giunti non si sa quando in questa parte d'Italia.

La città, conosciuta tra gli antichi sotto il nome di Eljia e di Salapia, si resse indipendentemente dalle altre vicine, e forse confederata con esse. Ebbe monete sue proprie, tutte di rame, co' lipi di Apollo, di Giove, di Pane. Prese parte alle guerre cartaginesi e fu la stanza di Annibale, a cui fu poi ritolta dalle armi romane.

Gli abitatori di Salapia, cacciali dall'aere pestifero prodotto dalla vicina palude, abbandonarono l'antica, e un'altra ci ttà riedificarono in luogo più aperto e salubre, 6 miglia lontana, e presso al mare.

E restano vestigj dell'una e dell'altra, e della nuova sono molti avanzi sommersi nelle onde; e dell'antica sono altri ruderi presso il lago, sopra una collinetta, e sono portici, pilastri e volte, oltre le reliquie delle forti mura.

La palude Salapina era a sinistra della descritta città, 300 passi dal mare, e avanzo di acque marine che ricopersero la regione in tempi molto remoti.

Dodona fu una delle città antichissime della Daunia, fondata da' Pelasgi che da Dodona della Molosside passarono in Italia, e fu nel luogo ora detto La Lupara, nell'agro di Cerignola, dove furono trovati avanzi di una città antica con tutto il suo pomerio, e con mura di fabbricazione ciclopica o pelasgica. La città fu distrutta innanzi ai tempi di Strabone e di Plinio.

(1) L'aufido, oggi noto col nome di Ofanto, fu detto da Orazio, t aurjformis, acer e longe sonuns, per cagione della velocità e dell'impeto del suo corso.

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Ardonéa o Erdonia fu grande e popolosa città de' Dauni, la quale prese parte alle guerre cartaginesi ed ebbe a soffrirne gravi danni. Il sito della città antica fu riconosciuto nelle vicinanze dell'albergo di Ordona, sulla via che mena a Cerignola; e nella prossima collina si veggono i ruderi di una grande opera laterizia, creduta la sua acropoli, e nella vicina pianura sono sparsi gli avanzi della città, maestosi ancora in mezzo alle rovine; e un tempio di opera reticolata di marmi e mattoni, nella cui nicchia scorgevasi dipinta la dea Iside.

Ascolo (Asculum) era 10 miglia lontana da Ardonea più dentro terra, città antica ed importante, fondata da' Greci in basso luogo cinto di montagne. Entrò nelle guerre tarentine e nella guerra sociale, e i Romani vi mandarono una colonia. Ebbe monete di bronzo, e templi magnifici, e tra gli avanzi della città sono notabili due colonne di granito davanti la cattedrale dell'odierna città di Ascoli, edificata nel 1400 a breve distanza dall'antica. Presso le mura della città passava la Via Trajana, della quale tre colonne miliarie si veggono nella città odierna.

Ibonio o Vibino era nella regione de' Dauni, e sono una ripruova della sua antichità i molti ruderi e frammenti di marmi e di bassi rilievi che si veggono sparsi in ogni parte della città di Bovino, succeduta all'antica.

Eca fu città di origine greca, cinta di forti mura: fu teatro di guerre sanguinose. occupata da' Cartaginesi, e presa per assalto da' Romani, i quali vi mandarono una colonia. La città antica, splendida per lunghi secoli e ricca di superbi monumenti, era a breve distanza dalla città di Troja, la quale fu innalzata nel 1008 su gli Accampamenti di Annibale.

Argirippa, detta prima Argo Ippio e poi Arpi, fu una delle più grandi e più insigni città della Daunia, fondata in tempi molto remoti da colonie pelasgiche. Prese parte alle guerre cartaginesi e poté tenere un presidio di 8000 uomini. Le sue monete, alcune di bronzo, altre di argento, ne dimostrano il fiorente commercio e la ricchezza, e la fertilità de' campi, portando in fra gli altri tipi quello delle spighe e del grappolo di uva. Gli Argirippeni aveano il loro emporio nella città di Salapia, e aveano rapporti di commercio co' popoli vicini e co' lontani sull'opposta riva dell'Adriatico.

Intorno all'XI secolo fu abbandonata per la nuova edificazione di Troja; e se ne veggono le rovine a 5 miglia da Foggia nel luogo che tuttavia serba il nome di Arpi, dove furono scoperti molti sepolcri con vasi di grande pregio.

Luceria fu tra le città più antiche e più insigni della Daunia, ed ebbe la stessa origine di Argirippa e di altre città vicine. Strinse alleanza con Roma, nella guerra contro i Sanniti, e fu teatro di pugne sanguinose; resisté ad Annibale, e qui Pompeo riunì tutte le sue coorti, per trasferirle poi a Brundusio, e di là nell'Epiro. La città divenne colonia romana, e le sue monete sono di questa epoca. Ebbe templi superbi sacri ad Apollo, a Cerere, ad Ercole, ai Dioscuri, ed ebbero templi ed are gli altri numi più celebrati di Grecia e di Roma. Avanzi di quei templi sono 12 belle colonne di marmo caristio e di verde antico che trovansi nel Duomo, ed altre di marmo cipollino in mezzo a bellissimi mosaici, e ad altri rottami. La città fu occupata da' Saraceni a tempo di Federico II, e qui gli Svevi e gli Angioini innalzarono nuovi edifizj sugli antichi, e fecero disparire molte memorie e lapide sepolcrali.

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Siponto (Sipontum) fu grande città di questa regione, fondata da una colonia di Tessali, ed innanzi di soggiacere ai Romani; fu città fiorente per il suo porto, e pe' rapporti di commercio che avea anche con quei di Epidauro nell'opposta spiaggia dell'Adriatico. I Romani vi mandarono una colonia, la quale in luogo di prosperare andò cadendo a poco a poco, anche per ragione dell'aria malsana della prossima laguna, e della poca fertilità del suolo. Poche memorie di Siponto ci rimangono nelle lapide, da più secoli distrutte, come la città stessa, dopo che re Manfredi nel 1261, riunendone gli abitatori in luogo più salubre alla distanza di un miglio e mezzo, edificò una città nuova, che dal suo nome fu detta Manfredonia.

A non grande distanza da Siponto seguiva l'altra piccola città, anche sulla spiaggia, col nome di Matino. Orazio e Lucano partano di un monte vicino dello stesso nome, e il primo ne ricorda le api industriose, e il seconde i ricchi pascoli. E poco discosto di qui era il Porto Agaso, ricordato da Plinio, e riconosciuto nel cosi detto Porto Greco.

Il Gargano è la maggiore e possiamo dire l'unica elevazione della Daunia, notevole per l'altezza de' suoi gioghi, per il vario aspetto delle sue pendici, dove vegetano alberi boschivi, l'abete, il pioppo, e si coltivano gli ulivi, e la vite con altri alberi fruttiferi. Il Gargano è pure ricordato per la città dello stesso nome, fondata alle sue falde da' Pelasgi o da' Trojam che vennero dall'Epiro in tempi remotissimi. il nome primitivo della citò e del promontorio fu quello di Gargaro, che poi i Latini cangiarono in Gargano. Il luogo della città pare che fosse nelle vicinanze di Vico, nella contrada che ritiene il nome di Civita, dove furono trovati sepolcri, vasi greci, idoletti, amuleti, monete.

E sulle falde del Gargano, al di là del Capo di Viesti, fu la città di Merino, una delle città antichissime de' Greci, la quale fu abbandonata intorno all'XI secolo per cagione dell'aria malsana. Le vie principali erano, la Flaminia e la Trajana e le diramazioni di esse, che riunivano le città più importanti della regione.

L'Apulia era una contrada della Japigia, distinta dalla regione de' Dauni e dé Frentani, ed estendevasi ad occidente del Gargano, sulla spiaggia adriatica, di contro alle isole Diomedee. Ma gli Apuli furono divisi da' Dauni ne' tempi che precederono la dominazione Romana; perché dopo di quel tempo non solo i Dauni, ma anche i Peucezii furono compresi nel general nome di Apuli, ed Apulia fu detta la regione che da' Calabri estendevasi insino al Frentone. Il suolo di questa contrada è simigliante a quello della Daunia, uscito da tempi molto remoti fuori delle acque marine, e sollevato per trasporto di terreno venuto giù dall'Appennino, e per deposito di produzioni marine.

L'origine del nome è sconosciuta, ma ritenendo il nome di Apulia come nome greco, può credersi che derivasse dal culto di Apollo e del Sole, dal nume che distrugge, perocchè se il sole arde e dissecca nell'Ellade, al tempo della canicola, e distrugge i pascoli e la verzura, tanto più arde e dissecca nell'Apulia, dove rare sono le sorgenti e rare le piogge.

L'Apulia fu povera di città e di abitanti, e non tanto per le guerre devastatrici, quanto per cagione del suolo e del clima, fatto impuro dalle vicine paludi, e caldissimo nella maggior parte dell'anno.

Urio o Irio fu piccola città dell'Apulia, al termine de' popoli della Japigia, e fu fondata probabilmente da una colonia di Trojani.

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Ebbe alcune monete di bronzo co' tipi di Minerva, e con altri simboli che la dimostrano una città marittima, il cui sito era presso alla sponda del lago di Varano, cinto da ameni colli e deliziose campagne.

Dalla città d'Iria prese il nome il seno che tutto cingeva il lido dell'Apulia, e che dalla marina di Rodi si allargava sino alla foce del Fortore; e il nome d' Irio prese anche il porto formato in quel seno.

E a breve distanza dalla spiaggia era un lago che gli antichi dissero Lacus Pantanus; e fu il lago di Lésina, di questa piccola città edificata da alcuni pescatori di Lesina della Dalmazia, l'antica Pharos, una delle isole Liburnidi.

Teano fu una delle più nobili città della regione, e distinta col nome di apula, per non confonderla con l'altra città omonima de' Sidicini. Fu città greca, siccome dimostrano il nome stesso, esprimente l'aperta ed ampia sua situazione, e i tipi delle monete, delle quali alcune di argento, rarissime, ed altre di bronzo, men rare, co' tipi di Giove, di Pallade e di Ercole. Sorgeva sull'ameno poggio de' subappennini colli Liburni, e propriamente dove prendono il nome di Coppe di Civitate, veggendosi ivi le grandi rovine della città, una grande muraglia, ed essendosi scoperte monete greche, idoletti e vasi antichi, le quali cose tutto appalesano la greca; ¡viltà di quel popolo.

Ergizio fu antica città posta in un bel quadrivio tra la città di Arpi, Teano, Luceria e Siponto, dove furono scoverti motti ruderi e monete. Dalle rovine di Ergizio sembra che sorgesse l'odierno Casalnuovo, alla distanza di un mezzo miglio verso settentrione, celebre per la disfatta che nel 1137 ebbe re Ruggiero dal duca Rainulfo.

A settentrione del Gargano e di rincontro alla foce del Fortore ed al lago di Lesina sorgono le isole di Tremiti, note ai Greci col nome di Diomedee, poiché ivi dicevasi scomparso quell'eroe. E alle colonie primitive elleniche ne veggiamo risalire la memoria più antica, a quelle che nella Daunia passarono dall'Argolide, espresse con lo stabilimento di Diomede.

E che quelle isole fossero abitate da' Greci lo dimostrano non tanto le antiche rovine, quanto le greche monete e i vasi ivi scoverti. Plinio disse Teutria la più grande di quelle isole, la quale poi venne detta Tremerum o Tremorum, forse per ragione de' tremuoti ond'era agitata, o degli squarciamenti di cui presentava le tracce; e di qui derivò la comune appellazione di Tremiti data a quelle isole. Sono ricordate queste isole per l'esilio di Giulia, nipote di Augusto, e per l'esilio di Paolo Warnefrido o Diacono, segretario di Desiderio, ultimo re de' Longobardi.

De' popoli primitivi che nella Daunia e nell'Apulia si stabilirono nulla non sappiamo insino alle guerre sannitiche. Sappiamo che le colonie greche diffusero la loro civiltà e ordinarono i governi seconde i patrii istituti; che quei popoli entrarono nelle guerre del Sannio, combattendo ora pe' Romani, ora contro di essi; parteggiarono pei re di Epiro, nelle guerre tarentine, e dopo la battaglia di Canne si diedero al partito di Annibale; ma cessate le guerre Cartaginesi, soggiacquero alla dominazione de' Romani, e combatterono in lontane regioni insieme con essi, e confusero la loro gloria con quella di Roma.

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La Sicilia.

La Sicilia, ch'è la più grande isola del Mediterraneo, ha una forma triangolare, ed è terminata da tre punte o promontorii, e sono quella di Peloro, o capo del Faro, che inverso settentrione guarda il promontorio Cenide e la estremità della Brezia, e forma lo stretto che l'isola divide dalle regioni continentali; quella di Pachino, o capo Passaro, che sporge inverso levante, e guarda la Grecia; e quella di Lilibeo, o capo Boeo, che sta di rincontro all'Africa. E per questa sua particolare conformazione fu prima e più anticamente detta Trinacia e poi Trinacria (i).

L'intero perimetro dell'isola è di 570 miglia, e non differisce molto da quello indicato dagli antichi. Il Mediterraneo, che bagna le sue coste, suol distinguersi col nome di Tirreno nel lato più lungo rivolto a settentrione dal Peloro al capo Boeo, con quello di mare Africano nell'altro lato dal Boeo al capo Passaro, e di mare Jonio nell'ultimo lato dal Capo Passaro al Peloro verso oriente.

Fu opinione quasi concorde tra gli antichi che la Sicilia fosse un tempo unita all'Italia, e i poeti, i geografi e gli storici ricordano un gran cataclisma che ne la divelse, non altrimenti che in altre parti del globo per cagioni fisiche diverse. Ma essendo l'epoca anteriore ad ogni memoria storica, non ricordavasi che come una tradizione antichissima, e il fenomeno precedé certamente la prima apparizione delle tribù che discesero l'Ellesponto, e diedero origine all'età eroica della Grecia e dell'Italia; e Buffon lo riporta all'epoca stessa della forma/ione del Mediterraneo, o piuttosto al subitaneo accrescimento di esso, quando, dischiuse le barriere del Bosforo Tracio, sboccarono in esso le acque del Mar Nero e quelle del mare di Azof. E che la Sicilia si fosse distaccata dal continente per violente cagioni sostengono molti dotti naturalisti, traendo argomento dall'uniformità degli Appennini e de' monti Nettunii dell'isola, cosi nella figura esteriore, come nella loro formazione e nel loro corso.

Ma se l'isola da una parte somiglia all'Italia da cui vedesi distaccata, è simile dall'altra al lato dell'Africa che si prolunga nel capo Boeo, il quale si protende grandemente come per raggiungerla. E forse la grande e memorabile inondazione, per la quale rotto l'istmo dell'Iberia le acque dell'Oceano si versavano nel bacino del Mediterraneo, e quelle dell'Eusino precipitavano nell'Egeo, per la via del Bosforo e dell'Ellesponto, divideva l'isola non tanto per breve spazio da quello che fu poi continente italico, quanto dallo stesso continente dell'Africa assai più lontano, col quale le isole di Gozo e di Malta erano congiunte.

La Sicilia mostra da per tutto i segni delle grandi commozioni sofferte, e delle violente azioni vulcaniche a cui fu sottoposta, e però l'isola rimase come un grande edifizio in rovina, sparsa sopra tutta la sua superficie di grandi inuguaglianze, di alte e nude sommità, di alti piani, di valli e di caverne, con seni e promontorIl sporgenti in sulle coste.

Il suolo dell'isola, quasi tutto coverto di montagne, può riguardarsi come un alto piano, rispetto al livello delle acque marine. E dal monte Artesino, che alto si eleva nel centro de' tre valli, che in parti quasi uguali ne tripartiscono il gran triangolo, possono vedersi tutti gli altri monti,

(1) Per la figura triangolare della Sicilia Pomponio Mela assomigliavala ad un Delta, e per la stessa ragione ebbe pure, massime da' poeti, il nome di Triquetra.

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I quali danno all'isola una forma di piramide triangolare. La Sicilia è ricca di fiumi, di fonti e di ruscelli, che quasi dapertutto conservano l'amenità e la freschezza, e fecondano e rendono il suolo ubertosissimo. Il clima è dolce, il cielo mite e benigno, e la terra fu detta per la sua fecondità l' isola del Sole. Omero diceva nell'Odissea cosi ubertosa la Sicilia, che nei suoi campi non arati, né anco seminati, produconsi e le biade e gli orzi e le viti. E qui trovasi ogni specie di frutta ed alberi di ogni clima.

L'inverno può quasi dirsi una primavera, e sono i calori di estate temperati dalle fresche brezze del mare. Non cade neve che sulle alte montagne, e mentre accade ciò, nelle parti basse si vede crescere il banano e la canna da zucchero. Non potrebbesi godere di un più bello e più puro cielo; il paese è delizioso, e ammirasi da per tutto l'armonia, lo splendore, la grazia delle tinte dolcemente diffuse. Ma a cosi belli doni del cielo e della terra contrasta in qualche luogo l'insalubrità dell'aere, i tremuoti, le eruzioni del Mongibello, i funesti effetti dello scirocco, che soffia nei mesi di luglio e di agosto. I doni della natura sono largamente profusi in quel suolo felice, un di sacro a Cerere, e il quale, quantunque vulcanica e calcare, è stato sempre celebrato per la sua feracità. La mancanza delle piogge al principio della state è riparata da abbondanti rugiade fecondatrici, e io scioglimento delle nevi nelle montagne dà origine a numerosi ruscelli, che facili offrono i mezzi dell'irrigazione.

La Sicilia fu abitata da tempi cosi remoti, che le tradizioni ne risalgono alle epoche antichissime delle più insigni regioni del mondo, e ne giungono cosi alterate da' poeti antichi e dalla giovane fantasia de' primi navigatori greci, ch'egli è molto difficile di poterne discorrere le vere origini e le condizioni primitive.

I poeti e gli storici ricordano i Ciclopi come abitatori aborigeni dell'isola, i quali, secondo le tradizioni omeriche, erano superbi e senza legge, non piantavano, né aravano, perché spontanei aveano dalla terra il grano, l'orzo e le uve; e abitavano in cave spelonche, dove ciascuno imperava alla propria famiglia; e l'isola, selvosa e piena di capre selvagge, avea prati irrigui e molli, e suolo ubertosissimo. E il simigliante dissero Euripide, Virgilio, Ovidio, Giovenale, i quali, partando de' Ciclopi erranti, inospitali e feroci, o del terribile Polifemo, gigante e pastore antropofago, essi non fecero che ritrarre la vita primitiva de' popoli, e supporre che la terra non coltivata dava ogni frutto agli uomini viventi senza leggi; sicché i Ciclopi, non che vere generazioni di uomini, furono creazioni della fantasia de' poeti.

Un altro principio per ispiegare la mitologia geografica della Sicilia può aversi nelle naturali condizioni di quell'isola; e se i Greci videro Satiri nelle stalattiti, e Nereidi nelle onde, videro nella Sicilia, sconvolta da potenti azioni vulcaniche, una terra di giganti, o chiusi nell'Etna o erranti per quei campi vulcanici.

Ma i Ciclopi furono un mito estraneo alla Sicilia, e vennero di oriente, e furono forse i Bebrici, rozzi ed incolti, i quali abitavano la regione di Lampsaco, e la Troade, e, senza leggi e senza mura, viveano nelle caverne con le ricche mandrie de' loro tori. E qui forse vennero anche gli Erembi del golfo Arabico dal lato dell'Egitto e dell'Etiopia, conosciuti col nome di Troylodüi, perché non poche grotte spaziose, specie di labirinti tagliati dalla mano dell'uomo, veggonsi in Val di Noto e nella valle

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d' Ipsica, e sembrano essere state il rifugio di un popolo che il timore, il bisogno o la barbarie ritenevano in queste selvagge dimore. E qui vennero anche i Fenici in processo di tempo, navigando il Mediterraneo, per ragione del loro commercio.

I popoli veramente storici abitatori più antichi della Sicilia furono i Sicani, da alcuni greci scrittori confusi co' Ciclopi, e da altri con maggior fundamento con gl' Ibcri, i quali venuti di Asia in una delle prime emigrazioni, si sparsero in motte parti dell'Italia e nelle isole circostanti, e nelle contrade bagnate dall'Ebro. E qui vennero i Siculi o Sicoli, i quali dalla valle del Tevere cacciati da' Pelasgi e da' cosi detti Aborigeni, una parte dell'isola occuparono dopo de' Sicani, e da' Sicoli la isola prese il nome di Sicilia. I Sicoli erano popoli di Tracia, e di là passarono nell' Illirio, e da questa contrada nell'Italia.

I Sicani erano sparsi in villaggi per tutta l'isola, o più propriamente nella parte orientale di essa; ma cacciati autoincendi dell'Etna, o da' Siculi ivi sopravvenuti, si ridussero nella parte occidentale e meridionale. I Siculi abitarono le terre abbandonate da' Sicani, e depredando ne' campi de' popoli vicini, e spesso battagliando con essi, si stabilirono poi in certi confini, tosto che vennero a pacificarsi; e Panormo e Agrigento vuolsi che füssero i termini di questi confini, per modo che la parte orientale dicevasi Sicilia, e l'occidentale Sicania, e ciò fino a che soggiogati i Sicani dai Siculi, tutta l'isola fu detta Sicilia.

A quei primitivi abitatori seguirono i Fenici, quegli arditi navigatori, i quali venivano nell'isola, seguendo le vie delle loro navigazioni, e attirati da' ricchi prodotti di quel suolo feracissimo, e fondarono nell'isola le loro colonie, che divennero ricche e potenti, e crebbero stringendosi in rapporto di commercio con le altre del Mediterraneo. I Fenici portarono il culto de' loro numi; e noi troveremo tracce dell'origine fenicia in tutte le città dell'isola dove fu conservato il mito o il culto di Ercole. Nella Sicilia vennero anche i Çretesi e i Trojani, ed in un'epoca ¡interiore alla guerra di Troja, quando quella città era potente per terra e per mare. Ma caduta Troja, i Trojani emigrati ricercarono le colonie patrie, e facendole più forti fondarono mercé di esse altre nuove colonie. E qui vennero anche gli Elleni, allettati da' canti omerici, dalle favolose tradizioni di quella terra del Sole, e qui fondarono altre grandi colonie.

Le tradizioni di quella età vetusta ci ricordano involte ne' miti le spedizioni fenicie guidate da un Ercole; la guerra intimata da Minosse re di Creta perché gli fosse restituito Dedalo, rifuggiatosi nell'isola; la venula de' superstiti Trojani, de' Focesi, degli Epiroti e de' Tessali, ai quali furono uniti i nomi di Enea, di Oreste, di Ulisse e di Eolo; e tra le spedizioni elleniche, quella dell'ateniese Teocle, conducendovi una mano di Dorici e di Calcidesi, che fondarono la città di Naxus; e Archia che guidò una colonia di Corintii, s'impossesò dell'isola di Siracusa (la Ortigia antica) a danno de' Siculi, e pose le fondamenta della celebrata città di Siracusa; ed altre colonie fenicie e greche, le quali in processo di tempo fondarono le città di Zancle poi detta Messana, di Tauromenio, Nasso, Catana, Ibla, Trolilo, Leontini, Tapso, Siracusa, Erbesso, Acre, Camarina, Gela, Agrigento, Eraclea, Selinunte, Lilibeo, Drepano, Erice, Segesta, Panormo, Imera, Tindaride, Milae, Artemisia, Enna, delle quali noi ricorderemo brevemente le più importanti notizie topografiche.

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Sopravvenendo le colonie de' Fenici e degli Elleni, i Sicani e i Siculi furono costretti a passare nelle parti mediterranee; e come Siracusa di?enne molto potente, alcune città sicole, tra le quali Trinacia loro capitale, ne furono soggiogate; ed allora i Cartaginesi occupando i luoghi occidentali ed australi, in una regione si stabilirono, che il fiume Lico (Platani) divise dalla Siracusana.

Colla prima occupazione de' Romani, la maggior parte dell'isola venne nel loro dominio, obbedendo a Jerone re di Siracusa la parte all'oriente d'inverno e ad austro dal Simeto al fiume Salso, e la rimanente ai Cartaginesi da Agrigento all' Imero settentrionale; sino a che cacciati alla fine i Cartaginesi dopo la seconda guerra punica, tutta la loro regione cadde solto il dominio di Roma. E quando in fine la stessa Siracusa fu sottomessa, tutta l'isola in due provincie fu divisa, la Siracusana e la Lilibetana.

Un'altra divisione della Sicilia non vogliamo passare in silenzio, ed è quella che ci viene riferita da Tolomeo, il quale tutta la Sicilia divise in cinque popoli o regioni, cioè i Messanei, gli Orbili, i Catanei, i Segestani, ed i Siracusani; assegnando ai primi tutto il paese che guarda l'Italia; agli Orbiti od Erbitei il rimanente paese mediterraneo; ai Catanei quella di rincontro alla Grecia; ai Segestani quella che da Cefaledio si distende ai confini di Agrigento, e ai Siracusani la rimanente contrada bagnata dal òàrå africano, la quale divisione

è da riportare al tempo della floridezza di Segesta o Egesta, innanzi che fosse distrutta da Agatocle.

Cominciando la descrizione della Sicilia dalla parte più vicina alla Brezia, noi vediamo il Capo Peloro, di rincontro al Capo Scilleo, e si eleva come un gran muro sull'augusto stretto di mare che separa la Sicilia dall'opposto continente. Ebbe quel nome da tempi antichissimi, né per altro certamente se non perché era sacro a Giove Peloro de' Pelasgi della Tessaglia, il quale presiedeva ai tremuoti si terribili in quella contrada. Ivi intorno vi area due pantani che furono i laghi del Peloro, e in mezzo ad essi, e presso al più piccolo fu innalzato il tempio di Nettuno, tanto celebralo tra gli antichi, di cui furono scoverti superbi avanzi, e mosaici, e colonne di granito orientale, ed are votive.

Quasi di rincontro al grande scoglio di Scilla, cosi pericoloso ai naviganti, era Cariddi, gorgo profondo dove le correnti dello stretto sospingevano le navi e le inghiottivano con grande avvolgimento e strepito di acque, e quando le spezzavano, gli avanzi ne cacciavano sulla spiaggia di Tauromenio. Cariddi fu in tempi anteriori ad Omero personificata in un mostro o diva, la quale nascondendosi sotto uno scoglio ombreggiato da un ingente caprifico, tre volte ogni di assorbiva, e tre volte mandava fuori le onde. Il Peloro era Capo di Faro, e Cariddi era Calofaro di oggi.

Zancle era antica città de' Sicoli innalzata sul lido che alla distanza di 12 miglia dallo stretto incurvasi a guisa di falce verso mezzodì, e il nome trasse da quella conformazione di luogo, se non fu dal suo fondatore Zanclo, re de' Sicoli, o figlio della Terra e coevo del gigante Orione, o, come dicono altri, dal mito di Saturno, il quale vuolsi che qui nascondesse la sua falce. La città fu accresciuta di nuovi coloni calcidesi, e divenne fiorente in breve tempo. Fu occupata in processo di tempo da' Samii e da' Messeni questi cangiarono il suo nome primitivo in quello di Messana. E non l'agro di questa città bastevole ai nuovi coloni, fondò la città di Milœ (oggi Milazzo), la quale fu fondatrice anch'essa dell'altra colonia e città d' Imera.

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I Messani furono ora indipendenti, ora sottoposti ai Siracusani; furono combattenti quasi sempre, ed entrarono nelle guerre cartaginesi, e caddero in potere de' Romani.

Messana ebbe monete sue proprie, con tipi diversi, ed erano frequenti quello di Giove, e Cerere coronata di spighe per accennare alla fertilità del luogo. Ebbe templi superbi, e fu celebrato quello di Nettuno, e sono ricordati gli altri di Castore e Polluce, di Venere, di Ercole, di Giove, di Diana, de' quali furono scoverti alcuni avanzi ed epigrafi.

Sulla costa orientale, e sulla via che da Messana conduceva a Tauromenio, erano alcune piccole città o villaggi antichi, siccome Tamaricio, Arbela, ed erano di origine fenicia.

Tauromenio (Tauromenium) era sulla roccia di un promontorio o monte che gli antichi dissero Tauro, e ch'era famoso per le cave de' suoi marmi.

E qui la fondarono i Sicoli, dopo che i Cartaginesi distrussero Messana, e la cinsero di mura; e dal nome del monte la città fu detta Tauromenio. Fu città forte, e dopo avere resistito lungo tempo, cadde in potere de' Siracusani, e quindi de' Romani. Ebbe monete di oro e di argento di egregio lavoro, ed altre di bronzo, con tipi diversi. Avea superbi ediflzj, cd erano notevoli il Teatro, il Ginnasio, l'lppodromo, e il Circo, oltre i templi e gli acquidotti, de' quali restano ancora i vestigi fuori il recinto delle mura della città. Il più ammirevole è il teatro, Il quale, prima che si scovrissero quelli di Ercolano e di Pompei, era il meglio conservato di tutt'i teatri dell'antichità, ed era tutto decorato di colonne di marmo variegato di rosso delle cave presso la città, oltre quelle di granito o di marmo di Numidia, di cui poi furono abbellite le chiese di Taormina. Il teatro fu costruito da' Greci, ingrandito da' Romani. Le sparse rovine di quel superbo monumento, le linee grandiose del teatro conservate nell'antica magnificenza, le mura dentellate dal tempo, il colore rossastro delle opere laterizie in contrasto con quello della roccia che le sostiene, gli archi e le colonne de' portici formano una veduta magnifica e pittoresca.

Nella vasta campagna che si estende a settentrione si sono scoperti molti sepolcri, ed ivi era la necropoli della città. E sono maravigliosi gli acquidotti, opera de' Romani, aperti tra balze e dirupi, e le terme antiche, di cui restano i ruderi.

Nasso (Naxus) era una delle più antiche colonie e città fondate da' Greci nell'isola, cinque miglia lontana dalla città di Taormenio. I suoi primi fondatori furono i Calcidesi, e la città tolse il nome da' Nassii, abitatori di Nasso, una delle isole Cicladi, detta per cagione della sua fertilità la Sicilia minore. I Nassii, celebrati da un antico scrittore come i primi che coniassero monete, erano a quel tempo in potere de' Jonii. Nasso fu combattuta da' Siracusani e da' Messanii, e gli abitanti costretti ad emigrare più volte, e rifugiarsi nelle città vicine. Di Nasso non rimanevano ai tempi di Pausania né anco le rovine. Il luogo della città antica fu forse in quello del villaggio di Torre Rossa, dove si osservano rovine di subborghi, di mura, di acquidotti, di sepolcri.

Nelle vicinanze di questa città scorre un fiumicello, che gli antichi dissero Onobala, e poi Tauromenio; e sulla destra sponda di esso, presso al mare, fu un tempio di Venere, celebre pe' grandi fascini maschili e femminili che vi erano dedicati.

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L'Etna è il più grande monte vulcanico della Sicilia e di Europa, e di esso parlarono i poeti e i geografi antichi, e ricordarono le favolose tradizioni. L'Etna fu detto la colonna del cielo, nudrice eterna di geli; fu detto la fucina de' Ciclopi, fabbri di Vulcano. E chi disse il monte sacro a Cerere, chi a Vulcano, chi a Giove, al quale fu pure dato il nome di Etneo; certo è che in diversi tempi e a varie altezze del monte furono innalzati templi ed are a diversi numi, a Cerere nella regione coltivata e delle messi, a Vulcano in quella di mezzo, ed a Giove nella più alta, perché essendo l'Etna come l'Olimpo della Sicilia, dalla sua sublime vetta potevasi più che d'altronde adorare il massimo de' numi o il cielo. , Sul declivio meridionale del monte fu innalzata da' Sicoli una piccola città che fu detta Inessa o Etna, la quale fu fortificata e fu città fiorente, con monete sue proprie.

Sulla strada che da Tauromenio menava a Catana era la città di Acio, che trasse il nome dal fiume omonimo che scorrevale dappresso, nel luogo dell'odierna Aci-Reale, dove furono trovati ruderi di fabbriche antiche, acquidotti, sepolcri, vasi funebri e lucerne e rottami di statue.

In fra Tauromenio e Catana, a poca distanza dal lido sono i celebri scogli de Ciclopi, noti comunemente sotto il nome di Faraglioni o Isole della Trezza, e sono basalti disseminati presso la riva, configurati come colonne e aguglie, e sotto altre forme strane e diverse. E tre miglia lontano da' descritti scogli era il famoso Porto di Ulisse, net cosi detto Scalo di Lognina, il quale, ricolmato dalle lave dell'Etna, oggi non offre che un ricovero alle barche da pesca del vicino borgo.

Catana era sulle rive del fiume Amena o Amenano (1), una delle quattro grandi e cospicue città ch'erano sulla costa orientale dell'isola. Fondata prima da' Fenici, come dimostrano le monete e il culto de' numi, fu accresciuta da' Nassii e da' Calcidesi, e prosperò ne' tempi che seguirono. Segui le leggi di Caronda, del pari che le altre città calcidiche dell'isola; fu combattuta da' Siracusani e da' Cartaginesi, e la città fu distrutta, e gli abitanti costretti ad emigrare più volte. Ebbe monete sue proprie, di argento e di bronzo, e medaglie, co' diversi tipi di Apollo, di Giove, di Cerere, di Mercurio, de' Dioscuri. Ebbe molti templi, e fu rinomatissimo quello di Cerere; e di quei templi antichi veggonsi anche oggi le superbe rovine. Ebbe il Teatro, il Ginnasio, il Foro, le Terme, il Circo, l'Anfiteatro di colossali dimensioni, e la Necropoli, e rimangono molti avanzi di quei grandi monumenti.

La prossimità del mare e la fertilità de' vicini campi resero la città importante sino da' primi tempi, e benché sottoposta all'Etna, le cui ardenti tave più volte ne distrussero gli edifizj, pure le ceneri del vulcano rendevano quel suolo molto ferace e proprio alla coltura delle viti, onde, crescendo la popolazione immensamente, la città fu una delle più popolose e più grandi dopo Siracusa ed Agrigento.

Ibla (Hybla), poche miglia lontana da Catana, era città mediterranea, della quale non sono ben noti i fondatori; ma fu certamente città ellenica, e divenne ricca e popolosa, e da essa partirono colonie le quali fondarono

(1) quale scorre anche oggi fra le mura della città, sotto il nome di Judicello.

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due altre città omonime nella Sicilia. Questa città fu detta Ibla Major, e delle altre fu detta Ibla Mègara quella sulla costa orientale dell'isola, poco al disopra di Siracusa, ed Ibla Minor quella sulla costa meridionale, tra Camarina e Gela.

La Mègara fu celebre per un tempio della dea Iblea, o piuttosto di Apollo, pel timo odoroso, di cui sono sparsi i vicini colli, e per il mele d' Ibla, nel quale rimase la memoria della città dopo la sua distruzione, e che, a crederne un poeta, rivaleggiò con quello stesso del monte ¡metto nell'Attica.

Entrò nelle guerre cartaginesi e parteggiò per Annibale, e fu forse distrutta da' Romani. Di essa restano alcune monete di bronzo, e alcune are votive con iscrizioni che ricordano Venere Vincitrice, e Artemide o Diana, a cui furono innalzati templi nella città, edificata nelle vicinanze di Paterno, dove furono trovate molte e diverse rovine, e avanzi di templi, di sepolcri, di acquidotti, di bagni.

Da' monti Nebrodi scendono molte sorgenti e fiumicelli, e alcuni formano il fiume di Aderno, o il gran torrente delle Favare, presso al quale è la città di Adernò. Gli antichi dicevano Adrano il fiume e la città posta alle radici dell'Etna, della quale restano i grandiosi avanzi delle mura, costruite di belle pietre di lava, tagliate con perfezione rarissima, di una spessezza di 8 piedi, e sovrapposte le une alle attre senza cemento.

Da quei monti stessi scende pure il Simeto, detto comunemente la Giarretta, la quale, dopo lungo corso, con acque abbondanti sbocca nel mare, dove trasporta grande quantità di ambra. Sulle rive di questo fiume vuolsi che fosse stata una città di questo nome, probabilmente nel luogo dell'odierno Regalbuto.

Nella valle del Simeto erano le antiche città di Galaria, Capizio, Erbita, Morganzio, Magella, Argirio, Ameselo, Centuripe, Tiracia, grandi e popolose, e ricche di monumenti, e con monete e memorie che ricordano la origine ellenica.

Quasi nel centro di Val di Noto incontravasi in una pianura il Lago dei Palici, celebre per naturali fenomeni. Diodoro ne descrive i prodigiosi crateri, non molto vasti, ma profondissimi, vomitanti scintille, e come caldaie bollenti di acqua ferventissima, la quale manda un forte odore di zolfo, e conserva sempre lo stesso livello. Sulle rive di questo lago fu innalzato un tempio, il più famoso di tutta l'isola, dove era un oracolo pari a quello di Dodona o di Delfo. I mimi o eroi di quel tempio furono detti Palici, e divennero i Dioscuri della Sicilia.

