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MEMORIE
PER LA
STORIA DE’ NOSTRI TEMPI
DAL
CONGRESSO DI PARIGI
NEL 1856
AI GIORNI NOSTRI
TERZA SERIE

TORINO
Dell'unione Tipografico-editrice
Via Carlo Alberto, casa Pomba, N. 33
1865
Volume Primo - (3)

Il libro di Margotti merita di essere diffuso e conosciuto. L'autore non è un volgare propangadista "reazionario", si tratta di persona dotata di una mente brillante e di una cultura sterminata.

Egli spulcia migliaia di pagine degli atti parlamentari, mettendo a nudo le falsità e il pressapochismo del gruppo di avventurieri che governa il nuovo regno d'Italia.

Se volete saperne di più leggete le note biografiche scritte da Angela Pellicciari.

Zenone di Elea, 18 gennaio 2009



(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)


L'IMMAGINE DELLA LIBERTÀ

NEI, REGNO D'ITALIA

(Pubblicato il 5 agosto 1863).

«Vi sono dei momenti terribili, in cui è necessario di velare per qualche istante la statua della libertà». Così il deputato Castagnola nella tornata del 31 di luglio (Alti vff. della Camera, N» 213, pag. 816, col. 3).

«Io non temerei, per usare una frase sovente ripetuta, di gettare un velo sull'immagine della libertà». Così il senatore Scovazzo nella tornata del 29 dì luglio (Atti uff. del Senato, N. 66, pag. 233, col. 2).

La libertà italiana è dunque una statua, secondo il Castagnola, un'immagine, secondo lo Scovazzo. È una statua, ed ha occhi e non vede, mani e non tocca, orecchi e non ascolta. La statua della libertà italiana non vede le illegalità e tirannie continue, e, fra cento altre, il Cardinale de Angelis rilegato da tre anni in Torino senza sentenza, senza processo, senza accusa. La statua della libertà italiana non tocca le enormi imposte che già ci pesano sul gallone, né le maggiori che ci sovrastanno, e lascia che noi, liberi, dobbiamo pagare perfino una imposta per una goccia d'aceto.

— 231 —

La statua della libertà italiana non ascolta né le grida de’ prigionieri, né il pianto degli esuli, né i lamenti degli affamati, né il rimbombo delle fucilate, che freddano a centinaia i nostri concittadini.

La libertà italiana è un'immagine; non una realtà, non un fatto, ma un'apparenza, una vanità, una parola. Bravo il nostro senatore Scovazzo! Abbiamo in Italia l'immagine della libertà. Voi sapete che l'immagine di un uomo sembra un uomo e non è, si dice un uomo ed è un pezzo di tela. Così la libertà nostra chiamasi bensì libertà, ma della libertà è semplicemente l'immagine.

E tuttavia quest'immagine della libertà italiana, questa statua della libertà è velata. Ed i senatori ed i deputati che dovrebbero difendere la libertà, consigliarono ai ministri di velarla 1 E mentre prima di separarsi, i deputati ed i senatori avrebbero dovuto dire al ministero: badate bene di non toccare la libertà, invece gli lasciarono quest'avvertimento: di gettare un velo sulla sita immagine!

Dapprima i signori deputati e gli eccellentissimi senatori votarono un subbisso d'imposte; imposte sulla ricchezza mobile, imposte sulle carni, sul vino, sull'aceto, sul salame, sulle pecore, sulla birra, sull'acquavite; imposte di danaro, imposte di sangue. E per consolare i poveri contribuenti dicevano che se pagavano, almeno avevano la libertà, ed era cosa preziosissima, che nessuna imposta al mondo avrebbe potuto pagare quanto valeva. Bene, benissimo! Paghiamo pure: evviva la libertà!

Ma dopo che gl'Italiani hanno pagato per avere la libertà, i senatori e i deputati attestano che ne hanno soltanto l'immagine e su questa immagine propongono ancora di gettare un velo! La libertà si vela a danno dei Vescovi, si vela per perseguitare la Chiesa, si vela per ispogliare i frati e disperdere le monache, si vela pel giornalismo cattolico, si vela per l'onesto e pacifico cittadino. Ma non si vela pel libertino che bestemmia, per l'usuraio che ruba, pel lascivo che scandalizza, pel forsennato che predica in mezzo alle strade di Torino.

Italiani cattolici, Italiani conservatori, voi avete già molto sofferto, perché non voleste ascrivervi nelle file dei rivoluzionari, perché vi chiariste amanti del diritto antico e della vera giustizia. Eppure assai più vi tocca a soffrire. A danno vostro soltanto fu velata la statua della libertà! Che non facevano già i ministri colla statua scoperta? E che non faranno colla statua velata? Almeno ricordiamoci le teorie dei libertini medesimi, ricordiamoci che «vi sono dei momenti terribili, in cui è necessario di velare per qualche istante la statua della libertà»; ricordiamocene quando ritorneranno i tempi nostri, e ritorneranno. Ma no, non ce ne ricorderemo: non ce ne ricorderemo, perché fummo sempre buoni e troppo buoni; non ce ne ricorderemo, perché siamo cattolici, e abborriamo dalle vendette; non ce ne ricorderemo, perché noi siamo i veri liberali, servi Dei, e i nostri nemici sono ipocriti: velamen habentes matiliae liberlatem (1 Petri, Cap. II, vers. 16).

— 232 —

GRIDA DI DOLORE

DEI PRIGIONIERI NAPOLETANI

(Pubblicato il 19 febbraio 1863)

«Il n'y a pas de paix sans justice»

(Lord Clarendon al Congresso di Parigi, 8 aprile 1856)

Nel Congresso di Parigi del 1856, addi 8 di aprile, il conte Walewski, ministro degli affari esteri dell'Impero francese, e presidente dei Congresso, manifestava il desiderio che i plenipotenziari, prima di separarsi, scambiassero le loro idee sa diversi punti che richiedono una adozione, e dei quali potrebbe essere utile l'occuparsi affine di prevenire nuove complicazioni ». E proponeva di fare certe dichiarazioni «sempre e unicamente collo scopo di assicurare per l'avvenire il riposo del mondo» (Tratte de paix signé a Paris, le 30 man 1856, Turin, Imprimerle Royàle, 1856, pag. 144).

E senza aspettare le risposte de' plenipotenziari, il conte Walewski entrava di botto a fare le sue dichiarazioni. Una delle quali era doversi desiderare «che certi governi della Penisola italica con ben intesi atti di clemenza, e chiamando a loro gli spiriti traviati è non pervertiti, mettessero fine ad un sistema che va direttamente contro il suo scopo, e che, invece di raggiungere i nemici dell'ordine pubblico, tende ad indebolirei governi, e a dare partigiani alla demagogia»

E nell'opinione del conte Walewski l'8 aprile 1856 e sarebbe stato un servigio reso al governo delle Due Sicilie, come pure alla causa dell'ordine nella Penisola italiana, rinominare questo governo sulla falsa via, per la quale esso ai è incamminato». Il conte Walewski pensava che avvertimenti concepiti in questo senso e provenienti da Potenze rappresentate al Congresso sarebbero tanto meglio accolti dal governo napoletano in quanto che quest'ultimo non saprebbe mettere in dubbio i motivi che li hanno suggeriti (pag. 146).

Lord Ctarendon, rappresentante dell'Inghilterra, faceva eco al Walewski, e diceva che «sebbene si debba riconoscere in principio che nessun governo ha il diritto d'intervenire negli affari interni degli altri Stati, tuttavia vi hanno casi, in coi l'eccezione a questa regola dev'essere egualmente un diritto ed un dovere». E pareva a lord Clarendon «che il governo napoletano avesse conferito questo diritto e imposto questo dovere all'Europa». Laonde esclamava: «Noi non vogliamo che la pace sia turbata, e non vi ha pace senza giustizia. Noi dobbiamo adunque far pervenire al Re di Napoli il voto del Congresso pel miglioramento del suo sistema di governo » (pag. 151).

Ci parve opportunissimo ricordare queste parole dette dai plenipotenziari di Francia e d'Inghilterra. Siccome la buona politica deve risalire sempre alle cagioni, con chi vuole portare rette giudizio del presente scompiglio europeo non deve mai dimenticare il Congresso di Parigi, che, secondo Alfonso dì Lamartine, fa una dichiarazione di guerra sotto una segnatura di pace, la fine del diritto pubblico in Europa e il principio del caos.

— 233 —

Gli stessi rivoluzionari attingono oggidì. al Congresso di Parigi le dottrine per continuare la rivoluzione, e, non ha guari, Giulio Favre chiedeva che la Francia rivolgesse alla Russia, in favore della Polonia, quegli ammonimenti che già aveva rivolti al Re di Napoli, rompendo ogni relazione colla Corte di Pietroburgo, qualora non accettasse i consigli, come già aveva richiamato, nel 1857, il suo rappresentante dalla Corte di re Ferdinando IL

Noi siamo ben lontani del seguire l'esempio del Favre, e dire agli Inglesi e Francesi che vengano a ristabilire in Italia l'ordine morale. Ma ci hanno in Napoli di molti prigionieri che invocano le massime del Congresso di Parigi, seguono gli esempi di Poerio, mandano le loro lagnanze in Inghilterra e ripetono ciò che gli disse lord Clarendon: Il n'y a pas de paix sans justice!

Un giornale di Londra, intitolato il Morning-Herald, ci reca le lagnante di costoro in un documento importantissimo. Si è questo una lettera che i pregionieri di Santa Maria Apparente in Napoli rivolgono ad un membro del Parlamento britannico, sotto la data del 12th gennaio 1863, e sottoscrivendo tutti la lettera, mettono la data del loro imprigionamento, e domandano giustizia, quella giustizia che è l'essenziale condizione della pace. Udite come parlano questi prigionieri :

«Eccellenza, avendo già parecchie volte inutilmente alzato la nostra voce, per ottenere giustizia, e le autorità restando sempre sorde ai nostri richiami, non ci rimane altro mezzo che rivolgerci a Vostra Eccellenza, affinché si degni di invocare dalla nazione e dal Parlamento britannico la nostra liberazione dalla tirannia piemontese. Corsero anni dacché noi siamo in prigione, la maggior parte senza sapere il motivo del nostro arresto, senza essere stati sottomessi a nessun giudizio, e in preda a ogni maniera di vessazioni. Noi abbiamo indirizzato centinaia di suppliche a tutti i magistrati domandando un sollievo si nostri patimenti; ed il silenzio ad un aumento di sevizie furono la sola risposta. In nome dell'umanità chiediamo che un termine sia posto alla nostra pena. Noi vi preghiamo di una risposta. La filantropia del popolo inglese è ben conosciuta per farci sperare che le nostre doglianze troveranno un'eoo nel suo cuore generoso».

Fin qui son parole, ma sotto queste parole stanno scritti nomi e date, nomi delle persone che soffrono, estate del mese e dell'anno dacché si fanno soffrire senta processo e senza giudizio. Pubblichiamo queste date e questi nomi, 'e facciamone un regalo al signor Pisanelli, ministro di grazia e giustizia, che invece di pensare ai poveri imprigionati, rivolge tutte le sue cure alta nomina de' canonici, e scrive i suoi dispacci per tribolare l'esimio Monsignor Caccia, Vicario Capitolare dì Milano.

Dalle prigioni di S. Maria Apparente, il 22 gennaio 1863.

Luigi Carignano — Arrestato da diciannove mesi e sottomesso alto pene corporali dagli agenti di polizia — Senza giudizio.

Leonardo de Luca— Arrestato diciannove mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza giudizio.

Nicola Costantino — Arrestato quindici mai — Senza processo.

Edoardo Sepe — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alte pane corporali — Senza processo.

Pasquale Najano — Arrestato da diciassette mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Pasquale Miraglio. — Arrestato da sedici meri e sovente rinchiuso entro una cella solitaria— Senza processo.

— 234 —

Raffaele d'Amore — Arrestalo da diciotto mesi e rinchiuso entro una cella umida e solitaria e minacciato d'esser fucilato — Senza processo.

Nicola Santoro — Arrestato da diciotto e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Alfonso Cipoletta — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Luigi Passaro — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Leopoldo Miranda—Arrestato da diciassette mesi — Arrestato da diciotto meri e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Ersilio Cirillo—Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Ciro di Simona— Arrestato da venti mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Pietro Galanga — Arrestato da un anno — Senza processo.

Domenico Esposito — Arrestato da venti mesi — Senza processo.

Stefano Pannicotti — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali fin dal suo arresto—Senta processo.

Francesco Ottaglione — Arrestato da diciotto mesi, minacciato tutti i giorni di essere fucilato e sovente messo alla catena — Senza processo.

Luigi Rajano — Strappato, dal suo letto, sebbene gravemente ammalato, e gettato in carcere da diciassette mesi.

Aniello Scarparo — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Giovanni Sormoso — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Angelo Lusitano e Celestino Imparati— Arrestati da diciotto mesi coi loro padri e loro madri, e sottomessi alle pene corporali — Senza processo.

Saverio Pirrotto—Arrestato da diciotto mesi, rinchiuso entro una cella durante molti giorni, le mani ed i piedi incatenati — Senza processo.

Francesco Esposito — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo.

Biagio Avitabile — Arrestato da dieci mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo.

D

omenico Berillo — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Michele Stolfo — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Camillo Bilatto — Arrestato da nove mesi — Senza processo.

Antonio Giordano—Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali —Senza processo.

Gennaro Spagnuolo—Arrestato da venti mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo. . . .

Francesco Bruno —Arrestato da quindici mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo. .

Pasquale Ugliano — Arrestato da diciannove mesi — Senza processo.

Antonio Lombardo — Arrestato da due anni — Senza processo.

Salvatore Avitabile — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo.

Giuseppe Arrenca — Arrestato da diciannove mesi. Sottomesso alle pene corporali, ha perduto tutti i suoi denti per il dolore—Senza processo.

Antonio Mirullo — Arrestato da diciassette mesi — Senza processo.

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Francesco Saverio Florio — Arrestato da ventun mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo.

Aniello Giordani— Arrestato da diciotto mese e sottomesso alle pene corporali — Senza processo.

Arcangelo Amalfi — Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali — Senza processo.

Luigi Panso — Arrestato da undici — Senza processo. Nel tempo che è restato alla questura fo sottoposto alle bastonate.

Nicolò Veneroso — Arrestato da diciotto mesi — Senza processo. Fu sottoposto alla bastonate dalla polizia, la quale commise anche un furto in casa sua.

Luigi Mallo — Arrestato da sedici mesi e sottomesso alle pene corporali —Senza processo.

Francesco Porcaro —Arrestato da venti mesi — Senza processo.

Raffaele di Marzo—Arrestato da diciassette mesi — Senza processo.

Gennaro Sollo—Arrestato da diciotto mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Francesco Franco — Arrestato da diciannove mesi e sottoposto alle pene corporali— Senza processo.

Vincenzo Gradinato — Arrestato da diciassette mesi — Senza processo.

Michele Pricolo — Arrestato da diciassette mesi e sottoposto alle pene corporali— Senza processo.

Natale Perez — Arrestato da diciassette mesi con sua moglie, e sottomesso pene corporali— Senza processo.

Antonio Sonnio — Arrestato da sette mesi e sottomesso alle pene corporali— Senza processo.

Ferdinando Panico, Antonio Fusto, Giuseppe Fusco— Arrestati da sette mesi e sottomessi alle pene corporali— Senza processo.

Salterio Mungo — Arrestato da dieci mesi — Senza processo.

A voi, Cario Luigi Farini che aboliste a Bologna il Santo Offizio e che tanto declamaste conto le sevizie clericali, a voi dedichiamo questi nomi e questa statistica.

A voi conte Walewski, che pel congresso di Parigi proponeste d'illuminare il governa di re Fertilizzando II, a voi presentiamo le lagnanze di tanti infelici, affinché vi facciate all'orecchio del vostro imperatore Napoleone III. dicendogli Ce serait rendre un service signalè que d'eclairer le gouvernement du royame d'Italie!

A voi lord Clarendon, a voi offriamo questo serie d'incredibili ingiustizie, dì lunghi e tremendi dolori, affinché nella vostra coscienza meditiate se non sia giunto il momento di far giungere a Torino il vostro voto e il vostro assioma: Non vi ha pace senza giustizia!

A voi, o scrittori del Times, che il 20 settembre del 1855, ipocritamente e bugiardamente declamavate contro gli orrori commessi nelle prigioni di Roma, a voi regaliamo la statistica di una sola prigione, notate bene, di una sola prigione di Napoli nel gennaio del 1863.

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ELENCO DELLE LOGGIE MASSONICHE

Più volte abbiamo fatto notare l'importanza grande che ha per la storia la cognizione della potenza e delle arti della frammassoneria; imperocché tutto il gran lavoro della rivoluzione in Europa si fa per opera delle loggie massoniche. 1 principi sono tutti più o meno circondati e menati pel naso dagli affigliali della framassoneria. E questo basta per ispiegare come vedonsi sovente i sovrani stessi, che professano dottrine conservatrici e cattoliche, far guerra quando più, quando meno aperta alla Chiesa ed al suo Capo. Sarebbe cosa non meno curiosa che istruttiva l'avere un catalogo esatto di tutti i framassoni dell'Europa. Quanti uomini di Stato che passano per onest'uomini, che affettano un cattolicismo illuminalo e sincero, si vedrebbero risplendere nei primi gradi dell'esercito massonico!

In mancanza dei nomi di questi soldati sotterranei della falange infernale, abbiamo la rassegna dei varii reggimenti, brigate e corpi d'esercito. Noi accenniamo al Calendario massonico pel 1863 pubblicato a Berlino. Si sa che in Prussia la framassoneria gode di tutti i favori della Corte. Il regnante Sovrano di Prussia fu Grande Oriente quando era principe ereditario; ed ora a sua volta il principe ereditario è sottentrato nella carica di Grand'Oriente, la quale sembra spettar di diritto al primogenito della famiglia reale. Dal citato Calendario non possiamo conoscere il numero delle loggie del Portogallo e dell'Italia. Si dice solamente che il Portogallo e la Sicilia hanno ciascuno una Gran Loggia, con un numero indeterminato di succursali o Loggie semplici. Il grande maestro della Gran Loggia di Sicilia è Garibaldi. Pare che il signor Cordova non sia gran maestro, giacché il Calendario non riconosce una Gran Loggia in Piemonte. Ecco i particolari che troviamo nel Calendario:

In Francia il Grand'Oriente dirige 172 Loggie, e il Supremo Consiglio ha sotto di sé 50 Loggie. Il Belgio ha una Grande Loggia a Brusselle e 60 succursali; il granducato di Lucemborgo ha una Loggia e 2 succursali; la Svezia ha una Grande Loggia e 24 succursali; la Danimarca ha una Grande Loggia e 7 succursali; l'Olanda possiede la Great-Osten all'Aja con 68 succursali; la Grande Loggia d'Irlanda ha 307 succursali; la Grande Loggia di Scozia possiede 292 succursali, e quella di Londra 1021: sono in tutta l'Inghilterra 3 Grandi Loggie, a Londra, a Edimburgo, e a Dublino. La Svizzera ha la sua Grande Loggia Alpina a Losanna. La Grande Loggia Concordia a Darmstad nell'Assia dirige 7 succursali nell'Assia. La Grande Loggia d'Annover possiede 21 succursali; a Franco l'or tu sul Meno la Grande Loggia comanda a 10 succursali; la Baviera ha una Grande Loggia a Bayreulh con 10 succursali; Amburgo ha una Grande Loggia con 26 succursali; la Prussia ha 3 Grandi Loggie a Berlino, quella dei Tre Globi con 160 Loggie dipendenti; l'altra Germanica con 69 succursali; e la terza Yorkreal con 34. Sono in tutto il mondo 68 Grandi Loggie, 38 delle quali esistono agli Stati Uniti, ed altre in tutto il resto dell'America.

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Col mezzo delle Grandi Loggie, tutte le altre Loggie sono in comunicazione diretta e continua; ogni Grande Loggia ha i suoi rappresentanti presso le altre Grandi Loggie. Si fanno adunanze regolari ogni anno tra i Grandi Mastri, e, se occorre, anche radunanze straordinarie. Molti giornali speciali sono dedicati alla Framassoneria, come l'Officina, la Rivista Massonica, la Gazzetta dei Framassoni, i quali si pubblicano in Francia ed in Germania, ed altri altrove.

BIOGRAFIA

DEL EX-MINISTRO PIETRO BASTOGI

(Pubblicata il 3 aprile 1861).

Ci giunge da Livorno stampata in un foglio volante la seguente curiosa Biografia:

«Grande era l'aspettazione del pubblico rispetto alla nomina del nuovo ministero. Ma se grande era l'aspettazione, più grande fu la sorpresa, o per meglio dire lo sbalordimento allorché conosciuti i nomi dei chiamati a comporto.

«La biografia di uno solo, cioè del ministro delle finanze sig. Bastogi, basterà a provare come un tal gabinetto potesse essere accolto dal pubblico con favore e rispetto.

«II sig. Bastogi formò già parte della Giovine Italia, ed ecco quali servigi le rese. Il Mazzini richiedeva per la spedizione di Savoia alcuni capitali che gli affiliali di Livorno avevano posti assieme all'oggetto di sovvenire i perseguitati politici. Fu tenuta consulta, quale fra gli altri, intervennero Bini, Dewit, Fauquet, Guerrazzi e Bastogi. Il Guerrazzi, che già savio era e avveduto abbastanza, si opponeva che quel danaro fosse inviato, essendoché, come egli faceva osservare, destinalo a scopo preciso dai contribuenti, perché la impresa ordinala sotto gli occhi delle polizie non poteva riuscire a buon risultato, ma piuttosto a far molte vittime invano. Il Bastogi opinava diversamente, si dovesse la impresa sovvenire coll'invio del raccolto danaro.

«II Governo ebbe intanto notizia del tentativo Mazziniano, e temendo vi corrispondessero i Toscani, fece imprigionare il Bini, il conte Alani, Guerrazzi Guitera ed altri. Il Bastogi rimasto libero, adunò allora di nuovo la consulta e la persuase a fare la spedizione del danaro. Noi già sappiamo quale trista fine ebbe quella spedizione e quanto fu per tutti infelice, talché non vale parlarne. Ma che fece il Bastogi? il Bastogi disertò dal campo della Giovine Italia, cangiò fede, o piuttosto non cangiò nulla, perché in esso alcuna fede non era ne poteva essere, come andiamo a vedere. Vennero i moti del 1847 e il Bastogi tanto i sbracciò a mostrarsi liberale italianissimo, che fu a Livorno eletto deputato al Parlamento Toscano.

Venne la restaurazione, e mutò sembianza, si mostrò uno dei più caldi partigiani del reggime austriaco.

— 238 —

Strinse la mano al Baldasseroni e a Landucci, fece gl'imprestiti, che dovevano alimentare i Tedeschi in Toscana, e n'ebbe per senseria da Leopoldo II la croce di San Giuseppe. Accadde la rivoltura del 27 aprile, ed egli pure si rivoltò: sorrise ai nuovi reggitori, pervenne dopo incessanti sforzi a salire gli scanni parlamentari, a gridare bravo bravissimo! ai discorsi del conte Cavour, il quale sembra lo prendesse allora in grazia.

«Ecco l'uomo che nei gravi frangenti, in cui versa tuttora l'Italia ebbe il portafoglio di ministro delle finanze. Può trovarsi eguale e più distinto Camaleonte? Ma crede egli, il sig. Bastogi, poter lottare contro il sentimento nazionale e la pubblica opinione?».

PIETRO BASTOGI SUL CAMPIDOGLIO!

(Pubblicatoli 17 luglio 1864)

Mi pare potesse giovare alla dignità (??) ed agli interessi (??) del Nuovo REGNO ITALIA, che anche una Compagnia d'Italiani si accingesse al concorso». Lettera di Pietro Bastogi che domanda l'impresa delle ferrovie meridionali, letta tra gli applausi de’ deputati il 31 luglio 1862 (Ani uff. N. 819, pagina 3178).

Sarebbe impossibile trattar quest'oggi altro argomento che non fosse di Bastogi, di Susani e del disinteresse italianissimo. La Camera, Torino, l'Italia, l'Europa sanno ormai chi sieno coloro che volevano togliere Roma al Papa, e per qual fine gridassero tanto contro il dominio temporale. Ah! bisogna stamparselo bene nella memoria, e da quello che si dice e si sa, argomentare il resto che non si dice e s'ignora, ma che forse la giustizia di Dio aspetta altro tempo per rivelare a quel popolo imbecille che si lascia sempre gabbare, a quelle pecore matte che si fanno mungere e tosare, ed applaudono i tosatori. Popolo, popolo, conosci una volta i tuoi veri amici, ed impara a tue spese 1

Tra gli italianissimi che volevano salire sul Campidoglio tiene un luogo principale Pietro Bastogi, banchiere di Livorno, come colui che già da trentanni voleva conquistare Roma. Epperciò si era ascritto alla Giovine Italia del Mazzini insieme con Guerrazzi, Bini ed Enrico Mayer. Il Mayer viaggiava a Roma, dove fu conosciuto ed imprigionato, e Pietro Bastogi era cassiere del Comitato, come raccontò lo stesso Mazzini (1).

Dalle Memorie di Giuseppe Montanelli ricaviamo che cosa facesse Pietro Bastogi in sul principio della sua carriera rivoluzionaria per unire l'Italia.

Mazzini, Scritti editi ed inediti, Milano 1862, voi. id, pag. 315.

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«Durante l'agitazione della Giovine Italia quasi tutte le domeniche si recava a Pisa, e gli studenti suoi amici invitati a patriottici banchetti soleva inebriare degli spiriti mazziniani (1)». E pare che il Bastogi non abbia ancora smesso questa sua arte d'inebriare, giacchè il Deputato Piroli nella tornata del 15 di luglio 1864 ci disse che riuscì ad inebriare il deputato Susani, e tentò pure di inebriare il deputato Grattoni.

Per salire sul Campidoglio i mazziniani nel 1833 divisavano d'invadere prima il Piemonte, ed atterrare il trono di Carlo Alberto, conciossiache stimassero impossibile spogliare il Papa se prima non avessero distrutto la Casa di Savoia, che fu dei Papi sempre divotissima. Ma il granduca di Toscana Leopoldo II, che conosceva quali obbligazioni gli corressero verso il suo Reale congiunto, e non ignorava come, caduto un trono, difficilmente potesse reggersi il trono vicine, avuto sentore della spedizione di Savoia, facea tosto imprigionare i mazziniani della Toscana, e tra questi il Bini, il conte Alani, Guerrazzi, Giutera ed altri. Bastogi, invece, rimase libero, e poco dopo disertò il campo della Giovine Italia (2).

Venuto il 1848, il nostro eroe mostrossi de’ più caldi liberali, e gridò quanto n'ebbe in gola Viva Pio IX! e fu eletto deputato al Parlamento toscano. Ma scoppiata poi la repubblica, seppe ritrarsi in tempo, sicché dopo la ristaurazione strinse la mano al Baldasseroni ed al Landucci, imprestò danari al Granduca, e n'ebbe da Leopoldo Il la croce di San Giuseppe. Nell'ungere le carrucole il Bastogi fu valentissimo, e lasciava sempre una callaia aperta «da potersi ritrarre a salvamento».

Il 27 aprile del 1859 Bastogi gettossi con tutti gli altri contro il Granduca, fu deputato all'Assemblea toscana, dichiarò l'esautorazione dei Lorenesi, entrò in grande amicizia col conte di Cavour, e volea con lui andare a Noma.

Dopo l'annessione della Toscana, e la proclamazione del Regno d'Italia, il nostro Pietro veniva eletto ministro delle finanze dal conte di Cavour. Imperocchè ne' primi mesi del 1861 l'avvocato Saverio Vegezzi avendo abbandonato questo ministero, fu eletto in sua vece il 22 di marzo il cavaliere Bastogi. Il quale continuò ad essere ministro delle finanze dopo la morte del Cavour, insieme col Ricasoli, col Minghetti, col Menabrea, col Peruzzi, e ebbe in mano le nostre finanze quasi per lo spazio di un anno, dal 22 di marzo del 1861 al 3 di marzo del 1862.

Come ministro delle finanze Bastogi istituì il Gran Libro del debito pubblico del Regno d'Italia, Libro immenso che si viene scrivendo di nuovi debiti ogni giorno, e che finirà per essere gettato sulle fiamme secondo le profezie di due deputati, Mauro Macchi, e Gregorio Sella; il primo dei quali disse nella Camera, che quando pur fossimo nella necessità «di gettare alle fiamme il Libro del debito pubblico, purchè con ciò ci fosse concesso il bene supremo di viver

(1) Memorie sull'Italia e principalmente sulla Toscana dal 1814 al 1850. Vol. I, Torino 1853, pag. 10.

(2) Biografia del Bastogi stampata a Livorno nel marzo del 1861, e ristampata a Torino il 5 aprile dello stesso anno

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liberi, poco a noi premerebbe (1)», e l'altro soggiunse d'aver egli pure «volontà di gettare alle fiamme quel Gran Libro che si chiama il Libro del debito pubblico (2)».

Nel maggio del 1861 Pietro Bastogi chiedeva ed otteneva dalla Camera un prestito di cinquecento milioni effettivi, prestito che aggravava i poveri Italiani di oltre a settecento milioni. Noi siamo certi che di questi milioni non andò disperso nemmeno il becco d'un quattrino. Imperocchè, se più tardi il Bastogi largheggiò danaro a coloro che lo aiutarono, diè danaro proprio; ma nessuno può dire che tacesse altrettanto col danaro dello Stato.

Pietro Bastogi radunava i milioni per andare a Roma e salire sul Campidoglio, e già sperava di piantarci la sede delle sue operazioni finanziarie. Se per la riuscita della sua impresa delle strade meridionali il Bastogi lece tutto quello che fu detto il 15 luglio 18&4 nella nostra Camera dei deputati, che cosa non avrà fatto egli mai in un. anno di ministero per riuscire nell'altra impresa infinitamente maggiore, l'impresa di salire sul Campidoglio? Non sappiamo se abbia trovato a Roma qualche Susano, ma ci pare incredibile che almeno non l'abbia ricercato!

Bastogi Ministro divenne conte, e mostrò la strada a tutti coloro che desideravano un titolo, giacchè il 4 di luglio 1861 presentava alla Camera dei deputati il disegno d'una tassa sul conferimento dei titoli di nobiltà: pel titolo di principe, L. 50 mila; di duca, 40 mila; di marchese, 30 mila; di conte, 20 mila; di visconte, 15 mila; di barone, 10 mila; ed assoggettò anche ad una tassa la collazione dei benefizi ecclesiastici!

Nel carnevale del 1862 cadde Bettino Ricasoli, e con lui Pietro Bastogi, il quale non potendo piti servire l'Italia come ministro, si diè a servirla come banchiere, e stabilì la società delle ferrovie meridionali, unicamente, per un caldo e fervente amore di patria. E per mettersi in grado di rendere alla patria questo servigio, Bastogi spese e regalò oltre un milione, e mancò al rispetto dovuto ai deputati. Ohi amor di patria, quid non murtalia pectora cogis (3).

La sede centrale della società delle ferrovie meridionali fu stabilita in Torino, ma nella polizza d'affitto del palazzo che dovea servire di residenza al Bastogi, questi volle che fosse una condizione, vale a dire che il contratto restasse sciolto, qualora la sede del governo italiano passasse a Roma. E il padrone del palazzo accettò ridendo la clausola, imperocchè egli teneva per certo che i Bastogi non andrebbero mai a risuscitare sulle rive del Tevere i brutti tempi che Giugurta imprecava.

Altro che andare a Roma! a poco a poco si vennero a scoprire certe maccatelle che diedero luogo ad una proposta fatta dal Mordini il 21 maggio del 1864, per ricercare se mai nella Camera a proposito delle ferrovie meridionali ci fossero stati corrottori e corrotti. E l'inchiesta fu fatta, e il suo risultato riuscì contro Pietro Bastogi, in guisa che egli non potrà mai più rialzare il capo. Il povero Pietro andò sul Campidoglio, ma per essere precipitato dalla Rocca Tarpea.

(1) Atti uff. della Camera, tornata del 27 giugno 1860, N" 107, pag. 416.

(2) Atti uff. della Camera, loc. cit. , pag. 417.

(3) «Tutti ricordiamo i sensi patriottici, onde (Bastogi) accompagnava la sua proposta» Relazione uff. sull'inchiesta, pag. 12.

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E qui considerate come la giustizia di Dio si renda sempre più terribile nei suoi castighi contro coloro che ruppero guerra a Pio IX. Il conte di Cavour è il primo colpito, e muore nel meglio della sua carriera. Giuseppe Garibaldi non muore no, ma riceve una palla rattazziana nel malleolo d'un piede, e dura gli anni infermo senza poter guarire. Peggio tocca a Luigi Farmi, che perde il bene di quell'intelletto che Iddio gli uvea dato potentissimo, e di cui egli osò fare si strano abuso. E Pietro Bastogi più disgraziato di questi tre è diffamato solennemente nella Camera dei deputati!

I MANGIAPOPOLI

NEL MANGIAMENTO NAZIONALE

(Pubblicato il 19 luglio 1864).

Il 4 agosto del 1862 discutevasi nella Camera dei deputati la proposta patriottica fatta da Pietro Bastogi di accollarsi l'impresa delle strade ferra te meridionali, e il ministro dei lavori pubblici ch'era il signor Depretis, non sapeasi adagiare a questa proposta. «Noi abbiamo in Italia, dicea il Depretis, molte compagnie incomplete, e fra queste vi è la compagnia Vittorio Emanuele dopo la separazione della Savoia, e bisogna provvedere». Il deputato Susani interrompeva il ministro esclamando: La mangieremo! Ed il ministro: «La mangierete? Bisognerà vedere se si lascierà mangiare. È facile il dire: la mangieremo». (Atti uff. N. 838, pag. 3254, col. 3^).

Il verbo mangiare è il verbo officiale della rivoluzione; essa lo coniuga in tutti i modi, in tutti i tempi, in tutti i numeri, in tutte le persone. Le rivoluzioni si fanno per mangiare; il desiderio d'indipendenza è l'appetito; e tutti i rivoluzionari più o meno legalmente mangiano. I minchioni si lasciano cogliere colle mani nel sacco; i più destri dopo avere ben mangiato s'atteggiano a martiri, e passano per eroi.

La storia di tutte le rivoluzioni si riduce in fin dei conti alla storia delle mangerie. Si mangiano prima le somme lasciate dai tiranni, poi si mangiano i frati, si mangiano le monache, si mangiano i canonici, si mangia la Chiesa, si mangia il Papa, si mangiano i beni demaniali, e si finisce per mangiare i popoli. Quando i rivoluzionari non hanno più altro da mangiare, si mangiano fra loro.

Parliamo un po' della prima rivoluzione francese, madre, maestra, modello di tutte le altre rivoluzioni. Che cosa non ha mangiato in Francia? Campane, vasi sacri, statue di Re, argenterie di signori, perfino le scarpe dei poveri calzolai vennero requisite e divorate dalla rivoluzione francese! Essa ha messo imposte gravissime, imposte su tutto, anche sui camini che servono per iscaldarsi. Ila fatto prestiti volontarii, prestiti forzati; ha confiscato tutti i beni degli emigrati, tutti i beni delle sue vittime, tutti i beni delle opere pie. Il 3 marzo del 1793 Chabot presentava la sua relazione sull'effettivo dei beni divenuti nazionali e sommavano a sei bilioni e quattrocentoundici milioni. Non v'erano compresi i beni territoriali del clero stimati tre bilioni; sicché con questi la somma era di presso che dieci bilioni.

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E la rivoluzione se li ha mangiati in sette anni, ed inoltre ha creato per trentatré bilioni, quattrocentotrenta milioni e quattrocentottantunmila lire di assegnati e E il 30 settembre 1797 lo Stato, dice Grenier de Cassagnac, facea pubblicamente una bancarotta di cinquanta bilioni! (1)». E Napoleone I reduce dalla sua spedizione d'Egitto non potè ritrovare nelle casse dello Stato mille cinquecento lire per mandare un corriere in Italia! (2). Né divorarono meno le rivoluzioni posteriori scoppiate in Francia, e fa calcolato che quella di luglio 1830, e l'altra di febbraio 1848 costarono più di trenta bilioni! (3).

Ma non abbiamo bisogno di cercare altrove gli esempi che ci si presentano in Italia eloquentissimi. I tiranni di Sardegna, Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, Carlo Alberto fino al 1848 si erano contentati d'un debito pubblico di 135 milioni, i I tiranni di Parma di 10 milioni, i tiranni di Modena di 11 milioni, i Papi tiranni di 16 milioni nelle Romagne, Umbria, Marche, i tiranni di Toscana di 152 milioni, i tiranni delle Due Sicilie di 550 milioni. Questi debiti erano contratti in moltissimi anni, e rendevano agli Stati preziosi vantaggi. Ma ecco scoppiare la rivoluzione, e con essa imposte a rompicollo, e debiti senza fine. Nigra, Cavour, Vegezzi in pochi anni ne contraggono negli Stati Sardi per la somma di L. 1,024, 970, 595. Farini in pochi giorni accresce di 5 milioni il debito di Modena, e d'altrettanti il debito di Parma. Pepoli accresce in un mese il debito pubblico delle Romagne di 13 milioni; Ricasoli in brevissimo tempo regala alla Toscana un debito di 56 milioni; e si fa altrettanto in Napoli ed in Sicilia, sicché Pietro Bastogi stima necessario d'istituire il Gran libro del debito pubblico del Regno d'Italia.

E lo stesso Bastogi scrive subito nel Gran Libro un nuovo debito di 714 milioni, ed un altro di oltre ad un bilione ce ne scrive Marco Minghetti, sicché sono già cinque bilioni incirca che deve il Regno d'Italia nato ieri! Ed ba incamerato i beni ecclesiastici ed ha venduto i beni demaniali, ed ha imposto ogni maniera di tasse, ed ba alienato le strade ferrate; e le pubbliche casse sono vuote!

Per mostrare come si mangia quando si contrae un prestito, daremo l'analisi di quello che venne autorizzato con legge del 17 luglio 1861, quando ora ministro delle finanze il conte Pietro Bastogi. Questo prestito dovea ascendere a 500 milioni, ma la povera Italia ha contratto un debito di 714 milioni, e 833, 800 lire, e non si sono incassati che 497 milioni, 078, 964 lire e 14 centesimi! Ducento diciassette milioni furono mangiati parte in interessi, parte in commissioni, e di 497 milioni gl'Italiani debbono pagare ogni anno lire 35,744,190 d'interessi! S'è regalato ai banchieri un premio di L. 2,820,000. Si sono pagate per interessi e commissioni a diverse case bancarie per somme anticipate al tesoro L. 961, 102, 79; in somma 217 milioni

(1) Histoire da Directoire, tom I, pag. 18. Vedi pure un'opera speciale di sir Franck d'Ivernoy, Sulle perdite cagionate dalla rivoluzione.

(2) Mèmoires de Baurrienne, tom. VI.

(3) Gunnie, La Revolution, tom. in. pag. 56, Paris, 1850.

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svaporarono in un prestito solo (1). E il prodotto di lutto quel prestito è mangiato, ed è mangiato egual-» niente il prodotto dell'altro prestito di 700 milioni eflettivi. In mezzo a tanti debiti si arricchisce però il Dizionario italiano. Esso aveva già i mangiacatenacci, e sono i tagliacantoni; aveva i mangiaferro, e sono gli sgherri; aveva i mangiaparadisi, e sono gli ipocritoni, che danno buone parole e tristi fatti, promettono la Chiesa libera, e la incatenano; aveva i mangiapaltona, e sono i vili e i dappoco; aveva gli eroi d'Omero, i mangiagrano, i mangiaporro, i mangiaprosciutto. Oggidì ha anche i mangiapopoli, i mangiafinanse, i mangiastradeferrate e i mangiailalie.

RAGAZZI DI OTTO ANNI

AL GOVERNO DELIA PUBBLICA ISTRUZIONE

(Pubblicato l'11 luglio 1861).

L'Armonia in diversi tempi ha già provato come il nostro Ministero di grazia e giustizia, che pretende di rivedere i decreti detta S. Sede, sotto una dispensa di età per un diacono della diocesi di Vercelli che dovea essere ordinato Sacerdote, scrivesse: Visto, si accorda l'exequatur, perché N. N. possa pigliar moglie! Ministro di grazia e giustizia era allora il sig. Deferesta, oggidì regalato ai Bolognesi.

L'Armonia ha provalo che a segretario del tribunale di commercio di San Remo venne nominalo negli anni precedenti un cotale, che ha ancora oggidì da pigliar possesso del suo ufficio per la semplice ragione che il nostro completo Governo prima spettò che morisse, e poi, quattro o cinque mesi dopo che era morto, gli rilasciò il diploma di segretario, che gli venne spedilo all'altro mondo.

L'Armonia ha provato che il conte di Cavour, volendo escludere dalle Congregazioni di carità i parrochi. per mettere in loro luogo dei secolari, ne aveva nominato parecchi già morti da buona pezza, e uno fra questi morto da dodici anni. Un ex-deputato venne al nostro ufficio, e ci lesse una lettera del conta di Cavour, in cui si doleva assai di quell'articolo, ma confessava di non sapere che cosa rispondere, perché il fatto era verissimo. E il deputalo caldo ministeriale, dopo di averci dato a leggere quella lettera, osava chiedere una rettificazione.

Ora l'Armonia vi dice che dai liberali, da coloro che combattono gli abusi dei Governi legittimi, da questi grandi che favoriscono l'istruzione, che proclamano questo secolo il secolo dei lumi, vennero nominali, e percepiscono tuttavia lo stipendio ragazzi di otto anni incaricati di governare il pubblico insegnamento.

Non lo credete? Eh! anche a noi sembra incredibile, ma pure il fatto è vero fuori d'ogni contestazione.

In Sicilia, cacciati i Borboni, entrarono al Governo dell'isola i Garibaldi, i Crìspi, i Medici. Ebbene sotto quel liberale Governo i ragazzi di otto anni vennero chiamati a reggere l'istruzione pubblica.

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Non è l'Armonia che vel dice: l'ha detto ai deputati il sig. Cordova, ministro d'agricoltura e commercio nella tornata del 1° di loglio 1861. Aprite gli Atti ufficiati della Camera, N° 241, Sii, pagina 921, terza colonnare troverete queste parole dei ministro Cordova:

«Da un documento di un segretario di Stato di quell'epoca so che ragazzi di otto anni furono nominati impiegati del dicastero dell'istruzione pubblica o del culto in Sicilia (sensazione). Dice questo documento che un segretario di Stato non potendo esso stesso ricevere il giuramento, non vide l'impiegato, e e seppe polche era un bambino di otto anni, ed io credo che questo bambino sia tutt'ora in percezione di uno stipendio di segretario di prima classe».

Voi vedete che qui ce n'è per tutti i Governi, tanto per quello di Garibaldi, di Crispi, di Mordini, che nominarono segretario di prima classe il bambino di otto anni come lo chiama il signor Cordova, quanto pei Governi di Montezemolo, di Della Rovere, di Bettino Ricasoli, sotto i quali il bambino continuò a percepire, e percepisce tuttavia lo stipendio.

E poi vengono a dirci che nel Regno delle Due Sicilie tutti sono ignoranti, e pochissimi sanno leggere e scrivere! Il fatto prova che in quel fortunatissimo regno i bambini sono di un ingegno cosi precoce, che giunti appena all'età di otto anni possono essere segretari di prima classe nel dicastero della pubblica istruzione. Girate il mondo per quanto è largo e lungo, e non vi verrà fatto di ritrovare, in nessuna parte, un miracolo simile.

Che se alle notizie del signor Cordova dobbiamo aggiungere le nostre particolari, le faccende dell'istruzione pubblica, sotto il segretariato del bambino di otto anni, andavano meglio in Sicilia, che non camminassero in Piemonte sotto il Governo dei Bon-Compagni, dei Mamiani, e dei Farini.

Tra le altre cose, l'insegnamento dato col metodo moderno, insegnamento che si compartisce cogli esempi delta marmitta che bolle, del soffietto che fa vento, e del candelotto che illumina ed abbrucia, aveva trovato un segretario degno veramente della scoperta dei nostri tempi. Il bambino di otto anni, era nella sua beva, trattandosi del dialogo delle fave, e delle interrogazioni sul numero dei nasi e degli orecchi che ha l'uomo.

Di che lodiamo assai il ministro Ricasoli e il suo collega Bastogi, i quali consentono che il bambino sia tuttora in percezione dello stipendio. Fra breve potrà chiamarsi in attività di servizio, e forse venire trapiantato nella capitale del Regno d'Italia, dove tra tanti bambini può stare anche lui. Certo sarebbe doloroso che si collocasse a riposo un bambino di otto anni!

Nel 1848 si cantava: i bimbi d'Italia si chiaman Ballilla. Nel 1860 e 64 questi bimbi avevano il diritto di venir chiamati agl'impieghi é pascolare essi pure all'ombra dell'albero del bilancio, secondo una classica frase di Lorènzo Valerio. Perciò, ai giorni nostri, i bimbi d'Italia non si chiamano più Ballilla, ma si pagano come secretari di prima classe.

(1) Atti uff, della Camera, N° 803, pag. 3132 e seg.

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Avevano ben ragione i sudditi degli Stati Pontifici di lagnarsi, perchè erano governati dai chierici.

Aspettino con un pò di pazienza, e tardi o tosto tu nome dal progresso non avranno più un prete per delegato, ma un bambino di otto anni per segretario della pubblica istruzione. Il progresso, la civiltà, la rigenerazione italica producono miracoli strepitosi.

RIVELAZIONI DEL MINISTRO CORDOVA

SULLA SICILIA

(Pubblicato l'11 luglio 1861).

Il ministro Cordova nella tornata del 1° di luglio, in cui ci fece la rivelazione del bambino di otto anni, segretario generale dell'istruzione pubblica, ce ne fece pure parecchie altre egualmente lepide, e di cui ai gioverà certamente lo storico futuro dei tempi presenti. Eccone alcune:

I. Nei primi uffizi delle dogane in Sicilia furono nominale persone che non sapevano nè leggere, nè scrivere:

«Tre di coloro ce furono nominati al posto di tenenti d'ordine, che è un posto superiore, nel servizio attivo delle dogane, non hanno osato presentarsi alla direzione generale dei dazi indiretti di Sicilia, da cui dipende codesto servizio, perché non sapevano leggere, né scrivete (Risa)» (Il ministro Cordova, Atti Uff., N°2 pag.9i9).

II. In Palermo i doganieri rubano, e in Messina si uccidono gli impiegati per pigliare il loro posto:

«Il servizio doganale fatto interamente dal personale nuovo che si stabilì in parte colla violenza nella Sicilia, e principalmente in Messina e Palermo, è caduto in condizioni così tristi, alle quali appena oggidì va mano mano riparando l'egregio generale della Rovere, che successero fatti che non erano mai accaduti sotto i Borboni; cioè che nel deposito. della gran dogana di Palermo mancarono più di 1000 balle, si è veduto in Messina qualcuno uccidere un controllore attivo per prendere il suo posto» (Il ministro Cordova, loc. cit.).

III. In Siracusa gli impiegati sanitari dell'ospedale erano il quadruplo degli ammalati:

«All'epoca in cui mi trovai a Siracusa sul cominciare del 1861, ho trovato che gli impiegati sanitari di quell'ospedale erano il triplo ed il quadruplo degli ammalati (Ilarità). Un giorno mi ricordo che, trovandomi alla mensa del luogotenente generale, ed essendo intervenuto il generale Brignone, e qualche altro personaggio autorevole, raccontava che il signor Della Foggia, ispettore generale di questo servizio, avea chiesto al generale Brignone, credo o all'altro personaggio, come trovasse l'andamento degli ospedali. Buonissimo, rispose l'interrogato, ma non è da sorprendersi, con 63 impiegati sanitari e 47 ammalati! (Ilarità generale)» (Ministro Cordova, Atti Ufficiali della Camera N° 241, pagina 921).

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IV. Gli impiegati in Sicilia furono enormemente moltiplicati, e sotto questo dispetto era molto migliore il Governo dei Borboni:

«Vi sono Consigli di governo composti di nove o dieci consigleri in provincie dove vi erano prima tre consiglieri, i quali avevano quasi nulla a fare, quantunque la legge napoletana sul contenzioso amministrativo lor desse un'infinità di affari di più che la nostra legge dell'ottobre 1859» (Ministro Cordova, loc. cit.).

V. Si diedero tristissimi esempi al popolo, e il popolo impara dai governanti:

«Voi vedete cos'è il popolo; ordinariamente la sua morale non è tanto di ragione quanto di esempio e di abitudine. L'antico proverbio: Regis ad exemplum ictus componitur orbis, è un proverbio, verissimo. Ciò che vede fare al capo, crede che si debba fare, ed è la norma che forma la sua morate» (Ministro Cordova, loc. cit.).

VI. Come per far danari s'inventasse in Sicilia una giuocata ideale al lotto:

«Gl'impiegati del lotto, oltre un'assegnazione fissa, hanno un'assegnazione graduata, cioè il tanto per cento sulle giuocate. Ciò era per animarti a favorire le giuocate. Per effetto degli avvenimenti dell'anno scorso, la giuocate venero meno. Gl'impiegati del lotto cominciarono a gridare che si erano fatti minori i loro, guadagni. Sotto la seconda prodittatura s'immaginò il sistema della cosiddetta giuocata ideale. Si trovò la frase che esprime l'invenzione. La giuocata ideale è la presunzione che si sia giuocato in un mese quanto è il massimo delle giuocate fatte per il passato (Ilarità); di modo che mentre l'introito per le finanze è minore, l'indennità mobile che si paga agli impiagati, del lotto è maggiore!» (Ministro Cordova, loc. cit.).

VII. Come non potendosi riscuotere le imposta in Sicilia, si ricorresse ad una percezione ideale:

«La giuocata ideale ba fatto nascere l'idea dalla percezione ideale (Oh! Oh!). Voi stupite, o signori ? Ebbene, in una loro supplica diretta al ministro delle finanze i percettori delle contribuzioni dirette in Sicilia dicono: non avendo forze sufficienti, noi non possiamo esigere lo imposte, e le indennità nostre sono minori. Adottate quindi por noi il sistema del lotto, ritenete il principio percezione ideale (Risa), ed aumentateci l'indennità a proporzione dell'entrala ideale. Notate, o signori! che questi sono agenti responsabili» (Ministro Cordova, loc. cit.).

E con quatto citazione termineremo. Si vede come l'idea abbia trionfato in Italia. Tutto è ideale tra noi; ideale l'economia, ideala il progresso, ideale la libertà, ideale l'indipendenza. Due cose sole non sono ideali: i debiti e le imposte.

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CURIOSO COMMERCIO

DEI MEMBRI DEL PARLAMENTO ITALIANO

Troviamo nella Gazzetta del Popolo del 27 luglio 1861 seguenti particolari, a cui potremo fare di molte e curiose aggiunte, se avessimo la libertà che gode la Gazzetta del Popolo:

«Il sig. ministro Jacini avea fatta il primo la proposta di accordare ai rappresentanti della nazione il trasporto gratuito sulle ferrovie. — E c'era dell'equità. Servono il paese gratuitamente; si faccia dunque il possibile, perché possano almeno essere esenti da spese per condili-si da lontane località alla sede del Parlamento. — E così fu fatto; e mono qualche rarissima eccezione, non sappiamo che alcuno siasi fatto lecito di offendere con bassi abusi la propria dignità. Allora erano rappresentate in Parlamento le antiche provincie, la Lombardia, l'Emilia e la Toscana.

«Ora vi abbiamo anche le provincie meridionali, e quindi anche ai Rappresentanti di queste è applicatoli diritto del gratuito trasporto, che già Fruivano gli altri. Ma noi non abbiamo mai saputo che questo diritto fosse trasfusibile in altri, e che i signori Deputati di questo loro diritto tutto personale potessero far bottega, vendendo il loro biglietto o cedendolo ad amici e parenti, o vestendo fin anco da uomini le donne, per volerle far passare come deputate.

«Eppure queste cose avvennero, queste cose avvengono continuamente. — Si parla perfino di un ministro, il quale, presentatosi al capo convoglio col figlio, si pose a questionare perché volle ad ogni costo aver diritto a farlo viaggiare gratuitamente. — E al doveroso rifiuto del capo-convoglio, il signor ministro tirò fuori questa bella argomentazione: «lo sono ministro, e come ministro (?) ho diritto di viaggiare gratis; il mio diritto di senatore lo delego a mio figlio». Ah, non c'è mica male! Quel signor ministro non c'è più, e speriamo non torni più, perché questa sarebbe una poco lieta caparra della dignità che si trasfonderebbe nel suo ministero.

«Un altro allo funzionario, che c'è ancora, e che si pappa un buon stipendio, e ch'è anche deputato, quando si presenta alla stazione, ha sempre qualche amico o parente da presentare, e crede che basti il dire — il tale è con me — perché le si debba abbassare le corna e lasciar passare tutti i suoi protetti. Questo signore faccia la gentilezza di viaggiare col suo biglietto, ma lasci stare di abusare dei danari della nazione pegli altri.

«Pare già che debbano i signori onorevoli essere abbastanza contenti di poter trottare su e giù per solo sollazzo, senza spender un soldo, senzachè vogliano pretendere di condur con loro gratis anche la caterva dei proprii conoscenti, amici, parenti, e un po' alla volta l'amante e la serva.

«L'altro giorno a Genova smontò un deputato a fianco d'un altro collega. Il primo esibì la medaglia; e il capo-convoglio alla estensione della medaglia non credè dubitare d'abusi. I capi-convoglio si fanno una idea come si deve della dignità dei rappresentanti. Ma l'onorevole della medaglia aveva passato il suo biglietto al proprio collega, che colla sua imberbe figura saltava troppo agli occhi per passare per un altro onorevole. Era un deputato femmina, che il deputato maschio credeva coprire colla sua autorità.

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«In giunta a tutti questi fatti, che sono abbastanza indecorosi, v'è poi la vendita che si fa da taluni del proprio viglietto. Questa poi [a è più grossa di tutte.

«E il nostro paese che, sia detto in buon punto, non seppe mai che cosa fosse mancanza di delicatezza e che s'è avvezzato a vedere l'onestà seguita dai proprii rappresentanti fino allo scrupolo, non sa adattarsi all'introduzione di questo sistema, che poteva passare sotto il regno dei Borboni, ma non sotto al regno di Vittorio Emanuele, il Re leale, che informò il suo governo al proprio galantomismo».

IL DEPUTATO GAZZOLETTI

E LA QUESTIONE DEL TRENTINO

(Pubblicato il 19 gennaio 1861).

Chi sa quando l'Italia sarà fatta! Roma e Venezia non bastano ancora. Lorenzo Valerio vuole Trieste, e Antonio Gazzoletti, deputato, vuole il Trentino. A tal fine quest'ultimo pubblicò a Milano un libretto intitolato: La Questione del Trentino dove prova che Trento appartiene all'Italia.

«La storia di Trento, dice il Gazzoletti, e del suo territorio comincia dal secolo d'Augusto, allorchè i figliastri di lui, Druso e Tiberio, lo conquistarono all'Impero, o, come ancora dicevasi, alla Repubblica di Roma. Venne aggregato alla decima regione italica, e ascritto alla tribù Papiria o alla Papia: innalzata la città all'importanza di colonia romana.

«In appresso il Trentino formò parte del regno dei Goti (a. 476-557) (1), poi di quello dei Longobardi (a. 569-773), durante il quale ultimo reggimento, la nostra città fu sede di uno dei trentasei duchi, fra cui venne diviso il territorio del reame, e non certo del meno potente tra loro (2).

«Rovesciato dalla spada di Carlo Magno il trono dei Longobardi (a. 774), sotto il dominio de’ re ed imperatori franchi, italiani e germani, Trento formò costantemente parte del regno d'Italia come ducato. marchesato o contea di confine, governata da duchi, marchesi, o conti, ai quali sembra che i re l'accordassero a titolo di beneficio, ossia feudo rivocabile ad arbitrio del concedente.

«Nel 1027 Corrado II, il Salico, in virtù di diploma, actum feliciter brixiae pridie kalendas junias, lo raffermò in Udalrico Vescovo e suoi successori in perpetuo, i quali lo tennero con titolo prima di duchi o marchesi, poi di principi.

«Tale origine ebbe il principato ecclesiastico di Trento, il quale da Udalrico, primo concessionario, fino a Pietro Vigilio dei Thun o Tono, ultimo principe vescovo (a. 1802, durò quasi otto secoli; se non sempre di fatto, sempre almeno di diritto, autonomo ed indipendente».

Tutto bene, signor Gazzoletti; ma diteci un po', che il ciel vi salvi! la storia di Nizza non attesta che quella contea appartenne sempre ed appartiene all'Italia?

In una lettera di Cassiodoro, ministro di re Teodorico, si parla di fortificazioni da costruirsi nella città o nel contado di Trento.

Vedi Paolo Diacono, lib. IV, cap. 1 e 2, e Denina, Riv. d'Italia, lib. VII, cap. 4.

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In Nizza non furono pubblicati parecchi libri, i quali dimostravano con ogni maniera di documenti che Nizza è terra italiana?

Eppure Nizza oggidì appartiene alla Francia. E chi glie l'ha ceduta? Voi, signor Gazzoletti, proprio voi glie l'avete ceduta, votando in favore della cessione. Ed ora ostante venir fuori con quegli argomenti in favore di Trento, che avete disprezzato in favore di Nizza? Un po' di logica, signor Gazzoletti. Né voi, né nessun altro dei 229, che cedettero Nizza alla Francia, hanno il diritto di dire una parola in favore dell'unità d'Italia. La ragione politica, per cui cedettero Nizza, distrugge ogni ragione storica che possa venire arrecata a favore di Trento, di Venezia e di Trieste.

LA STELLA D'ITALIA

ED I TRE ARCIVESCOVI DELLE MARCHE E DELL'UMBRIA

(Pubblicato il 20 novembre 1863).

Agli «Italiani delle Marche» Lorenzo Valerio rivolgeva la parola il 15 settembre 1860, e dopo averli compianti perché il potere del Papa nonne tutelava né le persone, né le cose, li avvertiva che egli, Lorenzo Valerio, era stato spedito ai Marchegiani da chi «vuole la vostra salvezza, e vuole perciò un ordine di cose, che sia stabile e degno dell'Italia e di lui».

E Luigi Tanari il 10 settembre 1860 diceva ai «Cittadini della provincia di Urbino e Pesaro» le seguenti bellissime parole: «Ormai il tempo dell'oppressione è finito; la Stella d'Italia fa splendido il suo corso. Voi avrete finalmente una patria (1)».

Or veggiamo i fatti. Quattro Arcivescovi sono nelle Marche e nell'Umbria, gli Arcivescovi di Fermo, di Urbino, di Spoleto e di Camerino. Arcivescovo di Fermo è l'eminentissimo cardinale Filippo De Angelis, Arcivescovo di Urbino è monsignor Alessandro Angeloni, Arcivescovo di Spoleto è monsignor Giovanni Battista Arnaldi, ed Arcivescovo di Camerino è monsignor Felicissimo Salvini.

La Stella d'Italia che cosa ha fatto dei primi tre? Finì per loro, o non piuttosto incominciò nel 1860 il tempo dell'oppressione? Ebbero una patria, o per contrario da quel momento la perdettero? Videro tutelate le loro persone e le loro cose, o invece lasciate all'arbitrio dei proconsoli e dei rivoluzionari?