Dal tempio prese il nome di Palica una città vicina, cinta di forti mura, in mezzo a fertili terre, la quale divenne fiorentissima, e le sue rovine furono trovate sul colle soprastante al lago di Naflia.

Leontini o Leonzio fu una delle più importanti città mediterranee dell'isola, e fu abitata prima da' Sicoli e poi da' Calcidesi di Nasso, e divenne ricca e popolosa principalmente per la fertilità degli ameni suoi campi. I primi fondatori pare fossero i Fenici, siccome dimostrano le monete leontine co' diversi tipi di Ercole e del Sole, e di Osiride ed Iside. La città fu combattuta e dominata da' Siracusani, e poi cadde in potere de' Romani. La città era posta sopra quattro colli sulle rive del feria, oggi Aetna o 5. Leonardo, e poco discosta dal mare. Aveva la Curia, il Foro e l'Acropoli sopra una roccia isolata. Restano alcuni ruderi delle mura della città; e pochi vasi, iscrizioni e monde furono scoverti su' colli. La città odierna, è sul declivio di uno di quei colli.

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Siracusa (Syracusa) fu una delle più grandi e più celebri città dell'isola, anzi la massima città della Sicilia. Fu fondata da' Calcidesi dell'Eubea e da' Dori di Corinto, i quali si stabilirono nell'isola di Ortigia e diedero il nome di Amusa alla famosa sorgente che ivi trovarono; e ciò accadde intorno al 733 av. G. C. Ma innanzi ad essi vuolsi che l'avessero abitata i Sicani e i Sicoli. Quantunque edificata non lungi dall' Anapo, pure prese il nome dal lago Siraco, oggi detto Pantano, più vicino alla città. La naturale fertilità del terreno ond'era la città circondata, e la buona condizione dei porti, il piccolo che si prolunga tra l'isola di Ortigia e la terra ferma, ed il grande sul lato meridionale tra l'isola stessa e il promontorio Pachino, fecero crescere grandemente la città. Ed oltre a ciò, l'eccellente posizione di Ortigia, copiosa di acque dolci, e popolata di gente operosa e commerciante, fecero che la città si rivolgesse al traffico marittimo e s' innalzasse sopra tutte le altre greche colonie; e padrona di un ricco commercio divenne cosi ricca e popolosa, che non solo crebbe la città di nuovi fabbricati, ma fondò altre nuove colonie, quali furono Acre, Casmena, Camarina ed Enna. La parte nuova della città fu detta Acradina, da' peri selvaggi che vi crescevano innanzi che vi si fabbricasse. Il primo governo di Siracusa fu quello degli Ottimati: fu combattuta dai tirauni di Gela e fu vinta;sotto il dominio di Gelone, si levò a grande potenza e dominò con le sue flotte i mari vicini; combatté contro i Persiani e contro i Cartaginesi, e fu temuta e gloriosa. Non fu forte e mite del pari il dominio di Jerone e quello de' Dionigi, ma Siracusa fu sempre forte e potente, e potè sola entrare nella guerra del Peloponneso, e oscurare la gloria di Atene e distruggerne la potenza.

La storia di Siracusa ricorda i nomi di Timoleone, il liberatore della città, di Agatocle, di Pirro; ricorda le lunghe e sanguinose guerre sostenute contro i Cartaginesi e contro i Romani, e la caduta della città, dopo più assalti per mare e per terra che fecero i Romani comandati da Marcello, contro ai quali non valsero né le fortificazioni di Siracusa, né le invenzioni del grande Archimede.

La città avea 22 miglia di perimetro, e superò in ampiezza la stessa Roma. Era formata di cinque parti; la più antica fu l'isola Ortigia, da' Siracusani detta comunemente Nasos nel dialetto dorico, a cui univasi la grande città di Acradina, formando entrambe la città propria, dov'erano i più importanti edifizj. Dalla parte di settentrione verso Acradina distendevasi Tiche, e verso mezzodì Neapoli, che consideravansi come subborghi, da cui estendevasi l' Epipole più oltre verso il N. O. Tutta la città, a partire dall'isola come la parte più bassa, si elevava dolcemente verso il N. O. cosi che dall'Epipole potevasi avere tutta sott'occhio, e di là guardandola Marcello è fama che piangesse parte per allegrezza di avere presa una città si magnifica, parte ricordandone l'antica gloria. L'Epipole, elevata e fortificata, difesa da scosceso e dirupato declivio, era adoperata come una rocca della città contro gli assalti di terra ferma. Ma Nasos, o l'isola, era la difesa della città dalla parte di mare.

L'isola di Nasos fu detta Ortigia per il culto di Diana, e fu da Archia scelta per sede della sua colonia, avendo ripide coste sul mare, e due porti e la copiosa sorgente Aretusa. Fu innalzato in Ortigia un tempio ad Artemide, la dea de' fiumi, di così grande importanza, che Pindaro tutta l'isola nominava sede della dea de' fiumi.

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Ma poiché nessun fiume era in Ortigia , ed Artemide sospirava il suo amato Alfeo, nacque la credenza che la fontana Aretusa conducesse presso il recinto del tempio le acque sacre dell'Alfeo.

Tra' molti templi innalzati in Ortigia i più grandiosi erano quelli sacri a Diana ed a Minerva. Sorgeva il primo presso alla fontana e propriamente nell'entrare dell'isola sacra ad Artemide, e veggonsi ancora i grandissimi e riquadrati macigni delle mura, e alcune superbe colonne. Presso di quel tempio furono i Bagni Dafnei, net luogo anche oggi detto di Bagnara, dove rimangono alcuni poggi di acque dolci e sorgive, che vanno a scaricarsi nel fonte di Aretusa. Il tempio di Minerva, dea protettrice della città, era nella parte più alta dell'isola di Ortigia, e avea le stesse forme di quelli innalzati da' Dori a Posidonia, a Egesta, a Selinunte. Ortigia era riunita ad Acradina per mezzo di un ponte, ed ivi intorno era la reggia de' Dionigi e l'Acropoli, la rocca fortificata.

Acradina era quattro volte più estesa di Ortigia, e poteva essa sola considerarsi come una importante e forte città. Ebbe il Foro, la Curia, Portici e Ginnasii, e il Pritaneo, e templi superbi, fra' quali era insigne quello innalzato a Giove Olimpio. Sul confine della città circondate di forti mura, e dalla parte di Neapoli, erano le grandi cave di pietre o Latomie, scavate nel principio per trarne materiali che servissero allo ingrandimento della città, e poi usate come carceri, e sono opera maravigliosa di quei tempi antichi. Ammirevoli del pari sono i sepolcri e le catacombe, si per la vastità che per l'artificio; e sono una specie di città sotterranea, una vera necropoli, o città de' morti, divisa in piazze regolari, in ampie strade parallele.

Acradina verso N. O. univasi a Tiche, ch'ebbe il nome da un antico tempio della dea di tal nome, o della Fortuna; ed era come un subborgo della città popoloso e cinto di mura. Essendo il suolo di Tiche del tutto nudo, vi si osservano i vestigi delle case antiche, le quali erano piccole e fabbricate sulla roccia senza fondamenta; e veggonsi le tracce delle non larghe strade e avanzi di sepolcri, di cisterne, di bagni, di cloache e di acquidotti.

A mezzodì di Tiche seguiva Neapoli, o la città nuova, edificata più tardi. L'edifizio più notevole era il Teatro Massimo, il più grande e magnifico di tutta la Sicilia, e bello era l'Anfiteatro e superbi i templi innalzati a Cerere e Proserpina, e i sepolcri e altre Latomie, dove erano imprigionate le vittime de' Dionigi;e si è dato il nome di Orecchio di Dionisio ad una piccola apertura al disopra dell'entrata di un antro, mercé della quale il tiranno udiva i lamenti de' miseri che ivi gemevano.

Da Neapoli a Tiche il suolo elevavasi sempre verso il N. O. , ed elevandosi non solo sulla circostante contrada, ma anche sulle quattro città descritte, ebbe il nome di Epipole e fu fortificato e reso inaccessibile.

Erbesso (Erbessus) fu città antica, ricordata da Diodoro e da Pausania, come città popolosa e fortificata. E trasse probabilmente il suo nome dalle spelonche incavate nella roccia sulla quale credesi che fosse posta; ed il suo luogo era forse quello di Pantalica, edificata sopra rupe deserta, tagliata a picco da ogni parte con antri artificiosamente scavati nella rupe. Gli abitanti furono detti Erbessini, e furono popoli guerrieri.

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Acre (Acrae] fondata da' Siracusani nel luogo dell'odierna Palazzolo, fu antica ed importante città, la quale entrò nelle guerre de' Cartaginesi e de' Romani. Sovrasta al paese dalla parte di mezzogiorno un poggio di aspre e scoscese rupi, nel eui vertice si estende un'ampia pianura, la quale dal nome della vicina città antica dicesi ancora Acremonte.

Il lato orientale presenta alcune grotte, nelle quali sono antichi sepolcri tagliati nel sasso e non dissimili a quelli che si osservano in Siracusa nella necropoli di S. Giovanni o negli antichissimi antri Pelopii. Furono trovate iscrizioni greche con caratteri rosi dal tempo, e pietre quadrate di non comune mole, e tracce di acquidotti, e di una via che univa Siracusa a Gela.

Camarina fu antichissima città di Sicilia, ricordata da Pindaro, da Polibio, da Diodoro, e fondata da' Siracusani, quasi due secoli dopo la fondazione di Roma. Il luogo della città era presso al lido tra' fiumi Oano ed Ippari, che oggi diconsi di Frascolari e di Camarana, ed ivi intorno era una palude dello stesso nome ed un bosco sacro a Pallade. Cresciuta in breve tempo e fatta potente, si ribellò da' Siracusani, i quali l'adeguarono al suolo. Rifabbricolla poi Ippocrate tiranno di Gela, il quale l'ebbe in cambio di molti Siracusani prigionieri, ch'egli aveva battuti presso il fiume Eloro. Entrò nelle guerre cartaginesi, e soggiogata da' Romani, fu popolata, secondo che dice Polibio, da una colonia romana.

Di si celebre e cosi potente città non resta oggi che il nome, e alcune grandi rovine sepolte in massima parte. Le spiagge mostrano smisurate moli gettate nel profondo del mare in forma di porto; fuori la città, dal lato di settentrione veggonsi molti sepolcri in luogo che si leva a forma di rocca di pietre quadrate. Furono conservate alcune monete di argento e di bronzo, con le teste di Apolline, Pallade, Ercole, Medusa, e co' varj simboli di quei numi. Secondo il Cluverio, e seguendo la tradizione dei nostri padri, tutti gli antichi monumenti di quella città furono trasportati nella città volgarmente detta Terranova, che vi è lontana 18 miglia.

Gela fu antica e molto celebrata città, e trasse il nome dal fiume dello stesso nome, secondo che dicono Tucidide, Erodoto, Diodoro, Plutarco, ed era nel luogo dell'odierna Terranova. I primi fondatori pare fossero i Roda, i quali furono dopo accresciuti da coloni Cretesi. La città fu popolosa e potente, ed ebbe grande parte nelle guerre cartaginesi. Veggonsi ancora molti ruderi di antichi edifizj, e colonne di stile corintio, e grandi pietre quadrate, e vasi figulini di bellissimo ed antichissimo lavoro, e monete di rame e di argento.

Fu teatro di sanguinose guerre, ed ora vinta, ora vincitrice de' Siracusani, fu finalmente distrutta da Fintia tiranno di Agrigento, e rimase abbandonata e diserta.

Agrigento (Agrigentum) era una delle più belle e più ricche tra le antiche città della Sicilia, posta sul lato meridionale dell'isola, fra Selinunte c Gela, iu luogo considerato dagli antichi come uno de' più fertili della terra. Verso settentrione il montuoso sito occupato dalla città antica era limitato da profondi burroni, e ad oriente e ad occidente la città era circoscritta dall'Agragas e dall'Ipsas, oggi il Drago e il S. Biagio, le cui acque, percorsa la città lateralmente, si riuniscono e si scaricano nel mare.

L'origine di Agrigento risale ai tempi eroici; e prima Tu una cittadella chiamata Comicus, le cui fortificazioni credute inespugnabili furono attribuite a Dedalo.

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Verso la cinquantesima Olimpiade una colonia uscita da Gela fondò la città di Agragas a piè di quella primitiva acropoli, che poi fu detta Agrigentum, ed oggi dicesi Girgenti, i cui primi abitatori discendevano da un ramo dorico, quantunque alcuni scrittori volessero loro attribuire un'origine ionia.

Il commercio co' Cartaginesi, i quali erano nel lato opposto dell'Africa, arricchi grandemente e rapidamente gli Agrigentini, i quali davano i prodotti agricoli in cambio de' ricchi tesori dell'Africa. Onde la città divenne una delle più ricche del mondo antico, ed una delle più popolose. Una ripruova di ciò sono la magnificenza con la quale essi viveano, le ampie e superbe loro case, le statue e i quadri de' più celebri artisti, i belli vasi di terra cotta e di ricchi metalli, gli abiti de' tessuti più fini e più preziosi, i letti di avorio.

Fu nel principio città indipendente, e reggevasi con leggi doriche, al tempo della sua maggiore prosperità, quando traevano tra le sue mura i popoli vicini come a granaio comune, e crebbe tanto la sua popolazione che in un ambito di 10 miglia conteneva, secondo Diodoro, oltre 200000 abitanti. Cadde in processo di tempo sotto la tirannide di Falaride e di altri che seguirono a lui, combatté co' Siracusani, co' Cartaginesi, e cadde infine in potere de' Romani.

La città era ricca di superbi edifizj, de' quali veggonsi ancora le rovine. È ricordato il tempio di Giove Olimpico, de' cui avanzi usarono gli abitanti di Girgenti per costruire il molo attuale del loro porto. Ad una certa distanza dal mare credesi di riconoscere le linee di circonvallazione occupate dagli eserciti cartaginesi e romani che assediarono successivamente Agrigento. Più alto era la Necropoli, cimitero celebre pel numero e la magnificenza de' monumenti; e sulle colline più alte era l'Acropoli e la rupe di Minerva. Veggonsi ancora le rovine di altri templi antichi, e sono ricordati quelli di Cerere e di Proserpina, di Giunone, della Concordia, di Ercole, di Castore e Polluce.

Non rimangono della città iscrizioni notevoli; e ben poche le monete di oro e di argento.

Eraclea detta pure Minoa fu città ellenica posta ad occidente di Agrigento, al promontorio che oggi dicesi Capo Bianco, tra Siculiana e la foce del fiume Platani. Trasse il suo nome da Ercole, nume adorato nella città sopra tutti gli altri. La dominarono quei di Selinunte, e i tiranni di Siracusa, e fu combattuta e distrutta da' Cartaginesi. La città era sopra una rupe scoscesa e fortificata, circondata di mura con un perimetro di circa due miglia. Non restano che pochi avanzi. Veggonsi due spelonche sotterranee artificiali, e non è certo se erano cisterne o sepolcri, ed altre grotte scavate nella rupe, e un acquidotto quasi intiero costruito di pietre quadrate. La città era in sito amenissimo, e sul suolo di essa oggi passa l'aratro, e cosi discopronsi frammenti di vasi fittili, e monete di rame, di argento e di oro, co' tipi di Pallade, di Ercole, di Cerere.

Selinunte (Selinuntes) fu antica città della Sicilia, nel luogo o nelle vicinanze dell'attuale Mazara. Fu detta Selino dal nome del fiume presso al quale era stata innalzata da' Fenici in tempi molto remoti;ma fu poi accresciuta da' Megaresi, e questi sono riguardati come i suoi veri fondatori.

Questa città ebbe nome dal petroselino che prospera ne' suoi dintorni, e che essa portava nel suo stemma; durò soli duecentoquarantadue anni,

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fu distrutta da Annibale, dopo un durissimo assedio, ed ebbe devastata la città, incendiati gli edifizj, uccisi quasi tutti gli abitanti, in aiuto dei quali vennero tardi i Siracusani. Giace la città in riva al mare, a mezzodì dell'isola, in un vasto piano diviso da un vallone, ove oggi stagnano le acque pluviali, e quel luogo chiamano Terra de li Pulci. Se la guardi dal Capo Granitola, la credi ancora una gran città;accostandoti riconosci che tutto è ruine, ma cosi gigantesche, che cangiano la malinconia in istupore, e la fantasia si compiace con quei massi enormi di ricostruire edifizj che parrebbero fatti per una generazione di giganti. E pilieri de' giganti furono detti dal vulgo, il quale poté conoscerli probabilmente dopo che un tremuoto volse sottosopra quei colonnati. Sopra l'alta collina sporgente nel mare, difesa da un gran muro di pietre quadrate, pare fosse l'antica acropoli, dove furono scoperti alcuni templi dorici, di cui veggonsi ancora le moli di enorme grandezza e le colonne. Il tempio maggiore era quello innalzato a Giove Olimpico, il quale, a giudicarne dagli avanzi, superava in grandezza la maggior parte di quelli che sorgevano in quei tempi nella Grecia, nell'Italia, nell'Asia e nello stesso Egitto. Sono conservate anche oggi alcune monete selinuntine, di argento e di rame, co' tipi di Giove, e con altri simboli della Sicilia.

Lilibeo (Lilybaeum) era antica e celebratissima città dell'isola, ed era sul terzo promontorio di essa, dalla parte di occidente, circondata da forti mura, da un'ampia fossa, e dalle acque del mare stagnanti. Fu fondata dai Cartaginesi, ed ivi trassero gli abitanti di Mozia, poscia che quella città fu distrutta dal tiranno Dionisio. Fu città splendidissima, e notata nell'itinerario romano come primaria. Tolse il nome dall'antro della Sibilla che fu detto Lilibeo, forse perché il promontorio guarda la Libia.

Gli antichi parlano del porto del Lilibeo, e lo descrivono come sicurissima e amplissima opera di natura, ma di un'entrata difficile per cagione de' bassi fondi. Oggi non è che ricovero di piccole navi, e si crede che le foci ne fossero state chiuse per ordine di Cario V, per rendere sicura quella spiaggia della Sicilia dalle scorrerie dei pirati africani.

Lilibeo fu la fortezza de' Cartaginesi e la metropoli de' loro stati nella Sicilia; e quando l'isola cadde tutta sotto il dominio de' Romani, la Repubblica Romana la divise in due parti, e quella di oriente e di mezzodì ebbe per capitale Siracusa, e quella di occidente e di settentrione ebbe per capitale Lilibeo. La città cadde in rovina nel medioevo, e riducendosi in più angusto spazio fu detta Marsala da' Saraceni, per ragione del porto ch'essi chiamavano Marsa, quasi porto di Dio. Quindi si osservano verso settentrione e ponente le diroccate mura della città antica, un fossato, acquidotti, ed altri monumenti di antichi edifizj, e marmi e iscrizioni, e monete di bronzo co' simboli di Apollo, che fu il maggiore nume della città. Il luogo era amenissimo, e circondato di fertili campi.

Drepano (Drepanum) fu antica città di Sicilia, a piè del monte Erice oltre il Lilibeo, e cosi detta o per l'incurvamento della spiaggia, o perché ivi gitto Saturno la sua falce, o la perdé Cerere cercando la figliuola Proserpina. Certo è che la città porta nello stemma una falce, sotto la quale cinque torri poggiano sulle onde del mare e su di gemino arco. Incerta è la origine della città, e avvolta in favolose tradizioni. Ma prima della caduta «H Troja i Sicani occupavano la regione Drepana; e qui vennero i Fenici, per ragione di commercio e innanzi che si formassero le colonie greche. Amilcare cartaginese fortificò la città ne' primi anni della guerra punica, e vi addusse nuovi coloni; e qui si trapiantarono gli Ericini, poi che fu diroccata la città di Erice.

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Nel lungo periodo delle guerre puniche, la città fu ora sottoposta ai Romani, ora ai Cartaginesi, e fu ultima tra le città di Sicilia che piegossi al dominio de' Consoli. Restano poche monete dell'antica Drepano, e con caratteri punici. Il luogo dell'antica città era quello dell'odierna Trapani.

Erice (Eryx) fu antichissima e celebre città a piè del monte dello stesso nome (1). Vuolsi fondata da' Trojani, e vuolsi che Enea innalzasse il tempio famoso a Venere sua madre, e lo circondasse di forti mura. Certo è che quel tempio venne in grande venerazione tra gli abitanti della città, e tra gli stranieri, i quali venivano con ricchi doni. I Romani ordinarono che le città di Sicilia portassero tributi annuali al tempio di Venere in Erice; ma quel tempio era crollante ne' primi anni dell'impero; e quantunque ristaurato, come affermano Svetonio e Tacito, col danaro del pubblico erario, pure al tempo di Strabone era del tutto diserto. Rimangono ancora avanzi del tempio e fabbriche di pietre quadrate, e cisterne antichissime, e ruderi di antichi edifizj. Sono conservate poche monete di argento e di rame, e in alcune di esse vedesi la Colomba Erea sacra a Venere o la testa di Ercole.

Segesta o Egesta fu città antichissima di Sicilia, sulla spiaggia settentrionale, un po entro terra, fondata da' compagni di Enea dopo la guerra di Troja; e fu magnifica e potente, e s'innalzò sopra tutte le altre ch'ebbero la stessa origine. Combatterono i Segestani contro quei di Lilibeo e di Selinunte, resisterono fortemente a Dionisio di Siracusa, ma furono vinti e distrutti da Agatocle, il quale cangiò fino il nome della città in quello di Diceapoli. Sotto i Romani fu città libera e confederata.

Il sito della città era sopra un colle scosceso da ogni parte, ed ora detto volgarmente Barbara; e lo dimostrano chiaramente le acque sulfuree, dette Segestane da Strabone, che sgorgano nella valle vicina; il fonte Erbesso, oggi detto Gorgo, e ch'era ne' campi Segestani; lo Scamandro e il Simoenta, oggi fiumi di S. Bartolomeo e Fiume Freddo; il caricatojo sulla spiaggia che dicesi di Castellammare e che gli antichi dicevano de' Segestani; e tutto quel seno di mare che presso Tucidide e Polibio avea nome di Segesta. Della città antica veggonsi ancora superbi avanzi; ma il più celebrato di tutti è il tempio, sotto le mura della città, il quale reca stupore per l'ampiezza, la magnificenza, e la integrità con che si conserva. Veggonsi ancora gli avanzi del teatro, e colonne e fregi dorici e musaici.

Panormo (Panormus) era antica e grande città dell'isola, posta sulla costa settentrionale, circondata da amene e sorridenti colline e da campi fertilissimi. Vogliono alcuni che fosse stata fondata da' Pelasgi nelle loro prime emigrazioni; altri da' Fenici; ma se questi non la fondarono, l'accrebbero grandemente, e fecero di quella città un centro de' loro commerci, anzi il principale emporio e la prima città delle colonie fenicie, siccome dimostrano i monumenti ed i sepolcri. La città de' Panormitani ebbe il più bel porto dell'intera Sicilia, e da questa topografica condizione

(1) Il monte Erice sorge solitario ed è uno de' più alti monti dell'isola: le radici ne sono battute dalle acque del mare, e il vertice è per gran parte dell'anno coperto da una nube. Sulla vetta del monte stendesi una pianura dove Corse sorgeva un tempo il celeberrimo e ricchissimo tempio di Venere.

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tolse il suo nome, null'altro significando la parola Panormo che porto eccellente.

La città antica fu accresciuta di nuovi edifizi, e quasi di una nuova città, onde gli scrittori antichi distinsero la Palepoli e la Neapoli. Fu dominata da' Cartaginesi, ai quali la tolsero dopo lungo ed ostinato assedio i Romani. Sotto la dominazione romana fu posta tra le città libere, e poi costituita in colonia augusta. La città fu ricca di monumenti e templi superbi, ed ebbe monete sue proprie, e fu padrona di un vasto commercio, e de' ricchi prodotti di che erano fecondi il mare e i campi circostanti.

Imera (Himera) fu città celebratissima tra gli antichi, e fu tra le più splendide e potenti della Sicilia. Fabbricarono Imerai Zanclei, presso alla foce del fiume dello stesso nome, oggi detto Termini; ma la città fu accresciuta dai Calcidesi e da altre colonie. Fatti potenti quei d'Imera occuparono la città di Reggio, e resisterono al tiranno Falaride; ma caddero poi sotto il duro giogo di Agrigento, e furono poi vinti e saccheggiati dai Cartaginesi, i quali distrussero fino i templi della città. Non lontana di là fu poco appresso fabbricata dagli stessi Cartaginesi la città di Terme, dove riunironsi molti degli abitanti fuggitivi d'Imera. Nel territorio tra Imera e Terme trovansi importantissime anticaglie, tra le quali alcuni vasi rarissimi, e molti sepolcri di terra cotta, ne' campi di Bonfornello, e monete di rame e di argento, con varie figure, con la testa di Opi, della Vittoria, di Ercole.

Tindaríde (Tyndaris) fu antica e famosa città fondata da' Laconi. Era sulla spiaggia settentrionale della Sicilia, cinque miglia lontana da Patti, nella vetta di un monte che anche oggi conserva l'antico nomo. La situazione è amenissima, e di là veggonsi le isole Eolie, la penisola di Milazzo, e i monti Nettunii e gli Erei, dietro ai quali torreggia l'alta cima dell'Etna. E gli ondeggianti declivi delle colline coverte di ulivi, che stendonsi dal territorio di Tindaride a quello dell'Abaceno, accrescono bellezza a questo delizioso paese.

La città era cinta di mura, e difesa da torri e da rupi. Tra le rovine della città trovansi gli avanzi di un teatro, e pavimenti a musaico, e sepolcri e i ruderi forse di un Ginnasio. Restano alcune monete di Tindaride, co' tipi di Giove, di Minerva, di Venere, di Cerere, di Leda, e de' Dioscuri.

Milae, ch'è la Milazzo di oggi, fu città notissima agli antichi, come una delle marittime di Sicilia, fatta forte dalla sua naturale posizione e dalle opere di arte. Anzi che dal fiume Mela vuolsi che traesse il suo nome da una voce greca che significa ingente sasso; e se non fu fondata dai Zanclei, fu certamente accresciuta da una loro colonia, e rimase come un loro castello. Fu presa violentemente dagli Ateniesi, fu dominata da Siracusa e poi da Roma, e fu ne' bassi tempi la fortezza della guerra.

Il Capo di Milazzo (Mytarum Caput) fu detto dagli antichi aurea chersonesus, o isola del sole, per cagione dell'istmo dove sorgono la rocca e la città, e per l'amenità del sito.

Oltre la città di Milae sorgeva un gran tempio sacro a Diana, e il quale fu detto Artemisia dal nome della dea. E probabilmente era quivi intorno una città antica o borgata dello stesso nome.

Enna fu città antica, nella parte mediterranea dell'isola, anzi nel centro, e perciò detta l' Ombelico della Sicilia; e fu innalzata in luogo elevato, nel cui vertice è una pianura e perenni acque. Vuolsi fabbricata da' Siracusani, 70 anni dopo la fondazione della stessa Siracusa; ma ei pare che fosse abitata da tempi più remoti, se hanno qualche fondamento storico le favolose tradizioni.

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La favola ricorda questo luogo come la dimora di Cerere, equi dicesi che fu rapita Proserpina, mentre raccoglieva fiori ne' campi vicini; né pare che potesse essere diserto il luogo abitato da colei ch'era come la regina di quella contrada, anzi di tutta l'isola.

La città ebbe varia fortuna, e fu ora dominata da' Siracusani, ora indipendente, ora soggetta ai Romani, e spogliata più volte de' ricchi tesori raccolti nella città e ne' templi.

Tra i più superbi edifizj era il tempio di Cerere, il cui culto era sparso quasi per tutto il mondo;e se ne veggono ancora le magnifiche rovine in una rupe scoscesa a piè del monte dove sorgeva la città. Altri templi erano quivi intorno, e sono ricordati quello di Proserpina e quello di Bellona. La città ebbe un teatro innalzato nell'antica rocca; fu circondata di forti mura, e avea molte torri, e fu la sola fortezza mediterranea, secondo che dice Strabone. Era ameno il luogo, fertili i campi vicini, e belli pe' fiori variopinti. E la pianura sulla quale sorgeva la città era un prato, bagnato da motti ruscelli, ma poi alto all'intorno e da ogni parte scosceso. Ebbe la città monete sue proprie, co' tipi di Cerere e di Proserpina. Il luogo della città antica è quello di Castrogiovanni, la qual voce è una corruzione di Castrum Enna, cangiata ne' tempi de' Normanni in Castrianni.

Tra le isole che sono intorno alla Sicilia noteremo le Eolie ( Eoliae Insulae], dette volgarmente di Lipari, dal nome della più grande isola di quel gruppo, e vulcanie da' monti ignivomi ivi esistenti. Sono tra l'Italia e la Sicilia, bagnate dal Tirreno; e furono celebrate tra gli antichi come la sede di Eolo, re de' venti, o come una fucina di Vulcano, padre del fuoco. I nomi delle isole erano Lipari, Vulcania, altrimenti Thermissa, ed Hiera, Evonimos, Didgma, Stronggle, Phaenicudes o Phaenicusa, Ericodes o Ericusa, Hicesa, Heracleoles. Sono ignivome anche oggi Vulcano e Stromboli; e alcune sono sterili, altre feconde per l'industria degli agricoltori, tutte montuose. La più grande e la più popolosa è Lipari ( Liparis), dove vuolsi che da tempi molto remoti fossero venuti alcuni coloni di Gnido, e avessero fabbricato una città. Certo è che i Liparesi seppero trarre grande utilità dalla loro posizione, da' bei porti delle isole, dalle famose terme, da' prodotti naturali del suolo, e divennero ricchi e potenti. Furono alleati de' Siracusani nelle guerre contro gli Ateniesi, e furono poi sottoposti ai Cartaginesi ed ai Romani. Veggonsi ancora alcuni avanzi di monumenti antichi, e alcune monete di rame, co' simboli di Eolo.

Le Isole Egadi, dette da' Latini AEgades o Aegates, erano Forbanzia, Egusa e Jera, oggi dette Levanso, Marittimo e Favignana, ad occidente della Sicilia, di rincontro a Trapani. E trassero questo nomo, secondo che dicono alcuni scrittori, dalle capre selvatiche o dalle rupi e gli aspri scogli di che è gran copia presso Jera e Forbanzia, per modo che non possono approdarvi se non naviganti periti di quei luoghi. Quelle isole sono ricordate per il massacro che la flotta romana fece de' Cartaginesi diretti da Annone in quella battaglia che pose termine alla prima guerra punica.

Osteode (Osteodes) era ad occidente di Lipari, ed incontravasi andando dalle Eolie verso Lilibeo, piccola e diserta isola, secondo che dice Diodoro; ed è la Ustica di oggi, di figura quasi ovale, con un circuito di 10 miglia, formata di lave basaltiche e tufi e conchiglie fossili. Veggonsi i vestigi di un qualche tempio cristiano, distrutto da molti anni; e rimasta l'isola del tatto diserta non offre che una comoda rada ai naviganti. Manca di acque, ha alberi e virgulti, e abbonda di erbe e di pascoli, in mezzo ai quali veggonsi correre le capre selvagge.

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Ed isola nota agli antichi fu Cossira, oggi Pantallaria, tra la Sicilia e l'Africa, nel mare libico, di rincontro la città di Selinunte, con una figura ovale, con aspre montagne e rupi e grotte profonde. La spiaggia diserta dell'isola offre tre porti ai naviganti, il territorio è capace di qualche coltivazione, e ha boschi e pascoli. La roccia che predomina nel terreno è la trachite, che risale al periodo del sollevamento, e la varietà di detta roccia e la conformazione de' crateri dimostrano le progressive azioni dei sollevamenti.

I primi abitatori di Cossira furono i Fenici, e non in piccol numero; quindi alcune colonie di Cartagine, che fecero ivi stanza. E rimangono ancora i ruderi di 19 villaggetti, e molte migliaia di cisterne, delle quali usavano gli abitatori, essendo il terreno mancante di acqua; e veggonsi ancora da ogni parte avanzi di antichi sepolcri. Ma contro i Cossirensi ed i Cartaginesi trionfarono più volte i consoli romani, e l'isola cadde sotto il dominio della Repubblica. Conservò non pertanto la sua importanza, ed una certa autonomia, siccome dimostrano alcune monete antiche del tempo de' Romani, con caratteri latini. Ma di Cossira si conservano monete più antiche, e con caratteri punici.

Dominazione Romana

Innanzi di discorrere le vicende politiche ed economiche delle provincie e delle città che formarono il Reame di Napoli, a partire dalle rapide conquiste e dell'impuro de' Romani, noi diremo che, formate in Italia le colonie greche, le quali divennero cosi ricche e potenti, questa meridionale parte della penisola, che noi abitiamo, era come divisa in due parti, nella parte mediterranea e nella parte marittima, e quella era abitata dai popoli nostri primitivi, ch'erano principalmente agricoltori e pastori, e questa dalle colonie elleniche, dedite principalmente alla navigazione ed al commercio.

I popoli nostri primitivi, come può vedersi chiaro dalle cose che abbiamo innanzi discorse, erano divisi in piccole nazioni, e ciascuna aveva un governo civile fondato sopra un sistema di leggi agrarie, le quali associate alla religione garentivano e proteggevano le ripartizioni e le proprietà delle terre. Le opere campestri formavano i beni più importanti della vita ed il tipo de' pubblici costumi. I giovanetti venivano di buon'ora educati alla vita frugale, alla robustezza del corpo, al rigore delle stagioni, alla coltura de' campi, alla guida del gregge, e non isdegnava di coltivare il suo campicello chi guidato aveva l'esercito, e cinta avea la fronte di alloro.

Le colture più floride erano sparse nelle regioni de' Sabini, de' Volsci, de' Campani, de' Sanniti, degli Appuli e degl'ltalioti. I prodotti maggiori erano il frumento e i legumi, e il lino, la canapa, il cotone.

La vite e l'ulivo rivestivano le sorridenti nostre colline e le pianure più vicine al mare; e tra' vini conosciuti dagli antichi erano molto celebrati il Gauro, il Massico, il Cecubo, il Falemo, il Vesuviano, il Sorrentino, il Caulonio, il Reggino, il Brindisino e l'Aulonio presso Taranto; e tra gli olii erano molto ricercati quei de' Campani, degl'Irpini, de' Pentri, de' Lucani, de' Calabri, de' Turii, de' Tarentini e de' Salentini.

Gli alberi fruttiferi più coltivati erano il fico, il melo, il pero ed il castagno. Vi avea larghi pascoli, ed erano qua e là ombreggiati da alberi fronzuti, alla cui ombra riparavano i bestiami contro i raggi ardenti del sole nella stagione estiva.

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L'industria de' bestiami era assai importante in queste nostre regioni, e soprattutto tra gli Appuli ed i Lucani. Le greggi restavano l'inverno nella Daunia e nel Bruzio, ma al principio della state passavano nel Sannio e nella Lucania, ove i vicini monti e boschi offrivano frescura e pascoli abbondanti. Era bianco e morbido il vello de' numerosi greggi di Taranto, i quali lungo le rive dell'ombroso Galeso pascolavano vestiti di pelli; ed erano pure tenuti in gran pregio i velli di Canosa, della Puglia e della Basilicata. Le selve venerate con molta religione e non mai sottoposte alla scure, senza consultare il pubblico interesse, non solo davano ricovero e pascolo ai bestiami, ma erano una grande sorgente di ricchezze per ogni sorta di legname da costruzione, ricercato molto dagli stranieri; ed alberi di alto fusto, di più secoli di vita, coprivano l'erte falde de' monti; e sono ricordati quei della Lucania, de' quali si usava per la costruzione delle navi e pe' grandi edifizj.

Tra' popoli nostri più trafficanti ricorderemo i Campani, i quali traevano grandi ricchezze dai loro fertili campi, e facile occasione ed esempio dal mare vicino e dagli Etruschi, de' quali seguivano le tracce nelle vaste loro navigazioni. E molti luoghi servivano loro di scali pel traffico marittimo, e molte città erano scelte come empori ove i naviganti scambiavano i prodotti del suolo co' lavori dell'industria, ove i mercatanti, gli agricoltori, gli artigiani si riunivano ne' pubblici mercati, ed ove una qualche Divinità garentiva la fede de' loro contratti.

Co' Campani rivaleggiarono i Cumani, e disputarono lungamente il dominio del mare; e in quella via entrarono gli abitanti della Magna Grecia, compresa tra' seni Locrese, Sciletico, Tarentino; ed altre città elleniche, che da Posidonia a Reggio, e dal promontorio Gargano al Salentino, o sulle coste della Sicilia si governavano con leggi proprie. Ed aveano stretti rapporti di commercio con l'Oriente, con la Grecia, e con le regioni mediterranee limitrofe. Ed una chiara ripruova del pregio in che quelle genti marittime tennero la navigazione e il commercio sono le monete di quei popoli, co' tipi di Nettuno, di Mercurio, e con delfini, tridenti, ancore, rostri, navi.