Risponda la storia, e la storia raccontata da Lorenzo Valerio! Il quale nel 1861 pubblicò in Milano una sua relazione sulle Marche dal 15 settembre 1860 al 18 gennaio 1861, dove a pag. 41 parla dei suoi rapporti (sic) col Clero e principalmente coi Vescovi.

«Uno di essi, dice il Valerio, meritò che il governo del Re si assicurasse della sua persona, e lo tenesse lontano dalla sua diocesi. E questi fu l'eminentissimo Cardinale Vescovo (sic) di Fermo, del quale non vorrei, ma debbo parlare (VI scotta, n'è vero, signor Valerio!). S. E. il generale Fanti appena entrato nelle Marche Io fece condurre a Torino, ma quando voci non delle Marche (2) si levarono a favore di quel prelato, e si fecero

(1) Anche Filippo Gualtiero il 12 settembre dicea ai Perugini «che ai giorni di lutto quelli di gioia successero!».

(2) Lorenzo Valerio può vedere nei documenti conservati negli archivi ministeriali se quelle voci non erano delle Marche!

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ufficii presso il governo del Re, acciocchè lo lasciasse tornare a Fermo, io tenni che fosse del mio dovere pronunciarmi in contrario. I suoi antecedenti m'imponevano il convincimento che la tranquillità pubblica non sarebbe stata sicura se egli fosse tornato ad una sede così vicina al campo della reazione abruzzese».

E a questo modo fini il tempo dell'oppressione pel cardinale De Angelis, il primo Arcivescovo delle Marche! Appena la Stella d'Italia comparve a Fermo, un generale l'imprigionò e lo fe' tradurre a Torino dove è chiuso da tre anni e più. E perché? Questo perché fu domandato dal Cardinale al conte di Cavour, che si strinse nelle spalle e non rispose. Lorenzo Valerio invece ha risposto che l'Arcivescovo di Fermo fu imprigionato dal generale Fanti appena entrato nelle Marche, cioè prima che il Cardinale potesse dire una parola o muovere una paglia, e che poi fu, sostenuto in. prigione pel convincimento di Lorenzo Valerio! (1)

Oh, questi sono governi che tutelano le persone e le cose! Pel semplice convincimento d'un Valerio fu tolta la libertà e la patria, e vennero sequestrati i beni di un Cardinale di 8. Chieda, il quale da tre anni aspetta inutilmente un giudizio, un processo, un'accusa! E poi gridano: Ormai il tempo dell'oppressione è finito!

Passiamo al secondo Arcivescovo, cioè a Monsignor Alessandro Angeloni, Arcivescovo d'Urbino. Egli pure fu chiuso in carcere fin dai 1860, quando la Stella d'Italia incominciò lo splendida suo corso. Cel racconta Lorenzo Valerio, il quale aggiunge che poi fece grazia a Monsignor Angeloni 1 leggete.

«Tacerò d'un altro Vescovo (è l'Arcivescovo d'Urbino), che io stesso dovetti far sostenere per alcuni giorni in un convento; ne taccio, perché ad intercessione del suo Clero lo graziai, e fui ben contento di poterlo graziare, quando rii i accorsi che la sua intemperanza. non era stata che frutto d'ira momentanea».

Capite? La liberazione delle Marche e dell'Umbria fu metterle nelle mani di un Lorenzo Valerio, che imprigionava e graziava a suo talento; introducendo un nuovo crimine politico, il crimine della intemperanza. E chi giudicava dell'intemperanza? Valerio temperantissimo! Chi condannava? Valerio. Chi graziava? Valerio. Oh Stella d'Italia, salve!

Ma la grazia Valeriana non impedì che l'Arcivescovo d'Urbino fosse due volte tormentato, e lo è presentemente per avere, dice il giudice istruttore, con discorsi tenuti nell'esercizio delle sue funzioni «censurato le libere istituzioni governative, provocato reati di ribellione e di renitenza alla leva, ed eccitato lo sprezzo e il malcontento sulla sacra persona del Re d'Italia».

Quanti orribili delitti! E dove li ha commessi l'Arcivescovo d'Urbino? Li ha commessi, risponde il giudice istruttore, visitando la sua Diocesi, e fra gli altri luoghi a San Giovanni d'Auditore. Or bene, credereste? S. Giovanni d'Auditore non è nell'Archidiocesi di Urbino, e l'Arcivescovo non vi pose mai piede. E gli fanno un processo per discorsi detti in un luogo dove non andò, né potca andare nella sua visita pastorale?,

Ah! Stella d'Italia, è a questo modo che tu dovevi portar la salvezza, introdurre la civiltà, la libertà, il progresso, tutelare le persone e le cose?

(1) Car tel est notre bon plaisir, dicevano una volta i Re nelle lettere di cancelleria. Tale è ii mio convincimento, dice Lorenzo Valerio ora che è sorta la Stella d'Italia!

— 251 —

Ah, Stella d'Italia, o piuttosto lugubre cometa, che avesti alla coda un Lorenzo Valerio ed un Giuseppe del Sante, così dunque fai cessare il tempo dell'oppressione, dello arbitrio e del dispotismo?

Ed eccoci innanzi il terzo Arcivescovo che è Monsignor Giambattista Arnaldi, Arcivescovo di Spoleto. Il quale per la quaresima del 1863 pubblicava un indulto quaresimale, e sei vide posto sotto sequestro. Citato poi a comparire con Decreto del 23 febbraio davanti il Giudice Istruttore signor Lamedica, rispose una bellissima lettera nella quale, con petto apostolico, difendeva i diritti della Chiesa e la dignità episcopale. Allora, sul cominciare di giugno, venne imprigionato, e sono ormai cinque mesi che geme nella Rocca di Spoleto.

Non gli fanno processo, noi giudicano, non ne dicono le colpe, non ne sentono le difese; ma lo tengono in carcere, e gli fanno soffrire un carcere che. potrebbe essere ingiusto, s'egli fosse, come noi lo crediamo, innocentissimo. E proclamata la sua innocenza, chi lo compenserà dei suoi patimenti? Chi potrà fare in guisa che egli non abbia indegnamente e crudelmente patito?

Ogni persona di sano giudizio già rileva l'innocenza dell'Arcivescovo di Spoleto, da questo medesimo ritardo nel giudicarlo. Conciossiache se vi avesse in lui colpa, o apparenza di colpa, non indugierebbero cotanto a chiamarlo davanti i Tribunali. Ala temendo ch'egli possa essere assolto, e volendo che ad ogni costo sia gastigato del suo zelo per la fede, del suo amore al Papa, e della sua divozione a Maria SS. ma, gli fanno soffrire un carcere preventivo da cui non potrà essere scampato mai più.

È qui ritorna la nostra apostrofe alla Stella d'Italia del signor Luigi Tanari, stella che promise la libertà, la giustizia, l'inviolabilità delle persone e del domicilio, e invece reca questi bei fatti che veniamo accennando! I quali non sono così particolari alle Marche ed all'Umbria, che non si possano riscontrare anche altrove dove la Stella d'Italia ha gettato i suoi raggi! Ma noi abbiam voluto restringerci a parlare di tre soli Arcivescovi.

E sfidiamo chiunque a dire, 1° che non sia il più tristo dispotismo togliere i beni, la patria, la libertà al Cardinale De Angelis senza sapersene altra ragione che il convincimento di Lorenzo Valerio!

Sfidiamo chiunque a dire, 2° che non sia ridicolo procedimento quello che s'intentò a Monsignor Angeloni Arcivescovo d'Urbino per aver predicato in un paese dove non pose mai piede, e dove non potca recarsi in visita pastorale, perché non appartenente alla sua Diocesi,

Sfidiamo chiunque a dire, 3° che non sia un inaudito arbitrio tenere per cinque mesi in carcere l'Arcivescovo di Spoleto, senza che venga pronunziato il giudizio sul delitto che se gli attribuisce.

Sorgano pure gli uomini di qualunque pensare, e di. qualsivoglia religione, ma che abbiano un briciolo d'onestà, e rispondano se. questo è un procedere secondo i principii della civiltà, dell'equità e della giustizia?

Quanto a noi ci congratuliamo coi tre Arcivescovi fatti degni di patir contumelia pel nome di Gesù Cristo. Il Cardinale De Angelis colla sua pazienza illustra la Chiesa di Fermo, e vi continua i nobili esempii e i sublimi insegnamenti dei Santi Marone ed Apollinare, di S. 'Alessandro e di S. Filippo!

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Monsignor Angeloni fa rivivere in Urbiné le grandi virtù degli Evandri e dei Leonzii. E Monsignor Arnaldi continua nella Chiesa Spoletana le belle tradizioni di San Brizio e di San Marziale.

APPENDICE AL MARTIROLOGIO DELL'EPISCOPATO ITALIANO.

Mentre stava per pubblicarsi questo quaderno ci giunse la notizia dolorosissima d'un altra sede resasi vacante in Lombardia per la morte del Vescovo di Como, Monsignor Giuseppe Marzorati, avvenuta il 25 di marzo 1865 alle ore 12 pomeridiane. Si aggiunga questa sede vacante nell'Elenco pubblicato. E fra i Vescovi dell'Umbria che patirono persecuzione vuoisi aggiungere l'Arcivescovo di Spoleto Monsignor Giovanni Battista Arnaldi, che imprigionato nel giugno del 1863 fu sostenuto nella Rocca di Spoleto per dieci mesi senza nessuna sua colpa, se non era quella d'aver glorificato la Vergine Immacolata, Aiuto d<f Cristiani, e difeso valorosamente i sacrosanti diritti della Chiesa e del romano Pontefice. Di sì illustre prelato abbiamo già discorso parecchie volte in queste Memorie e ne riparleremo, imperocchè il suo nome va unito nella storia de’ tempi nostri coll'augusto nome di Pio IX di cui fu successore. «Monseig. Arnaldi, ha scritto Edmondo Lafond, s'est montrè en plus d'une occasion un digne successeur de Pie IX à l'Archevéchè de Spolète». (Lorette et Castelfidardo, Paris, 1862, pag. 39).

Margotti leve eseguite nel regno d'Italia

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PIO IX E NAPOLEONE III

Consacriamo questo quaderno delle nostre Memorie a descrivere due uomini che rappresentano due principii, due dottrine, due sistemi e stanno alla testa di due grandi città, la città di Dio e la città della Rivoluzione. Prima però di cominciare il discorso sui tempi nostri, sarà bene dire una parola intorno a Roma sotto il primo Bonaparte.

Il conte Federico Sclopis, senatore del Regno, volendo continuare il suo lavoro da molti anni intrapreso sulla legislazione italiana, recossi a Parigi per fare delle ricerche in quegli archivi relativamente al periodo della dominazione francese in Italia dal 1800 al 1814. E dei documenti che gli vennero scoperti, compilò una Memoria letta all'Accademia delle scienze morali e politiche, e pubblicata a Parigi nel 1861 col titolo: La domination francaise en Italie 1800-1814, par Frédéric Sclopis. Da questo libro, che abbiamo sotto gli occhi, leveremo alcuni dati preziosi:

L'occupazione di Roma e il rapimento del Papa, avvenuti per ordine del primo Bonaparte, «diedero luogo, dice il conte Sclopis, a giuste e severe censure. Nessuno storico ha osato giustificare queste odiose intraprese, e tutti gli uomini di Stato si accordano a riconoscerle come gravi errori nella politica di Napoleone». E in nota il conte Sclopis aggiunse: «Confesso che mi riuscì doloroso di vedere in una raccolta piena d'importanti documenti come le Mémoires et correspondances politiques et militaires du Prince Eugène (liv. ix) uno sforzo, che oserei chiamare disperato, per giustificare questa sgraziata intrapresa. Simili apologie fanno più male che bene alla causa che si pretende di sostenere».

Il Senato Consulto del 17 febbraio 1810 riunì lo Stato di Roma all'Impero francese. Già la più gran parte degli Stati del Papa, le Legazioni e le Marche erano state incorporate al regno d'Italia. Una lettera di Salicetti a Murat, re di Napoli, prova, dice il conte Sclopis, che si era lavorato molto prima per giungere al punto di cambiare di pianta il governo romano. Questa lettera è importante e rivela arti moderne, e come anche ai giorni nostri si sperasse nelle incertezze! Eccola come venne estratta dalla biblioteca del Re a Torino:

Lettre de Salicetti au roi Joachim.

«Sire,

«Point de nouvelles de S. M. I.

«Nous sommes ici dans l'attente.

«Si les ordres arrivent, vingt-quatre heures suffiront pour métamorphoser le gouvernement du Pape. Le public s'y attend, et je puis garantir que la très grande majorité verra le changement non seulement avec indifférence, mais avec plaisir, car la longue incertitude où ils vivent depuis quatorze mois est devenue insupportable.

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«Je prie V. M. d'agréer l'hommage de mon profond respect.

De V. M.

«Le très-humble serviteur et sujet

Salicetti».

«Rome, le 20 avril 1809».

Il Papa fu rapito da Roma il 6 luglio 1809. «In un rapporto, dice il conte Sclopis, indirizzato al ministro delle finanze il 17 dello stesso mese, il generale Miollis rigetta l'adozione di questa misura sulla necessità di assicurare la tranquillità dell'Italia. La presenza del Papa impediva senza dubbio l'azione del governo, essa era una protesta terribile (accablante) contro tutto ciò che si operava colla forza».

Il senatore Selopis cita le seguenti parole del signor De Cerando in un Analyse sommaire des travaux de la Consulte, che trovasi negli archivi dell'Impero a Parigi. «Il Papa partendo avea lasciato precise istruzioni che proibivano, in nome della stessa religione e sotto le pene ecclesiastiche, di prestare alcun giuramento, ed anche di concorrere in nulla allo stabilimento del nuovo governo».

Queste istruzioni, ripiglia il conte Sclopis, non restarono senza effetto. «Tutto ciò che dipendeva dall'antico governo nei tribunali e nelle amministrazioni si eclissò davanti noi, e si è assorbito». Così scriveva il generale Miollis al ministro delle finanze il 4 di settembre del 1809. E ciò trovasi confermato in termini ancora più espressivi in un rapporto confidenziale rimesso all'Imperatore dal ministro segretario di Stato per dargli une connaissance un peu circonstanciée des membres des tribunaux de Rome. «La Consulta, dice questo rapporto, in sulle prime aveva nominato gente onesta; ma tutti s'erano rifiutati, sia a motivo delle loro opinioni, sia per isfuggirc alle prime scosse d'un cangiamento».

Il re di Napoli, Gioachino Murai, che nel mese di novembre 1809 erasi condotto a Roma in qualità di comandante in capo dell'esercito, incaricato della sorveglianza politica e della sicurezza pubblica delle Romagne, rappresentava all'Imperatore, in una lettera dell'11 di novembre 1809, che la città di Roma meritava veramente l'interesse dell'Imperatore: «lo non debbo dissimularvi che essa soffre: la mancanza del governo ha reso molti infelici; mi assicurano che la sua popolazione ha perduto 40,000 anime».

Questa cifra, aggiunge in nota il conte Sclopis, non sembra esagerata. Ecco che cosa riferisce con molto maggiore precisione il signor di Tournon ne' suoi Etudes statistiques sur Rome, tom, I, pag. 238: «Questo movimento ascensionale continuò fino al 1796, epoca in cui la città di Roma conteneva 165,000 abitanti. Ma il cangiamento del governo, che seguì la prima invasione de' Francesi, il rapimento del Papa Pio VI, la dispersione della sua Corte ridussero la popolazione a 135,000 individui; ed essa non era più di 123,000, quando Pio VII, nel 1809, fu violentemente strappato dal suo trono, e clic la più gran parte del Clero venne dispersa. Sotto l'amministrazione francese la popolazione fu stazionaria».

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Qui il conte Sclopis cita documenti che riescono a grande onore del Clero secolare e regolare. Trascriviamo la pagina 41: «Il Clero sopra tutto si tenne lontano dal governo francese, e fu vista la grande maggioranza dei religiosi cacciati dal chiostro rinunziare alla pensione che loro era assegnata prima che prestare il giuramento che da loro si esigeva.

Su 3016 religiosi riconosciuti come aventi diritto alla pensione, non ve ne furono che 1128, i quali prestarono il giuramento richiesto per ottenerla, 1888 amarono meglio esserne privi, che sottomettersi a questa esigenza» (Rapporti du Ministre des Cultes. Bigot de Préameneu à l'Empereur, 30 octobre 1811, aux Archives de l'Empire à Paris).

E a quei tempi si ebbe, se non nel nome, certo nella sostanza, il Danaro di S. Pietro. Ascoltiamo il conte Sclopis: «Si vide svolgersi nel Clero e fra gli uomini, che mossi dai medesimi sentimenti facevano causa comune con lui, una devozione profonda alla persona del Papa durante il tempo della sua detenzione. Offerte considerevoli di danaro gli arrivavano a Savona». (Corrispondenza del Principe Borghese negli Archivi del Regno a Torino}.

Cesare Balbo, osserva il conte Sclopis, nel suo stile energico e col sentimento della forza morale che lo distingue tra tutti gli scrittori della nostra età, avea ragione di dire: «la resistenza di questi preti disprezzati fu meravigliosa: fu la Sola resistenza italiana del tempo» (Sommario della Storia d'Italia, prima edizione, pag. 465). Circa cinquecento ecclesiastici degli Stiiti Romani per non "aver voluto prestare il giuramento di fedeltà all'Imperatore subirono la pena della relegazione (Coppi, Annali d'Italia, anno 1809).

«Invano, parla sempre il conte Sclopis, invano aveano decorato Roma del titolo di città libera e imperiale, invano le avevano accordato una rappresentanza municipale, che avevano creduto rendere imponente chiamandola coi nome di Senato (1). Appena badavasi ai lavori che sulle proposte di Canova e di Visconti il governo faceva eseguire a grandi spese e con molta attività. Le perdite che il paese avea fatto erano irreparabili; l'aumento delle imposizioni facevasi sentire penosamente in tutte le classi». Equi il conte Sclopis aggiunge in nota: «in una serie di rapporti e di proposte sui cangiamenti che può subire l'antico sistema finanziario dello Stato Romano, sottomessi dal ministro delle finanze all'Imperatore, trovasi il seguente riassunto: Quadro comparativo delle antiche e delle nuove contribuzioni proposte nello Stato Romano e città libera e imperiate dì Roma. Antiche contribuzioni L. 9,463,883,65 cent. oltre la tassa percepita dalla Commissione degli alloggi, il lotto e la posta delle lettere. — Nuove contribuzioni L. 16,212,817,70 cent. oltre il prodotto delle dogane dei confini». (Archives de l'Empire à Paris).

I sudditi del Papa sospiravano l'antico governo, come dice il conte Sclopis (pag. 43): e Sotto di quello la loro esistenza era dolce e tranquilla più che splendida, e il loro carattere piegavasi facilmente al governo de’ suoi principi». Così il popolo romano viene rappresentato in una memoria lunghissima e importantissima:

(1) «Ma questo Corpo non seppe poi le sue attribuzioni, né mai si ragunò». (Coppi Annali d'Italia, anno 1809).

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Sur la situation des Elats Romains au moment de leur réunion à la France, en juin 1809, par M. A. de Pastoret, auditeur au Conseil d'État, Tutte queste citazioni sono preziose, e il lettore può dedurne da sé le conseguenze.

IL PAPA E L'EPISCOPATO FRANCESE

(Pubblicato il 9 gennaio 1861).

L'apparizione a Parigi del libello Roma e i Vescovi, la solennità con cui venne annunziato dal telegrafo, il perfido scopo a cui mira di far supporre che un certo numero di Vescovi sieno discordi dal Papa, ecco altrettante ragioni che ci consigliano a mettere sotto gli occhi del lettore uno specchio della sublime ed eloquentissima concordia dell'Episcopato sulla questione del dominio temporale del Romano Pontefice.

E noi incomincieremo a dire, in quest'articolo, dell'Episcopato francese, esponendo come tutti i Vescovi della Francia, non sì tosto insorse qualche pericolo per la dominazione Pontificia, si levassero concordi in sua difesa, e ben lungi dal mentire le proprie opinioni per umidità, come impudentemente insinua l'autore del libello Roma e i Vescovi, mostrassero un coraggio veramente cattolico, facendo testa a colui che poteva confinarli a Caienna e a Lambcssa.

Ci duole soltanto che la ristrettezza di un articolo ci costringe a tessere una scarna statistica di nomi, sorpassando sulle più preziose citazioni; ma anche questa semplice enumerazione, mentre riuscirà a grande onore di Roma, della Francia e di tuttala Chiesa Cattolica, servirà a confondere l'impudente libellista, e il tristissimo ipocrita che gli ha messo in mano la penna.

In quindici Provincie ecclesiastiche si parte la Chiesa di Francia, e noi le percorreremo tutte, secondo l'ordine alfabetico, servendoci della stupenda raccolta che si pubblica in Roma col titolo: La sovranità temporale dei Romani Pontefici propugnata nella sua integrità dal suffragio dell'orbe cattolico regnante Pio IX, l'anno XIV. Si parla della Francia nella parte 11, voi. i.

Provincia ecclesiastica d'Aix. L'Arcivescovo d'Aix, scriveva al Papa il 1° di agosto del 1859: «Si è colla più grande apprensione che noi abbiam visto cominciarsi la guerra, a cagione principalmente delle difficoltà che dovevano nascere negli Stati Pontificii, e la pace non ci offrirà vere consolazioni se non quando ne avrà sbandite tutte le agitazioni, che li vanno desolando L'Arcivescovo, i preti e i fedeli della diuresi d'Aix pregano pel successore di San Pietro coi medesimi sentimenti che animavano i primi cristiani, quando pregavano per l'apostolo captivo».

Nell'affetto al Santo Padre, nella viva sollecitudine per la conservazione e pacificazione degli Stati Pontificii concordavano tutti i vescovi suffraganei della diocesi d'Aix: II Vescovo di Digne, 10 ottobre; di Frejus e Toulon, 12 ottobre;

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di Gap, 21 dicembre; di Marsiglia, 7 luglio; di Ajaccio, 24 ottobre; d'Algeri, 25 agosto 1859.

Provincia ecclesiastica d'Albi. L'arcivescovo scrisse al Papa, il i O di ottobre del Ì859: «Il cuore di Vostra Beatitudine è giustamente afflitto per gli odiosi attentati commessi contro i diritti più legittimi della Sede Apostolica da fazioni ribelli, la cui audacia non conosce confini. Vostra Santità si degni permettere ad uno de’ vostri figli rispettosi e fedeli di deporre a' vostri piedi l'espressione del profondo dolore, in cui l'immergono tali eccessi sacrileghi di violenza e di usurpazione. Spero che il Signore non tarderà a reprimerli».

Concordano coll'Arcivescovo d'Albi: II Vescovo di Cahors aM2 agosto — di Mende al Clero — di Perpignano nelle sue bellissime osservazioni sopra gli attentati diretti contro la sovranità temporale del Papa — di Rodez al Clero, 8 novembre 1859.

Provincia ecclesiastica d'Auch. L'Arcivescovo scriveva al Papa, il 18 ottobre 1859: Che egli e il suo Clero gemevano per gli assalti contro la potestà civile del Pontefice, «ma confidavano che la Francia, la quale ab antiquo gladium Dei in orbe portai, non abbandonerebbe la temporale tutela della Santa Sede che avea tante volte invittamente intrapresa».

Concordavano coll'Arcivescovo il Vescovo d'Aire e Dax al Clero della sua diocesi — di Bayonne al Clero 45 dicembre — di Torbez al Clero, 6 novembre 1859.

Provincia ecclesiastica d'Avignone. L'Arcivescovo scriveva al Papa, il 18 ottobre 1859: «Non è da oggi che io mi identifico coi sentimenti di Vostra Santità. Dal giorno, in cui, figli ingrati e ribelli dimenticarono quanto dovevano di rispetto e d'amore al migliore dei Padri, o piuttosto dacché un'empia fazione osò attentare alla maestà della Sede di Roma, al libero e legittimo esercizio dei suoi diritti e scuotere il giogo più dolce come un giogo oppressivo, e spezzare con mano sacrilega lo scettro più venerato, il santo pastorale che servì sempre a proteggerli e condurli nella via della felicità possibile in questo mondo, il mio cuore, Santissimo Padre, testimonio di questi sacrileghi attentati, non ha pili conosciuto altro sentimento che quello del dolore».

Concordavano coll'Arcivescovo il Vescovo di Montpellier al Clero, 1° novembre — di Nimes al Clero, 17 aprile — di Valenza al Clero, 49 ottobre — di Viviers al Clero e ai fedeli, 24 ottobre 1859.

Provincia ecclesiastica di Besançon. Il Cardinale Arci vescovo seri ve va al Papa il 6 luglio 4859: «Coraggio, Santissimo Padre, non dubitate di affrontare qualunque pericolo prima di lasciar diminuire, o comportare che venga diminuita in checchessia l'eredità di S. Pietro. Deus tecum erit qui faciet in eis iudicium conscriptum».

Concordavano col Cardinale Arcivescovo il Vescovo di Belley al Clero 28 ottobre — di Metz al Clero e ai fedeli 21 novembre — di Saint-Diè 23 ottobre — di Strasborgo 18 ottobre — di Verdun 28 ottobre 1859.

Provincia ecclesiastica di Bordeaux. L'Arcivescovo e i Vescovi riuniti in Concilio provinciale nella città di Agen scrivevano al Papa l'11 di settembre 1859: «Radunati in Concilio col nostro Metropolita, prima di fare e pubblicare altri decreti abbiamo voluto incominciare da quello che riguarda la S. Sede Romana e il Sommo Pontefice». E il decreto dice:

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«Doversi necessariamente conservare alla S. Sede Romana il civile principato, affinchè la sacra podestà possa essere esercitata senza vermi impedimento in bene della religione». Provincia ecclesiastica di Bourges. La Sede di Bonrges è vacante, ma il Vescovo di Clermont il 21 ottobre 1859 scriveva deplorando «che le più eminenti virtù e i più sacri diritti non abbiano potuto preservare il nostro Padre comune dagli assalti sacrileghi ed incessanti, ond'è fatto segno il suo governo temporale».

E concordavano gli altri Vescovi suffragane! di Bonrges — del Puy il 25 gennaio 1860 — di Limoges, 4 agosto 1850 — di S. Flour, 20 ottobre 1859

— di Tulle 25 febbraio 1860.

Provincia ecclesiastica dì Cambrai. L'Arcivescovo scriveva al Papa, il 20 luglio 1859: «Quanti siamo in questa diocesi, chierici e fedeli, unanimi aborriamo, riproviamo, condanniamo tutto ciò che ciechi e nefandi uomini contro il principato civile della Santa Sede ingratamente, perversamente, empiamente simulano, macchinano, compiono».

E nella stessa provincia il Vescovo d'Arras, il 18 settembre 1859, scriveva al Clero ed ai fedeli un mandamento conforme, ed il 3 gennaio del 1860 indirizzava un'eloquentissima lettera all'ipocrita scrittore dell'opuscolo il Papa e il Congresso.

Provincia ecclesiastica di Lione. Il Cardinale Arcivescovo scriveva al Papa, il 7 di ottobre 1859: «Noi vi significhiamo l'orrore che ci cagionarono le inique aggressioni patite da Vostra Beatitudine».

E concordavano il Vescovo d'Autun, Chalon e Macon, li ottobre — di Dijon, 25 dicembre — di Grenoble, 24 ottobre — di Langres, 15 dicembre — di Saint-Claude, il 24 ottobre del 1859.

Provincia ecclesiastica di Parigi. Il Cardinale Arcivescovo scriveva al Clero, il 18 di ottobre 1859. «Il potere del Santo Padre è scosso in uria parte de’ suoi diritti come Sovrano temporale, senza che finora sia stato possibile ad uno dei più potenti e generosi monarchi de’ tempi presenti di prevalere pel ristabilimento dell'ordine, e per la conservazione di tutti i diritti in Italia, e particolarmente negli Stati della Chiesa. Tutti siamo afflitti e gemiamo su questa condizione di cose».

Concordavano il Vescovo di Blois, 1° novembre — di Charlres — di Meaux, 20 ottobre — di Orlcans, 4 ottobre — di Varsaglia, Il ottobre 1859.

Provincia ecclesiastica di Reims. Il Cardinale Arcivescovo scriveva al Clero, il 15 novembre 1859: «La rivoluzione s'è messa a servizio dell'eresia e dell'empietà, dell'orgoglio e dell'ambizione, non solo per umiliare e indebolire il Papato, ma ancora per annichilarlo, se fosse possibile. Ciò che essa fa oggidì in alcune provincie si propone di fare anche a Roma in un avvenire più o meno vicino. Si è Roma sopratutto, si è la capitale dui mondo cristiano a cui essa agogna, e vuole invadere». E proseguiva sfolgorando tanta iniquità.

Concordavano il Vescovo d'Amiens, 3 settembre — di Beauvais, 8 ottobre

— di Soissons, 14 luglio 1859, e il Vescovo dì Chàlons sur Marne il 4 gennaio del 1860.

Provincia ecclesiastica di Rouen. L'Arcivescovo scriveva al Clero, il 29 ottobre del 1859: «Quale sarebbe l'azione della Santa Sede sul mondo sociale se fosse spogliata del suo temporale potere?

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Non siamo noi composti d'anima e di corpo? e che potremmo a riguardo de’ nostri simili se il corpo ci fosse tolto? Il dominio temporale della Santa Sede non è egli il suo corpo?». Concordavano il Vescovo di Bayeux e Lisieux, 8 novembre — di Coutances, 7 novembre — di Evreux, 8 ottobre — di Séez, 28 dicembre 1859.

Provincia ecclesiastica di Sens. L'Arcivescovo scriveva al Papa, il 6 agosto 1859: «Il Signore sarà con voi, o Padre, affinché conserviate integro il patrimonio che Dio vi diede, come tutela di libertà e segno di onestà».

Concordavano il Vescovo di Moulins, 13 ottobre — di Nevers, 12 ottobre— di Troyes, 28 dicembre 1859.

Provincia ecclesiastica di Tolosa. L'Arcivescovo scriveva al Papa, il 17 novembre 1859: «Riputiamo nemici tanto dell'ecclesiastica libertà quanto della giustizia coloro che in questi tempi irrequieti con detti, scritti e princilpalmente con atti sacrileghi si sforzano di spogliare il Romano Pontefice della sua temporale podestà ed indipendenza».

Concordavano il Vescovo di Carcassona, 3 novembre — di Montauban, 10 agosto — di Pamiers, 27 dicembre 1859.

Provincia ecclesiastica di Tours. L'arcivescovo scriveva al Papa il 24 luglio 1859: «Le vostre gioie sono le gioie dei Vescovi, come le vostre pene sono le nostre, lo ho partecipato a tutti i dolori a tutte le ansietà provate dalla Santità Vostra quando la guerra s'accese tra nazioni cattoliche, e sovratutto quando la rivolta scoppiò ne' vostri Stati Qualunque cosa avvenga, Padre Santo, fate assegnamento sulla devozione de’ Vescovi».

Concordavano il Vescovo d'Angers, 19 ottobre — di Lavai, 18 novembre — di Mans, 31 dicembre — di Nantes, 8 ottobre — di Quimper e Leon, 10 ottobre — di Rennes, 12 ottobre — di Saint-Brieue, 2 dicembre — di Vannes, 12oltobre 1859.

Questa semplice enumerazione, quantunque imperfetta, è la più bella risposta, all'opuscolo Roma e i Vescovi, ed una delle più sublimi vittorie della Chiesa. Mentre tutte le Potenze temporali sono in discordia, e il caos regna nel mondo, il Cattolicismo presenta il più nobile esempio di unità nella fede e nella carità. La rivoluzione fu spaventata di questa unanimità di sentimento ed affetto, e lo attribuì al timore che Roma incute ai Vescovi. Il timore! Ah se il timore potesse qualche cosa sull'animo dell'Episcopato francese, questo starebbe pel Bonaparte. Invece sta pel Papa, perché esso non teme coloro che possono uccidere il corpo, ma chi può perdere l'anima ed il corpo nella geenna.

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LA CAUSA DI PIO IX

TRIONFANTE NELL'ACCADEMIA FRANCESE

(Pubblicato il 29 gennaio 1861).

Iddio permette che si prolunghi il martirio di Pio IX, perché vuole accresce re il numero e lo splendore delle sue vittorie, ed egli ne conseguiva una segnalatissima nell'accademia francese il giorno 24 del 1861. Dieci anni fa l'assemblea repubblicana della Francia sorgeva a propugnare la legittimità, la bontà, l'inviolabilità del dominio temporale del Papa; ed i più illustri oratori, i Thiers, i Montalembert, i De Falloux, col loro ingegno, colla forza della loro eloquenza sostenevano quella causa che i soldati francesi difendevano colla spada sotto le mura di Roma invasa da Garibaldi e da Mazzini.

Ora in Francia non esiste più un parlamento propriamente detto. Esiste un Senato e un Corpo legislativo senza personalità, senza iniziativa, senza libero arbitrio. Chiedetelo ai Nizzardi chiamati testè a votare, e vi diranno come si formino in Francia i deputati del popolo, e chi rappresentino. Non era dunque possibile sulla Senna una manifestazione in favore del Papa simile a quella del 1849.

Ma accanto al Parlamento che non parla esiste colà un'accademia, ed è quella a cui appartennero Voltaire e D'Alembert, ed a cui appartengono i Thiers, i Cousin, i Guizot e i Victor-Hugo. Ebbene in quest'accademia si dissero gli elogi del Papa Pio IX, si sostenne la causa del suo temporale dominio, si marchiò come era dovere la tristissima rivoluzione che lo assale.

E chi disse questo? Parlò dapprima nell'accademia un povero frate domenicano. Imperocchè, mentre in Italia i Pepoli e i Valerio assaltano i conventi, disperdono i frati, e vendono i monasteri, in Parigi il frate vien ricevuto nel numero dei quaranta, ed i primi letterati della Senna vanno lieti di averlo nel loro numero. Ma questo frate non potè parlare francamente e liberamente del Papa, giacche sarebbonsi prese in sospetto le sue parole.

Invece dopo di lui uscì a ragionare un protestante, il sig. Guizot, e parlò più francamente e più liberamente, perché, come disse egli stesso, la sua credenza lasciavalo più disinteressato in questo grande conflitto. E celebrò Pio IX Pontefice generoso e mite, e proclamò il dovere di tutti i cattolici di portare al Santo Padre vna filiate devozione, e sfolgorò l'ingratitudine di tanti Italiani verso un Principe così grande e così buono, e ricordò come Pio IX, che gl'Italiani già spogliarono in parte, e si dispongono a spogliare del tutto, fosse quello che apriva all'Italia la carriera delle grandi speranze.

In Francia, sotto Napoleone III, nell'accademia dei quaranta, da un protestante già ministro di Luigi Filippo (notate tutte queste circostanze!), la causa del Papa venne nobilmente propugnata. Quel protestante diè all'Italia una lezione sul debito della riconoscenza popolare, sul rispetto dovuto alla Chiesa ed all'augusto suo Capo, sulla stima che noi Italiani, noi cattolici dovremmo fare delle glorie nostre e dei nostri Pontefici.

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Quel protestante ci avvertì che negli assalti mossi presentemente contro il dominio temporale del Papa si attentava ad un tempo ai fondamenti della Chiesa e dello Stato, e ci disse che recando la commozione nelle coscienze, s'inaugurava in Italia l'anarchia o la tirannia. Quel protestante difese Pio IX in nome della società, in nome della libertà, in nome della civiltà, la cui storia uvea già profondamente studiato e dottamente descritto.

E le parole del sig. Guizot furono quelle di tutta l'accademia, imperocchè essa plaudendo le fece sue. Già altri accademici aveano tolto a difendere privatamente Pio IX cogli scritti, e lo fecero tra gli altri vittoriosamente i signori Villemain, Dupanloup, e Vittorio Cousin ricordato da quest'ultimo; ma tutti i quaranta doveano unirsi in corpo, e dare all'Europa una sublime manifestazione in favore del Papa, e ciò avvenne appunto il 24 di gennaio.

Sotto questa data scriveva l'Opinione del 27: «Oggi è la festa della reazione. L'accademia prende la parola, ed unendo la sua voce alla voce dei Vescovi, fa esercizi di ginnastica oratoria in favore del Papa e del legittimismo. È un antico rosso che, smessi i suoi principii filosofici indossò la veste dei Domenicani. Il P. Lacordaire, l'antico amico di Lamennara, e l'austero protestante Guizot vanno a gara per accarezzare ed adulare il Papato». Ebbene, si tolgano le parole villane, e l'Opinione dice il vero. Sì, il 24 di gennaio fu la festa della reazione cattolica, della reazione papistica, della reazione conservatrice. La Cattedra di San Pietro, a' trionfi avvezza, conseguì un nuovo trionfo. E fu un suo trionfo quel rosso divenuto frate; quel frate entrato nell'accademia, quell'accademico che consacra al Papa la prima parola, che pronunzia nella sala dell'Istituto; quella parola, a cui risponde un protestante austero, ma un uomo dotto, un nomo onesto, un uomo imparziale, un uomo veridico, un giusto estimatore degli uomini e delle cose.

E questo austero protestante proclama i grandi meriti di Pio IX, i segnalati benefizi che rese all'Italia, le scelleratezze che si commettono contro l'una e contro l'altro dai nemici d'amendue. E l'accademia applaude! Dice bene l'Opinione: non è solo il protestante austero che parla, è l'accademia che prende la parola. E quest'accademia unisce la sua voce a quella dei Vescovi. Vescovi ed accademici, ossia la scienza e la religione si collegano in favore di Pio IX, e il grande Pontefice trionfa! E il fiore della società parigina corre ad assistere ai trionfi del Papa nell'accademia francese. Thiers e Dupin, il maresciallo Magnan e Vitel, Mignet e il conte Duchàtel, Biot, Flourens, Elia di Beaùmont, Hifforf, Saint-Marc Girardin, il conte di Marcellus, Benedetto d'Azy, Cochin, Parieu, Bixio, la principessa. Mutilile, la principessa di Cauino, le duchesse Luynes e de Mirepoix, il principe Napoleone, la principessa Clotilde, e cento altri corrono in folla ad assistere al ricevimento del frate, e ad applaudire di buona o mala voglia alle glorie del Papa.

E tutti i giornali di Parigi empii e credenti si occupano di ciò che questo Irate ha detto, e di ciò che l'austero protestante ha risposto, e sono costretti a riferire le parole dell'uno e dell'altro in favore del Papa, e contro la rivoluzione. Il Moniteur è confuso, e vien fuori a dirci che il P. Lacordaire talvolta il baissail trop la voix, e talvolta il la poussait d'un accent trop aigu: meschinissima critica che prova come anche il Moniteur abbia sentito i trionfi del Papa nell'accademia francese.

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Ora facciamo un breve confronto tra le vittorie di Castelfidardo e d'Ancona e questa grande vittoria morale ottenuta dal Papa. Le prime sono dovute ad un numero sterminato di soldati e si spiegano facilmente, e lascieranno poca traccia di se nella storia. Ma Pio IX ridotto a vivere di carità, inerme e spogliato di tutto, che tuttavia si cattiva l'alletto o la devozione degli uomini più dotti, dei protestanti i più austeri, che lo difendono, lo lodano, l'applaudono in mezzo alla più colta società parigina, è un fatto che sarà ricordato presso tutte le generazioni avvenire come una delle più belle glorie del Papato.

Chi avesse detto pochi anni fa, che nell'accademia francese sarebbesi difeso il dominio temporale del Papa, non avrebbe ottenuto credenza. Ed oggidì ve l'attestano tutti i diari parigini. 1 trionfi di S. Paolo nell'Areopago sono rinnovati, ma con questa differenza, che le glorie di Pio IX sono proclamate in una accademia da un austero protestante, e gli accademici non gli dicono: ti ascolteremo un'altra volta, ma confermano tosto con fragorosi applausi la sua parola.

Noi siamo tentati di ripetere colla Chiesa: O felix culpa! Felice la rivoluzione italiana, felici le violenze, le usurpazioni, le tirannie che meritarono tanto onore a Pio IX, tanta gloria al Papato, tanta consolazione ad ogni cuore cattolico!

UNA VITTORIA DI PIO IX

SULLA DIPLOMAZIA DI NAPOLEONE III

(Pubblicato il 15 febbraio 1861).

Dai documenti diplomatici già da noi pubblicati risulta, che sol cominciare del 1860 Napoleone III volea rendere il Papa stipendiato dai Governi, e custodito dalle loro truppe. Epperò aveva fatto scrivere al gabinetto di Vienna, sotto la data del 7 di aprile, per aprirgli questo suo disegno, il quale consisteva nello stabilire tra i debiti dei diversi Stati cattolici un debito annuo da pagarsi al Papa, in compenso delle provincie che gli vennero tolte; e nell'obbligare ciascuno di questi Stati, eccetto l'Austria e la Francia, a tenere presidio in Roma.

Il modo adoperato dal Bonaparte nella manifestazione di questo disegno prova com'egli sentisse internamente che Pio IX non poteva approvarlo. Imperocché ii ministro Thouvenel noi propose direttamente a Roma, ma, gettatone un motto a Monsignor Sacconi, Nunzio Pontificio a Parigi, ne scrisse al rappresentante francese a Vienna, perché s'accordasse prima coll'Austria, riservandosi poi a trattarne col Papa, quando Austria e Francia si fossero intese.

Intanto il ministro Thouvenel mandava al duca di Gramont in Roma il dispaccio che aveva scritto su questo proposito al rappresentante francese a Vienna, avvertendolo però di non dirne parola al Cardinale Antonelli, finché l'Austria non avesse risposto, e il Gramont non fosse stato avvisato della risposta. Ma Monsignor Sacconi, clic sa bene l'uffizio suo, colse al volo quel cenno del sig. Thouvenel, e non frappose indugio a ragguagliarne il Cardinale Antonelli.

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E l'Eminentissimo Segretario di Stato, da quel fedele e oculato ministro che egli è, recossi presso la Santità di Pio IX, e manifestogli il disegno napoleonico. Il Papa non esitò a rigettarlo, e diè ordine al Cardinale Antonelli che dichiarasse prontamente al duca di Gramont questo suo rifiuto, affinché le trattative non procedessero più in lungo inutilmente.

Il Cardinale Antonelli esegui l'ordine ricevuto, e disse al duca di Gramont quanto aveva saputo dal Nunzio Pontificio a Parigi, cioè che Napoleone III divisava di assegnare al Papa una specie di stipendio da parte delle Potenze cattoliche, e che si proponeva di far presidiare Roma dalle loro truppe. Non garbargli per nulla questo disegno; volere innanzi tutto il fatto suo, vale a dire la restituzione delle provincie che gli erano state tolte; quanto al resto, se le Potenze cattoliche bramavano largheggiare col Papa, ristabilissero gli antichi diritti che pagavano alla Chiesa sui benefizi vacanti, e licenziassero la Santa Sede a levare truppe nei loro Regni conforme a' suoi bisogni.

Il duca di Gramont, che teneva ben nascosto il mistero, restò di stucco nell'udirne ad una volta la proposta e la risposta, e ne scrisse subito al ministro Thouvenel, notando ch'egli non si era lasciato sfuggire parola, ma che l'Eminentissimo Antonelli era venuto in chiaro della cosa pei discorsi tenuti dal Thouvenel medesimo col Nunzio Pontificio a Parigi.

Cotesta storia risulta, ripetiamo, dai documenti pubblicati testò dal Governo francese, dai quali ancora appariscono due cose importantissime: l'una che il gabinetto di Vienna e qualche altro gabinetto cattolico, a cui era stato manifestato il famoso disegno, hanno subito indovinato e predetto il rifiuto del Papa; l'altra come il Governo bonapartista, dopo tale rifiuto, cercasse di mettere Pio IX in voce presso le Corti cattoliche di caparbio, ostinato, avverso ad ogni conciliazione.

Ma il fatto stesso di Vienna, di Portogallo, di Spagna, di Napoli ed altre Corti che predicono il rifiuto del Papa, dimostra che questo ben lungi dall'essere effetto di un'ostinazione caparbia, fu il risultalo di un grande e universale sentimento cattolico, che impediva l'accettazione d'uno stato di cose, il quale avrebbe menomato i diritti della Santa Sede, la sua libertà, la sua dignità, la sua indipendenza. Pio IX non fu ostinato, ma fermo ne' suoi principii; non caparbio, ma logico nei suoi ragionamenti.

Posto ch'egli avesse accertato il disegno del Bonaparte, ne seguiva un'implicita rinunzia alle Romagne, giacché i Governi doveano stipendiarlo a titolo di compenso. E come il Papa poteva fare una tale rinunzia in vista di un guadagno, quando avea già parecchie volte protestato di non potervi aderire per verun conto e d'essere disposto, per debito di coscienza, a lasciarvi la vita (animam ponere) piuttosto che cedere?

Di poi quale libertà e indipendenza sarebbe ancora restata al Papa se fosse stato costretto di accettare lo stipendio de’ Governi? Noi veggìamo la bella protezione che Napoleone III accorda a Pio IX. Tuttavia i diari del Bonaparte non ri6niscono di lagnarsi del Pontefice, perché ad ogni pie sospinto non incensa l'Imperatore. Che sarebbe mai se cotesto Imperatore anno per anno gli rilasciasse un mandato di pagamento?

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Nel 1855, quando la Spagna stava per violare il concordato stretto colla Santa Sede, questa lagnossene altamente, come era suo diritto e dovere. E allora tosto nel Congresso s'udì una voce temeraria ricordare i servigi resi dalla Spagna a Pio IX nel 1849, quando era esule in Gaeta, e accusare il Pontefice d'ingratitudine. La segreteria di Stato rispondeva che il Papa era riconoscentissimo ai servigi ricevuti, ma che se avesse potuto sol prevedere che cotesti servigi lo costringerebbero a tacere o a dissimulare le ferite recate alla Chiesa, avrebbe amato meglio morire in esilio che pagare sì caramente la sua ristorazione.

Ora a Roma non si dimentica nulla, e Pio IX non volle certo essere stipendiato da un Governo che può ben presto passare nelle mani di chi osava muovergli quest'accusa, e incatenare quella libertà della Chiesa che, a detta di Sant'Anselmo, Dio ama sopra ogni cosa. E ciò che diciamo della Francia e di Spagna si applichi ad ogni altro Governo.

Quel cenno dato così a proposito dal Cardinale Antonelli sul ristabilimento degli antichi diritti canonici sui benefizi vacanti è ricco delle più gravi considerazioni. Se i Governi oggi si obbligano, domani potranno fallire alla propria parola, come fecero per lo innanzi su molti altri punti. Se nulla impedisce al Piemonte di togliere al Papa le Romagne, le Marche e l'Umbria, che cosa gli impedirà di pagargli alla fine di ogni anno lo stipendio? Il Piemonte non doveva al Papa il tributo del calice, e glielo paga? Non ha violato fin dal 1850 il Concordato del 1841 giurato in fede e parola di Re?

Si dirà che Napoleone III costringerebbe in questo caso il Piemonte a pagare il Papa? Non può essere. Il Bonaparte ha stabilito il principio del non intervento. Se ciò nonostante potrebbe imporre al conte di Cavour di sborsare un annuo sussidio al Santo Padre, perché non potrà obbligarlo a restituirgli quelle provincie, su cui il Papa ha diritti incontestabili?

Dall'altra parte noi abbiamo letto testé nell'opuscolo del signor Cayla, intitolato Papa e Imperatore, come si dichiarassero i Vescovi francesi ufficiali dell'impero, e venissero paragonati ai marescialli di Francia, perché pagati sul bilancio. E si voleva che Pio IX si adagiasse a divenire un gran maresciallo di Napoleone III? —

Queste osservazioni riguardano lo stipendio rifiutato nobilmente da Pio IX. Ve ne sono delle non meno gravi relative al presidio di Roma. Si grida tanto contro l'occupazione straniera, e poi Napoleone III vuole perpetuarla in Roma! Il conte Walewski nel Congresso di Parigi dichiarava anormale la condizione degli Stati Pontificii, perché vi erano i Francesi; ed ora il Bonaparte vuole metterci Spagnuoli, Portoghesi, Bavari e Belgi!

Le truppe de’ Governi che fossero in Roma non ci starebbero mai sotto l'autorità esclusiva del Pontefice, ma dipenderebbero sempre dai Governi medesimi, e ciò in faccia al mondo cattolico diminuirebbe quell'indipendenza della Santa Sede, che deve non solo sussistere ma anche apparire.

Inoltre sarebbero inevitabili le gelosie tra Governi e Governi, e ne abbiamo avuto un seggio nell'occupazione avvenuta da parte dell'Austria e della Francia, che diè luogo a tali e tante animosità da indurre Pio IX a licenziare nel 1859 i francesi e gli Austriaci. Le quali animosità consigliavano allo stesso Napoleone III di escludere Francia ed Austria dall'obbligo di tener presidio in Roma.

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E poi noi veggiamo a Francoforte, dove stanno a presidio le truppe de’ diversi Stati della Confederazione Germanica, come difficilmente que' soldati vi possano convivere, sebbene tutti tedeschi, e come frequentemente levino a rumore quella città che custodiscono.

E in caso di guerra tra Potenza e Potenza quanti impicci e complicazioni non avrebbe prodotto la dimora in Roma dell'esercito d'una delle potenze guerreggianti? E sarebbe stato libero il Papa di profferir sentenza contro l'ingiustizia della guerra, quando chi ingiustamente combatteva avesse avuto i suoi soldati nella capitale del mondo cattolico?

La proposta di Napoleone III, considerata sotto tutti i rispetti, era certo una utopia e forse anche un tranello, e noi siamo pieni di ammirazione e di riconoscenza pel Santo Padre che la rigettò. Sì di riconoscenza, perché rigettandola andò incontro a molti pericoli, ma sostenne la dignità, la libertà, l'indipendenza della Chiesa Cattolica.

E cresce sempre più ne' fedeli l'obbligo di sostenere colle ofierte volontarie il grande Pio IX, dacchè egli trovasi in tali e tante strettezze per amor nostro, pel bene della Chiesa e pel trionfo della religione.

SE LE RIFORME AVREBBERO SALVATO PIO IX?

(Pubblicato il 22 febbraio 1861).

In tutte le Note diplomatiche di Napoleone III e principalmente nel libello La France, Rome et l'Italie, scritto recentemente dal sig. La Gueronière, si batte e ribatte questo punto, che se Pio IX avesse dato certe riforme in tempo, le Romagne non gli sarebbero sfuggite, e conserverebbe tuttavia le Marche e l'Umbria. Donde la conseguenza che il Papa è la cagione precipua dei danni che patisce, e chi è causa del suo mal pianga se stesso I

Risponderemo brevemente a quest'accusa, provando 1° che la spogliazione del Papa era un'opera preconcetta da molto tempo; 2° che nessuna riforma avrebbe salvato della rivoluzione l'integrità degli Stati Pontificii; 3° che la maggior parte delle riforme erano già state accordate dal Papa, e che se non accordò le restanti, fu colpa principale del governo francese.

E dapprima Luigi Bonaparte più d'ogni altro dovrebbe sapere, che i rivoluzionari vogliono a qualunque costo spogliare il Papa, come Principe e come Re; e se gli chiedono riforme, si è per raggiungere più facilmente questo loro intento. Imperocché noi troviamo in una biografia di Luigi Napoleone, stampata a Parigi nel 1852 e dedicata a' suoi 7,500,000 elettori che egli nel 1830 entra dans une vaste conjuration, qui embrassait toute la Péninsule (1).

I congiurati gli avran detto allora, se volevano dal Papa semplici riforme, e se qualunque riforma li avrebbe resi cittadini fedeli.

Inoltre i liberali fin dal 1851 ci cantavano e ricantavano che volevan venire in Italia al punto in cui sono giunti presentemente, e che nessuna riforma li avrebbe arrestati.

(1) Vie et histoire impartiale de Louis Napoléon Bonaparte. Paris, 1852, pag. 17.

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Daniele Manin, che trovavasi a Parigi durante la guerra di Oriente, fu il primo a mandare dalla Senna la parola d'ordine. Preghiamo il lettore di porre una seria attenzione alle nostre citazioni.

Nel 1859 stampossi a Parigi un opuscolo intitolato: Manin et l'Italie, Paguerre éditeur. Quivi è dimostrato che (in dal 1854, notale bene, Manin conosceva il disegno di una guerra da farsi dal Piemonte e dulia Francia all'Austria; e si aggiunge che tra gli scritti del Manin trovossi un programma tracciato al principio della guerra di Oriente, dove, tra gli altri, era questo avviso puntualmente eseguito dalla rivoluzione:

«Finché il Papa è sostenuto a Roma dalle armi francesi, noi non dobbiamo tentare d'insorgere, che questo ci metterebbe in lotta col nostro alleato: ma se la Francia vuoi cacciare il Pupa, noi l'aiuteremo con tutto il nostro cuore» (Manin et l'Italie, pag. 11).

Il Manin pubblicava il suo programma, che era di cacciare dalla Penisola tutti i Re, e riunirla al Piemonte. L'Italia col Re sardo, scriveva nel 1854 e nel 1855; e la sua formola era accettala e commentata da tutti i rivoluzionari, o principalmente da Giorgio Pallavicino, il quale prediceva per filo e per segno ciò che dovea fare e ciò che ha fatto la rivoluzione.

Nel 1854 il Pallavicino scriveva: «Perché le città italiane, colto il momento opportuno, non si solleverebbero gridando: Viva la dinastia di Savoia'!» (Unione del 14 novembre 1854). E più innanzi soggiungeva: «Abbiamo bisogno del Re sardo? Accarezziamolo».

Il Times di Londra applaudiva al disegno, e chiedeva: «Forse che non potrebbe il Piemonte riunire sotto un solo potente Governo i varii Slali della Penisola?» (Times 17 settembre 1855). E col diario inglese univansi il Siede di Parigi e tutti i giornali rivoluzionar! di Torino, i quali fin dal 1855 predicavano rivoluzione ed annessione.

A que' di Carlo Farini era un povero giornalista che per campar la vita scriveva il Piemonte, passato ora in mani migliori. E il Farini dolevasi che. Manin e Pallavicino rivelassero i disegni delle società secreto. Eccone le parole: «Desta pietà in codesto fringuellare di lingue e di penne il vedere con che insipienza si rivelino progetti, che dovrebbero per lo meno tacersi ai nemici» (Piemonte 20 ottobre 1855).

Il Pallavicino non accettava i consigli del Farini, e continuava a rivelare. Il 15 agosto del 1856 rivelava ciò che è avvenuto nel 1859 e nel 1860. «Al primo rumore dei popoli italiani chiedenti il Regno d'Italia colla Dinastia di Savoia e lo Statuto Piemontese, il Parlamento e l'esercito in Piemonte leveranno il medesimo grido: ed eccoti l'Italia viva persona politica. Come nascerà un'autorità che non sia né Piemontese, né Lombarda, né Veneziana, né Toscana, né Romana, né Napoletana, nè Siciliana, ma Italiana? Colla trasformazione del Parlamento Subalpino in Parlamento Italiano. Che farà il Parlamento Italiano? Poste certe condizioni chieste ed ottenute certe guarentigie il Parlamento Italiano investirà il Re della Dittatura durante la guerra. Che farà il Re Dittatore?

Ci unificherà col dire — Popoli italiani! Stringetevi tutti intorno a me. Obbedite a' miei commissari che mando ad armarvi (1)».

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Dopo di ciò venga il sig. de La Gueronière a dirci che il Papa ha perdutole Bttg provincie, perché non volle dare le riforme! Il Papa, e il Granduca di Toscana, e i Duchi di Parma e di Modena, dando le riforme sarebbero caduti il giorno dopo, come avvenne al giovine Re di Napoli. Quando il 13 marzo 1854 Idi il Russell dalla Camera dei Comuni raccomandò agii Italiani di stare ubbidienti all'Austria, perché col tempo avrebbe dato loro più privilegi popolari che non potessero desiderare, Daniele Manin rispose: «Non sappiamo che farci della sua umanità e del suo liberalismo: vogliamo essere padroni in casa nostra, Lo scopo che ci proponiamo, ciò che vogliamo tutti senza eccezione, eccolo: Indipendenza completa di tutto il territorio italiano; unione di tutte le parti d'Italia in un sol corpo politico (2)».

Del resto il Papa Pio IX non fu mai alieno dalle riforme; egli cominciò il suo Pontificato riformando; molte riforme avca già accordate, e molte altre era pronto a concedere.

La Patrie di Parigi in un articolo del 1° di aprile 1860, articolo che avea una certa aria semiofficiale, faceva dire dalla Francia all'Inghilterra: vii Papa si dichiarò pronto ad andare ben più in là delle promesse di Gaeta; e non perciò voi cessaste dal chiedere l'annessione delle Romagne al Piemonte!».

Il La Gueronière accenna alla lettera di Napoleone III al Papa, sotto la data del 30 dicembre 1860, come quella che avrebbe potuto salvare le Marche e l'Umbria. Il conte di Cavour fu più sincero.

Di fatto parlando egli alla Camera de’ Deputati nella tornata del 26 di maggio 1860, cercò dimostrare che all'imperatore Napoleone III doveasi cedere la Savoia e Nizza in compenso della non mai abbastanza celebrata lettera del 30 dicembre a Pio IX. Nella qual lettera, dice il conte di Cavour, l'Imperatore dichiarava al Pontefice risolutamente, che il suo dominio sulle Romagne era finito (3).

«Sì, o signori, continuava il conte di Cavour, questa lettera segna un'epoca memorabile nella storia d'Italia; con questa lettera l'Imperatore dei Francesi ha acquistato, a mio credere, un titolo alla riconoscenza degl'Italiani non minore di quello che ottenne sconfiggendo gli Austriaci sulle alture di Solferino [sensazione).

«Sì, ripigliava il conte di Cavour (e preghiamo il lettore di avvertir bene queste parole), sì, perché con quella lettera egli (Napoleone III) metteva fine al regno dei preti, il quale è forse altrettanto dannoso all'Italia della signoria austriaca».

Dunque Napoleone III colla sua lettera del 30 dicembre non voleva solo togliere al Papa le Romagne, ma tutto il regno Pontificio compresa anche Roma. Dunque non si trattava di riforme, bensì di mettere fine al regno del Papa. Dunque i rifiuti del Papa furono giusti, doverosi, santissimi.

E dietro queste confessioni si osa scrivere che il Bonaparte volea conservare

(1) Scritti politici di Giorgio Pallavicino sulla quistione italiana. Torino, stamperia dell'Unione Tipografico Editrice, 1856, pag. 31, 32.

(3) Vedi la Preesi di Parigi del 22 di marzo 1854.

(3) «Io dico, o signori, che quella lettera costituisce per me un gran compenso» Cavour, Atti ufficiati, N. 42

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il dominio temporale del Papa, e che Pio IX ha perduto se stesso! Ma, signor La Gueronière, ci credete forse smemorati o imbecilli? Ah! se il Papa è momentaneamente spoglialo, noi conosciamo chi ne ha la colpa maggiore. Pio IX avvedutissimo si accorse fin dal bel principio dove si voleva andare. Egli non si lasciò cogliere ai tranelli delle riforme, ma con una politica sapientissima obbligò Napoleone III a protestare che volea da lui le riforme e non la rinunzia del suo regno.

E come potea farsi questa protesta? Potea e dovea farsi col ristabilire prima il Pontefice nei suoi diritti, e poi, usando di questi, egli avrebbe accordato le riforme. Se Napoleone III non avversava il dominio temporale del Papa, avrebbe potuto facilmente ristorarlo, e così ottenere le riforme. Invece non volle, epperò fu egli la causa precipua che le maggiori riforme non venissero accordate ai sudditi di Pio IX.

PIO IX FU INGRATO

VERSO NAPOLEONE III?

(Pubblicato il 2 marzo i 861)

Il La Gueronière nel suo libello La Francia, Uomo, e l'Italia getta contro il nostro Santo Padre due accuse principali, traducendolo come un testardo ed un ingrato. A questo due accuse risponde il Vescovo di Poitiers. Ecco quanto egli dice sull'ingratitudine di Pio IX. Alle osservazioni dell'ottimo Prelato non si potea dare che una risposta sola, un processo per abuso.

«Che dirò io dell'accusa d'ingratitudine? Il Papato ingrato? È la prima volta che questo aggettivo è accoppiato con questo sostantivo. La storia da a sì fatto accoppiamento di parole una solenne smentita. Si capisce egli questo? Il Papato dimentico di benefizi ricevuti, il Papato ingiusto verso un protettore fortunato e possente, esso che ha sempre teso una mano soccorrevole e generosa ai suoi avversar! caduti nell'infortunio? Ed è un difensore officioso della dinastia napoleonica che ha la memoria sì corta da muover questa doglianza! Ah! sulla spoglia mortale d'un fratello dell'Imperatore, una voce che si è estinta poc'anzi, e le cui parole tutte non possono essere ratificate, ha per lo meno lavato per sempre la Sovranità Pontificia dal delitto inventato oggidì contro di lei! (1).

«Egli o vero, non si traila più di l'io VII, ma di l'io IX. E l'anima di questo che per la prima volta sarebbe stata invasa da mi sentimento vile e vergognoso, da un vizio fino a lui estraneo alla dinastia dei Pontefici. Egli è per l'io IX e in occasione del presente Sovrano della Francia che l'ingratitudine si sarebbe infine tardivamente assisa sulla cattedra del Vicario di Gesti Cristo.

(1) Monsignor Pie allude all'orazione funebre dell'ex-re Gerolamo, fratello di Napoleone I, pronunziata da Monsignor Ccbht, Vescovo di Trojes, nella quale si fece risaltare la generosità del Sommo Pontefice verso i membri della famiglia imperiale proscritti da quasi tutta l'Europa.

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Permetteteci qui, nostri carissimi fratelli, d'invocare le nostre proprie io reminiscenze. Noi saremo semplici istorici e narratori di quanto fummo gli uditori e i testimoni.

«Era la quarta domenica di quaresima dell'anno 1856. In quel giorno dopo il cerimoniale apostolico, il Pontefice Romano benedice una rosa d'oro che ha in costume d'inviare a qualche Principessa sovrana che per se stessa o pe' suoi abbia ben meritato della Chiesa. Pio IX destinò questo sacro oggetto all'Imperatrice dei Francesi, allora incinta d'un figlio, di cui l'imperatore avea pregato il Papa d'essere padrino. Noi fummo spettatori della cerimonia, e noi potemmo leggere nello sguardo del Pontefice, nel suo gesto, nell'accento della sua preghiera i sentimenti di benevolenza che l'animavano. Due settimane dopo, era la domenica delle Palme, il Papa distribuiva i rami benedetti ai dignitari della Chiesa, ai principi romani, agli ambasciatori delle Potenze, agli ufficiali della guarnigione francese. In mezzo alla sacra funzione, un cerimoniere recò all'orecchio del Pontefice il dispaccio che annunziava la nascita del Principe imperiale. Noi udimmo la risposta uscita immediatamente dal suo cuore, le parole di benedizione inviate al neonato, ai suoi genitori e alla Francia; finalmente tre giorni dopo noi raccogliemmo dalle sue labbra l'impressione che avea serbata di questa nascila principesca, la cui novella si era mescolata ai canti dell'Osanna e alla marcia trionfale del rappresentante del Cristo Re, scortato dall'esercito francese, sotto le volte della gran basilica Papale... Sì, noi abbiam viste ed intese queste cose, e noi proviamo un fremito interno, quando a' nostri giorni si taccia di malevolenza questo Pontefice che noi trovammo fiducioso a sì gran segno... Ohimè! erano appena pochi giorni passati, che le desolanti parole pronunziate al Congresso di Parigi avevano confermato terribili apprensioni... Con tutto ciò il suo Legato non mancò di venire, carico di benedizioni e di presenti, a battezzare e tenere al fonte in suo nome il figlio dell'Imperatore, divenuto suo figlio spirituale... d'allora in poi il magnanimo Pontefice abbeverato di tristezza e di dolore non ha cessato di essere generoso e riconoscente, e non ha ommesso veruna occasione di lodare tutto ciò che poteva parere meritevole di elogio. No, no, Signore Gesù, il vostro Vicario in terra non avrà mai la disgrazia d'essere ingrato!... Noi confidiamo che egli pure non avrà più il dolore di non fare che degli ingrati. Egli è per questo che osiamo pensare che l'autore del libello abbia infallibilmente ferito nei loro sentimenti più delicati e più vivi coloro che ha voluto servire.

E tutto scritto su questo stile il mandamento del Vescovo di Poitiers. E noi possiam dire che sia stato messo sotto processo non perché turbò le coscienze, ma perché turbò la Gueronière, ed i suoi fautori.

270 —

GLI OSANNA DEI PAPICIDI

AL SANTO PADRE PIO IX

(Pubblicato il 24 marzo 1861).

Diciannove secoli fa «una gran turba di gente, avendo udito che Gesù andava a Gerusalemme, presero dei rami di palme, e gli uscirono incontro, gridando: Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d'Israele» (Vang. il San Giovanni, cap. XII). Pochi giorni dopo, quelle turbe gridavano a Filato: Crocifigi Gesù, e davano sulla faccia al Nazareno le palme medesime che avevano servito al suo trionfo!

A' tempi nostri veggiamo rinnovarsi lo stesso spettacolo riguardo al Vicario di Gesù Cristo. Coloro che con inni, con poesie, con articoli, con discorsi gridavano osanna a Pio IX, ora colla stessa penna, che ne celebrò il nome benedetto, lo insultano, lo deridono, l'infamano, e rivolgono contro di lui quelle armi medesime che dicevano di voler impugnare a sua difesa.

E poiché molti avranno potuto dimenticare gli osanna degli anni scorsi, noi vogliamo ricordarli in questo articolo il quiale servirà dapprima a lodare il nostro glorioso Pontefice colla parola medesima de’ suoi nemici; poi a dimostrare le ignobili contraddizioni e le sordide ipocrisie dei suoi nemici; in ultimo farà vedere che cosa sia quell'opinione pubblica, che si proclama regina del mondo, come si formi, quanto duri, e dove riesca.

Gridavano osanna a Pio IX Massimo e Roberto d'Azeglio, Cavour, Don-Compagni, Bertoldi, Massari, Carutti, Gioberti, Farini, Mamiani, Pepoli che pubblicava sonetti a Bologna, Valerio e un'infinità d'altri veramente Pueri Hebraeorum, perché imitatori dell'affetto, della riconoscenza, della lealtà delle turbe giudaiche verso il Redentore!

Massimo d'Azeglio. «Pio IX è un uomo di gran mente e d'alto cuore, di saldo e risoluto animo, franco, aperto e leale nel suo operare. Pio IX è ricco delle più preziose doti, che possono far degno veramente un Principe della sua Corona, la fortezza e la lealtà. Pio IX ha fatto più per l'Italia in due mesi, che non hanno fatto in vent'anni tutti gl'Italiani insieme (1)».

(1) Vedi una lettera di Massimo d'Azeglio, Genova, 2 ottobre 1846. Nel suo libro poi dell'Emancipazione civile degli Israeliti. Firenze Lemonnier 1848, Massimo d'Azeglio scriveva: «Pio IX coll'aprire le braccia a tutti gli afflitti, coll'accogliere le loro preghiere, ascoltarne i lamenti, tergerne le lacrime; col ripetere quelle divine parole. «Venite a me voi tutti che siete nell'afflizione, ed io vi consolerò», seguì il grande esempio del Redentore; fu modello o vero ritratto di quella carità che è il compendio di tutta la leggo e ne forma il massimo de’ precetti: e tutti i consolati hanno detto: «Questa è veramente religione divina» (pag. 49). Pio IX, non è l'uomo del partilo, ma è l'uomo di Dio (pag 49). Pio IX il restauratore del senso religioso: l'uomo della civiltà, l'uomo da lauto tempo aspettato e sospirato sull'alto seggio che rimaneva vedovo e deserto (pag. 52). Pio IX benefica e consola (pag. 53). E tutto ciò (non possiamo abbastanza ripeterlo) perché Pio IX non è l'uomo del partito, ma l'uomo del cuor retto, l'uomo di Dio (pag. 54). Quel Pontefice (Pio IX) che nel porro rimedio ai mali del suo popolo, aveva mostrata tanta sete di giustizia, tanto ardore di carità, non poteva non commuoversi delle miserie degl'Israeliti; che son pure anch'essi suoi figli, che quantunque divisi di fede e di culto, sentono il desiderio, il bisogno di cercare in esso un padre, che in Ini già Io trovarono, e piegano ad esso riverenti se non sinora le intelligenze, certo gli affetti e le volontà (pag. 55).

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E contro questo Pio IX leva ora la voce Massimo d'Azeglio nelle sue Quistioni urgenti. Oh pueri Hebraeorum!

Roberto d'Azeglio. «L'elezione di Pio IX fu una delle più stupende manifestazioni dell'intervento divino nella cosa umana. Pio IX evocò i suoi popoli alla dignità dell'ordine legale, applicò con volontà spontanea il principio fratellevole del Vangelo alla condizione civile dei sudditi. Pio IX coll'eloquente esortazione dell'esempio traeva i Principi ad imitare l'azione santa del Vicario di Gesù Cristo (1)». E più tardi Roberto d'Azeglio si scatenava parecchie volte nel Diritto contro questo santo e grande Pontefice. Oh Pueri Hebraeorum!

Camillo Cavour. «Pio IX, il sommo Pio è uno de’ più zelanti Pontefici che siasi seduto mai sulla cattedra di S. Pietro. Con modo energico e nobile seppe difendere i suoi diritti ed arrestare colla sola potenza della parola odiose invasioni (2)». Ed ora Camillo Cavour invade gli Stati del Papa, spoglia Pio IX, e gli rivolge a colpa l'energica e nobile difesa de’ suoi diritti! Oh Pueri Hebraeorum!

Carlo Bon-Compagni. «Evviva Pio IX! è il grido con cui l'Italia inaugurò il suo risorgimento. Evviva Pio IX! è il grido in cui si esprime il pensiero che si debba spingere a nuovi destini la nazione, pensiero di ossequio verso la religione e la Chiesa, di cui egli è Capo (3)». Ed ora Bon-Compagni vuole spingere a nuovi destini l'Italia gridando Abbasso Pio IX! Oh Pueri Hebraeorum!

Lorenzio Valerio. «Non è Pio che piega davanti lo straniero per fini secondarii; perocché se abbraccia nel suo amore tutta quanta l'umanità come Pontefice non cessa d'essere italiano, e fortissimo italiano come Principe (4)». E Lorenzo Valerio, nel 1860, andava governatore nelle Marche tolte a Pio IX, e lagnavasi della resistenza del fortissimo Principe! Oh Pueri Hebraeorum!

Domenico Camiti. «Pio IX è quel grande che Italia tutta riconosce per messaggiero della sua redenzione divina (5)». Ed oggi il Canuti raccoglie negli archivi dello Stato gli atti della sublime riconoscenza dimostrata a questo grande che veniva nel nome del Signore. Oh Pueri Hebraeorum I

Carlo Luigi Farini. Costui beneficato straordinariamente dal Santo Padre Pio IX lo eccitava a difendere le proprietà della Chiesa, e prometteva di condurre sotto i vessilli di Sua Santità una legione straniera (6). E poi andò dittatore a Bologna, ed emissario a Ciamberì per ottenere licenza di distruggere l'esercito del Papa sotto pretesto ch'era formato di stranieri. Oh "Pueri Hebraeorum.

Marco Minghetti. Costui pure voleva nel 1848 che dai Romani «si nominasse una deputazione, la quale portasse al trono di Sua Santità

(1) Concordia, 3 gennaio 1848.

(2) Risorgimento, 14 gennaio 1848.

(3) Risorgimento del gennaio 1848.

(4) Concordia, 1848, N° 8.

(5) Le Feste Torinesi, ecc. pag. 10.

(6) Indirizzo a Pio IX, 1 agosto 1848.

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le espressioni della sua devozione ed inalterabile attaccamento (1)». E poi mostrò il suo inalterabile attaccamento al Papa colla Nota verbale che scrisse percento di Camillo Cavour, e lo dimostra oggidì come ministro dell'interno in Torino. Oh Pueri Hebraeorum!

II generale Durando. Onesto generale diceva ai soldati: «Le vostre spade unite a quelle di Carlo Alberto devono concordi muovere all'esterminio dei nemici di Dio e dell'Italia, e di quelli che oltraggiarono Pio IX (2)». E invece queste spade sono dirette oggidì contro Pio IX medesimo! Oh Pueri Hebraeorum.

Filippo De-Boni. Onta alla turpe gentaglia che va gridando osceni improperii contro Pici IX. Gli Italiani debbono concedere se fa di mestieri la vita per onorare di non domabile difesa la costanza di Pio, le ragioni del suo principato. La causa del Papa è la nostra, la sua gloria è nostra gloria, e il suo trionfo sarà pure un nostro trionfo (3)». E poi questo Filippo De-Boni nel Diritto del 29 di gennaio 1860 esclamava: Le porte infernali prevaleranno contro la Roma dei Papi! Oh Pueri Hebraeorum.

Giuseppe Massari. Pio IX è il sommo sacerdote, il mansueto levita d'Italia, Carlo Alberto ne è il sommo guerriero, il forte Maccabeo. Innanzi alla mansuetudine del primo ed alla fortezza del secondo insiem congiunte ed intrecciate, s'infrangeranno le ani della frode ed i soprusi della violenza (4)». Ed ora il Massari si fa il sostenitore di queste arti e di questi soprusi adoperati contro Pio IX! Oh Pueri Hebraeorum.

E per chiudere questa enumerazione che potrebbe protrarsi all'infinito, ricorderemo la Gazzetta Piemontese, ora Gazzetta del Regno d'Italia, che chiamava Pio IX «l'angelo che ha salvato l'Italia (o)»; ricorderemo la Gazzetta del Popolo che nelle disgrazie d'Italia consolavasi perché vive Pio IX (6) ricorderemo l'omaggio delle guardie nazionali lombarde all'immortale Pio IX rigeneratore d'Italia; ricorderemo Gavazzi che in Padova alla piazza dei Signori impone solennemente il nome di Pio IX; ricorderemo Giuseppe Bertoldi che canta:

Giunto è l'eletto servo di Dio,

Il mansueto, il giusto, il Pio,

La salda pietra del Vatican.

Nel 1848 Pio IX era chiamato l'arcangelo della terra, l'apostolo dell'amore, che cinto d'olivo e armato di carità rompe il regno dell'odio, fuga le tenebre del pregiudizio e siringe i popoli nel bacio fraterno. Il nome di Pio IX era detto la verga di Mosè, la stella di salute, il nome dissipatore di ogni odio, di ogni ruggine antica.

Pio IX era un uomo maraviglioso, l'amico più famigliare dei cittadini e il mecenate degl'intelletti più instancabile e più munifico del suo Pontificato il solo trentunesimo giorno avrebbe bastato a colmar di gloria il più lungo regno».

Protesta del 23 novembre 1848.

Proclama, 5 aprilo 1848.

La Congiura di Roma, pag. 100, 194, 165.

Le feste Torinesi ecc. pag. 18.

Gazzetta Piemontese, 5 moggio 1848.

Gazzetta del Popolo, 27 giugno 1848.

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Egli era «il più amoroso e il più santo dei Vicarii di Cristo, l'eletto del Signore, la cui anima creata a sua immagine possiede tutti i segni della divinità; egli era adorabile per bontà ed ingegno; era l'apostolo degli infelici». I rappresentanti del suo popolo gli dicevano fra le altre cose: «Noi veniamo a dirvi che vi amiamo come nessun Pontefice fu amato giammai; noi vi amiamo tanto, che faremmo di voi un Dio, se Gesù Cristo nostro Signore non fosse il solo e vero Dio della terra e del ciclo (1)». Uno storico soggiungeva: «Nessun Principe della terra conquistò l'affetto de’ suoi sudditi in più largo ed unanime modo. Se Pio IX fosse vissuto diciannove secoli prima, i signori de l mondo gli avrebbero innalzato altari al Campidoglio». E poco dopo lo stesso storico ripigliava: «Il primo nome che i Romani insegnano ai loro fanciulli non è più quello dei loro padri, ma quello di Pio IX: il primo vagito che esce dalla culla non è un grido di dolore, ma una voce di felicità, il nome di Pio IX; la maledizione che maledice si consola e torna a benedire nel nome di Pio IX; il nome di Pio IX è venerato dai Romani in tutte le loro gioie, invocato in tutte le loro sventure, gridato in mezzo alle tempeste della vita. Pio IX è la fortuna di Roma; e gl'Italiani tutti tengono gli occhi continuamente fissi sopra di lui, come i magi sulla stella d'oriente (2)».

Chi avrebbe detto che gli ebrei dopo avere accolto tra le palme il Redentore l'avrebbero poi crocifisso! E chi avesse detto nel 1848 che tutti questi panegiristi di Pio IX l'avrebbero ingiuriato, spogliato, tormentato! Ma siccome l'avvenuto nella persona di Gesù Cristo era una conseguenza delle predizioni delle Sante Scritture, e convenne che Cristo patisse ed entrasse così nella sua gloria; così conviene che Pio IX soffra ad onore della sua Chiesa e a confusione de’ suoi nemici.

E fin dal 1847 e 48 Pio IX si aspettava a questo strazio, e diceva: Dopo la domenica delle palme giunge il venerdì Santo (3). E giunse ben presto, e sebbene aspettato non meno terribile. Ma prima di permettere che il Vicario di Gesù Cristo fosse spogliato, Dio ha voluto che ne fosse proclamato il regno dai medesimi spogliatoi; prima che le lingue malediche calunniassero Pio IX, furono costrette dalla forza della verità a celebrarne le lodi.

Questo Pontefice che ora spacciano vittima dei raggiri altrui, è quel desso che da sé incominciò la grande opera del risorgimento italiano; e l'ostinazione che gli rinfacciano, è quella stessa fermezza e costanza che già commendarono in lui. L'iniquità si smentisce da sè, e gli ebrei Deicidi condannavano se medesimi, uccidendo Colui che aveano prima acclamato il Benedetto che viene nel nome del Signore.

Noi non mutiamo linguaggio a seconda degli eventi. Siamo con Pio IX sempre. Con lui nei giorni gloriosi del 1848, con lui nell'esilio di Gaeta, con lui nel suo trionfale viaggio del 1857, con lui ne' patimenti che ora soffre nella sua medesima Roma. Abbiamo applaudito Pio IX nei giorni dell'osanna, ora piangiamo e preghiamo appiè della sua croce.

(1) Storia delle rivoluzioni italiane di G. Massara. Torino, 1859, voi. 1, pag. 372, 258, 259, 262, 211. 288, 323, 324, 369, 374.

(2) Questo storico è citato dal Mascara, che però non ne dice il nome. Vedi Storia delle rivoluzioni italiane, pag. 384, 385.

(3) Lafond, la voie douloureuse des Papes. Paris 1860, pag. 201.

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CHI MUTO?

PIO IX O I LIBERTINI?

RISPOSTA AL SENATORE VACCA

(Pubblicato l'11 aprile 1861).

Il senatore Vacca, nella tornata del 9 di aprile 1861, manifestò la speranza che Pio IX, favellando con se stesso e con Dio, tornerebbe ai pensieri del 1848. Signor Vacca, oggi le nostre parole saranno dirette a voi, e vi proveremo, signor Vacca, che Pio IX è sempre il Pontefice del 1848, ch'egli non ha mutato menomamente, che ha lo stesso cuore, gli stessi affetti, i medesimi intendimenti del 1848. Ma voi e i vostri, signor Vacca, mutaste invece e linguaggio, e disegni e convinzione.

E dapprima Pio IX non potò mutare la sua natura, la sua mente, il suo cuore, la sua persona. Egli è sempre quel Principe provido, avveduto, intelligentissimo, che governa da sé, che non cede mai né a sollecitazioni, né ad inganni. Mutarono invece brutamente i libertini, che nel 1848 acclamavano Pio IX come un grande uomo di Stato, uno de’ più zelanti Pontefici, l'Arcangelo della terra, l'Apostolo dell'amore, la stella di salute, l'eletto del Signore, ed ora osano rappresentarcelo come lo zimbello delle altrui volontà, la vittima dei maneggi di palazzo.

I libertini non ci dicevano forse nel i848, che Pio IX, salito sul trono, tenne testa ad antiche costumanze, a molteplici pretese, e da solo resistè a forti opposizioni, e fe' prevalere la sua politica in vantaggio dello Stato e della Chiesa? Ed un Principe così fermo come potè in un tratto divenir debole, tentennante, arrendevole alle voglie di coloro che lo circondano?

Pio IX non mutò nel volere i suoi sudditi sottoposti al proprio impero. Agli amnistiati facea sottoscrivere una carta, dove riconoscevano Pio IX loro Sovrano legittimo, e promettevano parola d'onore «di non abusare in alcun modo e tempo dell'atto della sua sovrana clemenza, e di compiere fedelmente a tutti i doveri di buoni e leali sudditi».

Mutarono invece i libertini, che allora giuravano sulla propria testa e su quella de’ figli di essere fedeli infino alla morte a Pio IX; giuravano di spargere il sangue per lui, quando ne venisse il bisogno; giuravano pel segno di redenzione; e taluno rinunziava alla sua parte di paradiso, se mai tradito avesse il giuramento che legavate a Pio; ed ora la maggior parte di que' spergiuri affliggono e combattono il generoso Pontefice, che loro concesse sì largo perdono!

Pio IX oggidì, come nel 1848, vuole sostenere ad ogni costo i diritti della Santa Sede, e non cedere un palmo solo delle terre Pontificie. Egli non mutò, e non muta su questo punto. Mutarono invece i libertini, che dodici anni fa proponevano al Papa di allargare il suo dominio temporale in Italia, come Pio IX dichiarava nella sua Allocuzione del 29 di aprile 1848; ed ora reputano dannoso all'Italia ch'egli continui a dominare in un angolo solo della Penisola!

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Pio IX è nel 186) quel medesimo Pontefice, che protestava nel 1847 contro gli occupatori di Ferrara «volendo conservare indenni i sacri diritti della Santa Sede». Mutarono invece i libertini, che allora con Camillo Cavour applaudivano a quella nobile ed energica protesta, e chiamavano odiosa invasione l'occupazione ferrarese; ed ora mille volte peggiori degli Austriaci, vogliono invadere la stessa Roma, e bestemmiano Pio IX perché si difende!

Non mutò il gran Pio che oggidì, come sempre, reputa utile alla Chiesa ed all'Italia il civile Principato de’ Papi. Mutarono i libertini, che nel 1848 scrivevano essere questo civile Principato «intimamente collegato così collo splendore del Cattolicismo, come colla libertà e coll'indipendenza d'Italia»; ed ora vogliono abolirlo, e rovinare l'Italia, e perseguitare la Chiesa.

Non mutò il gran Pio che, coll'innumerevole schiera de’ suoi santi predecessori, stimò sempre che la terrena podestà del Pontefice nulla avesse di contrario all'Evangelio. Mutarono i libertini, che prima proclamavano con Gioberti «il dominio temporale del Papa tanto giovare a tutelare la Santa Sede nel giro della regione» ed ora traggono fuori interpretando a sproposito regnum meum non est de hoc mundo!

Ah! signor Vacca, non è Pio IX che debba tornare a' pensieri del 1848. Dite che ci ritorni il vostro collega il senatore Plezza, il quale scriveva il 1° di agosto del 1848, che togliere le Legazioni al Papa sarebbe «distruggere la sua indipendenza politica con gran detrimento della libertà religiosa».

Dite che ci ritorni il vostro amico, Luigi Farini, che nel 1848 eccitava il Santo Padre a difendere le proprietà della Chiesa, anche con legioni straniere e chiamava un'infamia il togliere al Romano Pontefice le sue provincie.

Dite che ci ritorni il ministro Marco Minghetti, che, al 25 di novembre del 1848, voleva che in Roma «si nominasse una deputazione, la quale portasse al trono di Sua Santità le espressioni della nostra devozione ed inalterabile attaccamento».

Signor Vacca, il Papa non muta. Egli è il rappresentante di Dio, che disse: Ego dominus et non mutar. Egli sta colla verità e colla giustizia, che sono ferme, costanti, immortali. Mutano invece i nemici del Papa, che sono gli empi, che sono gli stolti, de’ quali è detto nell'Ecclesiastico che Mutano come la luna.

Vedeteli questi stolti, signor Vacca! Nel 1848 volevano che il Papa si circondasse d'armi e d'armati, e bandisse la guerra all'Austria, e nel 1861 gridano perché il Papa si difende contro gl'invasori, ed ha un pugno di soldati a suo servizio! Allora il Vicario del Dio della pace potea conquistare le terre altrui, ed ora non può difendere le proprie!

Questi stolti, signor Vacca, pretendevano nel 1847 e 1848 che Pio IX fulminasse la scomunica contro i Tedeschi, e scrivevano che le censure ecclesiastiche erano un'arma formidabile in mano della Chiesa, e poteano atterrare i troni, i Re e gl'Imperatori; ed ora si pigliano giuoco della scomunica, e la dicono una spada senza punta ed un telum imbelle sine ictu!

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Questi stolti, signor Vacca, una volta accusavano i Romani Pontefici d'avere chiamato gli stranieri in Italia, ed ora sono essi che danno l'Italia legata piedi e mani in potere degli stranieri, e sotto il bugiardo nome d'indipendenza inaugurano nella nostra Penisola la più obbrobriosa servitù.

Guardatevi attorno, signor Vacca, e troverete le persone che mutano ad ogni pie' sospinto, che oggi sono repubblicani, domani monarchici, quando conservatori, quando demagoghi, prima colla giovine Italia, poi con Cavour, un giorno stipendiati dal Re di Napoli potente, l'altro suoi nemici, perché in esigilo. Costoro, signor Vacca, non hanno altro principio che il tornaconto, che l'interesse, che l'egoismo, epperò codardamente si rivolgono sempre verso il sole che sorge, e danno le spalle al sole che tramonta.

Voi e i vostri, signor Vacca, quante volte avete detto che la Santa Sede è ostinata, tenace, sempre la stessa; che non si vuole acconciare ai tempi, né abbandonare le sue tradizioni? E ora avete il coraggio di contraddirvi, e rappresentarci Pio IX, che la Gueronière dice ostinato, come una banderuola che muta secondo i venti? Un po' di logica, signor Vacca, un po' di buona memoria.

Pio IX non muta. Egli invece può dire al popolo d'Italia: «Mutatus es mihi in crudelem». Se Italia conobbe se stessa ed ebbe coscienza del suo essere e del suo potere, fu opera del regnante Pontefice. Ed ora l'Italia ne lo ripaga di questa guisa? Ah crudele! Ah sciagurata!

E ben a ragione Pio IX nell'ultima sua Allocuzione ripeteva quel detto di Isaia: «Mutaverunt ius!». La terra è infetta dai suoi abitatori, perché questi han trasgredite le leggi, han cambiato il diritto, hanno sciolta l'alleanza sempiterna. Leggete, signor Vacca, leggete quel capitolo d'Isaia che è il xxiv e vi troverete la descrizione dell'Italia presente.

«La maledizione divorerà la terra, perché i suoi abitanti sono peccatori; e per questo daranno in pazzie quei che in essa dimorano, e scarso numero di uomini resterà... La città della vanità si va distruggendo... Sarà in agitazione la terra come un ubbriaco, e muterà sito come un padiglione che sta fermo una notte; sarà a lei grave peso la sua iniquità, ed ella cadrà, né potrà più rialzarsi. E in quel giorno visiterà il Signore la milizia del cielo nell'alto, e i re della terra, i quali sono sopra la terra. E saranno riuniti tutti in un fascio nella fossa».

Tutto questo, signor Vacca, perché? Perché gli abitatori della terra «mutaverunt ius», e i re che videro «mutarsi il diritto» se ne stettero colle mani alla cintola, come se non si trattasse di loro, perché la rivoluzione imperversava in casa degli altri!

Ah, signor Vacca, tristissimi tempi si preparano per questa Italia se essa non muta davvero, se non ritorna come nel 1848 a Pio IX, se non si tiene alla cattedra di S. Pietro, se non riconosce nel Papato tutta la sua forza, tutta la sua stabilità, tutta la sua gloria. È questa Italia che dee favellare con se stessa e con Dio, interrogare la sua storia, adorare i decreti della Provvidenza, e mutar vezzo, e gettarsi nelle paterne braccia del Papa. A questa condizione soltanto l'Italia si rialzerà.

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Se no essa passerà di rivoluzione in rivoluzione, di tirannia in tirannia, di vergogna in vergogna, divenendo la favola e lo scherno del mondo. — Ma tu, o Cattedra di Pietro, tu, come quel Dio che in principio gettò i fondamenti della terra, tu durerai immortale anche quando tutto invecchierà intorno a te come un vestito. Tutto sarà mutato, ma gli anni tuoi non verran meno. «Anni tui non deficient».

I NEMICI DI PIO IX

SGABELLO A' SUOI PIEDI

NELL'ANNIVERSARIO DELLA SUA ELEZIONE

(Pubblicato il 16 giugno 1861)

«Porrò i tuoi nemici sgabello ai tuoi piedi (Salmo, 109, v. 2).

Oggi, 16 di giugno, si compie l'anno decimoquinto dacché il glorioso Pio IX sali sulla cattedra di S. Pietro, ed i sacerdoti pregano il Pontefice eterno e lo ringraziano d'aver dato alla Chiesa un uomo di tanta virtù, e lo supplicano ardentemente perché si degni di conservarglielo ancora molti anni.

Per festeggiare un sì lieto giorno noi domanderemo gl'inni, gli applausi, i riflessi agli avversavi medesimi del Santo Padre. Di Gesti Cristo sta scritto nei salmi che Dio porrà i suoi nemici sgabello ai suoi piedi; e questa è pure la vittoria che la Provvidenza ha riservato a Pio IX. Egli è difeso da coloro che lo assalgono, egli è applaudito da quei medesimi che lo dileggiano, il suo trionfo è pronunziato da quelle stesse labbra che gli gridano guerra.

Raccogliamo adunque ne' libri e ne' diarii dei libertini le feste, le gioie, le acclamazioni a Pio IX; e formiamo del tutto uno sgabello, su cui innalzare in faccia agli uomini del mondo il nostro Santo Padre, che in faccia a Dio, in l'accia ai fedeli è già tanto elevato per le sue virtù, per la bontà del suo cuore, per la fermezza, la costanza, il coraggio delle sue nobilissime azioni.

Nel 1846 quando si seppe a Parigi l'eiezione di Pio IX, il Journat des Débats del 21 di giugno scriveva: «Noi auguriamo sinceramente ch'egli vegga gli anni di Pietro, e che il suo regno si prolunghi pel bene della Chiesa, di cui è Capo, e per quello dei popoli dei quali è Sovrano».

Il Journaldes Dcbats del giugno 1861 non tiene più lo stesso linguaggio, ma invece vorrebbe che pel bene dei popoli fosse esautorato lo stesso Pio IX1 Quel giornale insieme colla Presse e cogli altri periodici rivoluzionari gettano a piene mani la calunnia contro il governo de’ Papi!

Eppure la Presse del 1846 in occasione dell'elezione di Pio IX dava un cenno dolio Stato Pontificio e del suo Governo, soggiungendo poi queste parole che dovrebbe rileggere: «Tali sono la costituzione e il Governo, di cui il nuovo Pontefice è proclamato Capo. Questa costituzione e questo Governo sono segno di mille assalti, a cui lo spirito di setta d'accordo collo spirito di parte aggiungono un'amarezza singolare. Vi ha per nostro avviso nelle querele, onde sono l'oggetto, pia di esagerazione che di realtà, la qua! cosa forse dimostreremo un giorno».

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E questo, dicea la Presse, alla morte di Gregorio XVI, prima ancora che il regnante Pontefice introducesse nel reggime de’ suoi Stati tanti miglioramenti che gli attirarono le benedizioni dei popoli, e gli applausi de’ suoi medesimi nemici.

L'elezione di Pio IX, e pel modo con cui venne compiuta, e pel tempo e per la persona, si riconobbe come un tratto di speciale protezione di Dio verso la Chiesa, lo che fu dimostrato in Torino con una operetta venula in luce nel 1847 (1).

Il Diario di Roma del 20 di giugno 1846 scriveva: «Per un tratto speciale della Provvidenza in soli due giorni di conclave, e sedici di sede vacante, i voti dei sacri elettori sortosi mirabilmente accordati nello scrutinio della sera di martedì, 16 del corrente, ad innalzare alla suprema cattedra di S. Pietro l'Eminentissimo e Reverendissimo signor Cardinale Giovanni Maria dei conti Mastai Ferretti, prete del titolo dei Ss. Pietro e Marcellino, Arcivescovo, Vescovo d'Imola».

E il Journal des Débats del 21 di giugno 1846: «Nessun conclave non fu mai così breve. Si dice che la condizione politica degli Stati della Chiesa e la necessità di mettere un termine ad una espettazione, che potea cangiarsi in un'agitazione inquietante, affrettasse la determinazione de’ Cardinali».

E la Gazzette du Midi del 22 di giugno 1846: «L'elezione così spontanea ed imponente onde il Sacro Collegio si è pur ora onoralo, destò nella diplomazia una sorpresa pari alla gioia ch'essa eccitò nel popolo di Roma. Tutti i cattolici saranno ugualmente lieti nell'udire come il Conclave abbia saputo mantenere la sua libertà e sottrarsi ad ogni maneggio».

E l'Univers del 20 di giugno 1846: «La sì pronta elezione del Sommo Pontefice ha sconcertato più di un intrigo, e deluso più d'una speranza. La diplomazia non ha avuto tempo d'immischiarsene. Il signor Martin (du Nord) (2) assicurava oggi alla Camera che la scelta del Sacro Collegio era o, almeno, sarebbe stata la scelta del Ministero. Ciò è tanto più onorevole pel nostro Governo, in quanto che dal modo con cui si fece l'elezione è manifesto che in questa congiuntura i Ministri si trovano d'accordo non solo coi Cardinali, ma ancora collo Spirito Santo».

Nullo spirto mai scendendo in terra

Tanto rapì di sua dolcezza al ciclo,

quanto Pio IX a cui era stato fatto dono dell'augusta immortal gemina chiave». Così cantò Giovanni Marchetti in un sonetto sull'esaltazione al Pontificato del regnante Pontefice, sonetto che fu riferito da Felice Romani nella Gazzella Piemontese del 30 di luglio 1846, accompagnandolo colle seguenti parole: «A grande circostanza, grande poeta».

(1) Leggi l'opuscolo intitolalo: L'opera della Divina Provvidenza rivelata colla nascita e l'avvenimento al soglio Pontificio di Sua Santità il Pontefice Regnante. Torino, dall'Offìcina tipogr. litograf. di G. Fodratti, 1847. Opuscolo in 4° con 6 tavole in litografia.

(2) Era Ministro di grazia e giustizia sotto Luigi Filippo.

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Pio IX appena eletto Pontefice disse all'Italia sorgi e cammina. Cosi confessava il signor la Farina che il 28 di aprile del 1847 facea in Firenze questo brindisi: «Al Sommo Pontefice Pio IX, che rinnovando il miracolo del Cristo disse a Lazzaro quatriduano: sorgi e cammina» E come oggidì l'Italia ripaga il gran Pio di tanto benefizio?

Il Pontificato Romano così splendido, così potente sotto Pio IX, e Roma cattolica che commovea il mondo chiamavano sulle labbra del dottore Sterbini i seguenti versi, che noi non dimenticheremo ne' giorni nostri:

Passano gli anni e i secoli,

Cangia d'aspetto il mondo,

Ma di perenne gloria

È il nome tuo fecondo:

A te lo scettro, il soglio,

A te l'eterno allòr;

Tu vivi in Campidoglio,

Tu sei regina ancor.

E passeranno gli anni presenti, e il mondo muterà d'aspetto, ma il Papa avrà sempre lo scettro ed il soglio, e Roma Cattolica vivrà sempre regina. Il marchese Luigi Dragonetti, ora senatore in Torino, si ricorderà di questi versi dello Sterbini, e del discorso ch'egli disse il 21 di aprile del 1847, celebrandosi in Roma l'anno 2598 della sua fondazione!

E poiché ci venne nominato un senatore, ecco qui un deputato, il signor Giuseppe Massari, che c'impresta le parole per salutare Pio IX nel giorno anniversario della sua esaltazione: «Salve, Pastore dei popoli, Padre dei credenti, gloria immortale della fede cattolica, inclito, eccelso, magnanimo, generosissimo Pio! In te si adunano i desiderii più puri, le speranze più sante di tutti i tuoi figli d'Italia e dell'orbe cristiano; tu sci l'augusto nocchiero che la Provvidenza prescelse a guidare con animo imperturbato, con fede sicura, con ardente carità questa sbattuta e travagliata navicella d'Italia».

Né solo a Pio IX, ma anche a Roma ripeteremo le parole di Giuseppe Massari, deputato al primo Parlamento d'Italia: < Salve, inclita Roma, sacrario di virtù, predestinata sede dei successori degli Apostoli e dell'oracolo di verità, eterno domicilio, come diceva Cicerone, d'imperio e di gloria: Domicilium imperii et gloriaci Tu scegli ad arma la croce, e la croce sarà tuo scudo, tua invincibile difesa. Se un nuovo Brenno (è il deputato Giuseppe Massari che parla), se un nuovo Brenno osasse mostrarsi alle porte del sacro Vaticano, il suo orgoglio verrebbe rintuzzato e vittoriosamente debellato dalla parola del sacerdotale Camillo, mille volte più forte, più aguzza, più potente della spada dell'antico! E quella parola susciterà dalla terra legioni di prodi a tua difesa! La fede rivive oggidì nel petto dei tuoi figli e di tutti gli Italiani, e tu santuario della fede, starai incolume e gloriosa: sarai, come per lo passato, il fulgidissimo sole dell'italico firmamento!».

Oh grande davvero e potente oltre ogni credere è la parola di Pio IX!

— 280 —

Lo disse a Bologna l'avvocato Gennarelli il 10 di ottobre del 1847: «La parola di Pio sta sopra la forza dogli esercizi, percuote più lungi degli strumenti da guerra, che lo spirito di Dio la francheggia. Guai a coloro contro i quali ei sollevi l'onnipotente sua voce!!»,

E David Chiossone in certi suoi Canti biblici metteva in bocca a Pio IX queste parole: «A me la croce redentrice del mondo: questo è l'eterno vessillo. Raccoglietevi intorno alla bandiera di quest'alleanza, o figli, figli miei, ed udite la mia voce che tuona come quella di Dio. Il Vaticano è incrollabile, perché Dio lo sostiene. Ad esso affidiamoci come al braccio superno».

E Pier Silvestre Leopardi osservava: «L'esaltazione di Pio IX è da senno, uno di quegli avvenimenti, di cui la Provvidenza si serve per chiudere una età del mondo, sceverare i buoni dai cattivi portati del passato, appianarle vie dell'avvenire e far sicuro, sotto l'impero della legge di Dio, l'incremento verace della redenta umanità».

E mentre oggi si ride delle lagrime di Pio IX, il dottore Serafino Belli scriveva un sonetto su due lagrime di Pio IX, e d'una di queste cantava: «Se Dio piangesse la direi di Dio».

E l'avvocato Nicolò Vineis gridava in Torino: Salve, o Pio IX, e prometteva che la storia ne avrebbe registrato ne' suoi memorandi fasti il venerato e glorioso nome, e che i posteri porgerebbero alla sua memoria un tributo di riconoscenza e di amore, E col Vineis Stefano Gatti inneggiava all'adorato Pio.

Finalmente noi termineremo questo sgabello a Pio IX con una canzone tolta da un libro compilato principalmente dal cavaliere Giuseppe Pomba, e composta da E. L. Scolari (I).

A te il mio canto, o generoso e pio,

Cui Pontefice Sommo in Vaticano

Provvido pose Iddio!

(1) Potremmo continuare queste citazioni, e toglierne molto dalle seguenti opere di cui basteni accennare il titolo: Per l'esaltazione di Sua Santi1à Pio IX al Pontificato, canti di Giovanni Resini, 2a ediz. Pisa, Tip. Nistri, 1846. — Alta Santità del Venerando Pontefice Pio IX, orazione del cav. Michele Leoni. Guastalla, dalle stampe di Napoleone Fortunati, 18-17. — Panegirico al Pontefice Massimo Pio IX net giorno del suo solenne possesso, alla Basitica Lateranese del conte Francesco Fabi Montani. Roma, dalla Tip. Gismondi, 1846. — Ravenna, net giorno 23 agosto 1846, consacrato da essa a Pio IX, descrizione del conte Alessandro Capi, Ravenna, Tip. del venerabile Seminario Arcivescovile, 1846. — Le feste del popolo romano dal giorno 17 luglio del 1816 al 1° gennaio del 1817 in onore dell'amatissimo Sovrano Pio IX. Roma, Tip. dei Classici Sacri, via Felice, N» 121, 1847. — Orazione alta Santità di Papa Pio IX scritta dall'avv. A. Pizzoti. Capolago, Tip. e Libreria Elvetica, 1846. — Roma, nel giorno 8 settembre 1846, lettera di un Curato di campagna al proprio Vescovo, con note e documenti diversi. Roma, Tip. Vannini, 1846. —Epigrafi, poesie e lettere per le solenni feste in S. Elpidio a Mare ad onore di Pio IX Pontefice Massimo. Loreto, Tip. dei fratelli Rossi, 1846. — A Pio IX Pontefice Massimo, inno di Saverio Cappa. Torino, Stamp. Mussano, 1847. — Orazione detta nella cattedrale di Tortona il giorno 25 settembre, 1847, dal parroco D. Nicola Montemami, in occasione del solenne Triduo ordinato dai cittadini tortonesi per la conservazione del sommo Pontefice Pio IX.

— 281 —

Ma qual v'ha labbro umano,

Che l'onor del pacifico tuo regno

E le tue gesta di cantar sia degno?

................................................

Oh non m'inganna il cuori Sovrano e duce

Iddio ti elesse nel suo santo impero,

Perché più bella luce

Splenda sul mondo intero,

Perché indomata dall'avversa sorte

Boma risorga ancor più grande e forte.

Nelle vie del Signor che ti son note

Or segui ardito, e non temer periglio!

Teco è Chi tutto puote,

Tua l'orza e tuo consiglio,

Dio sul tuo capo la sua destra ha stesa,

Qual fiavi insano che vi porti offesa?...

Per te, po' giorni tuoi ferventi preci

Odi intanto innalzar tutte le genti;

Dio t'affidò sue veci,

Dio prosperi gli eventi,

E per lung'anni in Te l'onor del Tempio,

In Te de’ Prenci serbi il degno esempio.

LE LODI DI PIO IX

CA NTATE DA ANGELO BROFFERIO

CON ACCOMPAGNAMENTO DI NORBERTO UOSA

(Pubblicato l'11 agosto 1861).

Noi abbiamo contratto presso i nostri lettori la dolcissima obbligazione di scrivere sempre nelle domeniche e nelle feste un articolo di lode o in difesa di Pio IX, né pel succedersi de’ giorni domenicali e festivi ci venne mai meno lo argomento, che i figli trovano sempre alcun pregio da ammirare e commendare nel loro padre, e quando questo padre chiamasi Pio IX, la materia del pano' girico sovrabbonda così che non s'ha da deplorare la mancanza delle cose lodevoli, ma invece la ristrettezza dello spazio che non consente di tutte rassegnarle all'ammirazione del lettore.

Non ostante oggidì nel prendere la penna per mettere mano a questa, che è la pili soave delle nostre fatiche, ci sopravenne un pensiero, e come a dire un'ispirazione: — E perché non cedere il posto ad Angelo Brofferio, nome assai noto in Italia, e pigliarlo questa volta a nostro collaboratore nel cantare le lodi di Pio IX?

Forse che Gesù Cristo non fu anche lodato durante la sua vita mortale da certi esseri cui il Brofferio serve colle sue scritture e coi racconti de’ suoi tempi; i quali esseri exibant clamantia et dicentia quia tu es Christus filius Dei vivi?

— 282 —

— Detto fatto, ci provvedemmo dal Messaggiere Torinese, giornale diretto da Angelo Brofferio, e che vedeva la luce nel 1847 e 1848 coll'epigrafe: Io parlo per ver dire. E, apertolo appena, ne abbiam letto alcuni articoli sottoscritti da Brofferio stesso, e il panegirico fu bello e composto.

«Se v'è paese, scrisse Brofferio, dove il progresso non sia una vuota parola, è certamente negli Stati Romani, dove sotto gli auspizii del Santissimo Pio IX, le pubbliche miserie vanno scomparendo e i diritti e le ragioni dell'umanità vanno ogni giorno riconquistando la sacra autorità che loro compete» (Messaggiere Torinese, N. 6, del 6 febbraio 1847).

E Brofferio citava le meritate lodi tributate all'inclito Pontefice dell'avvocato A. Pizzoli di Bologna in una sua orazione alla Santità di Papa Pio IX. «Voi, diceva il Pizzoli al Pontefice, voi la umanità dei più grandi Principi emulando e le vie percorrendo umilmente, abituaste il vostro popolo a venerarvi non per lo sfarzo della pompa regale, ma per lo splendore delle vostre virtù: Voi le gloriose insegne del merito parcamente distribuendo ai più degni, all'albagia del portarle sostituiste nei buoni la generosa emulazione del meritarle; Voi quelle commissioni speciali aboliste, che forse la guerra giustifica, ma che le nazioni pacifiche mirano raccapricciando, come farebbero delle torture e dei roghi, e che durando ancora, avrebbero questa nostra carissima patria disertata e distrutta: Voi le ferrate carceri aprendo a coloro che, più che di altro, colpevoli di non aver saputo per giovanile impazienza aspettarvi, avete renduto alle cadenti madri, alle vedovi spose, ai figli orfani, alle città lagrimanti, al vostro trono medesimo migliaia di figli, di mariti, di padri, di cittadini, di sudditi».

Che se in questa orazione scritta e pubblicata dal Pizzoli nel 1846 denuncianvasi al Pontefice alcuni abusi negli Stati Papali, l'avvocato Brofferio, nel febbraio del 1847, diceva: «Mentre noi scriviamo gran parte di questi odiati abusi già più non esiste, per cui vuoisi, dopo immensa gratitudine verso il Principe (Pio IX) che li ha cancellati, dar lode anche all'animoso scrittore che li ha denunciati».

E i due avvocati, Brofferio e Pizzoli, convenivano in questa sentenza che, l'esser Papa, non danneggiava, ma potentemente aiutava il magistero del Principe, e a Pio IX dicevano parlando delle intraprese riforme: «L'opera è grande, ma in voi più grande è il potere, che solo fra i Sovrani del mondo avete il doppio regno dei cuori e delle coscienze» (Messaggiere Torinese, loc. cit.).

«Tutta Italia, soggiungeva Brofferio, il 9 di ottobre 1847, tutta Italia echeggia dell'inno a Pio IX. Dal faro di Messina alle alture del Cenisio, non vi è città, non villaggio, non casale, dove l'inno di Pio IX non suoni sulle labbra delle commosse popolazioni». E dopo aver deplorato che, mentre i Francesi avevano inni nazionali, e l'Inghilterra il Gode save the king, e la Spagna l'inno di Riego, e la Polonia la Varsovienne, e la Grecia l'inno di Riga, l'Italia non ne avesse nessuno, Angiolo Brofferio ripigliava cosi:

«Ora ecco l'inno di Pio IX farsi ad un tratto l'espressione dei voti, l'interprete delle speranze di tutta intera l'Italia... Qual nome più grande di quello di Pio IX poteva essere auspice del novello canto, qual popolo più generoso del romano popolo poteva esserne autore?

— 283 —

Quindi non si ebbe d'uopo né di scritti, né di parole, per persuadere il popolo italiano a ricevere l'inno di Pio IX come inno nazionale, il popolo comprese da sè, e l'esultante canto di Roma divenne italiano canto» (Messaggiere Torinese, N. 41).

E nel numero successivo Angiolo Brofferio scrivendo dell'opera di Alfonso Balleydier, intitolata: Roma e Pio IX, diceva: «È un inno alla maestà, alla grandezza, alla carità, al genio, alla Santità di Pio IX, festoso inno che dalla terra francese viene a far coro alle mille voci del popolo italiano... Né dai Francesi, osservava giustamente Brofferio, né da nessun'altra nazione del mondo han d'uopo gli Italiani di apprendere ad amare, a venerare, a benedire Pio IX; ma pure chi desidera avere un'ordinata esposizione dei casi di Roma dopo l'innalzamento di Pio IX alla cattedra di S. Pietro, ed una compiuta biografia del supremo Gerarca, troverà soddisfatti in questo libro i suoi voti».

Il Balleydier avca scritto: «Pio IX rappresentante di Gesù Cristo sopra la terra possiede, ad esempio del suo divino maestro, un cuore avampante di bontà e di affetto per amare ed operare il bene; Pio IX, come il Salvatore, è tutto carità e misericordia; Pio IX, la prima autorità del mondo, cinge la fronte della triplice corona e stringe nella destra lo scettro dinanzi a cui s'inchinano popoli e re». E Brofferio commentava: «Qual è de’ nostri fratelli italiani, che non abbia scolpiti in fondo all'anima questi sentimenti?... Ed è per questo che piace a tutti di sentirli ripetere ad ogni momento per dare sfogo all'impeto di entusiasmo da cui ci sentiamo accesi». Speriamo che piacerà a Brofferio ed a tutti di sentire nel 1861 riferiti questi stessi sentimenti nell'armonia!

È vero che oggidì non si può più ripetere ciò che Brofferio scriveva il 20 di novembre del 1847: «Noi siamo riuniti, rinnovati, ribenedetti da quell'uomo di Dio, da Pio IX»; ma si può dire a consolazione di coloro che restarono fedeli al Papa ciò che Brofferio allora soggiungeva: Speriamo in Dio! Sì, speriamo in Dio:

... Col ciel sposata Roma

Nodo che non si solve,

All'ombra della Croce e sotto il segno

Di quel che la piantò sui sette colli,

Rinnovellava più felice regno:

Il popolo di Cristo,

Di molto sangue e di dolore acquisto,

Questa prole novella

E barbara e latina

In tormenti temprata ed in speranze,

Serbò Italia regina,

E Roma fe' più stabile e più bella (1).

Il 15 dicembre del 1847 Brofferio celebrando le opere magnanime di Pio IX avvertiva che «è profanazione far discendere il santo nome di Pio IX nelle polemiche dei giornali».

(1) Canzone alla S. di N. S. Pio IX nel Messaggiere Torinese del 6 di marzo 1847.

— 284 —

E che sarà egli l'insultarlo, svillaneggiarlo, bestemmiarlo, calunniarlo con un'audacia infernale? Il 18 di settembre dello stesso anno Brofferio avea cantato le sante intenzioni di Pio IX. E il 4 di settembre: «A Roma il gran Pio chiama sopra di sé l'amore, la maraviglia, la benedizione di tutti gli uomini; svegliansi i Romani per rendersi degni del sublime Pontefice che Dio nella sua clemenza, pose a custodia del Campidoglio»; e il 9 di ottobre: «ormai si può dire che tanti sieno gli inni a Pio IX quanti sono stati i suoi benefici provvedimenti»; e iM6 dello stesso mese: il progresso che avea deviato dalle sue fonti, il progresso che alcuni falsi apostoli avevano adulterato, torna ad avere una significazione, colla quale ogni buon cittadino può senza diffidenza riconciliarsi. Ringraziamone il cielo e Pio IX». E finalmente il 30 di ottobre Brofferio lodando Ciciruacchio che «potè alzarsi tant'alto da meritare l'affetto di Pio IX» citava questa sua ottavetta che il popolano improvvisava in piazza Navona;

Oggi per il gran Pio semo felici,

Né dai briganti (1) più saremo offesi;

Oggi per il gran Pio siam tutti amici,

E amici avemo ancora i Bolognesi.

Se alcuno, vivaddio! de’ rei nemici

Fa un passo avanti, noi già semo intesi.

Evviva le provincie e Roma madre,

Viva l'Italia e viva il Santo Padre.

Noi potremmo continuare ancora questo panegirico di Angiolo Brofferio a Pio IX, potremmo dire come Brofferio annunziasse che sotto i piedi del gran Pio rimase un'altra volta conculcato lo spirito d'abisso e che perduta la battaglia «come lion per fame egli rugia» bestemmiando l'Eterno; potremmo dire (2)... ma ogni predicatore che sale sul pergamo ha un chierico che l'accompagna, e a Brofferio noi dobbiamo mettere dietro Norberto Rosa, antico scrittore del Messaggiere Torinese, e scrittore attuale della Gazzetta del Popolo.

«O voi adunque, diceva Norberto Rosa il 18 di settembre del 1847, o voi adunque che amate Pio IX (e chi non lo ama?) recatevi tutti quanti dall'editore Gioacchino Buglione e compratevi il quadro di cui vi ho parlato». Ed il quadro era «l'opera della divina Provvidenza rivelata colla nascita e l'avvenimento al soglio Pontificio di Sua Santità il Pontefice regnante».

E Norberto Rosa andava a Roma, a «Roma che torna allo splendore antico».

Nota bene che briganti erano i nemici di Pio IX.

Nel Messaggere Torinese dell'11 di settembre 1847 leggiamo questa noti-zia: «L'entusiasmo per Pio IX si manifesta in tutte le provincie del Piemonte in maniera straordinaria. Appena giunsero in Torino parecchie centinaia di fazzoletti coi colori della famiglia Mastai e detti alla Pio IX, ne furono esausti i fondachi: tutti i Torinesi vanno festosi di ornarsi dei colori che sono interpreti della devozione, dell'ossequio e dell'ammirazione che ardono in cuore di tutti verso il più grande de' Pontefici». Nello stesso numero si racconta che il Professore Gatti in Asti, insieme con altri, s'adornava di fiori crocei o bianchi intrecciandone ad un tempo ghirlande quasi avessero ad incoronare la grandezza, il valore, la maestà del Beatissimo Padre».

— 285 —

e di là cantava in un suo sonetto: «Io venni a Roma per veder Pio IX». E un'altra volta:

Ho visto Genova,

 Le venerabili

 

Ho visto Roma

 Mani le pose,

 

E il gran Pontefice

 E fa ch'ella operi

 

Che nella chioma

 Celesti cose.

 

E Brofferio e Norberto Rosa, l'uno a Torino l'altro a Roma, cantavano: «— Dio si rivela nelle opere di Pio IX. — Sono raccolte intorno alla cattedra di S. Pietro le fortune d'Italia. — Pio IX è un grande Pontefice che sarà forse il più grande dei regnanti. — Gli Italiani sono da Lei chiamati all'antico splendore, — Per Lui la sedia apostolica diventerà l'astro dell'universo, e un grido unanime s'innalzerà sopra la terra (1)».

PIO IX DIFESO DA BETTINO RICASOLI

CONTRO IL MIMSTRO FRANCESE THOUVENEL

(Pubblicalo il 15 dicembre 1861).

È riservato alla verità ed alla giustizia di trionfare coll'aiuto de’ loro medesimi nemici, e di averli a difensori nell'alto istesso che tentano di oppugnarle. Così Gesti Cristo era proclamato giusto da quel Giuda che l'avea tradito, ed innocente da Pilato che avealo condannato a' flagelli, e R<Ì de’ Giudei dalla sentenza di morte scrittagli sul patibolo, e figliuolo di Dio dal Centurione che lo avea trapassato colla lancia.

E il Vicario di Gesù Cristo, il grande Pio IX, fu proclamato dal conte di Cavour benemerito del Cattolicismo per le sue resistenze, e logico e franca dal deputato Bertani, e fermo ed invincibile dal deputato Ferrari, e potenza morale, immensa, straordinaria, e tal quale mai non è stata e non può essere simile nel mondo dal dep. D'Ondes Reggio.

Ma la più bella difesa di Pio IX fu detta dal barone Dettino Ricasoli, il quale tolse a sostenere le parti del nostro Santo Padre contro il ministro dell'Imperatore dei Francesi, il signor Thouvenel, ed in un punto del maggiore rilievo, da cui dipende tutù la sostanza di quella che suole chiamarsi questione romana, e dovrebbe dirsi più giustamente questione cattolica.

Il punto, a cui accenniamo, si è se la questione romana sia questione religiosa, o puramente questione politica. Il signor Thouvenel pretendeva nelle sue Note che era pura e pretta questione politica, e che perciò il Santo Padre nelle sue Allocuzioni, e il Cardinale Antonelli ne' suoi dispacci, confondevano lo spirituale col temporale. Il barone Bellino Ricasoli ha smentito il signor Thouvenel ed ha dato ragione a Pio IX, sostenendo che la questione romana tocca le credenze di tutto il mondo cattolico, ed è questione politica e religiosa insieme. Meniamo a riscontro la parole di Thouvenel e quelle di Ricasoli.

(1) Messaggere Torinese, N. 46, 13 novembre 1847.

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Circolare di Thouvenel agli agenti diplomatici, e dispaccio al Duca di Granoni del 12 di febbraio del 1860.


Pio IX ha trasportato direttamente sul terreno della religione una questione che appartiene innanzi tutto all'ordine temporale... Checché possa dire lo spirito di parte non si tratta tra il governo di Sua Santità e quello dell'Imperatore che d'una questione puramente temporale...

A giorni nostri la separazione si è compiuta tra i due domini dell'ordine religioso e del l'ordine politico e civile... Se invece la Santa Sede si decidesse finalmente a lasciare la ragione religiosa, in cui la questione non è veramente collocata per tornare sul terreno degli interessi temporali soli impegnati nella discussione, forse arrecherebbe, benché sia ben tardi, un cangiamento favorevole alla propria causa. In ogni caso permetterebbe al governo dell'Imperatore di prestare il suo appoggio ad una politica conciliante e ragionevole (Costitutionnel del 15 febbraio 1860 e Moniteur del 17 febbraio 1860).

Discorso del barone Bettino Ricasoli detto alla Camera dei Deputati nella tornata del 6 dicembre 1861.


La questione romana non è unicamente politica, che si possa trattare coi soliti mezzi diplomatici; è la questione più grande che i tempi moderni abbiano sollevato. Da un lato tiene alla Costituzione d'Italia, dall'altro tocca alle credenze di tutto il mondo cattolico. L'Italia vi è direttamente interessata. Alla Francia come grande Potenza, come quella che sia a capo di ogni progresso umano, come amica d'Italia, come Potenza cattolica, tocca il compito di aiutarci alla soluzione di questo grande argomento. La trasformazione del Papato, signori, dee farsi, cred'io, coll'opera d'Italia aiutatrice la Francia. Se dunque la questione romana è politica e religiosa insieme, parmi ne consegua per naturale e logica deduzione che non debba cercarsi di scioglierla con mezzi violenti... E poi quando anche la violenza restasse vittoriosa, credono forse, o signori, che la questione sarebbe sciolta? A dir vero ne dubiterei assai (Atti Uff. della Camera, N. 345, pag. 1334, col. 2).