Ma le piccole nazioni ch'erano in queste nostre contrade crebbero a poco a poco c formarono nuovi corpi sociali, più o meno potenti. E più che dalla natura de' loro ordini civili, e dalla vita dura e campestre, e dalla grande fertilità delle terre, quelle prime genti trassero argumento di grandezza dalle lunghe e continue guerre. Ogni stato, grande o piccolo che fosse, marittimo o mediterraneo, avea il suo esercito, che rinnovava dopo i combattimenti; ma gli stati marittimi, siccome i Crotoniati, i Sibariti, i Tarentini, crescevano più facilmente e in breve tempo, perocchè, disprezzando ogni volgare sentimento di gelosia, estendevano agli estranei i dritti di cittadinanza, senza distinzione di sangue e di favella; e i popoli mediterranei erano più potenti in armi, ed aveano in campo forti eserciti, ed ora combattevano tra loro, ora contro le colonie greche, ora contro i Romani.

Ed erano queste le condizioni di quei nostri popoli primitivi quando scoppiarono le lunghe e sanguinoso guerre in fra essi e i Romani.

Il tempo della dominazione romana noi divideremo in due periodi, in quello della repubblica e in quello dell'impero romano.

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La Repubblica Romana.

Roma aveva sulle sponde del Tevere innalzato le sue mura e posto i fondamenti del Campidoglio, e, sebbene con lieve principio, poté non pertanto divenire grande e terribile in pochi secoli, ora sotto il governo dei re, ora nella repubblica, ora nell'impero. Veio era caduta, e i Galli erano stati ricacciati nelle loro sedi primitive tra il Po e le Alpi, quando si accesero per la prima volta le guerre tra i Romani ed i popoli di queste nostre contrade, che sino allora erano stati confederati con Roma.

Questi popoli erano guerrieri, ma divisi e discordi, non pratichi della guerra, e senza esperti capitani; e i Romani per contrario più che forti erano disciplinati, ed aveano unità di governo. I primi che combatterono furono gli Equi e i Volsci, a cui appresso si riunirono i Campani e gli Ausoni; ed avrebbero vinto se per altra via non fossero stati tormentati dagli ambiziosi Sanniti, e non fossero stati costretti a salvarsi tra le armi romane. I Sanniti non comprendevano che, combattendo ed invilendo i popoli i vicini, si apriva più facile la via alle conquiste romane. Di fatti la Campania divenne in breve tempo provincia romana, ed i Sanniti furono anch'essi costretti a combattere con Roma.

I Sanniti erano un gran popolo, e come il centro di tutti i popoli antichi di queste nostre contrade, su' quali preponderavano per numero di popolo e per forza e prosperità di armi. Irrequieto ed avidi di maggior signoria, mossero guerra ai Sidicini ed ai Campani; e costretti questi a salvarsi tra le mura di Capua, e ridotti ad estremo pericolo, dimandarono ed ottennero aiuto da' Romani, onde la guerra fu tra' Sanniti ed i Romani.

I Sanniti furono confortati a combattere da' Tarentiui, anch'essi pavidi della crescente potenza di Roma, e furono aiutati da' Napolitani, da' Lucani, da' Marsi, ed ebbero varia fortuna in queste guerre. Furono dapprima vinti presso al monte Gauro, e poi si composero in pace; ed in questo tempo la storia ci ricorda gli episodi di Decio e di Torquato Manlio. Ripresero i Sanniti le armi, ed avvolgendo i Romani nelle gole Caudine, li costrinsero a passare sotto il giogo; ma poco appresso furono vinti anche essi vicino la città di Lucera, dove ebbero a soffrire la stessa pena che aveano data ai Romani. I Sanniti passarono nella Toscana, ed ivi suscitarono un terribile incendio di guerra contro i loro nemici, ma i Romani li combatterono e li vinsero nella Toscana e qui tra noi in tutto il loro territorio, onde poterono distendersi nell'Apulia, e nelle vicine provincie, e sulle cadenti repubbliche greche.

La sola città di Taranto non volle accettare la dominazione di Roma; ed avendo predate alcune navi romane, e ricusato di riparare il danno e l'offesa, accettò la guerra che le venne dichiarata dal Senato romano. I Tarentini trassero nella loro causa i Sanniti, i Lucani, i Bruzii, gli Appuli, i Messapii ed i Salentini; e mandarono ambasciatori iu Epiro, e con particolari allettamenti c con ricchi doni persuasero a venire in loro soccorso il re Pirro il quale, riputato il primo capitano del suo secolo, avido di gloria e di conquiste in terre straniere, venne con forte esercito, e cavalli ed elefanti, e si pose alla testa degli Epiroti, de' Tessali e degli eserciti alleati. I Tarentini vinsero la battaglia di Eraclea, ma ne' crudi e sanguinosi combattimenti che seguirono non ebbero la stessa fortuna.

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Le vittorie di Pirro furono passaggere, e perduta una gran parte de' suoi soldati, egli ritornò in Epiro, e Taranto cadde sotto le armi romane, e insieme con essa caddero il Sannio, la Lucania, l'Apulia e tutto il mezzogiorno d'Italia. Sicchè la futura signora del mondo estese allora la sua dominazione da' confini dell'Etruria sino all'estrema punta del la penisola, e riparti le sue conquiste in quattro provincie, e restrinse nella prima l'Etruria, la Sabina ed il Lazio sino al Liri; nella seconda la Campania, il Sannio, la Lucania e il Bruzio; nella terza l'Umbria, il paese conquistalo su' Senoni, il Piceno, il Frentano e le altre vicine regioni sino all'Apulia; nella quarta l'Apulia e le regioni de' Tarentini, de' Messapii e de' Salentini. Roma non aveva più nemici da combattere in Italia, e spinse più oltre lo sguardo e l'idea di conquista. Nella parte settentrionale della Libia, dove l'Africa è più vicina alla Sicilia, era Cartagine, antica colonia di Sidone, potente r

epubblica e signora del Mediterraneo, la quale avea disteso la sua dominazione sopra una gran parte della Sicilia, sulla Sardegna e sopra alcune provincie della Spagna, e traeva la sua forza da re alleati ñ da popoli o tributari o mercenari. E Roma fu gel

osa di Cartagine, che era quasi sull'estrema parte d'Italia, e temé la sua potenza; onde, tolto il pretesto che le diedero i Mamertini, i quali si erano ribellati da Jerone, tiranno di Siracusa, combatté con Cartagine lunga e sanguinosa guerra, dalla quale ricolse questo primo frutto, che la Sicilia e la Sardegna furono sottoposte ai Romani, e fecero per la prima volta parte d'Italia. In questo primo periodo delle guerre cartaginesi, il quale durò 24 anni, i Romani vinsero una battaglia navale tra Lipari e Mileto, ed innalzarono in Roma una colonna rostrale a Duilio Nepote; ma vinti in Africa da Santippo, lacedemone, videro cadere prigioniero Attilio Regolo, e poi fatto morire fra crudeli tormenti. Le navi de' Napolitani, de' Locresi, de' Veliesi e de' Tarentini recarono grande aiuto ai Romani in questa prima guerra.

Ripresero le armi i Cartaginesi, e movendo di Spagna, capitano Annibale, passarono l'Ebro, i Pirenei, il Rodano e le Alpi, e, discesi nelle belle pianure d'Italia, vinsero le legioni romane sul Ticino e sulla Trebbia, e trassero nel loro partito i Galli, gl'Insubri e i Liguri; penetrarono tra i fertili campi di Fiesole e di Arezzo, e vinsero il nemico presse alle rive del Trasimeno; penetrarono nelle regioni degli Umbri, degli Adriani, dei Vestiai, de' Marruccini, de' Frentani e nell'Apulia, dove si accamparono nelle vicinanze di Arpi e di Luceria, ed ivi, nella famosa giornata di Canne, distrussero interamente l'esercito romano, e poi vincitori si distesero ne' campi di Capua e di Taranto.

Al grido delle vittorie di Annibale si sollevarono contro di Roma i popoli di queste nostre contrade, e, fra gli altri, i Capuani, i Sanniti, gli Appuli, i Lucani, i Bruzii, e tutti gli abitanti delle coste ionie da Locri a Taranto. Ma i Romani si rifacevano a poco a poco delle loro perdite, e i Cartaginesi per contrario, vivendo nell'ozio e nella mollezza, si sgagliardivano sempre più, per modo che le legioni romane non solo riguadagnarono Capua e Taranto, e sottoposero tutte le altre città ribelli, le quali caddero in più dura condizione, ma portar

îno la guerra alla stessa Siracusa, a cui non bastarono né le proprie fortificazioni, né le invenzioni di Archimede.

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Le città nostre furono tutte sopraccaricate di gravi balzelli, e ridotte quasi serve; ma non potendo infine sopportare il duro giogo posto sopra di esse, si sollevarono quasi tutte con le armi alla mano e dimandarono di essere agguagliate a Roma, la quale minacciata da questa guerra interna, che avea acquistato larghe e terribili proporzioni, concedé a tutt'i popoli nostri gli stessi dritti che aveano i Romani. Questa guerra è quella che ci viene ricordata dalla storia col nome di guerra Marsica o Italica o Sociale, nella quale furono primi ad entrare i Piceni, i Marsi, i Vestini, i Lucani, gli Appui i, e quindi i Peligni, i Marrucini, i Frentani, gl'Irpini e i Pentri, i quali furono confederati tra loro; e Corfinio, capitale de' Peligni, fu la sede della confederazione. A quella guerra presero parte e Mario e Silla e Pompeo, e fu varia la fortuna delle loro armi.

Intanto l'Asia, vinta dalle armi romane, vinceva Roma con le sue ricchezze, col suo lusso, co' guasti costumi. E gli schiavi dimandavano di essere liberi; i pirati si spargevano sopra tutt'i mari; gli odi cittadini rinascevano ogni giorno. Già cadeva il valore de' Romani, l'amore della povertà, l'amore del nome romano. Le proscrizioni di Mario e di Silla inondavano Roma di sangue, e avevano diviso il popolo in parti avverse. Verre e gli altri proconsoli spogliavano le provincie loro confidate; e le gelosie e le guerre di Cesare e di Pompeo poneano fine alla Repubblica romana.

A' piccoli campi de' Curii, de' Fabricii, de' Cincinnati, de' Regoli seguirono allora le grandiose ville Lucullane, Tusculane e Formiane; e il cratere Cumano, dal promontorio di. M ¡seno a quello di Minerva, pareva una magnifica città con palagj superbi, con deliziosi giardini, ricchi di marmi, di statue e di peschiere. Il popolo impoveriva; le armi romane aveano messo a sacco e a fuoco le campagne, le città e le ville; aveano distrutto le industrie, usurpato gli agri pubblici e la massima parte delle terre private, e diviso i campi tra le colonie militari ed i patrizj, abbandonandone la coltura ad una turba di vili schiavi, snervati nella mollezza de' palagi. E si che le pianure più fertili si videro in breve tempo cangiate in pantani ed in boscaglie, e sopra tutte le altre quelle del Sannio, della Campania, della Lucania e del Bruzio. Quando le armi romane ebbero conquistate le nostre regioni, caddero quasi interamente la navigazione ed il commercio; e le città marittime, state insino allora fiorentissime, furono spogliate di danaro e di navi dagl'ingordi ed avidi conquistatori.

Gli abitanti di queste nostre contrade erano ripartiti in città alleate, in municipii, in colonie ed in prefetture. La condizione più onorata e mem, grave era quella delle città alleate; le quali, tolto il tributo che per la lega e confederazione pattuite

ñî' Romani pagavano ai medesimi, erano riputate nelle altre cose del tutto libere; aveano l

a loro propria forma di repubblica, vivevano con le leggi proprie, creavano esse i magistrati, e spesso usavano de' nomi di senato e di popolo. In tale condizione fu per molto tempo la nostra città di Napoli, e i Tarantini, i Locresi, i Reggini, e alcun tempo i Lucerini, i Capuani, e alcune altre delle città greche.

I municipi aveano il dritto di creare i magistrati, e ritenere le proprie leggi. Gli abitanti erano considerati come cittadini romani, erano ammessi agli onori militari, e usavano qualche volta il dritto de' suffragi.

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Di questa condizione furono Fondi e Formia, la quale da poi fu da' triumviri fatta colonia; Cuma, Àcårrà, Sessa ed Atella, le quali Augusto mutò in colonie; e Bari nella Puglia, e molte altre città poste io altre regioni.

Le colonie viveano conforme al costume, alle leggi ed agl'istituti della stessa Roma. A somiglianza del senato, del popolo e de' consoli, aveano ancor esse i decurioni, la plebe e i duumviri. Aveano similmente gli edili, i questori, e gli altri magistrati minori in tutto uniformi a quelli di Roma. Vi avea colonie romane in tutte le nostre regioni; e tali erano, in fra le altre, Calvi, Sessa, Pozzuoli, Vulturno, Linterno, Nola, Pompei, Ñàpua, Casilino, Formia, Teano nella Campania; Pesto nella Lucania; Isern

ia, Boiano, Telefe, Avellino nel Sannio; Siponto, Venosa, Luceria nella Puglia; Brindisi e Otranto nella regione de' Salentini; Crotone, Petelia, Mamerto, Locri, Reggio, Squillace ne' Bruzii...

La condizione delle prefetture era la più dura: non potevano avere leggi proprie come i municipii; non potevano creare i magistrati come le colonie, e doveano star sottoposte a quelli che Roma mandava per reggerle. Vivevano sotto le leggi de' Romani, e in quella condizione che ai magistrati romani piaceva loro d'imporre. In taie stato furono Capua, Cuma, Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Atella, Venafro, ed altre città nostre.

E tale era il reggimento del paese e la condizione delle nostre genti, quando Augusto, vinta la battaglia di Azio, trionfò de' suoi rivali, e cangiò la repubblica in impero.

L Impero Romano.

L'Impero Romano avea per suoi termini, il Reno ed il Danubio inverso settentrione, l'Eufrate ad oriente, l'Atlantico ad occidente, e a mezzogiorno la peni sola arabica, le cataratte del Nilo ed il monte Atlante. E tutt'i popoli racchiusi fra questi cosi lontani termini si sottoposero tranquillamente ad Ottavio, il quale fu soprannominato Augusto ed innalzato ad imperatore. Ed egli pose l'impero in nuovo ordine di cose, e diede fine alle guerre straniere ed alle civili discordie, e si che le genti si mostrarono contente di essere governate da un solo. Ebbe un governo mite, col disegno di allontanare ogni spirito di parte, e far crescere la prosperità de' popoli; e il secolo di Augusto fu detto il secol d'oro di Roma, tanta era l'eccellenza a cui erano giunte le arti e le scienze. Il poeta di Venosa, gentile scrittore di quel tempo, cosi ritrasse la condizione di quei popoli. I Romani, egli disse, sicuri da qualunque invasione di stranieri e dal furore delle guerre civili, vedeano succedere la quiete alla licenza, la virtù al vizio: l'agricoltore senza timori raccoglieva le ricche messi: il bue senza pericolo solcava i pacifici campi; e le provincie non erano preda della ingordigia de' pretori e della violenza di feroci soldati.

L'impero fu diviso in provincie, e l'Italia in undici regioni, di cui cinque comprendevano la parte meridionale della penisola che oggi forma il nostro Reame; ma non cangiarono gli ordinamenti amministrativi, né la denominazione delle genti primitive.

Ma i lieti giorni dell'impero cessarono poi che morì Augusto, chè a lui segui Tiberio, crudelissimo uomo, e capriccioso e voluttuoso, del quale sono ancora avanzi nella vicina isola, di Capri; e seguirono Caligola, Claudio, Nerone, che

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ricolmarono il mondo d'infamie e di spaventi; e vennero tra noi allettati dalle sorridenti nostre colline, dalla dolcezza del nostro clima, e qua e là sulla incantata riviera del nostro mare sono ancora sparse le rovine de' superbi loro monumenti.

L'impero fu involto in aspre e sanguinose guerre civili; ma trionfando Vespasiano de' suoi rivali, frenò l'ira delle parti avverse, e ricondusse la pace, e diede forza alle leggi e autorità ai magistrati. E l'opera benefica incominciata da lui fu continuata da Tito suo figlio e successore, il quale con virtù rarissima fece di accrescere la pubblica e la privata prosperità. Ma il regno di Tito fu turbato da spaventose calamità, e, fra le altre, ricorderemo la violenta eruzione del Vesuvio (anno 79 di G. C.), la quale seppellì sotto altissimi strati di lava le città di Ercolano, di Pompei, di Stabia e di Retina, e coverse di ceneri l'Italia, la Sicilia e le coste di Africa. La terra parve come divetta dalle sue fondamenta; una tetra notte successe ad un giorno caliginoso; immense colonne di fumo si levarono nell'atmosfera; ampie correnti di fuoco e tremuoti inauditi divorarono campi, edificj, abitanti. E Tito corse in sollievo de' popoli della Campania, e fece con ogni opera di raddolcirne la miseria.

A Tito, che fu detto l'amore e la delizia del genere umano, segui l'iniquo Domiziano, uno de' più malvagi successori di Augusto, più crudele di Tiberio e di Nerone. Ma sopra quel regno contaminato da vizj abominevoli posero un balsamo gl'imperatori che seguirono, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio, i cinque virtuosi e magnanimi imperatori, i quali diedero a Roma un secolo di prosperità, ed innalzarono l'impero a grande potenza. E Traiano visitò le nostre regioni, e le ridusse in queste cinque provincie, la Campania, la Sicilia, l'Apulia e la Calabria, la Lucania e il Bruzio, e il Sannio; e le due prime commise al governo de' Consoli, le altre due ai Correttori, e l'ultima ad un Preside. Ed egli aggiunse nuove fortificazioni e nuovi edificj alle nostre città, ripurgò l'emissario del lago Fucino, fatto da Claudio e forse distrutto da Nerone; diede acque dolci a Canosa per mezzo di acquidotti, e rifece con grande magnificenza l'anfiteatro campano.

Ma dopo la morte di Marco Aurelio cessò la prosperità dell'impero: la storia di trentasei imperatori da Comodo a Massenzio, per lo spazio di 226 anni, non offre se non una feroce ed incostante anarchia, e correrie e devastazioni di Franchi, di Germani, di Goti, di Sarmati. Né cessò questo stato di disordine, se non quando Costantino, figliuolo di Costanzo Cloro, reggendo le Gallie con fama e gloria, e non sopportando le lagrimevoli condizioni nelle quali era caduta l'Italia, né le crude persecuzioni contro la religione di Gesù Cristo, si mise alla testa di forte esercito, a cui annunziando in nome dell'Onnipossente Iddio sicura vittoria, trionfo di tutti i suoi nemici e rivali, e riuni in uno e dominò l'impero romano. Cosi l'impero ebbe nuove leggi e calma e sicurezza.

Forse per lo spirito inquieto de' Romani, ma col pretesto d'innalzare un argine contro le invasioni de' Sarmati, de' Goti, de' Persiani, Costantino gittò in Bizanzio le fondamenta di una grande città, la quale da lui tolse il nome di Costantinopoli, e fu la sede dell'impero.

Costantino divise l'impero tra i figli ed i nipoti, e mori lasciando la rimembranza di un uomo che avea operato la più grande rivoluzione politica, con la distruzione dell'idolatria, col trionfo del Cristianesimo, e coi gravi cangiamenti portati nell'impero.

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L'Italia, regina del mondo, divenuta provincia non conservò del suo antico stato se non i corrotti costumi; le fertili terre caddero in mano di avidi procuratori e di schiavi spensierati; e oppressa da Correttori, da Consolari e da Presidi, cadde nella miseria, e imbarbari perdendo ogni aspetto di civiltà. L'impero fu quindi da Valentiniano diviso in due parti, in quello di Occidente e in quello di Oriente, e divenne quindi pi¡i facile preda de' Barbari del settentrione e dell'oriente.

Giunti i Romani al colmo della gloria, ma degenerati e sgagliarditi, essi non furono avidi che di ricchezze, e non conobbero altri bisogni che pane e spettacoli come prezzo della tranquillità popolare. Ma essendo le fertili regioni d'Italia divenute in parte deserte ed inculte, per la inespertezza e per la pigrizia de' servi, e in parte ammiserite ed abbandonate per la gravezza de' tributi, per le oppressioni e per le rapine de' prefetti del pretorio e de' publicani, fu bisogno di ricorrere a paesi stranieri, e Roma ricavava frumenti dalla Sicilia, dalle Gallie, dalle Spagne, dall'Egitto e dalla Siria. La plebe di Roma data alla inerzia ed ai vizj, i cortigiani ricolmati di onori, i palagj popolosi di servi, e ricchi de' prodotti delle Indie e della Persia, di aromi squisiti, di unguenti odorosi, di profumi rari, di gemme e perle preziose, di drappi finissimi. Mancavano gli agricoltori, ma cresceva il numero de' mendici, degli oziosi, degli astrologi, dei parassiti, de' cortigiani, de' buffoni, e non solo nella città di Roma, ma anche nelle città minori. Cadute le arti militari, gli eserciti comandati da stranieri e da barbari;era tale lo stato delle cose, quando Costantino il Grande portò la sede dell'impero a Costantinopoli, e Valentiniano lo divise in due parti. L'impero perdè allora la sua unità, la sua maestà, la sua forza, la sua gloria; le nostre regioni ridotte nella condizione di provincie, e sottoposte al flagello di avidi governatori;e i nobili, i ricchi, i mercatanti, gli agricoltori, gli operai, i letterati che emigravano da Roma e dell'Italia e traevano ad accrescere la popolazione e la magnificenza della novella sede dell'impero in Oriente.

L'opera de' Cesari non fu dunque che opera di distruzione; ma mentre cadeva l'impero a poco a poco, un nuovo principio cresceva ogni giorno, e si elevava alto per dominare tutto il mondo, ed era la Religione di Cristo. Il Messia profetato nacque sotto il regno di Augusto da una giovinetta giudea della stirpe di Davide. E invano Erode cercò di avvolgerlo nella strage degl'innocenti, chè il Nazareno visse 30 anni oscuramente, e poi predicò per tutte le contrade della Giudea, e confermò con la sua santa vita la sua divina missione. E fondò una religione che doveva distruggere l'idolatria, e rigenerare il mondo, una religione che non ispira che dolcezza e carità. Ma egli non pertanto fu condannato al supplizio della croce e mori sul Golgota. Ma i suoi discepoli seguitarono l'opera incominciata da Lui; essi si sparsero per tutte le parti della terra predicando la dottrina del loro Maestro, che riconfermarono col proprio sangue, e con l'austerità e purità de' loro costumi. E crebbe la religione di Cristo, crebbe il popolo cristiano, e per tutto s'innalzavano nuovi templi, dove confidenti si raccoglievano i seguaci della croce. Gli apostoli, poveri ed ignudi, ma ricchi de' doni del cielo, predicavano il Vangelo, la buona novella, proscrivendo la sensualità, l'amore delle ricchezze e le basse passioni, ed annunziando che al di là della tomba è una vita eterna.

E la nostra Napoli fu una delle prime città ad essere rischiarata dalla luce del Vangelo.

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L'apostolo Pietro, partitosi di Antiochia per andare in Roma, passo di qui, e converti alla religione cristiana Candida ed Aspreno, ed innalzo quest'ultimo a capo della Chiesa, rivestendolo di poteri episcopali. Candida ed Aspreno ebbero molti proseliti, co' quali convenivano insieme in luoghi reconditi, e pregavano insieme. E qui tra noi fu viva la persecuzione degl'Imperatori romani contro i Cristiani, e queste nostre terre furono più volte bagnate dal sangue de' Martiri.

Il sangue de' Martiri intanto, non che spegnere, fecondava e rinvigoriva la fede ne' petti di guerrieri, di magistrati, di poveri, di schiavi, di cittadini di ogni ordine della società che racchiudevano sentimenti di virtù.

E quantunque fosse Costantino colui che portò sul trono de' Cesari la religione di Gesù Cristo, egli educato dalla pia Elena sua madre, fino dai primi anni della sua giovinezza, al disprezzo dell'idolatria. alla fede cristiana; pure molte città nostre abbracciarono la religione cristiana, e fondarono molte chiese, o unioni di fedeli, ed istituirono molti vescovi assai prima di Costantino.

Dominazione de' Goti.

(dal 476 al 568)

Roma che potè conquistare tutto il mondo non potè lungamente dominarlo; i suoi costumi divennero guasti; l'avarizia, il lusso ed una vana ambizione cominciarono a logorarla; le discordie cittadine la divisero in tante parti; sicché senza altri nemici il colosso di Roma sarebbe caduto sotto il peso della sua stessa grandezza;e non domandavasi che un leggero urto, quasi fosse il colosso delle Scritture i cui piedi erano di creta. quest'opera di distruzione fu compiuta da' Barbari del settentrione.

Era l'Europa in quest'epoca come divisa in due parti, nel mondo barbaro e nel mondo civile, e tra l'uno e l'altro erano il Reno ed il Danubio. 1 Barbari erano stati sino allora come chiusi da' monti e da' fiumi, ed arrestati dal nome terribile de' Romani; ma sospinti dalla loro crescente popolazione, e da' nuovi Barbari che sopravvenivano, e cacciati dalla sterilità del suolo, e da' ghiacci del settentrione, oltrepassarono quei loro naturali confini; e trovando fertili queste nostre terre, sorridente il nostro cielo, ricche le nostre città, ed il popolo romano discorde ed infiacchito, scesero come un torrente ed occuparono il mezzogiorno e l'occidente di Europa. L'invasione de' Barbari pose sottosopra l'impero, e tutto era confusione, e non vi avea più società ordinata, ma un misto di elementi eterogenei e cozzanti tra loro, quali erano quelli di una barbarie vigorosa e di una civiltà snervata e caduca. I vincitori e i vinti confusero insieme i loro costumi e le leggi e il linguaggio.

E vennero in Italia numerose orde di Barbari capitanati da Alarico, ed erano i Visigoti, i quali saccheggiando e distruggendo passarono le Alpi e il Po, e, presa Roma di assedio, inondarono le vie di sangue cittadino, e tolti gli ori e gli argenti, e distrutti i templi e i monumenti antichi, seguirono il loro cammino a traverso la Campania, il Sannio, la Puglia, la Lucania, la Calabria e il Bruzio, devastando campagne, distruggendo bestiami ed uomini. Ma giunti presse al Faro di Messina, Alarico morí e fu sepolto nel fiume Busento, dopo che ne fu deviato il corso, e insieme con lui fu sepolta gran parte de' suoi tesori. Segui Astolfo, e continuò l'opera devastatrice de' Barbari, i quali del pari che le locuste, che rodono i seminati e desolano le campagne, atterrarono tutto ciò ch'era sfuggito al primo furore.

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Vennero di Asia gli Unni, della grande tribù de' popoli Mongolli, e furono un'orda immensa, i quali passando le Alpi, spandendosi in Italia " dove distrussero i campi e gli abitati, giunsero sino alle porte di Roma, dove li arrestò la parola del Pontefice Massimo. Per la invasione degli Unni impoverirono le genti italiane; e per salvarsi dalle crudeli stragi di Attila, riguardato come il flagella di Dio, motti abitanti della contrada de' Veneti si rifuggiarono sulle vicine isolette dell'Adriatico, ed ivi poco a poco innalzarono la città di Venezia.

Vennero di Africa i Vandali, guidati da re Genserico, e saccheggiarono Roma, rubando ricchi tesori, e statue e vasi gemmati; invasero la Campania, distruggendo Capua e Nola, uccidendo molta gente, ed altra traendone in servitù; e ritornarono più volte sulle spiagge di questa parte meridionale della penisola, devastando campi, predando uomini e bestiami, ed atterrando città, tra le quali sono ricordate Reggio, Locri, Cotrone e Turio, che conservavano ancora qualche avanzo dell'antico splendore.

Vennero in Italia gli Eruli e i Ruggi, i quali riunendosi alle orde disperse di Attila, gridarono per loro re Odoacre, ed occuparono Ravenna e Roma, e vinsero Romolo Augustolo, \'imperatore fanciullo, il quale, morendo nell'antica villa di Lucullo, presso Napoli, pose termine all'impero romano di Occidente. Odoacre regnò sopra tutta l'Italia, nella Dalmazia, nelle Rezie e nella SiciliaE cosi cadde l'impero romano, logorato dal tempo e da' corrotti costumi, sotterrato da' Barbari, i quali ne divisero le spoglie, e fondarono nuovi regni. Quindi dominarono quei feroci conquistatori e dettarono la legge; e si spense l'antica civiltà, ed il sapere, bandito dall'antica sua culla, riparò ne' chiostri di alcuni solitarj.

Odoacre non cangiò lo stato politico di queste provincie; e gli stessi magistrati, le stesse leggi, le stesse usanze, la stessa religione continuarono a reggere l'Italia. Diede la terza parte delle terre ai suoi seguaci, i quali, quantunque non fossero agricoltori, pure fecero di dissodare terreni, disseccare paludi, seminare i campi, piantare viti ed ulivi, e accrescere gli armenti. Ma le terre erano quasi tutte diserte ed abbandonate per le continue devastazioni operate da' Barbari, e sopra tutte le altre quelle della Campania, della Puglia e della Calabria.

Giunse in Italia Teodòrico, mandato dalla Corte di Costantinopoli, con possente oste ostrogota, e vinse e distrusse Odoacre in più battaglie, e pose i fondamenti di una nuova monarchia. Teodorico fu seguito da molti guerrieri, uomini e donne, e da masserizie, e guerreggiò per via e s'ingrossò di attre genti. Passò le Alpi Carniche e giunse all'Isonzo, dove lo aspettava Odoacre, forte anch'egli di motti guerrieri e re alleati, ed ivi fu data una battaglia e poi un'altra a Verona, e poi sull'Adda e a Ravenna, dove Odoacre fu stretto di assedio e fatto morire (Anno 489 di G. C.), Teodorico divenne re d'Italia, e sebbene ei fosse goto e goto il suo esercito, pure rispettò le leggi romane ed i magistrati. Volle circondarsi di uomini illustri, e chiamò Magno Aurelio Cassiodoro, nato di nobile famiglia a Squillace in Calabria, celebre per le matematiche e per le traduzioni di diversi greci scrittori, e gli affidò prima il governo della Lucania, e poi lo fece suo ministro, e conte delle entrate e delle donazioni, e senatore, prefetto del pretorio e console.

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E fece di porre riparo ai danni cagionati dalle guerre, e ispirò l'amore della pace, e fece di proteggere l'agricoltura e le arti. Onde sotto il regno di Teodorico furono le nostre provincie in più prosperevoli condizioni, e migliorati e ingentiliti i costumi.

Teodorico si strinse in parentado co' re di Borgogna e di Turingia, co' Vandali di Africa, co' Goti di Spagna, e con Clodoveo, che fu uno dei più grandi re franchi. Divenne signore della penisola italiana, della Sicilia, delle Rezie, del Norico, e distese la sua influenza nella Gallia e nella Spagna. Egli seguiva la religione di Ario, e fu prima tollerante e poi persecutore de' cattolici; e quindi ire e sospetti tra Goti e ltaliani; e di questi sospetti furono vittima Boezio e Simmaco, uomini nati di nobilissima stirpe, avanzati nello studio della filosofia, religiosissimi e chiari per fama di pietà e di dottrina. Simmaco e Boezio furono per invidia incolpati di macchinare contro la vita e il regno di Teodorico, e questi con precipitati e non giusti consigli li condannò a morte; il che oscurò la somma gloria da lui acquistata. Teodorico mori dopo 38 anni di regno felice, indebolito dalla vecchiezza e dalle gravi cure (nell'anno 526).

Odoacre e Teodorico conservarono la stessa divisione di territorio; e la Campania e la Sicilia aveano i loro Consoli, !'Apulia e la Calabria e la Lucania e il Bruzio i loro Correttori, e il Sannio un Preside.

Dopo la morte di Teodorico, prese il governo del regno, per la giovinezza di Atalarico, Amalasunta sua madre, e governò il reame con grande saggezza e prudentemente; e conservò le stesse leggi ed i magistrati, e la stessa disposizione delle provincie e la medesima amministrazione. Ma il giovine principe, che i Goti volevano nutrire fra le armi, cadde in molte dissolutezze, e mori nell'età di 18 anni; e ciò fu l'origine de' mali e della rovina de' Goti in Italia.

Amalasunta dubitando che i Goti, non volendo soffrire il suo governo, non facessero prontamente un re a lor capriccio, destramente gli prevenne, mettendo sui trono Teodato suo cugino, figliuolo di Amalafrida sorella del gran Teodorico, pur egli dell'illustre gente degli Amali. Costui era principe educato alle lettere e alle scienze e nutrito nella filosofia; ma aveva guasto l'animo e basse passioni, inespertissimo delle cose militari, timido, pigro, avaro, perfido. E prima ad esperimentarne la malvaggia natura fu la infelice principessa Amalasunta, poiché egli obbliando tutte le promesse che aveva falte alla sua benefattrice, la fece uscire del palagio di Ravenna, e condurre prigione in un'isola posta nel mezzo del lago di Bolsena, e dopo scorsi alquanti giorni la fece barbaramente strozzare. Di che sdegnato furiosamente l'imperatore Giustiniano, quel grande raccoglitore di leggi e codici romani, risolse di vendicare la morte di Amalasunta contro Teodato e contro gli Ostrogoti; e avendo pure il disegno di riunire l'Italia all'impero, fatti grandi preparativi di guerra, mandò Belisario in Italia, il quale avea già tolto ai Vandali l'Africa, la Sardegna e la Corsica. Belisario s'impadroni della Sicilia, prese senza contrasto il Bruzio, la Lucania, la Puglia, la Calabria ed il Sannio; e Benevento e quasi tutte le città principali di queste provincie a lui si renderono per il terrore delle sue armi. Resistè fortemente la città di Napoli, e sofferse l'assedio per molti giorni; ma scovertosi da un soldato un acquidotto, che penetrava fin dentro la città, per esso vi entrarono i Greci, e la posero sottosopra; e più lagrimevole e funesto sarebbe stato il sacco che le diedero, se Belisario non avesse posto freno alla rapacità de' soldati.

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Costernati i Goti per il grave pericolo da cui erano minacciati, non lasciarono impunita la stupidezza di Teodato: e veggendosi per sua cagione caduti in tanta rovina, prima lo discacciarono e poi l'uccisero; ed in suo luogo elessero in mezzo all'esercito Vitige, e lo gridarono loro re. Vitige era principe valoroso e prudente, come rendono testimonianza i suoi egregi fatti. Egli cinse di forte assedio la città di Roma, ma, cacciato da Belisario, si ridusse in Ravenna, dove fu fatto prigioniero; e cosi l'Italia ritornò ai Greci, Ma richiamato Belisario in Costantinopoli, per sospetti di Stato, i Goti innalzarono Totila sul trono, e preso ardire, per la singolare virtù ed estremo valore di lui, ricuperarono molte provincie ch'eraoo state occupate da Belisario. Riacquistarono il Sannio, la nostra Campagna, la Puglia e la Calabria, e cadde la stessa città di Napoli, ma dopo forte e lunga resistenza;e quasi l'intera Italia ridussero sotto la loro dominazione. Prese Totila la città di Roma, ma non usò contro di essa maniere crudeli: e pregato da S. Benedetto, il quale in quei tempi aveva fama di santità grandissima, si volse più tosto a rifarla. Ma i Goti non goderono lungamente di queste vittorie, perché contro di essi Giustiniano mandò in Italia con potenti eserciti Narsete eunuco, uomo esercitatissimo in guerra, il quale accrebbe i suoi eserciti con altre genti straniere, Eruli, Unni, Gepidi, Longobardi. E Narsete venne in Italia, e rotto ogni argine che i Goti gli opponeano, inondò di armi le campagne, e venuti ad una battaglia campale, Totila, dati gli ultimi segni del suo valore, non potendo più resistere alle forze maggiori del suo nemico, rimase vinto e morto, e i Goti sconfitti e debellati. Dopo si crudele battaglia, i Goti si ridussero in Pavia, dove crearono loro re Teia, nel cui valore ed audacia era riposta ogni speranza per istabilire il loro imperio in Italia. E Teia fece i più grandi sforzi per ristaurare le fortune de' Goti, ed incontrato da Narsete a piedi del Vesuvio, fece di resistergli con tutte le sue forze; ma venuti a battaglia, Teia rimase in quella miseramente ucciso, e i Goti, veggendosi privi di si valoroso capitano, risolsero di rendersi a Narsete, il quale loro concedé che se ne potessero andare dalle terre dell'imperio con tutti gli argenti ch'essi aveano, e vivere secondo le loro leggi.

E così ebbe fine la dominazione de' Goti in Italia e in queste nostre provincie; gente illustre e bellicosa, la quale tra gli strepiti di Marte non abbandonò gli esercizj della giustizia, della temperanza, men barbara ed inumana degli altri Barbari; e la quale lasciò vivere i popoli vinti e debellati con le stesse leggi romane, con le quali erano nati e cresciuti, e delle quali era sommamente ossequiosa e riverente. E le nostre provincie conservarono sotto la dominazione de' Goti le stesse leggi e gli stessi magistrati ricevettero altra forma ed amministrazione quando passarono sotto gl'imperatori di Oriente, i quali mandando in Italia gli esarchi, e dividendo le provincie in più ducati, diedero alle medesime disposizione diversa da quella di prima.

Morto Giustiniano, si fransero tutt'i suoi disegni, e la fortuna degl'imperatori orientali tornò a declinare. Gli succedè nell'imperio Giustino il giovine, il quale dato tutto in braccio al governo di Sofia sua moglie, per consiglio della medesima, rivocò Narsete d'Italia, e gli mandò, nell'anno 568, Longino per successore.

Giunto Longino in Italia, con assoluto potere ed imperio datogli dallo stesso Giustino, le diede nuova forma e disposizione.

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Egli pose la sua sede in Ravenna, come aveano fatto gl'imperatori occidentali e Teodorico co' suoi Goti; tolse via dalle provincie i Consolari, i Correttori ed i Presidi, contro ciò che aveano fatto i Romani ed i Goti stessi, e fece nuovi capi in tutte le città e terre importanti, i quali chiamò duchi, assegnando giudici in ciascuna di esse per l'amministrazione della giustizia, e tutti dipendendo da lui, che col titolo di esarca governava da Ravenna tutta l'Italia. E qui tra noi si formarono, in fra gli altri, il ducato di Napoli, di Sorrento e di Amalfi, il ducato di Gaeta e l'altro di Bari.

In mezzo a tante e si feroci armi, non caddero del tutto le lettere e le buone discipline, e i re Goti conservarono, quanto era possibile, l'antico lustro del Senato romano e dell'Accademia di Roma; e in quest'età l'Italia vide un Giornande, un Boezio Severino, un Simmaco, un Cassiodoro.

E innanzi di porre termine a questo regno de' Goti, vogliamo ricordare che il Monachismo esercitò in quella età di Barbari una salutare influenza, o salvando dalle barbariche devastazioni gli avanzi della sapienza antica, o ravvivando la coltura de' campi, o piegando quegli uomini a miti consigli, ad opere di pietà. Tra gli ordini religiosi fu celebre e numeroso quello di S. Basilio nella Puglia e Calabria e nella Lucania e Bruzio, e quello di S. Benedetto nella Campagna e nel Sannio.

Dominazione de' Longobardi e de' Greci.

(dall'anno 568 al 1016)

I Longobardi furono antichissimamente una gente scandinava, i quali. passato il Baltico, si distesero sulle rive della Vistola, ed ebbero nome di Vindili; discesero quindi nella Pannonia, e fermarono ivi la loro sede. Nella Pannonia soggiacquero agli Unni, e rivaleggiarono e combatterono co' Gepidi, uccidendo i loro re Cunimondo e Turrismondo. Narsete li aveva condotti nel suo esercito per combattere i Goti; ma li rimandò poco appresso per la loro indole selvaggia, carichi di doni, e desiderosi di ritornare in maggior numero alla conquista di cosi belle contrade. E Narsete li richiamò in Italia, quando dopo avere distrutti gli avanzi dell'orde de' Goti, ei fu spogliato di tutt'i suoi poteri dall'imperatore di Costantinopoli.

I Longobardi scesero in Italia, l'anno 568, guidati dal loro re Alboino, e conquistarono Aquileja e il Friuli, e formarono il ducato del Friuli: conquistarono Treviso, Verona e Trento, nel 569; e Brescia, Bergamo, Lodi, Como e Milano, nel 570, e allora Alboino fu dichiarato re d'Italia. Cadde l'Emilia e l'Umbria, e fu formato il ducato di SpoIeto; cadde Pavia, dopo 3 anni di assedio, e fu la capitale del regno de' Longobardi. Alboino aveva sposata Rosmunda, figlia del re Cunimondo; e si racconta ch'egli l'avesse costretta a bere nel teschio di suo padre in un convito dato a Verona, il che fu cagione della morte di lui. Alboino mori dopo un regno di tre anni e mezzo, ucciso da Almachilde,

La nazione longobarda si componeva di popoli diversi tra loro, e tutti insieme confederate Ciascuno combatteva per la sua propria fortuna; ma tutti riconoscevano un capo unico nella persona del re. Come tutti gli altri Barbari, essi portarono stragi e rovine, e non si stabilirono in Italia. se non dopo avere distrutte molte sue città,

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Fatti signori della maggior parte delle terre abbandonate, e ricaduti nell'ozio, nulla più non avendo a predare e a distruggere, ridussero i popoli italiani nelle condizioni di coloni, costringendoli a dare, come tributo, uno o due terzi de' frutti de' campi loro dati a coltivare.

In questo tempo ebbero origine i feudi in Italia, seguendo il costume de' re di Francia di creare nelle città i duchi e i conti; i quali nel principio potevano essere cacciati per arbitrio de' re, ma poi fu introdotta una consuetudine che non si potessero privare dello Stato, se non si provava di aver commessa qualche gran fellonia; e infine poi i re li confermavano con giuramento in quegli Stati de' quali per loro cortesia li aveano fatti signori.

Si vuole che gli abitanti del Sannio e delle altre provincie di questo nostro reame, stanchi del governo rapace de' Greci, invitassero i Longobardi a scendere in mezzo a loro; e scesero sotto il regno di Autari, l'anno 589; e tolto Benevento ai Greci, e occupata la Calabria e il Bruzio in sino a Reggio, formarono il ducato di Benevento, che poi pervenne a tanta potenza, che dominò quasi tutte le nostre contrade.

Autari fu il terzo re de' Longobardi, ed uno de' più grandi, e fu saggio e valoroso. Egli minacciò pene severe contro i furti, le rapine, gli omicidj, gli adulterj. Si spogliò e depose il gentilesimo, ed abbracciò la religione Cristiana da' Longobardi non prima ricevuta, i quali ad esempio del loro re passarono la maggior parte nella nuova religione del loro principe.

Benevento fu innalzata ad esser capo non pur d'una, ma di molte provincie, come del Sannio, della Campania, della Puglia, della Lucania, e del Bruzio; onde il ducato di Benevento fu un forte principato posto a reggere l'inferiore parte d'Italia, donde si potesse far argine ai Greci stessi ed ai Romani, da' quali spesso i Longobardi erano per questi lati marittimi assaliti ed in continue guerre esercitati.

Il primo duca di Benevento fu Zotone, più che per altro, ricordato per la sua rapacità, e per il memorabile sacco del monastero Cassinese. Molli altri seguirono a lui, ed ultimo fu quell'Arechi II, il quale formò il disegno di rendersi indipendente da' re Longobardi; ma Astolfo, che allora regnava in Pavia, nell'anno 749, lo cacciò di Benevento, e vi mandò i suoi gastaldi per governare in suo nome, e il Duca si rivolse allora a Carlomagno e lo invitò ad invadere la penisola italiana.

E Cario Magno venne, anche per seguire il desiderio del pontefice di Roma, e distrusse il regno de' Longobardi in Italia; ma non alterò l'amministrazione; e dispose che sotto le medesime leggi romane, o longobarde, secondo che a ciascuno piaceva vivere, si vivesse. Lasciò ai duchi il governo libero de' loro Stati, contento solo del giuramento che gli prestavauo di fedeltà; né trasferiva da essi ad altro il ducato, se non per fellonia, ovvero se senza figliuoli mancassero: e questa traslazione, quando si faceva in un altro, fu detta investitura: onde nacque che i feudi non si concedevano se non per investitura.

Ma come il duca Arechi tornò con l'aiuto di Cario Magno sul trono di Benevento, egli riprese l'idea di rendersi indipendente dal nuovo re dei Franchi; ma egli fu costretto a cedere, e praticare quello stesso atto di sommessione, consistente in un tributo annuale, che per lo innanzi si era dato ai Longobardi.

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Dopo la distruzione del regno de' Longobardi, il ducato di Benevento si cangiò in Principato, e Arechi Il fu il primo principe (1). A lui succedè Grimoaldo, al quale fu ordinato di abbattere le mura delle principali fortezze del suo principato, e di mettere il nome di Carlo, come sovrano, nelle pubbliche scritture e sulle monete. Ma infine egli scosse questo giogo, e dopo molti anni di guerra seppe rendersi indipendente.

In questo tempo Otranto, Bari, Gallipoli, Rossano e Napoli formarono altrettanti ducati, i cui duchi eletti dal popolo, ed indipendenti dall'imperatore greco, resisterono alla potenza de' Longobardi e de' Franchi. può dirsi lo stesso di Gaeta, Amalfi e Sorrento, che con Stabia, Miseno, Pozzuoli, e le isole d'Ischia, di Nisita e di Procida fecero appresso parte del ducato Napolitano. E dopo questo ingrandimento i duchi di Napoli presero spesso il titolo di duchi della Campania.

Cosi tutta la parte d'Italia, che forma oggi il reame di Napoli, fu divisa in contrade occupate da' Longobardi, il cui nodo principale chiudevasi nel ducato beneventano, ed in contrade marittime rimaste dipendenti dall'Esarca di Ravenna. E il ducato beneventano abbracciava quasi tutte le nostre provincie, e meritò, per la sua estensione, che i Greci, egli scrittori latini di quell'età, gli dessero il nome d'Italia cisliberina, e di Longobardia minore, per distinguerla dalla maggiore, che nella Gallia Cisalpina di qua e di là del Po da' Longobardi era dominata, e che ancora oggi ritiene il nome di Lombardia.

Grimoaldo fu un gran principe, di prudenti consigli e valoroso; ma egli non ebbe successori, e fu questa la prima cagione della decadenza del principato di Benevento.

Un altro Grimoaldo, ch'era stato tesoriere del primo, fu innalzato sul trono, l'anno 806; ed avea soavi costumi, ed era inclinato alla pace. Ma Radelchi, conte di Conza, e Sicone, gastaldo di Acerenza, cospirarono contro di lui e l'uccisero. E Sicone, eletto sovrano dal popolo, si sostenne contro i Franchi, e fece suo tributario il duca di Napoli; e da lui passò il principato al suo figliuolo Sicardo, il quale rinnovò la guerra contro i Napolitani, chiamando in suo aiuto i Saraceni di Sicilia. E cosi cominciarono queste nuove alleanze co' Saraceni, le quali sono chiara pruova della bassezza in cui erano caduti allora questi popoli nostri, che dopo essere stati messi a dure pruoye da' Barbari del settentrione, maggiori danni soffrirono da quei del mezzogiorno, che già eransi impossessati della Sicilia. Sicardo mandò suo fratello Siconolfo prigione in Taranto, e cacciò in esilio i più potenti sudditi, onde divenne odioso ed insopportevole, e fu ucciso, ed in suo luogo innalzato Radelchisio, ch'era stato suo tesoriere.

Radelchisio non si mostrò men fiero del suo predecessore, e fu questa la cagione per la quale i nobili oppressi procurarono la fuga di Siconolfo da Taranto e lo fecero principe di Salerno. Di qui venne una guerra ferocissima tra 'l principe di Benevento e quello di Salerno, e ciascuna delle due parti chiamo i Saraceni in suo aiuto; e non si videro in queste nostre contrade stragi più crudeli e spaventose, che quelle che furono fatte a questi tempi da' Saraceni cosi dell'una come dell'altra parte. Capua fu da' medesimi ridotta in cenere; molte città arse e distrutte; e quei che risedevano in Bari, avendo occupato Taranto, devastarono la Calabria e

(1) Egli prese il titolo di principe per mostrare con do più chiaramente i suoi sens¡, che erano di volere essere libero, non ad altri sottoposto.

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la Puglia e giunsero fino a Salerno ed a Benevento. Tutto era pieno di stragi e di morti, e scorrevano i Saraceni come raccolto diluvio, inondando i nostri ameni campi. E non cessarono queste calamità se non quando i Beneventani ebbero ricorso agli aiuti de' Franchi, i quali, fugando i Saraceni, posero pace tra' due principi, confermando Radelchisio nel principato di Benevento, e Siconolfo in quello di Salerno. Di queste discordie trassero partito i conti di Capua, per sottrarsi dalla dipendenza dei principi di Benevento e di Salerno; e quindi formaronsi tre signorie, e ciascuna avea i suoi gastaldi e i suoi castelli.

Ma i Saraceni non aveano isgombrate le nostre contrade, e rifacendosi delle loro perdite, correvano da una città all'altra, saccheggiando e distruggendo le vicine città, minacciando stragi e rovine alle più lontane. E fu bisogno di ricorrere più volte contro di essi al soccorso de' Franchi, e grandi aiuti si ebbero da Ludovico e da Carlo il Calvo. Ma quando non si ebbe più onde ricevere soccorso, poiché le forze degl'imperatori di Oriente erano lontane e deboli, e quelle degl'imperatori di Occidente rivolte ad altri scopi; allora queste nostre provincie caddero in un disordine orribile, combattute insieme e lacerate non meno da' proprj principi che da straniere nazioni. Pugnavano insieme i Beneventani, i Capuani, i Salernitaoi, i Napolitani, gli Amalfitani ed i Greci, e quando questi stanchi cessavano, eran sempre pronti ed apparecchiati i Saraceni, i quali sparsi da per tutto, ed avendosi in più luoghi del regno stabiliti ben forti e sicuri presidii, nel Garigliano, in Taranto, in Bari, e finalmente nel monte Gargano, afflissero cosi miseramente queste provincie, che non vi fu luogo ove non portassero guerre, saccheggiamenti e morti. Onde non pure i due più celebri e ricchi monasteri di Monte Cassino e di S. Vincenzo più volte ne patirono desolazioni ed incendi, ma queste stesse calamità furono sofferte anche da città cospicue e da provincie intere. Né valsero a snidarli di qui gl'imperatori di Oriente e di Occidente, né gli stessi principi longobardi.

E durò un tale stato di cose sino alla metà del 10° secolo, quando Pandulfo, denominato Capo di Ferro, riunì in un principato le signorie di Benevento, di Salerno e di Capua, aggiungendo il ducato di Spoleto e la Marca di Camerino. Ma come egli fu morto (anno 981), un si esteso dominio, che abbracciava quasi la metà dell'Italia, fu diviso in molte altre parti, per il costume biasimevole che aveano i principi longobardi di scompartire i loro dominii fra tutt'i loro figli. E quindi si formarono oltre a venti piccoli stati, senza tener conto de' nobili possessori di castelli, e degli Abati di Montecassino, i quali si consideravano come principi indipendenti. Cessata la discendenza di Cario Magno, le contrade italiane settentrionali caddero sotto la dominazione degl'imperatori di Germania, i quali accesero tra noi lunghe guerre e rivoluzioni, per istrappare queste provincie alla dominazione de' Greci.

Scadendo intanto gl'imperatori di Occidente, si rialzavano quelli di oriente; onde molte provincie nostre furono dominate da' Greci, i quali combatterono e con alcuni principi nostri, e con gl'imperatori di Occidente e co' Saraceni. E fondarono alcune città qui tra noi, e tra le altre, quella di Troia; e formarono il ducato di Bari, che fu la sede de' Catapani.

Continuarono i Saraceni a tormentare i paesi nostri marittimi, e, per salvarsi dalle loro stragi, molti abitanti delle coste si ridussero sulle cime de' più alti monti, ed ivi si stabilirono e si fortificarono.

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Nella lunga dominazione de' Longobardi e de' Greci, fu quasi del tutto abbandonata l'agricoltura, depresse e impoverite le industrie, ed il popolo fatto pigro ed ignorante; e le lunghe e sanguinose guerre desolarono le campagne e spopolarono gli abitati. Furono distrutti non solo i monumenti più illustri delle arti antiche, ma i libri ancora, che vennero incendiati o dispersi, molto più quando i due monasteri di Montecassino e S. Vincenzo a Volturno furono saccheggiati più volte da' Longobardi e dai Saraceni.

Ma crebbe il numero delle chiese e de' monasteri, e ne fu grande la magnificenza e la ricchezza per le larghe donazioni che riceveano ogni giorno, e per le quali cominciarono fino di allora ad avere particolari patrimonj. Nelle città beneventane era maggiore il numero de' seguaci di S. Benedetto; e nelle città greche e nel ducato di Napoli, maggiore il numero de' seguaci di S. Basilio. E i soli monaci, in mezzo a quella barbarie, ritennero l'arte e l'uso della scrittura, e ad essi dobbiamo i bellissimi manoscritti di quelle opere antiche, riputate le migliori per dottrina e per purità di stile.

La giurisdizione ecclesiastica si allargava sempre più, e varie città nostre, tra le più cospicue, furono innalzate da' Pontefici a metropoli; tali furono Capua, Benevento, Salerno, da cui dipendevano altri vescovi e motte chiese. Bari era capo di tutte le città della Puglia, e il suo vescovo si elevò sopra tutte le chiese sottoposte all'imperio greco. La metropoli più cospicua della Calabria fu Reggio, la quale, siccome Bari, era sottoposta ai patriarchi di Costantinopoli. E furono città metropolitane Otranto, Napoli, Amalfi.

E non porremo termine a questo periodo della mostra storia senza ricordare che sopra tutte le città nostre si elevarono e furono fiorenti Napoli, Benevento e Gaeta, quelle per le arti e le lettere, e questa per la navigazione ed il commercio.

Dominazione de' Normanni

(dall'anno 1016 al 1195)

Era nel Medio-Evo pietoso costume di visitare pellegrinando i Santuari più celebri della Cristianità; e qui tra noi erano assai frequentati quelli di Monte Cassino e Monte Gargano, questo per l'apparizione angelica, quello per la santità e i miracoli di S. Benedetto. Ma sopra tutte le città era celebre quella di Gerusalemme, dove pietosamente convenivano i cristiani per adorare la tomba di Gesù Cristo e sciogliere innanzi ad essa i loro voti. Gli abitanti del settentrione, più degli altri popoli vaghi di questo cristiano ufficio, si riunivano in gran numero per passare in oriente, e visitavano i nostri santuari nell'andare o nel ritorno. Né li arrestava o recava terrore la lunghezza del cammino o la difficile via, né il rigore de' tempi e delle stagioni, né la fame, né la seta, né qualunque altro pencolo.

Per siffatta occasione, nel principio dell'undecimo secolo, pervennero nella città di Salerno quaranta pellegrini Normanni, ritornando di Palestina. Il principe di Salerno, allora Guaimario III, li accolse lietamente; e siccome in quel tempo fu la città improvvisamente assalita da' Saraceni, ed i timidi abitanti si consigliavano di allontanarli con un vergognoso riscatto; quei pochi Normanni, ch'erano nella città, non volendo sopportare quella vergogna, piombarono come un fulmine sopra quei Barbari e l i dispersero.

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Quell'eroico valore riempi di maraviglia il principe di Salerno, il quale fece ogni opera per ritenere presso di se quei prodi guerrieri, e non li lasciò partire se non quando gli ebbero promesso di ritornare in più gran numero. E questo desiderio medesimo dimostrarono gli altri principi di queste nostre contrade, involti anch'essi in guerre sanguinose, tormentati ad un tempo da' Greci e da' Saraceni.

Guaimario offri ai Normanni abitazioni e carichi onorevoli, e li mandò con navi sue proprie, e diede frutti squisiti, vesti preziose di oro e di seta e ricchi arnesi di cavalli.

I Normanni vennero qui di Normandia, nell'anno 1016, e fecero Capua la prima loro stanza; e traendo partito dalla debolezza di quei principi nostri, divisi da gravi e rinascenti discordie, poterono facilmente dominarli e impossessarsi de' loro territorii. Essi fabbricarono la città di Aversa, e fu quello il loro primo stabilimento tra noi.

Capo de' Normanni era in quel tempo il conte Rainulfo, il quale invitò altri Normanni a scendere in Italia e riunirsi con lui, e nel 1035 vennero i figli di Tancredi conte d'Altavilla, e furono Guglielmo, Drogone ed Umfredo, che in breve tempo s' impadronirono di Mein e di altre terre della Puglia, cacciandone i Greci che vi erano abborriti. In queste imprese Guglielmo fece grandi prodigj di valore, e perciò gli fu dato il nome di Guglielmo Braccio di ferro.

I Normanni parteggiarono ora pe' principi Longobardi, ora pe' Greci, e combatterono contro i Saraceni, e giunsero a snidarti dalla Puglia e dalla Calabria. Ma i Greci usando maniere altere co' Normanni, ed essendo grave e duro il loro governo, corrotti i loro costumi, ed ampie e ricche le provincie da loro occupate, i prodi guerrieri del settentrione rivolsero contro di essi le loro armi; e fu cotanta la loro bravura ed il valore che, quantunque di forze e di numero molto inferiori, vinsero i Greci e ne fecero una strage immensa prima presso il fiume Olivento, poi presso Canne, e in fine sulle rive dell'Ofanto. E conquistate le ricche terre e città della Puglia, le divisero in fra loro; e Rainulfo, già conte di Aversa, ebbe la città di Siponto e il monte Gargano con le terre circostanti;Guglielmo ebbe la città di Ascoli; Drogone la città di Venosa; ed altre città ebbero gli altri capitani. La città di Melfi, ch'era la prima e la più forte piazza, che insino allora aveano acquistata i Normanni, restò comune a tutti, come il luogo dove potessero ragunarsi per deliberare de' comuni e più importanti interessi. Quindi Melfi levò il capo sopra tutte le attre città della Puglia, e merito che tra le sue mura si riunissero in un concilio il pontefice di Roma e i vescovi della Chiesa.

Mori Guglielmo nel 1046, e fu seppellito nella città di Venosa, e poco appresso mori Rainulfo; e nel contado di Puglia succedè Drogone. in quello di Aversa Riccardo.

E vennero due altri fratelli di Guglielmo, e furono Roberto, che poi fu detto Guiscardo, e Ruggiero, ed erano seguiti da molti altri Normanni, con fanti e cavalli, ma tutti in abito di pellegrini, come se andassero ai santuarii di Monte Cassino e Monte Gargano, per non essere fatti prigionieri da' Romani, i quali vedendo in Puglia cotanto fiorire questa gente straniera, già l'aveano per sospetta e nemica cosi degl'Italiani come dei Greci.

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Roberto Guiscardo fu adoperato in imprese nobili e generose; e tolte ai Greci la Puglia e la Calabria, i Normanni si levarono a tanta potenza, che Errico, imperatore di Germania, il quale riguardavasi come re d'Italia, non seppe negar loro l'mvestitura di quelle provincie.

A Drogone, ucciso vilmente, succedè Umfredo nel contado di Puglia.

Contro i Normanni venne Papa Leone IX; e quantunque vinto e fatto prigione, quei generosi guerrieri lo posero in libertà con grande ossequio; onde furono assoluti delle censure ed investiti delle terre conquistate e del le altre che potrebbero conquistare.

I Normanni, combattendo e vincendo sempre, si distesero sopra tutta la Calabria insino a Reggio; e poiché Roberto Guiscardo, succeduto nel contado di Puglia a suo fratello Umfredo, ebbe conquistata quell'antica ed illustre città, non fu più contento del titolo di conte, e con solenne augurio e celebrità fecesi salutare ed acclamare duca di Puglia e di Calabria. Ruggiero guidò i Normanni in Sicilia, e s'impadronì di una gran parte dell'isola, e Roberto lo investi del dominio di quella vasta contrada, e gli diede il titolo di gran conte; e cosi i due principi regnavano uno in Puglia e l'altro in Sicilia, e l'uno indipendentemente dall'altro.

Roberto strinse di forte assedio la città di Bari per mare e per terra, e fu memorabile quell'assedio e pieno di azioni gloriose; e tutto il ducato di Bari cadde sotto la dominazione de' Normanni.

Conquistò Roberto il principato di Salerno e di Amalfied il principato di Capua. Resistè alle armi del pontefice Gregorio VII, e conseguenza di questa guerra fu che il principato Beneventano fu tutto sottoposto ai Normanni, tranne la città di Benevento, che passò nel dominio della Chiesa Romana.

In quel tempo dunque Roberto dominava tutte le provincie che oggi formano il reame di Napoli, tranne la città di Benevento, e tranne il piccolo ducato di Napoli, che avea forma di piccola repubblica, retta da' suoi duchi e da' consoli, i quali per la declinazione de' Greci in queste parti aveano quasi che scossa quella subordinazione che prima aveano dagl'imperatori di Oriente.

Roberto portò la guerra in Grecia contro Alessio Comneno, e prese la città di Durazzo e l'isola di Corfù; ma essendo il papa Gregorio fatto prigione in Castel S. Angelo, vinto da Errico imperatore di Germania, Roberto, lasciando in Oriente il suo flgliuolo Boemondo, venne in Roma con forte armata; e mentre egli fugava in Italia l'imperatore di Occidente, facendo libero il pontefice, e con grande ossequio conducendolo in Salerno, Boemondo, venendo a battaglia con Alessio Comneno, ebbe anche la gloria di fugare in Bulgaria l'imperatore di Oriente. Ritornò Roberto a prender parte alla guerra di Grecia, e mori in Casopoli, piccolo castello posto nel promontorio dell'isola di Corfú, l'anno 1085, nell'età di 70 anni. Il suo cadavere fu portato in Italia, e seppellito nella città di Venosa.

Roberto visse in Italia dal 1047 al 1085, e lasciò da due mogli due flgliuoli maschi, Boemondo e Ruggiero. Vuolsi che per testamento egli lasciasse la Sicilia a suo fratello Ruggiero; a Boemondo suo primogenito lutto ciò che aveva conquistato in Oriente, ed a Ruggiero, suo secondogenito, tutto ciò che possedeva in Italia. E cosi regnando l'un Ruggiero in Sicilia, e l'altro in Puglia, vennero a stabilirsi col volger degli anni questi due regni, che, fra loro divisi, ciascuno con le sue proprie leggi ed istituti e co' proprj uffici si governava.

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Rivaleggiarono tra loro i due fratelli; ma cessarono le discordie quando Papa Urbano Il predicò la prima Crociata nell'anno 1095, chiamando tutt'i principi cristiani all'impresa di Terra Santa per ritogliere agl'infedeli il sepolcro di Gesù Cristo. E a quell'impresa presero parte, in fra gli altri, Boemondo e Tancredi, figliuolo del duca Ruggiero, e furono seguiti da molti altri Pugliesi, Calabresi, Siciliani, e di altre parti d'Italia, e ¡mbarcaronsi in Bari e navigarono verso Oriente, ove operarono grandi prodigi di valore, ed ebbero fama di prodi guerrieri.

Intanto alcune città nostre, a capo delle quali erano Capua ed Amalfi, si sollevarono con le armi alla mano; ma il duca Ruggiero le costrinse a cedere e ad obbedire. In aiuto di lui venne il G. Conte di Sicilia, il quale, essendo in Calabria, ebbe da Adelaide sua moglie, nell'anno 1097, un figliuolo, che fu battezzato per mano di S. Brunone, fondatore dell'ordine de' Certosini, che avea grande fama di santità, e a cui il conte era legato di strettissima amicizia. Al fanciullo fu posto nome Ruggiero, e fu quegli che poi divenne re di Napoli e di Sicilia.

Il conte Ruggiero, che da Urbano Il era stato fatto legato pontificio ncHa Sicilia, mori l'anno 1001, nella città di Mileto in Calabria, ed ivi nella maggiore chiesa gli fu innalzato un sepolcro, ove ancora"oggi si conservano le sue ossa gloriose.

Altri lutti seguirono a questo; e Boemondo mori nel 1111 iu Puglia, e il suo cadavere fu sepolto a Canosa, lasciando un figliuolo, che pure avea nome Boemondo, e che gli successe nel principato di Antiochia.

E lo stesso anno mori il duca Ruggiero in Salerno, dove con grande pompa e molle lagrime fu sepolto nella maggiore chiesa della città, ch'era stata innanzi edificata da Roberto Guiscardo suo padre. Né lasciò di sé altra stirpe vivente, se non Guglielmo natogli dalla duchessa Ala sua moglie, il quale, morto suo padre, gli succedette nel ducato di Puglia e negli altri suoi stati, e fu riconosciuto da Papa Calisto; ma non resse queste provincie che per 16 anni, e mori nella città di Salerno l'anno 1127.

La morte di quel principe cagionò alla fine che tutte queste nostre provincie si riunissero in una sola in forma di regno, poiché non avendo questo principe lasciato di sé figliuoli, estinta nel suo ramo la progenie di Roberto Guiscardo, non vi avea altro erede che il G. Conte di Sicilia Ruggiero, figliuolo dell'altro Ruggiero fratello del Guiscardo.

E Ruggiero, imbarcatosi in Messina, venne con forte esercito in Salerno, dove si fece consacrare principe di Salerno. Passò quindi in Reggio, dove fu salutato duca di Puglia e di Calabria; e ridusse sotto la sua dominazione Capua ed Amalfi, e il ducato di Napoli e di Gaeta.

Come Ruggiero ebbe composte con tanta sua gloria le cose di queste provincie, ed acquistata l'amicizia del pontefice Onorio, ritirossi in Palermo; e volendo prendere un più sublime titolo che non era quello di G. Conte di Sicilia e Duca di Puglia, prese quello di re di Sicilia, e fece Palermo capo del regno. Ed ivi, in presenza de' principali baroni, di molti vescovi ed abati, di tutta la nobiltà e popolo, si fece coronare re di Sicilia e di Puglia da quattro arcivescovi, che furono quello di Palermo, di Benevento, di Capua e di Salerno, ed ebbe l'investitura del regno da Papa Anacleto.

Intanto Innocenzio, vedendo che il partito di Anacleto, a cui Ruggiero erasi unito, era più potente del suo, si rivalse a Lotario imperatore, e fece di trarlo alla sua parte

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contro gli sforzi del suo rivale, e contro il re Ruggiero. Parteggiarono per Innocenzio molti baroni della Puglia e di altre nostre provincie, e, in fra gli altri, Roberto principe di Capua e Sergio duca di Napoli; ma Ruggiero, venuto di Sicilia con poderosa armata, dopo varia fortuna di guerra, dissipò i suoi nemici, obbligò Lotario a ritornare in Alemagna, ed Innocenzio a ritirarsi nella città di Pisa. Ma incitato da Bernardo, abate di Chiaravalle, che avea in quel tempo grande fama di santità, ritornò Lotario in Italia, ed abbattè le forze di Ruggiero, ritogliendogli le più belle provincie del reame, e, tra le altre città, quelle di Amalfi, dove furono trovate le pandette di Giustiniano, le quali furono da Lotario donate ai Pisani, in premio delle loro fatighe sofferte in quell'impresa, e poi sparse in tutte le scuole ed Accademie d'Italia.

Ma continuando la guerra, ed essendo morto papa Anacleto, e poco di poi Lotario imperatore, Ruggiero ricuperò le città perdute, e tutte queste nostre provincie col ducato napolitano si sottomisero al suo imperio. E in questa guerre Innocenzio fu falto prigione; ma vinto il pontefice dalla pietà del principe Normanno, e dalla grandezza e generosità del suo animo più che della sua forza, si compose in pace con lui; e avendo avanti gli occhi i meriti di Roberto Guiscardo e di Ruggiero suo padre, i quali con tanti sudori aveano estirpato dalla Sicilia e da queste provincie i Saraceni, implacabili nemici del nome cristiano, e si erano resi degni d'immortal fama, gli riconfermò il regno, del quale era stato investito da Onorio.

E in cotal guisa fu stabilito il regno; 6 queste nostre provincie sottoposte insino allora a vari principi, si unirono in una ampia e nobile monarchia, sotto la dominazione di un solo.

Ruggiero prese il titolo di re di Sicilia e di Puglia e di re d'Italia, e riordinò il reame con nuove leggi ed ufficiali. Imitando egli gl'istituti del regno di Francia, introdusse i grandi ufficiali della Corona, ed erano il G. Contestabile, il G. Ammiraglio, il G. Cancelliere, il G. Camerario, il G. Siniscalco; i quali risedevano presse il re in Palermo, e sopraintendevano ai vari rami delle pubbliche e delle regali amministrazioni. Il G. Contestabile sopraintendeva alla guerra e al comando degli eserciti; il G. Ammiraglio era capo delle armate navali; il G. Cancelliere sopraintendeva alla giustizia, capo di tutti gli ufficiali di pace, e dipendevano da lui i giustizieri e i protonotarii; il G. Camerario o G. Tesoriere era capo della camera de' conti ed ufficiale supremo delle finanze; e il G. Siniscalco, o giudice della casa del re, avea il governo della medesima.

Ruggiero fece il disegno di portare la guerra in Africa, e ragunata in Sicilia una grande armata, passò con essa nel reame di Tunisi, e prese la città di Tripoli e d'Ippona, e costrinse quel re a pagargli un tributo ogni anno. Rivolse quindi le sue armi vittoriose in Grecia, e assaltando l'isola di Corfú, ponendo a ferro e a fuoco i campi che circondano Corinto, dato il guasto all'Acaja e alla Beozia, trasse ricche prede, e condusse qui uomini esperti a comporre drappi di seta. E se non fosse stato impedito dai Veneziani, i quali richiesti dall'imperatore Emmanuele, erano venuti in suo soccorso con sessanta galee, egli avrebbe portato le sue vittoriose insegne sino sotto le mura di Costantinopoli.

Ma questi trionfi furono conturbati dalla morte di Errico, suo quintogenito, rimanendogli ora di tanti figliuoli sol due, Ruggiero duca di Puglia

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e Guglielmo duca di Napoli e principe di Capua. E crebbero i suoi travagli quando scoverse che l'imperatore Corrado (anno 1149) erasi ai suoi danni confederato con l'imperatore Emmanuele, e quando poco di poi nel medesimo anno gli mori Ruggiero, per la morte del quale il in calo di Puglia fu dato a Guglielmo. Da questo Ruggiero narrasi che fosse nato Tancredi, quegli che succedè al regno di Sicilia, riputato suo figliuol bastardo. Il vedovo re pensò di prendere un'altra moglie, e fu Sibilia sorella del duca di Borgogna; ma questa principessa nell'anno seguente 1150 trapassò anch'ella in Salerno, e fu sepolta nella Chiesa della Trinità della Cava. Ruggiero vedutosi cosi solo assunse per suo collega Guglielmo, c lo fece coronare ed ungere re di Sicilia in Palermo in quest'anno 1151; la qual cerimonia si fece da Ugone Arcivescovo di Palermo. E Ruggiero, morta Sibilia cosi di repente, senza che vi avesse potuto generar figliuoli, tornò a maritarsi e prese per moglie Beatrice sorella del conte di Retesta, la quale dopo la sua morte rimanendo gravida gli partorì Costanza, che poi essendo di anni 30, tolse per marito Errico di Svevia, che per sua cagione divenne poi re di Sicilia. Ruggiero lasciò la sua terrena spoglia in Palermo in età di 58 anni, l'anno 1154. E fu breve la sua vita alle magnifiche cose da lui operate, principe veramente grande e glorioso, provvido di consiglio e valoroso nelle armi: egli lasciò monumenti perenni non meno della sua magnificenza che della sua pietà; ed edificò un magnifico palagio in Palermo, un magnifico tempio in Bari a Niccolò vescovo di Mira. Donò molti nobili arredi di oro e di argento alla Cappella di S. Matteo in Salerno, ed il dominio di molte terre ed altri ricchi doni al Monastero della Trinità della Cava.

Il regno di Guglielmo I non tanto per le forze di esterior nemico, quanto per le interne rivoluzioni de' suoi baroni fu tutto perturbato e sconvolto; e si rese memorabile più per le congiure e sedizioni contro la sua persona e de' maggiori personaggi della sua corte, che per guerre e battaglie. E cagione di tanti mali fu egli stesso, il quale tenendo a vile le azioni dell'ottimo padre, cacciò in esilio o in prigione quasi tutti quei personaggi ch'erano stati familiari del re Ruggiero; ed innalzò un tal Maione di Bari ai primi onori del regno, e lo fece G. Ammiraglio, e pose ogni potere nelle sue mani, e lasciò a lui di governare con assoluto arbitrio i suoi reami. Maione avea pronto ingegno ed abile a qualunque più dura e difficile impresa; assai facondo nel dire, dotato di liberalità regia, avido di dominare, fece di aprirsi la via al regno, acquistandosi partigiani, donando ai suoi il governo delle provincie, le guardie delle fortezze, i carichi delle milizie, e associando ai suoi disegni Ugone Arcivescovo di Palermo, e distruggendo i suoi nemici, e quei nobili personaggi del regno, ch'egli non avea speranza di potere corrompere.