 

Il lettore ha visto come le parole del ministro Thouvenel sieno in totale opposizione con quelle del ministro Ricasoli e viceversa. Thouvenel dice la questione romana puramente temporale; Ricasoli dichiara che tocca alle credenze di tutto il mondo cattolico; Thouvenel sostiene che gl'interessi temporali sono i soli impegnati nella discussione della questione romana, Ricasoli accerta che la questione romana è politica e religiosa insieme; Thouvenel asserisce che la Francia non può prestare il suo appoggio al Papa nella questione romana, se non si decide a lasciare la ragione religiosa; Ricasoli per converso decide che alla Francia tocca intervenire nella questione romana, come Potenza cattolica.

E Ricasoli ha ragione, perché ripete ciò che venne dichiarato dal Santo Padre Pio IX nelle sue allocuzioni; e Thouvenel ha torto. Bravo, signor Ricasoli! Parlate sempre come avete parlato alla Camera elettiva il sei dicembre, e noi vi loderemo.

— 287 —

Difendete il nostro Santo Padre contro il ministro francese che osò fargli impudentemente la predica e insegnargli la teologia, e noi difenderemo voi, signor Bellino, contro i Nicotera e gli Avezzana.

Né state a temere che Napoleone III vi faccia fare il capitombolo, poiché vi levate contro il suo ministro. Se egli vi movesse qualche rimprovero su questo punto rispondetegli così: — Maestà Imperiale, se io ho detto che la questione romana, è principalmente una questione cattolica, me l'avete insegnato voi quando il 20 ottobre del 1859 scriveste al Re di Sardegna, che foste obbligato a stringere a Villafranca un trattato che non ledesse il sentimento cattolico, e conchiudeste: coll'accordar e al Santo Padre la presidenza onoraria della Confederazione Italiana, il sentimento religioso dell'Europa cattolica sarà soddisfatto. Dunque voi pure, o Maestà Imperiale, voi pure diceste prima di me che la questione romana tocca alle credenze di tutto il mondo cattolico. —

Speriamo che ornai questa tesi sarà stabilita irremovibilmente coi nostri avversar!: la questione romana è principalmente questione religiosa. L'ha detto Napoleone III il 20 ottobre del 1859; l'ha detto il ministro Ricasoli il 6 dicembre 1861, e pochi giorni prima l'avea detto il deputalo Ferrari, il 2 dicembre: La questione romana abbraccia il mondo colla religione e l'universo intero con Dio (Atti ufficiali N° 337, pag. 1301, col 2).

Ora da questo principio divenuto incontrastabile leviamo le conseguenze, che ne derivano spontaneamente.

Conseguenza 1a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, tocca in primo luogo al Capo della Chiesa il risolverla, e non si può senza sacrilegio oppugnare la sua decisione. Coloro che rigettano l'autorità del Papa in una questione religiosa si chiamano scismatici.

Conseguenza 2a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, appartiene ai Vescovi darne il loro avviso, e tutti i buoni cattolici debbono prendere in altissima considerazione le loro lettere pastorali, e uniformare alle medesime i proprii sentimenti.

Conseguenza 3a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, ha fatto ottimamente il nostro Santo Padre Pio IX quando ha difeso colle censure la causa della Chiesa, e lo calunniano coloro i quali affermano che ha abusato delle armi spirituali per una questione temporale. Gli scomunicali sono bene scomunicati.

Conseguenza 4a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, sono ridicoli gli ebrei dell'Opinione di Torino e della Arsione di Firenze, quando pretendono di scioglierla coi loro articoli. Jacob di via della Rocca, ed Esau di via Faenza non ci hanno che vedere, come noi cattolici non abbiamo nulla da fare nelle loro sinagoghe.

Conseguenza 5a. Se III questione romana è questione principalmente cattolica, è falso il principio del non intervento stabilito da Napoleone III. Tutte le nazioni cattoliche hanno diritto e dovere di soccorrere il Capo del Cattolicismo. Il sig. Ricasoli riconoscendo questo diritto e dovere nella Francia come Potenza cattolica, lo riconosce in pari tempo in tutte le altre cattoliche Potenze.

Conseguenza 6a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, tutti i cattolici debbono concorrere colla penna, coll'opera, col danaro

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per soccorrere il Santo Padre, affinchè in lui trionfi la causa del Cattolicismo, e la questione romana conservi quella soluzione che, a detta dello stesso barone Ricasoli, ha ottenuto da dieci secoli.

Conseguenza 7a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, sono tristi quei preti e quei frati, tristissimi quei cattolici, i quali si schierano contro il Capo del Cattolicismo, e vogliono sciogliere la questione romana in un senso opposto a quello in cui vuoi scioglierla il Papa e la Chiesa.

Conseguenza 8a. Se la questione romana è questione principalmente cattolica, sono benemeriti del Cattolicismo coloro che spesero la vita in difesa del Papa, sono veri martiri gli eroi di Castelfidardo, e lasciamo al lettore il decidere che cosa si debba pensare di Cavour, di Ricasoli e de’ loro partigiani.

Tulle queste conseguenze discendono a filo di logica dall'emesso principio, e noi le sottomettiamo alle riflessioni degli onesti, degli uomini di buona fede, se pure ve ne sono ancora tra quelli che stanno contro il nostro Santo Padre Pio IX.

Veggasi intanto come la verità viene a galla, e come la causa del Romano Pontefice trionfa per le confessioni medesime de’ suoi avversari. Noi possiamo ripetere ciò che in un momento di fede scriveva lo stesso Voltaire: «Il est consolant de voir les incrédules nous servir tous comme a l'envi alors qu'ils croient nous nuire». Mentre Bettino Ricasoli pigliava a parlare per combattere il Papa, lo difendeva. «La plume des incredules est comme la lance d'Achille, qui guérissait les blessures qu'elle faisait»; e se noi avessimo tempo vorremmo scrivere un'apologia del dominio temporale del Papa tolta di peso dagli Atti Ufficiali del Parlamento, e principalmente dalle tornale dirette per oppugnarlo. «Nous marchons a la vérité sur le dos et sur le ventre de nos ennemis (1)»; e Ricasoli, e Cavour, e Bertani, e Ferrari non fecero e non faranno altro che servir di piedestallo alla Maestà dell'immortale Pio IX.

CHE COSA HA FATTO NAPOLEONE III

PER SALVARE PIO IX?

(Pubblicato il 20 febbraio 1861)

Il signor del La Gueronière nel suo libello La Francia, Roma e l'Italia dice che Napoleone III fé' di lutto pf. r salvare il Papa, e il Papa invece s'è gettato in braccio di coloro che fecero di tutto per perderlo. Badate un po' questo Pio IX come conosce male i suoi amici, e come osa cospirare contro se stesso!

Esaminiamo ciò che il Bonaparte fece por salvare il Papa. Troviamo nella sua vita per prima cosa ch'egli s'è battuto a Forlì ed entrò in una vasta cospirazione contro il potere temporale della Santa Sede. E questo fu per salvare il Papa. Troviamo di poi no' primi giorni della Repubblica francese, quando non si conosceva ancora l'opinione pubblica della Francia riguardo alla Repubblica di Mazzini, che il Bonaparte oppugnava la spedizione di Roma a favore di Pio IX, E questo fu per salvare il Papa.

Oeuvrés complètes de Voltaire, édition de Kehl, publiée par Beaumarchais, t. 89, pag. 12 e t. 82, pag. 317.

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Troviamo in terzo luogo la lettera che Luigi Napoleone nel 1849 scriveva ad Edgardo Ney, in cui voleva dettare la legge a l'io IX prima ancora che fosse ritornato a Roma, e imporgli la secolarizzazione, il liberalismo ed il Codice di suo zio. E questo fu per salvare il Papa.

Troviamo ancora che nel 1856 il primo ministro di Napoleone III nel Congresso di Parigi si levò accusatore del Romano Pontefice, e poi die' pubblicità a quelle accuse fatte in assenza del rappresentante di colui che n'era l'argomento. E questo fu per saltare il Papa.

Troviamo che Luigi Bonaparte chiese al conte di Cavour una memoria sulle Legazioni, e il conte, non sapendone nulla, ricorse al bolognese Marco Minghetti che gli preparò la sua famosa Nota verbale, come raccontò Angiolo Brofferio ed altri. E questo fu per salvare il Papa.

Troviamo che Napoleone III protesse suo cugino Napoleone Pepoli, il quale, abusando della polente parentela, mise in rivoluzione le Romagne, e fé' abbassare a Bologna lo stemma Pontificio. E questo fu per salvare il Papa.

Troviamo che Napoleone III nel 1859 entrato a Milano disse, l'8 di giugno, a tutti gli Italiani, e in conseguenza anche ai sudditi di Pio IX: «Volate sotto le bandiere di re Vittorio Emanuele Non siate oggi che soldati, domani sarete liberi cittadini di un grande paese». E questo fu per salvare il Papa.

Troviamo che, sottratta Bologna al Governo Pontificio, chi ne piglia in mano l'amministrazione e la direzione politica è un còrso, intimo confidente di Luigi Bonaparte, e vissuto sempre con lui a Parigi. Né mai gli fu detta una parola di rimprovero, se pure non ne udì molte di approvazione e di conforto. E questo fu per salvare il Papa.

Troviamo che il conte di Cavour disse e ripeti1 nella Camera dei Deputati, che se il Piemonte era andato nelle Romagne, fu per aver ceduto Nizza e Savoia alla Francia, e significava ch'egli avea invaso le Romagne col permesso del Bonaparte. E il Bonaparte lo permetteva per salvare il Papa.

Troviamo finalmente nei documenti pubblicati testé dallo stesso Governo francese, che Cialdini entrò nella Marche e nell'Umbria dopo averne conferito a Chamberì con Napoleone III, il quale approvò la invasione. E questo fu per salvare il Papa.

Oh l'Imperatore dei Francesi fé' proprio di tutto per salvare il Papa! Ha tenuto il celebre colloquio di Plombières per salvare il Papa. Ha soppresso l'Univers e spezzato l'eloquente e terribile penna di Luigi Veuillot per salvare il Papa, . Ha mandato a monte il Congresso europeo del 1860 e proposto di convenire il Vaticano in un convento per salvare il Papa. Ha proibito il Danaro di San Pietro per salvare il Papa. Non permise che tardi la pubblicazione in Francia del prestito Pontificio per saltare il Papa. Vietò ai giornali di pubblicare le pastorali dei Vescovi per salvare il Papa. Impedisce l'ingresso in Francia dei preziosi volumi che contengono il suffragio del mondo cattolico in favore del Principato civile dei Romani Pontefici, e tutto per salvare il Papa.

Per salvare il Papa, il principe Napoleone obbligò gli Austriaci ad abbandonare le Ramagne, ed ora nel Senato dell'Impero tuona in favore della rivoluzione. Per salvare d Papa, il Sièele e l'Opinion Nationule a Parigi possono liberamente calunniare Pio IX e il suo Governo.

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Per salvare il Papa, Edmondo About scriveva nel Moniteur appendici bugiarde contro Roma, e pubblicava libelli famosi contro il Cardinale Antonelli. Per salvare il Papa Napoleone III proclamava il non intervento eminentemente assurdo quando trattasi dei cattolici e del Romano Pontefici, ossia dei bisogni del padre e del dovere dei figli.

L'Imperatore fe' proprio di tutto per salvare il Papa. Disse a Pio IX di abbandonare le Romagne, e mai al. Piemonte di restituirle; lasciò stampare a Parigi le proposte scismatiche del signor Cayla; fe' compilare il dramma la Tireuse de Cartes che offendeva la Santa Sede, e assistè alla sua rappresentazione; ordinò a' suoi ministri di scrivere le famose circolari contro i Vescovi, e licenziò finalmente lo stesso La Gueronièrc a pubblicare il suo opuscolo che desta tanta letizia nei rivoluzionari, e negli empi di tutti i paesi. Tutto questo fu fatto per sal«are il papa.

Ma il Papa non volle essere salvato. D'onde il Siècle di Parigi tira la seguente conclusione: «Abbandoniamo questi uomini in delirio; Dio li ha abbandonati il primo». E sotto la frase questi uomini, il Siecle intende puramente e semplicemente Pio IX; e vuole che Napoleone 1Il l'abbandoni, perché Dio l'ha già abbandonato.

Dio ha abbandonato Pio IX! Ma non ha detto a' suoi predecessori: «Io sono con voi fino alla consumazione de’ secoli?» E Dio non muta come i figli degli uomini egli dorme presso alla poppa della barca di S. Pietro; ma non è Pio IX che lo risveglierà colla diffidente domanda: Signore, non vi preme di me che sto per perire? Pio IX sa che Dio non lo ha abbandonato, che non può abbandonarlo; e questa certezza è quella che gli ispira coraggio, forza, costanza, resistenza ai potenti, e una celeste letizia nelle sue ineffabili amarezze.

Dio ha abbandonato Pio IX! E pareva che Dio avesse anche abbandonato Pio VII quando gemeva in prigione, e il suo custode vinceva a Wagram: ma in ultimo il Dio delle vittorie abbandonò il conquistatore, e ricondusse trionfante in Roma il suo Vicario.

Ah! Dio non ha abbandonato mai nessun Pontefice in diciannove secoli; egli li assistè tutti ducentocinquantasette, in mezzo alle più terribili persecuzioni; e oggidì abbandonerà Pio IX, e mancherà alla sua parola, ed alla sua Chiesa?

Napoleone III abbandoni pure Pio IX. Farà un gran male a stesso, ma nessun danno al Papato. Abbandonerà la nave che conduce al porto, abbandonerà la pietra che sostiene ogni edifizio, abbandonerà il proprio padre e darà un terribile esempio alla Francia. La Chiesa non soffrirà del suo abbandono, perché non ebbe mai bisogno di nessun Imperatore.

E forse Iddio ne' suoi decreti imperscrutabili aspetta che il Bonaparte abbia abbandonato totalmente Pio IX, perché vuoi dimostrare al mondo che sebbene tanti cattolici indegni l'abbiano abbandonato, che sebbene tanti Sovrani paurosi l'abbiano abbandonato, che sebbene ogni mezzo umano l'abbia abbandonato. Iddio non l'abbandonò e non l'abbandonerà.

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I BONAPARTE E I FRAMASSONI

(Pubblicato il 29 e 30 ottobre 1861).

I.

Sul cominciare di questo secolo Chateaubriand scriveva un celebre libretto intitolato Bonaparte e i Barboni. Noi scriveremo alcuni articoli sui Bonaparte e i Framassoni, e così i Bonaparte si troveranno in più degna compagnia.

Da un ministro di Luigi Bonaparte i Framassoni hanno ricevuto di questi giorni un segnalato benefizio. Il signor di Persigny ha fatto il panegirico della Framassoneria, e nella sua circolare del 16 di ottobre ha conchiuso che il ne peut étre que avantageux d'autoriser et de reconnaitre san existence.

Nello stesso tempo il ministro del Bonaparte toglieva ai Framassoni un potente avversario nella Società di S. Vincenzo de’ Paoli, e così il benefizio era duplice, negativo l'uno rimuovendo i nemici, positivo l'altro accrescendo le forze della Framassoneria.

Perché tanta benevolenza verso i Framassoni? Quali furono e sono le relazioni tra i Bonaparte e la Framassoneria? Queste ricerche non mancheranno ai giorni nostri di opportunità e di utilità, epperò occupiamocene alquanto.

La Framassoneria ha generato la rivoluzione francese, e da questa è nato il primo dei Bonaparte. Il ministro Persigny ha detto nella sua circolare che la Framassoneria fu stabilita in Francia nel 1725, ed è vero. La Framassoneria francese fu un'importazione anglicana.

Nel 1725 la Grande Loggia inglese fondò una Loggia in Francia, ma questa non lavorò che per dieci anni. Nel 1736 essa costituì la loggia di Aumomt, dove Ramsey introdusse il sistema dei Templari d'Herodom. Poco dopo erano a Parigi quattro Loggie ed eleggevano un Gran Mastro nella persona d'Harnouester, conte inglese (1).

Luigi XIV minacciò la Bastiglia a qualunque Gran Mastro dell'Ordine in Francia: tuttavia fu eletto il Duca d'Àntin e la minaccia restò senza esecuzione. Allora la Framassoneria si stese per tutta la Francia, e furono convocali a Parigi tutti i Mastri delle Loggie per costituire una Gran Loggia che prese il nome di Grande Loggia inglese di Parigi.

Nel 1756 questo nome, che sapeva troppo di forestiero, venne mutato, e la Gran Ix>ggia fu detta Grande Loggia nazionale di Francia, e allora sorse l'autorità massonica suprema e indipendente in tutto il regno. Nel 1772 la Grande Loggia di Parigi si costituì in Grande Oriente di Francia, e da quel punto la Framassoneria si consolidò sulle rive della Senna (2).

Vedi Eckert, La Framassoneria nella sua vera significazione, tom. II, pag. 55, Liegi 1854.

Abbiamo documenti da cui risulta che la Frammassoneria in quel turno s'introdusse anche in Italia. Nella stessa Venezia furono i Franchi Muratori, e scoperta nel 1785 quella segreta società, gli statuti, il rituale e tutti gli arnesi rinvenuti nella Loggia vennero dati alle flamine per ordine supremo nella corte del Ducale palazzo. Vedi Carte segrete e atti ufficiali della polizia austriaca in Italia, voi. 1, Capolago. 1851, pag. 78 e seg.

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Il Duca di Chartres, che divenne più tardi Philippe Egalitè, fu eletto Gran Mastro della Framassoneria nel 1778. A que' dì nella sola Parigi contavànsi 129 Loggie, e ve ne aveano 247 nelle provincie. Tutte riconoscevano il Grande Oriente come suprema autorità.

I Framassoni e i così detti Filosofi si collegarono. Gli uni cercavano addetti alla Framassoneria, gli altri propagavano le dottrine del filosofismo. La missione della Framassoneria era allora «d'infiltrare progressivamente sui diversi punti della Francia, e di deporre misteriosamente in seno delle popolazioni i principii filosofici del tempo (1)».

Framassoni e Filosofi si accordarono, dice Condorcet, che se ne intendeva «prendendo per grido di guerra: ragione, tolleranza, umanità». Facevano allora come fanno oggidì col Locatelli: «Ordinavano in nome della natura ai re, ai guerrieri, ai magistrati, ai preti di rispettare il sangue degli uomini (2)».

Luigi XV col suo vivere aiutava i Filosofi e i Framassoni. Quando Luigi XVI salì sul trono, Voltaire scriveva a Federico II: «Io non so se il nostro giovine re camminerà sulle traccie del suo predecessore; ma so che non ha scelto per suoi ministri che quasi tutti Filosofi (3)».

Il 15 di febbraio del 1785 un gran congresso si tiene a Parigi «collo scopo essenziale di distruggere gli errori e di scoprire le verità massoniche o intimamente collegate colla Massonerìa», come dice il proclama diffuso in quell'anno (4). Quattro anni dopo scoppia la rivoluzione.

Il conte di Haugwitz, l'uno dei capi della Framassoneria tedesca, ha dichiarato: «lo acquistai la ferma convinzione che il dramma cominciato nel 1789, la rivoluzione francese, il regicidio con tutti i suoi orrori, non solamente erano stati decisi nel seno delle Loggie, ma furono realmente il risultato delle associazioni e dei giuramenti massonici (5)».

Da tutta questa confusione sorse la dinastia dei Bonaparte. Napoleone I era framassone? Besuchet, nel 1829, sostenne che il primo Bonaparte fu iniziato nell'Isola di Malta in occasione della spedizione d'Egitto. Abraham, nel suo Specchio della verità, cita parecchie poesie, nelle quali Napoleone è chiamato fratello. L'Ape Massonica dichiara che Napoleone fu ammesso al segreto delle Loggie. Molti però negano che il primo Bonaparte fosse framassone.

Certo è che Napoleone stesso ha detto: «La Franc-Maconnerie depend de moi». Egli governava la Framassoneria, e fe' creare Gran Mastro suo fratello Giuseppe, il quale, essendo divenuto più tardi Re di Spagna, si unì Cambacérès col titolo di primo Gran Mastro aggiunto a S. M. il Re di Spagna.

Tutto ciò che apparteneva al primo Bonaparte, parenti, servitori, uomini e donne, era tutto Framassoneria. Parli un framassone italiano, Giuseppe La Farina, nella sua così detta Storia d'Italia dal 1815 al 1850:

Cosi nel proemio degli Statuts etreglements de l'Ordre maconique, pubblicazione officiale dell'oriente di Parigi, 1839.

Condorcet, Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'ésprit humain, Paris, 1797, pag. 262.

Voltaire, lettera del agosto 1775.

Fu pubblicato nel Giornale Massonico di Vienna, anno II, 2a dispensa.

Echert, loc. cit. tom. II, pag. 179.

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Giuseppe, fratello di Napoleone fu Gran Mastro dell'Ordine, l'Arcicancelliere Cambacérès, primo Gran Mastro aggiunto, e Gioachino Murai, secondo Gran Mastro aggiunto. L'imperatrice Giuseppina, stando nel 1805 a Strasbourg, presiedè la festa di adozione della Loggia dei Franchi Cavalieri di Parigi; ed in quel tempo Eugenio Beauharnais era venerabile d'onore della Loggia di Sant'Eugenio in Parigi: di poi venuto colla dignità di Viceré in Italia, il Grande Oriente di Milano lo nominò Gran Mastro e Sovrano commendatore del supremo Consiglio del XXII grado, onore altissimo secondo gli onori dell'ordine (1)».

Ogni vittoria del primo Bonaparte fu un trionfo della Framassoneria. Le parole d'ordine che questa sceglieva erano sempre allusive alle gesta napoleoniche. Eccone un saggio.

Nel 1800 scienza e pace erano le parole della Framassoneria francese. Nel i802 dopo le vittorie di Marengo e di Montebello: unità, riuscita. Nel 1804 alludendo all'impero ed all'incoronazione: elevazione, contento.

La battaglia di Friedland produsse i nomi di Imperatore, confidenza; quella d'Austerlitz: Napoleone, confidenza; il matrimonio con Maria Luigia: felicità, imperatrice; la nascita del Re di Roma: nascila, allegrezza; la spedizione di Russia: vittoria e ritorno.

Come Dio volle il primo. Napoleone cadde e fu rilegato nell'isola d'Elba. Allora lo veggiamo patteggiare coi Framassoni italiani. Questo è un punto assai importante della storia nostra che merita d'essere rischiarato. Ecco alcune citazioni.

Un anonimo che si confessa settario pubblicò un libro intitolato: Del governo austriaco, Società segrete e polizia in Lombardia. A pag. 100 e 101 narra così: «Molte società eransi formate a favore del caduto Napoleone, come quella dello spillo nero, de’ Patrioti, degli Avoltoi di Bonaparte, de’ Cavalieri del Sole, dei Patrioti europei riformati, della rigenerazione universale ed altre varie di forma queste società aveano per iscopo comune di formare una lega di popoli contro la tirannia, acquistare la libertà a mano armata: pegl'iniziati poi restava come intento unico, e forse solo come mezzo, il rimettere sul trono Napoleone.

E s'intrapresero trattative su questo proposito. Continuiamo la citazione: «Affiliatitisi tra loro alcuni principali, spedirono messaggi in varie parti per intendersi con coloro che avessero egual sentimento. Torino, Genova, Mantova furono luoghi dove più caldamente si operò. Ne' congressi furono posti in campo i soliti problemi: se preferire il governo repubblicano, o il monarchico costituzionale; se ridur l'Italia una o stingerne solo le parti con un nodo federale; ma tutti convennero che tali questioni erano a rimettersi a stagione più matura, per allora doversi cercare una cosa sola, che Napoleone si mettesse a capo dell'impresa. Pertanto a questo diressero un dispaccio, ove gli chiedevano il suo nome e la spada per costituire un impero italiano, al quale egli sarebbe capo».

(1) Abbiamo sodo gli occhi una lettera, in data di Milano, 9 dicembre 1806, scritta durante il fogno d'Italia dal ministro per il culto al Vescovo di Treviso, in cui si rimprovera quel Vescovo per «avere date istruzioni segrete agli ecclesiastici della sua diocesi contro i Franchi Muratori». Vedi la lettera nelle Carte Segreti e atti ufficiali, ecc. vol. I, Capolago, 1851, pag. 83.

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La lettera a Napoleone I portava la data del 19 di maggio 1814 ed era «firmata da quattordici Italiani: arrivò a Napoleone, che accettò i patti come uomo che nel naufragare vede una tavola e l'afferra disposto a gettarla al fuoco dopo toccata la riva. Si conoscono i lontani effetti di quelle trame, cioè la fuga di Napoleone dall'Elba, e il suo regno di cento giorni».

Sulla Fuga di Napoleone dall'isola d'Elba abbiamo un libro di un rivoluzionario e framassone italiano, intitolato così: Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba. Questo scrittore che mostrasi ben addentro nei misteri massonici, si esprime ne' seguenti termini:

L'episodio storico dei cento giorni è conosciuto dal mondo intero, ma pochissime persone sanno come fosse preparato e quale impulso determinasse quell'avvenimento. L'opera che noi presentiamo al pubblico è destinata a sollevare un lembo del velo che nasconde la verità. Noi avremmo potuto strapparlo interamente, se la morte avesse colpito tutti gli autori dei documenti che ci furono comunicati. Due soli scesero nella tomba: noi crediamo poterli nominare. L'uno è quell'illustre Melchiorre DelGeo, già consigliere di Stato a Napoli, l'altro è il conte Luigi Corvetto di Genova».

Sebbene non conosciamo tutti i nomi, ci sono noti i paesi dei quattordici Italiani che sottoscrissero un trattato con Napoleone I, perché, liberato dall'isola d'Elba, venisse a costituire l'impero d'Italia. Essi erano due Còrsi, due Genovesi, quattro Piemontesi, due del già regno d'Italia, quattro degli Stati Romani e Napoletani.

Conosciamo pure il progetto di Costituzione, che Napoleone I, liberato dall'isola d'Elba per opera dei Framassoni italiani, dovea promulgare in Italia. L'art. 54 diceva: «La residenza abituale dell'Imperatore sarà fissata a Roma, e l'art. 47: «La prima adunanza legislativa avrà luogo a Roma, la seconda a Milano, La terza a Napoli, ciascuna per tre anni, nello stesso ordine, per turno di tre in tre anni». Torino, come città di confine, era messa da parte. L'art. 53 aggiungeva: «Verranno stabiliti quattro viceré, la di cui residenza sarà fissata nelle quattro città, Roma eccettuata, le più popolale d'Italia (1)».

Quanti riguardi que' Framassoni adoperavano allora, e quanto rispetto sentivano per le città italiane 1 Tuttavia Napoleone I, nel promettere l'opera sua per la costituzione dell'impero italico, diceva esser questa \'impresa più difficile ch'io m'abbia tentala fin qui.

Nel 1848 i rivoluzionavi diedero il sacco agli archivi della polizia austriaca in Milano. Vi fu trovata e messa alle stampe una nota del direttore generalo della polizia nel 1814, dove Ira le altre cose leggesi: «L'avvocato Guidi riferisce che in casa del sig. Mancini si fanno combriccole. Viene l'ex-frate Perena, e si dice che sarà sciolto il cane córso. Fui dal maresciallo (Bellegarde) e presentai notizie della congiura (2)»-

(1) Delle cause italiane nella evasione dell'Imperatore Napoleone dall'Elba.

(2) Del governo austriaco, società segrete e polizia in Lombardia, pag. 129. A que' dì si fecero e diffusero a migliaia incisioni rappresentanti l'Italia in atto di sciogliere un grosso cane còrso.

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La congiura riuscì, fu sciolto il cane córso, e per opera dei Framassoni italiani Napoleone I evase dall'isola d'Elba. Ma invece di venire in Italia a renderla una secondo gli accordi, andossene in Francia, dove non tardò molto a cadere nelle unghie degl'Inglesi, e non ne scappò più. Anche il fratello Giuseppe perdette il regno, ma conservò il Gran Maestrato dell'Oriente di Parigi, finché morì in Firenze nel 1844 (1). Non gli fu dato nessun successore, e la Framassoneria venne diretta da aggiunti, fino a che salì sul trono imperiale di Francia il regnante Napoleone III.

II.

Dal primo Bonaparte al terzo i Framassoni di Francia restano senza Gran Mastro. Quando quest'ultimo rinnova l'Impero, la Framassoneria leva rumore in Europa, e un parente dei Bonaparte si mette alla sua testa.

Abbiamo ricercato nell'articolo precedente se Napoleone I fosse Framassone. Il lettore domanderà: — E Napoleone II I? —

Qui la risposta è più facile. Tutti i suoi biografi, i suoi stessi panegiristi confessano che Luigi Napoleone nel 1830 si uni coi Carbonari italiani, e prese parte attiva all'insurrezione delle Romagne. Ora i Carbonari non sono e non furono altro che Framassoni.

La Carboneria venne in Italia dalla Francia, e si stabilì in Napoli, regnando il cognato di Bonaparte. Lo dice Colletta: «Nell'anno 1811 certi settari francesi ed alemanni qua venuti, chiesero alla polizia di spanderla (la Carboneria) nel regno come incivilimento del popolo e sostenitrice dei governi nuovi. Era ministro un Maghella genovese, sorto dagli sconvolgimenti d'Italia e di Francia Il ministro propose l'entrata di questa setta a Gioachino, che per istinto di Re più che per senno di reggitore, vi si opponeva, ma finalmente aderì, e quasi pregata la Carboneria entrò nel regno (2)».

Gioachino Murat, come Re, non voleva la Carboneria, ma come antico framassone, dovette accettarla, ed in ultimo ne fu vittima, perché, a suo tempo, la Massoneria si sbriga anche de’ suoi, e la Provvidenza dispone che si cada per quello stesso per cui si è peccato.

Del resto, che la Carboneria non sia altro che la Framassoneria, lo dicono Wit Doering, alto dignitario massone, Acerellos, scrittore autorevolissimo in punto di Massoneria. Blumenhagen, gran framassone, ed anche Gualterio, mentre cerca di negarlo.

Wit Doering: «A parlare propriamente la Carboneria è figlia della massoneria (3)». — Acerellos: I Massoni e i Carbonari, uniti pei vincoli d'una stretta

(1) Nel 1844il venerabile fratello Clavel pubblicava a Parigi un giornale intitolato: l'Oriente, rivista universale detla Framassoneria. In quoto periudico stampossi la necrologia di Giuseppe, e tra le altre coso v'è detto a pagina 9, ch'egti accordò sempre di preferenza gli impieghi e i lavori ai membri della società.

(2) Colletta, Stono di Napoli, lib. vin, N. 49.

(3) Frammenti estratti dalla storia della mia vita e della mia epoca, ioni. I, pag. 41.

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amicizia, non formavano, per così dire, che un corpo solo (1)». Blumenhagen: «Che giova voler dissimulare a noi medesimi che i Carbonari sono i figli perversi della Massoneria? (2). E Gualterio dichiara che gl'iniziati ai gradi superiori della Carboneria consentivano coi Massoni nemici della religione (3).

Di fatto chi erano i cospiratori dello Stato Romano, tra' quali entrava Luigi Napoleone e suo fratello? Cel dirà Luigi Farini: «I cospiratori dello Stato Romano erano, i più, Volteriani o indifferentisti in materia di religione, sensisti in filosofia, quasi tutti costituzionali in politica (4)». Questo equivale a dire che que' cospiratori erano Framassoni.

Ed oggidì che la Carboneria ha raggiunto in Italia il suo scopo, come si chiama a Napoli, come si chiama a Torino? I giornali cel dichiarano apertamente: si chiama Massoneria. Le Barache dei Carbonari hanno ceduto il luogo alle Loggie dei Framassoni.

Si può dunque affermare che Luigi Napoleone in Italia era framassone. Ora come egli venne all'Impero? In conseguenza di una rivoluzione, frutto della Framassoneria.

Come la rivoluzione del 1789 fu preceduta da un grande Congresso Massonico tenuto in Parigi il 15 di febbraio del 1785, così la rivoluzione del 1848 fu preceduta da un Congresso Massonico tenuto a Strasburgo nel 1846 coll'intervento di Cremieux, Cavaignac, Lamartine, Ledru-Rollin, Proudhon, L. Blanc, Marast ccc. (5).

Scoppiata appena la rivoluzione del 1848, i Deputali della gran Loggia di Francia accorsero a deporre nelle mani del governo un atto d'adesione alla Repubblica. Crémieux rispose: La République. se trouve dans la Maçonnerie (6).

Alfonso Lamartine il 10 di marzo del 1848 all'Hotel-de-Ville fè la seguente dichiarazione: «Ho la convinzione che dal seno della Framassoneria sgorgarono le grandi idee che hanno gettato i fondamenti delle rivoluzioni del 1789, del 1830 e del 1848».

Il principe Luigi Napoleone fu eletto Presidente della Repubblica, ed a quei giorni gli conveniva combattere la Massoneria, come oggidì il suo ministro Pereigny crede conveniente di riconoscerla, approvarla, lodarla.

Il 7 di settembre 1850 la polizia di Parigi proibiva alle Loggie francesi di occuparsi di questioni politiche e sociali sotto pena di veder l'Ordine disciolto in tutta l'estensione del territorio francese.

Ma dopo il Due Dicembre noi veggiamo la Framassoneria riordinarsi e consolidarsi. Il 9 gennaio del 1852 alcuni membri del Consiglio del Gran Mastro si riunirono, previa la licenza della polizia, e offrirono il Gran Maestrale a Luciano Murai, nipote del Presidente. La proposta venne accolta all'unanimità.

Il principe Murat, avuti gli ordini del Presidente della Repubblica, si degnò accettare;

(1) Die Freimaurerie in ihren Zusammenhang, ecc. tom. III, pag. 281.

(2) Revue Maçonique, 1828.

(3) Rivolgimenti italiani, voi. I, pag. 33.

(4) Lo Stato Romano Firenze, 1850, voi. I, pag, 31, 32.

(5) Gyr, La Franc-Maçonnerie en elle même, Paris, 1859, pag. 366.

(6)Gyr, loc. cit. , pag. 369.

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e il 19 di gennaio 1852 un gran numero di alti officiali del Grande Oriente si recarono a dovere di offerire l'attestato della loro riconoscenza al Gran Mastro.

Non o molto che il Pays, giornale dell'Impero, ci disse: «L'elezione del principe Murat fu il risultato del movimento che trascinò, dopo il Due Dicembre, tutto ciò che vi aveva di generoso e di patriottico in Francia nella gran corrente delle idee napoleoniche (1)».

Perché il principe Murat piacque ai Framassoni? Per la stessa ragione per cui più tardi spiacque alla Framassoneria. E questa ragione ce l'ha detta un giornale massonico di Francia: «Il Principe Gran Mastro avendo votalo pel mantenimento delle truppe francesi a Roma, aveva così implicitamente mostrato, che non era più devoto agli interessi della Massoneria (2)».

Un altro giornale massonico di Francia ha scritto testò: «Coloro che mettono la fede massonica al di sopra della fede romana, vogliono che la Gran Maestranza sia morale sotto tutti i riguardi! Ora volere che il Gran Mastro sia il rappresentante delle dottrine che si perseguitano ed anatematizzano in un'altra istituzione di cui lo stesso Gran Mastro sarebbe pure l'alleato, ciò servirebbe ad imporgli una duplice coscienza, e a forse un tipo d'immoralità (3)».

Un altro giornale massonico avea detto: «L'educazione cattolica romana non cancella il senso morale presso coloro che domandano il potere temporale del Papa?

Un'educazione che falsa, a sua insaputa, il sentimento religioso per cagionare il fanatismo, l'anima dello spirito di parte, non è essa un flagello sociale? (4)».

Dunque il principe Murai fu eletto Gran Mastro della Massoneria, sperando che odiasse Roma. Visto che non odiava abbastanza Roma, il Papa e il Cattolicismo, i Massoni lo destituirono.

In un rapporto ufficiale il rappresentante particolare del Gran Mastro, Rexès, 33, avea detto, parlando della candidatura di Murat: «Queste candidatura appoggiavasi su considerazioni politiche e religiose».

Leone Plee, Framassone, fu più esplicito. Egli ha scritto nel Siècle, che la Massoneria «s'era stretta al principe Murat a cagione delle tendenze che la sua alleanza colla Massoneria italiana faceva supporre (5)».

Finalmente dopo che il principe Murat volò pel Papa e fu destituito, il comitato che avea ordinato la sua desliluzione, organizzò una specie di agenzia di pubblicità antipapale, mandando articoli contro il Papa alla stampa belga e piemontese, articoli pubblicati dalle Nationalités di Torino e dall'Observateur di Bruxelles.

Da ciò si vede che la Framassoneria va direttamente contro Roma, odia la carità cattolica, il dominio temporale del Papa, e comparte i suoi onori a chi ha i medesimi sentimenti, mentre li ritoglie o li nega a chiunque in qualche modo li contrasti.

(1) Pays, N° del 27 di maggio 1861.

(2) Le Franc-Maçon, livraison de sept. , 1861, pag. 121.

(3) Journal des Iniliés, N° d'ottobre 1861.

(4) L'initiation, N° d'aprile 1861, pag. 470.

(5) Siede, N° del 24 di maggio 1861.

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Ma la Provvidenza di Dio avea gettato la confusione in seno ai nemici della sua Chiesa, e la Massoneria francese era scompigliata e presso alla rovina, ed ecco un ministro di Napoleone II I affrettarsi a lodarne il patriottismo, qui n'a iamais fail defaut aux grandes circonstances (1).

Tra gli ateliers di Parigi ve ne ha uno che porta il nomo di Loge Bonapartè. Questo semplice nome imponeva molti doveri al ministro di Napoleone III, e Persigny gli ha adempiuti!

LE GLORIE DI PIO IX

ALL'ESPOSIZIONE DI LONDRA

(Pubblicato il 6 aprile 1862).

Pio IX, in mezzo alla povertà, all'abbandono, alla persecuzione, fa continui miracoli; ed un miracolo è che da tre anni sussista e regni nella sua Roma; un miracolo che col suo semplice sguardo fermi ed intimorisca gli audacissimi cospiratori; un miracolo che spogliato d'ogni cosa sopperisca alla pubblica amministrazione e paghi fedelmente e puntualmente i creditori dello Stato; un miracolo la sua confidenza, la sua serenità, la sua vita in mezzo a tanti dolori; un miracolo la carità sua, che fra gravi ed urgentissimi bisogni largheggia a favore dei sudditi e degli estranei, degli amici e dei nemici, dei cattolici e dei protestanti; un miracolo la quiete che si gode intorno al Vaticano, e l'ordine che regna sul Tevere, nonostante tanti sobillatori; un miracolo le industrie e le belle arti che continuano a fiorire nell'eterna Città; un miracolo i Vescovi dell'orbe cattolico che si dispongono a recarsi attorno al Romano Pontefice per festeggiare i Santi che sanno morire con pazienza nel centro di una nazione, dove non si glorifica che la forza, e non si studia altro che la maniera di uccidere.

Ma non è ultima di queste meraviglie il vedere Pio IX, in mezzo a tanti pericoli, a tante incertezze, a tanti bisogni provvedere, perché i sudditi che gli restano possano concorrere all'esposizione di Londra che si aprirà il primo maggio del 1862, e far mostra del progresso delle industrie e delle belle arti nelle terre dove comanda il Santo padre. Ed è ammirabile sopratutto la speditezza e la generosità, con cui Pio IX in questi momenti seppe favorire i suoi sudditi; imperocchè gli oggetti che debbono figurare nell'esposizione di Londra già partirono in numero di duecentotredici casse; e giunsero in Inghilterra, come ci scrisse il nostro corrispondente, e non solo il Santo Padre sostenne tutte le spese della spedizione, ma assicura anche agli esponenti i loro oggetti, che oltrepassano il valore di ducentomila scudi.

Abbiamo ricevuto da Roma l'elenco generale degli oggetti spediti dal Governo Pontificio all'esposizione internazionale di Londra pel 1° maggio 1862, e possiamo annunziare che molti inglesi avranno assai da ricredersi sul conto dell'amministrazione papale e dello stato delle industrie nelle città Pontificie.

(1) Circolare Persigny, 16 ottobre 1861.

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Vedranno come già innanzi in Roma l'arte tipografica, e ammireranno il Breviario impresso nella tipografia Camerale, i libri corali stampati dal Bertinelli e l'illustrazione del Museo Lateranense uscita dalla tipografia di Propaganda. Cinquantatré fra statue, gruppi, busti e bassorilievi scolpiti in marmo o modellati in gesso, mostreranno al mondo a qual punto sia giunta in Roma sotto Pio IX l'arte nobilissima della scoltura, e lo stato della pittura verrà indicato da sessanta circa dipinti di Valenti maestri. Vedranno gl'Inglesi come i Romani lavorino in mosaico, che è un'arte tutta propria della città di Roma; e avranno sotto gli occhi le incisioni, i disegni, le opere della calcografia Camerale, le litografie, le cromolitografie, i cammei, gl'intagli, le intarsiature, le medaglie, i lavori in oro, i candelabri, i gruppi in argento usciti dagli opifizi di quella città che credono nelle tenebre.

Si preparino gli Inglesi e quanti andranno a visitare l'esposizione di Londra a considerarvi ed ammirarvi i lavori in marmo, che si fanno in Roma, le tavole intarsiate di lapislazuli e malachite, i vasi e le grandi coppe d'alabastro, e i nuovi ritrovati per iscolpire le tavole, e le imitazioni dei marmi, e il lavorio dei merletti eseguito dalle detenute, e quelli dei tappeti arazzi dell'ospizio di S. Michele, e i progressi in Roma dell'arte dell'armaiuolo e del coltellinaio, e le leggiadre stoffe di seta misto d'oro, e i fiori, le perle artefatte, le candele di cera e di stearina, gli smalti di pili tinte, e i vasi d'argilla, e alcune macchine di nuova invenzione. E siccome dicono agli Inglesi, ed essi credono che i Romani siano indolenti e non si giovino dei prodotti della natura, così vedranno quali materiali da costruzione, ossiano calci, argille, gessi, quali pietre da taglio, sabbie, materie refrattarie, asfalto e marmi da decorazioni possano trarsi dalle vicinanze di Roma; e l'allume, il sale marino, il kaolino, il cemento romano, e minerali, cereali, campioni di vino ed olio, e via via.

Tra i primi espositori volle essere il Santo Padre Pio IX, che espose un crocifisso e un breviario, cioè il codice diplomatico del Papa, che è il Vangelo, e il suo aiuto, il suo conforto, la sua speranza, che è il Redentore del mondo. E il Cardinale Antonelli espose un bassorilievo in avorio rappresentante lo spasimo di Sicilia, o varii intagli, e il ministro delle finanze espose di molte incisioni, disegni, medaglie; e il ministro del commercio, materiali da costruzione; e poi vennero in gran numero i sudditi, e seguendo sì belli esempi mandarono a Londra i loro lavori e le loro scoperte per secondare i desiderii del Pontefice, onorare Roma e l'Italia, confondere la calunnia, e imporre una volta silenzio all'eresia collegata colla rivoluzione.

Noi vorremmo però che i visitatori dell'esposizione di Londra esaminassero e meditassero di preferenza una collezione di cinquanta medaglie in bronzo battute nella zecca pontificia di Roma sotto la direzione del commendatore Giuseppe Mazio, e ricavate da coni incisi da varii artisti durante i Pontificati di Clemente XIV e Pio VI, Pio VII, Leone XII, Pio Vili, Gregorio XVI e Pio IX. In queste medaglie v'è la storia del Pontificato negli ultimi tempi, vi sono i fondamenti delle speranze, o, per dir meglio, delle sicurezze di noi cattolici, v'è il documento di quanto ha fatto Pio IX per il suo popolo e per l'Italia.

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Voi vedete qui la liberalità di Clemente XIV, che nel 1771 fonda il nuovo Museo Clementino; Pio VI che rompe le catene dei pedaggi, erige la nuova sagrestia vaticana, e cinge di mura Civitavecchia; e Pio VII, che nel 1800 arriva in Roma, e il popolo romano lo accoglie sotto l'arco trionfale in piazza del popolo; e lo stesso Pontefice, che dopo la prigionia e la spogliazione del primo Bonaparte, entra in Roma, populo christiano plaudente pontificio solio restitutus. In questa medaglia vedesi l'Angiolo che libera S. Pietro dal carcere, e leggesi Renoratum prodigium! E un'altra medaglia di Pio VII mostra le sei provincie ritornate sotto il pontificio dominio indicato dal padiglione con le chiavi, e sono le legazioni di Bologna, di Ferrara e della Romagna da un lato; dall'altro il Piceno, Benevento e Pontecorvo. E una nuova medaglia allusiva alla stessa restituzione rappresenta la Chiesa che riceve dalla Pace la carta topografica delle indicate provincie ritornate al dominio pontificio. Vi è un'iscrizione che dice molto anche ai tempi nostri. Eccola: Constantia Principis provinciae receptae, MDCCCXV.

Noi saremmo troppo lunghi se volessimo percorrere tutte le cinquanta medaglie spedite da Roma all'esposizione universale di Londra. Diremo una parola di quelle coniate sotto il Pontificato di Pio IX. La prima è del 1847 e ricorda le statue colossali dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo fatte erigere dal Pontefice nella piazza del Vaticano. Una seconda medaglia venne coniata nello stesso anno d'ordine di Pio IX per incoraggiare la Società di S. Giuseppe in Edimburgo istituita affine di promuovere il bene religioso, morale e fisico degli artigiani. Segue una terza medaglia allusiva all'istituzione del Municipio Romano concessa dal Pontefice, medaglia rappresentante Mosè in atto di consegnare ai capi delle tribù le leggi municipali.

Una medaglia coniata nel 1850 ricorda la distruzione in Roma del governo mazziniano. Il profeta Daniele in abito babilonese mostra il drago, che qual Dio veneravano que' pagani, giacente morto a' suoi piedi e dice: Ecce quem colebatis. Un'altra medaglia vi presenta l'altare Papale della Basilica Lateranense e la nuova fabbrica in stile gotico fatta erigere da Pio IX col suo privato peculio. Una terza medaglia è quella destinata a premiate gli alunni del Seminario Pio eretto dal Sommo Pontefice presso S. Apollinare. Una quarta allude agli asili infantili che Pio IX istituì indirizzandoli all'educazione cristiana e civile. Una quinta vi offre la veduta prospettica del grandiosissimo ponte a triplice ordine d'archi, fatto erigere da Pio IX attraverso la profonda gola che divide la città d'Albano dalla vicina Aricia.

E poi vedi in altre medaglie Pio IX che l'8 dicembre del 1854 proclama il decreto sul dogma dell'Immacolata; nel 1856 ordina e fa mettere mano ai lavori delle strade ferrate; nel 1857 intraprende un viaggio per visitare le provincie dei suoi Stati fermandosi per ben due mesi a Bologna. Lo vedi in altre medaglie ordinare grandiosi lavori a lustro della sua Roma, e riparare alla Porta San Pancrazio i guasti della rivoluzione. E lo vedi finalmente, come è oggidì, nuovo Daniele in mezzo ai leoni pregare: Deus meus concludat ora leonum.

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Savio consiglio fu quello d'inviare a Londra questa collezione di medaglie, le quali dicono qualche cosa di più della perfezione a cui è giunta l'industria nella città dei Pontefici. Esse dicono le vicende e le battaglie della Chiesa in questi ultimi tempi, e ne ricordano contemporaneamente gli splendidi trionfi. Dicono quanto grande, quanto generoso, quanto benefico, quanto provvido fosse Pio IX che pure è perseguitato in Italia con tanta ingratitudine.

Dicono che come nel 1815 e nel 1849 si coniò una medaglia per tramandare ai posteri un portentoso intervento della Provvidenza a favore del Papa-Re, cosi forse non tarderemo molto a vedere all'ultima medaglia, che ricorda i pericoli di Pio IX, aggiunta quella che illustri il miracolo della sua liberazione.

PROMESSE UFFICIALI DI NAPOLEONE III A PIO IX

(Pubblicato il 16 settembre 1862).

La questione romana, la quale poche settimane fa pareva lasciata dormire, è oggidì più che mai caldamente discussa. I giornalisti del di qua e del di là dell'Alpi si sbracciano per persuadere al mondo ciascuno la sua soluzione del grande ed intricatissimo problema. Ma i giornalisti non hanno guari il dono di persuadere se non ciò di che tutti sono persuasi; e mentre essi credono di condurre i governi, non ne sono che gli umilissimi servitori.

Dalla diplomazia, che ebbe principio i andata a finire nel chiaccherio del giornalismo. La quistione romana nacque nel Congresso di Parigi del 1856, quando i diplomatici francesi ed inglesi cominciarono a bandire solennemente la croce contro il governo pontificio. E vero che non tutti i rappresentanti delle Potenze parteciparono a quella dichiarazione di guerra alla Santa Sede della diplomazia di Mazzini. Ma sgraziatamente l'opposizione dei gabinetti, che non approvarono quello scandalo, fu assai rimessa e debole in proporzione della violenza dell'attacco.

La questione romana passò dalla diplomazia al campo di battaglia. Il protocollo di Parigi doveva condurre a Solferino. Sui piani lombardi in apparenza si combatteva per cacciar l'Austria dall'Italia. In fatto però si combatteva per cacciare il Papa. Fu allora un grido universale, che i Francesi discendevano in Italia per dar mano alla rivoluzione, la quale voleva cacciare il Papa da Roma. Tutte le proteste del Moniteur, dei ministri francesi, di Napoleone stesso non bastavano per tranquillare gli animi.

Il fatto dimostrò che le inquietudini dei cattolici non erano senza fondamento. Dalla guerra regolare si passò alla guerra rivoluzionaria. Era la terza stazione sulla via sacra che mette a Roma. Dalla guerra la questione romana è passata nelle mani della rivoluzione per la cui opera si vide l'invasione delle Romagne, delle Marche, dell'Umbria e l'eccidio di Castelfidardo.

Allora la diplomazia cominciò ad aprire gli occhi, e s'avvide che avea fatto la zampa del gatto a Mazzini. Protestò, gridò, tempestò contro quella violazione del diritto delle genti. E i rappresentanti delle grandi Potenze abbandonarono la capitale provvisoria del regno d'Italia.

È vero che, o per un motivo, o per un altro, la maggior parte delle Potenze riconobbero il fatto del Regno d'Italia. Ma protestarono che non volevano più servire la rivoluzione nella questione romana.

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Quindi ora i diplomatici non vogliono più saperne. Di guerra per sostenere le pretese della rivoluzione è inutile parlare. Napoleone 1Il non discende più in Italia a compiere l'opera di Solferino. Ma per poco minaccia di rifar Solferino a danno della rivoluzione, come scrisse testè il signor de la Gueronnière. La rivoluzione avrebbe volentieri continuata l'opera di Solferino; ma essa cadde sulle insanguinate cime di Aspromonte.

Quindi tutto il peso della quistione romana cade sui poveri giornalisti, i quali sudano, trafelano e si disperano di non poterne venir a capo. Ciò significa che quella benedetta quistione è ridotta al lumicino ed è lì lì per finire. E tutti oggidì sono d'accordo in dire che lo sta«a quo non può durare. Dal protocollo di Parigi agli articoli della Gazzetta del Popolo ed alle caricature del Fischietto la questione romana di Mazzini fece un lungo giro, però la distanza tra i due punti non è così grande come sembra.

I rivoluzionari per quanto si sforzino a dimostrarsi fidenti nella protezione e nella buona volontà di Napoleone III, lasciano però intravedere la loro sfiducia. E come avviene quasi sempre nei casi avversi, i rivoluzionari ora che sono Rconfitti su tutta la linea, sono in guerra tra loro, accagionandosi a vicenda della comune sventura.

I mazziniani imprecano ai moderati, perché questi non li lasciarono andare a Roma con Garibaldi. I moderati sono arrabbiati contro i mazziniani, perché colle loro improntitudini guastarono le uova nel paniere, e se non era della loro avventataggine a quest'ora Napoleone III ci avrebbe dato licenza di andare a Roma.

I ministeriali fanno causa di tutti i malanni, l'opposizione che non fa altro che crear incagli inutili e dannosi all'andamento del governo. L'opposizione accusa d'inettezza e d'imbecillità il ministero che non è capace di trarre un ragno dal buco: e colle sue interminabili esitanze rovina ogni cosa.

Per togliere poi ai rivoluzionari Ogni speranza Napoleone III fa pubblicare per mezzo della France tutti gli atti ufficiali, con cui il governo francese promise di difendere il potere temporale della Santa Sede contro qualsiasi attacco. L'idea non è cattiva, e crediamo non senza interesse il vedere raccolti insieme questi varii documenti. Eccoli:

L'IMPERATORE

(Discorso d'apertura della sezione legislativa 1859).

I fatti parlano altamente da sè. Da undici anni sostengo a Roma il potere del Santo Padre, ed il passato deve essere una guarentigia dell'avvenire.

(Proclama del 3 maggio 1859).

Noi non andiamo il Italia a fomentare il disordine, né scuotere il potere del Santo Padre, che abbiamo ricollocato sul suo trono.

Lettera al re Vittorio Emanuele, 12 luglio 1861, letta al Corpo legislativo

dal signor Billault nella seduta del 12 marzo 1862.

Un governo è sempre legato da'suoi fatti antecedenti. Son undici anni che io sostengo a Roma il polene del Santo Padre. Malgrado il mio desiderio di non occupare militarmente una parte della terra italiana, le circostanze furono sempre tali, che mi riuscì impossibile evacuare Roma.

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Facendolo senza gravi guarentigie, avrei mancato alla confidenza, che il Capo della Chiesa aveva posta nella protezione della Francia.

La condizione sarebbe sempre la stessa. (Il Moniteur mette qui: Viva approvazione). Devo dunque apertamente dichiarare a Vostra Maestà, che anche riconoscendo il regno d'Italia: lascerò le mie truppe a Roma, finché essa non si sarà riconciliata col Papa, e il Santo Padre sarà minacciato di vedersi invasi da una forza regolare ed irregolare gli Stati che ancor gli rimangono (Nuova approvazione).

SIG. BAROCHE

(Discorso al Corpo legislativo, 30 aprile 1859).

Il governo piglierà tutte le deliberazioni necessarie, perché la sicurezza dell'indipendenza della Sanla Sede siano assicurate; non vi può essere dubbio alcuno su tal riguardo.

(Discorso del 12 aprile 1860)

II governo francese considera il poter temporale come una condizione essenziale dell'indipendenza della Santa Sede Il potere temporale non può essere distrutto. Ei deve esercitarsi in gravi condizioni di cose. Per mantenere questo potere fu fatta la spedizione di Roma nel 1849; per mantenere questo stesso potere da undici anni le truppe francesi occupano Roma: la loro missione è di difendere ad un tempo il potere temporale, l'indipendenza e la sicurezza del Santo Padre.

SIGNOR ROULAND

(Circolare ai Vescovi del 4 maggio 1859).

Il Principe che diede alla religione cotanti attestati di affetto e di devozione, che dopo i cattivi giorni del 1848 ricondusse il Santo Padre al Vaticano... vuole che il Capo supremo della Chiesa in tutti i suoi diritti di Sovrano temporale venga rispettato.

COME WALEWSKI

(Circolare diplomatica del 5 novembre 1859).

Persuaso che niente potrebbe contribuire al maggior vantaggio dell'Italia, che l'istituzione d'una confederazione destinata a far concorrere al bene generale le fatiche e le ricchezze di ciascuno de' suoi membri, il governo dell'imperatore si propone di usar tutta la sua influenza per favorirne l'istituzione. Egli è ugualmente convinto, che le basi annunciate nei preliminari e riprodotte nel trattato di Zurigo sono conformi ai veri interessi dell'Italia.

SIGNOR THOUVENEL

(Dispaccio del 15 giugno 1861).

Il gabinetto di Torino si renderà ragione dei doveri, che la condizione nostra ci crea verso la Santa Sede -Non più di noi il governo del re Vittorio Emanuele potrebbe negare il valore delle considerazioni d'ogni natura, che si riferiscono alla quistione romana, e regolano necessariamente lo nostre

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deliberazioni, e capirà come riconoscendo il Re d'Italia, dobbiamo continuare ad occupar Roma, finché sufficienti guarentigie non proteggeranno gl'interessi, che vi ci condussero.

CONTE DI PERSIGNT

(Dispaccio del 30 giugno 1860).

Io, come ben dovete pensarvelo, vivamente approvato quest'idea (l'idea di troncare le ostilità tra il Re di Napoli e il Re di Piemonte), e, come io me lo prometteva, lord John mi ha risposto, che dopo ogni cosa tornerebbe molto più vantaggioso per tutti, che l'Italia formasse due parti amiche ed unite fra loro da un comune interesse, che correre dietro ad un'unità forse impossibile ad effettuarsi, e la cui immediata conseguenza sarebbe di ricondurre infallibilmente una nuova guerra coll'Austria. Nuovamente mi congratulai con lord John delle savie sue disposizioni, e gli feci osservare in favore di tal opinione il vantaggio d'evitare, con una riconciliazione dei due Sovrani, le complicazioni che possono risultare dal malcontento delle Potenze del Nord, di fronte ai fatti contrari al diritto delle genti, che vanno producendosi ora in Italia.

SIGNOR BILLAULLT

(Discorso al Corpo legislativo, 12 marzo 1862).

Ci si domanda il ritiro delle nostre truppe, il ritiro della nostra bandiera; bisogna che ceda il posto alla forza rivoluzionaria, e che le si abbandoni a lei, alle sue violenze, alle sue fortune lo scioglimento di una questione fra le più gravi e fra quelle che importano più di tutte alla pace delle coscienze ed al riposo del mondo Di fronte a questa costante politica che ristabilì il Santo

Padre a Roma e che ve lo mantiene, credete che sia possibile abbassare la bandiera della Francia davanti alle eventualità rivoluzionarie? (No, no! j Tutte

le Potenze dell'Europa cattolica, o dissidenti, sono unanimi sulla protezione che devesi concedere al Santo Padre. Noi diciamo a tutte queste esorbitanze del patriottismo italiano; aspettate, non vi si abbandoni ciò che non deve essere abbandonato, ma si consolidi prima la vòstra condizione

L'onorevole oratore (M. Giulio Favre) aggiunse che l'occupazione di Roma è una violazione dei diritti dell'Italia. Non comprendo. Quando noi marciavamo in Italia contro l'Austria, bene sapeva che ciò non era per renderle Roma, né conosceva, questo preteso diritto. Il desiderio di Roma, come capitale, si riferisce ad avvenimenti posteriori, che noi non approvammo

SIGNOR TROPLONG

Presidente del Senato, Relatore delt'Indirizzo

(Indirizzo del 1801, confermato da quello del 1862).

Due interessi di primo ordine, che l'Imperatore volle conciliare, si sono urtati, e la libertà italiana è in lotta colla Corte di Roma. Per prevenire e fermare un tale conflitto, il vostro governo tentò quanto possono suggerire l'abilità politica e la lealtà...

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La vostra filiale affezione per una santa causa, che non confondete con quella degli intrighi, che ne tolgono la maschera in imprestito, si segnalò senza posa nella difesa e nella conservazione del potere temporale del Sommo Pontefice, ed il Senato non dubita punto ad aderire completamente a tutti gli atti della vostra leale, moderata e perseverante politica. D'ora innanzi continueremo a riporre la nostra confidenza nel monarca che protegge il Papato colla bandiera francese, che lo assiste nelle sue prove, e si è fatto per Roma e pel trono pontificio la più vigile e fedele sentinella.

CORPO LEGISLATIVO

(Indirizzo del 1862).