Intanto il papa Adriano IV, che allora reggeva la Cattedra di S. Pietro, offeso perché Guglielmo si era fatto incoronare re in Palermo, senza sua concessione ed autorità, non voile avere amichevoli relazioni col re, e l'uno e l'altro sdegnati fieramente, vennero a guerra aperta, e Guglielmo ordinò che fosse posto il guasto al territorio di Benevento; ma resistè fortemente la città; ed essendosi molti baroni del regno ribellati con lui e parte entrati in Benevento, parte fuggiti dal campo; e avendo col papa Adriano fatto lega l'imperatore Federico I, il quale mirava alla dominazioni universale, e l'imperatore di Oriente Emmanuele Comneno, il quale

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credeva di aver diritto sul reame delle Sicilie, così Guglielmo si vide in mezzo a due potenti nemici, oltre ai gravi ostacoli che gli preparava Majone, il quale vide non potersi aspettar miglior tempo per condurre a fine i suo' lunghi divisamenti. In questo il re si chiuse nel suo regal palazzo,

0 per grave infermità sopraggiuntagli, o per altra cagione, e non si faceva né vedere né parlar da niuno, se non dall'arcivescovo e da Maione; il perché si sparse fama pe' suoi regni ch'egli fosse morto avvelenato dall'ammiraglio. Questa fama divolgata nel reame cagionò sí gravi movimenti, che si videro in un subito molte provincie sconvolte; poiché Papa Adriano non si lasciando scappare tale occasione, sollevò tosto i baroni della Puglia contro il re, e quelli che Guglielmo avea discacciati; onde si videro in un subito ardere la Calabria, la Puglia e Terra di Lavoro in una crudelissima guerra, e piene di tumulti e di sedizioni. E se non bastarono

1 tumulti di queste provincie a torre il re dal suo lungo letargo, furono bastanti quelli che vide nella Sicilia e nella stessa città di Palermo; onde, lasciati gli agi del Palazzo, e messo a capo di forte esercito, restituì l'isola all'antica quiete, debellò i ribelli, pose la pace in tutto il regno, cacciò i Greci, e ridusse a tale il pontefice che volle comporsi in pace con lui, ed investirlo del regno, e concedergli non solo il regno di Sicilia e il ducato di Puglia, ma i principati di Salerno e di Capua, e Amalfi e Napoli.

Per vendicarsi poi dell'imperator greco, mandò contro di lui una flotta assai numerosa, la quale avendo disfatta quella de' Greci, e prese molte città nel Peloponneso, l'imperatore gli domandò pace, e volle restare con lui in amichevoli relazioni, riconoscendolo e chiamandolo re.

Dopo ciò cospirarono i baroni del regno contro Maione, e Matteo Bonello l'uccise; e nuova congiura ordirono contro il re Guglielmo per torgli il regno e darlo a Ruggiero suo figliuolo di nove anni, e aveano quasi imprigionato il re; ma contro di essi si levò il popolo, e dimandò che fosse liberato. Il re Guglielmo posto in libertà riprese il governo del regno; vide cader morto il duca Ruggiero suo figliuolo, che sin d'allora dava chiari segni di avere a riuscire ottimo principe; vide ardere nuovi tumulti in Palermo e nelle Calabrie e in Puglia; abbattè e spense i ribelli, usando contro di essi grandi rigori; e tornato in Palermo, e acquistato presso i Siciliani il nome di Guglielmo il Malo, mori nel suo palazzo l'anno 1166, lasciando alcune provvide ed utili leggi.

La morte di Guglielmo si tenne occulta per alquanti giorni dalla regina Margherita, temendo di non destarsi nel popolo alcun movimento, fino a che venuti a Palermo molti baroni chiamati da lei, fu proclamato re Guglielmo suo figlio, dell'età di 12 anni. Coronato nella chiesa cattedrale da Romoaldo arcivescovo di Salerno, per allettare gli animi de' sudditi al governo del nuovo re, la regina sua madre liberò dalle prigioni coloro che vi erano ritenuti per le passate vicende; richiamò tutti gli esiliati; fece molte concessioni alle chiese ed ai baroni, e tolse motti balzelli.

Due anni dopo il re Guglielmo mandò un'armata e molto danaro in aiuto di papa Alessandro III, contro l'imperatore Federico I. Intanto Emmanuele imperator greco, avendo offerta la sua figliuola in moglie a Guglielmo, venne questi a Taranto insieme col suo fratello Errico principe di Capua per aspettarvi la sposa; ma Errico infermatosi, ritornò nella Sicilia, ove mori.

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Scorso alcun tempo, né curando l'imperatore Emmanuele di mandare la sposa, Guglielmo, partito da Taranto, venne a Capua, donde poi ritornato nella Sicilia, spedi una flotta assai numerosa in Alessandria in aiuto de' Cristiani contro di Saladino, famoso soldano di Babilonia. E avendo Guglielmo ricusato le nozze della figliuola dell'imperator Federico, che questi offerta gli avea, con una perpetua alleanza con lui, sposò Giovanna figliuola di Errico Il re d'Inghilterra. Di che offeso altamente l'imperator Federico, ordinò all'arcivescovo di Magonza suo Cancelliere d'invadere il regno con l'armata che comandava nelle vicinanze di Ancona; al quale essendosi opposte le genti del re nella Puglia, guidate da Tancredi conte di Lecce, e da Ruggiero conte di Andria, obbligarono il Cancelliere a ritirarsi da' confini del regno.

Contro l'imperator Federico si formò in quel tempo la lega delle città lombarde, alle quali erasi unito il Papa e re Guglielmo; e dopo lunga e sanguinosa guerra, infruttuosa per l'imperator di Germania, si composero in pace, e i patti furono stabiliti nella città di Venezia.

Seguita la pace, Guglielmo mandò Tancredi conte di Lecce con potente flotta ad invadere la Grecia per vendicare le barbare crudeltà che l'imperatore Andronico avea commesse in Costantinopoli contro i Latini. E approdata in Grecia l'armata del re, prese Durazzo, Tessalonica, ed altre città, per cui il popolo in Costantinopoli, irritato da tali perdite, depose e fece morire Andronico: ed avendo Isacco Angelo occupato l'Impero, il general greco, ch'erasi opposto a Tancredi con un'armata assai numerosa, avendogli offerta la pace, lo persuase a ritornare nella Sicilia.

Poiché dopo nove anni del suo matrimonio non avea Guglielmo figliuolo alcuno, l'imperator Federico chiese Costanza zia di Guglielmo per il suo primogenito Arrigo re de' Romani. Costanza era figlia del re Ruggiero nata dopo la morte di lui, ed in tempo del suo matrimonio dell'età di 32 anni. Essendo allora la sola apparente erede della corona, i Siciliani si opposero a tal matrimonio, perché non passasse il regno a sovrani stranieri; ma persuaso il re dall'arcivescovo di Palermo, vi acconsenti; ed avendo obbligato i conti ed i baroni del regno a giurare, che, s' egli morisse senza figliuoli, avrebbero riconosciuta Costanza per loro sovrana, la mandò con gran pompa a Rieti, donde condotta a Milano fu celebrato il suo matrimonio.

Non sopravvisse Guglielmo che poco tempo a quel matrimonio, e mori senza prole a Palermo nell'età di anni 36, dopo averne regnato 24, ed essendo stato sempre l'amore de' suoi sudditi, i quali nel governo suo godevano sicura e tranquilla pace. Egli lasciò leggi salutari; sollevò di molti gravosi tributi i suoi sudditi; e, trovato nelia fortezza di Palermo un tesoro nascosto da suo padre, fabbricò il famoso monastero di Monreale. Fu terrore de' nemici, fu rispettato sempre da' re stranieri, ed ammirato come il migliore de' Principi.

I Normanni seguirono le leggi longobarde, e presso la plebe, ch'è l'ultima a deporre gli antichi istituti, erano rimaste come antica usanza, e non come legge scritta. Le discipline risorsero in mezzo a loro per l'opera de' monaci Cassinesi e degli Arabi, che tanto fecero avanzare lo studio della filosofia, della medicina e delle matematiche. E la scuola di Salerno, a cominciare da quel tempo, fu per molti secoli chiara e luminosa nell'Occidente; e fu la prima istituita in queste nostre provincie dopo la decadenza dell'impero romano e lo scadimento dell'Accademia di Roma.

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I libri più studiati erano quelli degli Arabi, presso i quali erano tenuti in grandissime pregio Aristotile, Ippocrate, Galeno.

Fiorirono tra noi la navigazione ed il commercio; e gli Amalfitani, sopra tutti gli altri, si resero potenti in mare, ed espertissimi nell'arte nautica, tanto che i Greci gli ebbero per valido presidio, ed in essi fondarono le maggiori speranze per le cose marittime. Ed avanzarono tanto in questo mestiere, che, oltre alle frequenti navigazioni per le vie dell'Oriente, furono riputati arbitri delle controversie marittime, siccome in altri tempi erano stati i Rodiani.

Dominazione degli Svevi

(1195 1266)

Per la morte di Guglielmo Il senza figliuoli, il regno si divise fra due potentissime fazioni, che vi sostennero lunga ed ostinata guerra. L'arcivescovo di Palermo con molti baroni riconobbero erede del regno Costanza, la quale era allora in Germania col suo marito: il Cancelliere ed altri baroni, sapendo l'odio de' Siciliani al governo tedesco, proclamarono re Tancredi conte di Lecce, figlio naturale del duca Ruggiero; e fattolo venire a Palermo, fu incoronato re e riconosciuto quasi generalmente nell'Isola.

In questo l'imperatore Federico I, che avea condotta in Asia una potente armata in aiuto de' cristiani di Terra Santa, dopo molte sue gloriose imprese, avendo voluto bagnarsi nel fiume Cidno', vi peri. E Arrigo, fatto imperatore, entrò nel regno con forte armata; e preso di assalto il forte castello di Arce, sparse il terrore in tutte le vicine città, che a lui si sottoposero, in fino a Napoli, ove erasi ritirato Riccardo conte della Cerra. Le alle mura della città, e la libera comunicazione col mare, donde era soccorsa, rendettero vani gli sforzi di Arrigo, il quale preso da morbo epidemico, e perduta una gran parte del suo esercito, fu costretto dopo quattro mesi di sciogliere l'assedio, e ritornare nella Germania, lasciando in Salerno sua moglie Costanza, la quale fu per volere di Tancredi ricondotta in Germania con magnifici doni.

Poco di poi mori Tancredi nella Sicilia, lasciando il regno a Guglielmo suo figliuolo di poca età. E allora l'imperatore Arrigo venne di Germania con numerosa armata; ed entrato nel regno per la Campania fu accolto da motti baroni, mentre Napoli e Gaeta si rendettero alla flotta de' Pisani e de' Genovesi, venuti in aiuto di Arrigo. Sottoposte le città della Puglia, fu presa Salerno di assalto e saccheggiata, e, uccisa gran parte de' suoi cittadini, ed altri mandati in esilio, ebbe le mura abbattute. Poi passò nella Sicilia, dove sparse tanto terrore che, senza contesa alcuna, si rendette padrone di tutta l'isola. E la regina Sibilla, vedova di Tancredi, col suo piccolo Guglielmo e le due sue figliuole, e con molli nobili del regno furono mandati prigioni in Germania. Venendo in Italia l'imperatrice Costanza, partori un figliuolo (anno 1194), a cui fu dato il nome di Federico Ruggiero, il quale fu poi l'imperatore Federico II.

Arrigo usò nel regno maniere crudeli, e pose tasse gravissime; di che sdegnata fortemente l'imperatrice Costanza, unita a motti de' suoi, cercò di sorprenderlo e togliergli ogni potere. Quindi mentre che Arrigo era all'assedio di un castello, venuta ella a Palermo, s'impadronì del tesoro, dichiarandosi apertamente contro di lui;

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dal quale esempio incoraggiati i Siciliani posero a morte un gran numero di tedeschi; e Arrigo si salvò in un forte castello, e ne usci libero poi che ebbe promesso di far partire la sua armata per Terra Santa; ma poco dopo mori non senza sospetto di veleno.

L'imperatrice Costanza fece venire in Sicilia il suo piccolo Federico; e morendo ella poco di poi, credendo di rassicurare il regno al suo figliuolo col potere del papa, allora assai grande e temuto, dichiarò suo tutore lnnocenzio; onde i papi pretesero poi di amministrare il regno nella minore età de' Sovrani di Napoli e di Sicilia, quando pure dal morto re non vi fossero chiamati.

Innocenzio accettò nettamente la tutela di Federico, e mandò subito nella Sicilia un Legato al governo del regno, per ricevere il giuramento di fedeltà da' prelati e baroni, come tutore del re. Ma la minore età di Federico fu turbata da gravi sedizioni e discordie.

E qui venne Valtero conte di Brenna, fratello di Giovanni di Brenna re di Gerusalemme, e domandò al papa il principato di Taranto e la contea di Lecce, i quali stati diceva doversi alla sua moglie Albinia per virtù di trattato fatto tra Sibilla e l'imperatore Arrigo.

Qui venne Ottone VI di Germania con forte esercito, e s'impadronì della Campania e della Puglia; ma poiché il papa pronunziò contro di lui sentenza di scomunica, ei perdè la Germania, e fu eletto imperatore il giovane Federico re di Sicilia. Quindi Federico lasciò in Sicilia la sua moglie Costanza, che già avea partorito un figliuolo cui erasi dato il nome di Arrigo, e passando per Roma pervenne in Aquisgrana, ove fu coronato imperatore l'anno ventesimo della sua età. Ritornò poi in Italia, e venuto in Roma, ricevè insieme con Costanza sua moglie la corona imperiale da papa Onorio, l'anno 1220, nella Chiesa di S. Pietro, giurando di difendere i dritti e lo stato della Chiesa Romana, e passare con un'armata alla conquista di Terra Santa.

Federico venne nel regno, e ricondusse la calma e l'ordine dopo le civili discordie sostenute con tanto furore dalle contrarie fazioni. Distrusse l'anarchia feudale in che erano caduti molli potenti baroni del regno; aboli le leggi di Tancredi e di Ottone, e ne pubblicò molte sue per il governo de' popoli.

Raccolse e mandò molto danaro in soccorso di Damiata, e poiché cadde quella città in potere del Soldano, Federico promise a papa Onorio di partire fra certo tempo con forte armata in aiuto di Terra Santa. Combattendo egli intanto i Saraceni nella Sicilia, mori l'imperatrice Costanza nella città di Catania; e allora papa Onorio, e Giovanni di Brenna re di Gerusalemme, perché Federico passasse prontamente in Terra Santa, gli proposero in moglie Jole, unica figliuola ed erede di esso Giovanni e d'Isabella sua moglie, sorella di Baldovino, stato re di Gerusalemme. E Jole fu la seconda moglie di Federico, e gli portò in dote i dritti e il titolo di re di Gerusalemme.

Federico fece di migliorare gli studi dell'Accademia di Napoli; amò le lettere e le scienze e i loro cultori; e chiamò in Napoli, antica madre degli studii, gli uomini di maggior fama per scienza e probità.

Poco di poi cominciarono le contese di Federico co' papi, che divennero tanto funeste al reame e ai suol successori. Federico non volle riconoscere

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i vescovi ch'erano stati nominati dal papa senza il suo consentimento, e la discordia si diramò nelle città italiane; le quali erano già divise in due parti, ed erano dette ghibelline quelle amiche dell'imperatore, e guelfe quelle ch'erano contro di lui, amiche del papa.

Morto papa Onorio, fu eletto Gregorio IX, il quale fece di spingere l'imperatore Federico a passare in Terra Santa, tanto più che un esercito di Crociati era a Brindisi condotto dal Langravio di Turingia; e Federico entrò in mare insieme col Langravio, e giunse ad Otranto; ma ivi il Langravio mori e Federico infermò gravemente; onde gli fu impedito di continuare il viaggio. Il papa non credè vero quello che Federico diceva, e lo scomunicò; e l'imperatore scrisse ai principi di Europa dolendosi di questa ingiustizia; e, ordinando che i preti e i frati non interrompessero il culto degli altari, minacciò guerra al papa.

Intanto mori l'imperatrice Jole, dopo di aver partorito un figliuolo cui fu dato il nome di Corrado. E Federico, chiamati i baroni del regno nella città di Bari, dichiarò suo successore ed erede Arrigo suo primogenito, al quale, se fosse morto, succedesse Corrado; e quindi riunito un forte esercito, s'imbarcò ad Otranto e passò in Oriente. Giunto Federico a Cipro, mandò ambasciatori al Soldano di Egitto, chiedendogli il regno di Gerusalemme, che diceva di appartenere al suo flglio Corrado, come erede di Jole sua madre. Ma come seppe che il papa avea invaso il regno, per correre alla sua difesa, conchiuse col Soldano una tregua di 10 anni, ed ebbe la città di Gerusalemme con altre città vicine e castella; e Federico prese possesso di Gerusalemme, ed egli stesso si pose sulla testa la corona di quel regno.

Come Federico fu giunto nel regno, ritornarono a lui le città che gli erano state tolte, e il papa accett6 la pace, la quale fu giurata nella Chiesa di S. Germano.

Non avendo quindi Federico alcun nemico nel regno, intese alle cure di pace, e riunita un'assemblea nella città di Melfi, pubblicò il Codice delle sue costituzioni, compilato dal famoso giureconsulto Pietro delle Vigne, nato nella città di Capua, e che per l'ingegno e dottrina sua, Federico fece suo cancelliere e protonotario dell'Impero e de' regni di Puglia e di Sicilia. Questo codice è il primo e più antico ne' regni di Europa dopo l'impero Bomano; e vi avea leggi intorno alla religione ordinate a sostenerne la verità, e difenderla contro qualunque attacco; era vietato di potere vendicare di per se stesso le ingiurie ricevute, o di occupare violentemente i beni altrui, ed era dichiarato che il dritto di giudicare i sudditi apparteneva alla Sovranità, e quindi era abolita qualunque illecita usurpazione che altri ne avesse fatta. Aboli la pruova del fuoco ed altri strani esperimenti, che i Longobardi e gli stessi Normanni aveano sostenuti ne' giudizj, come mezzo per dimostrare la verità de' fatti, de' quali si contendeva; e permise il duello solo ne' delitti di Maestà, o di occulto omicidio, ove per opera di testimoni i giudici non potessero scoprire la verità.

E molte altre savie leggi egli diede, in armonia co' costumi e co' tempi; e fece di rendere più spedito ed abbondante il commercio, riducendo i gravosi dazj posti sulle merci, ordinando alcune pubbliche fiere ogni anno; ed istituì le Corti generali di Giustizia, da tenersi in suo nome nelle provincie ne' mesi di maggio e di novembre ogni anno; ed alle quali si ricorreva per qualunque torto ricevuto da' giudici, e per ogni danno od ingiuria, che altri avesse recato ne' beni o nella persona de' sudditi.

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Quelle corti riunivansi per le provincie delle Calabrie nella città di Cosenza; per la Puglia, la Capitanata e la Basilicata nella città di Gravina; per il Principato, Terra di Lavoro e Contado di Molise nella città di Salerno, e per gli Abruzzi nella città di Sulmona.

Intanto le città lombarde trassero nella loro lega Arrigo re di Germania, primogenito dell'imperator Federico, promettendogli la corona d'Italia; ed egli si uni ai collegati per gelosia del minore fratello Corrado, dal padre amato grandemente. Ma come Federico fu giunto in Germania, seguito da molti principi tedeschi, Arrigo non seppe resistergli, e credette miglior consiglio d'implorare il suo perdono; ma il padre lo mandò prigione in un forte castello di Puglia, dove mori dopo due anni. Venne Federico in Lombardia con forte esercito; ma respinto da' Milanesi fu costretto a ritirarsi. Vinto poi il duca d'Austria, che erasi da lui ribellato, e fatto re de' Romani Corrado suo figlio, tornò con maggiori forze in Lombardia, disfece l'esercito de' collegati a Cortenuova, e le città della lega si sottoposero a lui tutte, tranne Milano, Bologna, Alessandria e Brescia.

E il papa Gregorio IX, temendo non volesse l'imperatore occupare lo Stato della Chiesa, si uni ai Veneziani e ai Genovesi, i quali l'imperatore volea pur sottoporre al suo alto dominio. E il papa scrisse lettere a molti vescovi e principi, duolendosi di Federico, ed accusandolo di molte ingiustizie ed usurpazioni. Federico rispose a quelle accuse; ma il papa nulla curando le sue giustificazioni, pubblicò contro di lui nel giorno delle Palme una sentenza di scomunica (anno 1239).

Per la qual cosa crebbe lo sdegno da una parte e dall'altra, e la guerra fu viva e sanguinosa in Italia. In questo mori papa Gregorio; e dopo pochi giorni mori Celestino IV, succeduto a lui. E allora fu proclamato in Anagni il Cardinal Sinibaldo, amico di Federico, il quale prese il nome di Innocenzo IV.

Federico mandò al nuovo papa l'arcivescovo di Palermo, Pier delle Vigne e Taddeo da Sessa con proposizioni diðacå; ma non si convenue nei patti, e, rotto ogni accordo, si tornò alle armi. Il papa Luíanto, essendo nella città di Lione, intimò un Concilio generale, e scrisse a tutt'i vescovi della Cristianità e ai principi, e chiamò l'imperator Federico per rispondere alle accuse che si facevano contro di lui. Federico fu accusato di eresia, di sacrilegio, di alleanza con gl'infedeli, e di spergiuri. E gl'inviati dell'imperatore risposero a quelle accuse; ma irremovibile il papa pronunziò contro di lui in mezzo al Concilio sentenza di scomunica, e lo depose dall'imperio. Ma portò Federico le sue querele a tutt'i principi di Europa, e seppe sostenere il suo dritto. I principi Cristiani lo riconobbero imperatore; ed i soli arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Treveri, con pochi altri principi tedeschi elessero re di Germania il Langravio di Turingia, che l'anno dopo mori per dolore di essere stato vinto e disfatto in una battaglia dal re Corrado, figliuolo di Federico. Il papa mandò pure due cardinali, come suoi Legati in Puglia, per commuovere il regno contro di Federico; ma furono vinti e dissipati i ribelli, e molti messi a morte. Pier delle Vigne venue anch'egli in sospetto all'imperatore e gli furono cavati gli occhi, nel qual misero stato non volendo egli vivere, da se stesso si uccise.

Ardeva intanto la guerra in Italia, dove Federico avea sofferte gravi perdite,

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per riparare alle quali fece grande apparato di gente e di danaro con una gravosa tassa imposta nel regno: ma caduto infermo nel castello di Fiorentino, mori nell'anno 1250, cinquantesimo di sua età, e trentesimo di regno.

Federico lasciò con testamento erede dell'imperio de' regni di Puglia e Sicilia e degli altri suoi Stati il suo primogenito Corrado re di Germania, a cui, morendo senza prole, volle che succedesse Arrigo altro suo figlio, che gli era nato da Isabella sua sesta moglie, figliuola di Giovanni, re d'Inghilterra. E morendo ancor questi, dichiarò erede Manfredi, figliuol suo naturale, lasciandogli intanto i contadi di Montescaglioso, di Tricarico, di Gravina, di Montesantangelo ed il principato di Taranto; e facendolo intanto suo Balio in Italia, e ne' regni di Puglia e di Sicilia.

Federico è da riguardare come novello fondatore di questa monarchia, ch'egli trovò sconvolta e divisa in tante parti contrarie, sottoposta all'arbitrio de' più forti. Egli seppe ricomporla con savie e provvide leggi, e far crescere e fiorire le arti e le scienze.

Per la morte di Federico, prese Manfredi il governo del regno in nome di suo fratello Corrado, ch'era in Germania. E papa Innocenzo scomunicò Corrado e le città ghibelline, e scrisse ai Napolitani ed ai baroni del regno di non ubbidire' ad altri che alla Sede Romana. E molte città nostre innalzarono le bandiere pontificie; ma Corrado, venuto di Germania con forte esercito, ridusse ad obbedienza le città ribelli, di cui fece abbattere le mura, e saccheggiare ed ardere le terre; e cost caddero, tra le altre città, Capua e Napoli.

Essendo Corrado nella Puglia, riunï un general parlamento nella città di Melfi; ma ivi infermò gravemente, e dopo cinque giorni morí nelle vicinanze di Lavello, odiato da tutti per la sua fierezza e crudeltà, lasciando erede Corradino suo figliuolo, fanciullo di soli due anni, il quale allora era in Germania.

Prese Manfredi il governo del regno, ed essendo che il papa mando milizie per invaderlo, e ad esso si unirono molti baroni, i quali odiavano i tedeschi per le rapaci e crudeli loro maniere, queste nostre provincie furono teatro di guerra, e per lungo tempo agitate e sconvolte. E Manfredi combattè felicemente contro papa Innocenzo, il quale mori in Napoli l'anno 1254, e contro il suo successore Alessandro IV. Ed avendo costrette ad obbedire tutte le provincie e città nostre, e tutt'i baroni i quali aveano parteggiato per il papa, andato Manfredi nella Sicilia, e levatasi d'ogn'intorno la. voce di esser morto nella Germania il piccolo Corradino, i baroni e i prelati del regno, uniti a quelli di Sicilia, persuasero Manfredi a prendere la corona di re.

Ed egli giovane, valoroso, bello, di reale aspetto, caro al popolo per la sua liberalità, e per le semplici e cortesi maniere, protettore delle arti più nobili e delle scienze, fu in mezzo a tutti gli ordini della società, con solenne pompa coronato re in Palermo.

Venne quindi nel regno, e convocata una curia generale in Foggia, pubblicò molte savie leggi, e rallegrò il popolo con pubbliche feste e tornei, e mandò truppe nella Marca d'Ancona e in Lombardia in aiuto dei Ghibellini.

Intanto vennero a Manfredi ambasciatori della regina Margherita madre di Corradino, dichiarando in nome di lei non essere morto ma vivo il suo figliuolo, onde dovesse Manfredi deporre il titolo di re, e punire coloro che aveano sparsa la voce della morte di Corradino.

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Manfredi rispose ch'egli avea conquistato il regno contro le armi e il potere di due pontefici che l'aveano occupato; e che deporre allora il titolo di re, sarebbe rendere più forte il partito del papa, e ch'egli terrebbe il regno per suo nipote Corradino, e glielo trasmetterebbe dopo la sua morte.

Mori papa Alessandro, e fu Urbano IV il suo successore, il quale si rivolse minaccioso contro Manfredi, ordinandogli di uscire dal regno, che egli riguardava come dritto della chiesa romana. E pubblicata contro di lui una sentenza di scomunica, offri il regno a principi stranieri, e lo accettò il fratello del re di Francia, Carlo Conte d'Angiò e di Provenza.

Il quale, spinto pure da papa Clemente, che succedè ad Urbano, venne in Italia, e quindi entrò nel regno con forte armata, poiché il conte di Caserta, cui Manfredi avea confidato la difesa del ponte di Ceperano, abbandonò vilmente quel posto. Condotto poi l'esercito a Benevento, nelle cui vicinanze Manfredi era accampato, segui feroce e sanguinosa battaglia, nella quale Manfredi, vedendosi abbandonato da quelli fra' suoi, nei quali più confidava, si spinse in mezzo ai nemici con pochi che lo seguivano, e combattendo valorosamente cadde trafitto da molte ferite; e l'armata, perduto ogni coraggio, per la morte del suo re, restò del lutto sconfitta. Carlo entrò nella città di Benevento, la quale fu per più giorni saccheggiata e ripiena di uccisioni e di crudeltà; e tutte le altre città del regno, saputa la morte del re, innalzarono le bandiere angioine.

Sotto la dominazione de' re Svevi crebbe la coltura delle lettere e delle scienze, e la nostra Napoli fu celebrata per la sapienza de' nostri giureconsulti Pietro delle Vigne, Taddeo da Sessa e Roffredo Beneventano, che si elevarono sopra tutti gli altri.

I pontefici romani s'innalzarono in quel tempo sopra tutt'i re della terra, e stendevano la loro mano in ogni regno e provincia. Lo stato ecclesiastico era nel suo maggiore splendore e floridezza; e gli ecclesiastici, come quelli che meglio de' laici s'intendevano di lettere, erano riputati migliori e più sufficienti ad amministrare la giustizia. In questo tempo ebbe origine l'inquisizione, e furono minacciate pene asprissime contro gli eretici. Gli ordini religiosi acquistavano più larghe proporzioni; ed allora ebbero principio l'ordine de' Predicatori, fondato da Domenico de' Cusmani, il quale mori a Bologna nel 1221; l'ordine de' Frati Minori, fondato da Francesco di Assisi; la Congregazione degli Romiti di S. Agostino, istituita da papa Alessandro IV; l'ordine de' Carmelitani, creato nel 1121 da alcuni eremiti del monte Carmelo.

Federico ordinò altrimenti le provincie che formano il nostro reame, le quali dopo essere state divise in gastaldati sotto la dominazione de' Longobardi, furono divise in giustizierati sotto la dominazione de' Normanni e degli Svevi; ma alcune di esse presero un nuovo nome, ed alcune altre anche una nuova divisione. Esse erano: I. a Terra di Lavoro, la quale comprendeva il giustizierato di Capua, e tolse quel nome dalla dolcezza del terreno atto ad ogni travaglio e lavoro, e dall'ubertà ed abbondanza dei subi campi, ed estendevasi dal Sele al Garigliano. II.a Principato Citra, III. Principato Ultra, che comprendevano la regione anticamente abitala da' Picentini, dagl'Irpini e parte da' Lucani. Ebbe quel nome da Arechi, il quale cangiò in principato il ducato di Benevento, che poi venne diviso in due.

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IV. Basilicata, la quale occupava molta parte dell'antica Lucania e parte della Magna Grecia, ed ebbe quel nome da Basilio imperator d'Oriente, o da qualche capitano greco di quel medesimo nome, ivi mandato per governarla. V.a Calabria Cura. VI. a Calabria Ultra, divisa ai tempi di Federico in Terra Jordana e Val di Crati, le cui città capitali erano Catanzaro e Cosenza; ed estendevansi dall'una e dall'altra parte dell'Appennino fino al Jonio e al Tirreno. VII. a Terra di Bari. VIII. a Terra di Olranto, le quali tolsero il nome, l'una da Bari, antica ed illustre metropoli e capo di quella regione, e l'altra da Otranto, città pur ella chiara e rinomata ne' Salentini. Queste provincie comprendevano l'antica Peucezia, la Calabria, la Japigia e la Salentina. lX. a Capitanata, nelle regioni della Daunia e della Japigia, la quale ebbe quel nome da' Greci, che vi mandarono un nuovo governatore per tenere in freno la Puglia, chiamandolo non più Straticò, come gli altri di prima, ma Catapano. X. a Contado di Molise, piccola provincia, che prese quel nome da Molise, città antica del Sannio. XI. a Abruzzo Ultra, XII. a Abruzzo Cura, le quali formavano il solo giustizierato di Abruzzo ne' tempi di Federico II, e furono poi divise in due. Quelle provincie abbracciarono le antiche regioni de' Marrucini; de' Marsi, de' Vestini. e presero quel nome chi dice dall'asprezza de' monti, chi dall'abbondanza de' cignali, chi dalla città di Teramo, che fu chiamata anche Abruzzo per essere metropoli de' Preguntini, da' Latini detti Praegutii, e poi con corrotto vocabolo Abrutii.

Dominazione degli Angioini

(12661382)

Dopo la vittoria, che di Manfredi ottenne il re Carlo nelle pianure di Benevento, venne egli in Napoli, ed entrò come in trionfo; divise fra' condottieri dell'armata i beni degli amici di Manfredi, con altre terre e città; confidò ad altri de' suoi il governo delle provincie, con l'antico nome e potere de' giustizieri, e mandò Filippo di Monforte in Sicilia per governare in suo nome.

Di Manfredi raccontasi che il suo cadavere, caduto ne' campi di Benevento, fu scoverto dopo tre giorni, e seppellito in una fossa presso al ponte, ove ogui soldato gittò una pietra, ergendovisi perciò in quel luogo un piccolo monte di sassi. Ma l'arcivescovo di Cosenza, fiero nemico di Manfredi, cui non bastò la morte per estinguere il suo odio implacabile, ottenne che le ossa fossero disotterrate e a lume spento trasportate in riva del fiume Verde, oggi detto Marino, ed esposte alla pioggia ed al vento. La vedova di Manfredi ed i suoi figliuoli fuggirono a Trani per passare in Grecia, ma caddero nelle mani di Carto, e furon fatti chiudere nel castello di Nocera, dove morirono miseramente tutti, tranne Beatrice, ed il seconde figliuolo per nome Federico, il quale fuggito dalla prigione, e lungamente errando sconosciuto, pervenne in Inghilterra.

Entrato re Carto nel regno, cominciò a reggerlo con crudeltà e rigori; onde il suo governo fu abborrito, e gli animi si rivoltarono da lui. Intanto i baroni amici di Manfredi, fuggiti di qui, e le città ghibelline si rivolsero a Corradino, che solo rimaneva della casa di Svevia, e lo invitarono a venire alla conquista del regno. E Corradino, quantunque giovinetto ancora, non avendo che 15 anni, venne con forte esercito, e fu seguito dal duca di Austria suo cugino, e da Arrigo infante di Castiglia,

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cd aiutato con danaro e soldati da molte città lombarde, e da motti baroni c città nostre che innalzarono la sua bandiera. Venne Corradino in Roma, dove fu ricevuto in Campidoglio con gran pompa, siccome usavasi di ricevere gl'imperatori; e quindi entrò nel regno per la via degli Abruzzi, e si accampò nel piano di Tagliacozzo. Ed ivi venne a battaglia col re Carlo; e l'armata di Corradino disfece le due prime schiere de' nemici; e, credendo di avere avuta intera vittoria, gitto le armi e si pose a spogliare il campo. Ma sorpresa in tale disordine dalla più forte schiera dell'armala di Cario, i soldati di Corradino furono quasi tutti dispersi ed uccisi.

Il quale ordine di battaglia segui Cario per consiglio di Alardo di S. Valeiy, nobilissimo barone francese che veniva di Asia, dove con somma sua gloria avea per 20 anni continui militato contro gl'lnfedeli, ed ora giá fatto vecchio ritornava in Francia per riposarsi e morire nella sua patria.

Corradino insieme col duca di Austria, ed altri de' suoi scampali da quella battaglia, mentre in abito di contadini cercavano imbarcarsi nella spiaggia romana, arrivati ad Astura, che apparteneva ai Frangipane, furono scoverti e dati in mano al re Carlo; e il simigliante accadde ad Arrigo infante di Castiglia. Carlo li tenne prigioni per due mesi e poi li fece decapitare tutti nel mercato di Napoli. Rivolse quindi l'animo suo ¡rato contro i baroni e contro tutti coloro che aveano seguito le parti di Corradino, e ordino che fossero posti a morte tutti senza forma di giudizio. Né minori crudeltà furon fatte nella Sicilia, dove Carlo mandò Guido di Monforte con più galee e soldati francesi e provenzali per sottomettere e prendere vendetta de' baroni e delle città che si erano rivoltate contro di lui.

Intanto Luigi IX re di Francia fratello di Carlo, volendo passare in Terra Santa, fece vela per l'Africa con forte esercito; ma entrala ivi la peste, vi pernotta gente, e il medesimo re Luigi. Corse in aiuto il re Carlo con motta truppa, e diede nuovo animo all'armata, e fatto dichiarare re di Francia Filippo l'Ardito primogenito di Luigi, pose l'assedio alla città di Tunisi; ma dopo tre mesi segui la pace, e quel re non solo liberò tutti gli schiavi cristiani, ma diede una gran somma di pro al re di Francia per le spese della guerra, e promise che avrebbe pagato ogni anno al re di Sicilia un tributo di quaranta mila scudi.

L'Italia era in quel tempo divisa anzi lacerata crudelmente dalle contrarie fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini, e re Carie, essendo Senatore di Boma e Vicario dell'Impero, distrusse motte castella de' Ghibellini nella Romagna e nella Toscana, e cacciandoli dalle città che insino a quel tempo erano state da loro governate, vi richiamò i Guelfi, i quali ebbero ogni potere in tutte le città dove tornarono a dominare. E mirava Cario al regno d'Italia, ma molte città e provincie si levarono contro di lui, ed egli non potè compiere l'ardito disegno.

Carlo pose la sua sede in Napoli, la quale per le passate vicende, perla vicinanza del mare, per la salubrità dell'aere e per la vaghezza ed amenità de' suoi colli, era assai popolata ed illustre. E qui fece innalzare belli edifizi e fortificazioni, e chiese magnifiche; e tali furono il Castel nuovo, la torre di S. Vincenzo presso all'antico molo, la Chiesa di S. Maria della Nuova, la magnifica chiesa di S. Lorenzo. Introdusse una nuova nobiltà francese nel regno, e nuovi ordini di Cavalleria; fece crescere e rifiorire gli studii; chiamò nell'Università i più rinomati maestri in tutte le scienze, e tra gli altri il nostro Tommaso d'Aquino, sublime ingegno, non pur di quel tempo, ma de' secoli che seguirono.

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Carlo riordinò ed illustrò i Seggi, le antiche fratrie de' Greci, ed erano quattro i principali della città, quello di Capuana, di Forcella, di Montagna e di Nido, in quattro principali regioni, le quali erano poi suddivise in molte altre regioni o piazze minori.

Il governo di re Cario fu duro, le provincie spogliate, e sottoposte ad insoliti e gravissimi balzelli; e il popolo oppresso anche per le orgogliose e violente maniere de' soldati. E tali gravezze vennero pure accresciute ne' feudi da nuovi dritti che vi portarono gli Angioini. L'ordine ecclesiastico solo fu libero da tali gravezze e smoderati tributi, ed anzi ebbe maggior potere, e tale che gli ecclesiastici non furono più soggetti ai giudici laici per le contese fra loro, e per quello che risguardava ai propri beni, poiché papa Clemente IV, chiamando Cario d'Angiò all'acquisto del regno, convenne con lui, che i prelati e le chiese godessero di una piena libertà, ne più fosse richiesto nell'elezione de' vescovi e degli abati il consenso del re; e convenne in fra le altre cose, che il re sarebbe obbligato di pagare ogni anno, nella festa di S. Pietro, 8000 oncie di oro; e presentare al sovrano pontefice ogni anno un bei r avallo bianco (la ghinea), in riconoscenza del dominio della chiesa sul regno di Sicilia. In mancanza perderebbe il regno.

Il re Cario mandò una forte armata in Grecia, e tentò di rimettere sul trono di Costantinopoli Baldovino, che n'era stato cacciato dal Paleologo; ma giunto in Acaja, e posto l'assedio alla città di Belgrado, non potè resistere lungamente, e gli furono uccisi molti cavalli a colpi di frecce, motti soldati fatti prigionieri e posta in disordine l'armata, la quale cosi mal ridotta fu costretta a ritornare nel regno.

Intanto essendo in Roma papa Giovanni XXI, Carlo riprese la sua dignità di senatore e dominò in quella città quasi come sovrano. In quel tempo la principessa Maria di Antiochia, alla quale Ugo suo zio re di Cipro contendeva il titolo e le ragioni al regno di Gerusalemme, venne in Roma, perché dal papa ne fosse riconosciuta regina. Ma vedendo poi che nulla avrebbe potuto ottenere senza il potere delle armi, cedette le sue ragioni sopra quel regno col principato di Antiochia al re Carlo, che dal papa in Roma fu coronato con motta pompa re di Gerusalemme.

Il duro governo di Cario e le arroganti maniere de' suoi soldati, e i continui e sempre più gravi balzelli, non facevano che renderlo odiato ed insopportevole al popolo; e i Siciliani, sopra tutti gli altri, l'abborrivano. Crebbe l'odio e scoppiò in una ribellione per l'opera di un nobile Salernitano, Giovanni signore di Procida, il quale era stato in gran potere regnando Federico Il e Manfredi, le cui parti aveva seguite costantemente. Spogliato de' beni suoi dal re Cario, fuggi in Aragona dalla Regina Costanza figlia di Manfredi, moglie di Pietro re di Aragona; ed egli trasse quel re nel suo partito, e seppe ispirargli l'odio ch'egli stesso sentiva contro il re Cario, e persuaderlo a fare grandi armamenti per la conquista della Sicilia. Ed essendogli pur noto l'odio de' Siciliani al governo degli Angioini, sotto veste di frate andò più volte nella Isola, e preparò ivi una rivoluzione in favore di Costanza.

E sollecitando continuamente i congiurati, e tenendo sempre per messi avvisato re Pietro di quanto si faceva; ed avendo inteso che la sua armata era già pronta per far vela, egli esegui con tanto ordine quella ribellione, che nel mese di marzo, il secondo giorno di Pasqua dell'anno 1282, al suono della campana che chiamava

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i cristiani all'ufficio di Vespro, in tutte le terre di Sicilia ov'erano i Francesi, il popolo prese le armi e li uccise tutti, fino le donne maritate con Francesi, e fino i piccoli figliuoli nati da loro; e fu gridato il nome di re Pietro di Aragona e della regina Costanza: e questo è quello che fu chiamato e si chiama il Vespro Siciliano; e non corse in questa crudele uccisione, dove perirono intorno ad otto mila persone, maggiore spazio di due ore.

Come il re Carlo seppe ciò, pieno di sdegno e di vendetta, avendo in ordine la sua armata, fece vela per la Sicilia, e cinse Messina di stretto assedio, e ridusse quegli abitanti a tale che si rivolsero a lui, dichiarandogli che si renderebbero purchè avessero salva la vita.

E Cario non accettò questa condizione. Ma Giovanni di Procida, che si trovava allora a Palermo, impaziente della dimora del re Pietro, il quale era passato con la sua armata in Africa, andò per informarlo del presto bisogno del suo soccorso, e lo indusse a venire in aiuto degli assediati. Venne Pietro in Palermo, dove fu con grandissima festa e regal pompa incoronato re dal Vescovo di Cefalù. E seguendo i consigli del Procida, mandò il famoso Ruggiero di Loria, capitano della sua armata, a sostenere la vigorosa difesa de' Messinesi, e disperdere l'armata nemica, la quale sbigottita levò l'assedio e si ritrasse sulle coste della Calabria, perdendo molte galee. Cario ritornò in Napoli, e, lasciando per suo vicario nel regno il principe di Salerno, andò in Roma a portar querele al Papa contro il suo nemico. Pietro intanto entrò in Messina, dove fu accolto lietamente, e riconosciuto ed acclamato per re da tutta l'isola.

Ed avendo poco di poi fatta venire in Palermo la regina Costanza sua consorte e due suoi figli, e partendo per Aragona, per recarsi a Bordeaux, dove dovea accadere un duello col re Carlo, volle che tutt'i Siciliani giurassero per legittimo successore e futuro re D. Giacomo suo figliuolo, il che fu fatto con grandissima festa e buona volontà di tutti.

E cosi questi due regni, uniti sotto la monarchia de' Normanni e degli Svevi, rimasero divisi l'uno dall'altro; e Palermo restò per gli Aragonesi in Sicilia, e Napoli pe' Francesi in Puglia e Calabria.

Il duello di Bordeaux non ebbe luogo, poiché il re Pietro temè le insidie di Cario. Intanto essendo questi ancora in Francia, il principe di Salerno suo figlio, come Vicario nel regno, tenne un generale parlamento ne' piani di S. Martino nella Calabria, riunendo insieme vescovi, baroni e deputati delle città, e fece di provvedere con buone leggi ad un migliore stato di lutti gli ordini della società.

La regina Costanza, che il re Pietro avea lasciata in Sicilia, avendo saputo che diciannove galee provenzali dirigevansi verso l'isola di Matta per soccorrere quel castello di vettovaglie, che tenevasi ancora per il re Carlo, mandò Ruggiero di Loria a combatterle; e venuti ad un ostinato e feroce combattimento, durò incerta la vittoria per lungo tempo, fino a che sei galee provenzali avendo preso la fuga, Ruggiero abbattè tutte le altre e s'impadronì dell'isola, la quale si rendè al re Pietro.

Come seppe ciò il re Cario, il quale era a Marsiglia, si pose in mare con tutta la sua numerosa flotta, e scrisse al principe di Salerno suo figlio ch'evitasse ogni combattimento innanzi ch'egli fosse giunto nel regno; ma predata la nave che portava quest'online del re Carlo, Ruggiero fece di trarre il principe in un combattimento navale prima dell'arrivo del padre.

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E cosi accadde; e in questo furioso combattimento, i Provenzali furono vinti, fatto prigioniero il principe, e condotto in Sicilia dove fu chiuso in un forte castello.

Il re Cario tornò in Napoli, e tentò invano di portare la guerra nella Sicilia. Rivolse il suo corso verso la Calabria, strinse di forte assedio la città di Reggio, presa in quell'anno dalle armi di Pietro, e, riuscitogli vano ogni sforzo, fu costretto a ritirarsi alla Catona, dove la sua flotta fu poco di poi quasi tutta distrutta da una tempesta. Intanto gli Stati del regno e i deputati delle provincie condannarono a morte il principe di Salerno; ma la regina Costanza seppe con prudenti consigli salvargli la vita generosamente, e, facendolo richiedere dal re Pietro, lo mandò in Aragona, dove fu tenuto prigioniero.

E intanto il re Cario, partito da Napoli, per ordinare in Brindisi una nuova armata contro della Sicilia, arrivato a Foggia fu preso da violenta febbre, e mori nell'età sua di 58 anni, lasciando al governo del regno il conte di Artois, finché suo figlio non ritornasse libero nel regno.

Il re Filippo di Francia portò la guerra in Aragona, dove condusse una potente armata, e si combattè ostinatamente, e in quella guerra fu gravemente ferito re Pietro: ma venuto di Sicilia Ruggiero di Loria, l'armata nemica fu disfatta, e il re di Francia costretto a ritornare ne' suoi stati. Poco appresso mori il re Filippo e lasciò il regno al suo primogenito Filippo il Bello; e poco appresso mori pure il re Pietro, lasciando l'Aragona ad Alfonso suo primogenito, e la Sicilia a Giacomo.

Giacomo fu incoronato re di Sicilia, e portò la guerra nelle Calabrie, dove prese molte città; e avendogli poi offerto alcuni cittadini di Gaeta di riceverlo in quella città s'egli vi andasse, vi approdò con forte armata; ma poiché quelli che lo aveano chiamato non poterono eseguire la loro promessa, vietandolo il conte di Avellino, che difendeva la città, Giacomo sbarcata la truppa pose l'assedio. Or siccome il re d'Inghilterra o quello di Aragona vennero a patti tra loro, e stabilirono che re Cario fosse libero, e garentito il regno di Aragona, e il regno di Sicilia lasciato al re Giacomo, Cario quindi ritornò nel regno, e, conclusa una tregua tra. lui e Giacomo, fu tolto l'assedio di Gaeta.

Morto Ladislao IV re di Ungheria senza figliuoli, Cario fece incoronare re di quel regno il suo primogenito Carlo Martello per diritto della regiïa sua madre sorella di Ladislao. Il re Giacomo di

venne re di Aragona, e Federico suo fratello fu eletto re di Sicilia, ma non durarono lungamente in pace. La Sicilia fu invasa più volte e da' re di Aragona, e dal re Cario di Napoli, ma Federico resistè fortemente e vinse i suoi nemici; venne in fine à patti con Cario, e fu convenuto che Federico prenderebbe in moglie Eleonora terza figliuola di Carlo, portando in dote la Sicilia, per possederla finchè vivea.

Il re Cario andò in Roma per liberare il papa Bonifacio fatto imprigionare dal re di Francia; e tornato quindi in Napoli fece di migliorare la città e il porto, ed innalzò nuovi edificj e chiese, e volle che le leggi fossero scritte in un codice, e dichiarò che quelle e non altre fossero osservate nel regno. Ma giunto all'età di 60 anni, mentre il regno godeva tranquilla pace, Cario mori di violenta febbre, dopo avere regnato 28 anni. E lasciò a Roberto il regno di Napoli e di Gerusalemme e gli stati di Provenza.

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Oltre a Roberto, ch'era il duca di Calabria, erano suoi figli Ludovico vescovo di Tolosa, Filippo principe di Taranto, Tristano principe di Salerno, Giovanni duca di Durazzo, Pietro conte di Gravina.

Duravano le contrarie fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini, e le città erano turbate da civili discordie: i pontefici portarono la loro sede in Avignone; Firenze s'innalzava sopra tutte le repubbliche della Toscana; Venezia e Genova, gelose del loro commercio, ed egualmente potenti, si disputavano il dominio del mare; era tale lo stato d'Italia, quando, morto il re Cario II, vennero al pontefice in Avignone ambasciatori di Caroberto re di Ungheria, figlio del primogenito del morto re Cario, chiedendo l'investitura del regno.

Roberto era allora in Avignone con Bartolommeo di Capua suo ministro, ed uomo molto esperto nella ragion civile, e seppe sostenere il suo dritto; onde il Papa gli diede l'investitura, e lo fece incoronare solennemente in Avignone, creandolo pure Vicario della Romagna e di Ferrara: ritornò quindi in Napoli, e fu accolto lietamente da' baroni e dal popolo.

Non ebbe Roberto che un solo figliuolo, Cario duca di Calabria, e gli diede in moglie la figliuola del duca di Austria, e le nozze furono celebrate in Napoli con molta pompa.

Rinnovo più volte la guerra nella Sicilia, e fu lunga e sanguinosa, traendo pure partito dalle feroci discordie di due potenti famiglie della Sicilia, i Conti di Gerace e quei di Modica; e dalla morte di Federico, accaduta in Catania l'anno 1337, nell'età sua di sessantacinque anni; e dalla ribellione di alcuni baroni che si sollevarono contro il re Pietro II, succeduto a Federico. Ma siffatti tentativi riuscirono tutti infruttuosi, e i re di Sicilia seppero mantenersi indipendenti.

In mezzo a queste guerre Roberto perdè l'unico suo figlio il Duca di Calabria, il quale, morendo l'anno 1333, lasciò due sole figliuole, Giovanna e Maria. E volendo togliere ogni contesa che alla sua morte potesse accadere col re di Ungheria per la successione del regno, stimò cosa utile di dare in moglie Giovanna sua nipote, ed erede del regno, ad uno de' fîgliuoli di esso re. Onde venuto in Napoli il re di Ungheria con Andrea suo secondogenito, furono solennemente celebrati i soli sponsali, poiché Giovanna allora, egualmente che Andrea, non aveano che soli sette anni.

Fatto Roberto assai vecchio. e turbato sempre da cure moleste; e vedendo i duri costumi di Andrea e degli Ungheri, previde le discordie che sarebbero seguite nel regno dopo la sua morte; onde, convocato un general parlamento di lutt'i baroni e deputati delle città, dichiarò Giovanna sola erede del regno e regina, e volle che le si prestasse il giuramento di fedeltà; e diede ad Andrea il solo titolo di duca di Calabria e principe di Salerno.

E poco di poi mori Roberto, l'anno 1343, nell'età di 80 anni, e trentesimo terzo di regno, lasciando con suo testamento il regno di Napoli e di Sicilia a Giovanna sua nipote, con tutti gli stati che possedeva in Provenza, ed ordinando che tali stati mai non fossero divisi dal regno, e fossero posseduti da uno stesso Sovrano. All'altra sua nipote Maria sorella di Giovanna lasciò il contado di Albi in Abruzzo, con la signoria di Val di Crati e la Terra Giordana nelle Calabrie. Ed essendo ancor giovanetti Giovanna ed Andrea, e non atti al governo, li lasciò sotto la cura ed amministrazione di Sancia

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sua moglie, e de' grandi uffîziali del regno. Egli fu sepolto in magnifico sepolcro nella chiesa di S. Chiara.

Roberto fu di miti consigli, e lasciò molte provvide leggi; amò grandemente le arti e le scienze, e le protesse grandemente. Scrisse alcune lettere al Petrarca, il quale ne lodò l'eleganza dello stile, la profondità del giudizio, e le gravi e nobili sentenze; ed essendo la lingua italiana fatta bella ed armoniosa per opera prima di Dante, e poi di Petrarca e di Boccaccio, piacque a Roberto di esercitarsi nella volgar poesia, e scrisse un trattato delle virtù morali in verso italiano. Roberto ebbe nome di principe sapiente e generoso.

Dopo la morte di Roberto fu subito proclamata regina Giovanna sola; ai che si dolse Andrea, il quale non ebbe che il titolo di duca di Calabria. Intanto la famiglia della regina era agitata e divisa da domestiche discordie, da gelosie e da ambizioni crudeli. E Andrea, il quale lasciava«i governare dal suo precettore ungaro frate Roberto, famoso ippocrita, inteso a vili guadagni con tutti gli altri della sua nazione, venne in odio alla regina e ai principi regali, i quali, sentendo che brigava presse il papa per essere incoronato re, fecero il disegno di ucciderlo. E per riuscire più sicuramente, persuasero Andrea di andare ad Aversa per goder alcun giorno della caccia nelle vicine campagne, dove egli, che non avea sospetto alcuno, si condusse con la regina, e dove fu seguito da' congiurati. E la sera stessa di quel giorno, essendo egli con la regina, lo chiamò uno dei congiurati ad alta voce, dicendogli ch'erano venute da Napoli importanti notizie, alle quali bisognava provveder subito. E Andrea, credendo vero quello che gli si diceva, uscito fuora della sua stanza, gli fu gittato un laccio al collo, e quindi trattolo i congiurati ad un balcone che riusciva sopra il giardino, lo sospesero e tormentarono crudelmente, e poi che fu morto lo lasciarono cadere nel giardino. Pubblicatasi la mattina la sua morte spietata, il Duca di Durazzo ne fece trasportare il corpo nel duomo di Napoli, ed ivi, dopo essere rimasto insepolto due giorni, ebbe solenni funerali e fu sepolto onorevolmente.

La regina tornò in Napoli, e tutta sbigottita si chiuse nel Castelnuovo, temendo che il popolo non si levasse a rumore per vendicare Andrea; e per allontanare da se ogni sospetto, scrisse al re di Ungheria ed al papa la fine tragica di suo marito, e fece punire severamente i rei della morte di lui. Ma Ludovico re di Ungheria venne egli nel regno con forte esercito per vendicare la morte di suo fratello; e la regina, già maritata a Luigi di Taranto, sentendo il nemico arrivato a Benevento, né potendo resistere alle sue forze maggiori, s'imbarcò per la Provenza, dove fu seguita da Luigi suo marito, lasciando i suoi sudditi sciolti del giuramento di fedeltà.

1 Principi regali, e molti baroni, arrivato a Capua il re di Ungheria, convennero di andargli incontro e con molla pompa ed onore condurlo in Napoli. Ma il re, nascondendo i suoi crudeli disegni di vendetta, usò con loro affettuose maniere, e come li ebbe riuniti tutti ad Aversa, li fece imprigionare e poi morire, non risparmiando il Duca di Durazzo, di cui temeva il potere, quantunque fosse quegli che lo avea fatto venire nel regno, e che avea fatto punire gli uccisori di Andrea.

Intanto un'orribile pestilenza, che devastava l'Italia, si sparse pure nelle nostre provincie; e il re, preso da forte timore, s' imbarcò segretamente sopra una galea e tornò in Ungheria, lasciando al governo del regno uno de' suoi generali.

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Ma essendo gli Ungheri venuti in odio ai Napolitani, questi non vollero riconoscere il vicario del re di Ungheria, e gridarono il nome di Giovanna e di Luigi, il cui esempio fu seguito da tutte le provincie. E allora il conte di Squillace, e i molli che seguivano le parti della regina, e, tra gli altri, i conti di S.a Severina, di Caserta e del Balzo, mandarono messi per affrettare il suo ritorno nel regno. E per tale invito, imbarcatasi a Marsiglia con Luigi suo marito, cui il papa avea dato il titolo di re, venne in Napoli accolta da tutti lietamente, in agosto dell'anno 1348.

Ma non tornò tranquillo il regno; e il re Luigi ebbe a sostenere guerra con gli Ungheri nelle nostre provincie, e con Ludovico, il quale era tornato nel regno, e col quale si compose in pace. Portò la guerra più volte nella Sicilia infruttuosamente; e mori nell'età di 43 anni, di febbre acutissima, l'anno 1362, senza lasciare di se prole alcuna. Fu questo principe bellissimo di corpo e di animo, e non meno savio che valoroso, ma fu poco felice nelle sue imprese, perocchè ritrovandosi il regno travagliato ed impoverito per tante guerre e per tante dissensioni, non ebbe luogo né occasione di adoperare il suo valore massimamente nell'impresa di Sicilia.

Giovanna prese in marito Giacomo d'Aragona, infante di Majorica, giovane bello e valoroso, il quale poi mori in Ispagna; e fatta la pace col re di Sicilia, ebbe per quarto marito Ottone di Brunswich.

Intanto fu nominato in Roma papa Urbano VI, e contro di lui, e per opera principalmente della regina Giovanna, l'antipapa Clemente VII in Avignone, il che produsse il grande scisma di Occidente, che per molti anni afflisse la Chiesa Cattolica in Europa, onde tanti scandali seguirono e tanti mali. Parteggiavano per Clemente la regina Giovanna e la Francia e la Spagna, e per Urbano, ¡'Italia, la Germania, l'Ungheria, la Polonia, l'Inghilterra. Per la qual cagione Urbano dichiarò Giovanna decaduta del regno, vietando ai sudditi di riconoscerla come Sovrana; e contro di lei chiamò all'acquisto del regno Cario duca di Durazzo, il quale militava allora per il re di Ungheria nella guerra contro i Veneziani.

La regina non confidando di potersi mantenere coi presidi ch'ella avea, ricorse ad un mezzo che riusci troppo funesto e lagrimevole per questo reame, e che fu cagione di tante rivoluzioni e calamità, e fu quello di di mandare aiuto al re Carlo l'di Francia; e quello di adottare Luigi duca d'Angiò, figlio di Giovanni I re di Francia, promettendo di farlo suo crede e legittimo successore del regno e degli altri suoi stati.

Il Duca di Durazzo venne in Boma con forte esercito, ed ivi il papa lo investi del regno, lo incoronò re di Napoli, e gli diede ori ed argenti. Contro di lui avea la regina riunite le sue milizie a S. Germano, ed erano comandate da Ottone suo marito, ma furono costrette a ritirarsi non potendo resistere alle forze maggiori di Carlo, il quale, senza incontrare di gravi ostacoli, entrò in Napoli (16 luglio 1381) dove fu sal u tato re, e da molti accolto festivamente, anche in odio del duca di Angiò, che la regina aveva chiamato nel regno.

La regina si chiuse nel Castel Nuovo, e di là fu poi mandata nel castello della città di Muro, dove fu fatta barbaramente strangolare. Il corpo fu portato in Napoli, ed esposto per motti giorni nella Chiesa di S. Chiara, fu ivi sepolto. E questa fine infelice ebbe la regina Giovanna nell'età di 55 anni, dopo averne regnati 42.

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Di lei fu detto, che, allevata sotto la disciplina del re Roberto, e dell'onesta e savia regina Sancia, governò il regno, quando fu in pace, con tanta prudenza e giustizia, che acquistò il nome della più savia regina che sedesse mai in sede reale, siccome dimostrano quelle poche sue leggi che ci lasciò, tutte ordinate a restituire l'antica disciplina ne' tribunali e nei magistrati, e la testimonianza di due celebri giureconsulti che fiorirono nell'età sua, cioè di Baldo ed Angelo da Perugia, i quali nelle loro opere grandemente la commendarono.

E ritornando sopra questo periodo della nostra storia, nol ricorderemo che il secolo di Roberto e di Giovanna fu il secolo d'oro del nostro reame; e le arti e le lettere erano tenute in gran pregio e protette grandemente. Sopra tutte le altre discipline fiorivano la Teologia, la Filosofia e la Medicina, e i monaci primeggiavano sopra tutti, e sono ricordati quei Basiliani del monastero di S. Niccolo in Otranto, istruttissimi nelle lettere greche e latine, e dove andavano ad ammaestrarsi i giovani da tutte le parti del regno.

In quel secolo XIV cominciò in Italia quasi un nuovo periodo della ragion civile, e fu l'età dei commentatori, i quali, se sono da riprendere in qualche luogo per la ignoranza delle lingue e delle storie, sono da ammirare per la perspicacia ed acume del loro ingegno, e per le ostinate e lunghe loro fatighe. E furono famosi giureconsulti di quel tempo, Bartolommeo di Capua, Nicolò di Alife, Luca di Penna, Matteo u" Afflitto, Nicolò di Napoli, Andrea d'Isernia.

E gli uomini di lettere e di governo, servendo ai loro principi, meritarono di essere elevati a posti eminenti, ed ebbero gradi e titoli altissimi che trasmisero ai loro successori. Il che ha fatto vedere che l'uso della penna, non meno che quello della spada, suoleva anche a quel tempo onorare e fare illustri le persone e le famiglie.

È ricordato il regno degli Angioini per la saviezza delle loro leggi, le quali furono dette i Capitoli del Regno; e sopra tutti è celebrato il regno di Roberto, signor savio ed espertissimo in. pace ed in guerra, e riputato un altro Salomone dell'età sua.

Fu allora potente il nostro reame, ed uno dei più temuti e più floridi di Europa. Numerosi eserciti tenevansi in piedi, ma il nerbo maggiore era formato dalle forze di mare, le quali dominavano il mare superiore ed inferiore, e minacciavano Venezia e Costantinopoli e l'Africa. E fiorivano del pari la navigazione ed il commercio; e le navi degli Amalfitani coprivano tutt'i mari, ed essi aveano consolidati molti stabilimenti e banchi di commercio in Sicilia, in Grecia, in Egitto, nella Siria, e in altri luoghi del Levante, e diffuse le loro monete, e date le loro leggi marittime. Essi aveano prestato immenso aiuto ai cristiani nelle guerre delle Crociate; aveano fabbricato in Gerusalemme una cappella presso il S. Sepolcro, origine dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme; e, oppressa la Palestina da' Saraceni, aveano ristabilito in Rodi i Gerosolimitani con l'ordine di Cavalieri Rodiani; ed in quel tempo medesimo Flavio Gioia inventò o corresse la Bussola, applicandola alla navigazione, e per tal mezzo sottomettendo all'uomo l'elemento più ribelle.

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Dominazione del Dnrazzeschi

1382 1435

Morta la regina Giovanna, i baroni e le città prestarono omaggio al re Carlo III, e solo i conti di Fondi, di Ariano e di Caserta ricusarono di riconoscerlo per sovrano. Il re Carlo fece venire in Napoli Margherita sua moglie coi due suoi figliuoli Ladislao e Giovanna; e intanto Luigi duca d'Angiò, che la regina Giovanna avea chiamato alla successione del regno, venne di Francia con forte esercito, seguito dal conte Amodeo di Savoia, assai riputato in quel tempo, e accolto e festeggiato nel suo cammino da Bernabò Visconti, e da Guido da Polenta signore di Rimini; ed entrò nelle nostre provincie per la via degli Abruzzi, e si unirono a lui lutti quei baroni che aveano seguito le parti della regina Giovanna, e principalmente i Sanseverino ed i Balzo; ma qui fu combattuto, più che dalle armi del re Carlo, da un inverno assai crudo, dalle malattie e da mancanza di viveri. E combattendo nella Puglia, il Duca infermò gravemente, e dopo pochi giorni mori (10 ottobre 1384), lasciando un piccolo figliuolo, per nome ancora Luigi, che a lui succedè nella s¡gnoria di Provenza, negli altri Stati che avea in Francia, e nel dritto al regno di Napoli. Per questa morte inaspettata le milizie del Duca disperse e povere ritornarono in Francia.

La morte del Duca d'Angiò fece rivolgere i pensieri di Carlo al regno di Ungheria, dove regnava allora Maria, figliuola di Luigi, morto due anni innanzi, e dove era stata proclamata dagli Ungheri non regina ma re. E Carlo andò in Ungheria, lasciando al governo di Napoli la regina sua moglie; e il re Maria e la regina Elisabetta sua madre, non potendosi opporre con aperta forza, finsero di riceverlo come amico e congiunto. Ma coronato re di Ungheria, col favore di molli baroni che parteggiavano per lui, essendo un giorno nella stanza di Maria, e ragionando con lei, un unghero lo ferì gravemente in testa con un colpo di scimitarra, della quale ferita mori fra pochi giorni (anno 1385). Come questa notizia si seppe in Napoli e in Roma, la regina fece per la città gridare dal popolo re Ladislao, il quale non avea che dieci anni. Ma contro di lui unironsi i più potenti baroni del regno, e, tra gli altri, i Sanseverino e i conti di Conversano e di Caserta, e chiamarono nel regno Luigi Il d'Angiò, figli" del morto Duca. Intanto i cittadini, mal sofferendo il governo della regina, tutrice del suo piccolo Ladislao, poiché lasciavasi guidare da pochi suoi confidenti, intesi soltanto a vili guadagni, elessero otto dei migliori dell'ordine dei nobili e del popolo, per sopraintendere alla cura della città nel nome degli Otto del buono Stato. Il simigliante fece nelle provincie Tommaso Sanseverino, che nominavasi viceré di Luigi II, convocando un general parlamento nella città di Ascoli, e facendo eleggere sei fra i baroni della sua fazione che si chiamarono Deputati del buono Stato del regno, i quali doveano con le loro genti di armi riunirsi in Montefusco per formare un'armata da opporre alle truppe della regina. Il comando di quest'armata fu dato ad Ottone, marito della defunta regina Giovanna, mandato nel regno da Luigi Il d'Angiò, il quale l'Antipapa in Avignone avea già coronato re delle Sicilie. Si venne a battaglia; la regina fuggi a Gaeta coi suoi figliuoli, Ottone entrò in Napoli, e molte nostre provincie si erano sottomesse a lui. Ma avendo il Duca d'Angiò mandato Mongioja per suo viceré in Napoli, il quale usava maniere imperiose ed altere, molli baroni disertarono la sua bandiera.

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E avendo la regina Margherita dato in moglie al giovanetto Ladislao suo figlio Costanza fîgliuola di Manfredi di Chiaromonte, conte di Modica, assai potente nella Sicilia, ebbe in lui un forte aiuto contro gli Angioini di Francia. Sosteneva le parti di Ladislao il pontefice di Roma, allora Bonifazio IX, per opporlo al Duca d'Anglò sostenuto dall'Antipapa, ed egli lo fece incoronare re a Gaeta. ll Duca d'Angiò venne nel regno e si accese fierissima guerra; nel corso della quale mori nella Sicilia Manfredi di Chiaromonte, da cui reggevasi la fazione italiana.

Intanto nel regno di Sicilia a Pietro Il erano succeduti Luigi, Federico Il e Maria, la quale fu condotta in Catalogna, dove sposò Martino figliuol0 del Duca di Montebianco fratello del re di Aragona, ed ella venne con lui nella Sicilia e vi condusse una forte armata, con la quale acquistò Palermo e tutte le altre città governate prima da Manfredi di Chiaromonte. E la regina Margherita, o che odiasse Costanza sua nuora, o che volesse con nuova dote acquistar danaro per Ladislao, lo persuase a ripudiarla, e ne ottenne lo scioglimento dal papa. E la regina Costanza visse per lungo tempo povera e sola, e poi fu data in moglie ad Andrea di Capua, figlio del conte di Altavilla.

La guerra continuava, e molti baroni, vedendo cresciuto assai il potere di Ladislao, e il Duca d'Angiò rimanersi in Napoli senza nulla operare, si persuasero a seguire le parti di quel Sovrano e si pacificarono con lui E il Duca d'Angiò, andato in Taranto per unire forze maggiori dai baroni di quella provincia, Ladislao entrò in Napoli e fu ricevuto molto lietamente. Saputa la resa di Napoli, il Duca d'Angiò imbarcatosi a Taranto, ritornò con le sue galee e approdò a Capri, dove convenne col re Ladislao di rendergli il Castelnuovo, a patti che ne facesse uscir libero Cario d'Angiò suo fratello co' molti Provenzali ivi rinchiusi e con tutte le suppellettili: partito quindi per mare condusse seco tutt'i Provenzali nei suoi Stati in Francia, lasciando grandissimo desiderio di sé e gran dolore a tutti coloro del suo partito, e lasciando il re Ladislao pacifico possessore del regno (anno 1400).

Poiché Ladislao si vide libero dal nemico, volle prendere vendetta di quei potenti baroni che si erano uniti al Duca d'Angiò nella conquista del regno; e alcuni rinchiuse in prigione, facendoli crudelmente strangolare, e a motti tolse le terre. Intanto Giovanna sorella di Ladislao si marita col duca di Austria; e Ladislao sposa Maria sorella del re di Cipro, e, morta lei, sposa la vedova di Ramondello Orsini principe di Taranto, col disegno di toglierle i suoi Stati. Roma tumultua lacerata da partiti crudeli, e Ladislao s' impadronisce della città, dove pone nuovi magistrati che la governino in suo nome, e mira al. regno d'Italia, la quale egli trova divisa fra molti e deboli Stati. Quindi entra con forte esercito nella Toscana, dove occupa la città di Cortona, e porta il terrore delle sue armi fino alle porte di Siena e di Arezzo. Contro di lui si levarono i Fiorentini, guidati dal Malatesta signore di Pesaro, ed essi chiamarono in Italia

Il duca d'Angiò, il quale venne con forte esercito e molte galee, confortati pure dal pontefice Giovanni XXIII, nemico di Ladislao. I due eserciti incontraronsi a Roccasecca; la battaglia fu lunga ed ostinata; ma infine Ladislao resto disfatto e perdette il suo campo, e condusse l'avanzo dell'esercito a Sangermano, ove cercò di fortificarsi per impedire all'armata vittoriosa di potersi avanzare.

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Ma non avendo il Duca d'Angiò danaro per pagare i suoi soldati, e chiedendone invano al Papa ed ai Fiorentini, già stanchi delle spese sofferte; e vedendosi abbandonato da Sforza, uno dei più riputati capitani di ventura di quel tempo, il quale era passato a servire nell'armata di Ladislao, condusse il suo esercito in Roma, e di là per mare i u Provenza.

Ladislao però, mirando sempre alla sovranità d'Italia, mandò Sforza con parte del suo esercito nella Marca d'Ancona, e con un'altra parte egli medesimo strinse di assedio la città di Roma, e sene impadronì, concedendo ai suoi soldati di saccheggiare il palazzo del papa, e di spogliare la Basilica di S. Pietro di tutt'i suoi ricchi ornamenti. Quindi entrò nella Toscana, ma essendo a Perugia, infermò gravemente, e vuolsi che fosse stato avvelenato. Da Perugia si fece condurre in Roma, e vedendo assai cresciuto il suo male, ritornò in Napoli per mare, mandò prigionieri e carichi di catene Paolo Orsini e suo fratello, come sospetti di tradimento, e dopo quattro giorni del suo arrivo mori, il 6 agosto 1414, nell'anno trentanovesimo di sua età, senza lasciare di sé prole alcuna.

La morte del re Ladislao, pianta amarissimamente da tutti i nobili napoletani e del regno che seguivano l'arte militare, dissipò in un tratto tutta quella buona disciplina e quei buoni ordini di milizia che subito si rivolsero in una confusione grandissima.

Il regno di Ladislao fu un regno di perpetua guerra, ed egli era coraggioso ed esperto capitano. Avido di gloria, e molto più di dominare, non serbò no giustizia, no fede, sempre che si opponesse ai suoi disegni; non perdonò ai suoi nemici, e fu crudele inverso di loro. E involto il regno continuamente nelle guerre, non si ebbero in pregio che le armi, e furono neglette la arti e le scienze.

Nel giorno stesso che Ladislao mori, fu proclamata regina Giovanna sorella di lui, la sola che rimaneva de' discendenti di Cario I, la quale era già tornata in Napoli, morto il duca d'Austria suo marito. Favorito della regina era Pandolfello AIopo, giovane di vile condizione, ma bello della persona, il quale, fatto G. Camerario del regno, acquistò gran potere e molte ricchezze. Venne in Napoli allora il famoso Sforza, ed offerì alla regina il suo braccio e quello de' soldati che lo seguivano, e Giovanna lo accolse festivamente, siccome famoso e potente capitano ch'egli era, e necessario ad averne consigli nelle arti della guerra; di che geloso Alopo, fece il disegno di perderlo, ma non potè riuscirvi, essendo lo Sforza sostenuto da tutt'i Grandi della Corte;onde s'infinse suo amico, e si contentò di dominare insieme con lui.

I ministri della regina, per rendere più sicura la quiete del regno con un successore di sua famiglia, le consigliarono di prender marito, ed ella scelse Giacomo di Borbone de' Reali di Francia, con la condizione che non portasse titolo di re. E come costui fu giunto ai confini del regno, alcuni baroni suoi confidenti, che mal sofferivano il potere di Alopo e di Sforza, gli uscirono incontro nelle pianure di Troja, lo salutarono re, rendendolo istrutto dello stato del regno e de' favoriti della regina. Giacomo venne in Napoli, e, celebrate le nozze con grande pompa, fu primo suo pensiero quello di spogliare la regina di ogni potere ed isolarla. Lo Sforza era già prigione a Benevento, e Pandolfello Alopo, dopo essere stato tormentato crudelmente, fu fatto decapitare e strascinare per le strade della città.

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La regina restò chiusa per lungo tempo nel Castelnuovo, quasi come prigioniera; ma avendo ottenuto da suo marito di andare un giorno a pranzo nel giardino di un mercante fiorentino nel Mercato, custodita da domestici francesi, i cittadini corsero per vederla, ed ella mostrandosi piangente, e come se chiedesse aiuto, Ottino Caracciolo ed Annecchino Mormile, seguiti dal popolo, circondarono il cocchio della regina nel suo ritorno, e, gridando il suo nome, la condussero al palazzo dell'Arcivescovo, ed il giorno dopo al Castel Capuano.

La regina riprese il suo potere, e Giacomo ritenne il solo titolo di re, che la regina gli avea dato, e 40 mila ducati ogni anno. Ella fcce G. Siniscalco Sergianni Caracciolo, concedè molti ufficj ai nobili Napolitani, liberò Sforza dalla prigione, e lo mandò in Roma con molta truppa al soccorso del Castel Santangelo, assediato da Braccio da Mentone, soldato di ventura, il quale erasi impadronito di quella città, e che, temendo di venire a battaglia con lo Sforza, si ritirò a Perugia; onde lo Sforza entrò in Roma con le bandiere della Chiesa e della regina; ma non ricevendo da Sergianni Caracciolo danaro pe' suoi soldati, tornò in Napoli con animo avverso, e combatterono gli uni contro gli altri i soldati e i partigiani di Sforza e quei di Sergianni; e infine tumultuando la città Sibrza entrò in Napoli, e costrinse Sergianni ad uscirne.

Giacomo intanto, infastidito della umile condizione nella quale era ridotto, spogliato di ogni potere, s' imbarcò segretamente sopra una nave genovese, e ritornò in Francia. E la regina, dopo che Giacomo usci del regno, fu coronata con molta pompa dal Legato del Papa in mezzo alle acclamazioni del popolo.