Sire, i documenti diplomatici e l'ultimo invio di truppe a Roma, in una critica circostanza, provarono a tutto il mondo che i vostri costanti sforzi guarentirono al Papato la sua sicurezza e la sua indipendenza, e difesero la sua temporale sovranità, quanto lo permisero la forza degli eventi e la resistenza a saggi consigli. Per tal guisa operando, Vostra Maestà h:i fedelmente adempito ai doveri di Tiglio primogenito della Chiesa, e risposto al sentimento religioso, come anche alle tradizioni della Francia. Por questa grave questione, il Corpo legislativo confida intieramenle nella vostra saggezza, persuaso che nelle future eventualità, Vostra Maestà sempre s'ispirerà ai medesimi principii ed ai medesimi sentimenti, senza lasciarsi disanimare dalle ingiustizie che ci affliggono.

A compimento dell'opera la Franco ricorda il famoso articolo del Monileur del 9 settembre, il quale censurava in modo assai duro la politica dei ministri piemontesi dopo il trattalo di Villafranca. L'articolo terminava dicendo che la Francia non avrebbe più fatto la guerra in Italia per far piacere al Piemonte con quelle parole: «II solo mezzo che resterebbe è la guerra; ma l'Italia non s'illuda, v'ha una sola Potenza in Europa che faccia la guerra per un'idea, questa Potenza è la Francia, e la Francia ha già terminalo il suo compito».

A questo aggiungeremo la recente nota dello stesso Monileur del 25 di agosto che diceva: «1 giornali domandano quale sarà l'attitudine del governo francese in presenza dell'agitazione dell'Italia. La questione è talmente chiara, che ogni dubbio sembrava impossibile. Dinanzi ad insolenti minaccio, dinanzi alle conseguenze possibili di una insurrezione demagogica il dovere del governo francese ed il suo onore militare lo forzano più che mai a difendere il. Santo Padre. Il mondo deve ben sapere che la Francia non abbandona nel pencolo quelli, su cui si estende la sua protezione».

Sappiamo bene che cosa si può rispondere a tutti questi documenti. Potrebbe sopraggiungere qualche impotenza, ovvero la logica inesorabile dei falli potrebbe da un fatto trascinare ad un altro. Ma ad ogni modo crediamo che non senza grave motivo Napoleone III ha fatto mettere in mostra tutto questo apparato di promesse ufficiali. Nel caso che andassero a vuoto, i documenti per il processo al governo francese sarebbero già belli e riuniti.

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UN SOVRANO CHE BENEDICE

(Pubblicato il 24 aprile 1862).

Un telegramma venuto da Parigi e pubblicato dai giornali nell'aprile del 1862 diceva così: «II Papa ha impartito la solenne benedizione urbi et orbi. Le truppe francesi e pontificie vi assistevano. Folla immensa, acclamazioni al Papa». I nostri giornali furono obbligati a stampare quel telegramma nello stesso numero, in cui cercavano, con i frizzi più plebei, e le menzogne più sleali, di negare, o travisare il precedente accoglimento trionfale fatto dai Romani a Pio IX. Poveri giornali e giornalisti! Non banno ancora potuto trangugiare una di queste amarissime pillole che manda loro Roma, e già eccone un'altra da inghiottire! Poveri giornali e giornalisti! Fin dal 1860 volevano scrivere dal Campidoglio e giuravano che il Papa Re era morto, e veggono venire la Pasqua del 1862, e debbono annunziare ai loro lettori che Pio IX gode ottima salute, vive in Roma amato, soccorso, applaudito, vi regna da Sovrano, e dalla loggia del Vaticano benedice il suo popolo e il mondo!

Il Re di Roma impartisce la benedizione urbi et orbi, a Roma ed al mondo! I nostri lettori hanno meditato ben bene su queste poche parole? Hanno riflettuto a quella frase degli antichi Romani urbi et orbi che sussiste tuttavia per virtù del Romano Pontefice? Hanno considerato ciò che vi sia di particolare in questo Sovrano di Roma, che leva in alto la mano e benedice i suoi sudditi e il mondo? E se hanno considerato tutto questo, non hanno capito quale è la sciocchezza degl'Italiani che combattono il Papa-Re, e quale è la ragione che induce gli empii, gli eretici, i despoti, i demagoghi a odiarlo e perseguitarlo?

Le Carte costituzionali sogliono indicare le attribuzioni dei Re, e dicono: il Re fa i trattati di commercio; il Re comanda l'esercito e la flotta; il Re fa la guerra e la pace; il Re convoca o scioglie il Parlamento; il Re sottoscrive le leggi; ma nessuna di tali Carte osò mai dire: il Re benedice i suoi figli, che sono nel suo regno e nell'universo. Questa sola attribuzione trovasi nel grande Statuto cattolico, ed è riservata unicamente al Re di Roma. Vi sono Re Papi in Inghilterra, in Russia, in Prussia, ma nessuno benedice, nessuno pretese mai di avere la facoltà di benedire, e diverrebbe ridicolo chi fra loro benedicesse. Pio IX solo è un Sovrano che chiama dal ciclo le benedizioni sovra il suo popolo, e quando leva in alto la mano, vede prostrarsi migliaia e migliaia di persone, come se fossero obbligate a credere e a pregare da una forza irresistibile.

E i tristi vogliono levare dalla faccia del mondo questo Sovrano che benedice! I popoli non hanno che padroni, e più severi e più tremendi sono quelli che si spacciano loro amici e protettori. Un popolo privilegiato ha ancora a Roma un Padre, un Pio, che è Papa ed è Re, ossia prima Padre e poi Sovrano, ed hanno giurato di ucciderlo! Essi vogliono ridurre tutti i popoli a non vedersi intorno che sgherri per ammanettare, esattori per mungere, soldati per uccidere, cannoni per metragliare: quel re elio benedice chiamano un anticaglia che ha finito il suo tempo. E così i pretesi amici del popolo dicono che è passato pei popoli il tempo delle benedizioni, ed è venuto il tempo delle guerre, il tempo delle leve, il tempo delle imposte. Poveri popoli?

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La benedizione è un alto solenne della Paternità, e Pio IX benedice perché è padre. E siccome non è solo padre di Roma, ma del mondo, così comparte la benedizione urbi et orbi. E questo Sovrano che benedice è un gran vantaggio per Roma e pel mondo; e non solo i Romani, ma tutti i cattolici dell'universo, gettandosi a' suoi piedi lo salutano col caro nome di Padre, e si sentono rispondere col dolce nome di figlio. Ma che direste se questo Padre fosse suddito dell'Imperatore d'Austria, e dello Czar di Russia, o della Regina d'Inghilterra? E che effetto produrrebbe un telegramma, il quale annunziasse: t Uno dei sudditi del Re d'Italia ha dato la benedizione urbi et orbi?»

Il mondo nacque con una benedizione dell'Eterno. Iddio onnipotente, dopo di aver tratto ogni cosa dal nulla, considerò il crealo e lo benedisse. Il mondo avrà termine con una benedizione che Gesù, dopo l'universale sindacato, darà a' suoi eletti chiamandoli a regnare con sé nell'alto dei cieli. Tra mezzo alle benedizioni di Dio creatore e di Dio giudice stanno le benedizioni del Romano Pontefice, che accompagnano il mondo nel suo viaggio del tempo all'eternità, benedizioni che sono una rinnovazione della prima benedizione ed un apparecchio all'ultima. Ma Dio creatore che benedisse il mondo, era padrone assoluto delle cose che benediceva; e Gesù che benedirà gli eletti li benedirà portando scritto nel suo femore: Re dei re, e Signore dei dominanti. E volete che in mezzo al Padrone dell'universo che benedice, e al Signore dei dominanti che corona le benedizioni sieno le benedizioni del suddito del Re d'Italia? Non sentile l'assurdità, la ridicolaggine di una simile pretesa? E sperale di poter persuadere al mondo che potrà essere benedetto da chi dovrà ubbidire ai decreti di Urbano Rattazzi, ed essere soggetto alla vigilanza ed alle circolari di Raffaele Conforti?

Non ci fa meraviglia che a certi potenti ambiziosi possa recar noia un Sovrano che benedice. Napoleone primo sentiva gelosia del Papa che dominava gli spiriti, mentre a lui non restava che l'impero della materia; ed è naturale che i Sovrani dei cannoni rigati vedano di mal occhio il Re delle benedizioni. Ma i popoli dovrebbero pensarla altrimenti; od altrimenti la pensano i Romani, che si sentono più grandi oggidì servendo al servo dei servi di Dio, e obbedendo al Papa che benedice, che quando i loro padri obbedivano al conquistatore che a forza di sangue, di battaglie e di lacrime avea allargato l'impero. Il Vaticano donde il Papa benedice trasse il suo nome da una guerra d'Italiani contro italiani (1). E Dio ha voluto che da questo luogo le benedizioni del suo Vicario si spandessero sopra l'Italia e sul mondo.

Qualche italianissimo domanderà: — Che è egli mai un Sovrano che benedice? Passarono i tempi del fanatismo in cui si credeva alle benedizioni del Papa. — Se taluno rispondesse così, noi gli diremmo di ritornare col pensiero al 1848, quando si menava tanto rumore della benedizione che Pio IX avea dato all'Italia; gli diremmo di rileggere i commenti che il governo provvisorio di Milano, e i giornali più liberali aveano fatto su quella benedizione, gli diremmo di ricordarsi ciò che il generale Durando scriveva in un suo proclama del 5 di aprile 1848:

«Valicanus collis appellatus est, quod eo potitus sit populus romanus vatum responso eipulsis Etruscis» (Sextus Pompejus Festus et M. Valer. Fl. De verborum significatione).

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«Anche noi siamo benedetti dalla destra di un gran Pontefice, santo, giusto, mansueto sopra tutti gli uomini». Quelle benedizioni allora si stimavano di più che tutti gli aiuti materiali della Francia e morati dell'Inghilterra. E perché oggidì vi ridete delle benedizioni che già tanto invocaste? O eravate ipocriti allora, o siete finiti presentemente.

Ecco intanto un gran fatto: — Pio IX, la Pasqua del 1862, dopo la repubblica di Mazzini, dopo la vittoria Solferino, dopo il colloquio di Chambéry, dopo l'eccidio di Castelfidardo, dopo il voto del Parlamento di Torino, dopo il passaggio di Cavour e di Ricasoli, dopo le circolari di Rattazzi, i discorsi del Principe Napoleone e di lord Palmerston, Pio IX Papa Re ha benedetto Roma e il mondo dalla loggia del Vaticano, dove era il Circo di Nerone, dove furono trucidati i primi martiri, dove s'inginocchiarono Costantino e Carlomagno, cioè l'Oriente e l'Occidente riverenti a S. Pietro. — Possiamo scrivere un volume, ma non diremo più di ciò che dicono eloquentemente tutte queste circostanze. Quando Nerone sulla piazza del Vaticano faceva trucidare i martiri, il Papa era pili debole, più povero, più abbandonato, più odiato che non è oggidì. Eppure in capo a pochi secoli, divenne il Signore di Roma, e cominciò a benedire Roma e il mondo e quella benedizione per quanto ripetuta fu sempre un avvenimento importantissimo ed anche nel 1862 vedemmo il Moniteur di Parigi andare lieto perché Pio IX avesse benedetto Napoleone III, ed oggidì il telegrafo annunziarci che Pio IX comparti la benedizione urbi et orbi.

Ma il Papa il giorno di Pasqua ha benedetto tutti. Come la Chiesa nella settimana santa non dimentica nessuno nelle sue orazioni, e prega perfino pei perfidi Giudei, così il Papa spande le sue benedizioni su tutti, cattolici, scismatici, eretici, atei, peccatori, giusti. Tra i quarantamila forastieri che sono in Roma appartenenti a tante nazioni, quanti non ve ne saranno nemici del cattolicismo, del Papa e di Dio? Pio IX tutti li benedisse, e questa è la vera e ben intesa tolleranza che esercita il Papato. E Pio IX non solo benedisse i presenti, ma anche gli assenti di tutto il mondo, e siamo certi che di preferenza benedisse coloro che cospirano a suoi danni, che furono la causa principale de’ suoi dolori, che cercano di spodestarlo e cacciarlo da Roma. Deh Ila benedizione del Pontefice operi nella mente, e più che nella mente, nel cuore di questi traviati uno di que' miracoli che la benedizione di Gesù operava sui cicchi della Palestina, e veggano una volta, veggano il vero bene d'Italia, la vera gloria di Roma, il grande vantaggio, il gran conforto, la grande consolazione pei popoli di avere un Sovrano che benedice i suoi sudditi.

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L'ANTAGONISMO TRA PIO IX E L'ITALIA

(Pubblicato il 21 settembre 1862).

Da Berna il telegrafo ci ha fatto conoscere una circolare diplomatica che il nostro ministro sopra gli affari esterni indirizzava, sotto la data del 10 di settembre, alle Corti europee. Il sunto di questo documento può ridursi alla seguente formola: «11 ministero III Torino ha il diritto di andare a Roma, perché ha ferito ed imprigionato Garibaldi, che voleva introdurlo nell'eterna città». Può darsi più marchiana contraddizione? Se avete il diritto di andare a Roma, perché regalare una palla a Garibaldi che voleva condurvi in Campidoglio? E se Garibaldi clic grida, o Rama o morte, è un ribelle, come due giorni dopo mai proclamate Roma cosa tutta vostra, e pretendete di avere il diritto d'impadronirvene?

«La parola d'ordine dei volontari garibaldini, dice il ministro Durando, e l'esatta espressione del bisogno imperioso della nazione». Dunque voi processerete Garibaldi e i garibaldini rei di avere espresso esattamente il bisogno imperioso della nazione? E allo straniero, che passando presso al Varignano domandi: perché è colà Garibaldi ferito e prigioniero, risponderete: perché ha emesso una parola d'ordine, che è l'esatta espressione del bisogno imperioso della nazione? Oh che logica! Oh che politica!

Ma il signor Durando condanna Garibaldi, perché non si è contentato di esprimere in parole il bisogno imperioso della nazione. E!<li crede che questo bisogno debba semplicemente a/fermarsi, e Io afferma ne' seguenti termini: «Le Potenze cattoliche, e specialmente la Francia, riconosceranno i pericoli del voler mantenere l'antagonismo tra il Papato e l'Italia». Questa frase è un plagio del nostro ministro degli esteri, il quale ha rubato l'antagonismo a un discorso dell'imperatore Napoleone III. Costui, il 27 di gennaio di quest'anno 1862, inaugurando il Corpo legislativo disse: «Abbiamo riconosciuto il regno d'Italia colla ferma intenzione di contribuire coi consigli simpatici e disinteressati a conciliare due cause, il cui antagonismo turba dappertutto gli spiriti e le coscienze».

L'Imperatore dei Francesi ha pensato a far cessare l'antagonismo molto prima che il signor Durando glielo richiedesse. Ma con ciò non intese mai di togliere Roma al Papa per darla alla rivoluzione. Questa sarebbe una nuova e strana maniera di cessare l'antagonismo. Napoleone credeva di poter contentare)a rivoluzione e il Papato lasciando Roma a questo e le Legazioni a quella, e proteggendoli amendue. Ma egli s'inganné a partito, ed ora tocca con mano che non sono possibili gli accordi tra Cristo e Belial. Il Papato non acconsente a nessuna ingiustizia, e la rivoluzione vuoi tutto. Quindi l'antagonismo che regna tra il Papato e la rivoluzione è eterno, come il contrasto tra la luce e le tenebre, il torto e il diritto, la verità e l'errore.

Però il signor Durando travisa la questione, quando parla di antagonismo tra il Papato e l'Italia. Nessun antagonismo regna tra loro, il Papato fu, è e sarà una gloria d'Italia, come l'Italia verrà sempre riguardata quale figlia primogenita della Chiesa.

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Nessun antagonismo li crucia, anzi hanno comuni le loro glorie e i dolori, e per una legge d'inseparabilità, le grandezze e le vittorie del Papato furono sempre grandezze e vittorie italiane come la schiavitù e le persecuzione dei Papi piombarono terribilmente sulla nostra nazione.

E se il signor Durando vorrà guardarsi intorno, si persuaderà facilmente di questo vero, vedendo come l'Italia sia caduta in basso poichè la sua causa venne divisa da quella della Santa Sede. I pericoli de\\'antagonismo che minaccia l'Europa, non nascono dal supposto antagonismo del Papato e dell'Italia, ma da un antagonismo di genere diverso, proclamato testè da Giuseppe Mazzi ni in una lettera agli Italiani, stampata alla macchia in Genova. Mentre il Durando parla di antagonismo tra l'Italia e il Papato, Mazzini discorre di antagonismo tra i repubblicani e i monarchici, e dice: «La palla di moschetto regio, che feriva Giuseppe Garibaldi, ha lacerato l'ultima linea del patto che si era stretto, or son due anni, tra noi repubblicani e la Monarchia».

E Mazzini si sforza di mostrare che v'è un vero antagonismo tra Napoleone III e l'Italia, ed esorta i repubblicani a farlo cessare, ben si sa con qual mezzo! E la lettera di Mazzini può produrre un effetto più pronto e più terribile della circolare del ministro Durando.

PIO IX, IL CLERO FRANCESE

E UN VATICINIO DI GIUSEPPE DE MA1STRE

(Pubblicato il 23 ottobre 1862)

Il 3 di marzo del 1819 Giuseppe De Maistre scriveva da Torino al cavaliere d'Orly le seguenti profetiche parole: «Ecco ciò che è certo, mio caro cavaliere. Lo spirito religioso, che non è del tutto estinto in Francia, farà uno sforzo proporzionato alla compressione che prova, seguendo la natura di tutti i fluidi elastici. Esso solleverà le montagne, e farà miracoli. Il Sovrano Pontefice e il Sacerdozio francese si abbraccieranno, e in questo santo abbraccio soffocheranno le massime gallicane. Allora il Clero francese comincierà una nuova era, e ricostituirà la Francia, e la Francia predicherà la religione all'Europa, e non si sarà visto giammai nulla di simile a questa propaganda. E se l'emancipazione de’ cattolici viene decretata in Inghilterra, ciò che è possibile ed anche probabile, e che la religione cattolica parli in Europa in francese ed in inglese, ricordatevi bene di ciò che vi dico, o carissimo, non v'ha nulla che voi non possiate aspettarvi. E se vi dicessero che nel corso di questo secolo si celebrerà la Messa in S. Pietro di Ginevra, e in Santa Sofia di Costantinopoli, bisognerà soggiungere: Perché no?» (Lettres et opuscules inédites du compte I. De Maistre, Paria, 1853, vol. I, pag. 508).

Ed ecco avveratosi alla lettera il vaticinio del Platone delle Alpi. Il Sovrano Pontefice ed il sacerdozio francese si abbracciarono, e in questo abbraccio soffocarono il gallicanismo. Tutti i Vescovi, tutti i preti della Francia inchinarono a Pio IX, e aderirono alla sua parola. Gli antichi fautori delle libertà gallicane si affrettarono a dichiararsi Romani, e a proclamare i privilegi del supremo Pastore.

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La France del 21 di ottobre, N. 74, pubblica l'indirizzo al Papa di Monsignor Marci, Vescovo di Sura, già noto, dice la France pel suo attaccamento alle libertà gallicane. Il Vescovo di Sura aderisce pienamente a Pio IX e all'indirizzo de’ Vescovi in Roma. Che bello e sublime spettacolo! Che dolce compenso a tre anni di tribolazione?

Vedrete fra breve avverarsi il resto del vaticinio. li Clero francese divenuto romano sarà onnipotente in Europa ed in Francia. Esso ha fermato or ora grossi battaglioni sulle porte medesime di Roma. La Francia predica la religione all'Europa, e lo stesso Proudhon, solo perché francese, difende i diritti del Vicario di Gesù Cristo. Intanto in Inghilterra l'emancipazione de’ cattolici fu compiuta, nelle vie di Londra non si può più imponentemente bestemmiare il Romano Pontefice, ed è necessaria la santa parola dell'Arcivescovo di Westminster per mantenere l'ordine nella capitale della Gran Bretagna.

Che se San Pietro di Ginevra è ancora il tempio dell'eresia, e Santa Sofia di Costantinopoli una moschea maomettana, non di meno sulle antiche fortifica zioni ginevrine, sui propugnacoli della Roma protestante più sorge maestoso il tempio della Vergine Immacolata, e le popolazioni soggette al Gran Turco già corrono a migliaia nel seno della Chiesa Cattolica. E il secolo decimonono ha passato di poco la sua metà.

Grandi e consolantissimi avvenimenti si preparano per l'avvenire, e li aiuta e promuove la rivoluzione co’ suoi assalii e colle sue battaglie. Essa fa risplendere Pio IX di un'insolita luce, fa comparire l'ineffabile potenza del cattolicismo; ne mostra l'unità, la bellezza, la forza; chiama i popoli e i governi a contemplare la Chiesa, a conoscerla, a studiarla, e conoscerla ed amarla è lo stesso, perché fin da' suoi tempi Tertulliano dicea della religione cattolica: Hoc unum gestii, ne ignorata damnetur.

LA PETIZIONE DEI PASSAGLIANI

A PAPA PIO IX

(Pubblicato il 18 novembre 1862).

Noi abbiamo già dimostrato con mille documenti, che la Petizione de’ sacerdoti italiani a Sua Santità Pio IX promossa da D. Passaglia è una solenne impostura. Ma siccome di corto ne fu fatta una ristampa e certi giornali italiani e forestieri stimarono di doverne discorrere, così non sarà inutile ritornare sull'argomento, e ad onore del Clero italiano, ed a confusione dei pochi tristi che cercano d'infamarlo, dimostrare che la detta petizione non ha altro valore eccetto quello di provare quanto sieno spudorati ingannatori i nemici del Vicario di Gesù Cristo.

La petizione dapprima spacciavasi sottoscritta da dodicimila del Clero secolare e regolare d'Italia. 1 dodicimila si ridussero poi a diecimila. Il Passaglia venne fuori e disse che i sottoscritti erano nove e più migliaia di sacerdoti; ma la stessa petizione stampata non li fa ascendere che a 8943. Ognuno crede a prima vista che i frati sovrabbondino; invece Bono una minima frazione e riduconsi appena a 767.

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Perché co’ frati era pili difficile falsificar nomi e inventare firme, dovendosi almeno specificare l'ordine religioso a cui appartengono, ciò che da in mano il bandolo per iscoprir l'impostura. Per converso trattandosi di preti si gettano lì nomi a catafascio, e vatti a cerca se sussistono, o sono inventati di pianta!

Se D. Passaglia fosse colla coscienza nella, ci avrebbe dalo l'elenco de’ suoi preti in modo regolare, apponendo a tutti il nome, cognome, titolo e, ciò che più monta, il luogo dove trovasi il sacerdote sottoscritto, affinchè ciascuno potesse verificare a sua voglia, se realmente sottoscrisse. Invece nelle sottoscrizioni non trovi quasi mai il paese, e trovarvelo qualche volta accennato, prova che si poteva, ma non si volle accennare, appunto perché temevasi di somministrare il mezzo per iscoprire la falsità. E fra tanti preti, che noi abbiamo in Torino, vorremmo un po' che 1). Passaglia ci dicesse quali hanno sottoscritto alla sua petizione. Né potrebbero temer nulla sottoscrivendo, giacché veggono D. Passaglia, in premio della guerra che muove al Papa, creato cavaliere e professore con uno stipendio di sei e più mila lire all'anno.

Or quali sono i sottoscritti alla petizione di D. Passaglia? Noi qui vogliamo recare una serie di firme, accennando la pagina dove si leggono, giacché altrimenti non parrebbero credibili! A pagina 28 è sottoscritto Colonna D. A... Come si fa a verificare se questo Colonna D. A... esista ed abbia sottoscritto? D. Passaglia non potea mettere Capitello C. B... e Piedistallo S. T... ? A pag. 36 trovi Benoldi D... canonico. A pag. 41 Gissi D... A pag. 55 Lillà D... tesoriere. A pag. 60 e 61 G... P. Tommaso... Cappuccino; e P. Angelo Cappuccino. A pag. 63 Gelsa D... A pag. 60 M... P. Tommaso, Carni. Rif. A pag. 149 Lorenzo D... A pag. 76 P. Giovanni, Oss. Guardiano, i puntini sovrabbondano ad ogni pagina. Perché ciò? Non servono essi a coprire un inganno? E che valore hanno le sottoscrizioni accompagnate dai puntini?

Un cotale, le cui iniziali corrispondevano colla sottoscrizione segnata a pagina 60, scrisse a D. Passaglia: «In nome della legge vi domando vogliate dichiarare chi sia quel S P. Tommaso Cappuccino firmato sotto l'ipocrita e

sacrilego vostro indirizzo, avendo diritto che niuno possa sospettare essere caduto io in simile infamia. Vel dimando anzi anche per tutti i miei confratelli portanti il medesimo nome, appartenenti alle quattro Legazioni che formano per noi la provincia di Bologna, nella quale sebbene conti quattrocento individui, ve ne furono sì, e ve ne sono tuttora detenuti nelle pubbliche carceri; ve ne furono e sono tuttora sotto processo; siamo tutti invisi alla rivoluzione, odiali dai rivoluzionari; ma viva Dio! voi non potete vantarne un solo che sia di-Ile vostre file. Figli del Serafico d'Assisi, abbiamo con lui giurata obbedienti al Papa ed all'Episcopato cattolico, e con lui approviamo lutto ch'essi approvano, condanniamo tutto ch'essi condannano, e veneriamo la suprema Maestà del Pontefice, cui siamo unili col triplice vincolo di cattolici, di figli di S. Francesco, di sudditi non mai infedeli».

Ebbene credete voi che il Passaglia risponda direttamente a questa lettera, e indichi chi sia e dove stia il suo S P. Tommaso Cappuccino? No davvero!

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Egli vien fuori con sciocche scappatoie, e dice a pag. 129: «Mentite, o frati; perché voi siete sudditi di Re Vittorio, e vi fate vanto di essergli infedeli! mentite, o frati!». E chiama que' frati imbastarditi, insensati, pappagalli, mentitori, sicché dopo mezza pagina d'improperii non si può avere dal Passaglia una parola di schiarimento sul suo S P. Tommaso Cappuccino. Dite lo stesso di cento altri che trovaronsi nel medesimo caso, mossero la stessa domanda, e ne conseguirono eguale risposta.

Ma v'è di più. Tra i preti sottoscritti alla Petizione di novemila sacerdoti italiani a S. S. Pio Papa IX per pregarlo a rinunziare al potere temporale, trovate a pag. 75 questa e niente di più; a pag. 103 quest'altra, e non un nome, a pag. 109 il prete e tutto è qui, a pag. 113 egualmente e basta; a pag. 121 P. Giuseppe Cappuccino, e a png. 142 quest'altra bellissima sottoscrizione. E v'ha una nota che spiega come questi puntini significano sette sacerdoti! Pare incredibile, non è vero? Eppure la Petizione pubblicata dal Passaglia è lì per dimostrare che noi scriviamo la verità. E perché scriviamo la verità ogni asserzione nostra è appoggiata alla precisa citazione della pagina della Petizione.

Rechiamo qualche altro saggio della lealtà del Passaglia. A pag. 151 sottoscrive la sua Petizione Aprosio D. F... A pag. 156 P. Emanuele Carmelitano, nella stessa pagina un sacerdote è sottoscritto... e nient'altro, a pag. 157 leggete P. Gioacchino Riformato; a pag. 158 trovate... P. Luigi Cappuccino, Vicario, a pag. 159... P. Luigi Vicario Cappuccino: proprio così! Prima supplica il Papa P. Luigi, Cappuccino Vicario, e poi... P. Luigi Vicario Cappuccino! è possibile prendersi gabbo in questo modo dei le«tori, e spingere a tal punto l'impostura?

Andiamo avanti. A pag. 159 supplica il Papa Materasso D... a pag. 160 Milazzo D... a pag. 161 Penna D; a pag. 170 F. D. F... di Mantova; a pag. 95 Santo D... a pag. 89 Broggi D; a pag. 82 Stecchini D. G... a pag. 71 Biafe D... a pag. 67 Perucci D... a pag. 63 Catalduni D... a pag. 49 Agostinelli D... a pag. 47 Tiraboschi L... e cento altre firme di questo genere. Ora noi domandiamo quale peso abbiano cosiflatte sottoscrizioni presso gli equi estimatori dei documenti? D. Passaglia non poteva di questa guisa moltiplicare all'infinito le sue firme?

E notate che quando n'ebbe alle mani di vere schivò le reticenze, ed abbondò nei titoli. Così a pag. 88 leggete: Bravi cav. D. Giuseppe professore e prev. emerito, deputato at Parlamento; a pag. 151 Arietta ab. Francesco della Regia cappella Patatina; a pag. 162 Ricciardi D. Giorgio Padre cappellano e perpetuo amministratore della Congregazione di Gesù e Maria, visitatore di giustizia, suddelegato della Regia Monarchia, ecc. ; a pag. 48 Volpe D. Angelo dottore in teologia e in legge, e professore liceale: e a pag. 27 Boccardi D. Cesare, professore di filosofia, direttore delle scuole tecniche. Se gli altri nomi fossero veri, D. Passaglia avrebbe ricorso ai puntini?

Voglionsi ancora avvertire due cose riguardo a' sacerdoti che realmente sottoscrissero alla petizione del Passaglia. Molti lo fecero per ignoranza, ingannati dalla formola subdola del documentò; ma scoperto l'inganno, Si ritrattarono. Pensate voi che il Passaglia pubblicasse una sola di queste ritrattazioni? Egli continuò a stampare i nomi come se nulla fosse.

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A pag. 98 parla di un cotale che gli scrisse di sospendere la stampa della sua firma, ma egli la lascia dove si trova, e gli risponde: «Ci duole proprio, reverendo; ma non siamo più in tempo». Ma non eravate in tempo almeno nella ristampa, se non fosse della vostra malafede?

Inoltre tra i sottoscritti ve ne hanno parecchi che recano in trionfo la propria insobordinazione. A cagione d'esempio, uno dice a pag. 163: «Sono abituato alle persecuzioni dell'Ordinario fin dal 1859, imperocchè d'allora esso conobbe quale fosse la mia politica e mi lasciò diacono perpetuo». E un altro a pag. 153 soggiunge: io sono sacerdote sospeso a divinis fin dal 4 novembre 1860». Di questi sacerdoti ve ne hanno a iosa nella petizione Passagliana; e lo stesso Passaglia che è sospeso a divinis e veste da laico, a pag. 34 non teme di avvertirci che i preti, i quali sottoscrivono nelle sue liste si mettono in guerra col loro Vescovo.

Quindi non un Vescovo trovate nell'elenco del Passaglia, anzi tutti i Vescovi concordemente insegnarono l'opposto di ciò che chiedono i passagliani. Ma prima il Papa, e poi i Vescovi non sono giudici e maestri in Israello? L'ha confessato lo stesso D. Passaglia nel Mediatore del 25 di ottobre. Eccone le parole:

«Confessiamo con Tertulliano nello Scorpiaco, che i Vescovi successori degli Apostoli sono la scuola stessa di Cristo, avendoli il signore adottati pei suoi discepoli, i quali egli in ogni cosa erudire, e ordinatili maestri per noi, da doverci ogni cosa insegnare». Confessiamo con Agostino nel terzo libro contro l'eretico Giuliano di Eclana, che i Vescovi sono «figliuoli della Chiesa cattolica «nell'apprendere e padri nell'insegnare». Confessiamo con Prospero nel libro contro Cassiano, che i medesimi sono «principi della Chiesa e ministri legittimi f dei giudizi del Signore». E facendo nostri gli aurei detti del diacono cartaginese Ferrando allo Scolastico Severo protestiamo: «che parlino e predichino coloro, ai quali l'onore del sacerdozio l'autorità conferisce dell'insegnare; quanto a noi siamo pronti a imparare, né d'insegnare altrui presumiamo. Interroga dunque, se brami udire alcuna cosa di vero; e principalmente l'Antistite della sede apostolica, la sana dottrina, del quale consta del giudizio della verità, ed è assodata dal rinforzo dell'autorità. Interroga nei varii luoghi della terra i Pontefici».

Dunque ex ore tuo le iudico serve nequam. Prete sciagurato!

La petizione di D. Passaglia se provasse qualche cosa, proverebbe che vi sono su centoventimila, tra preti e frati italiani, quasi novemila dimentichi del loro dovere, ciò che non formerebbe ancora la proporzione di uno su dodici che veggiamo nel collegio apostolico. Ma siamo lieti di poter dire, a gloria del Clero italiano, che la cifra dei novemila è una solenne impostura. Imperocchè da questa somma si debbono sottrarre: 1° I nomi falsificati e sono centinaia e centinaia; 2° I nomi inventati che non furono portati mai da nessun prete o frate; 3° I nomi ripetuti t'ho figurano parecchie volte nelle medesime liste, e lo stesso Passaglia l'ammette; 4° Le firme che non dicono nulla, perché espresse in semplici puntini: 5° 1 nomi de’ morti da varii anni, e questi sono in numero considerevole; 6° I nomi di coloro che ritrattarono la propria firma, e sono moltissimi;

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7° I nomi dei semplici chierici, spacciali come sacerdoti; 8° 1 nomi di preti impiegali dal governo rivoluzionario che sottoscrissero per conservare l'impiego; 9° I nomi di coloro che sottoscrissero col coltello alla gola, e ciò avvenne spesso in Napoli e in Sicilia; 10° E finalmente i nomi di coloro che si ribellarono ai proprii Vescovi, che non dicono messa, e che non possono ornai considerarsi come preti, perché ne abbandonarono l'abito. I)i questa guisa, se dai preti passagliani sottraete gli indisciplinati e i sospesi, bisogna togliere dalla petizione passagliana perfino il nome di D. Passaglia.

CARATTERE DI PIO IX

DESCRITTO DA S. E. FARINI

(Pubblicato il 27 dicembre 1862).

Il nuovo nostro collaboratore Carlo Luigi Ferini, presidente del ministero del regno d'Italia, ci avverte che nel secondo volume del suo Stato Romano, pag. 57 e seguenti, ha descritto il carattere di Pio IX. Fregiamo le nostre colonne di questa descrizione, sopprimendone qua e là qualche frase che si risente de' giorni, in cui Farini scriveva nella Giovine Italia, e ritenendo solamente le più preziose confessioni. Parli adunque il nuovo collaboratore dell'Armonia.

«Avevamo già augurata la scomunica sul capo agli Austriaci a proposito dell'occupazione di Ferrara nel luglio del 1847, e il Papa ci avea colli sul fatto del nostro zelo, proclamando a' dieci marzo che dugento milioni di cattolici sarebbero venuti a difendere la casa del Padre comune, se fosse assalita; e si è poi visto che ed il Papa e i cattolici hanno tenuto parolai (Bene).

«Male conoscevano Roma coloro i quali pensavano che, dimesse le sue lente e caute abitudini, volesse capitanare questo secolo avventuriere. Male conoscevano Pio IX quelli che credevano consentisse alle dottrine, onde i popoli inebriati dal titolo di Sovrani scapestrano sovranamente (Bravo, eccellentissimo nostro collaboratore; bravo! Benissimo detto!

«Pio IX erasi posto a riformare lo Stato, non tanto perché coscienza di onest'uomo e di religiosissimo Principe glielo comandasse, quanto perché l'alto sentire della dignità di Pontefice gli consigliava di usare la potestà temporale a vantaggio dell'autorità spirituale» Bene! Fu appunto per questo che la Provvidenza destinava un regno temporale al Vicario di Gesù Cristo. Avanti, signor Farini).

«Uomo mansueto e benigno Principe, Pio IX riferiva tulio a Dio; egli credeva dover gelosamente custodire la sovranità temporale della Chiesa, perché la reputava indispensabile alla custodia, all'apostolato della fede... Nemico d'ogni vizio e d'ogni vizioso, salendo al trono, egli avea voluto fare quelle riforme che la giustizia, la pubblica opinione, i tempi addimandavano. Le prime prove gli andarono a seconda tanto che niun Pontefice fu lodato mai...

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Ma a breve andare commossa l'Europa per universale rivoluzione, fu in suo concetto guasta l'opera ch'egli avea incominciata: stette sopra se e trepidò. (Ottimamente!)

«Pio IX è di coscienza molto timorata. Ei si compiace del religioso favellare e del devoto ossequio a sua persona dell'invialo della nascente repubblica (francese). Si conturba alla notizia delle violenze patite dai Gesuiti n Napoli, e minacciale nel suo Stato. È tenero della dinastia di Savoia, illustre per santi nomini, e di Carlo Alberto piissimo. Esulta allorché impara che Venezia e Milano hanno emancipato i Vescovi dalla censura e soggezione del governo nella corrispondenza con Roma. Pareva che Dio si servisse della rivoluzione per liberar la Chiesa dalle molestie delle leggi giuseppine, che Pio IX ricordava sempre con orrore, e le teneva una maledizione pesante sull'imperio. (Ditelo, eccelentissimo nostro collaboratore, ditelo al guardasigilli Pisanclli, che ristabilisce ed estende il regio placito per impossessarsi dei beni della Chiesa}.

«Dove Pio IX non presentiva o sospettava offesa alla religione, ivi era concorde coi novatori, ma ogni cosa che attentasse o accennasse attentare a quella, od importasse dispregio a discipline, a persone religiose, gli turbava l'anima eia mente. Egli avea vagheggiata l'idea di contentare i popoli di temperata libertà, amicarli coi Principi: popoli e Principi amicare al Papato; un Papato moderatore della lega degli Stati Italiani; pace interna, concordia, prosperità civile, splendore di religione. Gli eventi andavano rompendo questo disegno ogni giorno pili. Allorché in nome della libertà e dell'Italia, per fatto di novatori, s'insultassero sacerdoti, si commettessero eccessi, si scrivessero empietà, si assalisse il Papato o la gerarchia ecclesiastica, Pio IX lamentavasi allora dell'ingratitudine degli uomini e profetava sciagure».

Fin qui il nostro collaboratore Farini. Le sciagure piombarono terribili, e pesano tuttavia sull'Italia. Or perché questa, ammaestrata da una dolorosa esperienza non abbracierà il magnifico disegno di Pio IX, bellamente esposto dallo stesso Farini? Contentare i popoli di temperata libertà, amicarli coi Principi; popoli e Principi amicare al Papato, un Papato moderatore della lega degli Stati italiani; pace interna, concordia, prosperità civile, splender di religione, non vi pare, o signor Presidente dei ministri del regno d'Italia, non vi par egli un bel programma, un vero progresso, un larghissimo guadagno? Ora Pio IX è sempre lo stesso, sempre egli vuole contentare i popoli di temperata libertà, e ottenere all'Italia pace interna, concordia, prosperità civile. Ma i nemici d'ogni bene, i nemici degli uomini e di Dio si oppongono oggidì ai disegni di Pio IX, come li mandarono a monte ne' primi giorni del suo glorioso Pontificato.

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LA QUESTIONE ROMANA

SOTTO IL MINISTERO DI BEITINO RICASOLI

Dopo di avere discorso di Pio IX e di Napoleone III e della loro azione in Italia, conviene riassumere i principali tentativi per isciogliere la questione Romana, cominciando dalla morte di Cavour, e venendo fino alla Convenzione italo-franca del lo di settembre 1864. In questo tratto di tempo si succedettero tre Ministeri i quali tutti tentarono di conquistare Roma che il Parlamento avea dichiarato Capitale del Regno d'Italia. Il Ministero presieduto da Bettino Ricasoli lo tentò colle promesse, il Ministero presieduto da Urbano Rattazzi lo tentò colle minaccio e col grido Roma o Morte, passato dalla bocca di Garibaldi nelle note diplomatiche del Generale Durando; da ultimo il Ministero presieduto da Marco Minghetti lo tentò colla Convenzione.

DOCUMENTI

SULLA TENTATA SPOGLIAZIONE DEL PAPA

SOTTO IL MINISTERO RICASLI

Documento 1.

Lettera di Bettino Ricasoli al Papa.

Torino, 10 settembre

Beatissimo Padre,

Compiono ormai dodici anni dacchè l'Italia commossa dalle parole di mansuetudine e di perdono uscite dalla vostra bocca, sperò chiusa la serie delle sue secolari sciagure, e aperta l'ora della sua rigenerazione. Ma poichè i potenti della terra l'avevano divisa fra signori diversi, e vi si erano serbato patrocinio ed imperio, quindi l'opera della rigenerazione non si potè svolgere pacificamente dentro i nostri confini, e fu necessità ricorrere alle armi per emanciparsi dalla signoria straniera accampata fra noi, perché le riforme civili non fossero impedite, o sino dai loro esordii soffocate e distrutte.

Allora voi, Beatissimo Padre, memore di essere in terra il rappresentante di un Dio di pace e di misericordia, e padre di tutti i fedeli, disdiceste la Vostra cooperazione agl'Italiani nella guerra, che era sacra per essi, della loro indipendenza; ma poichè voi eravate pure principe in Italia, così quest'atto arrecò loro una grande amarezza. Se ne irritarono gli animi, e fu spezzato quel vincolo di concorda che rendeva lieto ed efficace il procedere del nostro risorgimento.

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I disastri nazionali, che quasi immediatamente susseguirono, infiammarono vieppiù l'ardore delle passioni, e attraverso un funesto alternarsi di avvenimenti deplorabili, che tutti vorremmo dimenticati, s'impegnò fino d'allora fra la nazione italiana e la Sede Apostolica un conflitto fatale, che dura pur troppo ancora, e che certo riesce ad ambedue del pari pregiudicevole.

Una battaglia si finisce sempre o colla disfatta e la morte di uno dei combattenti, o colla loro riconciliazione. 1 diritti della nazionalità sono imperituri, come imperitura per promessa divina è la Sede di S. Pietro. Poichè pertanto niuno degli avversari può mancare sul campo, è necessario riconciliarli per non gettare il mondo in una perpetua ed orribile perturbazione. Come cattolico ed italiano, riputai doveroso, Beatissimo Padre, di meditare lungamente e profondamente l'arduo problema che il nostro tempo ci propone a risolvere; come ministro del regno italiano reputo doveroso sottomettere alla Santità Vostra le considerazioni, per le quali la conciliazione fra la Santa Sede e la nazione italiana deve essere non pure possibile, ma utilissima, mentre apparisce più che mni necessaria. Così operando non solo io segno l'impulso del mio intimo sentimento e dogli obblighi del mio ufficio quanto i convincimenti de’ miei colleghi, ma ubbidisco ancora alla espressa volontà di S. M. il Be, che, fedele alle gloriose e pie tradizioni della sua casa, ama con pari ardore la grandezza d'Italia e la grandezza della Chiesa cattolica.

Questa conciliazione pertanto sarebbe impossibile, né gl'Italiani eminentemente cattolici oserebbero desiderarla, non che dimenticarla, se per ciò fosse d'uopo che la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti, che appartengono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell'Uomo Dio. Noi chiediamo che la Chiesa, la quale, come interprete e custode del Vangelo, portò nella umana società un principio di legislazione sopranaturale, e per quello si fece iniziatrice del progresso sociale, segua la sua divina missione, e mostri sempre più la necessità di se stessa nella inesauribile fecondità dei suoi rapporti con ciò ch'ella ha una volta iniziato ed informato. Se ad ogni passo della società procedente ella non fosso atta a creare nuove forme, sulle quali far consistere i termini successivi dell'azione sociale, la Chiesa non sarebbe una istituzione universale e sempiterna, ma un fatto temporale e caduco. Dio è immutabile nella sua essenza, eppure è infinitamente fecondo in creare nuove sostanze e in produrre nuove forme.

Di questa sua inesauribile fecondità diede fin qui la Chiesa splendidissime testimonianze, trasformandosi sapientemente nelle sue attinenze col mondo civile ad ogni nuova evoluzione sociale. Quelli che oggi pretendono che ella rimanga immobile, oserebbero essi affermare che non ha mai cambiato nella sua parte esterna, relativa e formale? Oserebbero dire che la parte formale della Chiesa sia da Leone X a noi, quale fu da Gregorio VII a Leone X, e che questa già non fosse mutata da quella che durò da S. Pietro a Gregorio VII?

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Sul principio fu bello alla Chiesa raccogliersi nelle catacombe alla contemplazione delle verità eterne, povera ed ignorata dal mondo; ma quando i fedeli per la conseguita libertà uscirono all'aperto e strinsero nuovo vincolo fra loro, allora l'altare si trasportò dalla nudità delle catacombe allo splendore delle basiliche, e il culto e i ministri del culto parteciparono a quello splendore; e all'ascosa preghiera aggiunse la Chiesa il pubblico e solenne eloquio del magistero, che già cominciava ad esercitare splendidamente sulle genti.

Nella confusione e nel cozzo dei varii e spesso contrari elementi, coi quali si preparava nel medio evo l'era moderna, mercé della Chiesa il concetto cristiano si realizzò nelle relazioni di famiglia, di città, di Stato; creò nella coscienza il dogma di un diritto pubblico, e nella sua legislazione ne chiarì l'uso e fe' sentirne i vantaggi; e allora la Chiesa divenne anco potere civile, e si fe' giudice dei principi e dei popoli. Ma quando la società si fu educata ed ebbe ammaestrata ed illuminata la sua ragione, cessò il bisogno, e col bisogno si sciolse il vincolo della tutela clericale; si ricercarono e si ripresero le tradizioni della civiltà antica, ed un Pontefice meritò per quell'opera di dare il suo nome al suo secolo.

Se dunque la Chiesa, imitando Dio, suo archetipo, il quale, benchè onnipotente ed infallibile, pure modera con sapienza infinita l'esercizio della sua potenza in guisa che non ne soffra scapito la libertà umana, seppe finora contemperarsi, conservando intemerata la purità del dogma, alle necessità derivate dalle varie trasformazioni sociali; coloro che la vorrebbero immobile ed isolata dalla società civile, nimicandola allo spirito dei tempi nuovi, non sono essi che le recano ingiuria, non sono essi ohe la danneggiano anzichè noi, i quali solo le domandiamo ch'ella conservi l'alto suo magistero spirituale e sia moderatrice nell'ordine morale di quella libertà, per cui i popoli, ormai giunti alla maturità della ragione, hanno diritto di non ubbidire, né a leggi, né a governi, se non consentiti da loro nei modi legittimi?

Come la Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non può non essere amica dello svolgimento della nazionalità. Fu provvidenziale consiglio che la gente umana venisse così a ripartirsi in gruppi distinti secondo la stirpe e la lingua con certa sede dove posassero e dove, quasi ad un modo contemperati in una certa concordanza di affetti e di istituzioni, né disturbassero le sedi altrui, né patissero di essere disturbate nelle loro proprie. Quale sia il pregio in che debbe aversi la nazionalità t'ha detto Iddio quando, volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi, metteva mano al castigo più terribile di tutti, dando quel popolo in balia di gente straniera. Voi stesso l'avete mostrato, Beatissimo Padre, quando all'Imperatore d'Austria scrivevate nel 1848 esortandolo a «cessare una guerra che non avrebbe riconquistato all'Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, onestamente alteri della e propria nazionalità».

Il concetto cristiano del potere sociale, siccome non comporta la oppressione d'individuo a individuo, così non la comporta da nazione a nazione. Né la conquista può mai legittimare la signoria di una nazione sopra un'altra, perché la forza bruta non è capace a creare il diritto. Non voglio in appoggio di questo vero autorità migliore. Beatissimo Padre, delle parole solenni del vostro predecessore nella cattedra di S. Pietro, Gregorio XVI:

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«Un ingiusto conquistatore con tutta la sua potenza non può mai spogliare la nazione, ingiustamente conquistata, dei suoi diritti. Potrà con la l'orza ridurla schiava, rovesciare i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti, ma non potrà giammai indipendentemente dal suo consenso tacito o espresso privarla dei suoi originali diritti relativamente a quei magistrati, a quei tribunali, a quella forma cioè che la costituivano imperante (I)».

Gl'Italiani pertanto, rivendicando i loro diritti di nazione, e costituendosi in regno con liberi ordinamenti, non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso e civile; nella loro fede di cristiani e di cattolici non hanno trovato alcun precetto che condannasse il loro operato. — Che essi mettendosi sulla via che»la Provvidenza loro schiudeva davanti non avessero in animo di fare ingiuria alla religione, né danno alla Chiesa, lo prova l'esultanza e la venerazione, di cui vi circondarono nei primordii del vostro Pontificato; lo prova il dolore profondo e Io sgomento, col quale accolsero l'Enciclica del 29 aprile. Essi ebbero a deplorare che nell'animo vostro anzichè consentire, miseramente fra loro si combattessero i doveri di Pontefice con quelli di Principe; essi desideravano che una conciliazione si potesse ottenere fra le due eminenti qualità che si riuniscono nella sacra vostra persona. Ma sventuratameute per proteste ripetute e per l'atti non oscuri essi ebbero a persuadersi che questa conciliazione non era possibile, e non potendo rinunziare all'essere loro ed ai diritti imprescrittibili della nazione, come non avrebbero mai rinunziato alla fede dei padri loro, crederono necessario che il Principe cedesse al Pontefice.

Non potevano gl'Italiani non tener conto delle contraddizioni, nelle quali, a causa della riunione di queste due qualità nella stessa persona, frequentemente incorreva la Sede Apostolica.

Queste contraddizioni, mentre irritavano gli animi contro il Principe, certo non giovavano a crescere riverenza al Pontefice. Si veniva allora ad esaminare le origini di questo potere, i suoi procedimenti e l'uso; e bisogna pur confessare che quest'esame non gli tornava sotto più riguardi favorevole. Si considerava la sua necessità, la sua utilità nelle relazioni colla Chiesa. L'opinione pubblica non rispondeva favorevolmente sotto questo aspetto.

Porgendo il Vangelo molti detti e fatti di spregio e di condanna dei beni terrestri, né meno porgendo Cristo molti avvertimenti ai discepoli, che non si abbiano da dar pensiero ne di possesso, né d'imperio, non riescirebbe agevole trovare anche un solo dei dottori e dei teologi della Chiesa, il quale affermasse necessario all'esercizio del suo santo ministero il principato.

Fu tempo forse, quando tuiti i diritti erano incerti ed in balìa della forza, che all'indipendenza della Chiesa giovò il prestigio di una sovranità temporale. Ma poichè dal caos del medio evo uscirono gli stati moderni, e si furono consolidati colle successive aggregazioni dei loro elementi naturali, e il diritto pubblico europeo si fondò sopra basi ragionevoli e giuste, che giovò alla Chiesa il possedere piccolo regno, se non ad agitarla fra le contraddizioni e le ambagi della politica, distrarla colla cura degl'interessi mondani dalla cura dei beni celesti, farla serva alle gelosie, alle cupidigie, alle insidie dei potenti della terra?

(1) Mauro Cappellari, poi Gregorio XVI. Il trionfo della Santa Sede. Discorso preliminare— edizione del 1799.

— 321 —

lo verrei, Santo Padre, che la rettitudine del vostro intelletto e della vostra coscienza, e la bontà del vostro cuore giudicassero soli, se ciò sia giusto ed utile e decoroso alla Santa Sede e alla Chiesa.

Intanto questo deplorabile conflitto arreca le più tristi conseguenze non men per l'Italia che per la Chiesa. Il Clero già si divide tra sè, già si divide il gregge dai suoi pastori. Vi hanno Prelati, Vescovi, sacerdoti, che apertamente ricusano associarsi alla guerra che si fa da Roma al regno italiano; molti più vi ripugnano nel loro segreto. Le moltitudini veggono con indignazione ministri del santuario mescolarsi in cospirazioni contro lo Stato e negare al voto pubblico la preghiera dimandata dalle autorità; e fremono impazienti quando odono da! pergamo abusata la divina parola per farne strumento di biasimo è di maledizione contro tutto ciò che gl'Italiani appresero ad ammirare e benedire. Le moltitudini, non use a distinguere troppo sottilmente le cose, potrebbero alla fine essere indotte ad attribuire il fatto degli uomini alla religione, di cui sono ministri, ed alienarsi da quella comunione, alla quale da diciotto secoli gl'Italiani hanno la gloria e la fortuna di appartenere.

Non vogliate, Santo Padre, non vogliate sospendere sull'abisso del dubbio un popolo intero, che sinceramente desidera potervi credere e venerarvi. La Chiesa ha bisogno di essere libera, e noi le renderemo intera la sua libertà. Noi più di tutti vogliamo che la Chiesa sia libera, perché la sua libertà è garanzia della nostra; ma per essere libera è necessario ch'ella si sciolga dai lacci della politica, pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano or dell'uno, or dell'altro dei potentati.

La Chiesa ha da insegnare le verità eterne coll'autorità divina del suo celeste fondatore, che mai non le manca di sua assistenza: ella dev'essere la mediatrice fra i combattenti, la tutrice dei deboli e degli oppressi: ma quanto più docili orecchi troverà la sua voce, se non si potrà sospettare che interessi mondani la inspirino! Voi potete, Santo Padre, innovare anco una volta la faccia del mondo; voi potete condurre la Sede Apostolica ad una altezza ignorata per molti secoli dalla Chiesa. Se volete essere maggiore dei Re della terra, spogliatevi delle miserie del regno, che vi agguaglia a loro. L'Italia vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova. Ella venera il Pontefice, ma non potrebbe arrestarsi innanzi al Principe; ella vuoi rimanere cattolica, ma vuoi esser libera e indipendente nazione. Che se voi vorrete ascoltare la preghiera di questa figlia prediletta, guadagnerete sugli animi l'impero che avete rinunziato come Principe, e dall'alto del Vaticano, quando voi leverete la mano per benedire Roma e il mondo, vedrete le nazioni, restituite ai loro diritti, curvarsi riverenti innanzi a voi, loro vindice e patrono.

RICASOLI

In questa lettera l'ipocrisia è eguale alla ignoranza, e l'audacia, e i tranelli, e le contraddizioni del Barone che osa trattare a tu per tu col Santo Padre Pio IX, dànno al documento tale una dose di ridicolo da chiamare. il riso sulle labbra d'Eraclito. Bettino Ricasoli scrive al Papa: cedetemi il vostro regno, e così sarete più libero! Che cosa si direbbe d'un francese, che scrivesse a Napoleone III: rinunziale l'impero, e andatevene in America, dove godrete maggior libertà?

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Quand'anche Napoleone III non fosse quell'uomo oculato e destro che è, non avrebbe certamente assunto l'incarico di trasmettere al Santo Padre una lettera così indegna e così ridicola. Il barone Ricasoli avrebbe dovuto capire che l'Imperatore dei Francesi, rifiutando di far da mediatore tra lui ed il Papa, gli diede una lezione di galateo e di civiltà nel trattare col Capo della Chiesa. Quindi il Barone Ricasoli invece di presentare questa sua bruttura alla Camera avrebbe dovuto distruggerne perfino la memoria.

DOCUMENTO II.

Una sola cosa vogliamo notare relativamente a questo documento. Il sig. Ricasoli osa affermare che le risposte date dal Santo Padre alle lettere di S. M. il Re Vittorio Emanuele furono «di tal genere da recare offesa alla dignità regia». Noi sfidiamo il sig. Ricasoli ad indicarci in quale lettera al Re Vittorio Emanuele e con quali parole Pio IX abbia recato offesa alla dignità regia. Se le ammonizioni che il Capo della Chiesa da ad un Sovrano, come è suo diritto e dovere, sono dette offese alla dignità regia dal Presidente del Consiglio, allora questi non ha veruna idea né di un Papa, né di un Re cattolico. Ecco il documento.

Lettera all'Ill.mo sig. comm. Costantino Nigra, inviato straordinario

e ministro plenipotenziario di S. M. il Re d'Italia a Parigi.

Torino, 10 settembre 1861.

Ill.mo signor Ministro,

Dalle ultime comunicazioni che ho avuto l'onore di cambiare colla V. S. Illustrissima, Ella avrà potuto rilevare come siano incessanti e ognora più gravi le preoccupazioni nel governo del Re intorno alla questione romana.

Mentre il governo non si dissimula!e molle difficoltà che si oppongono ad una soluzione, quale i diritti e le necessità italiane la vogliano, per la molliplicità e la grandezza degl'interessi che vi sono implicati, non può d'altro canto dissimularsi i pericoli d'una troppo lunga dilazione, i quali per varie cause si vanno facendo di giorno in giorno più urgenti. Non vi è quasi difficoltà interna, di cui l'opinione pubblica fra gl'Italiani non riferisca l'origine alla mancanza della capitale, Roma. Nessuno è persuaso che possa stabilirsi un assetto soddisfacente dell'amministrazione dello Slato, finché il centro dell'amministrazione non sia traslocato a Roma, punto egualmente distante dagli estremi della Penisola. La logica dell'unità nazionale, sentimento che oggi prevale fra gl'Italiani, non comporta che l'unità sia spezzata dallo inframmettersi nel cuore del regno di uno Stato eterogeneo, e per di più ostile. Poiché bisogna pur dire che le impazienze legittime della nazione pel possesso della sua capitale sono attizzate dal contegno della Curia romana nelle cose di Napoli. Non insisterò su questo punto, sul quale la S. V. ebbe le più ampie informazioni nel mio dispaccio circolare del 24 agosto decorso, ma richiamerò la sua attenzione sugli argomenti che ne emergono in favore di una pronta risoluzione degli affari di Roma.

— 323 —

Il governo del Re per altro, se da un lato sente questa urgenza, non ha dimenticato dall'altro gl'impegni presi con se stesso e in faccia all'Europa colle sue solenni dichiarazioni. E se anche queste non fossero, egli già sarebbe per proprio sentimento persuaso del dovere di procedere con ogni rispetto versa il Pontefice, in cui venera il Capo della cattolicità, e con ogni riguardo verso S. M. l'Imperatore dei Francesi, nostro glorioso alleato, il quale colla presenza delle sue truppe intende guarentire che la sicurezza personale del Papa e gli interessi cattolici non soffrano nocumento.

Ritenuto pertanto negl'Italiani l'incontestabile diritto di aver Roma, che appartiene alla nazione, e per conseguenza nel governo italiano l'imprescindibile dovere di condurre le cose a questo termine; dirimpetto all'attitudine della unanime pubblica opinione; per evitare gravi disturbi ed impeti inconsiderati sempre deplorabili anco se prevenuti o repressi, il governo ha stimato di fare un ultimo appello alla rettitudine della mente e alla bontà del cuore del Pontefice per venire a un accordo sulle basi della piena libertà della Chiesa da una parte, abbandonando il governo italiano qualsivoglia immistione nelle materie religiose, e della rinuncia dall'altra del potere temporale.

La S. V. troverà allegata in copia la lettera, che per ordine espresso di S. M. ho avuto l'onore d'indirizzare su questo proposito alla Santità del Papa Pio IX. La V. S. si compiacerà comunicare questo documento al governo di S. M. l'Imperatore dei Francesi, presso il quale ella è accreditato, pregandolo innanzi tutto che voglia commettere al rappresentante del governo imperiale a Roma, di far pervenire alle mani di Sua Santità l'indirizzo qui acchiuso e il capitolo annesso. La mancanza d'ogni rapporto diplomatico fra il governo italiano e la Santa Sede non ci permette di far pervenire al Santo Padre in modo diretto questi due documenti. ÌNé la irritazione degli animi che disgraziatamente esiste a Roma verso di noi, permette nemmeno di inviare colà a questo fine una missione straordinaria con la quale la Corte Romana ricuserebbe probabilmente ogni specie di rapporto.