La regina fece lega col Papa Martino, e mandò Sforza con quattromila cavalli e due mila fanti contro di Braccio, il quale avea occupata gran parte dello Stato della Chiesa: ma nelle vicinanze di Viterbo, Sforza rimase vinto da Braccio con molta perdita, onde chiese alla regina nuove genti e danari, che non gli furono mandati pe' contrarj consigli di Sergianni, venuto allora in grande potere. E Sforza, per vendicarsi di Sergianni e della regina, scrisse per un suo confidente a Luigi IIl d'Angiò, invitandolo all'acquisto del regno, e promettendogli l'opera sua e il favore di molti baroni. La regina si rivolse allora ad Alfonso re di Aragona e di Sicilia, succeduto in quei regni a Ferdinando il Giusto suo padre, al quale era caduta la Sicilia come il più prossimo al re Martino, morto senza prole; e convenendo con lui che l'adotterebbe per figlio e successore nel regno dopo la sua morte, gli diede la provincia di Calabria col titolo di duca, e il Castel Nuovo di Napoli e quello dell'Ovo. E Alfonso venne in Napoli con numerosa flotta, e costrinse il Duca d'Angiò e lo Sforza, che già aveano stretta Napoli di assedio, a ritirarsi in Aversa.

Ma come Alfonso voleva che i baroni e le città del regno gli prestassero omaggio come a loro re, nacquero sospetti nell'animo della regina, la quale temè che con la forza delle sue armi ei non volesse spogliarla del regno e mandarla prigioniera in Aragona. Onde la regina chiudendosi nel Castel Capuano, né volendo vedere Alfonso, scrisse a Sforza in Benevento di venire a liberarla; e l'armata di Alfonso fu vinta da Sforza. Ma giunte in Napoli otto navi e ventidue galee di Alfonso, le quali cominciarono a battere la città, e giungendo tardi il soccorso di Sforza, l'armata di Alfonso prese la città, e in gran parte la saccheggiò; e la regina, in tanto tumulto, temendo non fosse arrestata, fu condotta da Sforza a Nola, e poi ad Aversa.

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Per opporre ad Alfonso un potente nemico, la regina chiamò da Boma il Duca d'Angiò, il quale venne prontamente in Aversa; e Giovanna, rivocata l'adozione di Alfonso, adottò per suo figliuolo Luigi III d'Angiò, dichiarandolo duca di Calabria, come successore nel regno. E la guerra si riaccese e si combatte furiosamente sotto le mura di Aquila; ed ivi passando Sforza a nuoto il fiume Aterno, vi rimase annegato, e prese il comando della sua armata il suo figliuolo Francesco, divenuto poi tanto famoso in Italia. Per la morte di Sforza, la regina destinò Giacomo Caldora e Francesco Sforza per combattere Braccio, ch'era all'assedio dell'Aquila, dove in una battaglia assai sanguinosa Braccio rimase ucciso, e le sue truppe interamente rotte e disperse.

Allontanati i nemici e pacificato il regno, la regina intese alle cure di pace e diede miglior forma all'ordine de' giudizi.

Venne Sergianni in grandissimo potere, e molli baroni erano scontenti e sdegnati contro di lui, il quale chiedeva ogni giorno contadi e ducati per sé e pe' suoi. Ma avendo usato un giorno arroganti maniere con la regina, la Duchessa di Sessa, trovandola per tal cagione piangente nella sua stanza, la persuase di punire l'ardito Sergianni, e ne tolse ella stessa l'incarico, la quale per mezzo di Ottino Caracciolo e di altri fieri nemici del Sergianni lo fece uccidere nella stessa sua stanza in Castel Capuano, il giorno stesso delle nozze di suo figlio Troiano. E così cadde miseramente morto colui che avea insino allora signoreggiato un potentissimo regno, tolti e donati castelli, terre e città a chi a lui piaceva. E il suo corpo insanguinato e difformato dalle ferite fu posto in un cataletto, e con due soli torchi accesi vilissimamente portato a seppellire nella Chiesa de' Frati di S. Giovanni a Carbonera, dove egli vivendo avea fatto innalzare una cappella, e dove fu quindi posto in un magnifico sepolcro. Seppe la regina la morte di Sergianni, e quantunque se ne duolesse, pure ordinò poco dopo che fossero confiscati i suoi beni, come reo di fellonia.

Il Duca di Angiò era nelle Calabrie, mandato dalla regina per ridurre all'obbedienza i baroni íibelli, e di là andò a Taranto con le truppe della regina, insieme al General Caldora, per ritogliere al Principe di Taranto, GiannantonioOrsini, alcune terre de' Sanseverino. Mainfermatosiperil caldo della stagione, tornò a Cosenza, dove mori (1). La regina se ne dolse grandemente, anche per non averio onorato e avuto caro quanto meritava, e non gli sopravvisse che tre soli mesi. La regina mori il 2 febbraio dell'anno 1435, nell'età di anni 65, dopo averne regnato 20; e mori travagliata dai dolori dell'animo e dai suoi mali. Ordinò che fosse seppellita nella Chiesa dell'Annunciata di Napoli, senza alcuna pompa, in povero ed umile sepolcro, ove giace ancora. Lasciò con testamento erede Renato, fratello del morto Duca d'Angiò, conte di Provenza e di Lorena, destinando sedici consiglieri all'amministrazione del regno,

(1) Morendo Luigi d'Angiò m Calabria, fece testamento e lasciò che il corpo suo fosse portato all'arcivescovado di Napoli, e il cuore si mandasse in Francia alla regina Violante sua madre; e ciò fu fatto; ma il corpo restò nella maggiore chiesa di Cosenza, dove ancora si vede il suo tumolo.

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finché Renato non vi fosse venuto, il quale allora era prigioniero di Filippo di Borgogna.

Innanzi di porre termine a questo periodo della nostra storia, ricorderemo che Giovanna Il formò la G. Corte della Vicaria, nella quale riunì i tribunali e le procure della giustizia per le cause civili e le criminali, e diede molte altre ordinazioni, e le dispose di tempo in tempo col consiglio de' suoi savj, ed ebbero nome di Riti, e forza di legge, e risguardavano principalmente i processi da seguire nell'ordine de' giudizj. Quei Riti furono esposti con pieni commenti da' nostri giureconsulti di quel tempo, anch'essi tenuti in pregio e ricordati nella storia, quantunque non sieno da paragonare cosi nel numero come nel sapere con coloro che vissero sotto il re Roberto e sotto la regina Giovanna I sua nipote.

Formò Giovanna II il Collegio di Napoli, composto di tre ordini di dottori, ed erano di legge civile e canonica, di filosofia e medicina, e di teologia, ed essi davano i gradi dottorali; il quai collegio, quantunque ceda a quello di Salerno per antichità, s'innalzò sopra di esso per numero e per dottrina di professori.

Le rivoluzioni accadute dopo la morte del re Roberto turbarono non meno lo stato politico e temporale di questo reame che l'ecclesiastico e spirituale di queste nostre chiese. Lo scisma che derivò dall'elezione di Urbano VI e di Clemente VII vi fece conoscere in un medesimo tempo non pure due re, ma due papi; e diviso il regno in fazioni, siccome miseramente afflissero l'imperio, cosi anche il sacerdozio rimase in confusione, ed in continui rivolgimenti e disordini. E non fiorirono le nostre chiese durante il tempo dello scisma, e le ostinate guerre obbligarono sovente i nostri principi a dare ai beni delle chiese guasti orribili, e a valersi per gli stipendi de' soldati de' loro vasi d'oro e d'argento.

Gli ordini religiosi più favoriti sotto il regno degli Angioini furono quelli de' frati Predicatori e de' frati Minori. E la regina Giovanna dispose anch'ella il suo animo ad opere di pietà inverso di loro, ed ella fondò un nuovo ospedale nella chiesa dell'Annunciata in Napoli, dotandolo di ricchissime rendite;e grandi soccorsi e favore ella diede a Giovanni da Capistrano, il quale, lasciando le lotte del foro, entrò nell'ordine religioso di S. Francesco, e si fece capo di una crociata contro i fraticelli e gli Ussiti e contro i Boemi.

Sotto il regno de' Durazzeschi disparvero quasi per intero le forze marittime; e caddero le industrie e il commercio, e le città impoverirono e furono desolate dalle continue e sanguinose guerre. E quei che cagionarono i mali maggiori furono i soldati di ventura con le loro continue devastazioni e ruberie.

Dominazione degli Aragonesi

(14351504).

La città di Napoli e molte altre del regno, non che i baroni, ch'erano divisi in fazioni, parteggiavano alcuni per Renato, ed altri, sparsa una voce di essere falso il testamento della regina Giovanna, o sedotta a farlo contro sua volontà, seguivano Alfonso, il quale dalla Sicilia approdò con potente flotta ad Ischia, e poi alla marina di Sessa, per convenire co' baroni che sostenevano le parti sue; e Capua per opera del Duca di Sessa innalzò le sue bandiere, e Gaeta fu stretta di forte assedio da Alfonso per mare" e dal conte di Fondi e da quello di Conversano per terra.

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Alfonso armò la sua flotta nella Sicilia e venne all'assedio di Gaeta, ma gli abitanti di quella città, non volendolo per loro sovrano, chiesero aiuti ai Genovesi, i quali erano nemici de' Catalani. E i Genovesi vennero con alcune navi e soldati, stimolati molto da Filippo Visconti duca di Milano, allora signore di Genova, il quale mal sofferiva di vedere Alfonso assai potente in Italia.

Come seppe ciò Alfonso, mandò la sua truppa migliore sopra alcune navi e galee per combattere la flotta de' Genovesi. Incontraronsi le due flotte alle alture dell'isola di Ponza, e il combattimento fu fiero e durò lungo tempo, ma infine trionfò il valore e la perizia de' Genovesi, e la flotta di Alfonso fu interamente sconfitta. rimanendovi prigioniero egli stesso, il re di Navarra e tutt'i baroni che l'aveano seguito, i quali furono condotti a Genova e poi a Milano.

Intanto essendo Renato prigioniero del duca di Borgogna, mandò Isabella sua moglie a prender possesso del regno, ed ella venne e fu ricevuta come regina, giurandole omaggio quasi tutt'i baroni. Ella fece di riacquistare tutte le provincie e città perdute, ed era capitano delle sue truppe Micheletto Attendolo. Ma il duca di Milano, stimando cosa più utile che in Italia regnassero gli Aragonesi anzi che i Francesi, lasciò libero Alfonso con tutti i prigionieri, convenendo con lui una perpetua alleanza. Di che si dolsero i Genovesi, ed ucciso Obizzino, governatore della città per parte del duca, ritornarono all'antico libero stato della loro repubblica.

Alfonso ritornò nel regno, ed aiutato da' baroni, stati prigionieri con lui, e dagli altri che seguivano le sue parti, vide molte provincie e città innalzare le sue bandiere. Si riaccese la guerra, e combattevano per Isabella il patriarca di Alessandria, mandato dal pontefice Eugenio, e i soldati del Caldora, e poco di poi lo stesso Renato d'Angiò, riscattatosi dalla sua prigionia con 400 mila ducati. Fu varia la fortuna di questa guerra, ed essendo morto quasi improvvisamente il Caldora, ed avendo il suo figliuolo Antonio, che prese il comando della truppa, vietato ai suoi soldati di combattere i nemici, Alfonso venne in Napoli, cinse la città di assedio, e fatti entrare 300 soldati per un acquidotto che alcuni muratori gli aveano mostrato, e usciti per un pozzo di una casa vicina alle mura di S. Giovanni a Carbonera, e occupata la porta di S. Sofia, e posta sulle mura la bandiera Aragonese, Alfonso rinnovò l'assalto, e, rotta quella porta, l'esercito entrò in Napoli nel modo stesso che nove secoli prima vi era entrato quello di Belisario: la città fu saccheggiata fino a che entralo Alfonso ordinò pena di morte a chiunque recasse violenza ai cittadini nei beni o nella persona; e il nome di Alfonso fu gridato nella città, e a lui come a re fu dato omaggio e giuramento di fedeltà dai nobili e dal popolo (Giugno 1842).

Renato ritornò in Francia; e Alfonso, ridotto l'intero regno alla sua dominazione, riuni in parlamento in Napoli tutt'i baroni, e, riconfermali i privilegi ch'erano stati loro conceduti, sulla dimanda del duca di Sossa e di tutt'i baroni, dichiarò futuro re successore nel regno di Napoli il suo figliuol naturale Ferrante; e fattolo sedere ai suoi piedi, i baroni ch'erano presenti gli giurarono omaggio e fedeltà come a sovrano, e fu investito del ducato di Calabria. In questo parlamento non intervennero i vescovi

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e i deputati delle città, siccome si era usato ne' generali parlamenti riuniti da' re Normanni; e non fu che un'assemblea di soli baroni chiamati da Alfonso per far riconoscere suo successore Ferrante suo figlio; e ai baroni Alfonso concedè molti privilegj, scemando il suo proprio potere e quello de' suoi ministri, la quale liberalità divenne funesta ai suoi discendenti.

Alfonso si pacificò col Pontefice Eugenio, e volle che tutt'i suoi sudditi lo riconoscessero per vero papa, e il pontefice riconobbe la successione di Ferrante al regno di Napoli. E in difesa del papa, e per ritogliere a Francesco Sforza la Marca d'Ancona, Alfonso entrò con la sua armata nell'Umbria, e a lui erasi unito Niccolò Piccinino, valoroso capitano di quel tempo; e, costretto Sforza a ritirarsi, furono innalzate le bandiere della Chiesa, e Alfonso ritornò in Napoli.

Ferrante tolse in moglie Isabella di Chiaromonte, figliuola di Tristano duca di Cupertino e di Caterina Orsini sorella del principe di Taranto, il più potente fra' baroni di quel tempo. E dopo ciò Alfonso, possedendo i regni di Aragona, di Catalogna, di Valenza e di Sicilia, il Rossiglione, la Corsica e la Sardegna, gli piacque di fermare la sua sede reale in Napoli, ch'egli adornò di nuove e magnifiche fabbriche; ed ampliò il molo, l'arsenale, il Castel Nuovo, dove all'entrare della porta fu posto, come oggi si vede, il magnifico arco trionfale, fatto innalzare dalla città per eternare la memoria di quel giorno in cui Alfonso, pacificato il regno, entrò in Napoli in trionfo. Fece ristaurare gli acquidotti, lastricare le strade, disseccare le acque stagnanti delle vicine paludi. Istitui un nuovo tribunale supremo, che fu chiamato Sacro Consiglio, spesso preseduto dal re medesimo o da un presidente ch'egli vi destinava; e diede nuova forma alla corte del G. Camerario, ch'egli chiamò Regia Camera, a cui fu dato il potere di giudicare tutte le cause feudali in cui vi fosse interesse del fisco (1).

Alfonso entrò nella Toscana con forte esercito per venire in aiuto del duca di Milano, contro cui mossero guerra i Veneziani e i Fiorentini; e preso Castiglione con altre terre, si volse all'assedio di Piombino; ma, infermatasi gran parte dell'esercito per l'aere malsano prodotto dalle maremme vicine, fu costretto a ritornare in Napoli.

Era grave di anni il re Alfonso, e preso dall'amore di Lucrezia di Alagno, giovane bella e di ornati costumi, il cui padre era barone della Torre dell'Annunciata, si lasciò governare da lei, e volle che fosse onorata come regina. I Veneziani rinnovarono la guerra contro il duca di Milano, e Alfonso mandò Ferrante suo figlio con cavalli e fanti nella Toscana per far guerra ai Fiorentini. Intanto la città di Costantinopoli era presa di assalto da Maometto Il imperatore de' Turchi, rimanendo ucciso Costantino Paleologo ultimo imperatore de' Greci. E Papa Nicola cercò allora di spegnere l'incendio delle guerre che ardevano in Italia, nella Germania e nell'Ungheria, e scrisse a tutt'i principi cristiani, invitandoli a mandare ambasciatori a Roma per convenire una pace fra tutti e opporsi ai Turchi, i quali aveano già tolto Pera ai Genovesi, ed estendevano le loro conquiste nel Mare Egeo con grave danno e terrore de' popoli e de' principi cristiani.

(1) Questo tribunale fu detto del S. Consiglio di Santa Chiara, e poi di Capuana, ed era il tribunale delle appellazioni, costituito supremo a tutti gli altri, riconoscendo per suo capo il re stesso, ed essendo formato di persone illustri per nobiltà e dottrina. Questo tribunale Alfonso tenne sovente nell'Ospizio di Santa Maria Coronata, chiesa regia, ove i re suoi predecessori con solenne pompa solevansi coronare; alcune volte net Castet Capuano, e più frequentemente nel Castel Nuovo.

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E il duca di Milano si compose in pace co' Veneziani, e divenne assai potente in Italia, e si che Alfonso volle stringerlo in parentado con Ferrante suo figlio, facendo che Ippolita figliuola del duca sposasse Alfonso figliuol primogenito di Ferrante. Intanto il re Alfonso, andato in Puglia per una caccia, infermò gravemente, e ritornò in Napoli, e poco di poi mori nell'età di 64 anni, lasciando il duca di Calabria erede del regno di Napoli, e Giovanni suo fratello re di Navarra, erede del regno di Aragona e di Sicilia (1).

Alfonso amò ¡l fasto, tenne in pregio le lettere, e onorò grandemente gli uomini celebrati per sapere e per arte, e gli uomini prodi di braccio e di consiglio, egli ammiratore della grandezza de' Romani, delle magnanime loro imprese, della loro sapienza e prudenza non meno civile che militare. E molti trovarono asilo qui tra noi fuggendo da Costantinopoli, e intesero all'insegnamento del greco e del latino, e fecero conoscere agl'Italiani il sapere de' poeti, degli oratori, de' filosofi e degli storici greci, pubblicando molti manoscritti che aveano portati con seco. E Alfonso fece tradurre i libri di Aristotile, e la Ciropedia di Senofonte, e formò nella reggia una biblioteca di libri assai rari in quel tempo; ed egli istitui la famosa Accademia che fu prima diretta da Antonio Panormita e poi da Gioviano Pontano, da cui tolse il nome.

Poi che Alfonso mori, ricordandosi tutti del giuramento fattogli, e grati alla memoria di lui, gridarono re Ferrante; ed essendosene il re andato a Capua, per cagione della peste entrata in Napoli, chiamò i vi i baroni e i deputati delle città in general parlamento, e tutti concordemente gli giurarono omaggio come a sovrano.

Gli negò l'investitura del regno Papa Callisto , dichiarandolo non legittimo re, né figlio di Alfonso; ma gliela concedè Pio I I succeduto a Callisto, e mando il Cardinale Orsini a coronarlo nella città di Barletta, ove allor si trovava, convenendo che Ferrante avrebbe restituita al papa la città di Benevento.

Intanto alcuni baroni del regno, incitati dal principe di Taranto, assai ricco e potente in quel tempo, temendo Ferrante non avesse a spogliarli de' loro poteri, si ribellarono contro di lui, e chiamarono all'acquisto del regno il duca d'Angiò, il quale trovavasi allora in Genova. E venne il duca d'Angiò con motte galee, e sbarcò alla foce del Garigliano, e unironsi con lui motti baroni; e in aiuto di Ferrante vennero le genti del papa, condotte da Simonetto. I due eserciti si accamparono nelle vicinanze di Sarno, e segui ivi un fiero combattimento, nel quale restò morto Simonetto; e vedendo il re che la sua armata cedeva disordinatamente, e molti fuggivano, egli cercò di salvarsi, e con soli venti cavalli tornò in Napoli. Ma rifatto il suo esercito con la nuova truppa che condusse Antonio Piccolomini, e con l'altra del duca di Milano, comandata da suo fratello Alessandro Sforza, il re parti per la Puglia, prese le città di Sansevero e Montesantangelo, e pervenne a Barletta, dove essendo da una parte Giacomo Piccinino, e dall'altra le genti del principe di Taranto, il re dovette la sua salvezza a Giorgio Castriota Scanderberg, signore di Albania, il quale venne in suo aiuto con settecento cavalli e mille fanti, e costrinse

(1) Alfonso mori nel Castello dell'Uovo, e il suo cadavere fu con superbo funerale rinchiuso dentro un forziere, e prima depositato nel Castello dove mori, c poi portato nella Chiesa di S. Domenico Maggiore.

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Piccinino e Giulio Acquaviva a ritirarsi dall'assedio. Il re ritornò quindi in Napoli, e Castriota, essendo che i Turchi, rotta la tregua che aveano fatta con lui, tentavano d'invadere un'altra voltai suoi stati, tornò con le sue truppe alla difesa dell'Albania.

Non cessò la guerra, e il duca di Angiò e Piccinino si accamparono al colle di Troja, ed ivi venuto il re col suo esercito, segui feroce combattimento, e il re vinse i suoi nemici, i quali con gli avanzi del loro esercito si salvarono a Lucera. Dopo questa vittoria i baroni del regno si sottoposero al re, e il principe di Taranto mandò a chiedergli pace, la quale segui per opera del Cardinal Legato in Benevento (anno 1462). Ma non fu durevole quella pace, ed essendosi in fine di quell'anno trovato il principe strangolato nella città di Altamura, né lasciando figliuoli, s'impadronì il re delle sue terre e del suo ricco tesoro: fu imprigionato il duca di Sessa, e gli furon tolti i suoi stati: Piccinino erasi pacificato col re, ed aveva avuta in feudo la città di Sulmona; ma fattolo venire in Napoli, e condotto nel Castelnuovo, per mostrargli il suo ricco tesoro, lo fece arrestare, ed ivi poco di poi lo fece morire strangolato.

Intanto Alfonso duca di Calabria sposava (anno 1465) Ippolita Maria Sforza, flgliuola del duca di Milano; e Ferrante, volendo stringersi in nuovo parentado con Giovanni re di Aragona, fratello di Alfonso suo padre, tolse in moglie la sua figliuola Giovanna, e la fece incoronare regina dal Legato del Papa.

Scoppiò a Firenze la congiura de' Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de' Medici, i quali, , per l'autorità loro e potere acquistato sul popolo, quasi reggevano interamente quella repubblica; e Giuliano fu ucciso con un colpo di stile nella Cattedrale di Firenze, essendo la chiesa piena di popolo, e Lorenzo, ricevuta una leggera ferita nella gola, scampò. Il popolo corsa alle armi in favore de' Medici, e furono impiccati l'arcivescovo di Firenze, Jacobo Salviati e Francesco de' Pazzi.

Per la qual cosa il papa scomunicò i Fiorentini, e, unito al re Ferrante, mosse guerra contro di essi. L'armata del re condotta dal duca di Calabria entrò nella Toscana, occupò molte terre e castella de' Fiorentini, il cui esercito pose in fuga. Lorenzo de' Medici venne allora in Napoli, e propose al re la pace, ed esponendogli lo stato d'Italia, e quanto si avea a temer dalla guerra, il re non solo convenne con lui la pace, ma volle stringersi in alleanza.

Intanto un improvviso avvenimento sparse il terrore in tutta l'Italia, e fu la presa di Otranto fatta da' Turchi, l'11 Agosto 1480, con orribili uccisioni e crudeltà. La città di Otranto non oppose ai Turchi che 1400 combattenti; i cittadini più che i soldati fecero valorosa difesa, ma contro potente e numeroso esercito nemico nulla valse lo straordinario valore. In quindici di fu presa la città per assalto, dove entrati furiosamente quei barbari, non vi fu crudeltà che non praticassero, incendi, ruberie, morti (1). Contro di essi unironsi allora il papa, il re Ferrante e quello di Ungheria, i duchi di Milano e di Mantova, i Fiorentini ed i Genovesi, e mandarono eserciti e molte galee.

(1) In questa guerra mori Matteo di Capua conte di Valena, vecchio capitano e per tutta Italia riputato insigne; mori Giulio Acquaviva, conte di Conversano, il quale avea avuti i supremi onori della milizia dal re Ferdinando; mori Marino Caracciolo, ed un gran numero di cavalieri molto onorali. In quella strage crudelissima caddero morti 800 cittadini, le ossa de' quali Alfonso fece seppellire con grande onore e religione, e molte furono portate in Napoli e riposte nella Chiesa di S. Maria Maddalena, e di là poi trasferite nella Chiesa di S. Caterina a Formello, dove ora sono adorate come reliquie di martiri.

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In questo giunse la notizia della morte di Maometto, e i Turchi, perduta ogni speranza di soccorso, renderono la città al duca di Calabria, il quale permise loro di poterne partire liberamente sopra le proprie navi, ch'erano nel porto. Partiti i Turchi, il re Ferrante avrebbe voluto portare la guerra in Oriente per deprimere le loro forze, ma non vi acconsentirono gli altri principi alleati. E allora, avendo i Veneziani invaso con grande amata lo stato del duca di Ferrara, la cui moglie Dianora era figliuola del re Ferrante, questi per vendicarsi de' Veneziani che aveano chiamati i Turchi nel regno, e per la difesa del duca, mandò in suo aiuto con molta truppa Alfonso duca di Calabria; ma essendosi ai Veneziani unite le truppe del Papa, e venuti a battaglia, Alfonso rimase vinto. Pure non volendo il papa che i Veneziani si rendessero molto potenti in Italia, si cessò dalla guerra, e i principi italiani e il papa si composero tutti in pace.

Era tranquilla l'Italia, ed estinte nel regno le antiche discordie, ma non tornò la pace. La natura crudele ed altera del duca di Calabria aven destato forti sospetti nell'animo di Antonello Petrucci, segretario del re, e in Francesco Coppola conte di Sarno, e ne' più potenti baroni del regno; i quali temendo di essere spogliati de' loro beni, siccome era accaduto al principe di Taranto e al duca di Sessa, fecero il disegno di unirsi in una lega contro il re e contro ¡l duca di Calabria. E per riuscire più sicuramente mandarono deputati al papa Innocenzio VIII, ed accusando il duca di Calabria di crudeltà, di avarizia, e di avere quasi distrutto il regno co' gravi tributi, gli offerirono il regno, e non volendolo accettare per se, ne investisse Renato duca di Lorena, nipote di quell'altro Renato di Angiò, che fu da Alfonso cacciato dal regno.

E il pontefice accettò l'offerta de' baroni, e scrisse a Renato di Lorena offerendogli l'investitura del regno. Ma scoverto quanto i baroni aveano operato in Roma, il re mandò Giovanni Cardinal d'Aragona suo ilglio a pregare il papa di volere spegnere un tale incendio di guerra, che avrebbe turbato e sconvolto il regno e l'Italia. Ma il papa non volle cangiare propositi; onde il re mandò il duca di Calabria negli Abruzzi, e i congiurati corsero tutti alle armi, e il regno fu involto fra tumulti e sedizioni. Ma non venendo in loro aiuto il duca di Lorena, e non potendo senza soccorso straniero resistere alle armi del re, si consigliarono di dimandargli la pace, e l'ottennero; e fu mandato in Salerno D. Federico secondogenito del re per convenire ne' patti della pace; ma i baroni ivi riuniti non vollero accettare alcun patto, e, non che pacificarsi col re, dissero a Federico ch'essi intendevano di eleggere lui per sovrano, il governo del re suo padre e di Alfonso suo fratello essendo assai duro ed insopportevole. E gli rammentarono esser egli nato sotto questo cielo ed in questa preclara parte d'Italia per loro scampo; dovere la pietà del suo cuore essere mossa dalle loro miserie, abbracciare i loro innocenti flgliuoli, confortare le spaventate madri, e finalmente non soffrire che cacciati dalla necessità ricorressero per aver salute in grembo a genti barbare. Ma ¡1 principe cui non movea né ambizione né immoderata sete di dominare, riguardando ciò come una violazione di tutte le leggi, e come impresa molto temeraria, rifiutò l'offerta, e allora i baroni in cambio di farlo re lo fecero prigione, e si scoprirono non meno aperti che ostinati nemici del re.

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Federico seppe fuggire dalle mani dei baroni e ritornò in Napoli; e il re mandò forti armate nello Stato del papa, a Capua e nelle Puglie; e cominciò la guerra ostinatamente; ma il papa si lasciò piegare a patti di pace, e convenne che il re pagasse i consueti tributi; e il simigliante fecero i baroni, vinti meno dalle armi che dalle arti del duca di Calabria, il quale, perché deponessero le armi e abbandonassero le fortezze, promise che avrebbe lasciati loro i feudi, con poter essi andare liberamente, ove il volessero, anche fuori del regno. Ma il disegno celato del duca di Calabria era quello di farli morire tutti; e cogliendo l'occasione delle nozze che celebravansi nel Castel nuovo tra la nipote del re, figliuola della duchessa di Amalfi, e il figliuolo del conte di Sarno; vedendo ivi riuniti Petrucci, i suoi figli, e il conte di Sarno, li fece arrestare ed imprigionare, e poi, come rei di fellonia, condannare a morte. E la stessa sorte ebbero gli altri baroni nemici del re, e, tra gli altri, il duca di Sessa, i quali furono fatti strangolare nel carcere (1).

Intanto il re Cario VIII di Francia, credendo che il regno di Napoli si appartenesse a lui, come erede de' re Angioini, che vi aveano dominato, e del ducato d'Angiò, caduto a lui, per la morte dell'ultimo duca, preparava nuove armi per venire alla conquista del reame. E il re Ferdinando tentò inutilmente di trarre nel suo partito il pontefice Alessandro VI, offrendo Sancia figliuola naturale del duca di Calabria a Giuffrè Borgia, la quale il pontefice aveva innanzi richiesta, col principato di Squillace in dote. E avendo chiesto soccorsi inutilmente a Ferdinando il Cattolico, suo congiunto, divenuto allora assai potente, per avere riuniti in uno i regni di Spagna e quello di Sicilia, dopo il suo matrimonio con Isabella di Castiglia; e perduta ogni speranza di pace, tormentato da gravi timori, fu preso da forte malore, e in pochi giorni morì nell'età di 64 anni, lasciando il regno ad Alfonso duca di Calabria suo primogenito.

E Cario VIII, incitato pure da Ludovico il Moro duca di Milano e dal principe di Salerno, e da altri che seguivano le sue parti, venne in Italia con numerosa flotta e forte esercito. Alfonso spedi nella Romagna con un'armata Ferdinando suo primogenito duca di Calabria, e Federico suo fratello con una flotta contro di Genova, che allora obbediva al duca di Milano; e si rivolse per avere aiuti sino allo stesso Bajazette Signore de' Turchi. Ma queste resistenze furono inutili, chè l'esercito di Cario entrò vittoriosa^ mente nella città di Firenze e in Roma, e Ferdinando fu costretto a ripiegare su' confini del regno, e condurre la sua armata a San Germano per difenderne l'entrata. Il re Alfonso vide allora vicino il pericolo, e temendo la vendetta de' baroni e del popolo, de' quali era grandemente odiato, per l'avarizia sua e per le passate crudeltà, chiamò in Napoli Ferdinando suo figlio, e gli rinunziò il regno (23 Gennaio 1493), e imbarcatosi sopra cinque galee, si fece condurre prima a Mazzara e poi a Messina.

Il nuovo re tolse motte gravezze, che il popolo non poteva tollerare; liberò tutt'i baroni tenuti in carcere per le passate vicende, facendo anche loro restituire i beni; e prese in moglie Giovanna, figliuola di Ferdinando

(1) E cosi l'allegrezza di quel convito fu cangiata in estremo lutto ed amaro pianto. I figliuoli del segretario Antonello Petrucci furono fatti giustiziare sopra un palco nella piazza del Mercato; e pochi mesi dopo, fatto dentro la porta del Castelnuovo un palco altissimo, e tale che potea essere veduto dalla città, fu fatto mozzare il capo al Conte di Samo ed al Segretario Petrucci.

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suo avo e di Giovanna d'Aragona, che quel re avea sposata in seconde nozze. Ma sentendo che l'esercito di Carlo avanzava rapidamente, e che le città e le terre si rendevano a lui senza fare alcuna difesa, Ferdinando, senza porre tempo in mezzo, corse per opporsi al suo cammino: ma giunto ad Aversa seppe che la sua armata si era dispersa; e quindi tornato in Napoli, e affidata la difesa del Castel Nuovo ad Alfonso d'Avalos Marchese di Pescara, e vedendosi abbandonato fino da coloro che la Casa d'Aragona avea grandemente beneficati, non potendo più difendere la città, imbarcò con la sua famiglia e con Federico suo zio, e sopra cinque galee si fece condurre ad Ischia; dove, avendo saputo che il re Carlo era entrato trionfante in Napoli, che il Marchese del Vasto avea lasciato il Castello, scoverto che la guarnigione congiurava per cederlo ai nemici, e che tutto era perduto, s" imbarcò con tutti coloro che vollero seguirlo, e andò dal padre a Messina. Allora le città più forti del regno e le castella riconobbero il nuovo vincitore; e non rimasero nella fede del re Ferdinando che Lipari, Scilla, Tropea, Amantea, Gallipoli e Brindisi.

La conquista del regno, eseguita da Carlo VIII con tanta facilita, destò forte sospetto ne' principi d'Italia, non volesse sottoporla tutta intera alla sua dominazione; e temè fino lo stesso Ludovico il Moro, che lo avea stimolato a tale impresa, col disegno di abbassare l'orgoglio del re di Napoli; e l'imperatore Massimiliano perché re Cario, conquistata l'Italia, non cercasse di rinnovare l'esempio di Cario Magno;e temè Ferdinando il Cattolico per il suo regno di Sicilia, alla difesa del quale mandò Consalvo da Cordova con cinquemila fanti e sei cento cavalli. Onde, temendo ognuno del potere di Cario, fu convenuta quella famosa lega fra papa Alessandro, i Veneziani, Ludovico il Moro, l'imperatore Massimiliano e Ferdinando il Cattolico per cacciarlo d'Italia.

Intanto il re Cario vivea in Napoli lietamente tra feste e tra giostre; e, dando favori e poteri a coloro che lo aveano seguito, spogliandone gli antichi possessori, usava co' Napolitani maniere superbe. Volle che i baroni, e le terre e le città del regno gli rendessero omaggio come a sovrano, e fecesi incoronare con molta pompa nel Duomo di Napoli. Ma in quel giorno medesimo egli seppe la lega formata in Italia contro di lui;e, senza frapporre altra dimora, parti di Napoli per ritornare in Francia, innanzi che gli fosse chiuso il passaggio, lasciando al governo e difesa del regno Giliberto di Borbone conte di Montpensier.

Gli alleati lo aspettarono accampati nella valle del Taro; e venuti ivi a battaglia, giunse il re ad aprirsi una via in mezzo a' nemici, e passare oltre con una parte del suo esercito; e lasciando nel campo degli alleati molti carri e artiglierie. pervenne ad Asti, e di là ritornò in Francia.

Ferdinando, unite insieme molte galee e buon numero di soldati, pervenne alla spiaggia di Napoli, e sbarcava la sua truppa al lido della Maddalena; ma il generale Montpensier, uscito fuori della città con tutt'i soldati della guarnigione, fece di opporsi alla sua discesa; ma allora levati i Napolitani a rumore, al suono delle campane delle chiese, e prese le armi, uccisero quanti incontrarono per le strade nemici degli Aragonesi, e gridarono per ogni parte il nome del re Ferdinando, il quale da immenso popolo fu portato trionfante nella città, accompagnato dal Marchese del Vasto. Si accese quindi la guerra tra Napolitani e i Francesi nella città, e fu posto l'assedio al Castel Nuovo, guardato da' Francesi,

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nel quale assedio il marchese di Pescara mori per tradimento di un moro del Castello, ch'era stato suo schiavo, e gli succedè Prospero Colonna nel comando delle armi. Si accese la guerra in tutte le città e terre del regno, dove avea soldati e partigiani del re di Francia. E mentre seguivano tali cose nel regno, mori nel Convento de' Monaci Olivetani di Messina, fra' quali erasi ritirato, Alfonso II, dolente della trascorsa sua vita (29 Novembre 1496).

In aiuto di Ferdinando vennero i Veneziani comandati dal marchese di Mantova, e gli Spagnuoli comandati, da Consalvo da Cordova, ed attaccarono l'armata francese vicino alla città di Atella, e la ridussero a tale che Montpensier fu costretto a capitolare, convenendo di cedere al re tutte le piazze occupate da' Francesi, e, salve le persone e le robe, ritornare in Provenza.

E cosi fu fatto, e, libero il regno de' nemici, il re venne in Napoli fra le acclamazioni del popolo; ma infermatosi gravemente per le fatighe e i disagi sofferti in quella guerra, mori il 7 settembre 1496. E fu pianto il giovine re, il quale, dopo avere con tanto valore e prudenza liberato il regno da tanti nemici, seguendo miti consigli, e perdonando a coloro che gli aveano nociuto, egli prometteva con saggio e benigno governo di fare tranquillo e prosperevole il suo regno.