La benevola mediazione della Francia è adunque indispensabile, affinchè i due documenti sopraccennati possano giungere fino alle mani di Sua Santità, e possa in tal guisa sperimentarsi anche questo modo d'intelligenza e d'accordo, I benefizi d'una conciliazione sono tanto grandi ed evidenti per tutti, che io nutro fiducia che in contemplazione della possibilità dei medesimi, il governo di S. M. l'Imperatore si compiacerà di aderire al desiderio del governo italiano. Ella vorrà inoltre ricordare che nella mia nota del 21 giugno al conte di Gropello io dichiarava, che lasciando all'alto senno dell'imperatore di stabilire il momento opportuno, in cui Roma senza pericolo potesse lasciarsi a se stessa, noi ci saremmo fatto un dovere di facilitare la soluzione di quella quistione, colla speranza che il governo francese non ci avrebbe rifiutati i suoi buoni uffici per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di fauste conseguenze alla religione e all'Italia,

Ella è incaricata pertanto d'invocare i buoni uffici cui qui si accenna, non solo perché la nostra preghiera pervenga al Santo Padre, ma eziandio perché sia. presso di lui efficacemente patrocinata. Nessuna voce può essere più autorevole a Roma, né con più, condiscendenza ascoltata di quella della Francia, che veglia colà da dodici anni colla sua possente rispettata tutela.

— 324 —

Mentre la S. V. avrà cura di esprimere al governo di S. M. I. quanto sia piena la nostra fiducia nelle sue benevole disposizioni e nell'efficacia' della sua intromissione in questo rilevantissimo affare. Ella vorrà ancora far sentire che il governo del Re, se quest'ultimo tentativo per disavventura venisse a fallire, si troverebbe avvolto in gravissime difficoltà; e che, malgrado tutto il suo buon volere per temperare le dolorose conseguenze che potessero emergere da un rifiuto della Curia Romana sia nell'ordine religioso, sia nell'ordine politico, non potrebbe impedire però che lo spirito pubblico degl'Italiani non venisse vivamente e profondamente a commuoversi.

Gli effetti di una ripulsa si possono più facilmente prevedere che calcolare: ma è certo che il sentimento religioso negl'Italiani ne riceverebbe una grandissima scossa, e che l'impazienza della nazione, che finora sono contenute dalla speranza di una risoluzione più o meno prossima, diverrebbero molto difficilmente frenabili.

Innanzi di por fine al presente dispaccio io credo non inutile prevenire un obbietto che forse potrebbe venirle fatto riguardo alla forma seguita in questa grave Decorrenza. Può sembrare a taluno non conforme agli usi, alle tradizioni e forse anche alla riverenza, che l'indirizzo rivolto al Sommo Pontefice, sia firmalo da me, anziché da S. M. il Re nostro. Questa deviazione dalle pratiche generalmente accettate riconosce due cause. Prima di tutto è da sapersi, e V. S. III. Ma non lo ignora per certo, che in altre occasioni analoghe a quella in cui ci troviamo, S. M. si è personalmente indirizzata al Papa, e, o non ne ha ricevuto risposta, o ne ha ricevuto di tal genere da recare offesa alla diguità regia. Non era dunque possibile dopo tali precedenti esporre a nuovo pericolo di offesa il decoro del nostro Sovrano. È sembrato di più al governo del Re che in una occasione in cui rispettosamente si rivolge la parola al Sommo Pontefice a nome della nazione italiana, l'interprete consueto delle deliberazioni del potere esecutivo, che sopratutto in assenza del Parlamento italiano, si è quello che rappresenta la nazione medesima, dovesse pure esser quello che si faceva interprete dei suoi voli e dei suoi sentimenti.

Autorizzo la S. V. a dar lettura e rilasciar copia del presente e della lettera per S. S. a S. E. il ministro degli affari esteri.

RICASOLI

Documento III

Lettera a Sua Eminenza il Cardinale Antonelli,

segretario di Stato di S. S. a Roma.

Torino, il 10 settembre 1861.

Eminenza,

11 governo di S. M. il Ré Vittorio Emanuele, gravemente preoccupalo dalle funeste conseguenze che, tanto nell'ordine religioso quanto nell'ordine politico, potrebbero derivare dal contegno assunto dalla Corte di Roma verso la nazione italiana e il suo governo, ha voluto fare appello ancora una volta alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché nella sua sapienza e nella sua bontà consenta ad un accordo, che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità ed alla grandezza della Chiesa.

— 325 —

Ho l'onore di trasmettere all'E. V. la lettera che, per ordine espresso di S. M. il Re, ho umiliata alla Santità del Pontefice.

Per l'eminente sua dignità nella Chiesa, pel luogo cospicuo che ha nell'amministrazione dello Stato, non meno che per la fiducia che S. S. in lei ripone, ella meglio di ogni altro potrebbe porgere in questa occasione utili ed ascoltati consigli.

Al sentimento dei veri interessi della Chiesa non può non accoppiarsi nell'animo dell'E. V. il sentimento della prosperità di una nazione, cui ella appartiene per nascita; e quindi spero che si studierà di riuscire in un'opera che la farà benemerita della Santa Sede non solo, ma di tutto il mondo cattolico.

Ricasoli.

Documento IV.

Ci restringiamo a ricordare che il Ministero piemontese ha dichiarato che esso non si tiene vincolato dai Concordati ossia trattati colla S. Sede. Quindi, qualora gli articoli fossero anche tali che potessero essere accettati dalla S. Sede, come mai questa potrebbe far assegnamento sulle guarentigie offerte dal Piemonte?

Capitolato.

Art. 1. Il Sommo Pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità, ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri Sovrani, che sono stabilite dalle consuetudini.

I Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano il titolo di principi e le onorificenze relative.

Art. 2. Il governo di S. M. il Re d'Italia assume l'impegno di non frapporre ostacolo in veruna occasione agli atti che il Sommo Pontefice esercita per diritto divino come Capo della Chiesa, e per diritto canonico come patriarca d'Occidente e primate d'Italia.

Art. 3. Lo stesso governo riconosce nel Sommo Pontefice il diritto d'inviare i suoi nunzi all'estero, e s'impegna a proteggerli, finché saranno sul territorio. dello Stato.

Art. 4. Il Sommo Pontefice avrà libera comunicazione con tutti i Vescovi e i fedeli, e reciprocamente, senza ingerenza governativa.

Potrà perimenti convocare, nei luoghi e nei modi che crederà opportuni, i Concilii e i Sinodi ecclesiastici.

Art. 5. I Vescovi nelle loro diocesi e i parrochi nelle loro parrocchie saranno indipendenti da ogni ingerenza governativa nell'esercizio del loro ministero.

Art. 6. Essi però rimangono soggetti al diritto comune quando si tratti di reati puniti dalle leggi del regno.

Art. 7. S. M. rinuncia ad ogni patronato sui benefizi ecclesiastici.

Ari. 8. Il governo italiano rinuncia a qualunque ingerenza nella nomina dei Vescovi.

Art. 9. ti governo medesimo si obbliga di fornire alla Santa Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata.

— 326 —

Art. 10. Il governo di S. M. il Re d'Italia, all'oggetto che tutte le Potenze è tutti i popoli cattolici possano concorrere al mantenimento della Santa Sede, aprirà con le Potenze istesse i negoziati opportuni per determinare la quota, per la quale ciascheduna di esse concorre nella dotazione di cui è parola nell'articolo precedente.

Art. 11. Le trattative avranno altresì per oggetto di ottenere guarentigie di quanto è stabilito negli articoli antecedenti.

Art. 12. Mediante queste condizioni il Sommo Pontefice verrà col governo di S. M. il Re d'Italia ad un accordo per mezzo di commissari che saranno a lale effetto delegati.

GREGORIO XVI

E L'IMPUDENZA DEL SIGNOR BETTINO RICASOLI

(Pubblicato il 23 novembre 1861).

Nella lettera al Papa, che il barone Ricasoli presentò alla Camera insieme cogli altri documenti troviamo citate le seguenti parole del Papa Gregorio XVI, nella sua opera: Il Trionfo della Santa Sede, discorso preliminare:, i Un ingiusto conquistatore con tutta la sua potenza non può mai spogliare la nazione, ingiustamente conquistata dei suqi diritti. Potrà colla forza renderla schiava, rovesciare i suoi tribunali e i suoi magistrati, uccidere i suoi rappresentanti; ma non potrà giammai, indipendentemente dal suo consenso, o tacito, o espresso, privarla dei suoi originarii diritti relativamente a quei magistrati, a quei tribunali, a quella forma cioè che la costituiva imperante». Qui finisce la citazione fatta dal signor Ricasoli. Ma il sentimento dell'autore è troncato, echi non vede altro potrebbe essere tratto in inganno. Quindi noi completeremo la sentenza. Immediatamente dopo le citate parole Gregorio XVI scrive: «Così una rivoluzione, un delirio del popolo potrà precipitare dal trono il monarca e sostituirvi uno spurio nuovo governo; ma spogliare la persona del monarca, e, se il regno è ereditario, quella stirpe del diritto alla sovranità, non potranno giammai, quando dal suo lungo silenzio arguire non si possa una spontanea cessione». Loc. cit. § XXII.

Ora che lealtà è questa, per cui da un passo di un autore si piglia ciò che sembra in nostro vantaggio, tralasciando quello che ci è manifestamente contrario? E Pio IX potrà arrendersi a chi nel promettergli tante cose dà prove manifeste di mala fede, adducendo testi tronchi, nei quali si travisano i sentimenti dell'autore citato? O Ricasoli! O Bettino! Voi non avete mai letto l'opera del Cappellari. Leggetela, e vedrete che essa non è per voi, ma contro di voi; e che il trionfo della Santa Sede pronunziato nel 1799 durante la schiavitù di Pio VI sia per avverarsi nuovamente oggidì a danno di coloro che insidiano il Papa colle più spudorate ipocrisie. Sì, noi ripetiamo fiduciosamente oggidì quanto Gregorio XVI scriveva nel 1799:

— 327 —

«Sembrerà forse a taluno cosa strana, anzi fuor di consiglio, che, mentre piangono i buoni la desolazione del santuario, il disprezzo, lo spoglio, la dispersione de’ sacri pastori, l'esilio, la prigionia, gli insulti del sommo sacerdote, lasciato dalla stessa divinità in balia de’ suoi spietati nemici; che mentre insomma l'Apostolica Sede par che vacilli, e gema la Chiesa sotto il peso di sua cattività, io intraprenda a mostrare e la Chiesa e la Sede Apostolica come trionfanti dei loro nemici.

«Eppur così è. Se mai fu tempo, dopo la barbarie dei primi secoli, in cui jfiù gloriosi apparissero dell'una e dell'altra i trionfi, egli è certamente questo, predefinito dall'increata sapienza ai più perigliosi cimenti, acciò invano esaurite contro ad ambedue le proprie forze l'inferno, nulla più rimanga all'empietà, con che avvalorare i suoi colpi, né alla irreligione d'onde sperare vittoria; e dall'evidenza de’ fatti apprendano a loro conforto i cattolici, facìlius esse solem exlingui, quam Ecclesiam deleri (S. Gio. Crisostomo in cap. 7 Isaiae). Né a ciò comprovare è mestieri di qui presentare l'orribile quadro dell'odierna persecuzione, e gli splendidi monumenti raccorrò di quell'immobile fermezza, che in sì ferale combattimento conserva, a scorno dell'incredulità e a gloria della Chiesa il supremo suo Capo, l'immortale PIO SESTO, il quale non cessa, benché semivivo, dal letto dove lo trasse e lo guarda la tirannia de’ suoi fieri nemici, e fra le catene di sua schiavitù, di erger cattedra di verità, e di animare alla costanza lutti gli altri Pastori: né tampoco è necessario descrivere di questi il sovrumano eroismo, con cui docili ubbidiscono alla sua vote, fedeli seguono i suoi esempi. Imperciocché, essendone attonito spettatore l'universo intero, da mille e mille eccellenti penne ne verrà già tramandata alla più tarda posterità la veridica storia la quale ricorderà che la Chiesa, anche in lanta scandalorum mullitudine, in suis firmissimis eminebat (S. Agost. Ep. 93, alias 48), e che sebbene periclitabatur naviculit Apostolorum, urgebant venti, fluctibus latera tundebantur, nihil supererai spei, pur finalmente excitatus est Dominvs, imperavit tempestati, tranquillilas rediit, cioè Episcopi, qui de propriis sedibus fueranl exterminati... ad Ecclesias redienint, come riferisce avvenuto ai tempi degli Ariani San Girolamo; e come la speciale prodigiosa assistenza, con cui Iddio visibilmente protegge contro tutti questi sforzi infernali la Chiesa, e segnatamente il sovrano Gerarca, c'instilla la dolce speranza, che avverrà in breve ancor ai giorni nostri».

— 328 —

ROMA E RICASOLI

DAVANTI I DEPUTATI E I SENATORI

(Pubblicato il 23 novembre 1861).

Povero Bettino! Egli avea promesso Roma e toma, è non potè dare né toma né Roma. Il 20 di novembre 1861 si recò, per iscusarsene, davanti i Deputati ed i Senatori. Una gran giornata fu pel povero Ricasoli, quella del 20 di novembre! Figaro qua. Figaro là; Ricasoli al palazzo Carignano, Ricasoli al palazzo Madama; dovea farsi in due quel tapinello! Avea ben cercato un ministro dell'interno che gli desse, come suoi dirsi, un colpo di mano; ma non avea potuto trovare un cane che abbaiasse per lui. Non avendo ancora ottenuto il dono della bilocazione, Ricasoli die' la precedenza ai Deputati, e dalla Camera elettiva scrisse al vice-presidente del Senato la seguente lettera:

«Ho il dovere di prevenirla che io sono alla Camera dei Deputati, e appena data comunicazione dei documenti su Roma, è mia intenzione passare a fare altrettanto al Senato; ma ignoro l'ora nella quale ciò sarà.

«Mi pregio segnarmi con profondo ossequio.

«Sottoscritto RICASOLI

Incominciò intanto a parlare ai Deputati, e noi leveremo il suo discorso dagli Atti Uff. N. 324, pag. 1250.

«Il governo del Re è lieto di trovarsi di nuovo in mezzo ai rappresentanti della nazione, e di buon animo sottopone al loro giudizio il suo operato intorno la questione che più vivamente delle altre sollecita gli affetti della nazione intera. Il grande uomo di Stato, di cui noi mai abbastanza deploriamo la perdita, ed io più di tutti, poichè dovei con forze minori sobbarcarmi all'ardua impresa da lui sì bene incominciata e condotta, quel grande uomo di Stato proclamò in ordine alla questione romana un principio fecondissimo, il principio della Chiesa libera in Stato libero. Raccogliendo la grave eredità dell'illustre statista, considerai come dovere sacro il condurre questo semplice quanto vasto concetto dall'enunciazione astratta alla pratica applicazione».

Il vostro grande uomo di Stato non proclamò un principio, ma rubò una frase a Carlo di Montalembert. E perché la Chiesa sia libera in Istato libero sapete che cosa bisogna fare? Bisogna incominciare dal rispettare i possedimenti della Chiesa. Ma dire: noi vogliamo spogliare la Chiesa per renderla libera è un'assurdità, un insulto, un'ipocrisia. Ricasoli proseguì:

«Mi studiai pertamo di ridurre in brèvi articoli le guarentigie reciproche della libertà della Chiesa e dello Stato, e pensai d'indirizzarmi ancora una volta in nome ancora dei miei colleghi e per ordine espresso di S. M. il Re alla rettitudine della mente ed alla bontà del cuore del Sommo Pontefice. Ma poichè sventuratamente ci era preclusa ogni via per trattare direttamente con esso, invocammo i buoni uffici del magnanimo Imperatore e del governo francese, della cui benevolenza per l'Italia sono sì molteplici e sì splendide le testimonianze, quanto sono luminose le prove di riverenza e di affetto alla Santa Sede».

— 329 —

Dovevate, signor Ricasoli, studiare dapprima il modo di rendere serie le vostre guarentigie. I vostri predecessori calpestarono un Concordato giurato in fede e parola di Re; voi stesso stracciaste un Concordato in Toscana; sotto il vostro governo si viola la parola data al Capo della Chiesa in Napoli, in Modena, in Lombardia, dappertutto, e voi vi presentate a lui offerendogli guarentigie! Ma da voi stesso capiste quale accoglienza potea venir fatta alle vostre proteste, sentiste nella vostra coscienza l'insulto che contenevano, e quindi non osaste di rivolgervi direttamente al Papa, invocando invece la mediazione dell'Imperatore dei Francesi. Oh povera Italia che, per trattare col Santo Padre, ha bisogno di Luigi Bonaparte! Ricasoli continui):

«Già in altra occasione io ebbi a dichiarare solennemente innanzi a voi con quali modi e per quali vie il governo del Re volesse andare a Roma: non per impeti disordinati, non per moli violenti, non per via di distruzione, ma di edificazione, porgendo occasione alla Chiesa di conseguire uno splendore nuovo ed una dignità nuova, emancipandola dai vincoli mondani che la fanno servii, sotto apparenza di mantenerle dominio».

«Ad ogni procedimento verso Roma, io posi per condizione che si sarebbe fatto d'accordo colla Francia, alla quale l'Italia non dimenticherà mai qual gratitudine debba pei potenti aiuti che n'ebbe a condursi nelle sue condizioni presenti onde le sarà agevole, persistendo nella via di senno, di vigore, di fermi propositi fin qui nobilmente percorsa, salire al grado che le spetta fra le nazioni».

«Era dunque il governo del Re consentaneo alle sue dichiarazioni, ai suoi sentimenti, a tutte le convenienze, quando si studiava di sciogliere la questione romana per via di accordi col Santo Padre, sulle basi della libertà rispettiva della Chiesa e dello Stato, e quando si volgeva al governo imperiale di Francia, perché de’ suoi sentimenti e delle sue proposte volesse farsi mediatore presso la Santa Sede».

Ricasoli vuole andare a Roma per via di edificazione! Bella edificazione che egli ha fatto già in tutte le altre parti d'Italia! Bella edificazione ch'egli sta facendo nel regno delle Due Sicilie! E in Roma vuoi edificare distruggendo il dominio temporale dei Papi, opera di dodici secoli! Vuole edificare emancipando la Chiesa dai vincoli mondani. E che cosa direste a chi vi togliesse il castello di Broglio per emanciparvi dai vincoli mondani? Che cosa rispondereste al furfante che si scusasse di avere svaligiato una famiglia col pretesto d'averla voluta emancipare dai vincoli mondani? Ricasoli tirava innanzi così:

«In quel tempo disgraziatamente non parve che l'animo del Santo Padre fosse disposto a porgere orecchio a proposta di sorta alcuna; e il governo imperiale nella sua saviezza giudicò che in tale stato di cose non sarebbe opportuno di prendersi l'incarico di presentare quel progetto che il governo del Re, nella rettitudine delle sue intenzioni verso la Chiesa, avea con sommo studio compilato».

L'Imperatore Napoleone III non volle rendersi ridicolo al pari di voi. Egli comprese tutta l'assurdità e lutto l'insulto contenuto nella vostra proposta; e quindi non la volle presentare. Non venite a dirci perciò che il S. Padre Pio IX ha rigettato le vostre offerte.

— 330 —

È l'Imperatore dei Francesi che le ha rigettate; e queste offerte erano tali che voi non osaste proporle direttamente, e non trovaste in Europa chi vi volesse servire in questo tristissimo ufficio. Ricasoli conchiudeva:

«Ora il governo del Re sente il bisogno di manifestare alla rappresentanza nazionale e al mondo intero quali fossero i suoi intendimenti nel compiere i doveri del suo ufficio e i modi tenuti per corrispondere ai suoi obblighi verso di voi e verso l'Italia-, crede utile si sappia che, se la nazione italiana vuoi conseguire il compimento della sua indipendenza e della sua libertà, ciò non vuoi fare con pregiudizio della religione, né della Chiesa.

«Quando questi sentimenti siano ben conosciuti e bene apprezzati, egli spera che avrà cooperatori tutti gli onesti, e confida che siano i più, i quali, sì fra noi che fuori, pure amando la libertà e l'indipendenza delle nazioni, temono ancora che questi grandi benefizi non possano conseguirsi senza disturbo della religione, senza ridurre la Chiesa a servitù.

«Questo consenso delle coscienze rassicurate aprirà, non ne dubitiamo, quelle vie che sinora si tennero chiuse, e persuaderanno col mondò cattolico il Santo Padre che le intenzioni di S. M. il Re d'Italia e del suo governo, nonché quelle della intera nazione, sono verso la Chiesa devote ed ossequiose, quanto dei diritti della nazione gelosamente osservanti. Depongo quindi sul banco della presidenza il progetto del quale ho parlato».

Giudichi ogni onesto lettore questa schifosa maniera di favellare! Noi vogliamo spogliare la Chiesa, ma senza pregiudizio della religione; noi vogliamo rendere nostro suddito il Papa, ma senza pregiudizio della Chiesa; noi siamo devoti ed ossequiosi a Pio IX; ma ci ridiamo dei canoni, delle sue Allocuzioni e delle scomuniche.

Dalla Camera dei Deputati Bellino Ricasoli passò al Senato, e ripetè lo stesso discorso con diverse parole. Ecco ciò che disse secondo gli Atti Ufficiali del Senato, N. 125, pag. 428:

i È mio dovere di appagare una giusta ansietà di questa rispettabile parte della rappresentanza nazionale. Il governo dovea intendere a compiere quello che egli credeva suo debito e per propria coscienza e per mandato avutone dalla rappresentanza nazionale, che annuì alle dichiarazioni che ebbi l'onore di fare nella Camera dei Deputali; cioè ricuperare Roma all'Italia, congiungerla al grande corpo politico del regno. Però questa congiunzione non si poteva lare con mezzi violenti, né contro la volontà della Francia».

Una volta gl'Italiani dicevano nel Paternoster: Sia fatta la volontà di Dio. Ora dicono: Sia fatta la volontà delta Francia! «Ciò non si polca fare contro la volontà della Francia?» Dite piuttosto ciò non si polca, e non si dovea fare contro il diritto, contro la giustizia, contro il Decalogo, contro il Cattolicismo, contro la Chiesa. Di questa guisa conserverete almeno la dignità vostra e la vostra coscienza, mentre parlando come parlate fate getto dell'una e dell'altra. Ricasoli ripigliò davanti il Senato:

«Che dovea fare il governo italiano? Non istare certamente nell'inazione, ma innanzi tutto porre ogni studio intorno alla grande questione politica e religiosa che aveva sua sede a Roma; e per risolverla ispirarsi nei bisogni e nei sentimenti della nazione».

— 331 —

Quando a lui parve che le conclusioni del suo studio rispondessero al principio della libertà della Chiesa in libero Stato, allora compose un progetto che egli non credette tenere sul tavolino, masi fece premura rivolgerlo all'approvazione del nostro alleato l'imperatore dei Francesi.

E questo fece non tanto, perché l'imperatore dei francesi lo esaminasse, ma ancora per pregarlo, che egli si facesse mediatore presso il Saulo Padre della presentazione del progetto, e con ciò n'aiutasse a conseguire l'intento.

«Era una necessità pel governo italiano di valersi di questo mezzo; imperocché disgraziatamente da qualche tempo, ed al momento che corre, lo comunicazioni col Santo Padre sono interrotte, e non vi sarebbe stata altra via convenevole che quella indicata, per giungere fino a lui».

E qui Ricasoli ripete ai Senatori ciò che disse già ai Deputati. L'Italia ci ha l'aria di un'allieva degli asili infantili che vorrebbe scrivere una lettera e la mostra alla maestra per vedere se va bene. L'Italia concentrata in Ricasoli (chi l'avrebbe mai più immaginato?) scrisse la sua lettera al Papa e mandolla all'imperatore dei Francesi che la correggesse. L'imperatore la fece in pezzi perché la trovò piena di spropositi. Uditelo da Ricasoli che lo confessa alla sua maniera:

«Le circostanze, che correvano nel momento in che gli era inviato il progetto, non permisero all'Imperatore dei Francesi di accedere alla domanda, e manifestando un animo sempre benevolo verso quella nazione che deve a lui per tanta parte la sua rigenerazione, consigliò di attendere altro momento più opportuno. Le disposizioni d'animo mostrate dal Santo Padre non incoraggivano difatti a proporre negoziazioni fra il governo d'Italia ed esso, né potevano perciò queste riuscire all'accordo ed alla bramata conciliazione».

Ora seguono alcune dichiarazioni del Ricasoli che ci conviene registrare. Da esse risulta che la questione di Roma è una grande questione cattolica, e che simili questioni non si decidono dai Re e dagli Imperatori, sibbene dal Capo della Chiesa. Ascoltiamo il Ricasoli:

«Del progetto cui accennai è stato lungamente parlato. E siccome la quistione che piglia nome da Roma è tale, che niuna più interessa alla nazione italiana, e ad essa fanno capo i grandi principii morali e religiosi, la sua soluzione in conformità al diritto ed al voto della nazione, sarà sopratutto un trionfo morale, un trionfo della pubblica opinione; perciò vuoisi discutere e trattare non solo nei principii generali, ma anche nelle particolarità, e nella pratica esecuzione. Né in questo difficile lavoro, in questa ricerca pacata, saggia, profonda deve venire meno l'animo, né il fermo proposito di risolvere e vincere le difficoltà. E la coscienza del nostro diritto, del rispetto ai grandi principii religiosi ci aiuterà a riuscire nell'intento.

«È innegabile che anche fra quelli che amano la libertà d'Italia, ve ne siano alcuni che non bene si rendono conto, come possa sussistere l'indipendenza del Capo della Chiesa, privato che sia del suo potere temporale. Bisogna adunque mostrare che questo non solo può essere, ma che la Chiesa ne avrà più libera e larga azione, e incremento di dignità, e che potrà più efficacemente adempiere all'altissimo suo ufficio. — Ora se portato l'esame sulle proposte del governo, i cattolici sinceri anderanno persuasi, che la separazione del potere spirituale dal temporale non i tal fatto che debba turbarne le coscienze, per certo le ultime difficoltà saranno superate».

— 332 —

Ma non avete letto, signor Ricasoli, lo splendido articolo del signor Alberto de broglia, il quale vi prova essere impossibile la separazione, che voi divisate? Per separare il potere spirituale dal temporale dovete separare dapprima il cattolico dal cittadino. È egli possibile? Le vostre proposte, qualunque siano in teoria diverrano sempre in pratica un fomite di liti e di persecuzioni dello Stato contro la Chiesa.

Ricasoli conchiude con un solennissimo sproposito, dicendo che la Chiesa e lo Stato sono indefettibili amendue. Vedrà fra breve il signor Bellino, che cosa sia l'indefettibilità della Chiesa, e dove riesca l'indefettibilità del suo regno. Registriamo testualmente questa conclusione:

«In qualunque caso era debito di chi rappresenta un Re sinceramente cattolico ed ha in mano gl'interessi di una nazione veramente cattolica, era dover patrio quello d'intendere a conciliare la religione e la libertà, la Chiesa e lo Stato, indefettibili ambidue, e quindi certamente conciliabili tra loro.

«L'Europa vedrà che se la nazione italiana invoca i suoi diritti politici, e vuole compiere se medesima, ciò non fa perché voglia menomare l'autorità della Chiesa, ma perché è una necessità dulia sua politica vita; e sia aperto qual sia l'animo nostro, cioè che la nazione si compia, e che la Chiesa consegua intiera la sua libertà e la sua indipendenza.

«Quindi il governo d'Italia ha la coscienza, ha il convincimento che se questo lavoro non portò ancora il suo frutto, sarà però sempre utile di richiamare a questa profonda meditazione non solo tutti i cattolici sinceri, ma tutti quelli che meditano sopra i progressi e sopra il miglioramento dell'umanità».

E non solo tutti i cattolici sinceri, ma anche tutti gli uomini onesti si ridono di voi, e vi detestano, perché volete togliere l'altrui, e dare in compenso ciò che non potete e non volete attenere.

LA LETTERA Di RICASOLI A PIO IX

Pubblicato il 24 novembre 1861

Il 24 di agosto del 1861 Bettino Ricasoli scriveva una circolare contro il nostro Santo Padre Pio IX, ed il 10 di settembre osava indirizzare una lettera allo stesso Pontefice, con cento proteste e mille promesse. La circolare del 24 agosto calunniava il Papa, dicea che lascia battere moneta falsa che carpisce ai credenti delle diverse parli d'Europa l'obolo di S. Pietro, che si serve di questo danaro per assoldare i briganti, che da benedizioni, con cui quegli uomini ignoranti e superstiziosi corrono più alacremente al saccheggio ed alle stragi, che manda ai briganti munizioni ed armi quante ne abbisognano, e ciò perché non manchi in Italia l'ultimo sostegno del principato del Papa.

Tutte queste infami e sciocche calunnie vennero smentite dalla diplomazia estera, che risiede in Roma, e il rappresentante di Francia in capo, e poi tutti gli altri rappresentanti delle Potenze anche eterodosse, compreso l'agente officioso della Gran Bretagna, attestarono che nella circolare di Bellino Ricasoli non vi avea ombra di vero, che il Papa e il suo governo erano innocentissimi delle colpe loro apposte dal procace ministro.

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Il Ricasoli dietro si solenni smentite avrebbe dovuto, o provare, o ritrattare le accuse. Ma siccome non è possibile provare il falso, e a chi ha il coraggio della bugia, manca bene spesso quello della ritrattazione, così il Ricasoli dissimulò, e dimentico della circolare del 24 di agosto contro il Papa scrisse a Pio IX la lettera del 10 di settembre.

In questa lettera il Papa, che sedici giorni prima carpiva l'obolo dì San Pietro e benediceva il saccheggio e le stragi, diventa il Beatissimo Padre dalle parole di mansuetudine e di perdono, il rappresentante di un Dio di pace e di misericordia e padre di lutti i fedeli, uomo di una grande rettitudine d'intelletto, e di una segnalata bontà di cuore!

Napoleone III fu stomacato di questo linguaggio che in sì brevi giorni dalla maledizione passava alla benedizione, bugiardo sempre così nel maledire, come nel benedire. E siccome il Ricasoli avea supplicato la Maestà Imperiale del Bonaparte di presentare la sua lettera al Papa, quegli non volle acconsentire, e rimandò invece la lettera a Torino.

Nel rimandare questa lettera il gabinetto delle Tuileries dee avere scritto una noia diplomatica, giacché gli era stata rimessa per mezzo di una nota al nostro ministro plenipotenziario a Parigi, nota che terminava così: «Autorizzo la S. V. a dar lettura e rilasciar copia del presente (dispaccio) e della lettera per S. S. a 8. E. il ministro degli affari esteri». Ora vorremmo sapere perché il sig. Ricasoli non abbia comunicato al Parlamento la nota risponsiva. Questo documento è necessario per conoscere quale giudizio recasse la Francia tanto della lettera, quanto delle proposte che voleano farsi al Papa. Che cosa c'importa sapere quello che il Ricasoli divisava di scrivere e di offerire a Pio IX? La lettera e le offerte non giunsero che a Parigi, conciossiachè per andare a Roma pigliassero quella strada, secondo lo stile della nostra diplomazia che sdegna le linee rette ed ama le curve. Dunque il paese ha diritto di sapere quale accoglienza trovassero alle Tuileries, dove soltanto poterono arrivare.

Il Ricasoli non ci dice che una cosa sola, che cioè la Francia non si volle incaricare di trasmettere al Santo Padre né la sua lettera, né le sue offerte. Ma perché non se ne volle incaricare? Quali motivi addusse? Riconobbe forse scempie le offerte, ridicolo l'offerente e impudentissima la lettera? Fuori il documento, se esiste: è questo che vogliamo conoscere, questo che getterà molta luce e sul presente e sull'avvenire. E se il documento non esiste, si dica, e sarà peggio ancora, perché risulterà avere il signor Thouvenel riputato indegna di risposta una nota del primo-ministro del così detto regno d'Italia.

Noi finora non ci siamo ancora addentrati nella sostanza della lettera di Ricasoli al Papa. Ma poiché venne resa di pubblica ragione, converrà scriverne due parole. La lettera esordise col dire che, dodici anni fa, l'Italia per opera di Pio IX credette aperta l'èra della sua rigenerazione, e conchiude protestando che l'Italia vuole interamente spodestato Pio IX. Ricorda un grande benefìzio del Papa agli Italiani e ne'argomenta che questi hanno da ripagarlo colla più enorme ingratitudine. Che vi pare di questa logica e di questa morale?

Il delitto del Papa, secondo Ricasoli, è ch'egli non vuole fare la guerra, epperò il dominio temporale è contro il Vangelo e contro l'Italia.

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Ma se il Papa Pio IX si fosse associato nella guerra con Carlo Alberto, che cosa avreste fatto allora?

Avreste rinunziato all'unità italiana, o spodestato il Re Sabaudo? E il Vangelo avrebbe mutato natura e insegnamenti? Non vedete che vi contraddite, quando fate dipendere da un semplice fatto l'approvare o disapprovare la sostanza di un'istituzione?

Il Ricasoli protesta di poi che gli Italiani eminentemente cattolici, farebbero qualunque sacrificio, se dovesse patirne la Chiesa. E più innanzi, dimentico della protesta, conchiude che l'Italia «potrebbe alienarsi da quella comunione, alla quale da diciotto secoli gli Italiani hanno la gloria e la fortuna di appartenere». Ma come ciò potrà avvenire, se voi stesso premetteste che gli Italiani rinunzierebbero anche alla loro nazionalità «se perciò fosse d'uopo che la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti, che appartengono al deposito della fede ed all'istituzione immortale dell'Uomo-Dio?»

Il Ricasoli va innanzi e insegna al Papa che la Chiesa si è sempre acconciata alle evoluzioni sociali, e che «sul principio fu bello alla Chiesa raccogliersi nelle catacombe alla contemplazione delle verità eterne». Fu bello? Fu il frutto di tre secoli di persecuzione? Fu bello come fu bello a Gesù Cristo salire sul Calvario, e a Pietro sulla Croce. Ma voi che con un'evoluzione sociale da figlio della Chiesa ne divenite lo spogliatore, pretendete che il Papa Pio IX si acconci alla vostra evoluzione?

Poco dopo il Ricasoli dice che coloro i quali vorrebbero la Chiesa isolata dalla società civile, le recano ingiuria; e intanto chiede a Pio IX di separarsi e d'isolami affatto dalle cose temporali. Che cumulo di assurdità, di spropositi, di contraddizioni!

Soggiunge il Ricasoli che «come la Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non può non essere amica dello svolgimento delle nazionalità». E intanto per amore della nazionalità italiana il Ricasoli pretende di spogliare la Chiesa, che confessa amica di questa medesima nazionalità!

Accenna il Ricasoli che Pio IX nel 1848 scrisse all'Imperatore d'Austria in favore dei Lombardo-veneti onestamente alteri della propria nazionalità; e intanto lascia tranquilla l'Austria nella Venezia come se fosse italiana, e vuole spogliare il Papa come se fosse un principe austriaco!

Dimentico poi di se stesso, dei fatti proprii, delle invasioni delle Marche e dell'Umbria, e della guerra civile che ferve nel regno di Napoli, il Ricasoli emette questa proposizione: la forza bruta none capace a creare il diritto, e lo prova con un testo di Gregorio XVI. Noi abbiamo compiuta ieri la citazione. Mauro Cappellari, che fu poi Gregorio XVI, dopo le parole citate dal Ricasoli proseguiva: «così una rivoluzione, un delirio di popolo potrà precipitare dal trono il monarca, e sostituirvi uno spurio nuovo governo; ma spogliare la persona del Monarca, e se il regno è ereditario, quella stirpe del diritto alla sovranità non potrallo giammai (1)».

Il Ricasoli dice al Papa che gli Italiani costituendosi in regno non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso e civile.

(1) II Trionfo della S. Sede. Torino, 1857, pag. 33.

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L'osservanza dei trattati è un principio civile, quella del decalogo un principio religioso. E quando il conte di Cavour condannava la spedizione di Garibaldi in Sicilia come contraria al diritto delle genti, confessava la contravvenzione ad un principio civile e religioso. E poi spogliare il Papa, spogliare la Chiesa, decapitare il Cattolicismo non sarebbe un contravvenire ad un principio religioso e civile?

Ma osserva il Ricasoli: nel Papa si combattono i doveri di Pontefice con quelli di principe. Vi risponde il vostro Passaglia, che questa asserzione «è contraria al fatto di varii secoli, nel corso de’ quali s'è mostrato come per beneficio dell'uman genere il Pontefice stringesse al tempo medesimo il pastorale e lo scettro e come i popoli a lui soggetti sieno stali lieti della sua signoria, che tante volte si è fatta maestra e conduttrice alle altre potestà civili nell'avanzamento e perfezionamento del ben essere intellettuale, morale e materiale delle nazioni (1)».

Prosegue il Ricasoli: «Non ricadrebbe agevole trovare anche un solo dei dottori e dei teologi della Chiesa, il quale affermasse necessario all'esercizio del suo santo ministero il principato». Il teologo è trovato, e si chiama Passaglia. Uditelo: «Non pure la dottrina cattolica e la ragione politica, ma sì ancora l'universale consenso in tutti i tempi dimostra apertamente ]a relativa necessità del potere temporale del Papa all'esercizio del suo potere spirituale (2)».

Soggiunge il Ricasoli che gl'Italiani lenendo conto delle contraddizioni tra il Pontefice e il Principe, s'irritavano contro del Papa. Falso, signor Bellino, e vel dichiara il vostro Liverani, il quale invece diceva al Papa: «Beatissimo Padre, voi siete non pure il nostro maestro, il nostro duce, il lume e la scorta nostra nella fede e nella disciplina; ma il centro cui si compendia tuttala gloria, la grandezza, la storia e il nome latino; la fonte donde deriva e dove si raccoglie tutta la felicità e prosperità eziandio temporale e civile di Roma e d'Italia. Non è dunque vostra, o Beatissimo Padre, ma nostra è la ventura di avervi per Padre e Signore; egli è questo ancora un dono della mano di Dio verso la capitale della cristianità; epperò ogni autorità che fosse divisa dalla vostra, tornerebbe per noi un giogo insopportabile, e pubblico danno ed onta qualunque reggimento che non venisse da voi (3)». Ecco per bocca di un italianissimo come parlavano e parlano gl'Italiani!

Il Vangelo, tira innanzi il sig. Ricasoli, dice ai discepoli che non si abbiano a dar pensiero, né di possesso, né d'imperio. E voi che avete imperio e possesso, rinunziate adunque al Vangelo? Ma tanto è lungi dall'essere il dominio temporale dei Papi contro il Vangelo, che invece sono eterodossi coloro che vogliono spogliare il Papa. Uditelo, sig. Ricasoli, uditelo dal vostro Eusebio Reali: «Condanno e ripudio la eterodossia specialmente italiana, che volendo spogliare il Sommo Pontefice di un temporale dominio, insidia alla indipendenza del suo spirituale potere, cerca di troncare i nervi all'ecclesiastica autorità, e professando libertà politica vuoi comprimere e soffocare l'ecclesiastica libertà (4)».

II Pontefice ed il Principe, dialoghi di D. Carlo Passaglia, 1860, pag. 25.

II Pontefice ed il Principe, pag. 12.

II Papato, l'Impero e il Regno d'Italia. Firenze, 1861. Documenti, pag. 348.

Vedi la Protesta del Reali nell'Armonia, 21 aprile 1861.

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Capite signor Bottino che cosa è contrario al Vangelo? Ma, insiste Ricasoli «vi hanno Prelati, Vescovi, sacerdoti che apertamente ricusano associarsi alla guerra che si la da Roma al regno italiano». Nominateli, signor Ricasoli. Tra i Vescovi un solo è con voi, quello d'Ariano, tra i Prelati, un solo, il pazzo Liverani che dice e contraddice; tra i preti e i frati i Paltrinieri ed i Pantaleo. Molti di più, aggiunge il Ricasoli, vi ripugnano nel loro segreto. Calunnia, signor Ministro. Se ripugnano nel loro segreto, come potete saperlo voi? Sono venuti forse a confessarsi da voi loro padre spirituale?

Ricasoli conchiude: «Noi più di tutti vogliamo che la Chiesa sia libera, perché la sua libertà è guarentigia della nostra». Ma perché la Chiesa sia libera il Papa non dee essere suddito di nessuno. Invece Ricasoli per rendere libera la Chiesa incomincia dallo spogliarla. Vorrebbe egli che gli accordassero questo nuovo genere di libertà che il suo Bastogi va' preparando ai contribuenti italiani?. «Voi potete, Santo Padre, innovare anche una volta la faccia del mondo, voi potete condurre la Sede Apostolica ad un'altezza ignorata per molti secoli dalla Chiesa»: sono le ultime parole di Ricasoli a Pio IX, e contengono un insulto villano. Esse equivalgono a dire al Papa: Rinnegate i vostri predecessori, che per molti secoli abbassarono la Chiesa, ed elevatela condannando i loro fatti e le loro dottrine.

Ma Pio IX, signor Ricasoli, innoverà la faccia del mondo, liberandolo dalla rivoluzione, resistendo ai barbari che vogliono tutto rovinare e distruggere; rinnoverà mostrando all'Europa imbelle il grande potere della coscienza cattolica, e come siu possibile tutto quaggiù fuorchè vincere un Papa.

IL CAPITOLATO

PROPOSTO DA RICASOLI AL PAPA

(Pubblicato li 26 novembre 1861).

È nostro intendimento esaminare i due principali documenti sulla questione romana, che il barone Ricasoli, presidente del ministero, presentò nel 1861 al Parlamento; e dopo di avere detto nell'articolo anteriore dell'Armonia, degli errori, delle contraddizioni, delle logomachie, delle assurdità, delle ridicolaggini contenute nella lettera che il gran barone voleva inviare al Papa per mezzo dell'ambasciata francese, oggi discorreremo del capitolato che teneva dietro alla lettera istessa come conseguenza delle premesse in quella contenute.

Affermiamo, e sarà nostro debito dimostrare che il capitolato e la lettera fanno fra loro a calci ed a pugni, e l'uno distrugge l'altra, cosicchè se è sincero quanto si promette nel capitolato, dee dirsi falso tuttociò che del potere temporale d. el Papa si asserisce nella lettera, e viceversa se si sostengono le proposizioni contenute nella lettera, diventa puerile, ridicolo, sciocco, assurdo tutto quello che si promette nel capitolato. Vedrà il lettore che non si richiede molta metafisica per provare all'evidenza questa tesi.

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Di l'atto che cosa dice il Ricasoli al Santo Padre Pio IX nella famosa lettera del 10 di settembre 18GJ? Gli dice, ch'egli deve rinunziare alla sovranità temporale ed alle sue prerogative, perché non è possibile conciliare nella stessa persona i doveri di Pontefice e di Principe; perché «il Vangelo porge molti detti e fatti di spregio e di condanna dei beni terrestri»; perché «Cristo porge molti avvertimenti a' discepoli, che non si abbiano a dar pensiero né di possesso, né di imperio»; perché la sovranità serve ad agitare la Chiesa «a distrarla, colla cura degli interessi mondani, dalla cura dei beni celesti».

Da una simile lettera quale capitolato dovea discendere a filo di logica? Ognun sei vede da sè, la proposta di un capitolato che per primo articolo dicesse: «Il Santo Padre Pio IX, considerando che per dieci secoli i suoi predecessori ignorarono il Vangelo, giacchè non avevano avuto la buona ventura di ricevere una lettera dall'evangelista Bettino Ricasoli, rinunzia per sé e pei suoi successori fino al termine de’ secoli alla dignità, all'inviolabilità, a tutte le altre prerogative della sovranità, insomma a tutto ciò che sa di temporale, di beni terrestri, d'interessi mondani».

Invece qual è il capitolato, che dopo la sua famosa lettera, Bettino Ricasoli propone al Papa? Eccolo testualmente: «Il Sommo Pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità, ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri Sovrani che sono stabilite dalle consuetudini. l Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano il titolo di Principi, e le onorificenze relative».

Il Ricasoli adunque, dopo di avere cercato di provare al Papa, che non può, che non dee essere sovrano, gli propone di guarentirgli la dignità, la inviolabilità, e tutte le altre prerogative della sovranità! È come se l'Armonia dopo di avere dimostrato che Ricasoli è un citrullo, che non merita di essere ministro, pretendesse che dall'Italia e da tutta l'Europa gli fosse guarentito il portafoglio!

Ma che, signor Bettino? Liverani v'ha forse appiccato il suo male, e al par di lui deste il cervello a pigione? Se il Vangelo porge molti fatti e detti di spregio e di condanna dei beni terrestri, come osate voi conservare al Papa, all'interprete del Vangelo, a colui che dee metterlo in pratica e predicare coll'esempio, come osate conservargli la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità'! E non sono questi beni terrestri? E se Cristo porge molti avvertimenti ai discepoli «che non si abbiano a dar pensiero, né di possesso, né d'imperio», perché volete conservare al Vicario di Gesti Cristo tutte' le preminenze rispetto al Re ed agli altri Sovrani?

Ma ragionate coi gomiti, signor Barone! Se gli uomini di Chiesa non debbono essere distraiti «colla cura degl'interessi mondani dalla cura dei beni celesti», perché dire che, i Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano il titolo di Principi e le onorificenze relative?» Siete un diavolo tentatore, voi, e volete trascinare all'inferno e i Cardinali e il Pontefice. Vergogna! Dichiarare a' chierici: non v'è lecito possedere e poi guarentire i loro possedimenti! Vergogna? Vergogna!

— 339 —

E l'articolo 9 del capitolato aggrava ancora di più la tentazione: «II governo si obbliga di fornire alla Santa Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata». Coteste è il capitolato di Simon Mago. Leggendo, signor Bettino, le Scritture Sante per insegnarle al Papa, avete visto che Simone obtulit eis pecuniam, offerì danaro agli Apostoli, se gli facevano parte della loro sovranità, e voi rinnovaste l'offerta a Pio IX.

Ma Pio IX ha letto nelle stesse Sante Scritture la risposta di S. Pietro, e ve l'avrebbe rimandata se Luigi Bonaparte gli avesse spedito il vostro capitolato. E la risposta sapete qual è? Eccovela solennissima. Pecunia tua tecum sii in perditionem. Capite il latino? S. Pietro non ci metteva frasche, né complimenti quando trattava con gente dello stampo di Simon Mugo. Li mandava in terminis al diavolo! Edera ben lontano dal violare le leggi della carità, che anzi Cornelio A Lapide dice a questo luogo: Ex charitate id fecit et studio religionis!

Né vengano a risponderci che Bettino Ricasoli non ha proposto al Pupa di cedergli il regno spirituale mediante pecunia, sì solamente il temporale, né potersi perciò tacciare di simonia. Imperocchè è simonia vendere le cose della Chiesa, è simonia cercare di comperarle, e il regno temporale del Papa è cosa ecclesiastica, e quello, di cui Ricasoli domandava la cessione, si chiama appunto il Patrimonio di S. Pietro. Sul quale proposito abbiamo una magnifica lettera decretale di Urbano II scritta nel 1099, dove, tra le altrecose, dice: «Chiunque per suo guadagno vende o compra le cose ecclesiastiche che sono dono di Dio, perché donate da Dio ai fedeli, e dai fedeli donate a Dio, con Simon Mago vuole procacciarsi, mediante danaro, il dono di Dio».

Il territorio che voi volete acquistare con danaro, signor Ricasoli, è stato dato Deo et B. Petro, come dicono tutti gli antichi documenti. Dunque, o Bettino, donum Dei existimasti pecunia possideri. Dunque Pio IX per carità vi dice: pecunia tua tecum sit in perditionem, e condanna l'offerta e l'offerente, come fe' S. Pietro, giusta l'interpretazione di S. Gemiamo.

Abbiamo pertanto nel capitolato di Bettino Ricasoli una solenne contraddizione in quanto propone al Papa di conservargli ciò che prima ha dichiarato che il Papa dovea rinunziare; abbiamo una schifosa empietà, perché, dopo di aver detto che il Pontefice e i Chierici debbono, secondo il Vangelo, disprezzare i beni terrestri, offre loro beni terreni; abbiamo un insulto a Pio IX e ai Cardinali che Bettino Ricasoli suppone vogliano ribellarsi agl'insegnamenti di Gesù Cristo, dopo che il nostro Presidente del ministero ebbe la bontà di palesarne loro la sostanza; abbiamo finalmente un attentato di simonia nel cercar di comperare a danari contanti le cose sacre.

E non c'è il menomo dubbio, e ne appelliamo allo stesso D. Passaglia, che sarebbe simoniaco il Pontefice che aderisse al capitolato di Ricasoli, simoniaco il Cardinale che lo favorisse, simoniaco ogni altro cattolico che lo sostenesse o vi prestasse mano, come già fin d'ora reo della più sordida simonia è il barone Bettino Ricasoli che l'ha proposto. Ed ha fatto molto bene Luigi Bonaparte a non presentarlo, se no incorreva egli pure nelle pene contro i simoniaci, e cessava issofatto d'essere canonico di San Giovanni in Luterano.

— 339 —

Ma v'è una cosa di più nel capitolato di Bettino Ricasoli, e sapete che cosa c'è? C'è un nuovo argomento in favore del dominio temporale dei Papi. Nostro Signore pigliava sulla parola Ponzio Pilate, e gli rispondeva: Tu dici che io sono Re. E Pio IX può rispondere a Bottino Ricasoli: Tu stesso hai confessalo ch'io debbo essere Sovrano.

E per verità, Dettino Ricasoli conchiudeva la sua lettera a Pio IX così: «La Chiesa ha bisogno di essere libera, e noi le renderemo intera la sua libertà. Noi più di tutti vogliamo che la Chiesa sia libera, perché la sua libertà è garanzia della nostra».

Ora passando alla pratica, Bellino Ricasoli che cosa la per rendere liberala Chiesa? Propone un capitolato, il cui primo articolo dice: «II Sommo Pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della Sovranità».

Dunque, conchiudiamo noi, e dee conchiudere chiunque abbia un po' dì cervello, dunque perché la Chiesa sia libera è necessario che il Pontefice abbia tutte le prerogative della Sovranità. Ma tra le prerogative della Sovranità la prima è che il Sovrano abbia un regno dove comandi, e in conseguenza Dettino Ricasoli riesce a confessare, che per la libertà della Chiesa è necessario il dominio temporale del Papa.

Se no il linguaggio del Ricasoli diverrebbe eminentemente ridicolo, porche direbbe al Papa: voi dovete essere Re, vi conserveremo tutte le prerogative di Re, ma vi leveremo il regno. — Mi leverete il regno? potrebbe ripigliare Pio IX: chi allora mentite già alla vostra parola, e non mi conservate tutte le prerogative della Sovranità, perché una di queste prerogative, anzi la massima, è appunto l'avere un regno.

E per questo verso ci duole che Luigi Bonaparte non abbia mandato a Roma il capitolato di Dettino Ricasoli, giacché poteva benissimo venire stampato nella magnifica raccolta che si va pubblicando col titolo: La sovranità temporale dei Romani Pontefici propugnata nella sua Integrità dal suffragio dell'orbe cattolico regnante Pio IX.

Laonde il Diritto del 24 di novembre 1861 giustamente osserva: «In verità, noi che non pecchiamo di tenerezza verso l'Imperatore dei Francesi, crediamo che esso abbia acquistato seriamente un titolo nuovo alla riconoscenza dei nostri moderati quando trovò un pretesto per non presentare al Papa quella lettera e quel capitolato».

Come però Dettino Ricasoli osò presentarlo al Parlamento ed alle stampe? Non vede che egli ha reso un segnalato servizio dell'Armonia ed alla causa cattolica? Quind'innanzi se taluno verrà a dirci che il Papa non dev'essere Re, noi gli risponderemo: — Taci lì, che Bellino Ricasoli gli vuole conservare tutte le prerogative della sovranità. — Se un altro ripiglierà che la Chiesa non ha bisogno di beni temporali e noi gli soggiungeremo: — Taci lì, che licitino Ricasoli per dare libertà alla Chiesa vuole assicurare al Papa e ai Cardinali grasso Stipendio. — Se un terzo si riderà del titolo di principi che portano i successori degli Apostoli, e noi: — Taci lì, che Dettino Ricasoli ha dello: «I Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano il titolo di principi e le onorificenze relative». E questo per rendere la Chiesa libera! —

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Oh! il capitolato del signor Ricasoli è una vcrn miniera di argomenli contro i frebboniani, i leopoldini, i ginseppisti, i legulei, e simile genìa; e se mostrasi empio e simoniaco negli intendimenti, riesce favorevolissimo alla Chiesa nelle $ue conseguenze; tesi, che per non essere soverchiamente luoghi, ripiglieremo un altro giorno, e forse domani.

IL BARONE RICASOLI

MERCANTE DI LIBERTA'

(Pubblicato il 27 novembre 1861).

Chi vive in Torino e passa talvolta sotto i portici di Po; s'imbatte spesso in molti merciaiuoli ambulanti, che, sciorinate per terra le loro mercanzie, come a dire fazzoletti, guanti, balocchi, cianfrusaglia, prendono a stordire la gente gridando quanto ne hanno in gola: — Comprino, padroni; comprino, che tutto è a vilissimo prezzo. Si valgano dell'occasione: non si tratta di vendere ma di liquidare. Avanti, signori, avanti; ogni genere di mercanzia quasi in regalo! —

Bettino Ricasoli ci ricordò questi venditori, quando, recatosi al Parlamento, sciorinò innanzi ai Deputati e ai Senatori i suoi documenti: la lettera che voleva spedire al Papa, quella destinata al Cardinale Antonelli, il capitolato proposto alla Santa Sede e il dispaccio al cavaliere Nigra a Parigi, e prese a dire e a ripetere a qual prezzo voleva accordare la libertà alla Chiesa. Egli ci pareva d'udire il barone Ricasoli a gridare a sua volta: — Comprate, o cattolici, comprate la libertà, compratela perla vostra Chiesa; io ve la do a buonissimo mercato. Mi contento di Roma, e se me l'accordate, lascio libero il Papa, liberi i Vescovi e, fino a un certo punto, liberi tutti gli altri chierici. Suvvia, chi vuoi fare acquisto della libertà per la Chiesa? Non si tratta di vendere, ma di liquidare. —

Cerio è che Ricasoli nel suo capitolato ha proposto un vero contratto bilaterale: do ut des. lo do la libertà alla Chiesa, purchè la Chiesa dia Roma alla rivoluzione. Un contratto sottosopra dello stesso genere s'era fatto a Plombières; un nitro più tardi, quando trattossi di avere Bologna e le Romagne. Il conte di Cavour ha detto chiaramente alla Camera, che per andare a Bologna bisognava cedere alla Francia la Savoia e Nizza. Ora ci dice al Papa che, se vuole governare liberamente i cattolici, dee vedere Roma, e i mercanti si lusingano di trovar mercanti dappertutto!

Intanto sottentra l'Opinione e fa la mezzana, dicendo: — E che? Non volete voi comperare questa libertà, mentre ve la danno a sì infimo prezzo? A voi preme assai più conservare l'autorità terrena, che il libero esercizio dell'autorità spirituale? Provvedete meglio ai vostri interessi: comperate, comperate la libertà dal bottegaio Ricasoli; si direbbe ch'egli non ve la vende, ma ve la dona; comperatela è un consiglio amichevole che vi do, e tutto per vostro vantaggio — E tira innanzi con quelle lusinghe e moine, di cui i giudei sono maestri quando trattasi di insaccare i semplicioni (Vedi V0pinioae&e\ 25 di novembre 1861, N.325).

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Ma qui è da farsi una importantissima riflessione. Voi volete vendere alla Chiesa ciò che già alla Chiesa appartiene, e su cui essa ha un assoluto e imprescrittibile diritto. Volete vendere al Cattolicismo la libertà, mentre la Chiesa ha diritto alla libertà per legge divina, naturale ed umana. Per legge divina in quanto la Chiesa fu fondata da Dio, e Dio la vuole libera, anzi niente più ama che la libertà della sua Chiesa, come dice Sant'Anselmo.

Per legge naturale, giacché la Chiesa essendo la base, la tutela e la vita della società, non può essere impedita di agire sulla medesima e liberamente informarla. Per legge umana, giacché lo Statuto dichiara il Cattolicismo religione dello Stato, e accorda alla Chiesa tutte quante le libertà che concede alle altre associazioni, anzi libertà tanto maggiori, quanto la società religiosa supera tutte le altre associazioni civili, e non vuole ne può nuocere allo Stato.

Se dunque la Chiesa ha da sé diritto alla libertà, perché voi pretendete che il Papa vi ceda Roma per lasciar libero il Cattolicismo? Sarebbe come se voi aveste un debito di cento lire, e per pagarle al creditore esigeste ch'egli rinunziasse al suo cappello — Lascia qui il cappello, altrimenti non ti pago — Non mi pagate? soggiungerebbe il creditore; ma la vostra è pura è pretta tirannia, giacché il mio credito è certo, i miei titoli evidentissimi, ed io vo' ritenere il cappello per me, che mi appartiene, e in pari tempo esigo da voi il danaro che mi dovete. —

Il caso del Papa è identico. Roma appartiene alla Chiesa, e Ricasoli confessa implicitamente che Roma è di Pio IX quando gli chiede di rinunciarvi. Non si rinunzia alla roba altrui. Dunque il Papa ha tutto il diritto di ritenere Roma, e nello stesso tempo ha il diritto di chiedere che la Chiesa sia libera perché e Dio e lo Statuto la vogliono in piena libertà. E chi incatena la Chiesa, perché il Papa non vuoi cedere Roma, è despota, è tiranno, abusa della forza, perseguita il Cattolicismo, e si merita la malidizione degli uomini e di Dio.

I diritti della Chiesa sono solennemente confessati dal Barone Ricasoli nella proposta del suo capitolato. «La Chiesa ha bisogno di essere libera, egli dice, e noi le renderemo intera la sua libertà». Notate le parole: le renderemo. Non si tratta di un dono; si tratta di una restituzione, e restituire significa riconoscere un diritto. E mentre Ricasoli promette di rendere alla Chiesa LA SUA LIBERTÀ, dice al Santo Padre di rinunziare l'impero che ha come Principe, Dunque riconosce l'impero come cosa del Papa, e riconosce la libertà come un diritto della Chiesa.

Ora veggiamo che cosa Ricasoli vuoi dare alla Chiesa per renderle intera la sua libertà. 1° Conservare al Papa tulle le prerogative della sovranità, e di questo abbiamo discorso nel numero precedente e dimostrato che la prima prerogativa della sovranità è che il Sovrano abbia un regno; 2° Non frapporre ostacolo in veruna occasione agli atti che il Sommo Pontefice esercita per diritto divino come Capo della Chiesa». E quest'ostacolo non lo dovete frapporre mai per non operare contro il diritto divino. Sarebbe bella che voi vi opponeste alle ordinazioni di Dio, perché il Papa non vuole darvi Roma!

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Andiamo avanti, «Art. 3°. Il governo riconosce il diritto nel Sommo Pontefice d'inviare i suoi Nunzi all'estero». Si tratta nuovamente d'un diritto, e il diritto è indipendente da ogni rinunzia, e i governi onesti debbono rispettarlo ad ogni costo. «Art. 4°. Il Sommo Pontefice avrà libera comunicazione con tutti i Vescovi e i fedeli, e reciprocamente senza ingerenza governativa».

Questo si stabilisce per rendere alla Chiesa la sua libertà. Dunque è una restituzione, e l'ingerenza governativa è stata un'usurpazione. Lo stesso riflesso è applicabile all'art. 5°. «I Vescovi nelle loro diocesi e i parrochi nelle loro parrocchie saranno indipendenti da ogni ingerenza governativa nell'esercizio del loro ministero». Dunque questa ingerenza governativa fu finora una schiavitù dello Stato sulla Chiesa, e, se voi l'abolite, non date alla Chiesa nulla del vostro, ma le rendete solo la sua libertà. Capite? La sua libertà. Sono vostre parole, signor Ricasoli.

Avanti ancora. «Art. 6°. S. M. rinunzia ad ogni patronato sui benefizi ecclesiastici». E qui si riconosce che il patronato fu una concessione della Chiesa, un favore che essa accordò al Capo dello Stato, e, mentre si vuole rinunziare a questo favore, si confessa che in sè, propriamente parlando, e nella condizione di piena libertà tocca alla Chiesa amministrare e distribuire a sua voglia i suoi benefizi. Lo stesso dicasi dell'art. 8°. e Il governo italiano rinunzia a qualunque ingerenza nella nomina dei Vescovi». Tutto questo si fa per rendere alla Chiesa la sua libertà, epperò non si dà alla Chiesa se non quello che è SUO e le appartiene di pien diritto.

Segue l'articolo 9° che suona così: «Il governo si obbliga di fornire alla Santa Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata». Ed è qui la prima e l'unica volta in cui il sig. Ricasoli propone di dare qualche cosa che è proprio del governo. Tutta la sostanza del capitolato si riduce a quest'articolo: non è la questione di libertà è questione di danaro. Frondate il capitolato di tutte le frasi, e si risolve in questa domanda: — Santo Padre, che cosa volete per vendermi Roma? — La risposta del Papa l'abbiamo riferita ieri; è la risposta di San Pietro a Simon Mago: Pecunia tua tecum sit in perditionem: al diavolo voi, e i vostri danari.

Pio IX non vuole vendere Roma per verun prezzo; perché il cuore e la dignità del Papa ripugnano da questi mercimonii; perché egli è il Vicario di Colui che comprò e riscattò ai popoli al prezzo del suo proprio sangue; perché la Chiesa di Cristo condannò ed abolì la tratta dei negri, e non vi vuole sostituire la tratta dei bianchi; perché né Ricasoli, né Bastogi, né la Francia, né l'Inghilterra, né l'universo hanno tanto danaro che possa pagare il sangue di un romano, od un ciottolo, capite? un ciottolo solo di Roma.

— Ma se Pio IX non ci vuole vendere né Roma, né i Romani, noi negheremo alla Chiesa la sua libertà. — E voi sarete prepotenti, come è prepotente chi toglie la vita a chi non gli vuole consegnare la borsa; come erano prepotenti i primi persecutori che spiccavano il capo a' cristiani che non volevano piegare il ginocchio davanti gli idoli. Fate come più vi aggrada: la Chiesa potrete incatenarla, imprigionare e anche uccidere il Papa; vincerlo no, in eterno.

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E poichè siete mercanti di libertà, il Papa e la Chiesa la compreranno da voi -soffrendo, pregando, e a forza di preghiere e di martirii diventeranno liberi. Imperocchè Pio IX e la Chiesa possono patire e resistere fino al sangue, ma non possono arrendersi a contratti simoniaci, non possono cedere un apice solo del diritto e della giustizia, non possono in nulla consentire ad un sacrilego mercimonio.

Che, se, per ipotesi assurda, un Papa sottoscrivesse al vostro capitolato, in quel dolorosissimo giorno comincierebbe per la Chiesa la più trista servitù, non tanto perché voi le dareste nuove catene invece di libertà, quanto perché la Chiesa senza macchia e senza ruga cesserebbe di essere immacolata, santa, divina, diventerebbe ciò che è l'ortodossia in Russia e l'anglicanismo in Inghilterra, un'istituzione umana, una società di banca, un'associazione commerciale; la Chiesa allora ucciderebbe se stessa e perderebbe in un giorno la potenza, lo splendore, la virtù, la gloria di diciannove secoli.

Oh non volete rendere alla Chiesa la sua libertà, la volete avvilire! Le gettate innanzi un mucchio di danaro, perché vi dia in cambio la sua indipendenza, Ah sciagurati! E non conoscete ancora questa Chiesa a cui presentate i vostri capitolali? Non avete letto una linea della sua storia? Non udiste parlare di nessuno de’ suoi Pontefici? Deh smettete i pravi disegni, smetteteli per l'onor vostro, se poco vi cale della sposa di Gesù Cristo. Se volete stringere contratti andate a Parigi, non a Roma. Sulle rive della Senna già compraste un simulacro d'indipendenza, un cencio di libertà al prezzo di Savoia e di Nizza; continuate pure i contratti, se così vi aggrada; vi restano altre provincie da cedere; avete la Liguria già dimezzala; avete la Sardegna pericolante; avete la Sicilia, secolare sospiro dell'inglese; correte sulle rive della Senna, correte su quelle del Tamigi coi vostri notai, coi vostri sensali, coi vostri capitolati; ma per carità non andate sulle sponde del Tevere. Di là fu sloggiato per sempre il paganesimo che trafficava i popoli, che metteva l'impero all'incanto, che vendeva e comperava ai tempi di Giugurta. Pietro ha riscattato Roma, ma Pietro non la vende. Trentatrè Papi dal pescatore di Betsaida a S. Silvestre hanno acquistato Roma alla fede col prezzo del loro sangue, e nessuno de’ suoi successori la cederà mai alla rivoluzione. Lungi da Roma, o mercanti, lungi, o anime basse e degeneri, che volete vendere la libertà e comperare i popoli! E non vedete sulle porte del Valicano, non vedete Pio IX armato delle funicelle del Divino Maestro? Con que' flagelli egli avrebbe risposto al vostro capitolalo, se il destro Bonaparte invece di spedirlo a Roma, non ve l'avesse rimandato in Torino.

LA LETTERA DI RICASOLI

AL CARDINALE ANTONELLI

(Pubblicalo il 29 novembre 1861).

Dal 20 di marzo del 1860 al 10 di settembre del 1861 i nostri ministri degli affari esteri scrissero tre lettere al Cardinale Antonelli, rese tulle tre di pubblica ragione. Due furono scritte dal conte di Cavour, la terza dal barone Ricasoli.

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Nella prima lettera, del 20 marzo 1860, il conte di Cavour pregava il Cardinale Antonelli a consigliare il Santo Padre Pio IX di aderire a non sappiamo quale vicariato, che avrebbe reso omaggio all'alta Sovranità della Santa Sede.

Nella seconda lettera, del 1 di settembre 1860, il conte di Cavour intimava al Cardinale Antonelli di disciogliere l'esercito pontificio e la cui esistenza era una minaccia continua alla tranquillità d'Italia!»

Nella terza lettera, del 10 di settembre 18G1, il barone Bellino Ricasoli, successore del defunto conte di Cavour, pregava il Cardinale Àntonelli «pel luogo cospicuo che ha nell'amministrazione dello Stato, non meno che per la fiducia che Sua Santità in lui ripone», di porgere utili ed ascollati consigli al Santo Padre.

La prima e la terza lettera erano piene di elogi all'Eminentissimo Antonelli. Il conte di Cavour lodava in lui «la sicurezza di giudizio, che gli viene dall'alto ingegno lungamente esercitalo nell'amministrazione dei più gravi interessi di Stato. . .

E il barone Bellino Ricasoli diceva al Cardinale Antonelli: «Al sentimento dei veri interessi della Chiesa non può non accoppiarsi nell'animo dell'Eminenza Vostra il sentimento della prosperità di una nazione, cui ella appartiene per nascita».

L'Eminentissimo segretario di Stato non potè rispondere a quest'ultima lettera del barone Ricasoli per la ragione che, giunta a Parigi, l'imperatore Napoleone III la rimandava in Torino, e metteva il veto alla spedizione.

Però noi vogliamo consolare il nostro caro Dettino dicendogli che cosa gli avrebbe risposto l'Eminentissimo Antonelli qualora avesse ricevuto la sua lettera. Egli avrebhegli dato la stessa risposta che mandò al conte di Cavour il 2 di aprile del 1860. Eccola:

Lettera del Cardinale Antonelli al conte Cavour.

Eccellenza,

Il signor barone de Roussy, segretario di Legazione di celesta Real Corte, mi consegné la lettera di Vostra Eccellenza del 20 marzo p. p. , insieme all'altra di S. M. il Re Augusto di lei signore pel Santo Padre, nelle cui sagre mani mi feci un dovere di rassegnarla.

Gli avvenimenti leste provocati nelle provincie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna sono di lai natura, che non possono somministra real S. Padre, Vicario in terra di Quegli che è autore della giustizia, titolo alcuno per concorrere alla consumazione della più fragrante ingiustizia. Da ciò comprenderà bene l'E. V. non essere stata in grado la Santità Sua di accogliere come principio di negoziati le proposizioni fattele da S. M. il Re.

Conseguentemente mi duole di doverle dichiarare non poter io spendere in modo alcuno la mia opera al compimento dei voti del Re di lei signore, giusta l'insinuazione da lei fattami, scorgendo impossibile l'apertura dei negoziati sulla base di uno spoglio di una parte degli Stati della Santa Sede, al riconoscimento del quale, per dovere di onestà e di coscienza, mi sarebbe affatto vietato di cooperare.

345 —

In tal incontro ho l'onore di professare a V. E. i sensi della mia più distinta considerazione.

Roma, 2 aprile 1860.

Di Vostra Eccellenza servitor vero

G. Card. Antonelli.

Questa semplice lettera basta per dimostrare chi sia il Cardinale Antonelli, quanto devoto alla S. Sede ed al Sommo Pontefice, E non è l'ultima delle glorie di Pio IX l'aver affidato il governo ad uomo cosi oculato, coraggioso e leale, eludendo sempre le arti, e sprezzando le minacele di coloro che glielo volevano togliere dal fianco.

Noi incominciammo ad ammirare il Cardinale Antonelli 6n dal giorno, in cui la rivoluzione prese a sparlare di lui, e ciò vuoi dire che siamo da lunga data suoi ammiratori. Per noi il linguaggio della rivoluzione è un gran criterio per conoscere i ministri, ed è difficile trovare un personaggio che sia stato più del Cardinale Antonelli malmenato ed odiato dai rivoltosi.

Dalle lettere di un Eremita stampate nella Presse, se non erriamo, del 1850, fino al libello famoso del pazzo Livcrani pubblicato nel 1861, chi può dire le villanie, gl'insulti, i vituperi, le contumelie, le calunnie che i rivoluzionari di tutti i luoghi e di tutti i tempi lanciarono contro questo venerando Cardinale?

Giuseppe Massari fu de’ primi a denigrarlo, perché l'Antonelli non era un grullo, né un addormentato. «L'Eminentissimo Antonelli, scrisse il Massari, è il tipo dell'astuzia cardinalizia, e il futuro storico che narrerà di lui e delle sue politiche geste non dubito avrà a ripetere col Dalhmann essere davvero difficilissima cosa vincere in astuzia un Cardinale» (I casi di Napoli, pag. 135).

Ma l'astuzia dell'Eminentissimo Antonelli è la prudenza del serpente comandata dall'Evangelio, non la diplomazia di coloro che altro dicono ed altro fanno, che stringono la mano in Torino ai legati del Re di Napoli, e gli mandano contro in Sicilia Garibaldi e i suoi mille!

Il Cardinale Antonelli ha ragione di gloriarsi dell'astuzia che gli rimprovera il Massari, come se ne gloriava San Paolo, il quale diceva a quei di Corinto: Cum essem astutus dolo vos cepi (I ad Corinth. e. XII, v. 16).

Ed il Cardinale può soggiungere con S. Paolo: Num quid per aliquem eorum quos misi ad Dos, circumveni vos? Vi ho io mandato un Gian Antonio Migliorati, o un conte della Minerva? Vi ho mancato di parola, o son venuto meno agli accordi? IIo aizzato la rivoluzione contro di voi, o acceso il fuoco in casa vostra? Ilo cercato di togliervi il regno, o una parte del regno, o l'onore, 0 la riputazione?

Farini e Gioberti stamparono dell'Antonelli cose che la nostra penna rifugge di trascrivere; e quando fu esaurito il dizionario dei vituperi, allora sboccarono i sicari, ed uno di questi, il 12 di giugno 1855, investiva con un'arme biforcuta l'Eminentissimo Segretario di Stato, mentre scendeva le scale del Palazzo Apostolico, e fu una grazia della divina Provvidenza se il colpo andò fallito.

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Minacce e lusinghe, lodi e contumelie, tutto venne adoperato contro il Cardinale Antonelli, ma egli stette sempre fermo al suo posto, ridendo degli insulti villani, disprezzando i pericoli, e offendendosi di una cosa sola, degli elogi che gli tributassero i nemici della Santa Sede e di Pio IX.

Tuttavia la rivoluzione prevalendosi di un dignitoso silenzio del Cardinale, insinuava nelle menti degli imbecilli, quorum infinitus est numerus, cento sospetti contro di lui e contro de’ suoi, finchè giunse un cotale che rese all'Eminentissimo Antonelli il più segnalato servizio.

E questi si fu Francesco Liverani, il quale avendo razzolato ne' trivii e nelle taverne, e raccoltone quanto di calunnioso e bugiardo vi si diceva contro il primo ministro del Santo Padre, lo pose in un libello, e mandollo alle stampe. Formulate ed enumerate le accuse la Civiltà Cattolica potè vagliarle una ad una, e le confutò con tale un corredo di prove e di documenti, che la bugia e la calunnia fu messa nella maggiore evidenza, e il pazzo Liverani rimase muto e svergognato.

Di che l'Eminentissimo Antonelli ha ragione di essere grato a' suoi nemici, i quali di questi giorni si unirono per glorificarne il nome, sia colle lettere che gli scrissero, sia coi libelli che pubblicarono, sia finalmente coi sospetti gettati nel processo Mirès, sospetti che valsero sempre più a dimostrare l'onestà e la coscienza intemerata del Cardinale Segretario di Stato.

Oh! il Signore Iddio lo rimeriterà certamente dell'affetto che porta al Vicario di Gesù Cristo, e dell'assistenza che gli prestò a cominciare dall'esilio di Gaeta fino all'ultima guerra che si combatte oggidì nel Vaticano; e come il Cardinale Antonelli piglia parte ai pericoli ed ai dolori del S. Padre Pio IX, così sarà con lui parteciperei glorioso trionfo.

GLI ELETTORI DELLA VENEZIA

E IL BARONE R1CASOLI

(Pubblicato il 29 novembre 1861).

Il sedicente Comitato centrale Veneto presentò al barone Ricasoli il risultato delle operazioni elettorali tentate dall'Austria nella Venezia; e il bar. Ricasoli rispose che «la concorde astensione di più della metà dei votanti è nuova ed indubbia testimonianza dei sensi onde sono animate quelle generose provincie».

Dopo di aver letto queste parole, noi siamo corsi agli Atti ufficiali della Ca-«mera del primo Parlamento d'Italia, e aperto il N» 326, tornata del 21 di novembre 1861, abbiamo trovato le seguenti astensioni: Collegio di Montesarchio ha 952 elettori iscritti, e sono intervenuti 337 votanti — Collegio di Pontecorvo conta elettori iscritti 722, e intervennero come votanti 391 — Il 1° Collegio di Torino ha elettori iscritti 1379-, e sapete quanti intervennero a votare? Intervennero la prima volta 199; e la seconda volta meno ancora, cioè 185. Altro che astensione di più della metà dei votanti! E questo in Torino, capite? In Torino, nella capitale del regno d'Italia?

E ora in questa Torino si trova un Comitato Veneto che invoca le astensioni avvenute nella Venezia?

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E si trova un Presidente del Ministero così soro da piantare il principio che i la concorde astensione di più della metà dei votanti è nuova ed indubbia testimonianza» dei sensi de’ Veneti? E la concorde astensione di due terzi, e tre quarti, e talvolta anche nove decimi degli elettori italiani alle elezioni del regno d'Italia, che vorrà dunque significare?

Deb! signor Ricasoli, almeno non vi date della zappa sui piedi, e tacete per carità, perché ogni vostra parola è uno sproposito, ogni vostro documento un errore. Ecco intanto la lettera del Ricasoli al Comitato Veneto, come viene riferita dal Pungolo di Milano del 27 di novembre, N° 330.

«II sottoscritto si reca ad onore di ringraziare codesto onorevole Comitato della comunicazione fattagli in più volte, sulle operazioni elettorali tentate dal l'Austria per la nomina dei deputati Veneti al Consiglio dell’Impero. La coN. corde astensione di più della metà dei votanti è nuova ed indubbia testimonianza dei sensi onde sono animate quelle generose provincie, è riprova della costanza con cui seppero respingere fin qui ogni arte di un governo che non poggia nell'affetto dei sudditi. Le provincie venete, sebbene oppresse da numerosi battaglioni, pure si affratellano nel fare generosa protesta contro la via lenza straniera e nel sospirare una miglior fortuna, Le altre provincie d'Italia, venute concordi sotto il regime di S. M., tengono conto di quella protesta e di quei voti e vi uniscono i proprii sperando non lontano il giorno, in cui gli urti e gli altri vengano adempiuti.;

«Pertanto il sottoscritto è lieto di cogliere quest'occasione per far plauso alla patriottica operosità spiegata da codesto onorevole Comitato pel bene della patria comune.

«Firmato: RICASOLI».

IL BARONE RICASOLI

REO DI FURTO LETTERARIO A DANNO DI UN FRATE

(Pubblicato il 30 novembre 1861)

In tutta questa settimana siamo venuti esaminando i documenti presentati al Parlamento dal barone Ricasoli, o nella settimana entrante toccherà ai Deputati pronunziare il proprio avviso. Già ventitré oratori si sono fatti inscrivere, venti contro il ministero, e tre soli in favore. La cosa andrà un po' per le lunghe, e forse finirà senza veruna conclusione. Prima però di cedere la parola agli onorevoli del Parlamento, noi vogliamo spendere ancora un articolo per denunziare il barone Ricasoli come reo di furto letterario.

La lettera ch'egli ha scritto al Santo Padre sotto la data del 10 di settembre non l'ha cavata dulia sua testa, né se l'ha fatta compilare da qualche prete Passagliano, come taluno vuoi dire, bensì ha avuto la ridicola sfrontatezza di toglierla quasi parola per parola dal libro di un frate! Sissignori, non contento il Ricasoli d'incamerare i beni dei conventi, si mette anche a svaligiare i libri dei frati per compilare le sue note diplomatiche.

E noi siamo pronti a dare le prove più evidenti di questa nostra denunzia. Negli annali della diplomazia crediamo che non si trovi esempio di un fatto simile, d'un ministro degli esteri che trascrive i libri messi a stampa, e, per giunta, i libri dei frati, e poi osa presentare le sue note alla Francia e ad un Parlamento dei frati nimicissimo.

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Il frate di cui parliamo o D. Luigi Tosti, monaco di Montecassino, il quale pubblicò due volumi intitolati Prolegomeni alla storia universale della Chiesa, e che vennero stampati a Firenze da G. Barbèra. Il Tosti consacra il quinto periodo de’ suoi Prolegomeni all'esame delle presenti condizioni della Chiesa, e noi siamo ben lontani dell'approvare le sue vedute, i suoi giudizi e il suo linguaggio.

Ma qui non si tratta di sentenziare sull'opera sua, bensì di denunziare l'anticlericale Ricasoli come reo di furto letterario a danno d'un frate. Ed eccovi il nostro Presidente del Ministero colto colla mano nel sacco. Aprite il secondo volume dei Prolegomeni del Tosti, capitolo III. Leggete a pag. 550 Della inesauribile, fecondità di nuove forme della Chiesa cattolica in rapporto all'umanità progrediente. Passate poi al capitolo IV, pag. 583, e leggete il paragrafo intitolato: La Chiesa cattolica e il principio delle nazionalità, e in questi due capitoli troverete tutti i pensieri, tutti i ragionamenti, e quasi tutte le parole adoperate da Ricasoli nella sua lettera al Papa!

Eppure in questi due volumi noi veggiamo stampato proprietà letteraria. E perché il nostro Presidente del Ministero non rispettò questa proprietà? Non s'è egli ricordato che in virtù dello Statuto tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili? Oppure volendo scrivere al Papa, perché non mandargli tutta l'opera del Tosti, anziché stralciarne qua e là alcuni periodi, e formarne un centone in forma di lettera al Beatissimo Padre?

Però molti de’ nostri lettori non avranno agio, né volontà di consultare l'opera del Monaco di Montecassino, e noi vogliamo mettere in sodo la nostra denunzia di furto, sicché nessuno possa dubitarne. Laonde scriveremo in due colonne, da una parte i periodi della lettera di Ricasoli al Papa, e dall'altra i periodi dei Prolegomeni del Tosti. Mano adunque a' l'erri, e procuriamo di spennacchiare ben bene la cornacchia, cioè il Ricasoli che si veste della roba di un frate come se fosse cosa propria!

Lettera del Ministro Ricasoli al Papa.

Noi chiediamo che la Chiesa... segua la sua divina missione e mostri sempre più la necessità di se stessa nella inesauribile fecondità de' suoi rapporti con ciò che ella ha una volta iniziato ed i informato...

Di questa sua inesauribile fecondità diede fin qui la Chiesa splendidissime testimonianze trasformandosi sapientemente nelle sue attinenze col mondo civile ad ogni nuova evoluzione sociale.

Oserebbero dire che la parte formale della Chiesa sia da Leone X a noi quale fu da Gregorio VII a Leone X,

Prolegomeni del Monaco di Montecassino.

Della inesauribile fecondità di nuove forme della Chiesa. Potrà mai avvenire che la civile compagnia cristiana assuma tali forme di politica e sociale economia, alle quali non possano più rispondere quelle della cattolica Chieda?...

La necessità di un principio è sempre manifestata dalla inesauribile fecondità de' suoi rapporti con ciò che ebbe una volta informato... Il Cristo custodisce l'opera delle sue mani l'umanità procedente per evoluzione...

S. Pietro, Gregorio VII, Leone X ecco i tre uomini che come da levato loco sollevano nella storia della Chiesa

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e che questa già non fosse mutata da quella che durò da S. Pietro a Gregorio VII ?

Sul principio fu bello alla Chiesa raccogliersi nelle catacombe alla contemplazione delle verità eterne, povera ed ignorata dal mondo; ma quando i fedeli per la conseguita libertà uscirono all'aperto e strinsero nuovo vincolo fra loro, allora l'altare si trasportò dalla nudità delle catacombe allo splendore delle basiliche, e il culto e i ministri del culto parteciparono a quello splendore, e all'ascosa preghiera aggiunse la Chiesa il pubblico e solenne eloquio del magistero che già cominciava ad esercitare splendidamente sulle genti....

Ma quando la società si fu educata ed ebbe ammaestrata ed illuminala la sua ragione, cessò il bisogno, e col bisogno si sciolse il vincolo della tutela clericale : si ricercarono e si ripresero le tradizioni della civiltà antica, ed un Pontefice meritò per quell'opera di dare il suo nome al suo secolo.

La Chiesa non può non essere amica dello svolgimento della nazionalità. Fu provvidenziale consiglio che la gente umana venisse così a ripartirsi in gruppi distinti secondo la stirpe e la lingua con certa sede dove posassero, e dove quasi ad un modo con tempera ti in una certa concordanza di affetti e d'istituzioni, né disturbassero le sedi altrui, ne patissero di essere disturbate nelle proprie.

Qual sia il pregio in che debbe aversi la nazionalità l'ha detto Iddio, quando

la insegna di tre successive forme... Una è la Chiesa che nella persona di Pietro si trasfigura in Gregorio ed in Leone.

Nei tempi apostolici e delle prime persecuzioni la congregazione dei fedeli era un individuo complesso assorto nella intuizione del Cristo... povero il culto, pochi rapporti sociali... Ma coma incominciò la necessaria analisi dell'azione cristiana de' fedeli ... l'altare dalle catacombe venne a posare nelle basiliche ; i Pastori lo seguirono e non potettero più ascenderlo poveri e scalzi. Lo splendore del sensibile culto che mandava quell'altare, circondò loro la persona e la fronte di sensibile ricchezza... e la Chiesa governante dilatò l'eloquio del suo magistero, moltiplicò i suoi giudizi...

Da ultimo entrata quella società teocratica nell'età della ragione, a poco a poco incominciarono a risolversi i legami della clericale tutela. La riflessione temperò il sentimento; l'uomo sociale si riconobbe, e la coscienza dell'unica umanità lo spinse a rannodare i rapporti coll'antico mondo greco romano... e la Chiesa nella persona di Leone X gli offre la forma di una santa conciliazione di due civiltà.

La Chiesa cattolica è il principio
delle nazionalità.
Nostro Signore nel
creare il mondo, a vece di gittarvi alla
sbrancata le piante, gli animali, l'umanità... collocò egli stesso ciascuno a casa sua. Per l'anzidetta divina Provvidenza che volle distinti gli uomini in nazioni, ciascun popolo tiensi contentissimo a casa propria.

Che coda sia una nazionalità, quale il suo pregio l'ha scritto Iddio nella storia del popolo ebreo.


volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi metteva mano ai castigo più terribile di tutti, dando quel popolo in balia gente straniera.

Quando questa gente carnale non obbediva alla sua parola, non intimoriva alle minaccie de' suoi Profeti, punì vaia con ogni generazione di gastighi... E quando neppure allo scroscio di questi flagelli piegava la dura cervice, Iddio metteva mano al più terribile de' temporali gastighi, dava quel popolo in balia dei forestieri.

 

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Noi potremmo continuare questo confronto, ma bastano le arrecate citazioni per convincere il Ricasoli di furto letterario. Oh che presidente del ministero! Egli pretende d'insegnare il Vangelo al Papa, e poi non sa nemmeno scrivere due linee da sè, e le va a levare dal libro di un frate! E per giunta di un frate di que' che vennero soppressi come inutili! Imperocchè sebbene Montecassino sia eccettuato dalla soppressione, tuttavia l'Ordine dei Benedettini, a cui que' monaci appartengono, venne soppresso come inutile anzi dannoso alla società.

Del resto ci duole che Bettino Ricasoli, poiché era in sul trascrivere il libro del frate, siasi fermato nel meglio. Egli avrebbe potuto provare al Papa Pio IX, che il Parlamento Italiano era il Cenacolo, e i Deputati gli Apostoli. «I dodici Apostoli dice il Tosti, con Maria nel Cenacolo sono i Deputati delle nazioni del mondo» (Prolegomeni, vol. II, pag. 592). Ve però questa diversità, che gli Apostoli Deputati non vennero eletti dal popolo, ma Dio solo volle eleggerli e mandarli. Ego elcgi vos.

Il Tosti a pag. 587, por dimostrare il diritto di nazionalità scrive: «La nazione che rompe la siepe della sua vicina è maledetta; chi s'intromette nella vigna di Nubot per farla sua, darà il suo sangue a lambire ai cani come una Jezabelle... Ad uni eserciti e si faccia puntellare il trono dalle spade chi, a dispetto di Dio o dell'umanità, vuoi dominare a gente non sua; 'ogli starà, fino a che Iddio il permette, a punizione di nazionali peccati; egli sarà pietra di anatema in Israele. Ma non levi al ciclo la incoronata fronte ad invocare il diritto divino, che consagri il sacrilegio: Iddio non si deride. Sì, Iddio invocato verrà; ma passerà oltre, lasciando quella fronte come un tielboe, digiuna delle sue benedizioni».

Questo era un bel passo molto eloquente, ma Bettino Ricasoli non lo ricopiò. Ricopiò invece ciò che segue subito dopo:

Lettera di Ricasoli al Papa.

Quale sia il pregio in che debbo aversi la nazionalità l'ha detto Iddio, quando volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi met­teva mano al gastigo più terribile di tutti, dando quel popolo in balia di gente straniera.

 Prolegomeni del Monaco.

Che cosa sia una nazionalità, quale il suo pregio l'ha scritto Iddio nella storia del popolo ebreo. Quando nep­pure allo scroscio di questi flagelli piegava la dura cervice, Iddio metteva mano al più terribile dei temporali gastighi, dava quel popolo in balia dei forestieri.

 

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Ma perché Bettino Ricasoli ha rubato queste parole del frate, e non le altre che precedono, principalmente queste: «Chi s'intromette nella vigna di Nabot per farla sua, darà il suo sangue a lambire ai cani come una Jezabelle?» II Ricasoli non ha rubato queste parole perché erano già state rubate dal frate medesimo. E sapete a chi? Al glorioso Pontefice Pio VII, nella Bolla di scomunica che incomincia Cum memoranda illa die, lanciata il 10 di giugno del 1809 contro Napoleone I e gl'invasori degli Stati Pontificii. Ecco le parole della Bolla volte in lingua italiana.

«Noi ci siamo ricordati, dice Pio VII, ci siamo ricordati con Sant'Ambrogio, come il santo uomo Nabot, possessore di una vigna, interpellato da una domanda reale di dare la sua vigna, dove il Re dopo aver fatto sradicare gli sterpi, ordinerebbe di piantare dei legumi, rispondesse: Dio mi guardi di consegnare l'eredità de’ miei Padri. Da ciò abbiamo giudicato che ci era molto meno permesso di consegnare la nostra eredità antica e sacra, cioè a dire il dominio temporale di questa Santa Sede posseduto per tanti secoli dai Pontefici Romani nostri predecessori, non senza ordine evidente della divina Provvidenza; o.di consentire facilmente a chicchessia d'impadronirsi della capitale del mondo cattolico».

Quando Bettino Ricasoli fu per trascrivere nella sua lettera a Pio IX il detto del frate: «Chi si intromette nella vigna di Nabot per farla sua, darà il suo sangue a lambire ai cani», disse a se stesso — Alto là, Bettino! Questo poi non lo devi trascrivere. Sarebbe un imboccare la risposta a Pio IX, che ci verrebbe fuori colla vigna di Nabot, come già Pio VII, a Napoleone I. Padre Luigi, tenetevi pure Nabot e la sua vigna, che non fanno per me. — E in cosi dire, Ricasoli saltò di botto alla nazionalità del popolo ebreo. Pensò, è vero, che gli ebrei dell'Opinione di Torino e della Nazione di Firenze ne avrebbero avuto un po' di dispiacere, e per loro riguardo soppresse le parole di gente carnale, dette dal frate della nazione giudaica. E Jacob può esserne contento!

Oli! certo, bisogna confessare che il Ricasoli ha rubato dal frate tutto ciò che faceva per sè, omettendo il resto. Per cagione di esempio, il Tosti, parlando della nazionalità, si leva, a pagina 598 del volume II de’ suoi Prolegomeni contro l'impero babelico dei tempi presenti, che fu quello di Napoleone I, il quale «con la coppa della francese rivoluzione inebriò le nazioni, con la spada se le mise innanzi come armento». — E queste parole, disse tra sé e sé il Ricasoli, non le trascrivo neppure. Non sono un'oca, io! La mia lettera prima di andare al Papa deve passare alla revisione; ho da mandarla a Napoleone III, che è il nipote dello zio Napoleone I, e se dico male di lui sto fresco! Già con Napoleone III sono in mala voce, e se gli dico ancora che suo signor zio si mise innanzi i popoli come armento, mi manda a Cajenna. Ah! questi frati, questi frati... Gira e rigira, sono sempre frati. — E il Ricasoli diceva male dei frati nell'atto medesimo che li svaligiava! Compatitelo, Padre Luigi.

Noi potremmo ancora continuare quest'articolo, ma forse il Ricasoli ne avrà abbastanza. Gli daranno il resto i Deputati se sentono la loro dignità e la dignità del paese.

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VITUPERII E CALUNNIE

CONTRO IL NOSTRO SANTO PADRE PIO IX

(Pubblicato il 1° dicembre 1861).

Restammo per molto tempo in forse se convenisse all'armonia far cenno di due atroci calunnie gettate recentemente contro il nostro Santo Padre Pio IX, e non tornasse meglio lasciarle sepolte nel pubblico disprezzo. Ma dopo di averci pensato seriamente ci risolvemmo di discorrerne, perché coteste nuove infamie mettevano sempre più in mostra lo schifoso aspetto della rivoluzione, e indirettamente rispondevano ai ministri, che vorrebbero recare in Roma la libertà di Torino, e affiggere alle cantonate di S. Pietro, e vendere sotto le finestre del Vaticano i cartelloni e i giornali che si spacciano sulle rive del Po.

Sappiasi adunque da' cattolici, che i giornali torinesi, caldissimi ministeriali, hanno accusato Pio IX di essere un Framassone, e di avere dato il nome ad una Loggia di Franchi Muratori, e sappiasi di più, che sulle mura di Torino si legge, e per le vie della nostra città si vende una Strenna pèl 1862, intitolata: Le avventure galanti del conte Mastai Ferretti, già tenente di cavalleria, ora Papa Pio IX, narrate da una Monaca ad un Frate Zoccolante. La Strenna è stampata a Milano, tipografia Bozza, contrada S. Prospero, IS0 5, e il fisco di Milano la lasciò liberamente pubblicare, e di là venne a Torino, dove il ministero la lascia vendere pubblicamente e ne legge affissi gli annunzi sugli angoli della città, e vede con indifferenza i monelli che l'offrono ai passanti.

A tal punto dovea giungere la nostra Torino? Ah Santo Padre, perdonate a questi calunniatori, perdonate a noi che abbiamo avuto l'ardimento di ristampare l'infamissimo titolo. Vi chiediamo perdono in nome di Gesù Cristo, a cui fu detto dai Farisei: Daemonium habes: sei un indemoniato; in nome di Gesù Cristo che fu saturato d'obbrobrii, e udì multi bellantes contro di se; in nome di Gesti Cristo che fu accusato di cacciare i demonii in Beelzebub Principe daemoniorum. Questi vituperi, queste calunnie mettono il colmo all'iniquità, e di Torino può tosto dirsi ciò che Vincenzo Monti cantava dell'empia Parigi, la cui lordura e Par che dal puzzo i firmamenti ollenda «.

Gesù Cristo calunniato soventi volte come appartenente a società diaboliche, talora lo negò, e talora tacque; quia permisit alios sibi faventes pro se rispondere, come nota Cornelio A Lapide. Anche Pio IX fin dal 1847 veniva accusato dagli empii d'indifferentismo, e sull'esempio de l divino Maestro nella sua Allocuzione Ubi Primum rispondeva all'atroce calunnia, e, dopo di avere esposto il tristissimo sistema de’ rivoluzionarii che trovano buona ogni dottrina, e la paragonano alla fede cristiana, conchiudeva: Dcsunt nobis prue horrore verba, ad novam hanc cantra nos et tam atrocem iniuriam detestandam (1).

Ma non perciò i rivoluziormri cessarono dui calunniare Pio IX. Pubblicavasi in Roma sotto Mazzini un giornale intitolato il Positivo, e questo nel suo N. 35 del 21 di marzo 1849 stampava elio Pio IX apparteneva alla Giovine Italia, e il giornalista, aggiungendo la malizia all'insulto, asseriva che

(1) Pio IX Pontificis Maximi acta, pag. 70.

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l'asserto «nulla scema all'autorità pontificia, e nulla a quel principio che noi veneriamo nell'augusto Capo della cattolica Chiesa».

E il Positivo nel suo N. 37, pag. colonna 1, ribadiva la calunnia, e ripeteva che il conte Giovanni Mastai da secolare fu ascritto alla setta dei Carbonari, o da Vescovo alla Giovine Italia (1).

E Pio IX tacque. Ma il Costituzionale Romano, giornale cattolico, che per poco tempo potò allora veder la luce nella Roma di Mazzini, levossi indegnato contro tanta sfrontatezza, e il Positivo fin dal 28 di marzo 1849, N. 41, incominciava a brontolare una scusa, dicendo: «Il Positivo non ha dato per certo il fatto, ma di più ha confessato di non veder prove sufficienti per giudicarlo autentico». Più tardi, cioè il 28 di giugno del 1857, il direttore del Positivo ritrattava ampiamente e lodevolmente le sue calunnie, e diceva:

«Riconoscendo di avere, in varii miei scritti mandati alle stampe, erroneamente impugnati i sacri ed inviolabili diritti del Romano Pontefice riguardo al suo regno temporale, e di avere recato oltraggio al Clero cattolico, ed alla stessa venerabile persona di Sua Santità Pio IX gloriosamente regnante, con atto di mia spontanea e piena volontà disapprovo, condanno, ritratto pubblicamente quanto nei suddetti miei scritti e nel mio stesso procedere vi è stato di offensivo ai diritti sì spirituali come temporali del Romano Pontefice, di oltraggioso alla sacra persona di Sua Santità Pio IX gloriosamente regnante, ed al Clero cattolico, ed erroneo e mal sonante in materia di fede e di scandaloso ai fedeli di Gesù Cristo».

E l'antico direttore del Positivo conchiudeva: «Dichiaro e protesto dinanzi a Dio ed agli uomini di volere colla divina grazia, che umilmente imploro, di portarmi in avvenire, in parole ed in fatti, conformemente a' miei doveri e cristiani e sacerdotali per trovare misericordia e salute al tremendo giudizio di Dio che mi aspetta, e meritarmi pietoso perdono dal suo santo e degnissimo Vicario e Supremo Pastore e Padre dei fedeli Pio IX, cui il Signore Iddio conceda giorni lunghi e felici (2)».

Di questa ritrattazione non si danno por intesi i giornali libertini, e ripetono le accuse antiche che Pio IX fu iscritto tra i Framassoni. Non sappiamo se sieno costoro più impudenti o più ignoranti. La prima Enciclica di Pio IX, assunto appena sulla cattedra di San Pietro, fu invece contro le società massoniche. Il9 di novembre del 1846 egli dinunziava all'Episcopato cattolico «quelle sette clandestine sboccate dalle tenebre a rovina e devastazione di ogni cosa sacra e pubblica»; e ricordava come i suoi predecessori le avessero colpite d'anatema; Clemente XII colla Costituzione In Eminenti, Benedetto XIV colla Costituzione Providas, Pio VII colla Costituzione Ecclesiam a Jesu Christo, Leone XII colla Costituzione Quo graviora. Le quali Costituzioni conchiudeva il nostro Santo Padre Pio IX «Apostolicac nostrae potestatis plenitudine confirmamus et diligentissime servari mandamus (3)».

E dopo di ciò vengono a dirci che Pio IX è Framassone! Ah, se lo credeste, se lo speraste, non sareste così arrabbiati contro di lui, non cerchereste no, né di spogliarlo, né di vilipenderlo, né di calunniarlo.

(1) Vedi II Prelato Italiano, ecc. Torino, 1850, pag. 26, 103, 119, 315.

(2) Le vittorie detta Chiesa nei primi anni del pontificato di Pio IX. Milano, 1859; quarta edizione, pag. 404.

(3) Allocuzione: Qui pluribus (Acta Pii IX, pag. 4).

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Pio IX è il vincitore della Massoneria, egli ne ha sventato le cabale, ne ha scoperto le congiure, ne ha smascherato le ipocrisie, l'ha fermata nel suo cammino, n'ha schiacciato il capo inverecondo.

Epperò la Massoneria si vendica di Pio IX, e destituisce il Gran Mastro che, per proprio interesse, non volle spogliare il Romano Pontefice, e leva alle stelle il principe Napoleone che ha proclamato la guerra al Vaticano. La Massoneria fa di più per vendicarsi di Pio IX, e conoscendo se stessa e le sue vergogne, non sa dove trovare peggiore insulto che appiccare il suo nome al Vicario di Gesù Cristo.

Ma questo insulto fu già fatto a Dio stesso. Schmitz, massone inglese, non ha detto che Dio era il primo Framassoue, e che non potendo egli tenere la Loggia lasciavano la cura ad Adamo? (I). Non è dunque da maravigliare se osano costoro gettare sul Vicario di Gesù Cristo quel vitupero onde già copersero il creatore dell'universo, e Gesù medesimo chiamandolo framassone, sansculottes, rivoluzionario.

Ora dovremmo scrivere due parole sull'altra accusa, ma la penna ci cade di mano, e non vuole vergare una sola linea sul sucido argomento. No, noi non faremo all'angelico Pio IX, al Pontefice dell'Immacolata, il torto di difenderlo da tanta calunnia. Gettate pure, o tristi, gettate la vostra bava contro l'intemerato padre dei fedeli. Essa non giunge fino a lui, così elevato, e ricade sul capo vostro. Voi che seminate il lezzo per tutta l'Italia, e l'avete ridotta non donna di provincia, ma... osate poi di vilipendere un Pio IX! Voi! (2).

Che dire intanto del barone Ricasoli che vuole ottenere un trionfo morale sul Papa, che vuoi provare al mondo cattolico come Pio IX possa vivere quieto, tranquillo, onorato in una Roma non sua, e poi in Torino, che per ora tiene il luogo di Roma, lascia stampare e vendere queste vergogne? Che dire d'un Regno d'Italia che dà simili Strenne agli Italiani, e incomincia fin d'ora il 1862 colla menzogna e colla calunnia? E sperate che ogni cosa possa riuscirvi a bene, che l'Italia, che il Piemonte principalmente possa divenire grande, rispettato e felice? Noi citeremo al Ricasoli due linee tolte dal libro di quel frate, a cui ha rubato la sua lettera scritta il 10 di settembre al Santo Padre: «La superbia cava le fondamenta della torre babelica, ed è fulminata; la carità fonda quella della Chiesa, e la sua cima è già nel ciclo da diciannove secoli (3)».

(1) Bazot, Code des Francs-Maçons, pag. 121.

(2) Nell'opera di Parent-Duchatelet (Parigi, 1837) si trovano cifre e documenti sulla moralità di Torino, e uno di questi documenti sottoscritto da Urbano Rattazzi, Presidente della Camera dei Deputati del regno d'Italia!

(3) Prolegomeni alla storia universale della Chiesa, per D. Luigi Tosti, monaco di Montecassino, voi. Il, pagina 592.

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PROTESTA DEL CARDINALE VESCOVO DI IESI

PER SACRILEGIII INSULTI A PIO IX

Era già stampato l'articolo precedente, quando ci giunse da lesi una lettera di protesta, che quell'esimio Vescovo, l'Eminentissimo Cardinale Monchini, mandò al prefetto Bollati in Ancona. Da questa lettera risulta che anche in lesi si vende il libello famoso contro il Papa Pio IX, che noi dovemmo, nostro malgrado, citare, e che sui cartelloni figurano le monache e i frati, come in Torino. Lode al zelante Pastore di lesi! La sua protesta è una solenne risposta alla circolare del Ministro Guardasigilli. A Napoli si fucila, e nel resto d'Italia la rivoluzione tenta di uccidere il Papa gladio linguae, come già i giudei uccisero il Redentore!

Eccellentissimo signor Prefetto,

Iesi, li 27 novembre 1861.

Più volte ho dovuto grandemente querelarmi colle autorità locali di questa città per gl'insulti che si fanno alla religione ed al costume, o colla pubblica vendita di libri empii ed osceni, o colla esposizione d'immagini turpi e sacrileghe, o colla violazione e profanazione dei giorni e de’ luoghi più santi, o per altre siffatte cose: ma sempre i miei giusti e ripetuti richiami sono stati indarno. Ora nuovi e dolorosi fatti mi spingono a recare le mie querele e le mie protestazioni a V. S. Ecc.ma, la quale, vorrei sperare, sia per fare loro diritto, opponendo un qualche riparo a tanto male. Sulle scene di questo teatro dileggia\asi la sacra persona del Papa, e quasi ciò fosse poco, quest'oggi era affisso un manifesto per la pubblica vendita di certo libercolaccio, il cui titolo mi vieta il pudore di riferire. In questa sconciatura piena di menzogne, di calunnie e di bestemmie si prende pur di mira la sacra persona del nostro Santo Padre, osi oltraggia nei modi più turpi ed empii col Capo augusto della religione la religione stessa, e perfino la Vergine Immacolata. Questa, signor Prefetto, non è libertà, ò sfrenata licenza, e la legge e chi tiene il potere dee infrenarla, se non vuoi vedersi la società precipitare sempre al peggio. Se non si rispetta quell'autorità, che è la più sacra e la più veneranda sulla terra, crede ella che si avrà riguardo per le altre di un ordine certamente inferiore? Questi miei diocesani buoni, religiosi e devoti al Papa ne sono stati altamente indignati, perché si veggono offesi con queste pubblicazioni in ciò che hanno di più caro. Lo scorso settembre, in pieno giorno., alla presenza di molti si strappava dalla porta d'una chiesa un Sacro Invito del Vescovo, col quale si eccitavano i fedeli a celebrare divotamente il triduo e la festa di S. Settimio, principal protettore. di questa città e diocesi. Ed una stampa irreligiosa con figure messe a dileggio si lascia sotto gli occhi del pubblico dov'è la maggior frequenza del popolo; ed un libello infamatorio di lai fatta si licenzia alla vendita, e non v'ha alcuno che vi frapponga il minimo ostacolo, lo adunque a nome della religione, della giustizia e del pudore chieggo pronta riparazione a sì gran male, ed ordini tali che ne impediscano dappoi la ripetizione. Riceva i sentimenti della mia considerazione

Finn: C. L. Card. Morichini, Vescovo.

Al sig. Prefetto Bellati

Ancona.

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ROMA E IL DEPUTATO FERRARI

(Pubblicato il 4 dicembre 1861).

Mazzini e Ferrari sono empii, ma logici nella loro empietà. Essi comprendono che Roma papale è una parte del grande sistema cattolico e monarchico; quindi vogliono togliere Roma al Papa, la monarchia all'Europa e il Cattolicismo al mondo. Laddove i moderati meno sinceri, più ipocriti, epperò ravvolti in continue contraddizioni, affermano di volere bensì togliere Roma a Pio IX, ma di venerare il Pontefice, di rispettare, amare, professare il Cattolicismo, ed anzi di volere concedere libertà alla Chiesa.

Mazzini fin dal 1858 diceva agl'Italiani: colla monarchia voi non andrete mai a Roma. Eccone le parole tolte dal Pensiero ed Azione che Mazzini pubblicava a Londra, N° del 1° settembre 1858, pag. 4: «Roma, la nostra capitale, la nostra città sacra è vietata alla monarchia. Può un Re togliere Roma al Papato? Può un'autorità derivata, secondaria, cancellare, avversando risolutamente il Papato, la sorgente d'ogni autorità nell'Europa d'oggi? Può un Re bandir guerra a tutta quanta l'Europa governativa, consumando il più grande atto rivoluzionario che or possa idearsi?»

E nello stesso giornale Pensiero ed Azione, numero del 15 di novembre 4858, pag. 85, Mazzini soggiungeva: «Caduto il Papa, cadono prive di base le monarchie. Può un Re, rimanendo tale, vibrare quel colpo e costituirsi carnefice del principio, in virtù del quale egli stesso regge?» Basta enunciare queste domande per comprendere di bettola risposta. Un giornale, che si dice avversario di Mazzini, la Gazzetta del Popolo, il 27 di novembre del 1861, N° 328, ripeteva alla lettera ciò che Mazzini aveva scritto nel 1858, che cioè un Re non poteva stare nella Roma dei Papi, perché bisogna che il Papa, abbia una sede sua, dove nessun Re gli stia o sopra, o sodo, o a fianco.

Quello che Mazzini asseriva principalmente della monarchia, Giuseppe Ferrari l'applica al Cattolicismo. Il Ferrari chiamò se stesso nella Camera: «Un antico soldato di questa immensa guerra fatta dal mondo civile contro il Sommo Pontefice». E ripigliava: «Io nacqui, io vissi tra i nemici suoi... e ora impaziente, ora attristato, ora fremente, ora desolato, qualunque fosse l'attitudine mia esteriore, io ho sempre voluto andare a Roma (Atti ufficiali della Camera, tornata del 26 marzo 1861, N. 40, pag. 144)».

Ma per andare a Roma, secondo il deputato Ferrari, bisogna distruggere il Cattolicismo. Il 27 di maggio del 1860 Ferrari avea detto alla Camera. «Il Papato che voi credete morto, o quasi morto, io che non sono sospetto di troppo j ciecamente venerarlo, lo credo fortissime; io veggo che quanti lo assaltano coraggiosamente, capitano male (Atti uff. N. 42)». E il 26 di marzo del 1861

Lo stesso Ferrari diceva al conte di Cavour: «Senza idee non si rimane a Roma, che è fatale ai Re, che non fu mai vista dall'ultimo suo Re, e che voi dovete rendere meno funesta all'attuale famiglia regnante (Atti uff., del 1861, N. 40, pag. 144)».

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Laonde il Ferrari fin dal marzo di quest'anno denunziava alla Camera, chela rivoluzione capitanata dal nostro governo non sarebbe andata a Roma, o non vi sarebbe rimasta. E perché? Perché le e raccomandazioni, diceva Ferrari, che erano fatte dal Presidente del Consiglio (Cavour) di attenerci alla religione cattolica, di essere sempre più religiosi nell'atto stesso che è da noi spogliato il Pontefice non sono conformi alle tradizioni della moderna civiltà». Secondo il Ferrari, per andare a Roma era mestieri mutare sistema, disfare il Cattolicismo: «Rimanendo l'antico sistema, si rimane nell'antichissima Italia; si fanno regni che svaniscono in un istante; e pur troppo la penisola nostra è, secondo le parole di Macchiavelli, il paese delle conquiste miracolose, ma anche delle disfatte non meno miracolose, come si scorge da Braccio da Montone, da Francesco Sforza, dai condottieri che regnarono sulla terra dei Papi col titolo di Vicari della Chiesa, e la cui dominazione in pochissimi anni svaniva per sempre (loc. sup. cit.).

E il Ferrari conchiudeva: «Non con eccessi di devozione, non con dottrine teologiche, ma colle idee proclamate dalla rivoluzione francese si può vincere la causa che diciamo di Roma». E quali sono queste idee e questi principii? Ferrari rispondeva: «Questi principii sono quelli degli Enciclopedisti, di Rousseau, di Volture, dei liberi pensatori, e ci possono redimere dal Pontefice, perché riscatano la ragione».

Il 2 di dicembre, lo stesso Deputato, inaugurando col suo discorso le nuove interpellanze si Roma, ripeteva le stesse idee e cantava vittoria contro il ministero, che non ha potuto fin qui mettere il piede in Roma ed anzi ogni giorno più se ne allontana. Il deputato Ferrari ha ragione. Se vogliamo restare cattolici e rispettare Pio IX come Pontefice dobbiamo pure rispettarlo come Re. Se s'intende di spoglia-Io come Re, si deve pure esautorare come Pontefice, altrimenti non si va a Roma. E il Ferrari in ciò è conseguente a se stesso, ed è logico come Mazzini.

Conchiudiamo, che troppa materia abbiamo di questi giorni per le mani, e ci conviene raccoglile documenti piuttosto che entrare in raziocinii. Se si vuole spogliare il Papajella sua Roma, bisogna rinnegare la monarchia, rinnegare il Cattolicesimo. Le lettere di Ricasoli sono sacrilegii, e i libelli Pro Causa Italica ipocrisie vigliaceli'. Per procacciare a Roma le delizie di Napoli sono pronti i Romani, pronti gì altri Italiani, pronti principalmente i Piemontesi a rinnegare la religione cattolica? So sì, vadano innanzi; accumulino rovine sopra rovine, e innalzino altari alla Dea Ragione; ne raccoglieranno a suo tempo i frutti. Ma se inorridiscono a tale proposta, oli! allora si fermino sulla lubrica via, e s gettino a' piedi del Santo Padre Pio IX.

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Il deputato Ferrari fece un'allusione al plagio del barone Ricasoli, il quale, come abbiam dimostrato, rubò la lettera che scrisse al Papa, dai Prologomeni di 1). Luigi Tosti, monaco di Montecassino. Il deputato Ferrari disse che si proponeva di esaminare i documenti presentati dal Ricasoli, e soggiunse: «Il mio esame sarà tranquillo come se si trattasse di una discussione pacifica con un monaco di Montecassino». Gli Alti Ufficiali notano ilarità. E di fatto avendo il Ricasoli ricopiato le pagine del monaco di Montecassino, i Deputati che discutono con Ricasoli, discutono col monaco, e il Ricasoli non è altro che il gerente dei Prolegomeni. Oh povero regno d'Italia!

LE OPINIONI DEI DEPUTATI

SULLE OPINIONI DI NAPOLEONE III

(Pubblicato il 7 dicembre 1861 ).

In geometria ed in alchimia vi hanno due questioni ormai riconosciute insolubili, la quadratura del circolo e la scoperta del lapis philosophorum, che dovrebbe servire per tramutare in oro tutti i metalli. A queste quistioni sta per aggiungersene una terza di eguale difficoltà, ma d'ordine politico, vale a dire se la maestà di Napoleone III sia favorevole al Santo Padre Pio IX, ovvero alla rivoluzione italiana. che vuole levargli perfino la sua Roma.

È dal 2 di dicembre che la nostra Camera dei Deputati discute su questo punto, e chi sta per l'una, chi per l'altra sentenza, e ognuno con i suoi argomenti, i suoi fatti, le sue speranze, i suoi timori; ma il dubbio non cessa né in questi né in quelli, e ormai si riconosce il problema difficilissimo e condannato come gli accennati problemi, a martellare la tessa di qualche dotto, senza nessun vantaggio per la scienza sociale.

Tuttavia sarà bene raccogliere le diverse opinioni emessj su questo tema delle simpatie, delle amicizie, delle alleanze, delle protezioni napoleoniche, giacchè noi riputiamo fatto gravissimo e forse singolare nelle istorie, che di un uomo come il Bonaparte che impera dal 2 dicembre del 1851, cioè da dieci anni, ed ha tento scritto, tanto parlato ed operato cotanto possa nondimeno discutersi ancora, e non per celia, ma da senno, che cosa egli pensi e voglia; chi aiuti e protegga chi abbia da sperare o temere del fatte suo.

Le opinioni manifestate intorno al grande problema politico sono quattro. 1 primi dicono che Napoleone III sta per la rivoluzione italiana, che l'ha assistita, l'assiste e l'assisterà anche nell'avvenire. I secondi affermano che Napoleone III sta pel Santo Padre Pio IX, essendo obbligato a lui con solenni promesse, e così esigendo la Francia e il suo particolare interesse. 1 terzi sostengono che Napoleone III è ad un tempo favorevole ed alla rivoluzione italiana ed al Papa, che s'ha messo in testa che la rivoluzione e la Chiesa possano andare d'accordo, o vuole perciò che la rivoluzione non offenda Pio IX, né il suo potere, e in pari tempo pretende che nessuno tocchi la rivoluzione.

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Finalmente i quarti opinano che Napoleone III non sia amico né della rivoluzione, né della Chiesa, né de’ cattolici, né degl'italianissimi, né di Pio IX, né di Bellino Ricasoli, ma solamente di se stesso e del suo Impero; e di Roma e d'Italia, e del Papa e del Piemonte voglia usare a proprio vantaggio.

Questo è il sunto delle diverse opinioni, ed ora sarà pregio dell'opera dar di piglio agli Alti Ufficiali della Camera, e venire enumerando i Deputati che la pensano in una delle quattro maniere accennate, recandone in mezzo, come è nostro costume, le precise parole.

Opinione del dep. Ferrari sulle opinioni di Napoleone III.

Il deputato Ferrari, che parlò il primo nella tornala del 2 dicembre, disse così: «Che pensa l'erede di Napoleone I della tradizione che lo precede? Su qual punto del passato si Essa il suo sguardo? Forse sulla statua rovesciata della Dea Ragione? Forse sull'incoronazione di Napoleone I? Io non lo so, non devo saperlo, solo posso dire che i documenti, la storia, le leggendola filosofia della Francia contemporanea dicono grande essere la vita delle nazioni, e che in ogni modo la gran questione di Roma, questa questione che è vanto e tristezza dell'Italia nostra, abbraccia il mondo colla religione e l'universo intero con Dio. Qui tutto è grande, tutto terribile; trattasi di Voltaire, di Ronald, di Bossuet, di Rousseau, dei grandi campioni della causa dell'umanità. Che cosa avrà dunque pensalo Napoleone III leggendo che il sig. Ricasoli desidera di andare a Roma al più presto possibile null'interesse del regno? Ancora una volta noi non lo sappiamo, ma possiamo congetturare che avrà trovala la nota non seria, e lo avrà detto nello stile garbatissimo della lingua francese che aguzza e dissimula ogni epigramma» (Atti Ufficiali, N. 337, pag. 1301).

Un antico diceva: Hoc unum scio me nihil scire. In sostanza il Ferrari ripete lo stesso sulle opinioni di Napoleone III. Pensa però che il Bonaparte non reputi impresa da pigliare a gabbo il toccare Roma, che ricordi l'avvenuto allo zio Napoleone I ed al cugino Napoleone 11, e che quindi abbia riso di Ricasoli che vuole Roma, e della lettera che per ciò aveva scritto e voleva mandare al Santi) Padre. Nella gran questione di Roma tutto è grande e terribile, salvo però i documenti di Bellino Ricasoli, che sono eminentemente ridicoli.

Opinione del dep. Alfieri sulle opinioni di Napoleone III

II deputato Alfieri, quantunque privo della medaglia dei Deputali, che si lasciò rubare viaggiando da Firenze a Bologna, fu il secondo a parlare delle opinioni del Bonaparte. A suo parere Napoleone III si assunse l'incarico di mandatario del Cattolicesimo in Roma, e non vuole, e non può consegnare l'indipendenza del Pontefice al ministero nostro. Udite l'Alfieri, non l'Astigiano, ma lo smedagliato:

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«lo non posso meravigliarmi che il nostro potente alleato, essendosi (a torto, od a ragione, non tocca a me di discuterlo) assunto l'incarico di mandatario del Cattolicesimo in Roma, non abbia creduto di adempiere a tale suo mandato, confidando la sicurezza e la indipendenza del Pontefice al ministero nostro in quei tempi; bensì mi meraviglio che i nostri ministri abbiano potuto farsi questo concetto anche per un giorno solo, e molto più che abbiano preso questo supposto a base di tutto un loro sistema politico» (Atti Uff., N. 337, pag. 1304).

Opinione del dep. Massari sulle opinioni di Napoleone III.

Il deputato Massari parlò egli pure il 2 dicembre, e convenne che per ora a Roma non si va, non si può andare, e non si vuole andare; perché la Francia ci ha dato un rifiuto. Nondimeno crede il Massari che Napoleone Il1 sia estremamente benevolo verso di noi, anche quando rifiuta, quando ci rimbrotta, quando ci flagella, come la madre del Filicaia che i figli con pietoso affetto

«Stringe e d'amor si strugge a lor davante...

E se ride o s'adira, è sempre amante».

«O signori, cosi il Massari, noi dicevamo che a Roma si deve andare, non contro la Francia, ma d'accordo colla medesima. Per ora c'è stato un ritinto. Noi dobbiamo rispettare ed apprezzare le cagioni di questo rifiuto. Certo, siccome esso è proceduto da un governo, le cui intenzioni estremamente benevole verso di noi non sono un mistero per nessuno, e che sarebbe mostruosa ingratitudine di negare, così questi motivi hanno dovuto essere rispettabili, ed io li rispetto» Atti Uff., N. 338, pag. 1305).

Opinione del dep. Musolino sulle opinioni di Napoleone III.

Il deputato Musolino non confida per niente su Napoleone III. Egli l'ha detto senza ambagi, e le sue parole non abbisognano di commento. Potremmo riferire per intero il suo discorso, ma basti il brano seguente:

«La Francia ci ha dato la Lombardia, perché servisse di base alla futura unità italiana? Proclamò il principio di non intervento, perché noi potessimo, avere quella libertà di azione che avemmo? Le annessioni posteriori furono nelle intenzioni, nelle previsioni della Francia? Sono questi, o signori, i problemi che io v'invito a meditare e risolvere. Se voi vi limitate all'apparenza, avrete senza dubbio motivo di essere grandemente soddisfatti; ma se guardate alla realtà, trovate materia di essere spaventati. Imperocchè non siamo stati noi che abbiamo guadagnato il gabinetto della Tuilleries; ma è desso che ha guadagnato noi; noi finora siamo stati strumenti della di lui politica, ed il soccorso che ci concesse fu più nel suo, anzichè nel nostro interesse» (Atti Uff., N. 338, pag. 1307).