Non avendo il re Ferdinando lasciato di sé alcuna prole, Federico suo zio fu proclamato re e coronato nella città di Capua dal Cardinal Borgia. Ed egli che si preparava a ristaurare i danni di questo regno, e ne sarebbe stato capace, non potè portare a termine il suo disegno, minacciato da una guerra esterna crudelissima. Cario VIII era morto improvvisamente, e gli era succeduto il duca d'Orleans sotto il nome di Luigi XII. Questi diceva spettare a lui il regno di Napoli, come successore de' re Angioini, da' quali era stato posseduto, e pensò di venire a conquistarlo. E per riuscire più sicuramente fece alleanza col re Ferdinando il Cattolico, a cui promise la metà del regno; ma questo trattato si tenne occulto, non volendo re Ferdinando che si sapesse di essersi egli unito a Luigi per togliere il regno ad un suo congiunto; e in questa alleanza trasse ancora i Veneziani ed il papa, offrendo ai primi la città di Cremona, e a Cesare Borgia, figliuolo di papa Alessandro, la Romagna, la Marca e l'Umbria.

Come fu noto al re Federico di esser le armi francesi rivolte contro il regno, pose ogni cura per provvedere alla sua difesa, e mandò tre mila fanti comandati da Fabrizio Colonna, per impedire al nemico, che ingrossava sul confine, il passaggio del Volturno;e mando il duca di Calabria suo primogenito con altra truppa alla difesa della città di Taranto: ed ignorando la lega di Ferdinando il Cattolico con Luigi, spedi più messi a Consalvo da Cordova nella Sicilia per sollecitarlo a venire in suo soccorso. Ma essendo Consalvo approdato nelle Calabrie, e occupando quelle provincie in nome di Ferdinando re di Spagna; e l'esercito francese avendo preso Capua e commesso orribili uccisioni e saccheggi; Federico si avvide dell'inganno usatogli dal re Ferdinando, e non avendo speranza di alcun soccorso, convenne la resa di Napoli e delle fortezze, e, imbarcatosi con la moglie e i figliuoli, si fece prima condurre ad Ischia, e poi in Francia, lasciando prigioniero del re di Spagna il duca di Calabria suo primogenito; per le quali cagioni visse dolorosamente qualche tempo, e mori nell'età di 52 anni, nella città di Tours, il 9 novembre 1504. Egli fu l'ultimo re discendente di Alfonso I, ultimo ancora degli Aragonesi d¡ Napoli.

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Principe saggio e di molte lettere adorno, e a lui, non meno che a Ferdinando suo padre, deve Napoli il ristauramento delle discipline e delle buone lettere. Di lui ci restano ancora alcune savie e prudenti leggi, che si leggono nel volume delle nostre pragmatiche (1).

Dominarono, in poco manco di 70 anni, cinque re della casa Aragonese, quattro de' quali, Ferdinando I, Alfonso II, Ferdinando Il e Federico, s'ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni, anche interrotto il regnare dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. La stirpe Aragonese mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, suscitò tra' baroni lo spirito di parte; le quali divisioni ed universale flacchezza cagionarono che lo stato, da potente regno, cadesse a povera provincia di lontano impero.

Nel regno degli Aragonesi fiorirono tra noi uomini illustri per lettere e per dottrina. E ricorderemo, tra gli altri, il Pontano, a cui Napoli deve la gloria della sua accademia, cotanto celebre in Italia, dove a gara vollero entrare motti nobili de' nostri seggi, ed i maggiori letterati di quei tempi (2). E Giacomo Sannazzaro, gentile poeta, e di cosi soavi costumi che Federico, secondogenito del re Ferdinando II, l'ebbe sommamente caro, e il Sannazzaro non volle mai abbandonarlo, e lo segui in Francia, poi che perdè il reame di Napoli. E Pietro Summonte, letteratissimo, a cui dobbiamo le opere del Pontano e ('Arcadia del Sannazzaro. E Andrea Matteo Acquaviva, egregio non meno nelle armi che nelle lettere, il quale meritò rare lodi dal Pontano e dal Sannazzaro, e dal cui esempio la lunga serie de' duchi d'Atri imparò ad amare i gentili studi e si perpetuò nella protezione delle nobili discipline e delle lettere.

I re Aragonesi provvidero il reame di buone leggi; e mantenendo il fasto e lo splendore della Casa regale, e ristaurando i grandi Ufficiali della Corona, intesero pure a ravvivare le nostre industrie ed il commercio; e furono introdotte molte arti, e segnatamente l'arte della lana e quella di lavorare seta e tessere drappi e broccati d'oro. Crebbe l'agricoltura e la pastorizia, e i ricchi pascoli delle Puglie erano popolati di numeroso gregge.

Sotto il regno di Ferdinando I fu introdotta la stampa; ed in quel tempo medesimo molte famiglie albanesi e dalmate, fuggendo le loro native contrade e la schiavitù de' Turchi, ricovrarono nel nostro regno, ed ebbero assegnate alcune terre, dove dimorano ancora.

Dominazione degli Spagnuoli. Governo de' Viceré

(1804 1734.)

Nella divisione del regno, convenuta fra' due Sovrani, rimasero a Ferdinando il Cattolico le provincie della Calabria e della Puglia, ed a Luigi

(1) Ferdinando il Cattolico e il re di Francia, venendo per togliere ¡1 regno a Federico, mandarono ambasciatori a Boma, ed allegando ch'essi facevano la guerra per beneficio della cristianità, e per potere più facilmente assaltare di qui gl'infedeli, ricercarono il pontefice che concedesse loro l'investitura del regno, seconde la divisione convenuta tra loro.

(2) Del seggio di Nido furono Ferdinando d'Avalos marchese di Pescara, Belisario Acquaviva duca di Nardò, Andrea Matteo Acquaviva duca di Atri, e Giovanni di Sangro. Del seggio di Capuana, il Cardinale Girolamo Seripando e Tristano Caracciolo. Del seggio di Portauova, Alessandro d'Alessandro e il Sannazzaro. E molli altri fuori de' seggi, e molli pure fuori del regno, ira' quali il Bembo.

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le città di Napoli e di Gaeta con la Terra di Lavoro e gli Abruzzi; c per Ferdinando governava Consalvo, e per Luigi il duca di Nemours. Ma non essendo stati bene determinati confini, e ciascuno tentando d'invadere il campo dell'altro, vennero a fatti di armi, ne' quali ebbero varia fortuna; ed essendo maggiori le forze del duca di Nemours, Consalvo perdé molte città e terre, e fu costretto a chiudersi in Barletta, dove era come assediato; ma uscito di là una notte co' suoi soldati, attaccò improvvisamente una divisione dell'esercito nemico, e ne fece prigione il capo; e dopo una tale azione, per iscambievoli ingiuriose parole fra' soldati francesi e gl'italiani che militavano sotto Consalvo, sostenendo ciascuno l'onore della sua nazione, fu convenuto che, per giudicarsi del loro rispettivo valore, tredici uomini di armi francesi, ed altrettanti italiani, fra' quali quattro napolitani, combattessero insieme in campo sicuro; nella quale disfida i Francesi rimasero vinti dagl'Italiani, e furono condotti prigionieri in Barletta fra le acclamazioni de' soldati italiani.

Consalvo volle tentare la sorte delle armi, e portato il suo esercito nelle vicinanze di Canosa, e formato, per consiglio di Prospero Colonna, un largo e profondo fosso, per difendere gli alloggiamenti dall'impeto de' nemici, attaccò furiosamente il campo spagnuolo, e cadde morto il duca di Nemours, e l'armata francese si ritiro disordinatamente. Onde Consalvo s'incamminò con l'esercito vittorioso inverso di Napoli, e fu condotto nella città con molta pompa.

Luigi mandò una nuova armata nel regno, la quale si accampò sulle rive del Garigliano, e non potè avanzare per il terreno molle e fangoso. Ed ivi Consalvo attaccò l'armata nemica, la quale per la malvagità della stagione, e per la scarsezza de' viveri trovandosi indebolita e dispersa in varj luoghi, restò interamente disfatta, e i pochi avanzi fuggirono a Gaeta, dove non potendo più sostenersi, si renderono a patti di potere liberamente ritornare in Francia.

Poi che i Francesi uscirono dal regno, Consalvo governò con molta prudenza in nome di Ferdinando; ma né la savia sua amministrazione, né la conquista che avea fatta del regno per il suo sovrano, lo salvarono dai sospetti di un principe diffidente e¡ geloso. Temè Ferdinando che Consalvo volesse divenire il re di questo regno, o trasferirlo ad altri; e quindi venuto qui tra noi di Spagna, in mezzo a grandi speranze del popolo, promettendo di riordinarlo con migliori leggi ed istituti, e di restituirlo all'antico splendore, riunito un generale parlamento, confermati i privilegj conceduti da' re passati, e portato qualche mutamento nell'ordine de' giudizj e nell'amministrazione della giustizia, parti da Napoli, dopo esservi dimorato sette mesi, senza usare alcuna liberalità, e condusse seco Consalvo, che poi arrivato in Ispagna confinò nelle sue terre, senza mai più chiamarlo alla Corte. Al governo del regno lasciò suo viceré il Conte di Ripacorsa, e creò due altri giureconsulti per reggenti che dovessero assistere a lato del Viceré per sua direzione, onde nacque il nome di Reggenti Collaterali; e cosi cominciò tra noi il governo de' Viceré e il nome e l'autorità del Consiglio Collaterale, a cui furono unite due segreterie, una di pace ed un'altra di guerra.

Fu, oltre a ciò, formato in Ispagna un Consiglio supremo, ove si trattasse degli affari d'Italia, e si componeva, oltre de' reggenti spagnuoli, di ministri che venivano mandati da Napoli, da Sicilia e da Milano, e fu detto il Consiglio Supremo d'Italia.

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E qui nel nostro reame scemò l'autorità de' grandi ufficiali della Corona e della Casa del re, e di tutti gli altri ufficiali minori a loro subordinati, si per l'erezione di questo nuovo consiglio, che per essere mancata in Napoli la sede regia, e trasferita altrove in remotissime regioni.

Avendo il nostro reame perduto i suoi re proprj, scadde dalla sua grandezza c dal suo potere, e fu riguardato come lontana provincia della Spagna, governata da viceré, c per lungo volgere di anni sconvolta e soppraccarica di nuovi e sempre crescenti tributi. Ed essendo a Ferdinando il Cattolico succeduto ne' regni di Spagna c di Sicilia l'Arciduca Cario d'Austria suo nipote, che poi divenne imperatore; ed essendosi per le provincie di Milano e di Pavia accesa guerra fierissima tra l'Imperatore e Francesco I di Francia, il regno fu minacciato da altra nuova invasione, c involto ne' mali funesti della guerra; e combatterono ne' campi lombardi i nostri eserciti, ed erano capitani Prospero Colonna e Ferrante d'Avalos Marchese di Pescara.

In quella guerra l'armata del re di Francia fu vinta e dispersa, e il re Francesco fatto prigioniero; il quale dopo un anno di prigionia accettò le dure condizioni che gli furono poste dall'Imperatore e fu libero; ma come ritorno in Francia, non volle tenere i patti, e rinnovò la guerra in Italia, unendosi co' Veneziani c con Papa Clemente VII, e mandò il principe di Vaudemont alla conquista del regno; il quale giunse ad impadronirsi di alcune città nostre marittime, di Pozzuoli, di Sorrento, Castellammare, e venne fino sotto le mura di Napoli. Ma l'esercito francese fu messo in fuga dal viceré Lanoy, tornato in Napoli dalla Spagna con 30 navi e 16 mila fanti, valoroso ed esperto capitano; e il duca di Borbone giunse con l'esercito imperiale sotto le mura di Roma, e fatto di assalire la città, e cadendo egli morto da un colpo di artiglieria, i suoi soldati entrarono furiosamente in Roma, c rinnovarono con maggiori barbarie i saccheggi e le crudeltà che vi commisero i Goti ed i Vandali, e fecero prigioniero il pontefice.

Ma non cessò la guerra, e togliendo occasione dalle stragi e dalle rapine operate in Roma da' soldati del duca di Borbone, e dalla prigionia del pontefice, i re di Francia e d'Inghilterra, fierissimi contro l'imperatore, non solo per la pietà cristiana, ma molto più per l'odio implacabile che portavano a Cesare, mandarono un potente esercito in Italia, comandalo dal signore di Lautrech, uno de' più valorosi ed esperti capitani di Francia; e ad essi unironsi i Veneziani e gli Svizzeri. E l'esercito francese entrò nel reame per la via degli Abruzzi, e s'impadronì di molte città e provincie nostre, e giunse ad accamparsi intorno alle mura di Napoli, la quale tenne assediata, non volendo assaltarla per la moltitudine de' suoi difensori, e sperando che si rendesse per mancanza di viveri. Intanto Filippino Doria combatteva e disperdeva la flotta napolitana nel golfo di Salerno, non formata che di poche navi, nella quale lotta presero parte come semplici soldati D. Ugo di Moncada, ch'era il viceré, Ascanio e Camillo Colonna e Cesare Fieramosca. E combatterono valorosamente; ma Ugo fu prima ferito in un braccio, e, mentre confortava i suoi, da' fuochi e da' sassi gittati dalle galee nemiche resto miseramente morto, e poi crudelmente gittato nel mare. E il simigliante fu fatto al Fieramosca; e gli altri tutti feriti e fatti prigionieri. Ma avendo Lautrcch fatto rompere gli acquidotti

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che vi portavano l'acqua dalla parte di Poggioreale, ed essendosi allagati i campi vicini, e l'acqua corrotta dal caldo della stagione avendo fatto l'aere malsano, morirono moltissimi soldati francesi, e lo stesso Lautrech; anche per la peste fatta penetrare nel campo francese per alcuni infetti mandati studiosamente da Napoli. Cosi cominciarono le cose dei Francesi a declinare tanto che erano divenuti da assedianti assediati. E quindi fu conchiusa la pace tra 'l pontefice Clemente coll'imperatore Carlo in Barcellona, seguita poi dall'altra conchiusa col re di Francia a Cambrai.

Il governo del nostro reame era stato commesso al principe di Orange; e sebbene le cose di Napoli si fossero, cessata ancora la peste, in qualche pace e tranquillità, pure il rigore, che il principe di Orange volle usare co' baroni, contristò il reame, ad alcuni togliendo la vita, a moltissimi confiscando le robe, ad altri, per semplice sospetto di avere aderito ai Francesi, componendogli in somme considerevoli. Segui poi il cardinale Pompeo Colonna, e il suo governo fu grave ai sudditi, non tanto per il suo rigore, quanto per le tasse e i donativi immensi a cui costrinse le città nostre ora per l'incoronazione e il passaggio di Cesare in Alemagna, ora per la nascita di Filippo primogenito dell'imperatore, ora per prepararsi a combattere i Turchi guidati da Solimano ne' piani di Ungheria.

Morto il Cardinal Colonna, venne Pietro di Toledo Marchese di Villafranca, uomo forte e severo, il quale, vedendo il popolo oppresse dai Signori, fece di frenare la loro potenza, ed ordinò ai magistrati che rendessero ad ognuno la propria ragione, e giudicassero tutti con le medesime leggi; portò molti e giusti mutamenti nell'ordine de' giudizj, e riunì i tribunali nel Castel Capuano. E posto con savi ordinamenti l'ordine e la quiete fra sudditi, fece di abbellire ed ampliare la città, ed egli ordinò che fossero accresciute le fortificazioni del nuovo castel di S. Eramo; e a lato del Castel Nuovo fosse edificato un regal palagio con ameni giardini, destinato per abitazione de' viceré, e detto poi il Palazzo Vecchio, per cagione del nuovo più stupendo e magnifico, fatto edificare dal conte di Lemos; ed egli, per rendere il palazzo più maestoso, fece aprire quell'ampia strada che anche oggi porta il suo nome. Ornò la città di molte fontane pubbliche di marmo, e nella piazza della Sellaria ne fece ergere una chiamata l'Atlante, per la statua portante sugli omeri il mondo, che fu scolpita di mano di Giovanni di Nola, il più famoso scultore di quei tempi. Ornò la città di nuove e magnifiche chiese ed ospedali, siccome il tempio dedicato all'apostolo Giacomo, protettor delle Spagne, e l'ospedale di S. Maria di Loreto, e quello di S. Caterina. Fece aprire canali che raccogliessero le acque stagnanti delle vicinc terre paludoso; c per munire il regno contro le incursioni dei Turchi fece fortificare le altre città e le marine, facendovi innalzare alte e forti torri.

Intanto il famoso pirata Barbarossa infestava le coste delle nostre Calabrie, e venne con una flotta di 80 galee fin nelle acque di Napoli, dopo essersi impadronito del regno di Tunisi. Ma contro di lui venne l'Imperatore con una flotta di 500 legni e 30 mila combattenti, e a lui unironsi molti baroni di Spagna e di Napoli. La guerra fu portata a Tunisi, e preso il forte della Goletta da' nostri soldati, Barbarossa usci dalla città con 50 mila Arabi, e dopo una sanguinosa battaglia fu costretto a cedere e salvarsi a Bona con l'avanzo de' suoi soldati. MuleyAssem fu riposto dall'Imperatore sul trono di Tunisi, donde il Barbarossa lo avea cacciato. e dichiarò di tenere quel regno come feudo della corona di Spagna.

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L'Imperatore venne quindi in Napoli, dove fu accolto assai lietamente, e furono celebrate feste, giuochi e tornei; pubblicò molte savie leggi, ma queste furono quindi male osservate, resistendo potentemente i baroni a cui erano contrarie.

Non cessò la guerra co' Turchi, e Solimano, stimolato dal Barbarossa, venne con potente flotta e con numeroso esercito sulle coste della Puglia; ma vedendo che il regno era difeso da molta truppa, e che Doria avea con le sue galee disfatta una parte delle sue flotte, ritornò in Costantinopoli dopo avere saccheggiato la piccola città di Castro. E Napoli intanto era sconvolta da forti tremuoti, e nel territorio di Pozzuoli si vide sopra il lago Lucrino innalzarsi improvvisamente la terra formando un alto colle, chiamato poi Montenuovo, nella cui sommità si apri una voragine che mandava fuoco, fiamme, ceneri e pietre (1538).

Il Viceré volea introdurre in Napoli il Tribunale dell'Inquisizione, per punire l'eresia di Lutero, che avea pervertito l'animo di molti; ma ciò produsse tumulti popolari, e i nostri cittadini ricorsero alle armi, e non le deposero se non quando fu loro conceduto un generale perdono dall'Imperatore, ed ordinato che più non si parlasse di quell'odiato Tribunale.

Il principe di Salerno venne di Spagna in Napoli, e non ebbe liete accoglienze dal Viceré, il quale lo riguardava come suo particolare nemico. Quindi il principe fece il disegno di ribellarsi dal potere del Viceré, e di spossessare i re di Spagna, e ricorse ai Veneziani, ad Errico Il di Francia, e a Solimano in Costantinopoli, chiamandoli in suo aiuto, e invitandoli alla conquista del regno. E venne la flotta turca, ma il Viceré pagando duecento mila ducati, la fece partire e lasciar libero il regno.

In questo accadde che quei di Siena, non soffrendo il duro governo degli Spagnuoli, si ribellarono contro di essi, e ne cacciarono il governatore. E l'imperatore mandò D. Pietro di Toledo a sedare quella ribellione, il quale, imbarcatosi sulle galee di Andrea Doria, pervenne a Livorno n quindi a Firenze, dove infermò gravemente, e mori dopo pochi giorni. l1 suo corpo fu trasportato in Napoli e seppellito nella Chiesa di S. Giacomo, nel magnifico sepolcro che vivendo egli avea fatto costruire dal famoso scultore Giovanni di Nola.

Intanto l'imperatore Cario rinunziava i regni di Spagna, di Napoli e di Sicilia col ducato di Milano a Filippo suo primogenito; e fu Filippo ll, il quale avea tolta in moglie Maria regina d'Inghilterra, primogenita di Errico VIII. Al pontificato di Roma ascese il Cardinal Carafa napolitano col nome di Paolo IV, il quale era nemico degli Spagnuoli. Ed egli incitò il re di Francia a mandare un'armata nel reame di Napoli e ritoglierlo ai suoi possessori: e 20 mila Francesi, avendo per loro capitano il duca di Guisa, entrarono nel regno per la via degli Abruzzi, e posero l'assedio a Civitella del Tronto, che si difese gagliardamente. Ma essendo che il duca d'Alba, allora Viceré del reame, con forte armata entrò nello stato della Chiesa, e giunse vittorioso fin sotto le mura di Roma, il pontefice chiamò il duca di Guisa alla difesa della città; e fu tale il terrore sparso dalle armi napolitane, che gli abitanti di Roma, temendo non si avessero a rinnovare gli orrori e i saccheggi commessi pochi anni innanzi dall'armata di Borbone, cominciarono tutti a tumultuare, obbligando il papa a chieder la pace, e rinunziare alla sua alleanza con la Francia.

Dopo questa pace, tornato in Ispagna il duca d'Alba, venne al governo del reame D. Giovanni Zunica, principe di Pietrapersia; ed essendo pontefice Gregorio XIII (anno 1582), fu pubblicata in Napoli la correzione del Calendario, fatta dal nostro celebre astronomo Luigi Lilio, nato in Cirò nella Calabria; la quale approvata dal papa, e da' più dotti uomini di quel tempo, fu ricevuta in tutt'i regni di Europa.

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Vivendo Filippo II, il nostro reame non ebbe a difendersi da nuove armi straniere; ma per le sanguinose guerre che quel re ebbe a sostenere con la Francia e col Portogallo, e per la infelice spedizione contro l'Inghilterra, e molto più per le interminabili guerre delle Fiandre, il nostro reame fu sottoposto a gravi e nuovi tributi, e ridotto in miserevoli condizioni, donde seguirono funesti avvenimenti. Filippo III succedé a suo padre nell'età di 20 anni, l'anno 1598, ed egli tolto da Napoli il conte d'Olivares, il cui governo era aspro ed insopportevole, vi mandò il conte di Lemos, il quale giunse a scoprire la congiura suscitata nella Calabria da Tommaso Campanella della città di Stilo. Il Campanella era frate domenicano, di alta mente e di forti studj filosofici; ed odiando potentemente gli Spagnuoli, fece lo strano disegno di cacciarli dal reame, e formarne una repubblica. E molti trasse nel suo partito, e ad averne aiutosi rivolse anche al Turco; ma scovertasi la congiura, e mandata molta truppa nella Calabria, molti congiurati furon fatti prigioni e messi a morte. Il Campanella fu sottoposto a crudeli tormenti; ma rispondendo egli sempre stupidamente alle dimande che gli venivano fatte, fu creduto fuori di senno, e condannato ad una perpetua prigionia; donde uscito dopo molti anni andò in Francia, e visse il resto degli anni suoi in quel regno (1).

Nel governo de' Viceré che seguirono al duca di Lemos, sotto il regno di Filippo III, noi avremo a notare, che il famoso architetto Fontana innalzò il magnifico edificio degli Studj, dove passarono ad insegnare i professori dell'Università; che furono cavati con mirabil arte quegli ampj canali, che, incominciando dalla città di Nola, e raccogliendo le acque stagnanti, che prima ingombravano le fertili campagne di Marigliano, dell'Acerra e di Capua, le conducono per trentasei miglia al mare di Patria; e che finalmente sotto il governo del Cardinal Zapatta seguirono tumulti popolari prodotti dalla fame per un'infelice ricolto di grani durato tre anni, e per la scarsezza della moneta; il chè portò che molti furono fatti prigioni e giustiziati severamente.

A Filippo III succedè suo figlio nell'età di 16 anni, l'anno 1621, sotto il nome di Filippo IV. Il suo regno fu involto in lunghe e rovinose guerre per le provincie lombarde e per le Fiandre; e la rivoluzione di Catalogna e la perdita del Portogallo, obbligando la Corte di Spagna a mantenere numerose armate in paesi lontani, impoverirono le provincie e i regni della monarchia spagnuola, e più degli altri quello di Napoli per le immense somme di danaro che fu costretto a somministrare. Furono vendute terre e città; e, inceppato il commercio per ragion delle guerre, e per mancanza di danaro e pe' gravi dazj, il regno cadde in misero stato, e vi avea gravi turbamenti, e non erano rispettate le leggi e i magistrati.

Intanto i presidi di Toscana furono occupati da' Francesi, contro de' quali il duca d'Arcos, ch'era il nostro Viceré, vi mandò molte galee e molte truppe, ed ebbe bisogno di fare armamenti straordinari. Per la qual coso, e pe' nuovi soccorsi dimandati dalla Corte di Spagna, il Viceré dimandò alle città nostre un milione di ducati, e per averlo, essendo misere le provincie, si pose un nuovo dazio sulle frutta, che, per la scarsezza e caro prezzo degli altri cibi, formavano l'ordinario nutrimento de' più bisognosi.

(1) Il Campanella ebbe in Francia, per opera del Cardinale di Richelieu, una pensione di due mila lire.

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Ma non volendo ciò sopportare la plebe, cominciò a mormorare e a tumultuare, dimandando che fosse tolto il nuovo dazio: il Viceré allora riuni il Consiglio Collaterale e molti deputati della città, per consigliarsi con loro intorno al partito da prendere; e fu consiglio di molti che non si abolisse il dazio, non essendo la plebe né facile né ardita a commuoversi, e non convenire al governo di cedere alle lagnanze ed alle minacce di una plebe arrogante. E il Viceré segui il consiglio di costoro, disprezzando i clamori del popolo; il quale incitato da' malcontenti, e, tra gli altri, da un tal Giulio Genoino, di spirito turbolento e nemico degli Spagnuoli, tolta l'occasione di un improvviso tumulto, che si destò nella piazza del Mercato per alcune violenze usate dagli esattori della nuova gabella, scoppiò iu un'aperta e sanguinosa ribellione, la quale produsse lunghi e funesti mali. E capo di essa si fece un tal Tommaso Aniello, da' suoi compagni chiamato Masaniello, giovane di 24 anni, sagace e arditissimo, il quale viveva vendendo pesci; intorno a lui si formò una immensa turba di popolo, e correndo la città con ispaventevoli grida, abbruciarono le case di coloro che amministravano le gabelle, e riempirono la città di saccheggi e di uccisioni. E divenuta del tutto inutile la forza delle armi, pel impedire nuove stragi, il Cardinale Filomarino arcivescovo di Napoli, andato a casa di Masaniello, fece di pacificarlo col Viceré, e vennero a patti, e furono aboliti i dazj, e Masaniello dichiarato Capitan Generale del popolo.

Ma venuto in così grande potere, vedendo obbedire a lui un immenso popolo, cominciò Masaniello a folleggiare, e dando ordini stravaganti e crudeli, divenne odioso fino a quelli ch'erano stati suoi partigiani. E il Genoino, ch'era stato infino allora suo consigliere, vedendolo divenir furioso, c temendo per se e per tutti gli altri, fece il disegno di farlo morire, e convennero con lui i capi de' rioni, e molli altri cittadini di ogni ordine, in mezzo ai quali Masaniello rinnovava ogni giorno stragi inumane. E la plebe, seguendo l'impeto de' congiurati, corse per uccidere Masaniello; e lo raggiunse nel convento del Carmine, ed ivi fu ucciso, e troncatagli la testa, fu portata per la città come in trionfo, e fu veduta con piacere e derisa da quella medesima plebe, la quale poche ore innanzi l'avea acclamato e seguito.

Né per la morte di Masaniello tornò la pace nella città, c seguirono nuovi tumulti popolari ed aperte ribellioni. Onde il re di Spagna mandò con una flotta e numeroso esercito D. Giovanni d'Austria suo figliuol naturale, giovine magnanimo e di prudenti consigli, e gli diede ogni potere per comporre le cose del regno. E venuto in Napoli, non potendo ottener nulla pacificamente, usò la forza, e i soldati attaccarono i rioni del popolo, e le artiglierie battevano i castelli e le mura della città. I soldati si difendevano ostinatamente; e, udito che in Roma trovavasi Errico Il di Lorena duca di Guisa, prode e generoso capitano, lo invitarono a venire in Napoli, ed essere loro capo; e il duca venne, e, ricevuto da Gennaro Annese, ch'era come il capo del popolo, fu dichiarato Capitan Generale. Quindi si accese fierissima guerra tra' soldati di D. Giovanni d'Austria e i Napolitani capitanati dal duca di Guisa, c fu lunga e sanguinosa; ma infine dopo che ebbero a sperimentare varia fortuna da una parte e dall'altra, trionfarono gli Spagnuoli, e si resero i quartieri popolari e il forte del Carmine; e il duca di Guisa, vedendo che tutto era perduto, parti dalla spiaggia di Nisida per salvarsi in Abruzzo, dove avea molti della sua fazione. Ma ivi fu attaccato e fatto prigioniero, e condotto prima a Gaeta e poi in Ispagna; ne ottenne la sua libertà se non dopo cinque anni di prigionia.

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Liberato il regno da questa nuova invasione, D. Giovanni d'Austria parti da Napoli, dopo avere aboliti i dazj e le gabelle, e lasciando di sé grandissimo desiderio nel popolo, che lo amava per la clemenza e virtù sua, e più ancora perché temeva del rigore del viceré conte d'Onnatte, il quale fece punire severamente molti di coloro che aveano preso parte nella passata rivoluzione. ll reame intanto era conturbato e sconvolto dalle passate vicende, e ridotto in miserevole condizione, quando si sparse nella città una crudele peste, che vi portarono alcuni soldati spagnuoli, venuti. di Sardegna; e crebbe tanto che non si videro per le strade che morti c moribondi, e la città rimase quasi diserta; e di qui si dilatò pure nel regno, né furono libere da tanta sciagura che le sole provincie di Otranto e della Calabria Ulteriore, le città di Gaeta, Paola e belvedere.

Morendo Filippo IV il 17 settembre dell'anno 1667, gli succedé Cario Il suo figliuolo, di assai tenera età, e il suo regno non fu turbato da guerre straniere; ma non avendo egli figliuoli, né potendo vivere lungo tempo per cagione della sua inferma salute, il re di Francia, l'Imperatore, l'Inghilterra, l'Olanda e il Duca di Savoia convennero di dividere fra loro i regni delle Spagne. Il che turbò grandemente gli Spagnuoli, non soffrendo di vedere smambrata la loro monarchia, ch'essi aveano sostenuta e difesa per più secoli con tanta gloria. E il re Cario, persuaso dall'Arcivescovo di Toledo e da' Grandi del regno, nominò suo successore in tutt'i regni della monarchia spagnuola Filippo Duca d'Angiò secondogenito del Delfino figlio di Luigi XIV, perché passando la monarchia spagnuola ad un principe sostenuto dal potere della Francia, sarebbe durata intera. E fatto ciò, Cario mori dopo pochi giorni il l.° novembre 1701.

L'Imperatore Leopoldo, che discendeva da Ferdinando fratello dell'imperatore Cario V, per gli antichi drittij dello' sua casa d'Austria, si oppose alla successione del duca d'Angiò; e il simigliante fecero il re d'Inghilterra, quello di Portogallo, l'Olanda e il duca di Savoia, e tutti si usò remo a far guerra a Luigi XlV, e dichiararono re di Spagna l'arciduca Cario d'Austria secondogenito dell'Imperatore. Ma mentre gli alleati si preparavano alla guerra, il duca d'Angiò entrato in Ispagna fu riconosciuto sovrano dalla maggior parte di quella nazione, ed ebbe nome di Filippo V.

Udito ciò in Napoli, quelli tra' nobili a cui piaceva il governo della Casa d'Austria, non tollerando un re di altra famiglia, congiurarono perché in Napoli fosse ucciso il Viceré, e fosse dichiarato sovrano del regno l'arciduca Cario d'Austria. Ma i congiurati, de' quali era capo il principe di Macchia, non trovarono un'eco nel popolo, e, scoverti e minacciati dalle armi spagnuole, si salvarono con la fuga.

Filippo V venne in Napoli (anno 1702), e dopo avere sparse molte beneficenze, e sgravato le Università del gravoso debito de' tributi, e perdonato a molti delinquenti, e a molti nobili napolitani conceduto onori e dignità, ritornò in Ispagna per opporsi all'Arciduca Carlo, giunto ivi con forte armata sulle flotte dell'Inghilterra. Mori l'imperatore Leopoldo (1705), e gli succedè Giuseppe suo primogenito fratello dell'Arciduca Carlo; e mandato il principe Eugenio in Italia, s' impadronì di Milano e di Mantova e di altre piazze della Lombardia.

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E i Francesi allora, per accrescere la loro armata d'Italia, richiamarono la truppa che aveano nel regno; e quindi il conte Daun, seguendo l'ordine dell'Imperatore, entrò nel regno con una divisione dell'armata di Lombardia, e non trovò alcuna resistenza, e il regno passò tutto pacificamente sotto il dominio de' Tedeschi (1708), non vinto ma voglioso del nuovo impero.

Scorsi quattro anni dacchè l'Arciduca Carlo regnava in Napoli, mori l'Imperatore Giuseppe, e non avendo lasciati figliuoli maschi, fu eletto l'Arciduca per suo successore. E allora i suoi alleati, temendo del suo potere, se agli Stati di Germania ei potesse unire quelli d'Italia e i regni di Spagna, vennero a patti con Luigi XIV, e convennero nella pace di Utrecht: che Filippo V rinunziasse ad ogni dritto di successione del regno di Francia, ritenendo per se la Spagna con le Indie; che il duca di Berry e il duca d'Orleans, nipoti di Luigi XIV, rinunziassero ad ogni successione della Spagna se Filippo V morisse senza discendenti, non potendo i due regni riunirsi in uno; che al duca di Savoia fosse data la Sicilia; all'Imperatore il regno di Napoli e il ducato di Milano (1).

Ma il re Filippo non volle stare a quei patti, e mandò l'infante D. Carlo suo figlio alla conquista del regno, e se ne impadronì quasi senza tirar colpo, poca o niuna resistenza opponendogli le truppe imperiali, le quali cransi ridotte nelle Puglie, dove furono vinte e disperse dal General Montemar. I Tedeschi quindi lasciarono libero il regno all'Infante, dopo avervi regnato 27 anni (anno 1734). L'Infante era entrato in Napoli, e scorsi appena pochi giorni, Filippo V suo padre gli rinunziò la sovranità de' regni di Napoli e di Sicilia; e fu riconosciuto ed acclamato re da ogni ordine di persone, e festeggiato grandemente, vedendosi dopo 230 anni ritornato il regno allo splendore di monarchia con un re proprio e indipendente. Il re Carlo passò poi nella Sicilia, sgombra anch'essa di Tedeschi; e, coronato solennemente nella città di Palermo, fece ritorno in Napoli.

Cosi ebbe termine il lungo e duro governo de' Viceré, nel quale mutarono gli ordini civili, e cadde l'autorità de' magistrati e la forza dell'esercito. La finanza esattrice risedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizii; i feudatari di parte sveva o angioina o aragonese spogliati, e quasi tutti abbassati ed inviliti. Impoverite le industrie ed i commercj; i nostri soldati e le navi adoperate nelle interminabili e sanguinose guerre straniere: gli abitanti di tutto il reame oppressi da enormi tributi, e travagliati dalla peste, dalla carestia, da' tremuoti, dalle guerre: i nostri mari percorsi da corsari barbareschi, i quali predavano le nostre navi da traffico, saccheggiavano le nostre regioni marittime, menavano in ischiavitù i nostri abitanti.

Pure non caddero del tutto gli studii, e per circolo inesplicabile dell'umano intelletto, risorgevano fra tanta civile miseria le lettere e le scienze; e fiorirono nei nostri tribunali molti insigni e rinomati giureconsulti.

(1) E il duca di Savoia, Vittorio Amedeo, andò in Palermo per entrare al possesso del regno, c godere gli omaggi e 'l nome nuovo di re (1713). Ma ne fu cacciato dopo Ire anni da poderoso esercito spagnuolo; e n'ebbe, povera ricompensa, la Sardegna.

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E quantunque le scienze filosofiche fossero dominate dall'autorità degli antichi, e trattate all'uso delle scuole, furono non pertanto tra noi ingegni preclari, i quali tentarono di far crollare l'autorità de' maestri, e dichiarare vana ed inutile la filosofia delle scuole. E tali furono Antonio e Bernardino Telesio cosentini, e Giordano Bruno da Nola, e Tommaso Campanella da Stilo. Noi avemmo di assai leggiadri poeti, tra' quali ricorderemo Angelo di Costanzo, Bernardino Rota, Alfonso e Costanza d'Avalos, e Giangirolamo Acquaviva, e sopra tutti gli altri l'immortale e sventurato Torquato Tasso. E furono dotti uomini ed ingegnosissimi Domenico Aulisio, Pietro Giannone, Gaetano Argento, Giovan Vincenzo Gravina, Nicola Capasso, Nicolò Cirillo, i quali furono ne' principj del secolo XVIII luce della loro età e dell'avvenire.

Sursero in questi tempi molte congregazioni di Cherici Regolari, e, tra le altre, quella de' Teatini, fondata da Gaetano Tiene vicentino; quella dei Gesuiti, fondata da Ignazio di Lojola spagnuolo. E crebbe l'ordine religioso de' Minimi fondato da Francesco di Paola, il quale tolse quel nome dalla sua terra natale in Calabria; e visse vita molto austera, abitando per lunghi anni una spelonca sotto un altissimo sasso; ed acquistò grande fama di santità. E crebbero grandemente le ricchezze de' monaci, essendo che i credenti facevano ogni giorno di arricchire le chiese ed i monasteri.












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