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Opinione del dep. Brofferio sulle opinioni di Napoleone III.

Il deputato Brofferio nella tornata del 3 di dicembre distinse tra Francia e Francia, tra Francesi e Francesi, tra Napoleoni e Napoleoni, e incominciò il suo discorso così: «Io invio un saluto di fraternità alla Francia. Non alla Francia che regna e governa per opprimere e per calpestare, ma alla nazione generosa, nobile, forte, intelligente, che colla sua rivoluzione chiamò tutti gli altri popoli sulla via della giustizia, del progresso, della civiltà, dulia risurrezione. Essa ha diritto alla pubblica riconoscenza (Mene I)» (Atti Uff., N. 339, pag. 1312).

Opinione del dep. Ricciardi stille opinioni di Napoleone III.

Il deputato Ricciardi che parlò nella tornata del 4 di dicembre, fu esplicito come il deputato Musolino. Ricciardi ama la Francia per tante ragioni, e principalmente perché in Francia nacquero le sue figlie; ma non ama Napoleone III, perché se le sue figlie nacquero in Francia, non nacquero però nelle Tuillerie. Ecco le parole del Ricciardi: «In primo luogo credo necessario dover dichiarare la mia simpatia profonda per la nazione francese; per la Francia, dalla quale ho ricevuto affettuosa ospitalità durante tutta la mia vita esulante; perla Francia, in cui nacquero le mie figlie; per la Francia, la quale versava per noi il sangue suo più generoso a Magenta ed a Solferino; ma la Francia e colui che la regge supremamente, la Francia e colui, nelle cui mani quel popolo generoso ha abdicato il suo libero arbitrio, non sono la medesima cosa. Ora per me sta che Napoleone non vuole punto né poco quello che noi vogliamo» (Atti Uff., N. 341, pag. 1317).

Opinione del dep. Rattazzi sulle opinioni di Napoleone III.

Finalmente chiuderemo questa rassegna esponendo l'opinione del signor Rattazzi, che sebbene reduce da Parigi ne sa meno degli altri. Nel suo brindisi detto nell'Hotel du Louvre si guardò ben bene dal proferire una parola su Roma, pel timore che il Bonaparte gli tirasse gli orecchi; ma in Torino, lungi dal pedagogo, sfringuellò un discorso eterno su Roma. Innanzi tutto premise: ed è evidente che non ci è possibile avere Roma; ma poi conchiuse che Napoleone III tardi o tosto ce la darà. Uditelo:

«lo domando, o signori, se il governo francese avesse avversato l'unità italiana, se avesse voluto che l'Italia fosse divisa e dipendente, qual ragione lo spingeva a riconoscere il governo italiano? Non poteva egli seguire l'esempio delle altre Potenze che non intendevano di fare questa ricognizione? Certo non v'era alcuno che glielo impedisse. E notate, o signori, che la ricognizione del regno d'Italia fu l'atta dono che il Parlamento aveva solennemente col suo voto dichiarato che Roma era la capitale naturale del nuovo regno, che Roma apparteneva all'Italia (Bene! bene!); il che prova che l'atto di ricognizione conteneva implicitamente anche la ricognizione della capitalo d'Italia» (Applausi) (Atti Uff., N. 341, pag. 1320).

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Sono dunque sette Deputati che parlarono di Napoleone III, e quasi tutti con opinioni diverse sull'Imperatore dei Francesi. In un punto trovaronsi d'accordo, cioè nel dire che a Roma non si va per ora, e non si può andare.

Ed anzi i deputati Alfieri e Massari presero a sostenere la tesi, che Roma non era necessaria per l'unità d'Italia. Anzi lo smedagliato Alfieri sostenne che per fare l'Italia bisognava abbandonare Roma, giacchè «Roma non sorse mai per lare l'Italia; Roma talvolta sorse per rifare l'impero Romano; in Roma non vi ha una buona lezione, non un buon esempio di politica nazionale» (Atti Ufficiali, N. 337, pag. 1304).

IL FICO D'ADAMO E DETTINO RICASOLI

(Pubblicato il 12 dicembre 1861).

Si legge nel capo 3° del Genesi che a' nostri primi padri, dopo di avere mangiato del frutto proibito «si apersero gli occhi, ed avendo conosciuto che erano ignudi, cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture». Trovasi in Egitto una specie di fico chiamato fico d'Adamo, le foglie del quale sono grandissime, e pare che di queste si servissero i nostri progenitori. E Adamo, avendo udito la voce del Signore Iddio che camminava nel Paradiso, si nascose; e il Signore lo chiamò e dissegli: Adamo, dove sei tu? E Adamo rispose: Ho udito la tua voce nel Paradiso ed ho avuto ribrezzo, perché era ignudo, e mi sono nascosto.

Antonio Martini fa su questo punto il seguente commento: «L'esempio del. primo uom peccatore è imitato pur da' suoi figliuoli, i quali nessuna cosa temono tanto come la vista e la confessione della verità, da cui sono condannati; onde cercano per ogni parte scuse e pretesti per nascondere e diminuire i proprii peccati».

E questo si avverava testè in Dettino Ricasoli. Iddio volle pigliar vendetta della rivoluzione facendone vedere la nudità. Qstcndam nuditatem tuam, fu la gran sentenza della giustizia divina, la quale inoltre dispose, che i rivoluzionari stessi smascherassero la rivoluzione, la mettessero in luce ne'suoi principii, ne' suoi effetti, nelle sue conseguenze, spogliandola d'ogni ipocrisia, e mostrandola nel suo schifosissimo aspetto.

Quindi sorse il deputato Ferrari e disse: «Siamo sulle spine quanto alla finanza, nell'incertezza quanto alla diplomazia, nel provvisorio quanto all'amministrazione (1)». Sorse Pisanelli ed aggiunse: «Noi abbiamo bisogno d'ordine... La rivoluzione permanente aliena da noi le simpatie della parte conservatrice degli Italiani, che è pur gran parte di tutta Europa (2)». Sorse Brofferio ed esclamò:

(1) Atti Uff., N. 331, pag. 1302.

(2) Atti Uff., N. 340, pag. 1315.

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«No, l'Italia non è fatta, anzi non fu mai tanto disfatta come in questi giorni (1)».

E Brofferio mostrò che l'Italia è in mano dei ladri, che gli assassini dividono colla polizia l'infame bottino, che i tribunali vengono meno al loro dovere, che l'istruzione è un caos, e le leggi una Babilonia. E Ricciardi provava che nel regno delle Due Sicilie tutti sono scontenti. E Petrucelli, e Mellana, e Crispi, o tutti gli altri oratori uno dopo l'altro venivano manifestando lo stato orribile in cui versa l'Italia.

E il Deputato Levito ci dava un'idea della veracità ministeriale dicendo: «Le assicurazioni dell'onorevole presidente del Consiglio, e la leggiadria del discorrere del suo collega pei lavori pubblici non possono impedire che il giorno 5 novembre ultimo un'orda di briganti si portasse su Trivigno a massacravi cinque galantuomini, ed in quel giorno medesimo in cui il governatore di Basilicata faceva partire il generale Della Chiesa dal capoluogo della provincia con 450 bersaglieri, spacciando di averla finita coi briganti; che i briganti non fossero penetrati in Aliano, dove moriva per mano assassina il capitano dei bersaglieri, Palizzi; che non fossero entrati in Stigliano dove la bandiera borbonica restava a sventolare due giorni, a grande disdoro del paese e del governo; che non avessero saccheggiato Corigliano, Grassano, Accettura, Pietragalla, dove un pugno di eroi trincerati nel palazzo ducale tennero 17 ore di resistenza; che non fossero entrati in Bella, dove periva il sacerdote Bruno, fratello di un capitano di volontari.

«I discorsi degli onorevoli ministri non tolgono che i saccheggiatori non fossero entrati in Vaglio, ove a sei miglia da Potenza scannavano con altri liberali il sindaco, signor La Casma; che i satelliti di Borgès non invadessero Craco; dove morì il deputato del 1848, signor Costantino Rigirone; che non fossero penetrati in Salandra, dove il nobile mio amico e compagno di studii, sig. Celestino Spaziento, era legato ad una colonna e vivo abbruciato ecc. (2)».

Anche lo stesso ministero faceva delle confessioni. Ricasoli confessava che corriamo pericolo, se non facciam senno, di perdere l'ottenuto e procrastinare l'ottenibile, e che abbiamo dodicimila emigrati, de’ quali cinquemila soltanto nel 1861 ci costarono oltre due milioni (3). E il ministro della guerra confessò che il numero dei delitti ordinari andava crescendo in Sicilia, e che nelle Marche e nell'Umbria per le leve «si ebbero a deplorare fatti, e a contare renitenti non pochi, in ispecie nell'Umbria (4)».

Per queste e per cento altre confessioni simili fatte concordamente dalla Camera sull'anarchia, sui delitti, sulla confusione babelica che regna in Italia, il povero Bottino Bicasoli vi trovò nudo. L'Armonia gli avea strappato di dosso la sottanna del P. Tosti che s'avea acconciato sulla persona come cosa propria, e amici e nemici mostrarono nella Camera le pessime condizioni a cui la rivoluzione e il suo governo aveano ridotto l'Italia.

(1) Atti Uff., N. 340, pag. 1313.

(2) Atti Uff., N. 354, pag. 1368.

(3) Atti Uff., N. 354 pag. 1367.

(4) Atti Uff., loc. cit., pag. 1368.

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Laonde il povero Ricasoli ricorse al fico d'Adamo per coprire la sua nudità. Ed eccolo a strappare ad una ad una le foglie per vestirsene. Uditelo.

«lo dichiaro solennemente che nei miei rapporti diplomatici coll'estero, quello che ha recato grandissimo danno nello trattative d'interesse nazionale, quello che ha reso la mia parola meno efficace, è stato appunto (Con calore) questo continuo inventare e spandere notizie allarmanti sulle nostre condizioni interne (Vivissimi applausi dalla Camera e dalle tribune)». Prima foglia del fico d'Adamo!

«Io sostengo (Con forza) dirimpetto alla Camera, che le condizioni dell'Italia non sono in quello stato nel quale alcuni con voluttà, che in verità io non so comprendere, si compiacciono dipingerle». Seconda foglia del fico d'Adamo!

«L'Italia, per i pregi degli Italiani, per il loro senno, per la loro virtù, e per non so qual beneficio della Provvidenza, nelle condizioni in cui si trova, è forse il paese meglio ordinato d'Europa (tiravo! a destra e al centro — Movimenti a sinistra)». Terza foglia del fico d'Adamo!

«Io mi appello alla coscienza di tutti, se finalmente, dopo una rivoluzione cosi profonda, uscendo dai reggimi che avevano turbato le condizioni morali ed economiche delle popolazioni e disseccate completamente tu«te le fonti della pubblica felicità, un paese può essere in migliore stato di quello in cui si trova l'Italia». Quarta foglia del fico d'Adamo!

«Ripeto ancora, le condizioni politiche sono eccellenti; dappertutto le popolazioni confermano col loro contegno la loro adesione a quelle condizioni, in cui si sono posto volontariamente; dappertutto accettano il plebiscito». Quinta foglia del fico d'Adamo!

«Non vi sono altro che reati ordinari, lo non voglio contarne il numero, non ho statistiche. Forse, se io avessi una statistica criminale, chi sa se non potrei con due parole dimostrare da questo banco come le condizioni morali dell'Italia non siano per niente inferiori a quelle della Francia, dell'Inghilterra, delle nazioni più prospere, più civilizzate». Sesta foglia del fico d'Adamo!

«lo lo dico con la verità, e lo ripeterò ancora, io faccio appello al sentimento patriottico di tutti, io chiedo che sia finalmente dato bando a queste pitture esageratamente fosche, che si ha il vezzo di fare delle nostre condizioni (Bravo! Bene!)» Settima foglia del fico d'Adamo!

«Grande Iddio! Che cosa deve dire il mondo, quando questi quadri vengono da noi medesimi, si tratteggiano in questa stessa Camera dai rappresentanti del paese? Quale forza può avere il ministro degli a Ilari esteri dirimpetto alle Corti estere, allorchè gli si possono opporre i nostri stessi giornali, la voce, la parola degli stessi rappresentanti della nazione? (Sensazione)». Ottava foglia del fico d'adamo!

«Siamo onesti; non chiedo altro». (Vivissimi applausi dalla Camera e dalle tribune. Malumori a sinistra. Conversazioni animate nella sala. Dopo alcuni istanti si ripetono applausi dai Deputati e dalle gallerie).

«Brofferio. Domando facoltà di parlare (Rumori, movimenti diversi).

«Ricciardi (Con impeto). La parola onesti debb'esser ritirata!

«Zuppetta. Qui non vi sono disonesti! (Il rumore, continua).

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«Miglietti, ministro di grazia e giustizia. Mi permetta la Camera una parola sola

«Voci a destra e al centro. Parli! Parli!

«Brofferio. lo ho ho già domandato la parola

«Mellana, Io non ho ancora finito il mio discorso.

Chiaves. Il deputato Mellana saprà difendersi.

«Miglietti, ministro di grazia e giustizia. Mi rivolgo alla compiacenza della Camera, perché voglia ascoltare due sole parole (Voci in vario senso).

«Altre voci. Parli Brofferio! No! (Rumori).

i Presidente. La parola è al deputato Mellana.

«Voci. Parli Mellana!

«Altre voci a sinistra ed al centro. Parli Brofferio!

«Presidente. La parola o al deputato Mellana; quando egli non la ceda, non la posso dare ad altri.

«Mellana. Io intendo ancora di parlare; ma se trattasi solo di una spiegazione...

«Voci. Sì, sì! Si dia la spiegazione!

«Altre voci. No! No!

«Minervini (Con calore). Questa è mistificazione; od è, o non è (Rumori) (1)».

Capite, che belle scene avvengono quotidianamente nel primo Parlamento italiano? Ma le foglie di fico non servono al barone Ricasoli. Egli in sostanza ha raccomandato ai Deputati di tacere. Dunque sente internamente che le loro accuse sono vere, e confessa che i mali d'Italia sono reali. Ricasoli raccomanda il silenzio come già un antico suo collega, l'avv. Salvagnoli, diceva: colla verità non si governa. Ma che Parlamento è questo, che dal Presidente del Consiglio viene pregato di non parlare? Che governo è questo che teme la luce? Che ministero è questo che per coprirsi abbisogna delle foglie del fico di Adamo?

Signor Bellino, il fico d'Adamo non ha foglie così ampie da coprire la nudità vostra. Dite ciò che volete, e non coprirete mai la nudità dei ladri che rubano in Torino, in Bologna, in Napoli, dappertutto. Le vostre foglie non copriranno i malcontenti, i disinganni, le maledizioni che vi vengono addosso da tulle le parli della Penisola. Ci vuoi altro che foglie di fico per coprire il nostro tesoro in guisa che non se ne veggano le miserie! Scoronate pure tutte le ficaje del mondo, e ammucchiatele sulla vostra amministrazione, che ciò nondimeno si vedranno i vostri errori, le vostre corbellerie, le vostre presunzioni!

Il barone Ricasoli sul cominciarsi delle interpellanze diceva ai Senatori ed ai Deputati, che parlassero pure, dicessero tulio, domandassero schiarimenti quanti volevano, giacché egli era dispostissimo a soddisfarli. E poi? E poi finisce col raccomandare il silenzio, e supplicare gli onorevoli che lo cuoprano per carità colle foglie del fico d'Adamo! E questo è il primo ministro del regno d'Italia!

(1) Atti Uff., N° 354, pag. 1369.

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RICASOLI

PRECIPITATO DALLA ROCCA TARPEA

(Pubblicato il 4 marzo 1862)

Fatale è Roma, e bastò un Campidoglio di tela fabbricato con quattro travi in faccia al palazzo del ministero per trar giù Ricasoli e i suoi compagni, e imbrogliare sempre più l'imbrogliatissima questione romana. A Roma non si va, diceva D'Ondes Reggio alla Camera dei Deputati «e; se si va, a Roma non si resta. Là, come a nuova Babele, si confonderanno le lingue, e si disperderanno le genti» (Atti Uff., N. 359, pag. 1385). E la semplice immagine di Roma, l'ombra sola d'un finto Campidoglio confuse le lingue, precipitò i ministri, fe' ribassare i nostri bassissimi fondi, ci gettò nei dubbi, nelle ciancie, ne' timori, ne' pericoli d'una crisi ministeriale.

Sabbato passato, primo di marzo, quando il Campidoglio del carnevale era ultimato, Ricasoli in mezzo alle furie, presentava la sua dimissione e quella de’ suoi colleghi. Era un capitombolo misterioso; conciossiache la Camera pochi dì prima si fosse mostrata favorevole alla politica Ricasolina, massime per le sue dichiarazioni in favore dei Comitati di Provvedimento. Mai fati incalzavano il Ricasoli, e in mezzo alle risa degli uni, all'indegnazione degli altri, allo sprezzo di tutti saliva la Rocca Tarpea, e si precipitava negli abissi.

Povero Bettino! Il 25 di febbraio aveva detto alla Camera: «Io sono sereno, lo dico schiettamente... sono sereno»; e dichiarava nella sua serenità quello che avrebbe fatto per l'avvenire. Due giorni appresso si rannuvolava, e dopo tuoni, lampi e fulmini, Ricasoli dovea abbandonare il Ministero! Colui che avea detto il governo veglia, e parlava e straparlava del suo metodo di vigilanza per l'avvenire, non seppe vegliare sulla conservazione del suo portafoglio! Colui che con la solita boriosa pedanteria esclamava il 25 di febbraio: «ho dimostrato che non manca al governo né la previdenza, né la provvidenza secondo le circostanze» (Atti Uff., N. 497, pag 1920), il 1° di marzo mostrava che non seppe prevedere nè provvedere alla sua caduta!

Urbano Rattazzi venne incaricato di comporre un nuovo Gabinetto; e mentre domenica le maschere scorazzavano per la città, il sig. Rattizzi correva di porta in porta a cercare ministri. Andò a battere all'uscio di Farini, e questi rispose:

— Sono ammalato e voglio morire povero. — Battè all'uscio di Lanza, e disse:

— Per ora non posso accettare, ripasserete più tardi. — Sono innumerevoli le persone giù ricercate da Rattazzi. Interrogò Sella, parlò con Depretis, invitò Pepoli, pregò Galli della Mantica, supplicò Cialdini, ebbe un rifiuto da Conforti, ricorse a Mancini, sperò in Matteucci, scrisse a Magenta, si raccomandò a Minghetti, interpellò Lamarmora a Napoli, s'abboccò con La Farina, e che sappiamo noi ancora. Un cotale insolentemente rispose a Rattazzi: — Io mi ricordo che il vostro ministero già una volta precedette l'eccidio di Novara. — Un altro con maggiore insolenza tolse dagli scaffali della sua biblioteca il Rinnovamento di Vincenzo Gioberti, e ne lesse il volume la pag. 423:

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«Urbano Rattazzi giuocò il regno eia vita di Carlo Alberto, imperocchè, se questi perdette il trono a Novara e morì di dolore esule in Oporto, si può dire in verità che a lui ne ebbe l'obbligo principale». Un terzo, con insolenza massima, mise nelle mani a Rattazzi la sua biografia, che leggevasi nell'Espero del 13 di febbraio 1853.

Intanto oggi ci giunge da Parigi la Revue des Deux Mondes del 1° di marzo col solito articolo di E. Forcade. Il quale incensa Ricasoli credendolo ancora sul seggio, e lo dichiara consolidato. E secondo la ttevue la consolidazione di Ricasoli òdi un'alta importanza «per l'apertura e il buon avviamento dei grandi negoziati, a cui dee dar luogo la grande quistione italiana». E la Revue tira innanzi dando addosso a Rattazzi «che nella fase presente non può essere il rappresentante dell'idea italiana. Gli spiriti che si t'aggruppano intorno a lui sono gli uomini di quell'antica politica piemontese che va a tentone per via di astuzie e che chiamavasi lepidamente la politica del carcioffo, perché divisava di acquistare l'Italia a foglia a foglia».

Povero E. Forcade! Clic cosa dirà egli mai oggidì che il suo consolidato ha fatto il capitombolo, e che Rattazzi va cercando qua e colà le foglie per comporne il suo carcioffo ministeriale?

Si assicura che in tutt'oggi il ministero sarà composto. Rattazzi che sa quanto Ricasoli si rendesse ridicolo col non poter ritrovare un ministro dell'interno, vuole ad ogni costo uscir fuori coi suoi sette od otto ministri, dovesse pigliarli in piazza Carlina. Ma il nuovo ministero quanto durerà? Ricasoli caduto non potrà rendere la pariglia agli altri? L'Armonia diceva domenica che Ricasoli dopo le sue dichiarazioni in favore dei comitati di provvedimento era più forte che mai, e ciò è vero in questo senso che Ricasoli si chiama rivoluzione, e fa causa comune con Mazzini e con Garibaldi.

State pur certi che un dopo l'altro tutti i nemici del Papa debbono precipitare dalla rocca Tarpea. O per gare private, o per accecamento fatale, o per brutto interesse si divoreranno l'un l'altro. Aspettiamo gli avvenimenti. La morte ha tolto di mezzo Cavour; Rattazzi ed i suoi ci hanno liberati da Ricasoli; Ricasoli, od altri ci libererà da Rattazzi, e di mano in mano vedrete comparire sulla scena gli avversari di Pii» IX; verrà Garibaldi, verrà Nicotera, verrà forse lo stesso Mazzini, e passeranno; ma Roma papale non passerà, e sul vero Campidoglio non potrà salire che il frate di San Francesco.

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QUADRO

dei Personaggi che hanno coperto i diversi Ministeri

e dorata delle loro funzioni.

PRESIDENTI DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (*).

1 Conte Balbo, dal 16 marzo al 28 luglio 1848.

2 Conte Casati, dal 28 luglio al 19 agosto 1848.

3 Marchese Alfieri, dal 19 agosto all'11 ottobre 1 848.'

4 Perrone cav. Ettore dall'11 ottobre al 16 dicembre 1848.

5 Abate Gioberti, dal 16 dicembre 1848 al 19 febbraio 1849.

6 Chiodo barone Agostino, dal 19 febbraio al 27 marzo 1849.

7 Generale Delaunay, dal 27 marzo al 7 maggio 1849.

8 Massimo D'Azeglio, dal 7 maggio 1849 al 4 novembre 1852.

9 Conte Cavour, dal 4 novembre 1852 al 19 luglio 1859.

10 Generale Della Marmora, dal 19 luglio 1859 al 20 gennaio 1860.

11 Conte Cavour, dal 20 gennaio 1860 al 6 giugno 1861.

12 Barone Ricasoli, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862.

13 Commendatore RiUtazzi, dal 3 marzo all'8 dicembre 1862.

14 Cav. Farini, dall'8 dicembre 1862 ai 22 marzo 1863.

15 Commendatore Minghetti, dal 22 marzo 1863 al 24 settembre 1864.

16 Generale Della Marmora Alfonso, dalli 24 settembre 1864 alli...

MINISTRI DEGLI AFFARI ESTERI.

1 Solare Della Margherita, fino al 9 ottobre 1847.

2 Di San Marzano, dal 9 ottobre al 16 marzo 1848.

3 Pareto marchese, dal 16 marzo al 19 agosto 1848.

4 Perrone di San Martino, dal 19 agosto al 15 dicembre 1848.

5 Gioberti abate, dal 15 dicembre 1848 al 19 febbraio 1849.

6 Colli Marchese, dal 19 febbraio all'8 marzo 1849.

7 Deferrari avv. Domenico, dall'8 al 27 marzo 1849.

8 Delaunay generale, dal 27 marzo al 7 maggio 1849.

9 D'Azeglio Massimo, dal 7 maggio 1849 al 4 novembre 1852.

10 Dabormida generale, dal 4 novembre 1852 al 10 gennaio 1855.

11 Cavour conte Cantillo, dal 10 gennaio al 31 maggio 1855.

12 Cibrario conte, dat 31 maggio 1855 al 15 gennaio 1858.

13 Cavour conte Camillo, dal 15 gennaio 1858 ni 19 luglio 1859.

14 Dabormida generale, dal 19 luglio 1859 al 20 gennaio 1860.

15 Cavour conte Camillo, dal 20 gennaio 1860 al 6 giugno 1861.

16 Ricasoli barone Bettino, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862.

17 Rattazzi avv. Urbano, dal 3 al 31 marzo 1862.

18 Durando generale Giacomo, dal 31 marzo all'8 dicembre 1862.

(*) Non esisteva questa carica prima del 16 marzo 1848.

— 369 —

19 Pasolini conte, dall'8 dicembre 1862 al 24 marzo 1863.

20 Viseonti-Venosta cav., dal 24 marzo 1863 al 24 settembre 1864.

21 Della Marmera gen. Alfonso, dal 24 settembre 1864 al...

MINISTRI DELL'INTERNO

1 Desambrois di Nevache Luigi, fino al 9 ottobre 1847.

2 Sorelli conte Luigi, dal 9 ottobre 1847 al 16 marzo 1848.

3 Ricci marchese Vincenzo, dal 16 marzo al 28 luglio 1848.

4 Plezza Giacomo, dal 28 luglio al 19 agosto 1848.

5 Pinelli avv. Pier Dionigi, dal 19 agosto al 16 dicembre 1848.

6 Sineo avv. Biccardo, dal 16 dicembre 1848 al 16 febbraio 1849.

7 Rattazzi avv. Urbano, dal 16 febbraio al 27 marzo 1849.

8 Pinelli Pier Dionigi, dal 27 marzo al 20 ottobre 1849.

9 Galvagno avv. Filippo, dal 20 ottobre 1849 al 26 febbraio 1852.

10 Pernati di Momo, dal 26 febbraio al 4 novembre 1852.

11 Ponza di S. Martino, dal 4 novembre 1852 al 31 maggio 1855.

12 Rattazzi avv. Urbano, dal 31 maggio 1855 al 15 gennaio 1858.

13 Cavour conte reggente, dal 15 gennaio 1858 al 19 luglio 1859.

14 Rattazzi avv. Urbano, dal 19 luglio 1859 al 24 marzo 1800.

15 Farini cav. Luigi, dal 24 marzo al 31 ottobre 1860.

16 Minghetti cav. Marco, dal 31 ottobre 1860 al 1° settembre 1861.

17 Ricasoli barone Bettino, dal 1° sett. 1861 al 31 marzo 1862.

18 Rattazzi avv. Urbano, dal 31 marzo all'8 dicembre 1862.

19 Peruzzi comm., dall'8 dicembre 1862 al 24 settembre 1864.

20 Lanza commend. Giovanni, dal 27 settembre 1864 al...

MINISTRI DELLA GUERRA.

1 Villamarina marchese Vittorio, fino al 9 ottobre 1847.

2 Broglia conte Mario, dal 9 ottobre 1847 al 16 marzo 1848.

3 Franzini generale Antonio, dal 16 marzo al 27 luglio 1848.

4 Di Collegno generale Giacinto, dal 27 luglio al 21 agosto 1848.

5 Dabormida generale Giuseppe, dal 21 agosto al 27 ottobre 1848.

6 Della Marmora generale Alfonso, dal 27 ottobre al 16 dicembre 1848.

7 De Sonnaz gen. Ettore, dal 10 dicembre 1848 al 9 febbraio 1849.

8 Chiodo generale Agostino, dal 9 febbraio al 27 marzo 1849.

O Morozzo Della Rocca gen., dal 27 marzo al 7 settembre 1849.

10 Bava generale Eusebio, dal 7 settembre al 2 novembre 1849.

11 Della Marmora generale, dal 2 novembre 1849 al 1° aprile 1855.

12 Durando gen. Giacomo, dal 1° aprile 1855 al 16 giugno 1856.

13 Della Marmora generale, dal 16 giugno 1856 al 20 gennaio 1860.

14 Fanti gen. Manfredo, dal 20 gennaio 1860 al 5 settembre 1861.

15 Della Rovere generale, dal 5 settembre 1861 al 3 marzo 1862.

16 Pettiti generale Agostino, dal 3 marzo all'8 dicembre 1862.

17 Della Rovere generale, dall'8 dicembre 1862 al 24 settembre 1864.

18 Pettiti generale Agostino, dal 28 settembre 1864 a...

— 370 —

MINISTRI DI GRAZIA E GIUSTIZIA.

I Avet conte Giacinto, fino al 16 marzo 1848.

8 Sclopis conte Federico, dal 16 marzo al 27 luglio 1848.

3 Gioia Pietro, dal 27 luglio al 21 agosto 1848.

4 Merlo professore Felice, dal 21 agosto al 16 dicembre 1848.

5 Rattazzi avv. Urbano, dal 16 dicembre 1848 al 19 febbraio 1849.

6 Sineo avv. Riccardo, dal 9 febbraio al 27 marzo 1849.

7 Demargherita barone Luigi, dal 27 marzo al 18 dicembre 1849.

8 Siecardi conte Giuseppe, dal 18 dicembre 1840 al 7 luglio 1851.

9 Del'oresta Giovanni, dal 7 luglio 1851 al 26 febbraio 1852.

10 Galvaguo avv. Filippo, dal 26 febbraio al 21 maggio 1852.

11 Boncompagni cav. Carlo, dal 21 maggio 1852 al 27 ottobre 1853.

12 Rattazzi avv. Urbano, dal 27ottobre 1853 al 31 maggio 1855.

13 Deforesta Giovanni, dal 31 maggio 1855 al 19 luglio 1859.

14 Miglietti cav. Vincenzo, dal 19 luglio 1859 al 20 gennaio 1860.

15 Cassinis cav. G. B., dal 20 gennaio 1860 al 12 giugno 1861.

16 Miglietti cav. Vincenzo, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862.

17 Cordova comm. Filippo, dal 3 marzo al 7 aprile 1862.

18 Conforti avv. Raffaele, dal 7 aprile all'8 dicembre 1862.

19 Pisanelli cav. Giuseppe, dall'8 dicembre 1862 al 24 settembre 1864.

20 Vacca comm. Giuseppe, dal 1° ottobre 1864 a...

MINISTRI DELLE FINANZE.

1 Di Revel conte Ottavio, fino al 28 luglio 1848.

2 Ricci marcit. Vincenzo, dal 29 luglio al 15 agosto 1848.

3 Di Revel conte Ottavio, dal 15 agosto al 16 dicembre 1848.

4 Ricci march. Vincenzo, dal 16 dicembre 1848 al 27 marzo 1849.

5 Nigra conto Giovanni, dal 27 marzo 1849 al 10 aprile 1851.

6 Cavonr conte Camillo, dal 10 aprile 1851 al 22 maggio 1852.

7 Cibrario conte Luigi, dal 22 maggio al 4 novembre 1852.

8 Cavour conto Camillo, dal 4 novembre 1852 al 15 gennaio 1858.

9 Lanza comm. Giovanni, dal 15 gennaio 1858 al 19 luglio 1859.

10 Ovtana commendatore, dal 19 luglio 1859 al 21 gennaio 1860.

11 Vogezzi Zaverio, dal 21 gennaio 1860 al 3 aprile 1861.

12 Bastoni conte Pietro, da! 3 aprile 1861 al 3 marzo 1862.

13 Setla comm. Quintino, dal 3 marzo all'8 dicembre 1SG2.

14 Minghetti Marco, dall'8 dicembre 1862 al 24 settembre 1864.

15 Sella comm. Quintino, dal 28 settembre 1864 a...

— 371 —

MINISTRI DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA.

1 Alfieri marchese Cesare, dal 30 9mbre 1847 al 16 marzo 1848.

2 Boncompagni cav. Carlo, dal 16 marzo al 27 luglio 1848.

3 Rattizzi avv. Urbano, dal 27 luglio al 16 agosto 1848.

4 Merlo professore Felice, dal 16 al 29 agosto 1848.

5 Boncompagni cav. Carlo, dal 29 agosto al 16 dicembre 1848.

6 Cadorna cav. Carlo, dal 16 dicembre 1848 al 27 marzo 1849.

7 Mameli Cristoforo, dal 27 marzo 1849 al 10 novembre 1850.

8 Gioja Pietro, dal 10 novembre 1850 al 21 ottobre 1851.

9 Farini cav. Luigi, dal 21 ottobre 1851 al 4 novembre 1852.

10 Cibrario conte Luigi, dal 4 novembre 1852 al 31 maggio 1855.

11 Lanza Giovanni, dal 31 maggio 1855 al 18 ottobre 1858.

12 Cadorna avv. Carlo, dal 18 ottobre 1858 al 19 luglio 1859.

13 Casati conte Gabrio, dal 19 luglio 1859 al 20 gennaio 1860.

14 Mamiani conte Terenzio, dal 20 gennaio 1860 al 22 marzo 1861.

15 Desanctis prof. Frane., dal 22 marzo 1861 al 3 marzo 1862.

16 Mancini cav. Stanislao, dal 3 al 31 marzo 1862.

Il Matteucci prof. Carlo, dal 31 marzo all'8 dicembre 1862.

18 Amari prof. Michele, dall'8 dicembre 18G2 al 24 settembre 1864.

19 Natoli barone Giuseppe, dal 30 settembre 1864 a...

MINISTRI DELL'AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO.

1 Desambrois cav. Luigi, dal 7 dicembre 1847 al 29 luglio 1848.

2 Durini conte Giuseppe dal 29 luglio al 27 ottobre 1848.

3 Torelli Luigi, dal 27 ottobre al 16 dicembre 1848.

A Buffa avv. Domenico, dal 16 dicembre 1848 al 29 marzo 1849.

5 Santarosa cav. Pietro, dal 20 ottobre 1849 al 28 luglio 1850.

6 Cavour conte Camillo, dall'11 ottobre 1850 al 19 settembre 1852.

7 Corsi comm. Tommaso, dal 5 luglio 1860 al 22 marzo 1861.

8 Natoli barone Giuseppe, dal 22 marzo al 12 giugno 1861.

9 Galvagrio avv. cav. Filippo, reggente dal 28 luglio all'11 ottobre 1859.

10 Cordova comm. Filippo, dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862.

11 Pepoli marchese Gioachino, dal 3 marzo all'8 dicembre 1862.

12 Manna comm. Giovanni, dall'8 dicembre 1862 al 24 seti. 1864.

13 Torelli comm. Luigi, dal 29 settembre 1864 a...

MINISTRI DEI LAVORI PUBBLICI.

1 Desambrois cav. Luigi, dal 7 dicembre 1847 al 29 luglio 1848.

2 Paleocapa Pietro, dal 29 luglio al 19 agosto 1848.

3 Derossi di Santarosa cav. Pietro, dal 19 agosto al 16 dicembre 1848

4 Tecchio avv. Sebastiano, dal 16 dicembre 1848 al 27 marzo 1849.

5 Galvagno avv. Filippo, dal 27 marzo al 20 ottobre 1849.

6 Paleócapa suddetto, dal 20 ottobre 1849 al 29 novembre 1857.

7 Bona comm. Bartolomeo, dal 29 9mbre 1857 al 15 gennaio 1858.

— 372 —

8 Cadorna cav. Carlo, dal 15 gennaio 1858 al 19 luglio 1859.

9 Monticelii march. Pietro, dal 19 luglio 1859 al 21 gennaio 1860.

10 Jacini cav. Stefano, dal 21 gennaio 1860 al 14 febbraio 1861.

11 Perùzzi cav. Ubaldino, dal 14 febbraio 1861 al 3 marzo 1862.

12 Depretis avv. Agostino, dal 3 marzo all'8 dicembre 1862.

13 Menabrea conte Luigi, dall'8 die. 1862 al 24 sett. 1864.

14 Jacini comm. Stefano, dal 27 settembre 1864 a....

MINISTRI DELLA MARINA.

1 Cavour conte C., dal 18 marzo 1860 (*) fino al 6 giugno 1861.

2 Menabrea conte Luigi Fed., dal 12 giugno 1861 al 3 marzo 1862.

3 Pellione di Persano conte Carlo. dal 3 marzo all'8 dic. 1862.

4 Ricci marchese Gio., dalt'8 dicembre 1862 al 15 gennaio 1863.

5 Dinegro marchese Grazio, dal 15 gennaio al 22 aprile 1863.

6 Cugia gen. Eftìsio, dal 22 aprile 1863 al 24 settembre 1864.

7 Della Marmora gen. Reggente, dal 27 settembre al 1° dic. 1864.

8 Angioletti gen. Diego, dal 1° dicembre 1864 a...

PROCLAMI ED ORDINI DEL GIORNO.

1848 gennaio... 9. L'Imperatore d'Austria ai popoli del Regno Lombardo

Veneto.

1848 marzo... 21. Il Gran Duca di Toscana ai suoi popoli.

1848 marzo... 25. Re Carlo Alberto di Sardegna ai popoli della Lombardia.

1848 aprile... 8.. Re Ferdinando II di Napoli ai suoi popoli.

1849 marzo... 27. Re Vittorio Emanuele ai suoi popoli.

1849 aprile... 25. Il generale francese Oudinot ai Romani.

1849 luglio... 15. Il generale francese Oudinot ai Romani.

1849 novembre. 20. Re Vittorio Emanuele ai suoi popoli.

1855 aprile... 12. Re Vittorio Emanuele al Corpo di spedizione di Crimea.

1855 agosto... 17. Generale Alfonso della Marmora all'Esercito di Crimea.

1855 agosto... 17. Generale Simpson all'Esercito Inglese in Crimea.

1855 agosto... 17. Generale Pelissier all'Esercito Francese in Crimea.

1856 aprile... 6. Generale Alfonso della Marmora all'Esercito di Crimea.

1856 giugno... 15. Re Vittorio Emanuele all'Esercito reduce dalla Crimea.

1859 aprile... 27. Re Vittorio Emanuele all'Esercito Subalpino.

1859 aprile... 29. Re Vittorio Emanuele agli Italiani.

1859 maggio.. 3. L'imperatore Napoleone al popolo francese.

1859 maggio.. 12. L'Imperatore Napoleone al suo Esercito.

1859 giugno... 8. L'Imperatore Napoleone agli Italiani,

1859 giugno... 9. Re Vittorio Emanuele ai popoli della Lombardia.

1859 giugno 18 Generale Ulloa all'Esercito Tosoano

1859 loglio 12 L'Imperatore Napoleone all'Esercito Francese

1859 luglio 12 Re Vittorio Emanuele al suo Esercito

1859 luglio 13 Re Vittorio Emanuele ai popoli della Lombardia

(*) Data della creazione di questo Dicastero.

— 373 —

1859 agosto 11 Il generale Garibaldi ai suoi soldati

1860 marzo 31 Re Vittorio Emanuele alle popolazioni di Savoia e Nizza

1860 aprile 9 Il generale Lamoricière all'Esercito Pontificio

1860 giugno 26 Il Re Francesco II di Napoli ai suoi popoli

1860 luglio 2 Il Re Francesco II di Napoli a'suoi popoli,

1860 agosto 6 Il generale Garibaldi ai Napolitani

1860 agosto 12 Il generale Garibaldi ai Napolitani

1860 settembre 6L Il generale Lamoricière al Delegato di Macerata,

1860 settembre 7 Il generale Lamoricière al Comandante Pontificio di Ancona

1860 settembre 9 Il generale Fanti al generale Lamoricière

1860 settembre 11 Re Vittorio Emanueìe al suo Esercito

1860 settembre 18 Generale Goyon al Corpo Francese d'occupazione a Roma

1860 ottobre 4 Re Vittorio Emanuele al suo Esercito

1860 ottobre 9 Re Vittorio Emanuele ai popoli dell'Italia meridionale

1860 novembre 7 Re Vittorio Emanuele ai Napolitani

1860 novembre 17 Re Vittorio Emanuele ai volontari dell'Esercito

1861 gennaio 15 Re Francesco II di Napoli ai suoi popoli

1862 agosto 3 Re Vittorio Emanuele ai popoli d'Italia

1862 agosto 24 Generale Garibaldi agli Italiani

1863 settembre 22 Generale Montebello al Corpo d'occupazione francese a Roma*

BATTAGLIE E FATTI D'ARMI.

Goito

8 aprile

1848

Pastrengo

30 aprile

1848

S Lucia

6 maggio

1848

Cuctatene

25 maggio

1848

Coito

29 maggio

1848

Peschiera

30 maggio

1848

Rivoli

10 giugno

1848

Vicenza

10 giugno

1848

Governolo

18 luglio

1848

Custoza i

25 luglio

1848

Novara

23 marzo

1849

Casale

25 marzo

1849

Traktir (Cernaja)

16 agosto

1855

Sebastopoli (')

8 settembre

1855

(*) Risulta da rapporti ufficiali che la brigata Cialdini stava pronta a concorrere all'assalto col Corpo francese del generale De Salles, ed ebbe parecchi uomini posti fuori di combattimento nelle trincee durante il bombardamento.

—374—

Montebello

20 maggio

1859

Palestra

30 maggio

1859

Magenta

4 giugno

1859

Melegnano

8 giugno

1859

Solferino (S. Martino)

34 giugno

1859

Marsala

10 maggio

1860

Calatafimi

15 maggio

1860

Palermo

37 maggio

1860

Milazzo

30 luglio

1860

Messina

28 luglio

1860

Reggio di Calabria

9 agosto

1860

Perugia

14 settembre

1860

Caslelfidardo

18 settembre

1860

Ancona

29 settembre

1860

Volturno

1 ottobre

1860

Tsernia

17 ottobre

1860

Teano e Sessa

26 ottobre

1860

Capua

2 novembre

1860

Garigliano

3 novembre

1860

Gaeta

13 febbraio

1861

Messina

13 marzo

1861

Civilella del Tronto

20 marzo

1861

 

—375—

QUADRO

DEGLI STATI CHE HANNO RICONOSCIUTO IL REGNO D ITALIA

STATI


DATA del riconoscimento

DOCUMENTI relativi

INGHILTERRA

30 marzo 1861

Nota di lord Russell al mare d'Azeglio — Gazzetta Ufficiate, n. 92

SVIZZERA

2 aprile 1861

Nota dell'Inviato svizzero. —Id. 12 aprile, n. 90.

GRECIA

11 aprile 1861

Nota del min. Coundouriottis.—Id. 29 aprile, n. 105.

MAROCCO

15 aprile 1861

Nota del viceré Muley Abbas. — Id. 3 maggio, n. 109.

PRINCIPATI DANUB (Moldavia e Valachia)

8 aprile 1861

Note dei min. Philippesco Rolla. — Id. 21 maggio, n. 124.

STATI UNITI D'AMERICA

13 aprile 1861

Nota di Seward. — Id. 28 maggio, n. 130.

SVEZIA

4 luglio 1861

(Missione Torrearsa).—Id. n. 246.

DANIMARCA

2 settemb. 1861

(Idem).— Id. n. 223.

FRANCIA

15 giugno 1861

Dispaccio di Thouvenel, 15 giugno. —Id. n. 153.

VENEZUELA

1 maggio 1861

Nota del min. Nadal. — Id. 22 giugno, n. 151.

HAITI

24 maggio 1861

Nota del ministro Plésance —Id. 28 giugno, p. 156.

HURUGUAY

22 maggio 1861

Nota del min. Acevedo,—Id. 15 giugno, n. 171.

PORTOGALLO

27 giugno 1861

Nota del min. d'Avila. ——Id. 19 luglio, n. 175.

LlBERIA

5 giugno 1861

Nota del Pres. della Repub. Benson. — Id. n. 176.

TURCHIA

6 luglio 1861

Nota di Aali Pascià.— Id. 27 luglio n. 182.

EGITTO

29 settemb. 1861

Lettera del Vice-Re a S. M.

TUNISI

8 15 aprile 1861

Scambio di note col Ministro degli Esteri del Bey.

GOSTARICA

6 giugno 1861

Nota del min. Yglesias.— —Id. 5 agosto, n. 190.

PAESI BASSI

31 luglio 1861

Nota di Zuylen de Nywelt al b. Heldevier.

PARAGUAY

5 luglio 1861

Nota del min. Sanchez.—ld. 24 agosto, n. 207.


(*) Le potenze vengono qui indicate nell'ordine di data della pubblicazione degli atti relativi al riconoscimento.

—376—


STATI


DATA del riconoscimento

DOCUMENTI relativi

PARAGUAY

5 luglio 1861

Nota del min. Sanchez.—ld. 24 agosto, n. 207.

BRASILE

8 novembre 1861

Nota del min. Magalhaes Taques.— Id. 1° gennaio 1862.

MESSICO Rep

20 luglio 1861

Nota di Zamacorra. — Gazz. Uff. 14 ottobre 1861 n. 250.

BELGIO

6 novembre 1861

Nota del min. Rogier. — Id. 25 novembre, n. 286.

NUOVA GBANATA

5 settemb. 1861

Nota del min. Rozas Garrid. — Id. n. 286.

REP. ARGENTINA

25 settemb. 1861

Nota del min. Molinas. Id. 27 novembre, n. 288.

PERÙ

7 aprile 1862

Messaggio del Presidente Ramon Castiglia a S. M.

REPUB. DI S. MARINO

22 marzo 1862

Convenzione di buon vicinato, commercio, ecc.

RUSSIA

12 luglio 1862

Comun. del min. Durando alle CaM.— Gazz. Uff. 12 luglio. 1862, n. 164.

PRUSSIA

21 luglio 1862

Idem. — Id. 28 luglio 1862.

ISOLE DI SANDWICH

23 ottobre 1862

Lettera del Console, 23 ottobre 1862.

PERSIA

24 settemb. 1862

Trattato di commercio tra la Persia e l’Italia

SERBIA

8 ottobre 1862

Lettera del principe Obrenovitsch a S. M.

REP. S. SALVADORE

7 aprile 1863

Lettera del Presidente G. Barrios.

BADEN

29 aprile 1863

Gazzetta Ufficiale 19 maggio 1863.

ISOLE AVAIANE (Oceania)

22 luglio 1863

Trattato di Commercio col Regno d'Italia.

REP. DI BOLIVIA

12 agosto 1863

Gazz. Uff. 2novembre 1863 n. 259.

CITTA ANSEATICHE

18 ottobre 1863

Exequatur al Console incaricato d'affari.

REP. DEL CHILI

20 gennaio 1864

Lettera del Presid. Peres — Gazz. Uff, 25 aprile 1864, n. 99.

IMPERO MESSICANO

28 agosto 1864

Lettera dell'Imperatore Massimiliano al Re. — Id. del 29 agosto



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INDICE DELLE MATERIE

Accademia francese. L'Accademia francese e la causa di Pio IX, p. 260.

Almira. n Vescovo Monsignor Carli condannato e la libertà della Chiesa, p. 157.

Appendice sulle Diocesi napoletane, p. 200.

Approvazione del prestito di 750 milioni, p. 56.

Avellino. Il Vescovo di Avellino in Torino, p. 203. Sua protesta, p. 205.

Bastogi. Biografia dell'ex-Ministro Pietro Bastogi, p. 237. Pietro Bastogi sul Campidoglio, p. 238.

Battaglie e fatti d'armi, p. 373.

Bestemmie del primo Parlamento italiano, p. 224.

Bonaparte (I) e i Framassoni, p. 291.

Camera dei Deputati. Deliberazioni delta Camera dei Deputati dal 25 febbraio 1861 all'11 maggio 1863, p. 12. Il nuovo regno d'Italia nella Camera dei Deputati, p. 22.

Capitolato (II) proposto da Ricasoli al Papa, p. 336.

Cavour. Morte ed epistolario del conte di Cavour, p. 65. La morte del conte Cavour raccontata da sua nipote, p. 65. Dichiarazioni del padre Giacomo, p. 72. Cinque lettere del conte di Cavour, p. 73. Il conte Cavour in veste da camera, p. 75. Il conte Cavour smentito da Lord Clarendon otto mesi dopo la sua morte, p. 81. Lettera del conte Cavour contro lo stato d'assedio, p. 84. Una lettera del conte Cavour contro le annessioni, p. 85. La verità sulla morte del conte di Cavour, p. 86. Il confessore del conte di Cavour, p. 87.

Chiesa. La libertà della Chiesa e la condanna del Vescovo d'Almira, p. 157.

Clero. Progetto di legge del Guardasigilli Conforti contro il Clero, p. 156.

Commercio. Curioso commercio dei membri del Parlamento italiano, p. 246.

Condanna del vescovo d'Almira, Monsignor Carti, e la libertà della Chiesa, p. 157.

Conforti. Progetto di legge del Ministro Guardasigilli Raffaele Conforti contro il Clero, p. 156.

Conventi. I conventi convertiti in caserme, p. 218.

Corona. Il discorso della Corona e la Venezia, p. 9.

Corporazioni religiose. Progetto del Guardasigilli Pisanelli per la soppressione delle medesime, p. 165. Altro progetto del Guardasigilli Vacca, p. 173. Terzo progetto del Deputato Corsi, p. 180.

Culti. I l Ministro dei Culti in Italia, p. 104.

Curletti e i misteri di Torino, p. 95.

— 378 —

Danaro. Il danaro d'Italia, p. 48.

Decreti di apertura, di proroga, di ripresa e di chiusura della Camera dal 18 febbraio 1861 al 21 maggio 1863, p. 64.

Denaro di S. Pietro. Il Deputato Catucci presenta alla Camera un progetto di legge contro il denaro di S. Pietro e l'influenza clericale, p. 163..

Discorso d'inaugurazione del primo Parlamento italiano, p. 7. H discorso della Corona e la Venezia, p. 9.

Disegno di legge proposto da Don Passaglia sul giuramento del Clero, p. 161.

Documenti diplomatici. Napoleone III e il Regno d'Italia, p. 53. Documenti sulla tentata spogliazione del Papa sotto il Ministero Ricasoli, p. 317.

Dodici. I dodici preti della Camera dei Deputati, p. 217.

Elenco dette Loggie massoniche, p. 236.

Esilio. L'esilio dei vescovi napoletani, p. 206.

Fico (il) d'Adamo e Dettino Ricasoli, p. 362.

Finanze. Le finanze e le imposte del Regno d'Italia, p. 32.

Framassoni (i) e i Bonaparte, p. 291.

Gazzotetti, Deputato, e la questione del Trentino, p. 248.

Gli elettori della Venezia e Il Barone Ricasoli, p. 3Ì6.

Granduca di Toscana. Sua protesta contro il Regno d'Italia, p. 25.

Gregorio XVI e l'impudenza del signor Bottino Ricasoli, p. 326.

Grida di dolore dei prigionieri napolitani, p. 232.

Guardasigilli. Le rivincite del Guardasigilli e le persecuzioni della Chiesa, p. 210.

Italia. I primi vagiti del regno d'Italia, p. 3. Il regno d'Italia net Senato piemontese, p. 17. Deliberazioni del Senato pel regno d'Italia, p. 20. Il nuovo regno d'Italia netta Camera dei Deputati, p. 22. Legge che stabilisce Il regno d'Italia, p. 25. L'unità d'Italia e la divisione di Roma, p. 2ìJ. Le finanze e le imposte del regno d'Italia, p. 32. Il primo gran libro della grande storia del grande regno d'Italia, p. 33. La Festa del regno d'Italia, p. 37. La Festa nazionale, p. 37. Il regno d'Italia e la Francia, p. ti. Il regno d'Italia può essere riconosciuto da Napoleone III? p. 45. Il danaro d'Italia, p. 48. La pappa al neonato regno d'Italia, p. 3t. Il regno d'Italia e Napoleone III, p. 53. Il regno d'Italia atla conquista della Corsica e di Matta, p. 58. I lavori del primo Parlamento Italiano, p. 62. I rappresentanti italiani rappresentano l'Italia? p. 91. Il regno d'Italia dipinto dagli Italianissimi, p. 93. Le questioni del neonato regno d'Italia, p. 10I. I parricidi delt'Italia, p. 106. Strenna degli Italianissimi al regno d'Italia, p. 11O.

— 379 —

Legge Che stabilisce il regno d'Italia, p. 25.

Legge. Cinque disegni di legge che servono a commentare la formola; Libera Chiesa in Libero Stato, p. 164.

Lettera del Cardinale Antonelli al conte Cavour, p. Sii.

Lettera (la) di Ricasoli a Pio IX, p. 332.

Leve eseguite nel regno d'Italia colta norma della legge organica sul reclutamento del 20 marzo 1851 dalle annessioni delle varie provincie al 30 settembre 1863, p. 252.

Libera Chiesa, in Libero Stato. Storia di questa formola, p. 129. Due lettere del conte di Montalembert al conte di Cavour sul detto argomento, p. 139-142.

Libertà. La libertà detta Chiesa p la condanna del Vescovo di Almira, p. 157.

Macchi. Spropositi del Deputato Macchi e la soppressione della Teologia, p. 227.

Mangiapopoli (i) nel mangiamento nazionale, p. 241.

Martirologio dell'Episcopato Italiano, p. 193. Appendice al martirologio dell'Episcopato italiano, p. 251.

Massoneria. La massoneria Italiana ovvero la chiave della storia, p. 116.

Membri (i) del Parlamento e toro curioso commercio, p. 246.

Ministero. L'ipocrisia del Ministero e l'esilio dei Vescovi napoletani, p. 206.

Misteri. I Misteri di Torino e Curletti, p. 95.

Modena. Protesta del Duca di Modena Francesco contro il regno d'Italia, p. 26.

Montalembert. Prima lettera del conto di Montalembert al conte Cavour, p. 139. Seconda lettera, p. 142.

Napoleone III riconosce Il regno d'Italia? p. 45. Napoleone III e Il regno d'Italia — Documenti diplomatici, p. 53. Napoleone III e Pio IX, p. 253. Che cosa ha fatto Napoleone m per salvare Pio EX? p. 288. Promesse ufficiali di Napoleone III a Pio IX, p. 301.

Opinioni (le) dei Deputati sulle opinioni di Napoleone III, p. 358.

Alfieri, p. 359. — Massari, Mugolino, p. 360. — Brofferio, Ricciardi,

Rattazzi, p. 361.

Osanna. Gli osanna dei papicidi al Santo Padre Pio EX, p. 270.

Papa. Il Papa e l'Episcopato francese, p. 256.

Pappa, La pappa al neonato regno d'Italia, p. 51.

Parlamento. L'inaugurazione, descritta dalla Gazzetta Ufficiale, p. 10. I lavori del primo Parlamento italiano, p. 62. Regi Decreti di apertura, di proroga, di ripresa a di chiusura della Camera dal 18 febbraio 1861 al 21 maggio 1863, p. 64. Bestemmia del primo Parlamento italiano, p. 221.

— 380 —

Parma. Protesta della Duchessa contro il regno d'Italia, p. 28.

Parricidi. I parricidi dell'Italia, p. 106.

Passaglia e il suo disegno di legge sul giuramento del Clero, p. 161,

Pio IX e la strage degli innocenti, p. 213. Un breve di Pio IX al cay. Stefano Margotti, p. 128. Pio IX e Napoleone III, p. 253. Il papa Pio IX e l'Episcopato francese, p. 256. La causa di Pio IX trionfante nell'Accademia francese, p. 260. Una vittoria di Pio IX sulla diplomazia di Napoleone III, p. 262. Se le riforme avrebbero salvato Pio IX? p. 265. Pio IX fu ingrato verso Napoleone III, p. 268. Oli osanna dei papicidi al Santo Padre Pio IX, p. 270. Chi mutò? Pio IX o i libertini? Risposta al senatore Vacca, p. 274. I nemici di Pio IX sgabello a' suoi piedi nell'anniversario della sua elezione, p. 277. Le lodi di Pio IX cantate da Angelo Brofferio con accompagnamento di Norberto Rosa, p. 281. Pio IX difeso da Bettino Ricasoli contro il Ministro francese Thouvenel, p. 285. Che cosa ha fatto Napoleone III per salvare Pio IX? p. 288. Le glorie di Pio IX all'esposizione di Londra, p. 298. Un sovrano che benedice, p. 306. L'antagonismo tra Pio IX e l'Italia, p. 309. Pio IX e il Clero francese, p. 310. La petizione dei Passagliani a Papa Pio EX, p. 311. Carattere di Pio IX descritto da S. E. Farini, p. 315.

Pisanelli. Progetto di legge per la soppressione delle Corporazioni religiose, p. 165.

Prestito. Approvazione del prestito di 750 milioni, p. 58.

Preti. I dodici preti della Camera dei Deputati, p. 217. Chi sono i preti liberali, p. 221.

Proclami ed ordini del giorno, p. 372.

Progetto di legge contro il denaro di S. Pietro e l'influenza clericale, p. 163.

Protesta del Cardinale Vescovo di Jesi per sacrileghi insulti a Pio IX, p. 356.

Quadro dei personaggi che hanno coperto i diversi Ministeri, e durata delle loro funzioni, p. 368.

Quadro degli Stati che hanno riconosciuto il regno d'Italia, 375.

Questioni. Le questioni del neonato regno d'Italia, p. 101. Questione italico-portoghese, p. 102. Questione italico-spagnuola, p. 103. Questione italico-francese, p. 104. La questione romana sotto il Ministero di Bettino Ricasoli, p. 317.

Ragazzi di otto anni al governo della pubblica istruzione, p. 243.

— 380 —

Regno d'Italia. I primi vagiti, p. 3. Il regno d'Italia nel Senato piemontese, p. 17. Deliberazioni del Senato sul regno d'Italia, p. 20. Il nuovo regno d'Italia nella Camera dei Deputati, p. 22. Legge che stabilisce il regno d'Italia, p. 25. Le finanze e le imposte del regno d'Italia, p. 32. Il primo gran libro della grande storia del grande regno d'Italia. Grande edizione del grandissimo Bastogi, p. 33. La Festa nazionale, p. 37. Il regno d'Italia e la Francia, p. 41. Il regno d'Italia può essere riconosciuto da Napoleone III? p. 45. La pappa al neonato regno d'Italia, p. 51. Il regno d'Italia e Napoleone III, p. 53. Il regno d'Italia alla conquista della Corsica e di Malta, p. 58. I rappresentanti italiani rappresentano l'Italia? p. 91. Il regno d'Italia dipinto dagli italianissimi, p. 93. Le questioni del neonato regno d'Italia, p. 101. Il Ministro dei Culti, p. 104. L'immagine della libertà nel regno d'Italia, p. 230. Ricasoli (il barone) mercante di libertà, p. 340.

Id. (lettera di) al Cardinale Antonelli, p. 343.

Id. reo di furto letterario a danno di un frate, p. 347.

Id. precipitato dalla Rocca Tarpea, p. 366.

Rivelazioni del Ministro Cordova sulla Sicilia, p. 245.

Rivincite. Le rivincite del Guardasigilli e la persecuzione della Chiesa, p. 210.

Roma. La divisione di Roma e l'unità d'Italia, p. 29.

Roma e il Deputato Ferrari, p. 356.

Roma massonica e Roma cattolica, p. 125.

Roma e Ricasoli davanti i Deputati e i Senatori, p. 328.

Santa Sede. Protesta della Santa Sede contro il regno d'Italia, p. 28.

Soppressione. La soppressione della Teologia e gli spropositi del Deputato Macchi, p. 227.

Statuto della Massoneria italiana, p. 116.

Stella (la) d'Italia ed i tre arcivescovi delle Marche e dell'Umbria, p. 249.

Strenna degli italianissimi al bimbo regno. d'Italia, p. 110.

Storia della formola: Libera Chiesa in Libero Stato, p. 129.

Unità. L'unità d'Italia e la divisione di Roma, p. 29.

Vacca. Progetto contro gli ordini religiosi, p. 173.

Vagiti. I primi vagiti del regno d'Italia, p. 3.

Venezia. La Venezia e il discorso della Corona, p. 9.

Vituperii e calunnie contro il nostro Santo Padre Pio IX, p. 352.












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